DA ROMA A BRINDISI.
IL VIAGGIO DI ORAZIO (Satire, I, V) *
Uscito dalla grande Roma,
m’accolse ad Aricia una modesta locanda;
m’era compagno il retore Eliodoro,
senza confronti il piú dotto dei greci:
di lí a Foro d’Appio,
brulicante di barcaioli
e di osti malandrini.
Noi, sfaticati,
dividemmo in due questa tappa,
che per gente piú svelta è una sola;
ma l’Appia è meno faticosa
a chi la prende comoda.
Qui, per via dell’acqua, ch’era pestifera,
mi metto a dieta e attendo di cattivo umore
i compagni che cenano.
Già si preparava la notte
a stendere le ombre sulla terra
e a spargere di stelle il cielo,
quand’ecco i servi lanciare improperi ai barcaioli
e i barcaioli ai servi:
’Attracca qui!’; ’Macché!
vuoi imbarcarne trecento?’; ’Basta, basta!’.
Fra riscuotere il nolo e legare la mula,
se ne va un’ora buona.
Zanzare malefiche e ranocchi palustri
ci tormentano il sonno;
un barcaiolo, fradicio di vino,
canta l’amica lontana e con lui
a gara un passeggero,
finché sfinito questo si mette a dormire
e il barcaiolo insonnolito,
mandata a pascolare la sua mula,
lega le redini a una roccia,
poi supino prende a russare.
Era ormai quasi giorno, quando ci accorgiamo
che la barca non si muoveva:
allora salta su una testa calda
che con una verga di salice
spiana capo e lombi a mula e barcaiolo:
solo verso le dieci
finalmente sbarchiamo.
Con l’acqua di Feronia ci laviamo mani e faccia.
Dopo colazione, ci arrampichiamo per tre miglia
fin sotto alle pendici di Anxur,
arroccata su rupi che biancheggiano lontano.
Lí, con Cocceio,
doveva raggiungerci il mio buon Mecenate,
ambasciatori entrambi di affari importanti
e abituati ormai
a rabbonire gli amici in discordia.
Stavo, per la congiuntivite,
ungendomi gli occhi con il collirio nero,
quando giungono Mecenate,
Cocceio e insieme a loro
Fonteio Capitone,
uomo di grande cortesia
e amico di Antonio quant’altri mai.
Con sollievo lasciamo Fondi,
dov’è pretore Aufidio Lusco,
ridendo delle insegne
di quello scribacchino matto:
pretesta, laticlavio
ed il braciere acceso.
Affaticati pernottiamo a Formia,
la città di Mamurra:
Murena ci offre l’alloggio,
Capitone la cena.
L’alba seguente
sorge lietissima come non mai:
a Sinuessa ci vengono incontro
Plozio, Vario e Virgilio,
anime che piú candide
non nacquero su questa terra
e a cui nessun altro è piú legato di me.
Che abbracci furono i nostri e che gioia!
Finché avrò senno,
niente paragonerò a un amico diletto.
Una casetta vicina al ponte Campano
ci offrí ricovero e i provveditori,
com’è loro dovere, legna e sale.
Da qui i muli depongono in orario
i loro basti a Capua.
Mecenate va a giocare, io e Virgilio a dormire:
il gioco della palla
non è certo indicato
per chi soffre d’occhi o di stomaco.
Piú avanti ci accoglie, provvista di ogni cosa,
la villa di Cocceio,
subito sopra le osterie di Caudio.
Ora vorrei, Musa, che tu mi ricordassi
brevemente la rissa di Messio Cicirro
con quel buffone di Sarmento,
da quale padre siano nati e
come vennero a lite.
La gloriosa stirpe di Messio sono gli osci
e di Sarmento vive ancora la padrona:
discesi da tali antenati, vennero a contesa.
’Io dico’, comincia Sarmento,
’che tu assomigli a un cavallo selvaggio.’
Ridiamo, e Messio a sua volta: ’L’ammetto’,
e scuote la testa. ’Cosa faresti’, dice l’altro,
’se non t’avessero reciso dalla fronte il corno,
visto che pur mutilato minacci?’
E per la verità una brutta cicatrice
gli deturpava in mezzo ai peli della fronte
la parte sinistra del viso.
Dopo avere a lungo scherzato
sul morbo campano e sulla sua faccia,
gli chiede di mimare
la danza pastorale del Ciclope:
non gli sarebbero serviti
maschera o coturni da attore tragico.
Gli insulti di Cicirro non si contano:
gli chiedeva se avesse già donato
in voto ai Lari la catena;
gli ricordava che, pur essendo scrivano,
su lui non era per nulla scemato
il diritto della padrona;
voleva sapere infine perché fosse fuggito,
dal momento che, gracile e mingherlino qual era,
gli doveva bastare una libbra di farro.
Cosí in piena allegria
portammo a termine la cena.
Di qui filiamo dritti a Benevento,
dove l’oste zelante per poco non si bruciò
girando sul fuoco i suoi magri tordi:
divampato l’incendio,
la fiamma guizzando per la vecchia cucina
minacciava di lambire il soffitto.
Avresti dovuto vedere
i clienti affamati e i servi impauriti
che cercavano di mettere in salvo i tordi
e tutti insieme di spegnere il fuoco.
A quel punto cominciano a mostrarsi
i monti a me ben noti dell’Apulia,
che sono bruciati dallo scirocco
e che mai noi avremmo valicati,
se non ci avesse ospitato un casale
vicino a Trevíco e tutto pieno di fumo
da farci lacrimare, perché il focolare
bruciava ramaglie umide e foglie.
Lí sono tanto sciocco da aspettare
sino a mezzanotte una ragazza bugiarda;
poi il sonno mi coglie assorto nelle voglie d’amore
e le visioni lascive di un sogno
mi fanno bagnare supino
la tunica da notte e il ventre.
E via di corsa in carrozza per ventiquattro miglia,
intendendo far tappa in una cittadina,
che non si può nominare nel verso,
ma che per certi aspetti
è facilissimo indicare:
qui l’acqua, la piú vile delle cose,
si compera; in compenso il pane
è senza confronti il migliore,
tanto che i viaggiatori accorti
hanno l’abitudine di farne provvista,
perché a Canosa,
località fondata un tempo dal forte Diomede,
oltre a mancar l’acqua, il pane è di pietra.
Qui Vario sconsolato
prende congedo dagli amici in lacrime.
Giungemmo quindi a Ruvo,
stanchi morti per esserci sorbiti
un tratto interminabile di strada,
reso in piú difficile dalla pioggia.
Il giorno appresso il tempo migliora, ma non la strada,
almeno sino alle mura della pescosa Bari.
Poi Egnazia, eretta contro il volere delle ninfe,
ci offrí motivo di risa e di scherni,
perché volevano qui farci credere
che l’incenso sulla soglia del tempio
si consumava senza fiamma.
Può pensarlo il giudeo Apella,
io no: gli dei, cosí ho sentito dire,
passano il loro tempo indifferenti
e, se qualche prodigio si verifica in natura,
non è certo l’ira divina
a precipitarcelo dall’alto dei cieli.
Brindisi pone fine al lungo viaggio
e fine alla mia satira.
*QUINTO ORAZIO FLACCO
SATIRE
TRADUZIONE DI MARIO RAMOUS
DA RICORDARE!:
ORAZIO E IL MOTTO DELL’ILLUMINISMO KANTIANO:
DA SAPERE:
DA BRINDISI-DURAZZO A COSTANTINOPOLI-BISANZIO- ISTANBUL:
La via Egnazia: ponti e muri tra Oriente e Occidente
(di Fabrizio Polacco).
FLS
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
SHAKESPEARE CON QUINTO ORAZIO FLACCO: "AMLETO", CON "ORAZIO": UN OMAGGIO AD HAROLD BLOOM.
L’OTTIMALE "VIA DI MEZZO" (AUREA MEDIOCRITAS) SUL PIANO PERSONALE E SUL PIANO POLITICO:
"REMENBER ME" (AMLETO, 1.5.91): LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DI SHAKESPEARE. Se Ulisse è lo specchio di Amleto, c’è da dire che Shakespeare solo con "Orazio" (come Dante, con Virgilio) riesce a ben guidare la sua nave oltre Scilla e Cariddi e oltre le colonne d’Ercole, come più e meglio di Francesco Bacone...
TEATRO FILOSOFIA E MEMORIA. Ricordando il ruolo straordinario del poeta e drammaturgo Ben Johnson ( 1572-1637), amico dello stesso Shakespeare e, come lui, grande protagonista della scena culturale della Londra del loro tempo (nel 1601 tradusse l’ «Arte poetica» di Orazio e scrisse la commedia "The Poetaster", dove si racconta appunto di Orazio e due poetastri che lo invidiano), si possono ben comprendere le ragioni che portano Harod Bloom a mettere in evidenza il ruolo eccezionale di "Orazio" nello stesso "Amleto":
"Nel 1809 August Wilhelm von Schlegel osservò che «Amleto non ha una profonda fiducia in sé stesso né in nessun altro», compresi Dio e il linguaggio, aggiungerei io. Naturalmente, vi è Orazio, che Amleto elogia fino all’eccesso, ma Orazio sembra esser lì per rappresentare ’amore del pubblico verso il principe. Orazio è il nostro #ponte verso l’oltre, verso quella curiosa ma inconfondibile trascendenza negativa che conclude la #tragedia" (Harold Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo" ["Shakespeare: The invention of the human", 1998], Rizzoli, Milano 2001).
***
P. S. - SHAKESPEARE E PARMENIDE. SUL FILO DI QUESTA SAGGIA INDICAZIONE DI HAROLD BLOOM, forse, è meglio riprendere la domanda sull’ «essere, o non essere». La questione della trascendenza è un epocale problema metafisico e, come tale, comporta una revisione radicale dell’antropologia filosofica tradizionale (Amleto->Kant) e sollecita a ritornare ad Elea con Orazio (Epist. I, 15):
"Com’è l’inverno a Velia
e il clima di Salerno,
questo mi devi dire, Vala,
com’è la gente che vi abita,
in che condizioni è la strada."
LA "DIVINA COMMEDIA", LA "NASCITA DELLA TRAGEDIA", E LA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DELL’EUROPA.
Il "Sogno" di Shakespeare sembra essere quello di portare "Amleto" ... al di là della "Tempesta", di pensare un orizzonte culturale europeo che porti Ulisse-Amleto al di là della logica della "guerra di Troia" e dell’assalto dei Proci alla sua Casa e alla sua Reggia.
Quando Sofocle tirò fuori la memoria di Edipo, lanciò l’allarme: gli Ateniesi e le Ateniesi stavano dimenticando la lezione dell’#Iliade e dell’Odissea e risprofondando nella tragedia. Così con Nietzsche e Freud, agli inizi del "secolo breve", la campana comincia a suonare a martello...
Federico La Sala
Regina viarum della neoavanguardia: Appia Antica
A Roma, Complesso di Capo di Bove sull’Appia, "Un Atlante di Arte Nuova. Emilio Villa e l’Appia Antica", a cura di Nunzio Giustozzi. Nel 1957-’61, in un casolare fuori Porta S. Sebastiano, ebbe vita una casa d’arte libera e radicale, che lanciò Schifano Mambor Tacchi: deus ex machina, Emilio Villa
di Manuel Barrese (il manifesto, Alias, 01.08.2021
ROMA. Da un punto di vista simbolico e mitopoietico, il genius loci dell’Appia Antica appare strettamente legato al passato. La sua spiccata dimensione retrospettiva, tuttavia, non è mai stata sterile poiché ha mirato a dialogare con il presente attivando suggestivi, e spesso onirici, cortocircuiti temporali. Quello che dal Settecento in poi è stato l’habitat privilegiato per eruditi impegnati a ridare vita alla classicità in modi estetizzanti e alogici - si pensi alla visionaria ricostruzione della via consolare romana elaborata da Piranesi - ha continuato a funzionare, ancora tra anni cinquanta e sessanta del Novecento, da luogo d’incubazione per la neoavanguardia artistica della capitale.
Sullo stratificato suolo della regina viarum - nello specifico all’interno di un casolare situato a metà tra Porta San Sebastiano e la chiesa del Domine Quo Vadis - prese infatti avvio un singolare esperimento di casa d’arte aperta alla promozione delle tendenze d’avanguardia. Una galleria - denominata eloquentemente Appia Antica e attiva dal 1957 fino al 1961 - fu il motore iniziale di questa realtà che, nelle intenzioni degli organizzatori, non intendeva offrire solo mostre temporanee ma ambiva a porsi come un laboratorio creativo per le arti figurative, l’artigianato - ai locali espositivi era annesso un forno per la cottura della ceramica - e anche l’editoria. Parallelamente, nel biennio 1959-’60, venne data alle stampe una pubblicazione periodica anch’essa intitolata «Appia Antica» - uscita in soli due numeri e molto curata sia nella veste grafica sia nei contenuti - che, cosa non scontata per le coeve riviste d’arte italiane, si aprì alla documentazione delle più attuali ricerche europee ed extraeuropee.
Deus ex machina di un così articolato universo fu, non a caso, Emilio Villa, intellettuale non allineato, poeta, critico, studioso di filologia semitica e traduttore di Omero il quale, insieme a un manipolo di artisti suoi sodali, scelse di allontanarsi - sia concettualmente che materialmente - dalle compassate logiche dell’ufficialità artistica dell’Urbe per inoltrarsi in un’area della città allora eccentrica e isolata, già in parte inquinata dal fenomeno della speculazione edilizia ma comunque libera dai condizionamenti della critica istituzionale e del mercato.
Attorno a Villa e all’Appia Antica, nel tempo, si è andato a depositare un alone di leggenda generato dalla serrata sequenza di mostre in cui presero parte giovani destinati a diventare protagonisti dell’arte degli anni sessanta: sotto l’egida della galleria esordirono Mario Schifano, Renato Mambor, Cesare Tacchi e, tra gli altri, si avvicendarono in collettive Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Edgardo Mannucci, Ettore Colla, Giulio Turcato, Giuseppe Uncini.
Al di là del mito, il progetto espositivo-editoriale dell’Appia Antica non è mai stato oggetto di uno studio analitico specifico. La critica, andandosi a focalizzare in via esclusiva sulla carismatica ma ingombrante figura di Emilio Villa, ha infatti trascurato di far emergere le molte interessanti personalità che contribuirono a dare vita a una galleria-rivista d’eccezione e precocemente orientata a superare l’enfasi emotiva del tardo informale contemplando modi espressivi tendenti verso il monocromo.
La straordinarietà, ma anche la complessità, di quella felice stagione culturale è oggi rievocata nella mostra a cura di Nunzio Giustozzi, Un Atlante di Arte Nuova Emilio Villa e l’Appia Antica (fino al 19 settembre, catalogo Electa). In uno scenario affascinante e soprattutto affine a quello che fece da teatro alle gesta di Villa e compagni - il Complesso di Capo di Bove sull’Appia - è possibile imbattersi in opere dalla bellezza inattesa create da autori che è necessario riscoprire; così, oltre a rari lavori degli anni cinquanta di Bonalumi, Schifano e Uncini intrisi di esistenzialismo e di asciuttezza semantica, è difficile non rimanere colpiti dalla misurata affettazione dei manufatti polimaterici di Bruno Caraceni il quale, proprio in occasione della personale all’Appia Antica nel 1957, ottenne il plauso di una collezionista esigente come Peggy Guggenheim.
Allo stesso modo, nella raccolta saletta-Wunderkammer che accoglie la mostra, spicca il decorativismo bizantino di Enrico Cervelli, astrattista che negli anni precedenti la prematura scomparsa (1961) non solo fu uno degli interlocutori privilegiati di Emilio Villa ma, assieme alla compagna Liana Sisti, pose le premesse per l’avventura dell’Appia Antica. È poi importante sottolineare che, sulla scorta dell’ormai diffusa pratica curatoriale del re-enactment di mostre storiche, si è privilegiato esporre - laddove è stato possibile - opere precedentemente presentate alla galleria Appia Antica, oppure pubblicate sulle pagine dell’omonima rivista. Per frammenti viene dunque ricostruita la storia di un esperimento culturale che, seppur breve, ebbe fertili conseguenze.
VIRGILIO SI E’ FERMATO A "EBOLI", DAL "VECCHIO DI CORICO"
LE TORRI DI “EBOLI”, IL “VECCHIO DI CORICO”, E VIRGILIO. SULLE ORME DEL GRAND TOUR ...
VISTO E CONSIDERATO CHE “Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”,
E CHE “L’incontro - dibattito” è stato effettivamente tenuto il giorno 13 gennaio, “nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi” E CHE dal dibattito sono emerse, evidentemente, perplessità e difficoltà (cfr.: “Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento”);
MI SEMBRA OPPORTUNO E PERTINENTE richiamare alla mente (e rileggere) quanto nell’art. “Taranto, piazza Ebalia: le origini di un toponimo” - proprio nell’intervallo di giorni dal 4 gennaio al 13 gennaio, il giorno 8 - il prof. Armando Polito ricorda, citando Virgilio, “un vecchio di Corico”:
EVIDENTEMENTE E A DIRLA VELOCEMENTE, DIETRO LA DECISIONE DELL’UNESCO sull’importanza culturale delle “costruzioni a secco”... c’era (oso immaginare!) anche il ricordo virgiliano del “vecchio di Corico”! A rileggere - e non fermandosi a “Eboli” - il testo della IV delle “Georgiche”, nei versi del grande poeta, svela da dove vengono le pietre e offre ancora tutta la meraviglia e l’apprezzamento del lavoro di chi - con grande passione e intelligenza - ha saputo mettersi al lavoro e ha trasformato un “terreno abbandonato”, pieno di pietre, non fertile e non adatto al pascolo né di buoi né di pecore né tantomeno per piantarvi una vigna, in un mirabilissimo orto, in uno splendente GIARDINO (vv. 186-203) *:
[...] d’aver già visto io mi ricordo
Sotto l’ebalie torri, ove l’ombroso
Galeso irriga le pianure amene,
Un vecchierel di Corico nativo;
Piccolo campo ei possedeva, e questo
Sterile e ignudo, nè a l’aratro adatto,
Nè a piantar viti, o a pascolar la greggia.
Eppur con l’arte la natura avara
Ei giunse ad emendar; sterpò le spine
Che ingombravano il suol, più nobili erbe,
E bianchi gigli a seminar vi prese,
E verbene, e papaveri; e tal frutto
Da l’orto in breve, e dal giardin raccolse,
Che le ricchezze nel suo cor contento
Uguagliava d’un re: stanco da l’opre
Del dì tornava ne la tarda sera
Al fido albergo, e la sua parca mensa
Di semplici copria non compri cibi.
[...]
*
Publio VIRGILIO Marone, “Georgiche”, Libro quarto, vv. 186-203. Traduzione dal latino di Clemente Bondi (1801).
Ad onore di Virgilio e del lavoro del “vecchio di Corico”, e di tutti i nostri antenati, e, non ultimo, del lavoro della stessa Fondazione “Terra d’Otranto”, mi piace qui richiamare il brillante contributo (disponibile in rete):
SULLE ORME DEL GRAND TOUR, PER COGLIERE IL RESPIRO PROFONDO DELL’EUROPA.
LA CATENA DEI “GIARDINI ETNOBOTANICI DEL VECCHIO DI CÒRICO” NEL DISTRETTO TURISTICO DELL’ARCO JONICO DI PUGLIA, BASILICATA E CALABRIA PER COGLIERE L’ANIMA PROFONDA DELL‟EUROPA E DELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE
Federico La Sala ( 01.02.2019.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... *
In cammino con Dante/6.
Nel Veglio di Dante la nostra superba fragilità
Fra richiami alle Scritture e ai miti classici nel canto XIV dell’Inferno la compassione cristiana per la sorte degli uomini che rifiutano il vero amore fa costante appello alla saggezza antica
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 25 aprile 2021)
Nel canto XIV dell’Inferno, ove vengono puniti i superbi bestemmiatori del nome divino, con una delle pene più crudeli - «Sovra tutto ’l sabbion d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe senza vento» (vv. 28-30) - Dante incontra Capaneo, che rivendica la propria ostinazione nel peccare: «Qual io fui vivo, tal son morto», sì che Virgilio gli rinfaccia il crudo rovello di quella pena: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (vv. 63-66). Avanzando in silenzio, i due pellegrini giungono a un fiumicello rosso sangue, «lo cui rossore ancor mi raccapriccia» (v. 78).
La scena cambia e Virgilio segnala a Dante che questa è la più «notabile» meraviglia tra quelle sin lì contemplate: e racconta egli stesso la storia del «Veglio di Creta», che influisce altresì sulla struttura del basso Inferno. Richiamandosi al mito classico, il poeta evoca i regni - favolosa età dell’oro - di Saturno che dominava Creta dall’alto del monte Ida: «Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida, / or è diserta come cosa vieta» (vv. 96-98).
Apprendiamo dunque che il luogo edenico, che Dante ritroverà appunto in cima alla montagna del Purgatorio (quasi figura del monte Ida), è ora ’diserto’ come deserto troverà Dante l’Eden in cui gli appare Beatrice.
Ma, superba congiunzione del mito classico con la memoria biblica, in quel monte «sta dritto un gran veglio» il quale volge le spalle a «Dammiata», Damietta, alla foce del Nilo (luogo che vale come simbolo dell’Oriente) e ad un tempo a «Roma guarda come suo speglio» (v. 105). È qui tutta la malinconia del mondo classico che s’affisa sulla nuova Roma cristiana; e infatti la magnifica descrizione del Veglio è tutta una riscrittura del modello biblico:
«La sua testa è di fin oro formata, / e puro argento son le braccia ’l petto, / poi è di rame infino a la forcata; / da indi in giuso è tutto ferro eletto, / salvo che ’l destro piede è terra cotta» (vv. 106-110).
Si tratta della ripresa della visione avuta in sogno da Nabucodonosor, il cui senso viene a lui disvelato dal profeta Daniele: «Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla. Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra» (Dan. 2, 3135).
Ecco, tale è la fragilità della storia umana la quale, benché aurea nella sua divina e alta origine, si corrompe nei secoli e poggia su fragile argilla; mentre «la pietra che i costruttori hanno scartato / è diventata la testata d’angolo» (Salmo, 117, 22; Mt., 21, 42; Atti, 4, 11;) e ha fatto della terra il monte di Dio.
Questa possente rilettura del testo biblico giustifica la struttura intera dell’Inferno, poiché «ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta / d’una fessura che lagrime goccia» (vv. 112-113). La montagna trasuda lacrime, molto più che il ricettacolo di questa nostra «lacrimarum valle» ricordata nel Salve, Regina; e dai rivoli di dolore nascono i quattro fiumi del profondo inferno: «Lor corso in questa valle si diroccia; / fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; / [...] / Infin, là dove più non si dismonta, / fanno Cocito... » (vv. 115-119).
È forse il punto, in Dante, di più stretta unione tra eredità classica e figurazione biblica, sotto il segno del virgiliano «sunt lacrymae rerum et mentem mortalia tangunt » (Eneide, I, 462: ’Lacrime sono le cose, e il patire dei mortali segna la mente’). In quella dolente statua sono raccolti, insieme alla storia dell’umanità, i rivoli nascosti delle lettere occidentali: Plinio il Vecchio ricorda il rinvenimento, dopo un terremoto, all’interno di una montagna dell’isola di Creta, di un uomo gigantesco (Nat. hist. VII, XVI: «in Creta terrae motu rupto monte inventum e- st corpus stans XLVI cubitorum»), traccia del quale Dante trovava altresì in sant’Agostino (De Civitate Dei, XV, 9). Si delinea qui la profonda compassione di Dante sulla vicenda umana, tale che gli impedisce talvolta di interrogare le anime dannate; volgendosi a Virgilio aveva appena detto, contemplando l’«anima lesa» di Pier delle Vigne: «Ond’io a lui: ’Domandal tu ancora / di quel che credi ch’a me satisfaccia; / ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora’» (Inf. XIII, 82-84).
È il Leitmotiv dolente sulle pene dei dannati, che portano il pellegrino a perdere conoscenza, e a cadere, davanti al supplizio d’amore di Paolo e Francesca: «Al tonar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà d’i due cognati, / che di trestizia tutto mi confuse, / novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno... » ( Inf. VI, 1-4). L’uomo siede sulla ’montagna di lacrime’ della storia che il reverendo John Stuart saprà riscrivere in tempi moderni: «We all, some time or other, stand on this mount of tears», ’Noi tutti, prima o poi, veniamo a trovarci su questo monte di lacrime. Non possiamo farci niente. Se abbiamo una sensibilità cristiana, non possiamo guardare all’indifferenza, alla volgarità, all’incredulità, al disprezzo di tutto ciò che è buono e santo, se non con uno spirito colmo di lacrime» (Sermons, IV; Edinburgh 1889).
Pochi decenni prima, una pagina del nostro Risorgimento porta impressa quella dolorosa memoria: «Accosto alle sue mura, a ponente, s’alza un monticello, e sovr’esso siede l’infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de’ signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca» (Le mie prigioni, cap. LVII); poche settimane prima che Silvio Pellico vi venisse rinchiuso, un rapporto del sopraintendente Smerczeck del 16/2/1822, definiva: «Nicht Spielberg: Weinenberg»: ’non la montagna del gioco, la montagna delle lacrime’. Dal monte che rinserra il Veglio di Creta a tutti gli Spielberg di ieri e di oggi, sempre più il dolore gela in noi e si rapprende, accecandoci, sopra gli occhi chiudendosi «le ’nvetrïate lagrime del volto» (Inf. XXXIII, 128).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FLS
Passeggiate tra le leggende dell’Appia
Mappe. Un’app sulla Regina Viarum, commissionata dalla Soprintendenza archeologica di Roma, che è molto più di un’audio-guida. Per camminare tra la storia, racconti letterari e cinematografici
di Federico Gurgone (il manifesto, 30.01.2016)
Nel corso delle ricognizioni del 1999, quando fervevano i lavori per l’imminente Giubileo, al quarto miglio della Regina Viarum furono scoperti due tubi di piombo, interrati con cura presso il Sepolcro Dorico. La data incisa sul metallo, 30 settembre 1929, tolse all’istante ogni dubbio circa il contenuto. Problemi sempiterni e contemporanei, non storia antica: una sfortunata corrispondenza amorosa. «L’amante infelice avrebbe bruciato le sue lettere, se avesse voluto semplicemente distruggerle», assicura Rita Paris, direttrice dei monumenti archeologici della via Appia, quasi giustificandosi per la sua curiosità di studiosa. «I plichi erano sigillati ad arte, per evitare che gli agenti atmosferici ne compromettessero il messaggio».
L’Appia, al di là di se stessa, è una fucina di incanti mitopoietici: dalle origini del cristianesimo, all’epoca d’oro del cinema romano. Senza dimenticare le Olimpiadi del 1960, le verità e i miti del Medioevo. E le storie d’amore. Private e anonime. Nel 1929, la prima consolare non era stata ancora aggredita dai gangster, coloro che le avrebbero tolto perfino la voce. «Immagino l’incedere sofferente di un uomo solo, che proprio qui pensò di affidare il suo testamento emotivo all’eternità del connubio tra natura e cultura che lo circondava, sperando di pacificarsi con i suoi tormenti».
Vennero però anni scuri. Il fascismo, la guerra e il boom economico, con la morte delle lucciole e l’abusivismo rampante. Sotto i fanali, l’oscurità. È la rabbiosa volontà di recuperare una relazione affettiva con un luogo massacrato che ha spinto la Soprintendenza Archeologica di Roma a commissionare un’applicazione che declini lo spirito ferito della strada attraverso parole, musica e suoni: Verba, disponibile gratuitamente anche in inglese su smartphone e tablet, con i sistemi operativi Android, Apple e Windows.
I 70 testi, dalla durata media di cinque minuti e accompagnati da una colonna sonora composta da Gianfranco Plenizio, sono pensati per soddisfare le multiformi esigenze del pubblico. Alcuni sono racconti basati su fonti storiche, altri testi divulgativi scritti da giornalisti e rigorose schede descrittive redatte da archeologi. «Il Gps del dispositivo mobile localizza il viandante e consente l’avvio automatico in streaming dei file audio in un raggio di 50 metri dai punti di interesse, dislocati lungo 3 chilometri», spiega Monica Cola, una delle tre ideatrici del progetto.
Il visitatore si viene così a trovare immerso in una realtà aumentata, nella quale può camminare svincolato dalla staticità delle classiche audio-guide. Ha la possibilità di registrare messaggi audio, in forma pubblica o anonima. «Un altro utente potrà ascoltarli quando passerà nello stesso spazio geo-referenziato», aggiunge il linguista Tullio De Mauro, che ha seguito dall’esterno l’evolversi del concept. «La tipologia testuale scelta deve facilitare nel destinatario la voglia di capire. Qui i testi, che possono essere anche interrogati e contraddetti, sono chiari e accattivanti».
Verba è un social network che produce cultura dal basso: secondo Rita Paris, «il vero sviluppatore è una collettività che vuole ancorare a un luogo preciso i propri sentimenti». Una testa di ponte per riprendere il filo di un dialogo soggettivo con le antichità, quindi, come desiderò l’ignoto innamorato dei tubi di piombo.
«Se a Fontana di Trevi i turisti lanciano una moneta, sull’Appia possono ora lasciare la propria promessa di tornare con la speranza di poterla un giorno riascoltare», dice l’archeologa.
Passeggiare nel verde con gli auricolari nelle orecchie e i piedi liberi di andare diventa una scorciatoia per ripassare le vicende della creatura di Appio Claudio.
È l’attore Giuseppe Cederna a leggere uno dei più furenti articoli del padre Antonio, con il quale l’incuria dello Stato nei confronti del suo patrimonio fu denunciata sul Mondo, l’8 settembre del 1953. Cederna scrisse che bisognava salvare l’Appia dai gangster perché per due millenni «gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata».
Sfortunati coloro che smarriscono la capacità di coltivare la memoria di epiche intrise di umanesimo. Come quella nata nella piana di Maratona. La ricordano le voci di Sergio Zavoli e Carlo Paris, che raccontano l’impresa compiuta da Abebe Bikila, figlio di pastori e pettorale numero 11, il 25 agosto del 1960. Corse scalzo, perché della via regina aveva bisogno di sentire tutta la durezza. E quando la percepì, all’altezza della tomba di Cecilia Metella, chilometro trentacinquesimo, aumentò l’andatura. A Porta San Sebastiano restò solo. Vinse sotto l’Arco di Costantino.
La diritta Appia riassume la tortuosa via all’identità dell’Italia: dalla lotta per le investiture che concorse a frammentarla, narrata attraverso quel Bonifacio VIII che ebbe il suo Castrum Caetani presso Capo di Bove, alla Quinta Armata del generale Clark, che da qui entrò a Roma il 5 giugno del 1944.
Con la Repubblica arrivarono gli anni della ricostruzione, manna piovuta dal cielo per i palazzinari. La prima autostrada della storia, presso la quale Carlo Ponti abitava in una villa con la camera da pranzo scavata in un sepolcro, fu tagliata dal Gra nel 1951. Nel 1965, dopo fiumi di inchiostro di Cederna, il Piano Regolatore Generale destinò 2517 ettari dell’Appia a parco pubblico. «Ma il complesso di Capo di Bove è stato acquisito solo nel 2002», spiega Rita Paris. Costruito sopra una cisterna romana, nascondeva una piscina nel cortile interno, dove affacciano gli uffici della Soprintendenza e l’archivio di Antonio Cederna, reso pubblico dalla famiglia.
«Santa Maria Nova, infine, fu rilevata nel 2006», continua Paris. «All’area appartiene il casale che la leggenda vuole infestato dal fantasma di Tulliola, rievocato dalla voce di Christian Iansante, doppiatore di Johnny Depp e Bradley Cooper». La salma di Tulliola, presunta figlia di Cicerone, fu trovata intatta in un sarcofago nel 1485 e si dissolse pochi giorni dopo per il contatto con l’aria. Tornò fantasma nel 1968 e spaventò gli ospiti della villa, da Brigitte Bardot a Grace Kelly, fino a renderla indesiderabile.
«Verba è una delle tante strategie pensate per estendere la fruibilità del nostro patrimonio», conclude Paris. «Non ha senso separare la tutela dalla valorizzazione, lasciando credere che un esperto di cultura non sia in grado di comunicare adeguatamente con l’esterno, come adombrato dalla riforma in corso».
Raccontare per riaffermare una cultura di cui se ne percepisce la vita solo nelle crisi più nere, quando verrebbe da pensare all’epitaffio de La Ricotta, girato sull’Appia da Pasolini. Il ladrone buono muore di indigestione sulla croce, durante la rappresentazione di una passione vivente. «Crepare: non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo», commenta Orson Welles, con la voce di Giorgio Bassani. Raccontare. Perché mai più si ripeta la proskýnesis della cultura umanistica, messa in scena dallo Stato sul colle del senato e del popolo romano.
Dopo il reportage di Paolo Rumiz un progetto di Franceschini per mettere in salvo l’Appia Antica
di Carlo Alberto Bucci (la Repubblica, 240.9.2015)
Il viaggio di andata di Paolo Rumiz lungo le antiche basole dell’Appia Antica è servito a riscoprire la diagonale che attraversa l’Italia del Sud e il paesaggio dimenticato di questa strada che dal 312 a.C. unisce Roma a Brindisi. Ma è stato nel viaggio di ritorno che il giornalista ha potuto «raccogliere ciò che avevo seminato con gli articoli su Repubblica : un mandato da parte del popolo dell’Appia perché le venga restituita la dignità del titolo di Regina Viarum». La camminata di Rumiz e dei suoi quattro compagni ha avuto un primo, buon esito. Ieri il ministro dei Beni culturali e del turismo, Dario Franceschini - «rumiziano da sempre», ha confessato - ha annunciato il progetto per un “Cammino dell’Appia Antica”. E lo ha fatto nella sede dell’Archivio Antonio Cederna, il centro di Capo di Bove della Soprintendenza archeologica di Roma che raccoglie l’opera del giornalista e archeologo che nel 1953 iniziò a denunciare lo scempio edilizio dei Gangster dell’Appia Antica .
I tecnici del ministero hanno messo a punto un piano che prevede la pulizia dei tratti di strada supertistiti, il ripristino dei segmenti sepolti, la creazione di un logo e di una app perché sia riconoscibile il tracciato per i “pellegrini laici” disposti a riscoprire quei 533 chilometri di storia maltrattati dal sacco cementizio. «Metteremo a disposizione i beni demaniali che si trovano lungo l’Appia », ha spiegato Franceschini: «Stazioni abbandonate, case cantoniere in disuso, i fari non più operativi potranno diventare ostelli, ristoranti, officine per bici e moto ».
Rumiz ha intrapreso un «viaggio d’andata monstre di 30 giorni, di quelli che i giornalisti non fanno più, armato di umiltà e di quello spirito indispensabile che chiede di andare, guardare e raccontare», ha sottolineato il direttore di Repubblica , Ezio Mauro. Il reportage ha messo in luce, anche attraverso il documentario in tre puntate realizzato con Alessandro Scillitani, lo stato di abbandono dell’Appia Antica: mausolei trasformati in pollai, cisterne cementificate, basole trasportate nelle ville, interi tratti interrati, abusi edilizi addosso ai resti, palazzi che sbarrano la strada. Ma anche «interi tratti di mura medievali del Castrum Caetani che, pur essendo dello Stato, si trovano in terreni privati, quindi invisibili come altri antichi sepolcri», ha detto l’archeologa Rita Paris, responsabile dell’area.
La competenza del cartografo Riccardo Carnovalini ha permesso a Rumiz di rintracciare la “retta via” smarrita. «Tre quarti dell’Appia Antica sono scomparsi, e pensare che nelle carte degli anni Cinquanta il percorso era praticamente integro. Eppure - aggiunge Rumiz - dietro a ogni scempio c’è una meraviglia da scoprire. «Oltre il mostro dell’Ilva, che a Taranto ha sommerso l’Appia, c’è il mare stupendo e uno dei musei archeologici più belli d’Europa». Franceschini, che il 14 ottobre vedrà i presidenti delle quattro Regioni attraversate dall’Appia, punta sull’Art Bonus e «sui “Fondi di sviluppo e coesione” per il restauro dei beni archeologici e la riqualificazione delle strutture per l’accoglienza dei turisti ». Uno degli interventi annunciati dal segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia, oltre «all’anfiteatro di Capua, la città di Spartaco», è il molo del porto di Brindisi. Una delle due colonne nel punto in cui l’Appia si getta in Adriatico è sparita.
Appia, regina di storia e di abusi
di TOMASO MONTANARI (Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2014)
Sulla Via Appia Antica. E da nessun’altra parte: solo camminando su questa lunga, struggente ferita - che ancora potrebbe unire, scorrendo in un verde ininterrotto, il Colosseo ai Castelli Romani - si può davvero capire cos’è il patrimonio culturale italiano. Qui tutti i frammenti della magnificenza antica - quelli che nei musei archeologici annoiano inconfessabilmente anche gli addetti ai lavori - prendono senso e vita: si animano in un contesto, in un tessuto che si fonde col verde e col cielo. E non è un caso: nel 1824 fu il grande architetto Giuseppe Valadier a voler ricomporre ai lati della strada tutto ciò che giaceva a terra. Invece che «confonderli tra i moltissimi esistenti nei musei e nei loro magazzini». Valadier, e poi Luigi Canina, avevano negli occhi le incisioni visionarie con cui Piranesi aveva reinventato l’Appia, e collegando il sogno alla realtà riuscirono a lasciarci un corpo vivo.
Un corpo che dobbiamo ad ogni costo tramandare a chi verrà dopo di noi. Non è un’impresa impossibile, basterebbe volerlo: proprio sull’Appia vedi perché lo Stato riesce a mettere a segno alcuni strepitosi successi, e anche perché quello stesso Stato sembra far di tutto per vanificarli. Sull’Appia incontri l’Italia: al suo peggio e al suo meglio. La regina viarum - la più importante e famosa strada dell’antichità - fu aperta nel 312 a. C. dal console Appio Claudio: allora collegava Roma a Capua, arrivando fino a Brindisi (porta verso la Grecia) nel 191 a. C. Una strada modernissima: a due corsie, pavimentata in modo da consentire ai carri la massima velocità. Una strada presto straordinariamente bella: a causa dell’enorme quantità di tombe monumentali, sculture, epigrafi cresciute ai suoi lati. Una strada in cui puoi letteralmente mettere i piedi sulle orme della storia: qua nel 37 a. C. viaggiarono insieme Orazio, Virgilio e Mecenate, da qua Carlo V volle entrare trionfalmente a Roma nel 1536, e come lui il generale Clark, liberatore americano di Roma nel 1944.
Oggi, sulle stesse pietre, incontri radi ciclisti stranieri, gli occhi spiritati e felici di chi guarda all’Appia come ad un incredibile incrocio tra Pompei, Spoon River e il Cammino di Santiago. Varcata la turrita Porta San Sebastiano, li vedi che fissano con curiosità una camionetta dell’esercito, ferma davanti al cosiddetto Arco di Druso. Sulle fiancate grigioverdi c’è scritto «Strade sicure»: ma non vegliano sulla sicurezza dell’Appia, non fermano i Suv che sfrecciano a clacson spiegato. No, fanno la guardia alla villa di qualcuno: forse a quella, vicinissima, dell’ex ministra della Giustizia Paola Severino. Una villa famosa per esser stata dimenticata nella dichiarazione dei redditi, e per essere stata blindata a spese pubbliche durante il mandato ministeriale. Ma, soprattutto, una villa che conserva uno degli importantissimi colombari (cioè antichi loculi cimiteriali) di Vigna Codini: un monumento di proprietà dello Stato a cui di fatto non riescono ad accedere non dico i cittadini (come pure vorrebbe la legge), ma nemmeno i funzionari della soprintendenza archeologica: per «ragioni di sicurezza». Certo non la sicurezza del patrimonio, quella prescritta dall’articolo 9 della Costituzione.
Le ville private: ecco il flagello dell’Appia Antica. Poco più avanti una parte delle Mura Aureliane è a terra: un mucchio di detriti transennati ricorda quanto sia letale il peso dei terrapieni su cui poggiano lussureggianti giardini privati e improbabili piscine hollywoodiane. È proprio contro gli abusivisti, «i gangsters dell’Appia», che ha lottato per tutta la vita Antonio Cederna: «L’Appia antica - scriveva nel 1954 - è diventata il luogo geometrico di tutta la cattiva architettura romana, la palestra per gli speculatori principianti, il banco di prova di tutte le più ordinarie e impunite illegalità. I ruderi sono scaduti a miserabili comparse, hanno perduto la loro grandezza, la loro meravigliosa cornice di deserto e di silenzio, immeschiniti, corrosi, spellati. Le stupende rovine della via Appia antica vengono chiusi tra sipari male intonacati, tra muriccioli e fino spinato, come animali esotici e pidocchiosi: statue e rilievi spezzati e trafugati, le iscrizioni usate come materiali da costruzione: la via Appia antica è diventata il canale di scolo dei nuovi quartieri, tagliata, sminuzzata, sventrata».
Immagini attualissime: ancora oggi la meraviglia dell’Appia è avvelenata da feste matrimoniali con gli ombrelloni piantati in cima a mausolei monumentali, da pacchianissime location per eventi difese dal filo spinato, da monumenti ridotti a spartitraffico per residenti che vogliono un accesso a doppia corsia. E non sono solo le ville: i frati di San Sebastiano aprono un punto di ristoro nel complesso monumentale (con sedie di plastica da stazione di periferia) senza nemmeno avvertire la Soprintendenza, e di fronte al Punto Informativo del Parco dell’Appia (un’istituzione regionale nata male, e dall’efficacia purtroppo quasi nulla) una schiera di cassonetti e un’autorimessa abusiva permettono di misurare il tasso di degrado e inconsapevolezza.
Un’inconsapevolezza che arriva fino al Campidoglio. Cadono le braccia quando si arriva alla Villa di Massenzio - di proprietà comunale - con le rovine del palazzo imperiale, del circo e del mausoleo del figlio Romolo che coronano una serie di dolcissime collinette verdi: un posto di sogno, ma sfigurato dalla mancanza di manutenzione, di cura, di amore. Un complesso che chiude anche d’estate alle quattro del pomeriggio, lasciando fuori tutti i romani che avrebbero il diritto di terminare in quella potenziale meraviglia le loro giornate di lavoro. Come stupirsi, se lo stesso Comune sposta l’itinerario dell’autobus 660, togliendo ai lavoratori e ai turisti l’unico mezzo pubblico per arrivare sull’Appia?
Ma poco dopo, quando ti avvicini al terzo miglio, ecco qualche timido segno di civiltà: la strada comincia ad essere discretamente scandita da bidoni dell’immondizia di ghisa, tinti di verde per mimetizzarsi nella vegetazione. Su tutti, lo stemma della Repubblica e una targhetta: «Soprintendenza archeologica speciale di Roma». Eccolo lo Stato, finalmente: nella concreta umiltà della pulizia. E lo Stato, sull’Appia, ha il volto di Rita Paris. Se la battaglia per l’Appia è stata, nonostante tutto, vinta; se gli italiani della mia generazione possono ancora sapere cos’è la regina viarum, lo dobbiamo al destino per cui - nel 1996, proprio l’anno in cui Cederna si spense - la direzione dell’Appia toccò a questa archeologa, straordinariamente lucida e forte. Un’archeologa che - per uno stipendio che non raggiunge i 1800 euro al mese - porta ogni giorno sulle spalle il peso dell’Appia, oltre alla direzione del Museo Nazionale Romano.
È lei che ci accompagna dentro una tomba degna di un imperatore: il piccolo pantheon di Cecilia Metella, cinto di marmi e ornato di un fregio con tanti teschi di bue (da cui il nome con cui generazioni di romani hanno chiamato quel posto: Capo di Bove). In pieno Medioevo questa tomba risorse a nuova vita: le spuntarono i merli, e diventò il torrione del castello di Bonifacio VIII Caetani, il papa che Dante scaraventa all’inferno. Bonifacio vi volle anche una chiesa, e la fece costruire come quelle che aveva visto a Parigi: un incunabolo di gotico francese alle porte di Roma. Poi, un bel giorno del 1588 un altro cardinal Caetani, svenatosi per comprare la carica di Camerlengo, autorizzò due figuri a vendere a pezzi questo monumento straordinario. Se ce l’abbiamo ancora, è perché un pugno di magistrati capitolini, parlando a nome del popolo romano, ebbe il coraggio di ricordare al cardinale che «ancora eravamo obligati a farla manutenere et conservare», e che quella tomba si sarebbe potuta distruggere solo con un ordine espresso del papa: che non arrivò.
Oggi a resistere «nomine populi Romani» è proprio Rita Paris, che veglia su Capo di Bove contrastando con successo i nuovi Caetani. Nel 2002 ha fatto acquistare allo Stato una villa privata, e l’ha trasformata in un paradiso della conoscenza. Gli scavi condotti nel giardino hanno dimostrato che la villa sorge nel cuore della celebre tenuta del filosofo Erode Attico, precettore di Marco Aurelio: una scoperta eccezionale, con rinvenimenti di statue e iscrizioni che hanno destato interesse in tutto il mondo. Alla faccia di un noto archeologo accademico dei Lincei, che aveva sostenuto il contrario in un parere che si opponeva al vincolo chiesto dalla Paris: un parere commissionato e pagato dai proprietari di una villa vicina, assai proclivi all’abusivismo. Con un simbolo potentissimo, la villa è oggi la sede dell’archivio di Antonio Cederna, donato dalla famiglia e consultabile anche online, e ospita una mostra permanente sulla storia della tutela dell’Appia, allestita con eleganza da museo svedese. Indimenticabile la grande mappa (realizzata dallo studio di Vezio De Lucia) che censisce e situa l’enorme quantità di edifici abusivi sorti sull’Appia: un milione e trecentomila metri cubi solo dopo il 1965, quando il piano regolatore di Roma decise, inutilmente, la ’tutela integrale’ della strada.
Ma il capolavoro di Rita Paris e del suo eroico staff è l’apertura al pubblico, nel 2000, della maestosa, enorme Villa dei Quintili: un complesso poi continuamente migliorato, ora dotato di un piccolo, preziosissimo museo. Un luogo che è tornato ad essere un’oasi di verde, storia, pace e piacere, come ai tempi dell’impero romano: ma oggi a disposizione dei nuovi sovrani, i cittadini. Sempre nel 2000, usando i fondi del Giubileo, ecco un altro successo incredibile: la Soprintendenza ottiene di far interrare il tratto del Grande Raccordo Anulare che tagliava in due l’Appia, la quale così riconquista il suo tracciato. E non basta: nel 2006 lo Stato ha acquistato anche la tenuta di Santa Maria Nova, da pochi giorni inaugurata con una grande festa popolare: un luogo indimenticabile, dove sono emerse le terme in cui venivano a ricrearsi i pretoriani di Commodo, ornate di mosaici gremiti da gladiatori in combattimento. Insomma, Rita Paris ha immaginato e attuato una specie di dura e tenace bonifica, che lentamente restituisce al bene comune terra e storia strappate alla speculazione privata e all’illegalità.
All’incrocio con Via di Fioranello, un bel cartello ricorda a chi la imbocca da qua, che «la Via Appia Antica rappresenta in tutta la sua estensione un monumento storico, patrimonio di tutti. Hai l’obbligo di rispettarla e conservarla integra per le generazioni future». Di là dalla strada, finisce il tratto recuperato dalla Soprintendenza e inizia quello che corre verso Marino, che ancora aspetta di vedere riesumato il selciato e restaurati i monumenti. Per ora mancano i soldi, e così rimane un malinconico teatro di droga e prostituzione anche a mezzogiorno, in mezzo ai rifiuti abbandonati a terra. Bisognerebbe trovarli, quei soldi: ci vorrebbe un ministro per i Beni culturali degno di questo nome. O un mecenate illuminato: come il giapponese Yuzo Yagi, che proprio Rita Paris ha convinto a donare due milioni per il restauro della Piramide di Cestio.
Ma se i ministri e i mecenati veri sono rari, non manca chi vorrebbe mettere un cappello sulla bonifica ventennale attuata dalla Soprintendenza: una storia di successo che comincia a far gola. Autostrade per l’Italia ha appena presentato un progetto (dall’originale titolo «Operazione Grand Tour») che, in cambio di un’erogazione liberale non ancora precisata, vorrebbe imporre all’Appia «un nuovo modello di gestione» diverso da quello pubblico, istituendo una «cabina di regia» che esautorerebbe lo staff che ha fatto del recupero dell’Appia una best practice internazionale. Un’operazione che, invece di finanziare i progetti pubblici che funzionano, mira ad azzerarli e a sostituirli con altri ben più commerciali, privi di una qualunque visione culturale. Insomma, si scrive ’mecenatismo’, si legge ’privatizzazione’.
Il ministro Dario Franceschini ha immediatamente sposato l’Operazione Grand Tour: forse per dimostrare di essere sufficientemente renziano, forse perché non è mai andato sull’Appia, forse perché nessuno gli ha raccontato che i suoi funzionari stanno facendo molto, ma molto meglio. E al mio amico Gian Antonio Stella, che sul «Corriere» ha difeso il progetto dalle critiche dei comitati e delle associazioni, vorrei dire che quando Cederna fu eletto deputato della Repubblica, la Società Autostrade gli fece recapitare una bicicletta, una delle prime mountain bike. Cederna la regalò immediatamente a Don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad Autostrade perché non voleva avere niente a che fare con quella società, che aveva combattuto molto spesso, difendendo il paesaggio italiano. Ecco, penso che il Mibact dovrebbe comportarsi come Cederna: già, perché qualche volta «pecunia olet».
Banca d’Italia scrive che «le autostrade costituiscono un monopolio naturale, e non subiscono una reale concorrenza da parte delle altre modalità di trasporto. Il settore non è stato adeguatamente liberalizzato, prima della privatizzazione, creando così un gestore privato dominante». Il che significa non solo che consentiamo ai concessionari di non investire nella manutenzione e nell’ammodernamento delle autostrade esistenti, ma anche che abbiamo affidato agli stessi concessionari le scelte infrastrutturali strategiche del Paese: una vera cessione di sovranità. Siamo proprio sicuri che sia opportuno permettere ad Autostrade di sommare a questo monopolio anche il governo dell’Appia? Ed è giusto che chi mangia (per esempio) il prezioso territorio del Parco Agricolo di Milano Sud con la costruzione della Tangenziale Esterna, voluta da Maurizio Lupi e legata all’Expo, possa poi presentarsi ai cittadini come il generoso paladino del verde dell’Appia?
Il motto fatto scrivere da Rita Paris sulle pareti della villa diventata simbolo del riscatto dice che l’Appia è un «Laboratorio di mondi possibili, tra ferite ancora aperte». Il progetto delle Autostrade allargherebbe quelle ferite, le renderebbe più profonde. Quasi distrutta dalla prepotenza privata, l’Appia ha invece bisogno di scelte trasparenti ispirate esclusivamente al pubblico interesse. E proprio sull’Appia, negli ultimi vent’anni lo Stato ha dimostrato con i fatti di saper tutelare il bene comune. Il fondatore della strada, Appio Claudio Cieco, è famoso per aver detto «fabrum esse suae quemque fortunae», che ciascuno è responsabile del proprio destino. Lo Stato siamo noi: l’Appia dimostra che, nonostante tutto, possiamo farcela. Che un altro mondo è possibile.
Appia Antica, la storia in ostaggio. Decenni di abusi e nessuno interviene
di FRANCESCO ERBANI *
Un milione e trecentomila metri cubi. Tanti, tantissimi sono gli abusi edilizi nell’Appia Antica, la strada romana che risale al 312 avanti Cristo e che dal centro dell’urbe giungeva fino a Brindisi. Ma un milione e trecentomila metri cubi sono solo il volume di interi edifici costruiti senza licenza. Ville, soprattutto. Residenze sfarzose, oasi per imprenditori e professionisti, un tempo anche per la gente del cinema, per notabili democristiani e socialisti. Ai casali ristrutturati, nelle cui facciate sono spesso conficcate lapidi e frammenti di sarcofago, vanno aggiunti box, garage, depositi, magazzini, sopraelevazioni, piscine, parcheggi, che non sono calcolati in quel rendiconto dell’illecito. Ed extra sono anche i cambi di destinazione d’uso, altrettanto invasivi quanto il cemento, perché se un annesso agricolo diventa residenza occorre allacciarsi alle fognature, scavare per le fondazioni e per le tubature in un terreno archeologicamente sensibile, producendo, inoltre, un carico urbanistico, e dunque più abitanti, più macchine...
Il fenomeno è inarrestabile, dura da decenni in quest’area grande 3.500 ettari, paesaggio e archeologia fusi in un ambiente che non ha molti paragoni al mondo. L’abusivismo nell’Appia Antica lo denunciava Antonio Cederna già negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma ancora oggi fioccano le denunce, ma non si vede ombra di ruspa: le ultime demolizioni, pochissime in totale, risalgono al 2009. Il calcolo degli abusi l’ha compiuto l’urbanista Vezio De Lucia per conto della Soprintendenza speciale archeologica di Roma. Attualmente sull’Appia Antica, stando a questa indagine, giacciono 2,7 milioni di metri cubi di costruzioni. Comparando vecchie e nuove mappe, De Lucia ha però potuto stabilire che quasi la metà sono stati realizzati dopo il 1967, cioè dopo il Piano regolatore della capitale che dichiarava inedificabili i terreni intorno alla strada romana. E sono dunque abusivi. La rilevazione, aggiornata al novembre 2011, integra uno studio condotto nel 2003. Si tratta però, spiega De Lucia, soltanto di interi manufatti costruiti violando le leggi. Il resto, aggiunge l’urbanista, è difficilmente stimabile. Ma è imponente.
Un suono sinistro emanano, nella relazione di De Lucia, le parole che si leggono alcune righe più sotto le tabelle con i dati: si sarebbe potuto fare di più e meglio se si fossero possedute cartografie maggiormente dettagliate e se ci fossero state risorse maggiori. Il che vuol dire una cosa molto semplice. Per arginare l’abusivismo in uno dei luoghi di più struggente bellezza che ci siano non solo a Roma, per assicurare a tutti il godimento pieno di un bene della comunità (il paesaggio, l’archeologia, la memoria), un bene che diffonde senso di cittadinanza, per tutto questo e per tutelare con efficacia l’Appia Antica, mancano gli strumenti minimi, le amministrazioni lesinano documenti e fonti di conoscenza, e scarsi sono i fondi. Dalla Soprintendenza archeologica partono lettere al ministero per i Beni culturali. Si chiede l’istituzione di un organismo ad hoc che superi la palude burocratica. "Noi denunciamo gli abusi, ma non accade nulla. Tutto si ferma sui nostri tavoli", lamenta Rita Paris, direttrice dell’ufficio della Soprintendenza che ha la competenza sull’Appia Antica. "Ci arrivano dal Comune domande di condono che neanche si potrebbero accettare, perché violano vincoli archeologici, e noi passiamo il tempo a negare autorizzazioni in sanatoria. Ogni forma di tutela rischia di essere vanificata".
Qui sono il sepolcro degli Scipioni, il sepolcro di Geta e di Priscilla, la Porta San Sebastiano, e poi i colombari, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, il Circo di Massenzio, il Mausoleo di Romolo e quello di Cecilia Metella, il Castrum Caetani, la tomba di Annia Regilla, i Tumuli degli Orazi e dei Curiazi, il complesso termale di Capo di Bove, la splendida Villa dei Quintili. E poi la valle dell’Almone, il fiume sacro ai romani, con i boschi di leccio e di roverella, il pianoro ondulato di Tor Marancia, le cave e le colate laviche che ai grandi viaggiatori davano l’impressione di trovarsi in un deserto, al centro del quale spuntava Roma.
Gran parte dell’Appia Antica è proprietà privata. E nelle proprietà private sono anche monumenti resi invisibili da alti muri di recinzione. L’Ente Parco organizza visite guidate in alcune tenute, ma solo su appuntamento e per piccoli gruppi. Un contenzioso si è aperto la scorsa estate con la Saita, una società della principessa Pallavicini: una splendida residenza in un parco proprio a ridosso di Porta San Sebastiano, in cui sono contenuti sepolcri e l’Oratorio dei sette dormienti, costruito nel XII secolo su una villa romana del II secolo, un edificio preziosissimo. Stando ai rilievi dell’Ufficio abusivismo del Comune, due vasche ornamentali sarebbero diventate due piscine (una ha forma ottagonale e si vede perfettamente su Google Maps). Sono poi spuntati un garage, due grandi strutture vetrate, un ampliamento in muratura dove esisteva appena qualche tettoia e altri manufatti a ridosso del muro perimetrale. Inoltre è stata ricostruita una pavimentazione.
Quasi di fronte a questa villa, risiede Roberto Benigni, ma i suoi restauri sono stati seguiti e autorizzati dalla Soprintendenza. Nella stessa zona è la villa di Paola Severino, ministra della Giustizia: nessun abuso viene contestato, ma nella sua proprietà sono custoditi due dei tre colombari di Vigna Codini, di proprietà pubblica, l’unica testimonianza dei tanti sepolcri che le fonti letterarie collocano in quest’area. Che per ovvi motivi di sicurezza, nessuno può visitare.
Un grande vivaio di fronte alle terme di Caracalla si è arricchito di un edificio di 700 metri quadrati. Abusivamente, secondo la denuncia di Italia Nostra, ma condonato con parere favorevole persino della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici. Nella proprietà di Giorgio Greco, che con il fratello possiede una catena di negozi d’abbigliamento, a pochi metri da Capo di Bove e da una stazione dei carabinieri, i vigili hanno contestato il cambio di destinazione d’uso di un grande magazzino, da deposito a residenza, con cucina e bagni. Era in abbandono e ora vi è allestita una scuola per cuochi. Spesso l’edificio accoglie feste e ricevimenti e viene usato per girarvi spot pubblicitari. La Soprintendenza, ammette Greco, ha svolto un gran lavoro nel passato fermando l’avanzata del cemento sull’Appia Antica. Ma ora non deve accanirsi sui proprietari che "se non fanno brutture, in fondo sono i veri custodi dell’integrità di questo luogo".
"Molti proprietari mettono a reddito le loro residenze, le affittano per cene e matrimoni", racconta invece Rita Paris. "Ogni sera è un via vai di macchine, si installano gazebo, si sparano fuochi d’artificio". Fra i più attivi è Sergio Scarpellini, uno dei più potenti costruttori romani, che acquistò anni fa la villa di Silvana Mangano. Nella sua proprietà arrivarono le ruspe per eliminare un parcheggio abusivo. L’iniziativa della demolizione fu presa dal Municipio XI. Era il 2009. Da allora, niente più ruspe sull’Appia Antica.
Confinante con quella di Giorgio Greco, è un’altra proprietà in cui un tempo c’era un gruppo di serre. Che ora sono diventate appartamenti di lusso dati in affitto e reclamizzati sul web come "case di charme", dopo aver compiuto lavori di cui nessuno sembra sia stato informato. Sopra la Villa dei Quintili, in un centro sportivo ci sono campi di calcio e piscine. Si è costruito dentro il Castrum Caetani, villaggio fortificato del XIV secolo dietro al Mausoleo di Cecilia Metella: ma la domanda di condono del proprietario ha fermato la procedura di demolizione. Sull’Appia Antica e nelle vie laterali occorre tenere gli occhi aperti nei mesi estivi. È con la città che allenta i ritmi, con i vigili che già sono pochi d’inverno e ancora meno in agosto, che i camion caricano e scaricano laterizi, pannelli, tubi. Intorno alle recinzioni si fa crescere una siepe di alloro, poi si cinge il perimetro con un telo verde. Sono attivissimi, ma fanno quel che possono per scovare gli abusi i pochi guardiaparco. Una porcilaia diruta, una vaccheria sfondata diventano un vano, poi due, poi si fanno la cucina e il bagno. Anche senza licenza di abitabilità, i valori immobiliari lievitano.
Ha fatto scuola la vicenda di una proprietà di fronte al Mausoleo degli Equinozi iniziata nel 1984 con un atto notarile di compravendita in cui si legge: "La parte acquirente dichiara di essere a conoscenza della destinazione di Prg del terreno acquistato ed in particolare che lo stesso non ha formato oggetto di lottizzazione approvata e che pertanto non può essere utilizzato a scopi edilizi". Due anni dopo veniva costruita una casa di 100 metri quadrati. Un primo sequestro da parte dei vigili, la domanda di condono. Ma i lavori proseguono e arrivano a conclusione. La Pretura apre un’inchiesta che si conclude con una condanna, poi amnistiata in Appello. Ancora nel 1994 la Soprintendenza segnala l’abuso, la pratica rimbalza da un ufficio all’altro, si contano almeno una decina di passaggi burocratici. L’immobile si arricchisce di veranda e di altri manufatti. E ora è lì, forse abitata dai proprietari, forse affittata, nessuno lo sa con certezza. Con certezza, stando alla Soprintendenza, lì ci sono resti di parte del Triopio di Erode Attico, una grandissima villa-azienda romana.
L’Appia Antica vive così, un po’ meraviglia per gli occhi e per la mente, un po’ terra di nessuno, dove non si sa bene chi sia incaricato di tutelare il suo patrimonio. Da qualche mese il Demanio ha consegnato la strada alla Soprintendenza archeologica, dichiarandola monumento nazionale. È un piccolo passo, forse l’inizio della storia moderna dell’Appia Antica. Ma nessuno qui se la sente di sbilanciarsi e sfoggiare ottimismo.
* la Repubblica, 07.12.2012
Il gioiello di San Nicola tra mostre, cinema e musica
di Laura Larcan (la Repubblica/Roma, 03.07.2012
L’Appia Antica si prende la sua “notte bianca”, e lo fa con l’orgoglio di signora millenaria capace ancora di sedurre il viaggiatore svelando tesori sconosciuti. Venerdì prossimo aprirà, infatti, la chiesa medievale di San Nicola dopo un restauro di due anni condotto dalla soprintendenza ai beni archeologici di Roma.
Tra i gioielli di famiglia della Regina Viarum, il monumento consacrato nel 1303 come parrocchia del Castello Caetani, di fronte al mausoleo di Cecilia Metella, spicca per essere una perla rara, l’unico esempio di architettura gotico cistercense di Roma. Fatta erigere da Bonifacio VIII, caratterizzata dall’originale facciata con il campanile “a vela”, è caduta nell’oblio dell’abbandono fin dal ‘500.
E la sua inaugurazione diventa il fiore all’occhiello del festival “Dal tramonto all’Appia”, curato dalla direttrice dell’Appia Rita Paris, tre “notti bianche” dal 6 all’8 luglio, per godersi con lentezza un patrimonio di storia con un programma gratuito di musica live, mostre, videoproiezioni, performance, incontri, visite guidate e viaggi del gusto, dalle 18 a mezzanotte. Un evento nato in stretta collaborazione con la Pierrecicodess, oggi cooperativa Culture.
«San Nicola era una spina nel fianco - dice la Paris - già alla fine dell’800 le carte d’archivio denunciavano lo stato di degrado della chiesa e si decideva di murare la porta d’ingresso per dare stabilità alla facciata». A distanza di oltre un secolo, il portale è stato smurato e la visita regala un’atmosfera romantica col vuoto lasciato dalla copertura crollata nel tempo. Il restauro curato dalla Paris e da Maria Grazia Filetici ha consolidato la struttura muraria della navata unica, con la grande abside semicircolare e la parata di sei finestre per lato, impreziosite da cornici trilobate di marmo bianco, e messo in sicurezza il raffinato sistema dei peducci in peperino a forma di calice decorato con foglie su cui un tempo poggiavano gli archi acuti che sostenevano il tetto. La chiesa entra ora a far parte permanente del circuito di visita del mausoleo di Cecilia Metella con unico biglietto e stessi orari.
Prologo (venerdì alle 18) dei giorni di feste notturne è la mostra «Marmo, latte e Biancospino» a Capo di Bove dove il vissuto dell’Appia e dell’Agro romano viene raccontato da 37 fotografie degli anni ‘50 e ‘60 uscite dall’archivio Cederna e dalla Peer Gallery, che si chiude con uno scatto di scena de “La Ricotta” con Pier Paolo Pasolini e Orson Welles nel parco della Caffarella, set del film che verrà proiettato. “Memorie di luce della via Appia” saranno proiettate sul mausoleo di Cecilia Metella, mentre concerti jazz e classica animeranno il sagrato di San Nicola, a partire da Enzo Pietropaoli (21.30), fino a degustazioni lungo la strada. Tra le curiosità, l’incontro con Luca Spaghetti, autore di “Un romano per amico”, e la presentazione del film “Via (Elegia dell’Appia)” prodotto dalla Soprintendenza.
Info: www.archeoroma.beniculturali.it
L’autoironia di Orazio epicureo indulgente
Nelle «Satire» confessa tutti i suoi difetti
di Mario Andrea Rigoni (Corriere della Sera, 07.06.2012)
Il maggior poeta lirico della latinità, Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 e morto a Roma nell’8 a.C., oltre alle sue celeberrime Odi ed Epistole, scrisse due libri di Satire (il I, dedicato a Mecenate, ne contiene dieci, il II otto), che si intitolano Sermones perché sono un genere in versi (nel suo caso esametri), ma vicino alla prosa, agli argomenti e al tono della comune conversazione. Esse rappresentano (insieme agli Epodi o Giambi) l’esordio poetico di Orazio e sono anche la sua opera più letta nel Medioevo, per la quale egli è ricordato da Dante nella Divina Commedia subito dopo Omero («Mira colui con quella spada in mano, / che vien dinanzi ai tre sì come sire:/ quelli è Omero poeta sovrano;/l’altro è Orazio satiro che vene»).
Assente nella tradizione greca, la satira era un genere tipicamente romano: Orazio (I, 4) riconosce a Lucilio il merito di averlo fondato, di essere arguto e di avere naso fino, benché gli rimproveri un’abbondanza fangosa dalla quale egli si vuole liberare nell’intento (quanto raccomandabile anche oggi, vista la massa di grafomani dai quali siamo circondati) di scrivere poco e bene.
Orazio (I, 10) confessa di essersi dedicato alla satira perché essa soltanto gli sembrava in grado di promettergli il successo, dato che era scarsamente praticata, ma è chiaro che le caratteristiche di questo genere (l’autobiografismo, la riflessione morale e sociale, la varietà tematica e aneddotica, la vivacità dialogica, lo stile sciolto e conciso) corrispondevano alle inclinazioni profonde del poeta: una di queste è l’ironia, che Orazio esercita meravigliosamente anche verso se stesso. Nella terza satira del II libro, dove sono elencati i vizi umani che i filosofi considerano pazzia senza rendersi conto quanto sono pazzi essi stessi, lo stoico Damasippo illustra e rimprovera a Orazio tutti i suoi difetti fisici e morali: scimmiotta i grandi, lui che è figlio di un liberto e anche basso di statura; vive al di sopra delle proprie possibilità; è terribilmente iracondo; perde la testa per ragazze e giovinetti. È in realtà un perfetto autoritratto, per il quale il poeta chiede indulgenza, in omaggio a quel principio del giusto mezzo che notoriamente costituisce il centro della sua morale epicurea.
Tale principio agisce in modo implicito o dichiarato in tante satire: nella prima del I libro, nella quale Orazio, parlando dell’eterna insoddisfazione degli uomini per la propria condizione, tratta con esempi e aneddoti dell’avarizia, concludendo con la proverbiale massima Est modus in rebus; nella seconda, dove mette in guardia dai guai dell’adulterio, consigliando di evitare le matrone non meno che le prostitute e di accontentarsi delle più agevoli liberte; nella terza, che predica l’indulgenza verso i vizi degli amici anche al fine di «non sancire una legge iniqua contro noi stessi» e ridicolizza la pretesa stoica che il saggio possieda al massimo grado non solo ogni virtù ma anche ogni capacità; nella seconda del II libro, che elogia i vantaggi della sobrietà a tavola.
L’autoritratto indiretto si completa nella settima satira del II libro, dove il poeta si fa impartire una lezione di morale dal suo schiavo Davo in occasione della festa dei Saturnali, la sola circostanza in cui i servi potevano trattare i padroni da pari e pari e godere di piena libertà di parola e di critica. Davo dimostra che Orazio non possiede nessuno dei requisiti di quella saggezza che pure egli professa, assimilando scherzosamente il dono delle Muse a una malattia mentale: «quest’uomo», dice lo schiavo, «o è pazzo o è poeta».
Non c’è forse poeta latino più classico e insieme più moderno di Orazio. Cultore e maestro dell’arte dello stile; modello di eleganza, insieme con Virgilio, «a tutti i secoli», come annotò Leopardi; osservatore sottile del costume, immerso nella vita quotidiana del suo tempo, che ritrae in immagini e massime immortali, ma assediato dal senso della caducità e volto alla ricerca della libertà interiore; incurante della folla e pago di pochi lettori, egli censura senza malignità i vizi degli altri, ma è sempre consapevole dei propri limiti e non osa neppure mettersi nel rango dei poeti (che lezione): «Anzitutto mi voglio togliere dal novero di quelli, cui concederei di chiamarsi poeti: né infatti fare un verso conchiuso diresti che sia sufficiente; né uno che scriva, come noi, più vicino alla prosa, tu lo riterresti poeta. Chi abbia del genio, chi un’ispirazione divina e una voce capace di suoni sublimi, a lui dà di questo nome l’onore» (I, 4).
L’infinita varietà del mondo
Corriere della Sera, 07.06.2012
Non aveva nemmeno trent’anni, il poeta latino Orazio, quando iniziò a comporre le Satire, proposte nella collana con la prefazione inedita di Roberto Galaverni. La «varietà» (cioè la satura appunto) spiega il prefatore, «rappresenta sia dal punto di vista espressivo sia da quello tematico l’elemento caratterizzante della poesia satirica». E così, varie sono le riflessioni, i dialoghi, le descrizioni di vizi e virtù, gli ammaestramenti etici che si trovano in quest’opera, in cui l’autore mette a frutto tra l’altro gli insegnamenti di filosofia ricevuti (per lo più di scuola epicurea). È l’opera in cui si trovano frasi passate alla storia, come «est modus in rebus», oppure «quest’uomo è pazzo o è poeta», e così via, e i ritratti di personaggi e situazioni rispecchiano la varietà, «l’imprevedibile spettacolo del mondo coi suoi tanti personaggi, caratteri e vivacissimi dialoghi». Non per farne un’ironica caricatura, ma per ottenerne «un ulteriore movimento conoscitivo» facendo «dell’inquietudine, dell’incertezza, delle oscillazioni, della curiosità, la sua forza più grande». (i.b.)
IL SENTIMENTO DEI LUOGHI: UNA CARTOLINA DA CONTURSI TERME
di Rosario Forlenza
DA ROMA A METAPONTO, UN VIAGGIO:
SUI LUOGHI DELLA METAFISICA. IN COMPAGNIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA **
Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata; e sì che vi si è a distanza pari, lassù, tra l’Adriatico, lo Ionlo, ll Tirreno, e io fanciullo coi pastori spiavo se, di tra una radura e l’altra della sommità più alta, si vedessero in lontananza scintillare insieme le tre marine); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano, non appena oltrepassato il crinale che il Vallo separa dalla vallata del Pergola, d’ún subito scoprivo, là sulla costa di fronte, il mio paese nel sole, e poco più giù sulla destra il camposanto, dove dorme colei che, dando in cambio la vita sua per la mia, mi fece uomo; e accanto ad essa, dorme il prete che fece me prete.
Voi direte: il Pergola, peuh! gran fiume che è! e poi anche la valle di cotanto fiume, e poi... Adagio, lettore. Da quei monti dietro il mio paese, da quelle faggète, scende il Melandro; il Melandro per ùna matassa lenta di andirivieni va a riversarsi nel Pergola, il Pergola nel Tanagro; e così, dolce dolce, una valle appresso all’altra ora costeggiando l’uno ora.l’altro paese, antiquos subterlabentia muros, quei magri fiumi si gettano alla fine nel Sele
e il Sele entra nel mare a Pesto, dove I’acqua del mare serba ancora una sua certa luce: poco più su insomma dell’antica Elea, dove nacque un giorno la metafisica, come sullo Ionio a Metaponto, ora coltivata ma sempre solitaria, nacque un giorno la filosofia religiosa.
Lettor mio, vuoi proprio levarti la voglia e il gusto di darci di “area depressa”? Padrone. Io pure, rintronato sin da fanciullo tra nomi come Melandro, Tanagro, Sele, Palinuro, Elea, Metaponto, anche io mi sento quando perplesso e quando depresso. Non forse in quel senso che dici tu, ma è un fatto, sento che mi opprime, quasi un peso troppo grande, il peso di tre millenni continuati nella luce della civiltà; e se non ti dispiace, mi sento turbare tutte le volte da quelle terre, quei cieli,.quei boschi, quelle acque, quei luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Tutte le volte. Te ne accorgerai tu pure, un giorno non lontano *.
*
Questo è il paesaggio in cui si trova Contursi Terme, e questo è il sorprendente avvio dell’articolo, intitolato Ballata alla Madonna di Czestochova (“Osservatore Romano”, 25.2.1962), scritto da don Giuseppe De Luca (su invito di Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski), a meno di un mese dalla sua repentina morte avvenuta il 19.3.1962 (cfr. “Bailamme”, nn. 5-6, 1999, pp. 11 e sgg.). Egli era nato a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, il 15.09.1898, da una famiglia contadina.
Della sua instancabile e preziosa attività culturale, degna di nota (per i problemi qui trattati) è la cura e la risrampa, accresciuúa con ricchi dati bibliografici, della dissertazione del 1907 di Angelo Roncalli su Il Cardinale Cesare Baronio. Per il terzo centenario della morte, cfr. Angelo Roncalli, Il Cardinale Cesare Baronio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961.
** Cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Note sul “poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996, pp. 14-15.
BASILICATA
Vulture, incanto di papi e imperatori
di Vito Salinaro (Avvenire, 20 maggio 2011)
Re e regine, papi e vescovi ma anche poeti e letterati, musicisti, cavalieri e persino briganti si sono addentrati, nei secoli, tra le ripide pendici di un vulcano spento, il monte Vulture, a nord della Basilicata. Lo hanno fatto per mille ragioni. Ma tutti si sono lasciati rapire dalle misteriose atmosfere e dal fascino arcano di boschi millenari. Dalle distese di faggi e di cerri, di castagni, di aceri e lecci e poi di laghetti e corsi d’acqua che, quasi con pudore, così come è nel carattere dei lucani, degradano verso terreni resi fertilissimi da colate laviche preistoriche e sui quali, introdotti dall’odore della terra bagnata e dal fumo della legna bruciata, come una grande e ordinata parata, si distendono vigneti pregiati.
Sono questi vigneti che, grazie a condizioni climatiche irripetibili, a un sottosuolo spesso tufaceo e bagnato da corsi d’acqua, danno vita a un grande rosso, pieno e severo: l’Aglianico. Il cui primo cantore e sponsor, 2000 anni fa, fu
il poeta latino Quinto Orazio Flacco, nato proprio da queste parti, a Venosa. Non è raro, soprattutto in questo periodo, farsene servire in generosi calici da sposare alle carni di bovini podolici e assaporarlo nei cortili di antiche fortezze o nelle piazze dei numerosi borghi medievali, da queste parti intatti.
Qui, nei centri del Vulture, in estate rivivono usi e costumi medievali. È quel che avviene negli splendidi castelli che Federico II di Svevia volle abitare, nel XIII secolo, ammaliato da paesaggi che ben si prestavano alla passione per la caccia e alla sua amata arte della falconeria alla quale dedicò il trattato De arte venandi cum avibus.
A tutt’oggi i rapaci sorvolano i cieli del Vulture, quasi gelosi degli antichi manieri, tra i quali spiccano quelli di Lagopesole (in territorio di Avigliano), di Palazzo San Gervasio e di Melfi. Ma anche dei fortilizi, oggi ristrutturati, e delle estese masserie regie. Costruito in epoca normanna ma fatto ampliare dal "sacro romano imperatore", il castello di Melfi fu teatro, nel 1231, della promulgazione delle famose Constitutiones Augustales, passate alla storia come Costituzioni melfitane, un simbolo del nuovo concetto di Stato moderno, una grande riforma ispirata al diritto giustinianeo che riorganizzò i diritti feudali riconoscendo anche alle donne la successione ereditaria.
Quando Federico emanò le Costituzioni, Melfi era già da un secolo e mezzo capitale del ducato di Puglia. Del resto, la posizione geografica della città, a metà strada tra la Puglia dominata dai Greci-Bizantini e i territori di Benevento e Salerno dominati dai Longobardi, era infatti considerata strategica già prima delle dominazioni normanna e sveva. Oggi le sale del castello, un tempo utilizzate dall’imperatore, ospitano il Museo archeologico nazionale del Melfese. Una delle tante perle della città, dominata dal campanile di una cattedrale risalente al 1056 la cui imponenza - pari a quella dell’annesso episcopio - rivela l’importanza che Melfi ebbe anche in campo ecclesiale.
Qui, dal 1059 al 1284, furono tenuti ben sei concili papali, dei quali il più importante fu il terzo, indetto da Urbano II nel 1089, che dettò norme di diritto canonico di grande importanza per i secoli successivi. In quello stesso concilio il Papa emanò la tregua Dei, la «pace di Dio» - che concedeva protezione alla popolazione inerme e la rinuncia alle armi durante i giorni santi - e concepì la prima crociata, poi bandita in Francia nel Concilio di Clermont-Ferrand. Il sesto Concilio fu tenuto nella cattedrale di Melfi nel 1284, fu presieduto dal cardinale Gerardo di Parma: si occupò, tra l’altro, dei rapporti con la Chiesa greca. Alcune testimonianze di questa storia straordinaria troveranno spazio nel ricco Museo diocesano, tra i più interessanti non solo a livello regionale, ospitato nell’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo (XI secolo) che si specchia su uno dei due laghi di Monticchio (tra i comuni di Atella e Rionero in Vulture). Il museo sarà inaugurato il prossimo 6 luglio dal presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco.
In 30 minuti da Melfi si raggiunge Venosa, inserita tra i borghi più belli d’Italia, che ha mantenuto molte testimonianze di una storia gloriosa iniziata nel 291 a. C. Meritano una sosta il parco archeologico con terme, domus, anfiteatro, il complesso residenziale ed episcopale, così come l’abbazia della Trinità, mirabile testimonianza architettonica paleocristiana con i preziosi affreschi e le spoglie di Roberto il Guiscardo; sempre nell’antica "Venusia", che oltre a Orazio (la cui abitazione è visitabile) ha dato i natali al madrigalista e musicista principe Carlo Gesualdo (1566 - 1613), sorgono le catacombe cristiane ed ebraiche e il grande castello Pirro del Balzo eretto nel XV secolo.
Di grande suggestione e anch’essa inserita tra i borghi più belli del Belpaese, è Acerenza, a sud della zona del Vulture Melfese, dominata dalla cattedrale dell’XI secolo e sede episcopale tra le più antiche del Sud. Il duomo, riaperto venerdì scorso dopo lavori di restauro, ricalca, sull’idea dell’arcivescovo Arnaldo che lo consacrò nel 1080, il progetto architettonico dell’abbazia francese di Cluny (X secolo), della quale lo stesso Arnaldo fu abate. Il tempio, semplice eppur maestoso, continua ad essere memoria storica "viva" del territorio.
Vito Salinaro
Nella Lucania dei poeti
di Vito Salinaro (Avvenire, 02.12.2011)
«Spalancai una porta-finestra, mi affacciai ad un balcone dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco».
A leggerle velocemente, queste righe del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, si resta forse più ammirati dalla scrittura che dal singolare paesaggio descritto (Aliano, Basilicata). In fondo, si parla di burroni, argille aride, desolazione. Eppure, se Levi decise di farsi seppellire in questo anonimo lembo di Lucania, forse di un simile paesaggio, spoglio e arcano, ci si può anche innamorare. Anche se qui ci sei venuto per forza. Anche se in questa terra ci hai passato 8 mesi e 8 giorni da confinato politico. Qui lo scrittore, pittore e poi senatore torinese, fu destinato dal regime fascista, nel 1935, «siccome pericoloso per l’ordine nazionale per aver svolto... attività politica tale da recare nocumento agli interessi nazionali». Il paese, nelle pagine del famoso libro pubblicato nel 1945 e che denunciò le condizioni di vita di una fetta di Sud, diventerà Gagliano.
Oggi, il piccolo centro lucano, appena 1.100 anime, svettante tra enormi colline di argilla bianca (i calanchi) che tanto evocano paesaggi lunari, è sede del Parco letterario "Carlo Levi". Uno dei tre della Basilicata. Ogni cosa qui evoca le pagine del romanzo leviano. Per certi aspetti lo si rivive. Nei paesaggi, nei gesti, nei dialoghi, nei volti. E nei musei: dalla casa-confino a quello di arte contemporanea, dove trovano spazio le opere pittoriche realizzate, durante il periodo punitivo, dall’indimenticato "torinese del Sud".
Del resto, i parchi letterari servono a tradurre la suggestione dei luoghi con la forza della poesia. E così, quando ti ci ritrovi dentro curiosando per piazze, ruderi, sapori e folclore, sembra di passeggiare tra le pagine di un libro. L’ultimo è stato inaugurato un anno fa a Tursi (Matera). È dedicato ad Albino Pierro (Tursi, 1916 - Roma, 1995), il poeta che, grazie ai suoi versi in dialetto, si è guadagnato un posto d’onore nella poesia italiana del Novecento. Rievocando il paese del ricordo («a terra d’u ricorde»), della fanciullezza, della struggente nostalgia, Pierro ha recuperato e accreditato un linguaggio appartenuto al suo passato e alla sua gente e poi tradotto in tutto il mondo. Negli anni ’90 ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università della Basilicata. Più volte è stato candidato al Nobel per la letteratura.
Oggi il palazzo di piazza Plebiscito dove è nato («u paazze»), ospita, nei piani superiori, la biblioteca Pierro e il Centro studi. Nella graziosa cittadina, i cui primi insediamenti umani risalgono al XII secolo a. C., ci si lascia incantare dal primo nucleo abitativo, sottoposto al castello, denominato Rabatana, circondato da inaccessibili burroni e occupato, tra l’850 e l’890, dagli arabi saraceni che qui stabilirono la loro base. La zona è collegata al resto del paese da una strada, denominata "petrizze", fatta costruire, nel 1600, da Carlo Doria, nipote di Andrea Doria, signore di Tursi. ’A Ravatène è la poesia più significativa e conosciuta di Pierro. Ma non si può venire a Tursi senza visitare il santuario di Anglona (monumento nazionale dal 1931 e pontificia basilica minore dal 1999), luogo simbolo dell’antica diocesi di Tursi-Lagonegro e ultima testimonianza dell’antica città di Anglona. L’attuale struttura è databile tra l’XI e il XII secolo ma risulta l’ampliamento di una preesistente chiesa del VII-VIII secolo.
Viaggiando tra i Parchi letterari della Basilicata, ci si lascia conquistare dalle fedeli rievocazioni storiche che riportano il visitatore al tempo in cui poeti e scrittori hanno composto rime e romanzi. Come accade a Valsinni, sempre nel Materano, sede del Parco letterario "Isabella Morra" (il primo del Centrosud, essendo sorto nel 1993). Isabella è considerata une delle voci più importanti della poesia femminile del ’500. Il suo Canzoniere è assai noto. Una vita cupa quella della poetessa nata intorno al 1520 da una famiglia nobile. Non si allontanò mai dal castello di Favale (l’antico nome di Valsinni), soffrendo la solitudine e trovando conforto nello studio delle lettere e nella poesia. E, più avanti, nella religione, vista come una liberazione dagli affanni dei sogni terreni. Quando Isabella conobbe il vicino feudatario don Diego de Sandoval de Castro, erede del feudo di Bollita (oggi Nova Siri), intravide la possibilità forse di un amore, forse di un sogno di fuga verso terre culturalmente più evolute. Ma i fratelli di lei, accortisi della corrispondenza epistolare tra i due, uccisero Isabella, probabilmente per l’odio nei confronti degli spagnoli. Isabella morì a soli 26 anni.
Fu Benedetto Croce a riscoprirne gli scritti e a recarsi, nel 1928, nei luoghi «dove fu vissuta quelle breve storia e cantata quella dolorosa poesia». Più recentemente, Dacia Maraini le ha dedicato un’opera teatrale. Il Parco letterario di Valsinni di fatto materializza il rapporto tra luoghi e poesia; specie nelle serate estive ("L’Estate di Isabella"), i visitatori sono accompagnati da cantastorie, giullari e menestrelli nei vicoli dell’antico borgo di Favale, dominato dal castello. I personaggi dell’epoca vengono rievocati da attori-animatori in costumi d’epoca. E anche i sapori della tavola meritano un viaggio in quello scenario un po’ onirico che sa ancora regalare una coinvolgente atmosfera rinascimentale.
Vito Salinaro
On line i codici vaticani
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 31 gennaio 2013)
L’INNOVAZIONE
Sì i miracoli tecnologici esistono. Eccome se esistono. A partire da oggi a chiunque, in qualsiasi latitudine del pianeta si trovi, è consentito sfogliare col proprio computer, pagina dopo pagina, i 256 codici miniati che fanno parte del Fondo Palatino della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Manoscritti rarissimi conservati gelosamente in un bunker sotto il Palazzo Apostolico in condizioni ideali - al buio totale, ad un tasso di umidità relativa del 50%, tra i 18 e i 20 gradi centigradi - ma che una gigantesca operazione di digitalizzazione intrapresa da Benedetto XVI ha reso finalmente fruibili.
E’ facile. Basta andare sul sito della Biblioteca (http://www.vaticanlibrary.va) per iniziare uno straordinario viaggio nel tempo e nello spazio. Ci sono voluti due anni, una montagna di lavoro, una equipe di 12 persone impiegate in pianta stabile e una tecnologia all’avanguardia per arrivare ad una riproduzione perfetta e ad altissima definizione.
UN CLIC SUI CAPOLAVORI
Basta un clic e voilà. Dall’elenco dei numeri che appaiono sul sito, dall’uno al 256, tanti sono i volumi riprodotti, si materializzano i capolavori, prendono corpo le immagini, si svelano i colori sapientemente miscelati dai monaci che nel Medio Evo operavano silenziosi facendo arrivare fino a noi questo sterminato giacimento. Evangeliari, commentari, trattati di morale, studi sulla geografia, atlanti di Battista Agnese ma anche opere filosofiche, commedie.
Tra i libri, spulciando, ci sono pure Petrarca e Alighieri. E poi pergamene, classici come il De Officis, un’opera filosofica di Cicerone che tratta dei doveri a cui ogni uomo deve attenersi in quanto membro dello Stato; c’è il registro delle epistole di Gregorio Magno, i Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo che passa in rassegna dei vizi e delle virtù illustrandoli attraverso personaggi ed episodi storici.
L’oro dei capolettera sfavillano illuminando i colori vividi dei fregi arabescati a tempera, racchiudendo frasi latine sulle quali, si sono esercitate schiere di liceali per le versioni.
Eccone una, presa tra tante: «Presso gli antichi nessuna azione, non solo pubblica, ma anche privata, veniva compiuta, se prima non fossero stati presi i relativi auspìci. Questa consuetudine ha fatto in modo che anche oggi gli àuspici partecipino alle nozze: ed anche se costoro non chiedono più gli auspìci, il loro stesso nome rivendica ad essi le vestigia dell’antica usanza».
IL TRATTATO DELL’IMPERATORE
Forse l’opera più curiosa del fondo Palatino, ricchissima di illustrazioni e catalogata al numero 1071 è il trattato di falconeria di Federico II, il De arte venandi cum avibus . L’imperatore tedesco, a capo del Sacro Romano Impero era letteralmente affascinato dalla caccia con il falco da introdurla e diffonderla in occidente. La considerava non solo uno svago ma una manifestazione simbolica del potere legata a precisi rituali.
Federico II (1194-1250) si documentò a fondo, convocando a corte diversi falconieri arabi. Dal mondo arabo imparò l’uso del cappuccio in sostituzione della tecnica «di cigliare», che consisteva nel cucire le palpebre dei rapaci per poi allentare gradualmente la chiusura della sutura con l’avanzare del livello di addestramento.
Il trattato sulla falconeria fu miniato subito dopo la sua morte e contiene due particolarità. La prima è il ritratto, quasi fotografico, dell’imperatore che appare nella pagina di introduzione. «Chi lo realizzò conosceva sicuramente quest’uomo» spiega Ambrogio Piazzoni, vice Prefetto della Biblioteca Vaticana. La seconda cosa singolare riguarda la completezza delle illustrazioni sulle specie di uccelli esistenti, molte delle quali ormai estinte. Gli animali sono talmente ben disegnati e descritti da rendere possibile una analisi del panorama ornitologico in Europa all’epoca federiciana. «Questo trattato è famosissimo e viene consultato persino dagli studiosi di ornitologia».
La fruizione planetaria grazie al digitale portata avanti dal Prefetto monsignor Pasini rientra nella filosofia costitutiva della Biblioteca Vaticana. Fra gli scopi che le diede Niccolo V (1447-1455) c’è proprio quello di raccogliere i libri per «la comune utilità degli uomini di scienza». Fino ad allora il privilegio di consultare gli allora 350 volumi era di esclusivo appannaggio della curia. Con il tempo grazie ad importanti lasciti avvenuti nel corso di cinque secoli il patrimonio librario conservato al di là del Tevere è cresciuto a dismisura fino a diventare il numero uno al mondo.
I codici custoditi sono circa 80 mila; latini, ma anche greci, ebraici, copti, siriaci, armeni, etiopici, cinesi, giapponesi e coreani. Se tutto andrà avanti senza intoppi nell’arco di una decina d’anni saranno interamente digitalizzati. Si tratta di una operazione imponente che richiede però notevoli risorse finanziarie. In Vaticano non hanno timori, la Provvidenza farà il resto...
Appia Antica: il nodo scorsoio dei condoni
Data di pubblicazione: 18.01.2010
Autore: Paris, Rita *
“Conosciamo i giornalisti: si stancano presto”, così sentenziava un funzionario della Pubblica Istruzione circa un anno fa, quando cominciammo a denunciare le prodezze dei Gangsters dell’Appia. L’astuto funzionario si sbagliava: la campagna di stampa ha preso proporzioni considerevoli e l’Appia Antica, com’era giusto, è man mano diventata un banco di prova di tutta un’amministrazione; come era giusto essa ha procurato notevoli preoccupazioni a parlamentari, ministri e senatori, ha promosso voti, interrogazioni....ha spinto ad agire soprintendenti i distratti...ha provocato le dimissioni dell’assessore all’urbanistica Enzo Storoni. La conservazione dell’Appia val bene una crisi in Campidoglio”(da La valle di Giosafat, Il Mondo, 2.11.1954)
Ancora una volta partiamo dalle parole di Antonio Cederna per fare il punto sulla condizione dell’Appia dopo un incontro promosso, nei giorni scorsi, dal Municipio XI, dall’Ufficio antiabusivismo della Regione Lazio, dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma che hanno siglato, da qualche mese, un accordo per collaborare negli interventi contro quelle realizzazioni che arrecano sfregio a questo ambito territoriale.
L’iniziativa si è focalizzata sul fenomeno massiccio delle pratiche relative a concessioni edilizie in sanatoria presso l’Ufficio Condono Edilizio del Comune di Roma riguardanti il Parco dell’Appia: concessioni rilasciate senza alcuna valutazione di conformità con lo strumento urbanistico e con i vincoli e senza l’imprescindibile parere di competenza di chi è preposto alla tutela.
Domande di condono che attendono, a migliaia, di essere esaminate dopo anni dall’avvenuto pagamento di oblazione, che ha quindi creato più che motivate aspettative nei richiedenti; domande relative alle ultime tre leggi sul condono edilizio che, in attesa di un riscontro, hanno dato luogo a un crescendo di abusi, sovrapposti uno sull’altro nel corso degli anni, determinando situazioni che, nella loro complessità, non sono ora più riconducibili a uno stato di legittimità e sono divenute, quindi, ingestibili.
Per questo, la proposta del presidente del Municipio XI di trasferire l’istruzione di queste pratiche agli uffici tecnici del Municipio, non è una provocazione mediatica, ma un’offerta di collaborazione per risolvere il problema delle numerosissime domande inevase, destinate ad aumentare nel tempo. D’altro canto i Municipi rappresentano gli organi dell’amministrazione pubblica a più stretto contatto con il territorio e di questo, come dello stato degli immobili che vi sono presenti, hanno una conoscenza non superficiale.
Per fortuna i giornalisti, come all’epoca dell’articolo di Cederna, non sembrano stanchi dei problemi dell’Appia, ne seguono le vicende, accorrono ad ogni occasione e contribuiscono, forse in forma esclusiva, a tenere viva l’attenzione sul problema. Credo anzi di poter affermare che questa attenzione non sia derivata solo dal “mestiere”, ma dal fatto che questo territorio, con la sua bellezza e la complessità della gestione che ne deriva, suscita un interesse profondo, in molti casi: a quest’attenzione, che non permette di dimenticare, l’Appia deve molte delle sue residue speranze di salvezza.
Ciò che sorprende è che, diversamente dai tempi di Cederna, non sembra che sulla situazione di questa area si manifestino preoccupazioni da parte di chi è istituzionalmente interessato al caso Appia. Il fenomeno dei condoni ha iniziato a manifestarsi nella sua gravità dal 1998 e da allora è stato sempre regolarmente denunciato dalla Soprintendenza Archeologica.
L’interesse istituzionale, all’inverso, è stato scarso, ed ha portato solo a qualche presa di posizione politica che non ha mai condotto a soluzioni efficaci: mai si è tentato un ordinamento delle leggi urbanistiche e di tutela archeologica e paesaggistica, oltre che di quelle più recenti del parco regionale, mai ne è stato condotto l’aggiornamento alla luce delle varie sentenze dei tribunali. La situazione si è a tal punto aggrovigliata che, a questo punto, occorre ribadire al più presto il sistema delle regole che governano questo territorio, affinchè ne sia garantita quella conservazione da tutti auspicata, a parole, ma sottoposta, nei fatti quotidiani, alla prevaricazione di interessi personali sostenuti da uffici legali e delegittimata dall’inerzia delle amministrazioni pubbliche.
Come ha dichiarato nell’incontro del 14 gennaio Vezio De Lucia (cfr. C. A. Bucci in La Repubblica, 15.1.2010) occorre ripartire dal vincolo decretato dal Piano Regolatore del 1965: già allora risultava evidente e, all’epoca, a livello istituzionale, che per l’Appia si fosse superato ogni limite consentito di rovina e devastazione e fosse necessario ripartire con un piano che sancisse chiaramente i valori di questo ambito territoriale e non lasciasse spazio a ulteriori scempi.
Riprendere quelle idee e quelle determinazioni non deve avere il senso di un immobilismo appiattito sul passato, ma deve divenire lo stimolo per una seria ricognizione e presa d’atto della situazione attuale e per ricominciare a decidere e progettare, nell’interesse pubblico, su questo immenso patrimonio storico-ambientale.
*L’autrice è la Responsabile dell’Appia Antica per la Soprintendenza Archeologica Speciale di Roma e Ostia.
Lo sfregio dell’Appia Antica: giù la collina di Cecilia Metella
Autore: Larcan, Laura
Un abuso edilizio a pochi metri dal mausoleo: la regina viarum senza pace. La Repubblica, ed. Roma, 17 giugno 2012 (m.p.g.) *
Un abuso edilizio in piena regola nel cuore dell’Appia Antica e a due passi dal mausoleo di Cecilia Metella. La “bonifica”, così chiamata dal proprietario dell’ettaro protetto da vincoli paesaggistici e ambientali, consiste in uno sbancamento lungo 25 metri eseguito con delle ruspe. Lo spazio era destinato a un piano carrabile, forse per realizzarvi un deposito o un parcheggio. Sul posto è intervenuta la soprintendenza ai Beni archeologici, che ha bloccato le ruspe, sequestrato il terreno e denunciato il proprietario. Ma le difficoltà continuano: gli addetti al controllo sono solo 15 e gli abusi sono sempre più frequenti.
«STO facendo la bonifica del terreno». È questa la giustificazione che B. C. ha dato ieri mattina ai due guardiaparco dell’Appia Antica che si sono presentati nel suo terreno, alle spalle del “Castrum Caetani”. Con la particolarità che la presunta “bonifica” consisteva in uno sbancamento lungo 25 metri, largo 40 e alto oltre tre, eseguito con fior di ruspe, messo in atto abusivamente per livellare un’antica collina e realizzare un piano carrabile, forse per un’attività commerciale legata a un parcheggio o a un deposito di mezzi pesanti.
Un abuso edilizio che si stava consumando in un’area nascosta, interclusa da altre proprietà delimitate da via del Pago Triopio, a soli sessanta metri dall’Appia Antica e dal suo straordinario mausoleo di Cecilia Metella. Un ettaro di terra privata sottoposta a tutti i vincoli previsti dalla legge italiana, da quello archeologico a quello ambientale e paesaggistico.
La segnalazione è arrivata ieri mattina presto alla soprintendenza ai Beni archeologici, che ha subito dato l’allarme al quartier generale dei guardiaparco, il corpo di polizia giudiziaria dell’ente regionale Parco Appia, che sono intervenuti bloccando le ruspe, sequestrando il terreno e denunciando il proprietario. «Ha livellato la collina e messo il pietrame che ha compresso e compattato il terreno per realizzare uno spazio carrabile - racconta il guardiaparco Guido Cubeddu - Un intervento che fa pensare ad una probabile attività commerciale di parcheggio o deposito di materiali dove comunque mezzi pesanti possano fare manovra ». Si tratta di un personaggio non nuovo per i guardiaparco, che ha collezionato segnalazioni e denunce a partire dal 2004, quando un incendio scoppiò nella sua proprietà distruggendo buona parte della vegetazione. Quell’episodio fu seguito da altri sbancamenti nel 2005 e nel 2010, sempre più vicini all’Appia Antica: «È partito da 300 metri di distanza, e oggi è arrivato a 60», commenta Cubeddu.
«Siamo di fronte ad un continuo tentativo di commettere reati a danno del patrimonio archeologico e paesaggistico - denuncia la direttrice dell’Appia Antica, Rita Paris - Questo sbancamento ha distrutto non solo un lembo di macchia mediterranea, ma anche un prezioso strato della storica colata lavica di Capo di Bove, alla base originaria dell’Appia, di cui oggi solo un piccolo tratto è stato musealizzato nel complesso di Cecilia Metella. È una ferita che fa male ad un monumento come l’Appia, di cui cerchiamo con fatica ogni giorno di salvaguardare storia e bellezza».
Ma a fronte del tempestivo blitz di ieri, il corpo dei guardiaparco soffre i tagli delle risorse: «Abbiamo 15 addetti per tutta l’area, un territorio difficile dove l’abusivismo è una delle note dolenti - dichiara il presidente dell’ente regionale Parco Appia, Federico Berardi - Per il futuro, nonostante la Regione Lazio risenta di una crisi generale, auspichiamo di poter avere qualche unità in più. Ma anche ora, nel-l’attività di contrasto all’illegalità, l’ente non abbassa mai la guardia. E l’operazione di oggi ne è un segno».