Nuovo Sudafrica, corpi liberati in cerca di storie
di Itala Vivan (Liberazione, 24.06.2006)
Un articolo tratto dall’ultimo numero della rivista “Leggendaria” dedicato all’Africa a ridosso della Prima fiera internazionale del libro di Cape Town. E a Roma da oggi una settimana di incontri con gli scrittori e le scrittrici di quei paesi*
Data la sua lunga e tormentata vicenda coloniale e postcoloniale iniziata nel 1652, sino al recente e terribile periodo dell’apartheid dal 1948 al 1990, il Sudafrica, terra percorsa da stirpi diverse e abitata oggi da genti di provenienza la più varia - africani, asiatici, europei - ha una storia letteraria di grande complessità ma anche di straordinaria ricchezza. La complessità nasce dall’intrecciarsi delle lingue e delle culture non di rado disparate l’una rispetto all’altra; la ricchezza è frutto dell’apporto di sontuose e antiche tradizioni africane orali, dal sovrapporsi, nei secoli, della scrittura coloniale di lingua afrikaans e inglese, dai contributi delle popolazioni venute dall’Asia - indiani, malesi, e altri - e infine dal processo di contatto, ibridazione e reciproche influenze che tutto ciò ha provocato e che offre oggi un panorama vario, un autentico arcobaleno di scritture e di lingue. Ma se tante e così profonde sono le differenze, che cosa unisce i mille rivoli delle letterature di questo paese?
Oggi il processo di ricostruzione del sé culturale, oltre che istituzionale e sociale, in atto in Sudafrica rivela la forte tenuta di un tessuto di fondo che unisce le genti e le stirpi, come i loro prodotti letterari, in una trama ben più stretta di quanto non si sarebbe potuto supporre anche fino a vent’anni fa, quando l’apartheid imperversava e i discorsi discriminatori e divisivi avevano di fatto il sopravvento. Nella intensa diversità che caratterizza le forme e le modalità di espressione letteraria orale e scritta è tuttavia sempre presente la consapevolezza implicita, magari anche inespressa o taciuta, di un discorso comune che si riallaccia alla storia, al passato che appartiene a tutti anche se è stato giocato con ruoli assai differenziati e se trova radici in memorie non sempre condivise. L’osservatore è colpito dallo sforzo, visibile in tutti i settori del paese, in tutti i protagonisti del discorso letterario, volto a far emergere le storie individuali e di gruppo per restituire ai corpi liberati dal peso e dalle strettoie della perversa frammentazione dell’apartheid, nonché della secolare oppressione del colonialismo antecedente, una molteplicità di immaginari che contribuiscano a un immaginario comune, anche se non collettivo.
Una volta smantellato l’ordine geopolitico di segregazione spaziale che frantumava il territorio in una dozzina di luoghi “etnici”, le homelands, con i bianchi al centro - collocati in quel che si definiva Repubblica Sudafricana - e i neri alla periferia nelle aree riservate, e tutti, secondo una folle classificazione, rinchiusi nei loro recinti, ecco che le schegge e i brandelli lacerati del territorio sudafricano si ricomposero in un tutto unico aperto a cittadini eguali di un solo Stato basato su principi di eguaglianza. Con quella stessa ricomposizione, siglata con le prime elezioni democratiche del 1994 e con la Costituzione varata nel 1996, le varie lingue del Paese ripresero anch’esse dignità e divennero lingue ufficiali: le lingue xhosa, zulu, sotho, tsonga, tswana, ndebele, venda, swazi e pedi, insieme all’afrikaans e all’inglese, acquisirono un medesimo status e una eguale dignità accanto alle molte altre lingue parlate in Sudafrica, come khoi, san, ebraico, gujarati, tamil, hindi, arabo, portoghese, tedesco, francese, greco e italiano. Anch’esse, le lingue, furono corpi viventi liberati dal nuovo ordine e immessi in una consapevolezza egualitaria che dichiarava rispetto e prometteva protezione e sviluppo.
Il processo di democratizzazione toccò anche le scritture letterarie, liberandole dalla costrizioni e dagli imperativi che sino al 1990 avevano impresso il loro marchio sulla produzione sudafricana e anche sciogliendole dall’incubo etnico. La resistenza culturale e politica, che aveva legato a sé gli scrittori sino al 1990, dominando il discorso letterario non solo per un imperativo morale, ma anche per un profondo bisogno di sopravvivenza e di giustizia, perse la propria ragione d’essere. Se dagli anni Sessanta in poi v’era stata la scrittura dal carcere e dall’esilio, se negli anni Settanta era fiorita la letteratura di protesta e negli anni Ottanta la letteratura popolare e proletaria, ora si smarrì l’impegno politico totalizzante e ci si rivolse alla contemporaneità travolgente del Nuovo Sudafrica, all’urgenza del cambiamento.
I temi dell’attualità coinvolgono ora tutti gli scrittori e ne suggeriscono le scelte, non in modo compulsivo ma lasciandoli liberi di orientarsi in modalità, linguaggi e invenzioni strutturali e tematiche. Ma come nel paese intero si rileva una tendenza a incorporare il passato abbracciandolo tutto come proprio, così nella scrittura il filone della storia affiora dovunque prepotentemente, offrendosi alla coscienza del paese per poterne diventare completamente parte. Si tratta di riconoscere dignità di esistere alle molte storie cancellate e disperse nei secoli o anche solo nei decenni trascorsi, e di raccontarle insieme alle storie coloniali rivisitate e assunte come elementi costitutivi di un passato comune. Come i monumenti e i simboli di ieri non sono stati distrutti con ira, ma anzi, vengono conservati e immessi nel panorama nazionale - si pensi al Voortrekker Monument, o al sacrario dedicato alla lingua afrikaans, entrambi rimasti intatti, o anche a città, piazze e vie che si chiamano ancora con i nomi coloniali o addirittura ricordano gli artefici dell’apartheid - così le frammentate tradizioni di ieri vengono abbracciate in un solo sguardo che proietta sul presente la propria attenzione. Gli scrittori africani escono dall’ombra, nascono nuovi autori anche in lingue africane, senza più sentirsi o doversi mostrare “etnici”, senza dover nascondere nulla di sé, anzi, esaltando le caratterizzazioni e le diversità, gli orientamenti e le specificità visti come elemento unificante e non di divisione.
E’ una travolgente esperienza di libertà, questa, che si rivela benefica per la creatività degli artisti e che nel tempo darà frutti cospicui. Ma già ora, a soli dieci anni dalla fine dell’apartheid, si individuano novità interessanti e si profilano situazioni impreviste, mentre un abbondante flusso di scritture in varie lingue scorre in un Sudafrica che vanta una lunga e importante tradizione letteraria. Se la politica della Repubblica del Sudafrica si immerge profondamente nel continente cui appartiene, impegnandosi nelle emergenze e nelle situazioni di crisi, ma anche suggerendo tematiche di rinnovamento e rinascimento, la letteratura accetta complessivamente di chiamarsi ed essere africana, inglobando in questa sua africanità le componenti postcoloniali di stampo europeo e gli apporti asiatici. Nel divenire veramente africana, questa nuova letteratura sa anche aprirsi a sollecitazioni internazionali e magari offrirsi con un profilo cosmopolita, come spesso accade oggi, in un’epoca in cui coesistono i globalismi e i regionalismi, le internazionalizzazioni e i localismi più spinti. Il mondo ha riconosciuto l’eccellenza della letteratura sudafricana conferendole nel giro di pochi anni ben due premi Nobel, che sono andati a Nadine Gordimer e John Coetzee, maestri indiscussi, noti e apprezzati a livello mondiale. Ma oltre a questi, molti altri sono gli scrittori sudafricani che vengono letti e tradotti anche in Italia, ove si è acceso un vivissimo interesse unito ad ammirazione per la cultura di un paese che è stato artefice di un esemplare cambiamento pacifico grazie anche alla forza delle sue tradizioni, al radicato senso di unità e di giustizia che la letteratura della resistenza aveva testimoniato in passato e che l’indagine sulla storia e la ricerca delle storie conferma ancora oggi.
Oggi, nel 2006, volgiamo lo sguardo indietro a ricordare la splendida poesia della stagione di Soweto, fiorita dopo la rivolta giovanile che trent’anni fa a partire dal 16 giugno 1976 scosse le township sudafricane e impresse una svolta alle politiche della lotta contro l’apartheid, rivelando la presenza di una nuova generazione di resistenti, di combattenti. Era una poesia rapida e vibrante, fatta per essere recitata in pubblico, nell’arena di comunità riunite intorno a uno sciopero o a una bara, dopo una retata o un massacro della polizia di allora. Poesia che riprendeva gli antichi ritmi orali e risuonava dell’eco bellicosa della tradizione africana, e che infiammò gli animi di coloro che riuscirono a udirne il battito rapido e pulsante, gli accenti di accesa rivolta, i singhiozzi di angoscia. Oggi questa poesia sembra lontana, e i suoi autori sono trascurati, anche quando sono ancora in vita, come quel Sipho Sepamla che cantava Ti amo, Soweto, e affermava orgogliosamente, «Questa terra è mia/Perché io sono la terra/La terra si chiama come me». La guerra è finita, si sono deposte le armi, anche le armi della poesia.
* Gli incontri: Chiude Thoko Nkoma
Un numero speciale di “Leggendaria” interamente dedicato all’Africa, alla sua storia e alle sue storie: per conoscere, interrogarsi e “decolonizzare la nostra mente” come affermano le curatrici Anna Maria Crispino e Monica Luongo. Un numero ricchissimo che esce in edizione bilingue (italiano/inglese) ed è stato presentato alla prima Fiera Internazionale del libro africano che si è svolta a Cape Town dal 17 al 20 giugno. Verrà presentato qui a Roma il 27 giugno alle ore 18 presso la Casa internazionale delle donne nell’ambito dell’iniziativa “Leggere l’Africa” promossa dal Comune, dall’Assessorato alle politiche culturali e dalle Biblioteche di Roma.
La rassegna si apre domani nella Biblioteca Elsa Morante di Ostia con un gruppo di autori e autrici di origine africana che scrivono nella nostra lingua come Amara Lakhous e Igiaba Scego;
domenica 25 giugno presso la Biblioteca Franco Basaglia è di scena la Nigeria raccontata in “Sozaboy” (Baldini Castoldi Dalai) da Ken Saro-Wiwa, vittima del regime militare del suo paese.
Lunedì 26 alle ore 18 presso l’Auditorium Goethe-Institut si affronteranno le questioni aperte del colonialismo e postcolonialismo con la partecipazione de Abdourahman A. Waberi autore del romanzo “Gli Stati Uniti d’Africa” (Morellini). Dopo l’incontro (il 28 giugno presso il Goethe-Institut) di Itala Vivan con i Circoli di lettura del Premio Biblioteche di Roma sul tema “Letterature d’Africa” la chiusura è affidata la sera di venerdì 30 alla storyteller sudafricana Thoko Nkoma erede della straordinaria tradizione orale dei griot.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il tramonto dell’Anc in Sud Africa
A più di vent’anni dalla fine dell’apartheid, l’African National Congress ha imboccato la via del declino: sorgono interrogativi sul prossimo futuro del Paese, oggi preda di pericolose turbolenze interne
di Immanuel Wallerstein
Il tramonto dell’Anc in Sud Africa. In Sud Africa una lunga lotta ha portato all’abbattimento del sistema dell’apartheid, e all’indizione di elezioni a suffragio universale. Il principale artefice di questa trasformazione è stato l’African National Congress (Anc) e l’eroe principale di questa lotta è stato il suo leader Nelson Mandela, che con maggioranza schiacciante è stato eletto primo presidente del governo post-apartheid nel 1994. Il risultato elettorale ha dato all’Anc il pieno controllo dell’Assemblea nazionale.
Mandela ha rifiutato di candidarsi alla rielezione nel 1999 e gli è succeduto, per due mandati - il massimo consentito dalla legge - Thabo Mbeki. Jacob Zuma è stato eletto una prima volta nel 2009 e rieletto nel 2014. Mentre i primi due presidenti erano xhosa, uno dei due principali gruppi etnici in Sud Africa, Zuma invece è zulu, e rivendica con orgoglio la propria origine etnica.
Il maggiore partito di opposizione, la Democratic Alliance (Da), formato da gruppi di bianchi liberali organizzatisi già durante il regime dell’apartheid, ha ricevuto inizialmente uno scarso sostegno al di fuori della comunità bianca, che rappresenta ancora circa il 20% della popolazione. Esso ha cercato tuttavia di attirare il consenso degli elettori neri della classe media e negli ultimi anni ha scelto come leader dei politici neri.
L’altro grande partito di opposizione, costituitosi negli ultimi anni, si chiama Economic Freedom Fighters (Eff). Alla sua guida c’è Julius Malema, ex capo della lega giovanile dell’Anc. Malema ha incentrato il suo programma sulla questione irrisolta della terra, proponendo la confisca della terra dei contadini bianchi, che controllano tuttora la maggior parte dei migliori terreni coltivabili. Le sue opinioni provocatorie hanno portato alla sua espulsione dall’Anc, dopo di che egli ha creato l’Eff per perseguire questi obiettivi.
Il 3 agosto di quest’anno si sono tenute le elezioni amministrative. Fino ad oggi, l’Anc è stato il partito di governo in tre delle quattro maggiori città e nelle province di cui queste fanno parte. L’unica eccezione era Città del Capo, dove i neri sono in minoranza e dove il gruppo più numeroso è quello di ascendenza mista, i cosiddetti Coloureds del regime dell’apartheid. Quest’anno, tuttavia, l’Anc ha perso due grandi città a vantaggio della Da (Tswane e Nelson Mandela Bay) e ha conservato con pochissimo margine Johannesburg. L’Eff ha ottenuto risultati migliori del previsto, superando il 10% in diversi centri. Le elezioni amministrative sono state generalmente considerate una grande sconfitta elettorale per l’Anc.
Perché questo è accaduto, e cosa succederà ora? La debolezza dell’Anc ha diverse cause. Una sono le accuse frequenti di corruzione che hanno colpito i capi dell’Anc in generale e il presidente Zuma in particolare. La seconda è il fatto che a vent’anni dalla fine dell’apartheid non è stato attuato alcun programma significativo di restituzione della terra ai neri, e l’Anc non sembra avere in programma iniziative in questa direzione. La terza sono le crescenti difficoltà economiche del paese, causate dalla crescita mondiale della disuguaglianza economica.
Tuttavia, il fattore più importante nel declino dell’Anc è il ricambio generazionale. Nel 2016 la maggioranza degli elettori è nata dopo la fine dell’apartheid. Essi non hanno memoria personale della vita sotto l’apartheid, e quindi non premiano più l’Anc per quello che ha ottenuto, anzi forse non sono nemmeno in grado di capire che cosa abbia significato lottare contro l’apartheid. Si può affermare che l’Anc ha imboccato la via del declino allo stesso modo di altri movimenti di liberazione nazionale, come ad esempio il partito del Congresso in India. Tale processo può solo intensificarsi con il passare degli anni.
Il problema per il Sud Africa è cosa succederà da ora in avanti. Al momento la Da non ha un seguito sufficiente a permetterle di governare da sola a livello provinciale o nazionale, e dovrebbe dunque valutare la possibilità di un’alleanza con l’Eff. Da e Eff hanno però programmi praticamente opposti. Mentre la Da è fondamentalmente un partito neoliberale conservatore, l’Eff sostiene un programma economico di sinistra che prevede in particolare la rinazionalizzazione delle industrie più importanti. La Da ambisce a essere un partito multietnico mentre l’Eff evidenzia aggressivi accenti xenofobi.
E l’Anc? In pratica, anche se non a livello di dichiarazioni politiche, il suo programma, neoliberista in economia e multietnico, non si differenzia granché da quello della Da. L’Anc rischia la completa disintegrazione. È probabile invece che l’Eff continuerà a rafforzarsi. La sua combinazione di linguaggio di sinistra e istanze xenofobe ha avuto successo in molti paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale. Perché non in Sud Africa?
Il Sud Africa, tuttavia, non è un Paese africano come gli altri. Esso ha conferito una solida base di stabilità alla regione dell’Africa australe e non solo. Il suo declino in termini di potere avrà un effetto a catena su un gran numero di Stati. E quale sarà la risposta degli altri membri del Brics che si sono affidati al Sudafrica come prova vivente che i Paesi del gruppo sono realmente interessati all’Africa, il continente più povero?
L’ultima considerazione è chiedersi se vi siano le condizioni affinché nasca dal basso un vero e proprio movimento di sinistra. Può nascere in Sud Africa qualcosa come Podemos o Syriza? Forse, ma nulla del genere si è ancora formato nonostante i coraggiosi tentativi di piccoli gruppi di attivisti.
Dal modello di democrazia che affermava di essere, il Sud Africa è oggi diventato l’epicentro di turbolenze interne che potrebbe essere difficile considerare democratiche.
* IL MULINO, 06 settembre 2016
[Copyright © 2016 Immanuel Wallerstein, used by permission of Agence Global. Traduzione di Giovanni Arganese]
Sudafrica: la famiglia bianca che provò la vita black
di Paolo G. Brera (la Repubblica, 17 Settembre 2013)
Un giorno gli Hewitt, proprietari di una bella casa nel verde di East Pretoria, hanno detto addio al loro mondo di certezze e sicurezza, di comodi sofà e ronde di vigilantes, e si sono trasferiti dieci chilometri e un altro pianeta più in là: alla porta accanto della loro donna delle pulizie, nello slum dei neri di Mamelodi , un villaggio di baracche affogato dalla malavita e dai pidocchi, dall’Aids e dalla droga. Lo hanno fatto per un esperimento di «empatia sociale » durato un mese, nato in sordina e finito sotto i riflettori di mezzo mondo, in un mare di polemiche.
Insieme a Julia e Jessica, i loro angioletti biondi di due e quattro anni, Julian e Ena volevano provare sulla loro pelle di sudafricani bianchi della middle class come fanno milioni di concittadini neri a sopravvivere in una stamberga di lamiera di 9 metri quadrati senza energia elettrica né acqua corrente, con una latrina maleodorante in comune con venti famiglie e un fornelletto a paraffina per cucinare qualche zuppa. «Sai che c’è? Spero che il fornelletto si rovesci e che ci bruciate vivi, nella baracca. Addio», li ha demoliti su twitter una blogger nera,@keratilwe.
Ma il loro esperimento senza apparenti doppi fini - niente libri in arrivo né programmi tv - ha diviso il Paese, tra lodi per il «coraggio» e accuse di «pornografia della miseria»; tra gli abbracci dei vicini di bicocca e le critiche feroci piovute sui social network e negli editoriali: «Hanno cercato e accettato simpatia e lodi per i disagi che altri subiscono quotidianamente senza nulla in cambio», li accusa lo scrittore Osiame Molefe dalle pagine del New York Times, uno dei quotidiani internazionali ad aver ripreso una storia così insolita. Loro si difendono con passione, attraverso il blog mamelodiforamonth. co.za che hanno aperto per raccontare la loro avventura.
«Ci hanno accusato di aver preso in giro la povertà, ma non è così. Come tanta gente nel nostro Paese vivevamo in una bolla. E abbiamo deciso di uscirne ». Dalla loro villetta si sono portati dietro solo dieci dollari al giorno - la stessa somma con cui campano ogni giorno milioni di neri nelle township - e un catino di vestiti, qualche materasso da stendere per terra e poche coperte, troppo poche per le rigide notti agostane dell’inverno di Pretoria, a 1350 metri di altitudine sull’altopiano del Transvaal. Si sono presi la febbre, hanno perso 5 chili a testa e hanno scoperto quanto sia difficile e costoso - il 47% del budget - andare al lavoro con autobus e treni. E «quanto mi è mancata la doccia... una pentola d’acqua calda e un secchio per lavarsi la testa è troppo, per me. Il secchio poi lo devi riusare per i piatti e i vestiti, ci vorrebbe un’ora e mezza per scaldare altra acqua al fornelletto», racconta Ena. Hanno vissuto senza sconti, ma per un mese soltanto: poi loro sono tornati a casa, gli altri no.
Amici e parenti li avevano implorati almeno di lasciare a casa le bimbe. Troppo pericoloso, nel Sudafrica che vent’anni dopo l’apartheid continua a camminare in bilico su un’integrazione difficile e dolorosa. A Pretoria come nel resto del paese, i bianchi si barricano in quartieri protetti da alte mura, con l’incubo perenne di essere rapinati o uccisi da un nero dello slum. Ma gli Hewitt hanno scoperto che c’è un altro Sudafrica: «Non potevamo fare 50 metri senza che ci salutassero e ci fermassero per fare due chiacchiere. Una famiglia nera in un sobborgo bianco verrebbe accolta allo stesso modo?».
Il sogno infranto del Sudafrica
Nel «nuovo» Paese l’apartheid razziale è stato sostituito da quello di classe
A diciotto anni dalla fine del regime segregazionista la nazione è ancora divisa. Il Programma di Ricostruzione ha fallito. Le ricette liberiste hanno prodotto un grande aumento del disagio sociale
di Marcello Musto (l’Unità, 28.11.2012)
COLORO CHE, VISITANDO IL SUDAFRICA, DESIDERANO COMPRENDERE GLI EVENTI CHE HANNO CONTRADDISTINTO LA DRAMMATICA STORIA DI QUESTO PAESE NON POSSONO TRALASCIARE IL MUSEO DELL’APARTHEID. Situato a pochi chilometri dal centro di Johannesburg. Esso rappresenta, infatti, uno dei luoghi più significativi dal quale intraprendere l’angosciante viaggio a ritroso nella storia di uno dei peggiori casi del colonialismo europeo e, al contempo, del razzismo del XX secolo.
Al museo non si accede tutti insieme. Uno ad uno, studenti o membri di famiglie in visita, vengono separati in base al numero del biglietto acquistato e per un’ora, prima di ricongiungersi accanto a una fotografia di Nelson Mandela, rivivranno la tragedia della segregazione. Quelli con i numeri pari entrano dal passaggio riservato ai «bianchi», dei quali, nel corso della visita, si rammentano i privilegi goduti e le atrocità commesse; mentre i dispari, dal varco accanto, ripercorrono il tragitto delle brutalità subite dai neri e coloured. Tutti seguono lo stesso percorso, potendosi spesso guardare e, talvolta, camminare anche fianco a fianco, ma restano sempre divisi da una fredda gabbia di metallo; non si toccano mai e attraversano racconti, documenti ed esperienze di vita completamente differenti.
COLONIZZATORI E RAZZISMO
La data in cui prese avvio la colonizzazione europea è il 1486, anno in cui il navigatore portoghese Bartolomeu Dias superò l’estremo meridionale dell’Africa. Nel 1652, alcuni pionieri olandesi di estrazione calvinista, dediti all’agricoltura e per questo chiamati boeri (contadini), costruirono un primo insediamento come scalo per le navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, la futura Città del Capo.
All’inizio del Settecento, per distinguersi dai colonizzatori inglesi giunti dopo di loro, iniziarono a denominarsi Afrikaner, ma l’evento che sconvolse la storia di questa terra fu la scoperta, nel 1887, delle incredibili ricchezze del suo sottosuolo. In pochi anni tutto mutò: prima della fine dell’Ottocento in Sudafrica veniva prodotto oltre un quarto dell’oro di tutto il globo e la fama dei suoi preziosissimi diamanti non fu da meno. Il razzismo divenne un elemento essenziale della cultura della popolazione di origine europea e finanche il Partito comunista sudafricano, nel 1922, chiamò i minatori alla lotta per un «Sudafrica bianco e socialista».
Nell’aprile del 1994, le televisioni di tutto il mondo mostrarono sterminate code di sudafricani che, per ore, con pazienza e orgoglio, restarono ad attendere un momento a lungo sperato: il primo voto e la fine della segregazione razziale.
A distanza di quasi venti anni si può affermare che le speranze di quei milioni di donne e uomini sono state disattese. La lotta per un Paese veramente democratico è stata fermata dalle politiche neoliberali adottate dall’African National Congress. Il brutale massacro di Marikana dello scorso agosto, così tanto simile alle stragi dei tempi dell’apartheid, nel quale hanno perso la vita 47 minatori in sciopero per l’aumento del loro salario (appena 250 euro al mese dopo 18 anni di democrazia), rappresenta perfettamente il paradosso di questa nazione. A fronte della straordinaria concentrazione di ricchezza ancora esistente un recente studio di Citigroup afferma che il Sudafrica possiede tutt’oggi il sottosuolo più ricco del pianeta, stimando il valore delle sue riserve minerarie in oltre 2.5 bilioni di dollari, nel dopoguerra questo Paese si distingueva, esclusa la popolazione di origine europea, per l’indice di mortalità più alto del mondo. Più della metà degli uomini di origine africana viveva confinata nei Bantustan (che coprivano appena il 13% della sua superficie), territori in cui il potere bianco relegò e talvolta deportò le popolazioni locali in base alle etnie di provenienza. In queste zone la miseria era estrema. Le scarpe giunsero soltanto nel 1979, grazie alla Croce Rossa.
Nonostante la risoluzione di condanna verso le politiche di apartheid, votata dall’Onu nel 1962, il veto opposto da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, potenze che beneficiavano delle esportazioni del Sudafrica, impedì l’espulsione, proposta con la mozione del 1974, del paese dalle Nazioni Unite. Così, sulla rotta del Capo di Buona Speranza, trasportando oltre il 20% del petrolio consumato negli Usa e il 70% delle materie prime strategiche (in particolare platino, cromo e manganese) dell’Europa occidentale, continuarono a navigare oltre 2.000 bastimenti l’anno e le blande sanzioni economiche applicate non intaccarono affatto l’economia e il regime del National Party.
Al momento degli accordi di pace, seguiti alla straordinaria lotta di liberazione, il Sudafrica era una Paese profondamente diviso. La popolazione di origine europea aveva il settimo reddito pro-capite più alto al mondo, mentre quella africana il 120°.
Nei primi quindici anni di libertà, accanto alla figura carismatica e internazionalmente riconosciuta di Mandela, si è distinta quella di Thabo Mbeki. Vicepresidente del primo quinquennio e poi alla guida della «nazione arcobaleno» fino al 2008, è stato Mbeki a definire gli indirizzi economici del paese. Nel 1994, l’Alliance, coalizione elettorale composta dall’Anc, dal Cpsa e dal Cosatu, la principale e più combattiva federazione sindacale sudafricana, con 1.8 milioni di iscritti, avviò, al fine di ridurre l’ingiustizia sociale, il Programma di Ricostruzione e Sviluppo (Rdo). Dopo due anni appena, l’Rdp venne sostituito da un nuovo piano strategico, quello per la Crescita, Occupazione e Redistribuzione (Gear), che avrebbe dovuto consentire, secondo le promesse di Mandela e Mbeki, l’arrivo di investimenti stranieri e, pertanto, del benessere generale. Con il Gear, in realtà, a fare il loro ingresso in Sudafrica furono il neoliberismo e i suoi effetti devastanti.
Il Sudafrica avviò così una stagione di massicce privatizzazioni: liberalizzazione degli scambi miranti all’importazione di merci a costi bassissimi; ingenti tagli alla spesa accompagnati da corposi sgravi fiscali per tutte le grandi società. A dispetto delle promesse di maggiore efficienza, di creazione di nuovi posti di lavoro e conseguente riduzione della povertà, queste misure portarono all’aumento dei prezzi di elettricità, acqua e trasporti; all’abbassamento dei salari e alla flessibilità del lavoro; al peggioramento della situazione ambientale con l’enorme emissione di Co2.
A questa «prima economia» fu affiancata una «seconda», marginale e simile alle ricette del nobel Muhammad Yunus. Attraverso la «miracolosa» trasformazione dei poveri in piccoli imprenditori e mediante la seducente illusione secondo la quale il micro-credito era la possibile panacea di tutti i mali, quest’ultima ha contribuito, anche in Sudafrica, a una depoliticizzazione della povertà. Mbeki ha guidato questa trasformazione anche mediante l’utilizzo di una retorica di sinistra, tinta di nazionalismo africano. Non a caso la sua politica è stata definita Talk left, walk right, ovvero dire cose di sinistra, mentre si va a destra. Impostazione dalla quale non si è affatto discostato Jacob Zuma, l’attuale presidente del Sudafrica.
UN MONITO PER LA SINISTRA
La conquista dei diritti politici è stato un risultato importantissimo che non può essere sottovalutato, tantomeno in un paese con la storia drammatica del Sudafrica. Tuttavia, la svolta promessa dall’Alliance si è arrestata sulla soglia della questione sociale. Di fatto, l’Anc ha rimosso il tema della redistribuzione delle ricchezze dalla sua agenda e, rispetto al 1994, le diseguaglianze si sono addirittura accresciute (al tempo il salario di un lavoratore nero corrispondeva al 13,5% di quello di un bianco; oggi tale rapporto è calato al 13%). L’aumento del disagio sociale nelle aree urbane indica che anche la «Guerra alla povertà», dichiarata dal governo nel 2008, è stata perduta.
Il numero dei disoccupati è superiore a un quarto della forza lavoro del paese un dato maggiore di quello dei tempi dell’apartheid e la percentuale dei senza impiego sarebbe superiore al 30% se nel conteggio fossero inclusi anche i discouraged workers, cioè quanti hanno smesso di cercare un’occupazione. Inoltre, sono diventati precari e retribuiti con un salario inferiore mezzo milione dei precedenti posti di lavoro, mentre molti di quelli da poco creati vengono retribuiti con meno di 20 euro al mese.
Questo drammatico quadro è peggiorato con gli effetti della crisi, ovvero a causa della bolla immobiliare (rispetto alla fine del secolo scorso i prezzi erano aumentati del 389%); del calo dei settori minerario e manifatturiero, dovuto alla forte riduzione della domanda globale; del declino degli investimenti; e della perdita di un milione di posti di lavoro nel corso del solo 2009.
Nel «nuovo Sudafrica» le ingiustizie ereditate dal regime segregazionista si sono ampliate. La nascita di una borghesia «nera» politicamente influente quanto economicamente debole -, di un’altra elite predatoria affiancatasi a quella già esistente, ha arricchito un gruppo di uomini legati all’Anc, ma non ha certo mutato la condizione del popolo sudafricano. L’apartheid razziale si è trasformato in apartheid di classe, parola oggi non più di moda, ma sempre attualissima, e il fallimento sociale dell’Alliance è un monito per tutte le sinistre del mondo. Ci dice che anche i partiti politici di grandi tradizioni, specialmente quando diventano forze di governo, finiscono col tradire gli indirizzi riformistici se smarriscono il proprio radicamento sociale e non sono più sostenuti da una mobilitazione di massa. È da questa, ancora una volta, anche imparando dal Sudafrica, che bisogna saper ripartire.
La Lady bianca contro Mandela "La memoria? Un intralcio"
-Sudafrica, la nuova sfida a 13 anni dalla fine dell’Apartheid
Sindaco di Città del Capo Helen Zille all’opposizione dell’Anc del Nobel per la Pace. "Superare il problema delle razze"
Guida il partito della borghesia. "Siamo di tutti i colori. Per rilanciare il paese dobbiamo dimenticare l’apartheid"
di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 04 LUGLIO 2007)
Città del Capo. Donna, bianca, un passato di sinistra. Helen Zille, 57 anni ben portati, ha tutto ciò che occorre per mettere in crisi il potente African national congress di Nelson Mandela. E’ nata e cresciuta qui, nel Western Cape. Capisce e si fa capire dalla gente, qualità rara per un politico non di colore: parla correttamente l’inglese, l’afrikaans e conosce soprattutto lo xhosa, uno dei dialetti più diffusi. Ha lottato nei gruppi femministi, nei comitati antiapartheid, ha sofferto il dramma dei ghetti, la discriminazione razziale. Negli anni 70, è stata anche una giornalista coraggiosa e ostinata: ha smascherato l’assassinio in carcere di un militante nero, Steve Biko, spacciato dalla polizia per suicidio. Un vero scoop. Impensabile, all’epoca. Un marito, due figli, due lauree, oggi «Lady white», la dama bianca come viene chiamata dai suoi detrattori, incarna a pennello l’icona del nuovo Sudafrica, proiettato verso un futuro che lo indica come paese guida dell’intero Continente. Dal marzo del 2006 occupa la poltrona di sindaco di Città del Capo. Una poltrona importante, l’unica strappata all’Anc. Ma il vero successo, quello che la potrebbe candidare nella corsa alla elezione del nuovo presidente del Sudafrica nel 2009, lo ha conquistato il 6 maggio scorso quando con soli tre voti di scarto ha battuto i suoi concorrenti, un nero e un musulmano, ed è stata proclamata capo della Democratic alliance, il principale partito d’opposizione.
Più che un politico, Helen Zille sembra una manager. Riceve semplici cittadini e importanti uomini d’affari. Risolve casi disperati e chiude accordi miliardari. Visita i quartieri più poveri, ma anche i grandi cantieri che stanno cambiando il centro della città. Parlare con il sindaco di Città del Capo ha un vantaggio: aiuta a orientarsi meglio tra i segnali che tratteggiano il nuovo che avanza in questo paese di 47 milioni di abitanti. Un immenso panorama umano, con una natura incontaminata, attraversata da pascoli sempre verdi, foreste fittissime, montagne che raggiungono i 3 mila metri, fiumi che bagnano valli fertili e coltivate, due oceani, parchi naturali tenuti come goielli e pieni di animali.
Uscito soltanto 15 anni fa da una tra le più brutali discriminazioni razziali, alle prese con l’Aids che, secondo i dati ufficiali, ha contagiato due persone su dieci, il paese che vanta tra i suoi leader ben quattro premi Nobel per la pace vive forse il momento più cruciale della sua storia lunga quasi quattro secoli. Si trova ad un bivio, sta decidendo il suo futuro.
Il sindaco Zille ne è perfettamente consapevole. Ma il fatto che sia una bianca a governare una città dominata dai «coloured» e a guidare un partito accusato di essere «bianco e dei borghesi», non sfugge a chi continua a criticarla. Glielo facciamo notare. La risposta è tagliente, infastidita. «Il colore della pelle c’entra poco o niente», ci dice, mentre osserva su una parete la grande foto di Nelson Mandela appena liberato dopo 27 anni di carcere durante il suo primo comizio pronunciato proprio dal balcone di questo ufficio. «Chi mi ha votato, ha creduto nelle mie idee e nel modo in cui amministro questa città. Io non vedo il tentativo di un ritorno all’apartheid, il bisogno dei bianchi di emergere da un anonimato e di raggrupparsi attorno ad un partito. La Democratic alliance è composta da una maggioranza di neri, di meticci, di indiani. Questo è un paese che ha sofferto, che è rimasto per secoli nell’ombra. Ragionare e agire ancora su base razziale significa chiudersi di nuovo nel ghetto. La memoria è importante. Ma non deve trasformarsi in un’ossessione, perché diventa un blocco, un intralcio».
Città del Capo, rispetto alle altre grandi metropoli sudafricane, come Durban, Porth Elisabeth, East London è sicuramente un caso a parte. Un’isola felice in un paese che lamenta 8 milioni di disoccupati, un alto tasso di criminalità, l’invasione di centinaia di migliaia di rifugiati e emigranti.
Certo, la miseria esiste ancora e si vede. Le grandi periferie disseminate da catapecchie in lamiera, l’una sull’altra, le prese dell’acqua potabile in comune, i muri che le isolano dal resto. L’economia è in ripresa, il rapporto deficit/pil è poco sotto il 10 per cento. Anche se i salari restano molto bassi: è difficile campare con 1400 rand al mese, circa 120 euro. Ma a differenza della maggioranza degli altri paesi di questo Continente, il Sudafrica è riuscito a conservare le infrastrutture lasciate in eredità dal colonialismo e a sfruttarle a proprio vantaggio. Oggi nel paese chiede spazio una nuova classe media, attiva e sempre più ricca, che si è formata con le nuove leve dell’Anc e con cui deve fare i conti la vecchia guardia ancora al potere.
Un compito che non ha assolto invece Robert Mugabe, compagno di lotta di molti dirigenti dell’African national congress, presidente del vicino Zimbabwe. E’ rimasto prigioniero dell’apartheid al contrario. Per compensare i veterani che avevano combattuto 20 anni di guerriglia contro il regime razzista dell’ex Rhodesia di Ian Smith, ha pensato bene, nonostante il responso contrario di un referendum, di requisire le fattorie ai bianchi per regalarle ai neri. Il risultato è stato disastroso. Oggi quello che era considerato il granaio dell’Africa è invaso dalla foresta, la popolazione fa la fame, i prezzi sono alle stelle, manca persino il carburante per far funzionare le centrali elettriche. Per sopravvivere Mugabe deve governare con il pugno di ferro. I vecchi amici dell’Anc lo sostengono, in silenzio. Perché nessun leader africano, tanto meno il presidente Thabo Mbeki, se la sentirebbe di condannare il simbolo della lotta al colonialismo. Meglio tenerlo a galla, con discrezione, per evitare che il flusso di emigranti dallo Zimbabwe, già arrivato a cinque milioni, si trasformi in un fiume umano.
Nelson Mandela ha fatto l’opposto. Ha svolto un ruolo fondamentale nel Sudafrica. «Ma il merito», suggerisce il sindaco Zille, corteggiando i centristi dell’Anc, «resta della classe dirigente che si è formata all’estero e in prigione. Negli anni della segregazione, molti militanti neri sono stati accolti dai paesi del nord Europa, più sensibili ai temi dei diritti umani, anche perché più ricchi, e qui hanno potuto studiare. La stessa cosa è avvenuta in cella. E’ sorta una generazione di amministratori, di economisti, di giuristi, di ingegneri, di medici e di ricercatori che si è messa a disposizione di tutti. Il paese ne ha tratto un enorme beneficio. Deve solo dare nuova prova di maturità».
Oggi più che corrompere, fattore endemico in Africa, si ruba, si rapina, si assale. In Sudafrica, tra le tantissime difficoltà, legate alla mancanza di lavoro e quindi di prospettive, ha finito per prevalere un senso collettivo, l’orgoglio di un popolo che punta al suo riscatto. La lotta contro la discriminazione razziale ha avuto l’effetto di un collante. C’è una grande solidarietà che finisce per allentare la diffidenza che ancora si nota nei locali, nei bar, nelle strade, tra bianchi e neri, tra neri e meticci.
«L’Anc», ricorda il sindaco, «all’inizio, subito dopo la fine dell’apartheid ha svolto un buon lavoro. Ha frenato i particolarismi, ha armonizzato gli squilibri. Ma con il ritiro di Nelson Mandela le cose sono cambiate. Il potere è rimasto saldamente nella mani degli stessi, non c’è stata quella distribuzione delle ricchezze che era stata promessa. Lo denuncia persino il vescovo Desmond Tutu: una voce non certo sospetta».
Per il primo cittadino le vere emergenze del nuovo Sudafrica sono altre. Una forte disoccupazione, soprattutto nelle bidonville abitate dai contadini arrivati in città per sfuggire alla povertà delle campagne, il flusso d’immigrati e poi l’educazione scolastica. «Manca personale specializzato, abbiamo bisogno di tecnici», spiega la Zille, «lo richiede l’enorme sviluppo tecnologico del paese. Oggi ci dobbiamo affidare ai cinesi.
Sono arrivati a frotte. I quali, però, prelevano le materie prime e producono i loro materiali a casa, a prezzi competitivi. In cambio ci realizzano le infrastrutture. Il risultato più evidente è stato il crollo del tessile, settore trainante dell’industria sudafricana. Tutto questo si può evitare: avere dei tecnici, degli specialisti, significa puntare sulla formazione. E qui», aggiunge il nuovo leader del partito di opposizione, «vedo l’altra grande emergenza del momento: la droga. Il nostro paese deve fare i conti con una tossicità spaventosa. Droghe pesanti, come il Tik, la metanfetamina, un mix di cristalli chimici, facile da reperire e soprattutto economica. Questo mi preoccupa. Credo che preoccupi molto meno gli uomini dell’Anc, impegnati a mantenere il potere». Helen Zille conserva lo spirito combattivo che la distinse quando faceva la giornalista per il Rand daily mail. Molti suoi amici dicono che sia cambiata. Lei lo nega, divertita. «Guardo sempre dieci anni avanti», ci spiega quando le chiediamo se sente di aver tradito gli ideali di un tempo. «Voltarsi indietro serve solo a riflettere sugli errori e sui successi. E oggi sono convinta che il Sudafrica, per vincere la sfida del futuro, non può commettere altri errori: bisogna chiudere l’era dell’apartheid». «La battaglia per il riscatto è solo all’inizio», conclude «c’è ancora molto da fare. Ma se la perdiamo, saremo travolti tutti». Fuori, a due chilometri in linea d’aria, decine di gru lavorano giorno e notte. Stanno costruendo uno dei cinque grandi stadi che ospiteranno i prossimi Mondiali di calcio. I primi che si svolgono in Africa. E’ motivo di forte orgoglio, ma è soprattutto una sfida che vale 15 miliardi di dollari e forse, presto, un posto tra i grandi della Terra.