Alcune pagine (senza le note) dal libro di
L’AVVENTURA EDITORIALE DI «ASPASIA» (1899-1900). GLI ANNI NAPOLETANI
La visione dalla terrazza della casa paterna - che dà sul grande giardino del palazzo dei Pesce - dei filari di peonie e di alberi rari ed esotici; il profumo intenso e inebriante che esalava in primavera dai fiori degli alberi di limone; lo stupore che investiva lo sguardo quando, a volte, si individuava sui rami di quegli alberi la presenza di uccelli dai colori sgargianti e dalla forma straordinaria; i ricordi di mia madre che da quella terrazza si era trovata casualmente ad osservare i rituali amorosi che avevano come protagonisti due fratelli (figli di Piero Delfino Pesce) e due sorelle (figlie di Vincenzo Fanizza), che abitavano in una casa contigua al giardino; la prossimità distanziante da una persona di cui i miei genitori parlavano spesso; il debito inconfessabile che si ha nei confronti del proprio padre; e, infine, il desiderio di scrivere qualcosa che abbia comunque a che fare con la città in cui si è nati. A tutto ciò va aggiunto la casualità legata a un furto: i ladri riuscirono a trafugare parte dei mobili - che, dopo la vendita del palazzo, erano stati trasferiti nella casa dello scrivente -, però, fortunatamente, abbandonarono per terra le lettere contenute in un comò. Sono più o meno queste le motivazioni che - insieme alla lettura di alcune di quelle lettere - hanno dato luogo alla presente ricerca, che è incentrata sulla figura di Piero Delfino Pesce e sulle sue imprese editoriali: la rivista quindicinale «Aspasia» (1899-1900) e la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924). Fu chiamata Humanitas anche la sua casa editrice.
Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era il primo di sette figli di un uomo1 di idee liberali e repubblicane che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli.
Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui incontrò Niccolò van Westerhout 2, un giovane musicista di Mola che viveva da alcuni anni nella città partenopea. Il compositore di origine olandese3 aveva rifiutato di seguire pedissequamente la tradizione operistica italiana e aveva cercato di svecchiarla, rifacendosi principalmente a Riccardo Wagner. La prima rappresentazione del Cimbelino di Van Westerhout era andata in scena, nel Teatro Argentina di Roma, l’8 aprile 1892. E in quell’occasione il pubblico, insieme alla critica, aveva accolto in modo lusinghiero l’esecuzione dell’opera. Da qui la visibilità pubblica del suo autore e i suoi legami con i maggiori rappresentanti della cultura napoletana del tempo. Van Westerhout, infatti, instaurò rapporti amicali con Giulio Massimo Scalinger 4, Roberto Bracco 5, Arturo Colautti 6, Salvatore di Giacomo e Gabriele d’Annunzio.
A proposito di quest’ultimo, va detto che visse a Napoli dal 1891 alla fine del 1893 e sembra ormai certo che van Westerhout abbia contribuito alla sua iniziazione 7 «wagneriana». D’Annunzio andava a trovare spesso il musicista molese nella sua casa e, come si evince dalla testimonianza del comune amico Salvatore Procida, «teneva per ore e ore van Westerhout al piano. Credo che avremo letto, in meno di un anno, dieci volte il Tristano e Isotta. Gabriele scriveva in quel tempo il Trionfo della morte. Tristano ne occupava lo spirito con una morbosa ossessione. Voleva udire e riudire il preludio assillante e pigliava appunti e quasi si attaccava cogli occhi alla pagina che inizia con la tortura del filtro» 8.
Un anno dopo la morte di van Westerhout, avvenuta il 21 agosto 1898, Pesce farà stampare, in memoria del giovane compositore, un numero doppio di «Aspasia». Sempre su questa rivista, nel fascicolo del 25 novembre 1900, verrà riprodotto un articolo del «Mattino» di Napoli, Doña Flor a Breslavia. Si tratta della traduzione dal tedesco di una recensione - apparsa sul quotidiano della Slesia «Schlesische Zeitung» - inerente alla messa in scena, nel Lobe-Theater di Breslavia, della Doña Flor di van Westerhout. Qui l’«anonimo» critico musicale tedesco dice di aver «assistito a un vero trionfo, per quanto postumo di un talento musicale indiscutibile»; che quella di van Westerhout è una «musica piena di fuoco, di profonda efficacia drammatica, ricca di passione e di colorito»; e, infine, che «Doña Flor si darà presto ad Amburgo e Dresda» 9.
Pesce, durante gli anni napoletani, segue le lezioni di Giovanni Bovio 10, il quale contribuisce in modo sensibile alla sua formazione intellettuale e politica. Tuttavia in questo periodo i suoi interessi sono precipuamente musicali:
«A Napoli come talvolta avviene - scrive Pesce -, fioriva la primavera lirica. Al San Carlo, che i giornaletti umoristici avevano ribattezzato San Gaetano per la invadenza, in cartellone, del repertorio donizzettiano, De Lucia e Battistini; al vecchio Fondo, rimesso a nuovo col nome di Mercadante dalla Ditta Sonzogno per cura del leccese Nicola Dasparo, repertorio francese con tenore Castellano e il soprano Agresti, che era una Aida insuperabile. Ma noi studenti si andava più volentieri al Bellini, non perché il posto costasse meno, che gli studenti che non sgobbano non hanno di queste malinconie, ma perché avevamo scoperto un giovane tenore meraviglioso, giovanissimo e già tanto tanto bravo, ed eravamo come fieri e gelosi della valorizzazione di questa nostra scoperta. Vi andavamo per Caruso, e anche e più, per Annina Franco, che, in Faust, era una Margherita ideale, bella brava squisita appassionata cantatrice di cui eravamo tutti pazzamente innamorati, come si può essere innamorati a diciotto anni, quando si distingue assai bene il fascino dell’arte da tutte le altre cose.
Seguitammo in seguito a informarci del tenore nostro e di Annina nostra. Costei non fece più carriera e ne restammo come personalmente offesi, poi che avevamo riposto in lei tanta nostra fiducia. Ma Caruso compensò a usura le nostre aspettazioni. Però non immediatamente. -L’anno dopo lo incontrai una sera al Gambrinus e mi disse con rammarico che aveva inutilmente aspirato a essere l’interprete, nella mia Mola, della Doña Flor, del van Westerhout, scritta per la inaugurazione del nostro piccolo Comunale. Gli era stato preferito, con il baritono Buti e la Bulicioff, il tenore Angioletti, che era stato al S. Carlo un dolcissimo Lohengrin. “Già: io non sono ancora celebre!” mi disse con quell’aria bonaria e spavalda propria dei napolitani di genio che, come i bambini, sentono Achille in seno, con la certezza che non mancherà mai il tempo per metterlo fuori» 11.
Frequenta i caffè, i concerti, i teatri e, attraverso la mediazione di van Westerhout, entra in contatto col variegato ambiente culturale napoletano.
Diventa amico di Roberto Marvasi, un raffinato intellettuale che in seguito fonderà e dirigerà la «Scintilla». Su questa rivista scriverà alcuni articoli in cui denuncerà i legami fra camorra e politica e fra camorra e polizia. Il tema della collusione fra la delinquenza organizzata e lo Stato è, inoltre, presente nel saggio Malavita contro malavita12, che Marvasi pubblicherà, nel 1928, a Marsiglia, dove si è rifugiato per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Si tratta di un opuscoletto che raccoglie una serie di conferenze che egli tenne presso la Sezione del PRI di Marsiglia sul tema della diffusione della criminalità nel Meridione d’Italia negli anni immediatamente successivi alla repressione del Brigantaggio e sull’uso politico che i governi post-unitari fecero di camorristi, mafiosi e delinquenti vari. E’ questo un approccio di straordinaria attualità poiché le sue tesi hanno trovato una ennesima conferma negli accadimenti della nostra storia recente. Questa amicizia continuerà nel tempo ed è testimoniata dalle lettere13 che Marvasi inviò a Pesce nel corso del 1922.
Sempre a Napoli entra in contatto con Alfredo Catapano, un poeta e scrittore destinato a seguirlo, alcuni anni dopo, nell’avventura editoriale di «Aspasia». La sua visibilità pubblica non era, comunque, legata alla produzione artistica, ma a un evento della vita della Napoli di quegli anni. Catapano era, infatti, anche un valente avvocato e, in tale veste, aveva patrocinato la difesa di una ragazza veneta sedotta da un ufficiale di cavalleria. Recatasi nella villa comunale presso il galoppatoio dove l’ufficiale si esercitava per chiedere aiuto per il figlio che doveva nascere si sentì rispondere: «Portalo all’Annunziata». La donna aveva una rivoltella con sé e uccise il cinico seduttore.
L’arringa terminò con queste parole: «Liberatela in nome di tutte le donne che soggiacquero alla violenza, all’inganno, alla frode; di tutte le donne che per un bisogno d’amore credettero alla bontà e alla sincerità delle false promesse; di tutte le donne esposte al vizio, alla miseria, alla fame e che trovano la virtù di risorgere, di vivere e di rigenerarsi nell’amore e nella protezione di un figlio». La Bella Veneziana fu assolta e Napoli impazzì di gioia. Centinaia di donne lo portarono in trionfo cantando in coro: «tu hai difeso a causa, Alfredo Catapano, e mò ‘a gente ‘e mane sbatteno pe’ttè».
Matilde Serao commentò la vicenda: «Se si uccidessero tutti gli uomini che vedono una bella ragazza e se ne innamorano, non crescerebbero più gli uomini» 14. Animo tormentato e malinconico, Catapano morì di morte volontaria il 28 febbraio 1927. Giovanni Napolitano, anch’egli avvocato e poeta, nonché padre del nostro Presidente della Repubblica, gli dedicò un libro e una intensa poesia, Illusione di eterno, che si configura come un potente inno alla vita.
LA BATTAGLIA CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA
Sin dall’alba del nuovo secolo, Pesce manifesta un sensibile interesse per la politica locale1. Da qui la spinta a candidarsi nel 1905 alle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio provinciale di Bari. Grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. L’amministrazione provinciale della terra di Bari era guidata da oltre ventidue anni dal senatore Nicola Balenzano, il quale si era fatto promotore nel 1902 - in qualità di Ministro dei Lavori Pubblici - della legge che istituiva la costruzione dell’Acquedotto Pugliese.
Da alcuni anni, pertanto, la popolazione della Puglia sitibonda viveva in un’atmosfera di rinascita, di autentica svolta epocale: non poteva nutrire alcuna diffidenza nei confronti di quel dono dello Stato che ben presto avrebbe mostrato il suo aculeo velenoso. Timeo Danaos et dona ferentes = Temo i Greci anche quando portano i doni scriveva Virgilio nell’Eneide. D’altra parte il termine tedesco gift sta a indicare il dono e, insieme, il veleno!
Di fatto la legge Balenzano prevedeva che lo Stato si sarebbe fatto carico della costruzione dell’opera solo qualora la gara d’appalto per la costruzione dell’acquedotto fosse andata deserta. Viceversa, la legge prevedeva che la società privata che si fosse aggiudicata l’appalto della costruzione della rete idrica pugliese, facendosi carico di una parte dei costi dell’opera, avrebbe ottenuto la gestione novantennale dello stesso Acquedotto.
Alla gara d’appalto si presentò una «sola» ditta che ottenne la gestione dei lavori. Va da sé che i lavori procedevano con lentezza poiché la ditta appaltatrice era oltremodo interessata a procrastinare nel tempo il completamento dell’opera: il suo obiettivo era, infatti, quello di rallentare il più possibile i lavori per ottenere un vantaggio economico, derivante dalla variazione progressiva dei costi in corso d’opera. E per di più Balenzano esercitava il ruolo ambiguo di Presidente del Consiglio Provinciale di Bari e, contemporaneamente, di consigliere di amministrazione della società appaltatrice dei lavori per l’acquedotto.
Preso atto di tale disegno e visti i legami inconfessabili fra la ditta appaltatrice e alcuni amministratori, Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.
Vitantonio Barbanente ritiene che nel 1911 fu ottenuta una parziale vittoria: la legge Sacchi prevedeva che la Società costruttrice «non avrebbe più anticipato le somme (capitale più interesse del 5%) allo Stato per poi rivalersene con gli introiti dell’esercizio novantennale, ma trovava nello Stato stesso l’anticipatore di quelle somme, mantenendosi per altro immutata la concessione novantennale dell’esercizio. L’unico vantaggio, non certo compensatore del grosso sacrificio della pubblica amministrazione, l’abbreviazione di due anni del termine di consegna del primo stato dei lavori» 2.
Per Pesce l’unica innovazione positiva era la clausola che prevedeva la presentazione di un programma di costruzione con una precisa scadenza poiché per il resto osservava: «Non si comprende quale utile abbia trovato lo Stato ad affidare ad una società di milionari all’uopo improvvisata la costruzione delle diversissime opere murarie. Se lo Stato avesse direttamente appaltato tali lavori a veri costruttori, avrebbe risparmiato la provvisione ultrausuraia ritenuta dalla ditta in questo giro di capitali, avrebbe scelto gli accollatari più adatti pagandoli meglio; avrebbe controllato direttamente la bontà delle costruzioni; avrebbe con le somme risparmiate dato un impulso maggiore ai lavori» 3.
Emerge qui il vizio d’origine che ha avuto conseguenze esiziali sulla vita quasi secolare dell’Acquedotto Pugliese: proprio perché erano interessati a guadagnare il più possibile, i costruttori privati approntarono senza cura i canali e gli invasi e utilizzarono materiali scadenti per le opere murarie, determinando il progressivo decadimento della rete idrica che si trasformò ben presto in un colabrodo.
Contro il disegno di privatizzare la gestione dell’acquedotto che avrebbe dato più da mangiare (ai gestori) che da bere (alla popolazione), Pesce continuò la sua battaglia, scrivendo nel 1912 anche un libello L’Acquedotto Pugliese - Storia di un carrozzone 4.
Nella denuncia dello scandalo, Pesce fu coadiuvato dal settimanale «La folla», diretto da Paolo Valera. A partire dal marzo 1913, sulla rivista milanese, l’«amico di Vautrin» - pseudonimo che Mario Gioda utilizzava quando firmava i suoi articoli su «La folla» - scrisse alcuni articoli al fine di rendere pubblico lo scandalo inerente alla questione dell’Acquedotto Pugliese nella prospettiva di infrangere il «cerchio di silenzio» intorno alle accuse del suo amico Pesce.
Mario Gioda era già da un anno corrispondente da Torino per l’«Humanitas» e pertanto era in contatto epistolare con Pesce, al quale, in data 13 marzo 1913, scrive: «Avrei intenzione di portare sulla Folla la questione Acquedotto Pugliese. Leggo avidamente i tuoi lucidissimi articoli. Però non sono nel cuore della questione. Non saprei su quali spunti particolarmente insistere e scuotere con violenza o su quali uomini politici concentrare lo scandalo. Mandami qualche nota sommaria. Segnami in margine al tuo opuscolo i punti più interessanti. Per intanto questa settimana con un articolo, in cui mi terrò sulle generali, inizierò follaiolmente il dibattito. E’ tempo di infrangere questo cerchio di silenzio intorno alle tue accuse. Ne hai diritto. E qui, credimi, non è l’amico che parla, ma il collega» 5.
Nondimeno dalla lettera inviata da Gioda, in data 4 aprile 1913, a Pesce si evince che l’«amico di Vautrin» non condivideva il modo in cui il suo direttore aveva condotto fino ad allora la campagna di denuncia nei confronti dello scandalo dell’Acquedotto Pugliese: «Ho notato che hai accennato alla pagina della Folla su l’A. P. Ti ringrazierò quando mi farai avere il materiale per proseguire perché così come mi trovo, povero di documenti e di conoscenza del problema, sarei e potrei essere facilmente distrutto. Vero è che all’uopo non mancheresti di intervenire. Valera anzi desiderebbe avere lo scandalo dell’A. P. riesumato da te stesso. E’ poi mia personale impressione che come pubblicista la campagna mossa contro i responsabili dell’immane carrozzone sia da te condotta troppo cavallerescamente, troppo - non so se riesco a spiegarmi - educatamente. Sei troppo generoso. In casi simili sono le pedate e le vociate che occorrono per affrettare l’interessamento pubblico. Con certa gente poi che ostenta un’insensibilità morale elefantesca, i riguardi e la cautela eccessiva non possono essere nella penna dell’epuratore» 6.
Dopo il 31 agosto del 1914 - termine perentorio di scadenza assegnato dalla legge Sacchi alla consegna del primo lotto di lavori -, la vicenda dell’Acquedotto Pugliese comincia a muoversi nella prospettiva indicata da Pesce: le inadempienze della società appaltatrice spinsero tutte le amministrazioni provinciali della Puglia a chiedere al Governo di attivarsi per affidare allo Stato sia il compito di portare a termine i lavori inerenti alla rete idraulica sia la gestione dello stesso acquedotto.
Intanto l’interesse per la politica militante spinge Pesce nel 1909 a iscriversi al Partito Repubblicano Italiano. Ci riferiamo qui a tale data poiché sappiamo con certezza, attraverso alcuni volantini e manifesti, che nel 1909 a Mola erano presenti una sezione del PRI e una sezione del PSI e che, nel luglio 1910, Pesce tenne presso la sede del Circolo Repubblicano Molese delle conferenze «Intorno all’idea repubblicana» 7.
In seguito alla sua iscrizione al PRI, i rapporti fra Pesce e i partiti personali, che avevano contribuito sei anni prima alla sua elezione a consigliere provinciale si guastarono. Da qui si originò una polemica con gli amministratori locali che lo portò a scrivere l’opuscolo Nel basso mondo - Polemiche quasi politiche 8. [...]
Note biografiche sulla figura di Piero Delfino Pesce
di Nicola Fanizza
Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era il primo di sette figli di un uomo di idee liberali e repubblicane che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli. A tale proposito, in un articolo del 1951, Bruno Ricci parla di una sua visita alla villa di Brenca del 1910, situata nell’agro molese: «un sentiero addentrantesi tra ulivi contorti e carrubi giganti, rossastra la terra, portava in breve alla rustica costruzione dove, tra il verde, presso il busto di Garibaldi ci attendeva il garibaldino Angelo Pesce, capelli e barba fluenti, candidi come le vesti, tolstoiano per vita e per aspetto, in compagnia di ricordi e speranze. I ricordi: l’epopea garibaldina. Le speranze: i suoi sette figliuoli (ai quali tutti aveva dato il secondo nome di Delfino per distinguerli dagli altri Pesce non repubblicani)».
Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui segue le lezioni di Giovanni Bovio, il quale contribuisce in modo sensibile alla sua formazione intellettuale e politica.
Conseguita la laurea, Pesce ritornò in Puglia nel 1897 e due anni dopo avviò l’impresa editoriale di «Aspasia», che aveva come sottotitolo «Cronaca d’arte». La rivista, che ambiva a un respiro nazionale, uscì la prima volta a Bari il 2 aprile del 1899 e continuò le pubblicazioni fino al 20 dicembre del 1900. Per quel che riguarda i collaboratori troviamo Luigi Capuana, Salvatore di Giacomo, Lucio D’ambra, Guelfo Civinini e Anton Giulio Barrili e Arnaldo Cervesato
Nel 1901, scrive alcune novelle che vengono pubblicate in volume col titolo di Macchiette; nel 1902, inizia la sua collaborazione con la rivista «La Nuova Parola», con contributi di carattere prevalentemente critico-letterario; sempre nello stesso anno pubblica, presso l’editore Vecchi di Trani - una città che dista circa trenta chilometri dal capoluogo pugliese -, una raccolta di liriche intitolata Preludio; e, infine, nel 1904, porta a compimento la sua riflessione sull’arte, pubblicando, per la casa editrice Laterza di Bari, Riflessi, che si presenta come il suo libro più importante.
A partire dal gennaio 1902, svolge la sua attività editoriale in qualità di redattore capo nella rivista .romana «La Nuova Parola», Il lavoro redazionale gli consente di entrare in contatto con i diversi redattori della rivista - Sibilla Aleramo, Giovanni Amendola e Arturo Lancellotti - nonché con alcuni collaboratori, seppure saltuari, come Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini ed Emilio Cecchi.
Nel 1905, grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. Sono questi gli anni in cui si sta costruendo l’Acquedotto Pugliese e Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.
Nel 1907 si sposa con l’ostunese Caterina Tanzarella- dal matrimonio nasceranno quattro figli.
Nel 1991 pubblica Il diritto; fonda la casa editrice Humanitas; e, infine, la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924), che rappresentò, in tutti i suoi tredici anni di vita, un momento comunque importante per lo sviluppo della coscienza democratica del nostro Paese. Pesce aprì il suo giornale al libero dibattito di idee senza alcun pregiudizio di appartenenza ideologica. Di fatto l’«Humanitas» fu una tribuna aperta a voci diverse: accanto agli articoli di scrittori politici di area repubblicana come Terenzio Grandi, Eugenio Chiesa, Napoleone Colajanni, troviamo anche articoli di scrittori eretici o di difficile collocazione come Mario Gioda, Alfonso Leonetti, Dino Fienga e Tommaso Fiore, nonché gli scritti di poeti e letterati come Anton Giulio Bragaglia, Francesco Meriano, Enrico Cardile, Hrand Nazariantz e Salvatore Quasimodo.
Nel luglio 1922 il partito repubblicano di Puglia, guidato da Pesce, aderisce all’iniziativa unitaria delle forze antifasciste, inserendosi in «Alleanza del lavoro» per preparare «un terreno comune di difesa contro le sopraffazioni, le violenze conservatrici, a sola ed esclusiva tutela di un minimo di fondamentali libertà politiche e civili».
Da qui il suo impegno contro il fascismo e il suo arresto: l’8 agosto fu deferito all’autorità giudiziaria sotto l’imputazione di «formazione di bande armate contro i poteri dello Stato, istigazione a delinquere e complicità in omicidio». Rimase in carcere per un mese finché i magistrati presero atto che le accuse a suo carico erano infondate.
Dopo l’arresto, Pesce non dà tuttavia alcun segno di cedimento. Nel dicembre del 1922, partecipa a Roma al congresso del PRI e parla a favore della linea dell’intransigenza contro la minoranza del partito che sosteneva una posizione accomodante nei confronti del fascismo. L’ordine del giorno approvato fu quello per l’appunto di Pesce: «Il XVI Congresso Repubblicano, preso atto che di fronte alla reazione incombente, si afferma e si fa coscienza di masse la necessità politica nella difesa delle libertà civili ed economiche, delibera di persistere nelle proprie direttive di rigida e fervida intransigenza».
Nel rilevare l’impegno del direttore di «Humanitas» contro il fascismo, Tommaso Fiore nell’articolo Fascismo e Mezzogiorno, pubblicato il 30 ottobre 1923 su «la Rivoluzione Liberale», scrive che in Puglia è rimasta «una voce libera, quella del repubblicano Pier Delfino Pesce, anch’egli nazionalisteggiante, ma una sola, predicante nel deserto». Da qui le persecuzioni fasciste: la casa editrice «Humanitas» fu più volte devastata da fascisti armati; e la stessa cosa accadde alla villa di San Materno nell’agro di Mola.
Il 1924 è l’anno di fuoco di «Humanitas»: in vista delle elezioni politiche, Pesce sostiene l’astensione del PRI, ma, quando nella direzione del partito prevale la tesi della partecipazione, si lascia mettere in lista insieme ad un gruppo di intellettuali borghesi meridionalisti di grande prestigio.
Dopo l’assassinio di Matteotti, Pesce, come tanti altri, riteneva che il crollo del regime mussoliniano fosse ormai inevitabile e accentuò pertanto il tono antifascista della sua «Gazzetta»: chiede le dimissioni di Mussolini e incita alla rivolta. Ma la reazione dei fascisti non si fa attendere: un’irruzione di squadristi - guidati da di Crollalanza? - negli uffici della sua tipografia produce danni irreparabili e la «Gazzetta» di Pesce cessa le pubblicazioni nel dicembre del 1924. Dopo la chiusura di «Humanitas», Pesce riprende la lotta42 contro il fascismo, ma, il 5 aprile 1925, mentre era in corso una riunione per indire una manifestazione contro la soppressione della libertà di stampa e di associazione, viene nuovamente arrestato
Costretto dagli eventi ad abbandonare la sua professione di giornalista e di insegnante - dopo aver insegnato per ventidue anni - Pesce vede peggiorare le sue condizioni economiche. Quello che inizia per lui, dopo la chiusura di «Humanitas», è un periodo di grande depressione che dura circa dieci anni. A tale proposito, la lettera che Pesce scrive a Terenzio Grandi il 1° gennaio 1927 è intensa e, insieme, dolorosa: «Mi sono chiuso nel mio guscio. Dieci tra invasioni domiciliari e perquisizioni; esonerato dall’insegnamento all’Istituto Tecnico per non essere intervenuto alla commemorazione della marcia su Roma; stimato, dicono essi, anche dagli avversarii, ma tenuto in quarantena e sotto controllo. Sono tornato a fare l’agricoltore, il pittore, il musicista; di nuovo faccio anche un po’ l’avvocato. Assisto e noto. La penna si è incantata ma non mi si è spezzata tra le dita; né si è piegata».
A partire dagli inizi del secondo lustro degli anni Trenta, una nuova fioritura spirituale lo riporta ai suoi anni migliori: scrive diverse commedie e, nel 1935, Anton Giulio Bragaglia mette in cartellone, presso il Teatro delle Arti di Roma, una commedia di Pesce intitolata Partita a carte. Sono questi anni di illusioni ma anche di delusioni. E tuttavia non si arrende. Di fatto Pesce viveva nella speranza che le sue opere potessero essere messe in scena nei grandi teatri di Milano e Roma. Nell’attesa si accontentava di rappresentare le sue commedie nel piccolo teatro comunale di Mola.
Pesce morì nel dicembre 1939 per un attacco cardiaco, mentre era intento a mettere in scena la sua commedia, La novella di Natale.
Nicola Fanizza
LA RINASCENZA MEDITERRANEA, L’EUROPA, E IL “MARE NOSTRUM”: IL MEDITERRANEO AL DI LA’ DI OGNI PRETESA “IMPERIALISTICA” DI ORDINE LAICO O RELIGIOSO!!! UN OMAGGIO A PIERO DELFINO PESCE *
RICORDANDO CHE IL FIUME “SELE” è “Un fiume che sfocia in tre mari: nel Tirreno attraverso il suo corso naturale, e nei mari Adriatico e Ionio,attraverso quello artificiale, forzato dall’uomo per mezzo dell’Acquedotto Pugliese che lo ha deviato fino a S. Maria di Leuca e che con il suo tratto terminale diventa fontana monumento (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5205#forum2233028) e, al contempo , RICORDANDO QUANTO IL MEDITERRANEO sia stato (ed è ancora!) un “eterno” campo di battaglie tra “opposti estremismi” ateo-devoti, laici e religiosi (cfr. “Due parole. Un segno rivelativo dei tempi. Una ‘memoria’ del 2004”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=899), CONTRO I SOGNI DI OGNI “PRIVATIZZAZIONE” DELL’ACQUA DEI FIUMI come DELL’INTERO MEDITERRANEO, solleciterei (e sollecito!) L’EUROPA a programmare una immediata ricognizione di TUTTI I FIUMI dell’EUROPA, DELL’ASIA E DELL’AFRICA, che sfociano nel MEDITERRANEO.
P. S. In tempi di “coronavirus” e “cavernicole” illusioni politico-religiose, mi sia consentito richiamare alla memoria la figura di Giovanni Boccaccio e, con il suo lavoro, le origini stesse del Rinascimento italiano ed europeo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421).
In bici da Caposele a Padula e Santa Maria di Leuca, doppia ciclovia e raccordo ferroviario
L’ALTA IRPINIA ENTRA NEL CLUB DEL CICLOTURISMO. Il presidente dell’Ente Foce Tanagro Sele Antonio Briscione candida la stazione ferroviaria di Contursi Terme come hub ferroviario al servizio della Ciclovia dell’Acqua in Campania: i progetti
di Elisa Forte *
Si potrà andare in bici da Caposele a Padula e Santa Maria di Leuca. Si potranno raggiungere le più belle mete paesaggistiche e culturali con apposite segnalazioni e deviazioni, ma soprattutto i turisti potranno raggiungere questi itinerari in treno, facendo scalo a Contursi. Per la cittadina altirpina nella Valle del Sele si concretizza la opportunità del cosiddetto cicloturismo. Caposele avrà una doppia ciclovia, collegata ad un raccordo ferroviario. Il tracciato della ciclovia che interessa le tre regioni, Campania, Basilicata e Puglia
“IN BICI DA CAPOSELE”, I PROGETTI DEL TURISMO SOSTENIBILE. Esattamente un anno dopo l’annuncio, l’Ente Foce Tanagro Sele ha concluso la pianificazione della “Ciclovia del Sele” progettata per collegare i due mari, l’Adriatico al Tirreno, ampliando il tracciato ciclabile finanziato dal Ministero per le Infrastrutture della Ciclovia dell’Acqua. La Regione Campania ha inserito l’opera nel Piano della Mobilità Sostenibile, che sarà approvato e pubblicato a breve, ha confermato Il Presidente dell’ente, Antonio Briscione. La Ciclovia del Sele sarà realizzata con fondi regionali ed europei. Il percorso campano si connettera a quello pugliese. La ciclovia dell’Acquedotto Pugliese, finanziata dal Ministero e quello della Regione Campania, che intende collegare Caposele a Paestum, si incontreranno. Per i turisti ci sarà l’opportunità di arrivare alla ciclovia in treno, facendo scalo a Contursi.
METE CULTURALI E PAESAGGISTICHE DA RAGGIUNGERE IN BICICLETTA. L’Ente Foce Tanagro Sele candida a finanziamento la “Contursi-Paestum” come ciclovia del Tanagro, portandola fino alla Certosa di Padula. L’itinerario è stato pensato per condurre gli appassionati ai siti culturali e paesaggistici più belli e interessanti di questa porzione della Campania ricca di potenzialità attrattive. La mappa prodotta dai tecnici, che in questo ultimo anno hanno lavorato al progetto, prevede infatti anche diverse innervature dal percorso principale, che guardano ai siti di interesse storico e architettonico. Oltre ai tracciati viari esistenti, mappati tutti in Gps, sarà possibile deviare su percorsi dedicati ai beni culturali. L’esempio fornito da Briscione a tal proposito riguarda un tratto per i ciclisti che vorranno raggiungere Villa D’Ayala a Valva senza percorrere il tracciato in uso per le auto.
CICLOVIA E FERROVIA. La progettualità messa in campo dal Parco Sele Tanagro parte dalla necessità di rendere accessibile la ciclovia attraverso collegamenti ferroviari. Per questo, incrocia e rafforza le osservazioni riportate dalla pubblicazione del giornalista Roberto Guido, “La ciclovia dell’Acquedotto Pugliese da Caposele a Santa Maria di Leuca”, edito da Ediciclo. Tiene conto di quanto sostengono il Coordinamento dal Basso della Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese; e della tesi del comitato civico di Contursi Terme sul recupero della tratta ferroviaria Eboli-Calitri. Proprio nel volume scritto da Roberto Guido, il giornalista sottolinea che i mezzi per raggiungere Caposele si snodano soltanto ad Avellino per il trasporto su due ruote, mentre l’hub ferroviario più vicino a Caposele è la stazione ferroviaria di Contursi Terme, già meta turistica termale. In questo quadro, molto importante sarà il progetto della linea ferroviaria Eboli-Calitri, che il 31 gennaio prossimo sarà al centro di un incontro promosso dal Comitato, a cui è stata invitata fra gli altri, la Presidente del Consiglio Regionale Rosetta D’Amelio. Gli attivisti sono chiamati a proporre un ampliamento della rete di collegamenti da agganciare all’investimento del Ministero sulla Sicignano-Lagonegro.
* Fonte: Nuova Irpinia, 18.02.2020.
dagli atti della XXIII legislatura
Il binario unico al centro del dibattito parlamentare di cento anni fa
di Nicoletta Cottone (Il Sole-24 Ore, 14 luglio 2016)
«Se non ci decidiamo a impiantare questi doppi binari, noi soffochiamo lo sviluppo dell’industria, del commercio e del traffico» ferroviario. Il problema del binario unico e delle ferrovie in Puglia, alla ribalta oggi dopo il tragico scontro dei due treni a Corato, è lungo cent’anni. E, ieri come oggi, ha interessato il dibattito parlamentare. Coinvolgendo all’epoca anche la Camera dei deputati del Regno d’Italia. Era lunedì 12 giugno 1911, una giornata come tante altre, di 105 anni fa.
L’intervento del 1911 sullo stato delle ferrovie pugliesi Un vecchio ritaglio di giornale datato 1911 - gelosamente conservato per anni da un mio amatissimo zio, poi perso nel corso di un trasloco, ma restato nella memoria di mio cugino Claudio Gallì - è stato lo spunto per andare a caccia nell’Archivio storico di Montecitorio del discorso alla Camera dei deputati del mio bisnonno, Giovanni Ravenna, deputato dal 1909 al 1913, nella XXIII legislatura del Regno d’Italia. Un intervento che proprio allo stato delle ferrovie pugliesi e alle difficoltà del viaggio sul binario unico era dedicato.
Si discuteva delle spese del ministero dei Lavori pubblici
L’occasione era la discussione sullo stato di previsione della spesa del ministero dei Lavori pubblici per l’esercizio finanziario dal 1° luglio 1911 al 30 giugno 1912. Prima del mio bisnonno, il deputato fiorentino Giovanni Celesia Di Vegliasco aveva sottolineato come ci fossero in Liguria interventi urgentissimi da fare, come la «costruzione dei doppi binari». Il ritardare «la costruzione di questi doppi binari equivale a uno sperpero di ricchezza». All’epoca negli atti parlamentari erano stati quantificati «binari urgenti» per 450 milioni di lire, dei quali 300 milioni «urgentissimi». E il solo raddoppio di binario in Liguria sarebbe costato 150 milioni di lire.
«Le ferrovie finiscono a Lecce»
«Onorevole ministro, altri potrà chiederle, nella discussione di questo bilancio, di doppi binari o di binari nuovi, e forse avrà ragione di farlo, io le chiedo semplicemente che quei binari che esistono nell’estremo Salento funzionino razionalmente», fu l’attacco dell’intervento del deputato Giovanni Ravenna, già sindaco di Gallipoli. «Le ferrovie, possiamo dirlo senza tema di smentita, finiscono a Lecce - spiegò - perché effettivamente fino a Lecce si hanno i collegamenti diretti coi grandi centri. Da Lecce in poi si è serviti dall’esercizio economico: così la Lecce-Zollino-Gallipoli, la Lecce-Zollino-Otranto a Sud del capoluogo, la Francavilla-Novoli-Nardò al Nord-Ovest».
Treni che per il regolamento dell’epoca avrebbero dovuto viaggiare a 35 chilometri all’ora, dichiarò, ma che, orario alla mano, andavano «a una velocità di appena 20 chilometri». I ritardi erano dovuti, più che alla velocità dei treni, alle lunghe soste legate alla carenza di manovali. Con il binario unico, infatti, i manovali dovevano far girare sulla piattaforma le automotrici per consentire l’aggancio dei vagoni e la partenza dei treni. Per andare da Lecce a Gallipoli e a Otranto «occorre - dichiarò - un tempo infinito e ciò arreca un danno gravissimo all’economia dei paesi posti a Sud del capoluogo».
Ecco il racconto del mio bisnonno di un viaggio in Puglia cento anni fa, tratto dagli Atti parlamentari della XXIII Legislatura del Regno d’Italia.
L’indice degli atti parlamentari del 12 giugno 1911 della Camera dei deputati della XXIII Legislatura
«Proprio qualche giorno fa, onorevole ministro, il treno non poteva partire da Zollino, stazione centrale che al contrario manca anche di una pensilina che ripari dalle intemperie e dalla canicola i viaggiatori che ivi si accumulano per i trasbordi, perché mancavano i manovali che dovevano fare girare sulla piattaforma una di quelle famose automotrici. Mi affacciai allo sportello e chiesi che cosa si aspettasse. Mi si rispose che i due operai addetti a quella stazione erano occupati altrove. Dunque due operai in una stazione dove contemporaneamente quattro volte al giorno coincidono quattro treni.
Orbene, si rimase mezz’ora fermi in stazione e quando i due manovali completarono il servizio di un altro treno, come Dio volle, si girò l’automotrice, si attaccò al treno e si partì.
Ed a proposito di queste automotrici (rifiutate altrove perché insufficienti), v’ha chi dice che si siano piazzate sui nostri binari al solo scopo di poterne giustificare la spesa enorme sostenuta per costruirle. E le han mandate precisamente là dove il viaggiatore paga, è mal servito e tace.
Le automotrici troverebbero la loro ragione d’essere nel forte risparmio del carbone. Orbene, mentre una volta partiva un treno da Lecce trainato da macchina ordinaria e poi a Zollino si sdoppiava per Gallipoli e per Otranto, con le automotrici, invece di far partire da Lecce un solo treno, ne partono due, dappoichè queste macchine hanno forza di trazione assai limitata.
E come vede, onorevole ministro, le automotrici che dovrebbero rappresentare una economia sono dispendio maggiore. Ma forse, ella ignora questi piccoli dettagli, poiché ha problemi ben più gravi da risolvere, per aver tempo di pensare a codeste incongruenze.
Per andare da Lecce a Gallipoli e ad Otranto occorre un tempo infinito e ciò arreca gravissimo danno all’economia dei paesi posti a Sud del capoluogo. Eccone un esempio: i negozianti settentrionali che una volta affluivano durante la campagna vinicola nei nostri paesi per gli acquisti delle nostre uve, da quando abbiamo l’esercizio economico si arrestano per le loro provviste nei paesi posti a Nord di Lecce, perché essi dicono che andare oltre Lecce significa perdere tutta una giornata. (...)
Onorevole ministro, forse ella non avrà occasione di visitare quei luoghi, o se mai, vi andrebbe in carrozze che servono a trasportare i dignitari dello Stato. Ma se il suo spirito democratico giungesse al sacrificio di voler viaggiare come i poveri mortali, eviti di sedere al centro della carrozza, perché il suo abito ne uscirebbe imbrattato per lo stillicidio che fa l’olio messo ad alimentare la piccola fiammella centrale; e si guardi bene dal sedere agli angoli perché pei vetri abitualmente rotti o mancanti soffia la poco piacevole tramontana. Come vedono, onorevoli colleghi, per quanta buona volontà egli potesse avere, il ministro non troverebbe posto in quelle carrozze.
Più volte, onorevoli colleghi, fu lamentato questo stato di cose. La Camera di commercio di Lecce, l’Associazione commerciale di Gallipoli, i Consigli comunali sono ormai stanchi d’inviare petizioni e proteste, chè mai nulla si è fatto, e nulla forse potrà farsi fino a che non si faccia intendere alla Direzione generale delle ferrovie che le lontane terre salentine sono anch’esse abitate da cittadini italiani e non da beoti.
E se questo non vorrà intendersi venga una buona volta il Ministero delle comunicazioni. Allora il Parlamento avrà effettivamente di fronte un ministro il quale, conscio della propria responsabilità, non potrà fare una politica ferroviaria al Nord ed un’altra al Sud».
(Intervento del deputato Giovanni Ravenna, già sindaco di Gallipoli - Tratto dagli Atti Parlamentari della Camera dei deputati del Regno d’Italia - XXIII Legislatura - Tornata di lunedì 12 giugno 1911)
Attuazione di misure urgenti a tutela del Fiume Sele: il fiume che sfocia in tre mari
IL FIUME CHE SFOCIA IN TRE MARI
Proteggiamo il Fiume Sele - Petizione popolare per l’attuazione di misure urgenti a tutela del Fiume Sele
I sottoscritti cittadini,al fine di tutelare il Fiume Sele in virtù degli ultimi avvenimenti che hanno attentato alla sua biodiversità, espongono quanto segue.
Da sempre il rapporto tra il fiume Sele e la maggior parte delle sue genti è stato di profondo rispetto ed amore. Già gli antichi poeti, storici e filosofi, nelle loro pagine, hanno decantato il territorio e la magia delle sue acque cioè quella di mutare in pietra qualunque oggetto ligneo che restasse immerso per qualche tempo: Omero, Virgilio, Strabone, Aristotele (IV sec a.c.), Plinio, Silio Italico. Fino ad arrivare a Giuseppe Ungaretti che esalta la bellezza dei luoghi e l’importanza del Sele per “chi ha sete”. È stato via di collegamento tra le aree costiere e l’interno, punto di riferimento delle popolazioni che vedevano in esso il segno delle civiltà.
Luogo di culto religioso con il tempio di Giunone Argiva, Diana Efesina, il Dio Silvano, il culto di San Vito. Luogo di battaglie storiche con la grande e famosa ribellione dei gladiatori di Capua guidati dall’eroico Spartaco.
Luogo di confine geografico con la Lucania. Le sue sorgenti a Caposele, prima delle captazioni, salvavano gli abitanti dalla peste e dal colera.
Un fiume che non crea distruzione (mai si è sentito parlare di piene catastrofiche, calamitose, tragiche) ma solo vita. Oggi dà da vivere a milioni di persone sia con la sua piana fertilissima irrigata dalla stessa sua acqua, sia come elemento vitale per l’uomo: si dissetano milioni di persone.
Rimane ancora, nonostante le eccessive captazioni, uno dei fiumi più puliti d’Italia: la presenza della lontra è la diretta testimonianza. Proprio per questo il fiume Sele, con i suoi numerosi affluenti,merita rispetto ed attenzione. Ancor di più oggi dopo gli avvenimenti verificatesi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro che hanno portato alla morte di numerose trote. Rispetto ed attenzione che devono passare attraverso delle politiche di salvaguardia ambientale e degli habitat, dagli eccessivi emungimenti alla cura degli impianti di depurazione ,all’attenzione su opere pubbliche e private, nonché su spargimenti e scarichi illeciti che incidono negativamente sull’ecosistema fluviale.
Così come è necessario avere una maggiore vigilanza ambientale per tutelare le sorgenti, i bacini idrici e tutto il suo corso. Un fiume che si trova tra due centri quello pugliese e quello campano; portatore di ricchezza sia naturale che economica che non trova le giuste attenzioni, nessuna forma di finanziamento, nessuna forma di investimento, nessuna tutela.Un fiume che sfocia in tre mari: nel Tirreno attraverso il suo corso naturale, e nei mari Adriatico e Ionio,attraverso quello artificiale, forzato dall’uomo per mezzo dell’Acquedotto Pugliese che lo ha deviato fino a S. Maria di Leuca e che con il suo tratto terminale diventa fontana monumento.
In 64 km (bacino idrografico 3.350 Kmq, 88 Comuni, tre province Avellino, Salerno, Potenza) si racchiude la straordinarietà e la bellezza del Sele: uno dei fiumi più importanti d’Italia, uno dei più puliti (almeno fino a pochi mesi fa), sede di una straordinaria biodiversità, fonte di ricchezza economica. Un fiume che incrocia due aree naturali protette della Campania: il Parco dei Monti Picentini, parco naturale regionale e la Riserva Sele-Tanagro , sito di interesse comunitario (IT8050049 e IT8050010)
Questo è il nostro patrimonio da difendere. Alla lentezza delle istituzioni, alla poca attenzione di alcuni enti è la società civile che deve rispondere.Questo è lo scopo della petizione, far aprire le porte chiuse dell’indifferenza verso i problemi che riguardano questo fiume ma, in generale, verso il mondo dell’ambiente che è necessario, fondamentale alla sopravvivenza del genere umano.Per tali ragioni storiche, culturali, geografiche ed ambientali i cittadini
Chiedono
Al Ministro dell’Ambiente, all’Autorità di bacino interregionale del Sele e agli Enti ed Organi competenti
Verifiche dei fattori che hanno danneggiato la fauna ittica (indice di qualità sullo stato del fiume)
Controlli periodici sullo stato del fiume con analisi chimica e microbiologica , di tipo quantitativo e qualitativo dei microrganismi compresa eventuale presenza di inquinanti (tipo arsenico ecc.)
Monitoraggio periodico sul rispetto nel Minimo Deflusso Vitale così come stabilito dalla Autorità di Bacino Campania Sud ed Interregionale del Fiume Sele con Delibera del 31 Luglio 2013, pubblicata sul BURC n.56 del 14 ottobre 2013 (disponibile sul sito http://burc.regione.campania.it)
Istituzione immediata di organi qualificati per la vigilanza e il monitoraggio sistematico atto a garantire la salute dell’ecosistema in modo continuato e persistente
Bonifiche lungo il corso del fiume, compresi gli affluenti, avendo constatato la presenza di un’ingente quantità di rifiuti urbani e speciali
Proponenti: Gruppo Attivo Luciano Grasso
http://www.avaaz.org/it/petition/Ministro_dellAmbiente_Autorita_di_bacino_interregionale_del_Sele_Enti_Attuazione_di_misure_urgenti_a_tutela_del_Fiume_Se/?tFptdib
L’acquedotto pugliese e il referendum
di Nichi Vendola (il manifesto, 3 luglio 2011)
Siamo proprio certi che tocchi alla Puglia il ruolo di campo di battaglia post-referendario? E’ Acquedotto pugliese e la sua ripubblicizzazione l’emblema del male che il referendum ha spazzato via? Più passano i giorni e più mi accorgo che in questa disputa contro la Puglia stanno godendo di un’insopportabile coltre di silenzio omissivo tutti i gestori idrici italiani, pubblici e privati, mai interpellati per adeguarsi ai tempi nuovi aperti con la consultazione elettorale. Accade quindi che i privatisti sconfitti stanno approfittando e consolandosi attraverso il fratricidio culturale che mi vuole colpire, e mentre ciò accade stiamo rischiando di far risvegliare gli italiani in un mondo che non cambia di una virgola.
Oggi decido per questo di tirare fuori dall’ombra e puntare un riflettore esigente su tutti gli ambiti idrici italiani, che ad oggi non paiono smuoversi per rivolgere una richiesta esigente nei confronti dei propri gestori (Acea, Arin, Publiacqua, Hera, ecc.), affinché valutino la possibilità di adeguarsi al risultato referendario. Per far questo ho quindi la necessità di declinare le mie generalità: il mio impegno e le mie decisioni per Acquedotto pugliese.
L’acqua che distribuiamo non sgorga in Puglia ma nelle regioni vicine, alle quali paghiamo il costo industriale della risorsa e il risarcimento ambientale. Ditemi se in giro esiste una dinamica idraulica simile. Il lungo percorso per giungere nelle case del pugliesi ha generato, nell’ultimo secolo, una rete di oltre 21.000 chilometri. Il mondo accademico studia in Puglia gli acquedotti interconnessi e unicursali. Ma non basta.
La morfologia generalmente pianeggiante ha escluso dai testi di fisica letti in Puglia il concetto di spostamento per gravità e da quelli di idraulica il movimento a pelo libero. Ci tocca sollevare, spingere, cioè fare la felicità delle imprese elettriche. Il percorso dell’acqua non finisce all’imbocco dello scarico del lavandino: abbiamo il bisogno di depurarla e il nostro unico corpo idrico è il mare. Altre regioni possono beatamente usare i fiumi e i torrenti, come lavatrici naturali, noi no. Pensate a Milano: il primo impianto di trattamento è del 2005, prima scaricava i propri liquami nell’agonizzante fiume Lambro. Scaricare in mare? Apriti cielo. La balneazione, il turismo e quindi l’economia ne può soffrire. Ecco la risposta, originalità nell’originalità: l’affinamento. Si avvia il processo di affinamento dei reflui per il riutilizzo in agricoltura. In Puglia, con legge approvata durante il mio mandato, l’affinamento è misura di qualità e quantità del servizio idrico integrato, e su google alla voce affinamento emergono solo links pugliesi.
Questo è il contesto storico, idraulico e geomorfologico entro cui la Puglia è costretta ad operare, e vi prego di dirmi se ci sono altri casi che pur lontanamente possono somigliare, in termini di efficienza ed economicità da assicurare. In questo contesto mi ritrovavo ad operare quando i pugliesi mi elessero e nello stesso mi muovo oggi: con minori problemi, lasciatemelo dire, grazie ad una gestione oculata ed efficiente che ho imposto subito, e che però mi espone ingiustamente a dare risposte che ho già dato con le leggi e gli atti del mio mandato. E’ un’ingiustizia per la storia tribolata della Puglia, la quale - e costi quel che deve - non diverrà mai lo scalpo per tacitare i privatisti, che così facendo, altrove e senza il fastidio del clamore, continueranno a favore i loro comodi, o far vincere la demagogia. Ho cominciato il mio mandato con Acquedotto pugliese che registrava perdite per mancata fatturazione, frutto di disorganizzazione e disimpegno, e perdite fisiche pur nella media italiana ma insopportabili per una regione che paga l’acqua alle regioni vicine. Oggi sono ridotte le une e le altre.
Il primo scoglio che ho dovuto superare quando sono arrivato era un bond che abbiamo rinegoziato al 6,92 % annui, eliminando dal paniere il pericoloso titolo (tra gli altri) General Motors. Se non l’avessimo fatto oggi Aqp sarebbe fallita.
La depurazione era affidata a società esterne, oggi è internalizzata. I fanghi della depurazione erano smaltiti con notevoli costi, oggi una sensibile percentuale è trasformata in concime dalla stessa Acquedotto. Gli investimenti erano al rango di una qualsiasi azienda idrica con poche centinaia di chilometri di rete, oggi si fanno nella misura di 200 milioni l’anno per corrispondere ad un piano d’investimenti di 1 miliardo e 500milioni fino al 2018, di cui 500 di contributo regionale ed 1 miliardo ottenuto dal credito bancario. Il credito bancario. Quando sono arrivato le banche non aprivano le loro porte con sollecitudine agli amministratori di Aqp, oggi il rating è maggiore di Fiat, Wind, Piaggio ed altri, e ci fanno trovare le porte aperte per invogliarci a diventare clienti. Con questa "rivoluzione" il mio governo e la mia maggioranza hanno approvato una legge per la ripublicizzazione, superando subito l’ostacolo di dover reperire 12.200.000 di euro per acquistare le azioni detenute dalla Basilicata.
Senza questa operazione finanziaria non avremmo potuto fare alcuna ripublicizzazione, ed oggi mi addolora chi si manifesta perplesso sulla ripublicizzazione, pensando alla mia maggioranza ed ai funzionari regionali che hanno dato il meglio per resistere alle critiche e per fare in modo che la somma utilizzata potesse rientrare nel massacrato bilancio regionale attraverso le riserve straordinarie di Aqp. Mentre tutto ciò accadeva e nello spirito del referendum, mi accoglie una richiesta di eliminare il 7% della remunerazione dalla tariffa, con la mala fede di chi sa che questa richiesta va inoltrata all’autorità regolatrice, cioè ai sindaci pugliesi.
Questa richiesta non è tecnicamente perorabile perché in Puglia la remunerazione non è "profitto", serve a pagare gli interessi alle banche per accedere al miliardo di euro di investimenti già programmati e lo sciagurato bond su cui mi aspetto una class action nei confronti di chi se ne rese protagonista. Io non mi aspetto che i sindaci autorizzino una riduzione tariffaria del 7%, anche perché a ciò corrisponderebbe almeno la proporzionale riduzione degli investimenti: cioè l’acqua, la fogna e la salute per i pugliesi, ed in particolare per quelli più deboli.
L’unico motivo reale di dibattito, e me ne duole non aver potuto soddisfare la richiesta, attiene al quantitativo minimo vitale, che il bilancio regionale non è in grado di assicurare, perché il costo ammonterebbe a circa 70 milioni di euro. Non abbiamo la disponibilità di questa cifra anche grazie al governo nazionale che ha falcidiato le finanze delle regioni, e ciò nonostante stiamo per approvare in consiglio regionale un ordine del giorno per garantire il minimo vitale, attraverso una richiesta ai sindaci di rimodulazione tariffaria, incentrata sul pagamento gradualistico in base al reddito e al principio chi spreca paga, senza modificare il piano degli investimenti.
E’ l’unica soluzione in questo momento, ed è l’unica a causa dei tagli del governo, quegli stessi che mi inducono a chiedere quando arriverà il giorno in cui capiremo che la battaglia generale contro il governo sui tagli appartiene anche ai sostenitori di battaglie settoriali? Quando capiterà che di fronte ad una battaglia settoriale di vitale importanza, come in questo caso, la voce dei sostenitori si leverà più forte, determinata e chiara? Devo aspettare ancora molto per vedermi accompagnato da un presidio permanente aperto sotto Palazzo Chigi?
Avrei potuto trincerarmi dietro la competenza dei sindaci sulla tariffa le sue modifiche, o magari mettermi alla testa di chi ha il diritto di reclamare anche l’impossibile nei confronti dell’autorità regolatrice delle tariffe (sempre i sindaci): vi prego di credermi, avrei saputo fare bene. Ma non è il mio costume. Ho promesso una stagione di riforme e le riforme non si raggiungono prendendo in giro, o eccitando l’orgoglio di una battaglia e così calpestando chi come me vuole soltanto raggiungere per davvero l’approdo comune.
L’allarme dalla Puglia: qui stanno tradendo il voto sull’acqua
di Andrea Orsi (il Fatto, 15.06.2011)
La festa immensa e popolare del movimento per l’acqua pubblica in Puglia è durata poche ore. “Passata la festa, gabbato lo santo”, si leggeva tra i messaggi di allarme lanciati in rete, mentre sul sito del Consiglio regionale della Puglia appariva all’ordine del giorno la proposta di legge per la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese, la maggiore società europea di gestione delle risorse idriche.
Una scelta promessa fin dal 2005 da Nichi Vendola, ma non mantenuta fino in fondo - secondo il comitato pugliese per l’acqua pubblica - grazie a una serie di modifiche volute soprattutto dal Pd. L’articolo 5 della legge - approvata ieri in una lunga seduta pomeridiana - era la parte più contestata dai movimenti, soprattutto nel comma che manteneva la possibilità di affidare attività “strettamente connesse alla gestione del sistema idrico integrato” a società partecipate anche dai privati.
Un passaggio poi cambiato in extremis, specificando che ai privati potranno essere affidate solo “attività rinvenienti dalla gestione del sistema idrico integrato”, escludendo così la fornitura dell’acqua.