Perché si vuole uccidere Kant?
Una breve nota sull’ultimo lavoro di Maurizio Ferraris, "Goodbye Kant!"
di Federico La Sala *
Ferraris si mangia la coda, e non se ne accorge: mangia "qualcosa, anche senza sapere con esattezza che cosa"! Almeno da quanto si comprende dal riassunto, fatto dallo stesso Autore ("Buonanotte, Immanuel", Il Sole-24 ore, Domenica, 31.10.2004), delle tesi di fondo del "Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura" di Maurizio Ferraris (di prossima uscita nei Tascabili Bompiani), credo che - a questo punto - sia più da dire "Buonanotte, Maurizio", che "Buonanotte, Immanuel"!
A mio parere, l’eredità di Kant non mi sembra che stia nelle risposte sbagliate che ha dato ("asserendo che le leggi che la Mente dà al Mondo sono quelle della fisica, che offre la vera via di accesso a nozioni sicure quanto le operazioni matematiche, e dense, cioè piene di contenuto, come quelle che traiamo dall’esperienza"), ma nella domanda cruciale che si è e ha fatto.
E la domanda fondamentale resta ancora e sempre quella: come è possibile la scienza?, come sono possibili giudizi sintetici a priori?, o, ancora e più radicalmente, come sono possibili quegli esseri che noi siamo -"fatto indubitabile" - due in uno?, come è possibile il soggetto?, come è possibile l’essere umano?
La fallacia di Kant, rimasta in piedi nell’ontologia, è rimasta in piedi solo nella testa di Ferraris - e, a quanto pare, egli è felice di ri-aggirarsi tra gli spettri e i fantasmi ... della risorta chiesa swedenborghiana del nuovo millennio!
Nella realtà, in Europa come nel mondo, ciò che oggi si aggira sempre più forte è il programma di Kant (come di Marx e dello stesso Lenin), il coraggio di sapere e l’uscita dallo stato di minorità - quello di un "altro" mondo (La pace perpetua), possibile!
O forse, mi sbaglio, Ferraris aspira a proporsi - visto che "al posto di individui maturi s’avanzan strani bambocci: adulti mostruosi e mai cresciuti che prendono la vita come un grande gioco, una parodia dei trastulli dei più piccoli" (Francesco Cataluccio) - come il teorico e il teologo dell’Immaturità di massa e ... del berluscattolicesimo aggressivo e galoppante? Boh?! E Bah?! "Con nostalgia e rispetto, ma anche senza nasconderne le debolezze, le macchinosità, i cetrioli e le Trabant", Goodbye Maurizio! Goodbye!
* Il Dialogo, Mercoledì, 03 novembre 2004
NELLA "NAVE" DI GALILEI. IL LABORATORIO DI FREUD E LA LEZIONE DI FACHINELLI
Uno "Spirito" ("Ghost") si aggira ancora per l’Europa. Con i "maestri del sospetto" (P. Ricoeur), Marx e Freud e Nietzsche, è bene riprendere la lettura dell’opera di Shakespeare...
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): #FILOSOFIA "#GOLEMANTICA", #PEDAGOGIA DEL "#CORPOMISTICO" DELLA "MACCHINA" SOCIALE DEL "CAPITALE", E #ANTROPOLOGIA.
KANT (1724-2024). OGGI, ANCORA A #SCUOLA della androcentrica macchina teologico-politica "niceale" (Nicea, 325 - 2025)?!
UN ALTRO "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E’ POSSIBILE: "#SÀPERE #AUDE! (KANT, 1784). Una "brillante" e "sorprendente" sollecitazione di #MaurizioFerraris a uscire dal #letargo (#DanteAlighieri) e a riconsiderare il problema della #liberazione, dell’uscita dallo "stato di minorità":
"BEN DETTO, VECCHIA TALPA" ("AMLETO, I.5)! CON SHAKESPEARE, NON E’ TEMPO DI PORTARSI #OLTRE LA TRAGICA DOTTRINA ATEO-DEVOTA DEL "CORPO MISTICO" DEL RE ("GOLEM"), OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO "CATTOLICO", "UNIVERSALE" - SE NON ORA, QUANDO?!
NOTE:
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE. Una nota *
Vattimo, nemico dei dogmi
Maurizio Ferraris ricorda il filosofo del «pensiero debole» che sfidò le costruzioni metafisiche e il culto della scienza
di MAURIZIO FERRARIS (Corriere della Sera, 19 settembre 2023
Gianni Vattimo è stato per me un amico, un maestro, un antagonista, per cinquant’anni. Devo resistere alla tentazione dei ricordi per dare a chi legge il ricordo di ciò che di lui è destinato a sopravvivere, al di là del trapasso fisico, avvenuto a 87 anni.
Quella che Vattimo ci ha proposto è, prima di tutto, una filosofia della storia, che va nel senso inverso a quella di Agostino. Per quest’ultimo la città dell’uomo, che stava crollando e invecchiando, preparava l’avvento della città di Dio. Per Vattimo è il contrario. È la città di Dio, il mondo di certezze ultramondane e di fondamenti indiscutibili, che sta declinando, non sotto il peso dei tempi e delle invasioni barbariche, ma del mondo moderno, con la sua luce e la sua scienza.
«Dio è morto», ecco la parola fondamentale della modernità. Di fronte a questa sentenza, la risposta più comune è: a questo punto, siamo nel regno dell’umano consegnato a sé stesso, siamo su un piano in cui ci sono soltanto umani, come sostenevano i filosofi laici della generazione precedente a Vattimo, come Jean-Paul Sartre. Oppure bisogna capire sino in fondo la tragedia di questa morte, restaurare la presenza di Dio non più nel suo trionfo, ma nella sua caduta, ed è stata la via seguita dai filosofi cristiani del Novecento, come il maestro di Vattimo, Luigi Pareyson.
La singolarità, l’unicità della scelta di Vattimo, da cui deriva la sua radicale originalità filosofica e il suo inimitabile impasto umano, fatto di tenerezza, ironia e malinconia, è consistita nell’imboccare una terza via. Dio è morto, nulla lo farà resuscitare, ma l’umano non è rimasto l’unico giocatore in campo. Intorno, a dare il clima del tempo e il senso del pensiero, ci sono una memoria, un processo e un progresso.
La memoria è il fatto che, morendo, Dio è rimasto nell’orizzonte del nostro mondo. La globalizzazione non è la corsa di Dio attraverso il tempo e le nazioni, quale se la immaginavano i filosofi che scrivevano ai tempi dell’eurocentrismo. È il ricordo di qualcosa che è stato e non è più, ma la cui assenza è ingombrante come uno spettro, che può prendere tante forme, ma prima di tutto quella del senso di colpa di un pezzo di umanità che in nome di Dio ha preteso di dominare il mondo.
Il processo è la secolarizzazione, il termine con cui originariamente si designava l’adibizione a usi civili di edifici e beni sacri, e che poco alla volta è venuto a designare la presa di congedo dalla trascendenza. Il mondo del Cristo Re era un mondo in cui tutto era sacro, solido, intoccabile. Quello del Dio morto è un lungo addio al passato in cui l’umanità si emancipa dal sacro e dalla violenza che comporta, e riconosce che non ci sono più assoluti. Non abbiamo ucciso Dio per sostituirlo con l’Umano, ma per capire che tutto, nel mondo, è fragile, storico, interpretabile. Non c’è nulla che sia davvero intoccabile perché, d’accordo con Friedrich Nietzsche (il filosofo che, insieme a Martin Heidegger, ha più contato per Vattimo) non ci sono fatti, solo interpretazioni.
Il progresso è lo scopo che deve prefiggersi l’umanità impegnata in questa attraversata del deserto. Perché ovviamente riconoscere la morte di Dio è tutt’altro che una condizione di per sé euforica; il «gran baccanale degli spiriti liberi» di cui parlava Nietzsche potrà anche aver luogo, ma è l’allegria che accompagna un naufragio, dal momento che non è per niente facile vivere senza fondamenti. È come trovarsi nelle sabbie mobili, che possono inghiottire da un momento all’altro l’umanità che scopre di poggiare sul nulla, di essere solo una delle infinite possibilità di una storia che non ha capo né coda.
Come ridare senso a una umanità senza assoluti? Certo non creandone di nuovi e di alternativi, ed è per questo che Vattimo è sempre stato contrario al culto della scienza, che ai suoi occhi era il surrogato mondano della trascendenza perduta. Occorre un diverso movimento, che non sostituisca il vecchio idolo con un nuovo. Bisogna invece riconoscere la dimensione positiva della libertà, nei giudizi, nei comportamenti e nelle scelte, che deriva dal crollo di un muro ben più antico e robusto di quello di Berlino. Ed ecco allora che, scomparso l’unico Dio, un politeismo dei valori è il destino della umanità secolarizzata, e questo destino non è necessariamente catastrofico. Ecco il motivo per cui, diversamente da Nietzsche e dai più, Vattimo ha voluto conferire un valore positivo al nichilismo, che non è solo la corsa dell’umanità verso il nulla ma è anche l’emancipazione da un essere, da un Dio o da un fondamento troppo ingombranti.
Ovviamente, non basta dire addio per costruire un mondo nuovo, ed è qui che il pensiero di Vattimo, come quello di tanti altri filosofi del suo tempo (penso, in particolare, a Michel Foucault e a Jacques Derrida) ha incontrato la difficoltà maggiore. Una decostruzione deve costituire sempre il preludio di una ricostruzione, e se Foucault, per esempio, dopo aver decretato la morte dell’umano e la riduzione della verità a potere si è impegnato faticosamente, negli ultimi anni della sua ricerca, nella rifondazione di un’etica e di una verità andando a scuola dagli antichi, Vattimo ha preso la via di un recupero del cattolicesimo e di un rilancio del comunismo proprio nel momento in cui sembrava sparito dall’orizzonte politico.
Può apparire un paradosso, ma non è così. Del cattolicesimo lo attraeva sicuramente la dimensione di rito senza mito, di religione accomodante e priva di assoluti, ossia, paradossalmente ma non troppo, del migliore alleato della secolarizzazione, perché, nella interpretazione di Vattimo, il cattolicesimo era prima di tutto una tradizione e un modo di vita, ben più che un sistema di dogmi positivi e di credenze assolute. Era, insomma, la religione storica per eccellenza, quella più adatta a orientare l’umanità dopo il trauma della morte di Dio.
Nel comunismo, invece, Vattimo cercava una dottrina di riscatto e di fratellanza per i diseredati, per gli ultimi. Come scrisse una volta, ci vedeva l’esito necessario del pensiero debole, che doveva convertirsi in pensiero dei deboli. È tuttavia importante osservare che l’adesione a questo comunismo ideale ebbe luogo in Vattimo solo dopo la conclusione della parabola storica del comunismo reale, e questo in fondo per lo stesso motivo che lo spinse a riaccostarsi al cattolicesimo.
Nei due casi, infatti, non si trattava, agli occhi di Vattimo, di dottrine vincenti, ma di culti che gli apparivano destinati a un lungo tramonto, nelle cui ombre sempre più lunghe l’umanità avrebbe potuto trovare una via possibile ma non obbligata, l’indicazione di un cammino da percorrere dopo il tramonto degli assoluti. Proprio come la decostruzione, che era stata condotta sotto il segno della debolezza, cioè della interpretazione e della relativizzazione invece che dell’iconoclastia e dello scontro frontale, anche la ricostruzione prendeva la forma, mite e non mitica, del recupero di due religioni tutt’altro che trionfanti.
Questa fuga senza fine dagli assoluti e dalla violenza, la cifra essenziale del pensiero e dell’insegnamento di Vattimo, non è stata semplicemente una teoria, ma il riflesso di una vita. Che non è stata, si badi bene, una vita quieta e pacificata ma, proprio al contrario, una esistenza piena di tragedie, di lutti, di contraddizioni vissute in prima persona e con grande sofferenza. Invece di farsi portatore e testimone di queste lacerazioni, come, ad esempio, Pier Paolo Pasolini, Vattimo ha voluto, per così dire, risparmiarle ai suoi simili, e ha costruito un intero edificio di pensiero per esorcizzarle indicando le vie di una convivenza pacifica dell’umano con sé stesso e con gli altri umani.
È lo spirito che traspare in un aneddoto con cui vorrei chiudere questo ricordo. Avevo poco più di vent’anni, Vattimo poco più di quaranta, e un altro studente e amico che era con noi disse «bisognerebbe sconsigliare la lettura delle Elegie duinesi di Rilke, per il dolore che sprigionano». Era ovviamente un paradosso, ma io - da poco uscito da una scuola cattolica e desideroso di mostrare un atteggiamento da spirito forte - ribattei che mi sembrava una censura, un mettere all’indice. E Vattimo si limitò a dire: «A volte si fanno delle cose non per censura, ma per proteggere dal dolore».
La leggerezza del pensiero debole è stata proprio questo tentativo di «mettere in sicurezza», come si direbbe oggi in riferimento alle catastrofi naturali, l’umanità dallo schianto della morte di Dio.
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE.
Alcune note su "che cosa ha veramente detto GIANNI VATTIMO". *
AUTOIRONIA, "Auto-chiarificazione (filosofia critica)", e Charitas: queste poche parole, forse, possono essere dei segnavia per non perdersi l’essenziale (e, in qualche modo, per distinguere prima e unire poi, quanto ritenuto accoglibile) nel mare della ricchissima produzione culturale e professionale di Vattimo.
UNA NUOVA "FILOSOFIA DELL’AVVENIRE". "«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig #Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà." (cfr. Emiliano Antonino Morrone, "La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore", Corriere della Calabria, 22.09.2023).
Rimettendo storicamente e antropologicamente accanto all’ironia (della dialettica platonico-socratica), anche l’autoironia di Gianni Vattimo, forse, a omaggio delle sue "AVVENTURE DELLA DIFFERENZA" (1980)", in un mondo dove la lanterna è in mano ai #ciechi, è più che opportuno richiamare alla memoria la figura di Diogene di Sinope.
RIPARTIRE DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELL’ATTUALE PRESENTE STORICO. Se nel "processo dell’avvento del valore di scambio come metro di misura totalizzante si nasconde il trionfo dell’homo oeconomicus e della tendenza all’illimitazione del capitalismo", e, ancora, come ricorda Francesco Fistetti, "il recupero del valore d’uso e di un progetto di demercificazione dei mondi vitali va reimpostato a quest’altezza ", come è possibile svegliarsi dal "sonno dogmatico" (Kant)?
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come mi sembra di capire, non è proprio il caso di re-interrogarsi sul tema del "soggetto e della maschera" (Vattimo, 1974) e riprendere la indicazione kantiana del 1784 (riafferrata per i capelli, da Michel Foucault nel 1984), della questione antropologica e ripartire dal "#sàpereaude!", "dal coraggio di servirsi della propria intelligenza"? All’ordine del giorno, oggi, per ri-"orientarsi nel pensiero" (Kant) e per una seconda rivoluzione copernicana (Th. W. Adorno), è augurabile che venga ripresa la lettura dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" del Galileo Galilei, senza queste opere l’uscita dal letargo claustrofilico e terrapiattistico è impensabile.
IL MATERIALISMO DIALETTICO. Superato Kant dialettica-mente (con la hegeliana astuzia della ragione "mascherata" - già di Platone e Cartesio, sia atea sia devota, sia idealistica sia materialistica), si è perso anche il senso e il sottotitolo stesso del lavoro di Marx sul "Capitale" e, con esso, ogni possibilità di portare avanti la stessa "critica dell’economia politica": si tenga presente che per John Dewey, la rivoluzione di Kant è "un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico").
LA "COSCIENZA MISTICA", IL "SOGNO DI UNA COSA", E "IL PROBLEMA DELLA LIBERAZIONE". Paradossalmente, e probabilmente, se avessimo letto di più e meglio sia Giambattista Vico sia Kant a questa ora, in occasione della riflessione sul percorso filosofico di Gianni Vattimo, forse, potremmo capire di più la sua reale vicinanza e consonanza con la "Critica dell’idealismo" della "Critica della Ragion Pura" (1787) e il programma giovanile di Marx, il sogno di una cosa (1843) : "Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro."("Annali franco-tedeschi"). Uno dei più importanti contributi in tale direzione di Gianni Vattimo, a mio parere, è proprio il saggio del 1974: "Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione" (Bompiani, 1974). Negli stessi anni, nelle infinite analisi sul rapporto tra il marxismo ed Hegel, correva il ripescaggio del "sapiente" Bovillus e della sua "rinascimentale" antropologia piramidale.
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Intervista.
Mario De Caro: «Così la filosofia ha riscoperto la realtà»
«L’antirealismo era mosso spesso da ragioni intellettuali e politiche, però ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili»
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 21 novembre 2020)
Da Bentornata realtà, antologia da lei curata nel 2012, a semplicemente Realtà di oggi, una agile monografia che non ha bisogno nemmeno di un sottotitolo. Il realismo è dunque tornato protagonista in filosofia e sulla scena culturale? E che cosa significa questo?
Nell’ultimo paio di decenni il tema della realtà è tornato al centro del dibattito filosofico da cui, per varie ragioni, era stato estromesso nel secolo scorso - risponde Mario De Caro, filosofo con cattedra a Roma Tre e alla Tufts University di Boston, esecutore letterario del grande pensatore americano Hilary Putnam e autore dell’appena pubblicato Realtà ( Bollati Boringhieri, pagine 126, euro 13,00) -. Un fattore fondamentale di quella estromissione fu la cosiddetta “svolta linguistica”, che accomunò il mondo analitico (da Frege e Russell sino a Dummett e Davidson) e quello continentale (con lo strutturalismo, ma in un certo senso anche con Heidegger, il quale con audace metafora georgica aveva proclamato che il linguaggio è “il pastore dell’essere”). Se il punto di partenza dell’indagine filosofica è il linguaggio, la questione della realtà arriva molto dopo - se arriva affatto. Un’altra ragione, parzialmente indipendente, dell’oblio filosofico in cui la realtà cadde per parecchi decenni fu l’avversione verso la metafisica di molti filosofi del secolo scorso: e, di nuovo, ciò avvenne sia in ambito analitico (si pensi al positivismo logico o alla tradizione legata alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, via via sino a Rorty) sia in quello continentale (con il postmoderno, il decostruzionismo, il pensiero debole). Oggi però, appunto, nelle discussioni filosofiche la realtà è tornata in pompa magna: e ciò soprattutto perché l’antirealismo - che pur era mosso spesso da nobili ragioni intellettuali e politiche - ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili.
Viene da chiedersi che cosa sostengono gli anti-realisti e chi sono.
Premessa: ogni filosofo serio è realista su alcune questioni e antirealista su altre. Una filosofia integralmente realista sarebbe trivialmente onnivora, priva di ogni punto di vista; mentre una filosofia integralmente antirealista sarebbe l’equivalente filosofico della pagina bianca di Mallarmé. Ciò detto, con il termine “antirealismo” oggi in genere si intendono le concezioni che, da una parte, rifiutano di considerare l’idea della realtà nel suo complesso come una nozione sensata e, dall’altra, non ritengono che la scienza offra un punto di vista rilevante per le discussioni filosofiche. Queste concezioni hanno avuto una funzione propulsiva e antidogmatica, ma oggi tendono a ripetere stancamente tesi sviluppate nel secolo scorso. E questo è il migliore dei casi, perché nel peggiore l’antirealismo produce forme di irrazionalismo francamente velleitarie e talora pericolose. Spesso, per esempio, il negazionismo rispetto alle questioni sanitarie è prodotto da questo humus filosofico.
La posizione realista non mette tutto a posto. Ci sono domande chiave che il libro affronta. Per esempio: meglio affidarsi ai sensi o alla scienza per indagare la realtà? Che dobbiamo fare con le proprietà qualitative - colori, suoni, odori - che Galileo aveva escluso dalla scienza? Le entità collettive, come le multinazionali, per non parlare di quelle non materiali, come i numeri, che statuto hanno? E i giudizi morali su che cosa si basano?
Un momento cruciale per la discussione su quale sia il migliore realismo filosofico si ebbe tra fine Cinquecento e inizio Seicento, quando l’Italia era ancora il centro della cultura europea (bei tempi). Si sviluppò allora una vivacissima discussione tra un partito culturale di matrice aristotelica e uno di matrice platonica (a cui apparteneva Galileo). Quella discussione riguardava il modo in cui si deve intendere l’idea di realtà naturale. Per i platonici il mondo vero era solo quello delle entità matematizzate di cui ci parlava la nuova fisica: un mondo in cui c’era posto per entità inosservabili (come gli atomi) ma non per le cosiddette “qualità secondarie” (colori, odori, sapori) che sono un prodotto della nostra mente. Questa discussione - con i dovuti aggiornamenti - è viva ancora oggi.
E infatti, in realtà - il gioco di parole è voluto - anche oggi esistono diversi realismi. Definiamo in breve quello ordinario e quello scientifico.
Secondo il realismo ordinario (che è erede del partito aristotelico di cui abbiamo parlato) il mondo reale è sostanzialmente quello che esperiamo con la percezione, mentre la scienza naturale - soprattutto quando fa riferimento a entità inosservabili, come i buchi neri e gli atomi - è un utile strumento di previsione, ma non ci parla veramente del mondo così com’è. Questa opinione è propria della fenomenologia a partire da Husserl e di molta parte della filosofia continentale, ma è anche difesa da uno dei maggiori filosofi della scienza contemporanei come Bas van Fraassen. Il realismo scientifico (difeso, per esempio, da Quine e da Searle) assume il punto di vista opposto. Secondo questa concezione, è la scienza naturale a descrivere il mondo così com’è, mentre la percezione ci mostra un mondo che è nulla più di un’approssimazione di quello reale, perché il mondo reale non è colorato, non ha suoni né odori. Inoltre, mentre oggi i realisti ordinari tendono ad accettare come legittime le pretese oggettive della morale (in fondo, noi percepiamo la sofferenza delle persone e per questo sappiamo che dovremmo aiutarle), molti realisti scientifici sono scettici sull’oggettività dei giudizi morali.
Il più nuovo e interessante è il realismo pluralistico (o naturalismo liberalizzato). Come nasce, che cosa sostiene e come può mettere d’accordo (quasi) tutti?
L’idea fondamentale del naturalismo liberalizzato è che tanto il realismo ordinario quanto quello scientifico sono plausibili nelle rispettive tesi positive ma le accompagnano con tesi negative molto recise e unilaterali. Questa duplice unilateralità dipende da una tendenza intellettuale molto diffusa, ma spesso fuorviante: quella alla semplificazione. La realtà però non è semplice, ma estremamente variegata. Assumendo questa prospettiva, il naturalismo liberalizzato è caratterizzato da un costitutivo pluralismo, sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico: accetta, cioè, che sia la percezione sia la scienza parlino della realtà. Ovviamente, è una posizione complessa: ma di soluzioni semplici, nella storia del pensiero, ne abbiamo avute sin troppe.
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La ragion pratica del web di cui oggi abbiamo bisogno
Perché la cultura filosofica può aiutarci a capire le potenzialità di Internet e i limiti della nostra libertà
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 08.09.2016)
In uno dei suoi ultimi libri, la conversazione con Jean-Claude Carrière “Non sperate di liberarvi dei libri”, Umberto Eco faceva notare che ci sono volute un po’ di generazioni di galline per imparare a non finire sotto le automobili. Ecco il senso minimale di ciò che intendo con “ragion pratica per il web”. Le galline finivano sotto le automobili perché le scambiavano per carrozze.
È quello che accade a noi con il web. In molti lo consideriamo una super-televisione, facendoci trarre in inganno dal fatto che nei due casi c’è uno schermo; ma non si considera che c’è anche una tastiera, e una memoria, e che la differenza è tutta lì: non si tratta di uno strumento passivo di comunicazione, ma di uno strumento attivo di registrazione, di un archivio, di un sistema di costruzione della realtà sociale e di mobilitazione della intenzionalità individuale e collettiva.
Senza registrazione ci sono alberi e sedie ma non matrimoni o titoli nobiliari, crisi economiche o premi Nobel. È così da sempre, ed è per questo che documenti, monumenti e riti sono così importanti. È la documentalità, ancora più importante della “governamentalità” di cui parlava Foucault, perché ne è la condizione: niente potere senza registrazione. La novità è che il web porta alla luce del sole ciò che in altri tempi era un arcanum imperii. Chiamo questa situazione “documedialità” (documentalità + medialità), la condizione emersa con la diffusione capillare del web, e di cui non abbiamo ancora preso le misure: è tra noi, ma non si sa che cos’è, e si pensa magari che sia il sogno di uno scienziato pazzo.
Non lo dico tanto per parlare: nella calma di agosto si è letto un articolo in cui si sosteneva che il grande dittatore, Putin, disporrebbe di un apparato diabolico, il Nooskop, capace di scrutare nelle anime dei suoi sudditi: «una specie di computer collegato a sensori di diverso tipo che registrano tutto quello che è successo nel tempo e nello spazio, fino alle transazioni delle carte di credito e agli scambi di ogni genere tra persone». Che perversità, che malizia: ma perché una specie di computer? E perché chiamare “Nooskop” quello che c’è già, e si chiama web?
Il Nooskop, o web che dir si voglia, è l’assoluto, letteralmente: con ciò che è absolutus, che non ha legami. Il web è una rete che lega tutto e che non è legata a nulla - tranne, e non è un dettaglio, alla rete elettrica. Ma non c’è assoluto che non abbia a sua volta dei vincoli tecnici, si pensi alle dispute trinitarie o ai problemi della dialettica hegeliana.
Dunque, e sia pure con il suoi legami pericolosi con la rete elettrica, il web è l’assoluto: il sapere assoluto, sul mondo e su noi stessi. La mobilitazione è il risultato primario di questo assoluto. Siamo continuamente stimolati ad agire, a fare cose (nel caso minimo, a rispondere). Il web è il solo apparato che può spingere qualcuno a lavorare dovunque e a qualunque ora, e magari a farlo gratuitamente, per esempio alimentando i social network o dando, attraverso la propria attività in rete, informazioni su di sé utili a terzi.
Perché è impossibile non rispondere all’appello? Come funziona il comando? Per responsabilizzazione: hai ricevuto il mio messaggio, so che lo hai ricevuto (specie se hai whatsapp), tutto è registrato, bisogna che tu risponda altrimenti è come se tu distogliessi lo sguardo dal volto dell’altro. Per ritorsione: se non mi rispondi, la prossima volta che mi cerchi non rispondo, e alla lunga sarà la morte civile. Per minaccia: se non mi rispondi, ci sono decine (centinaia, migliaia) di altri che risponderanno al tuo posto. La base di questi atteggiamenti è la registrazione. All’epoca del fisso, le chiamate non lasciavano traccia, adesso ognuna lascia traccia, e in gran parte sono scritte - non ci sono scuse, siamo colpevoli.
Si tratta di alienazione, come si dice e si ripete? No. La tecnica non è alienazione, ma rivelazione di quello che noi siamo, animali bisognosi di tecnica, e prontissimi a scambiare una libertà immaginaria con una sicurezza e un conforto reali. Niente è più falso della sentenza di Heidegger secondo cui solo l’uomo ha un mondo, mentre l’animale sarebbe povero di mondo. Solo gli umani, per esempio, sanno, e fin troppo bene, che cosa sia la povertà materiale e soprattutto solo gli umani sperimentano, in loro e nel loro prossimo, la povertà di spirito, e se “avere un mondo” ha un senso qualsiasi, questo si rivela nella povertà piuttosto che nella ricchezza.
Il bastone è la più rudimentale delle tecnologie, ma lo smartphone è il più sofisticato dei bastoni. Se le cose stanno così, bisogna capovolgere la prospettiva: solo l’uomo è povero di mondo e proprio per questo ha bisogno di tecnica, e anzitutto di quelle tecniche capitali che sono la cultura e le libertà, cioè appunto la ragion pratica.
Che siano tecniche lo si capisce dal fatto che richiedono esercizio, abilità, istituzioni e fatica: cultura e libertà non scendono dal cielo. Che siano capitali dipende dalla circostanza per cui cultura e libertà sono le uniche capaci di uno sviluppo riflessivo. Nessuno ha previsto gli sviluppi della ruota, del fuoco, della scrittura o del web, ma ognuna di queste tecniche ha aiutato la cultura a rispondere alla domanda: che cosa è l’uomo? E questa consapevolezza ha insegnato a quell’altra tecnica che è la libertà a rispondere, con l’azione politica e con la decisione morale, agli imperativi di altre tecniche, che sono tassativi solo per chi (in genere, per mancanza di cultura) pretende che lo siano.
Di qui l’esigenza, anzitutto per il web, di una basilikè téchne (la tecnica politica che cerca il meglio per la società) per esprimersi con Platone, e di una educazione della volontà, come diceva Kant. Cioè appunto di una ragion pratica. Sembra ovvio ma non è così: basti considerare che la tecnica sembra riassumersi ancor oggi, nei programmi di insegnamento, nella trinità Inglese-Internet-Impresa, e che la riflessione più critica si limita (lo rivela benissimo lo sgomento per il Nooskop) a richieste di tutela della privacy. Ma la tecnica non è solo (per fortuna) una nuova lingua sacra in cui manifestare azioni di cui non si capisce il senso, né la libertà può consistere nella libertà puramente negativa del non lasciare tracce, del diritto all’oblio.
Sarebbe impotenza e in molti casi ingiustizia. No: la ragion pratica del web deve consistere in una libertà positiva, e la speranza va riposta nel progresso di quella tecnica peculiare che è la cultura umanistica. La cultura è ragion pratica. Non è erudizione, è il tentativo di capire il presente e di trasformarlo, anzitutto guardando all’umano senza farsi troppe illusioni.
È proprio di qui che si deve partire, per rilanciare la cultura che, ripeto, non è il contrario della tecnica, ma è la tecnica in senso eminente, ed è anche l’unica tecnica che può, in linea di principio, essere guidata da una ragion pratica - dove “pratico” va inteso in senso kantiano: ciò che è possibile attraverso la libertà, una libertà che è a sua volta una tecnica, la più difficile.
Cambiare il mondo è un gesto individuale
Il realismo è la denuncia delle trasformazioni sociali che si vorrebbero realizzare in poltrona o in panciolle
Non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come alienata da entità vaghe, il Capitale, la Tecnica, la Storia
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 10.05.2016)
Il caso di Dimitar Josifov Pešev, il “giusto” che con una lettera al premier bulgaro salvò decine di migliaia di ebrei Un esempio di come il bene o il male si perseguano con azioni reali e non soltanto con il pensiero Dimitar Josifov Pešev, uomo senza qualità e senza eroismi, politico di seconda fila in una piccola nazione (era vicepresidente del Parlamento bulgaro), aveva accettato senza obiezioni le leggi antisemite introdotte nel suo Paese, non aveva firmato proteste o manifesti. Ma quando, il 7 marzo 1943, apprese che stava per essere avviata la deportazione di 48 000 ebrei, che lui non aveva mai creduto possibile, scrisse al primo ministro denunciando il fatto, riuscì a ottenere la firma di altri 43 parlamentari, e suscitò uno scandalo che costringerà lo zar di Bulgaria a resistere alle richieste dei nazisti.
Scriveva Pešev: «Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali».
Nessun ebreo sarà deportato dalla Bulgaria. La disubbidienza non basta, e la resistenza si deve trasformare in esemplarità: non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come, alienata da entità numinose e vaghe (il Capitale, la Tecnica, la Storia). Ciò che esiste sono singoli esemplari di umanità per il bene e per il male - Caracalla che estende la cittadinanza romana agli uomini liberi dell’Impero, Eichmann che organizza il traffico ferroviario verso i Lager, Kohl che decide che la Germania si faccia carico dei costi dell’unificazione. E tanti esempi che non sono consegnati alla storia, e che fanno parte del modo in cui ognuno agisce e pensa, spesso generando difficoltà agli psicoanalisti.
Tra i primi e i secondi ci sono storie intermedie, quelle degli uomini comuni come Pešev, un eroe alla Spielberg, come Schindler o il Donovan del Ponte delle spie. Il suo caso è l’esemplificazione del principio secondo cui lo statuto morale di una persona è determinato dal suo rapporto con norme che non sono morali ma pragmatiche e storiche, ed è in relazione a queste che bisogna impegnarsi moralmente. Ecco perché quelli come Pešev sono stati chiamati “Giusti”: non eroi ma persone normali che hanno scelto; è questo credo a introdurre la giustizia come responsabilità di fronte al mostrarsi del reale. Cercare invece la perfezione morale nella purezza delle proprie intenzioni, che hanno la disastrosa tendenza a trasformarsi in ideali, è confermare il detto secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E se ci fosse stato un Pešev in Italia, in Francia, in Polonia, in Olanda? E se Pešev fosse stato persuaso che la vera azione e la vera pietà sono quelle del pensiero? Se invece che una lettera al primo ministro avesse scritto un romanzo o annotato un pensiero in un moleskine, o su un quaderno nero à la Heidegger?
“Realismo” non significa semplicemente sostenere che esistono tavoli e sedie: questo lo sanno anche gli antirealisti, sebbene poi si ostinino a sostenere che non sono tavoli né sedie in sé ma tavoli e sedie per noi. Meno che mai vuol dire che accertare la realtà significhi accettarla, rinunciando alla trasformazione. È vero il contrario. La trasformazione, o la rivoluzione, è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte solo nel pensiero, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle. Pešev non era un ribelle di professione. Con la sua azione teoricamente semplice ma praticamente coraggiosa, ha provato il discontinuo: che la libertà esiste, e ha mostrato la possibilità dell’impossibile, la fattibilità reale di qualcosa che non ha ancora avuto luogo. Qualcosa che è “fuori dagli schemi”.
È importante che l’azione esemplare sia individuale. Non c’è bisogno di sviluppare un culto degli eroi alla Carlyle, imboccando la strada che porta al superuomo e alle fanfaronate di Zarathustra. Basta che l’azione sia espressione di un individuo prima che di un’idea e di un imperativo categorico - presentandosi come una infrazione delle regole, come una sorpresa affine al motto di spirito piuttosto che come l’attuazione di un programma: al limite (e può bastare e avanzare) come l’«avrei preferenza di no» di Bartleby lo scrivano.
È necessario emanciparsi? È giusto ribellarsi? Dipende. Guidare la moto senza casco è un atteggiamento ribellistico, e chi ha posteggiato l’auto in terza fila è anche lui a suo modo un ribelle, senza gli attributi di nobiltà feudale che Jünger attribuisce a questa parola. Quanto poi all’emancipazione, è anzitutto emancipazione dalla stupidità, ma ovviamente non basta. Dopo aver pensato e ragionato, si prende comunque una decisione, che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta, perché, d’accordo con Kierkegaard, «l’istante della decisione è una follia»: è per l’appunto la sospensione del continuum dei ragionamenti, l’introduzione di un discontinuo. «Il mondo è fuori dai gangheri ( out of joint) », dice Amleto - e proprio perché è il mondo lì fuori a essere fuor di sesto che ho lo stimolo (che certo può essere sbagliato o catastrofico) a rimetterlo in sesto.
"Goodbye Kant! Perché si vuole uccidere Kant?
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 29.10.2015)
CI SONO essenzialmente due tipi di moralisti. Il primo, chiamiamolo “kantiano”, è il moralista assoluto, nel senso che considera la legge morale come qualcosa che esiste in lui proprio come, sopra di lui, c’è il cielo stellato, d’accordo con la conclusione della Critica della ragion pura che è assurta persino agli onori delle t-shirt.
Il moralista kantiano è incline al solipsismo, perché è insieme il legislatore e il legislato, ossia si sottomette, lui per primo, alla legge che si è dato. C’è di buono, però, che la legge deve superare un test impegnativo che scongiura, almeno in linea di principio, il solipsismo: la norma non deve valere solo per il legislatore-legislato, ma deve poter valere come principio di legislazione universale, ossia per l’umanità intera.
Che giovamento può dare il web al moralista kantiano? Essenzialmente un vantaggio conoscitivo, che non è poco,ma nemmeno tantissimo: può mostrargli quanto vasta e varia possa essere l’umanità, e dunque fargli capire quanto è facile sbagliarsi, ed essere, se non solipsisti, almeno parrocchiali o provinciali, quando si formulano princìpi morali che si pretendono universali.
Il secondo tipo di moralista, chiamiamolo “lévinassiano”, perché si riferisce alla teoria della morale come qualcosa che nasce in noi dal confronto con il prossimo elaborata nel secolo scorso dal filosofo Emmanuel Lévinas, che può trarre un vantaggio ben maggiore dal web.
Perché se la moralità lévinassiana viene suscitata dal confronto con l’altro, in quanto portatore di bisogni e di diritti con cui dobbiamo confrontarci, allora la proliferazione delle alterità che viene prodotta dal web non si limita ad arricchire la nostra casistica in vista della universalizzazione di una legge, come nel caso del moralista kantiano, ma potenzia enormemente la sensibilità morale, proprio perché ci mostra altri di cui, in assenza del web, non avremmo avuto neppure il sospetto.
E ce li mostra come presenti ed esigenti, non semplicemente come casi etnografici: l’altro, infatti, non è solo (né, in fondo, principalmente) il fatto di cronaca di cui veniamo a conoscenza attraverso il web (quell’altro esisteva anche ai tempi della televisione), ma è quello che si rivolge direttamente a noi, con una mail, ed esige risposta, con una provocazione e una convocazione diretta che non ha precedenti nella storia.
Tutto questo, però, a mio avviso, non ci rende di per sé “più buoni”, né “più morali”. Semplicemente, incrementa un meccanismo di responsabilità in precedenza impensabile, che incomincia con la necessità di rispondere alle infinite chiamate, scritte e orali, che ci raggiungono in continuazione, e che (se tutto va bene, e se il soggetto è predisposto) può trasformarsi in una responsabilità più vasta ed ecumenica, allargando i confini della alterità.
Ma, ovviamente, può anche avvenire il contrario: esposti a una alterità e a una responsabilità così forte ed esigente, possiamo benissimo generare forme di difesa e di de-sensibilizzazione, un po’ come avviene in guerra. Il che del resto dimostrerebbe, una volta di più, che la tecnica, ben lungi dall’essere uno strumento di alienazione, è uno strumento di rivelazione, ossia è lo specchio, e il potenziamento, nel bene e nel male, di quello che noi siamo.
I filosofi Vattimo e Zabala criticano i “nuovi” guru del Realismo.
“Dietro la loro visione, il richiamo all’ordine di una società immutabile”
”In un mondo di emergenze continue in realtà non accade mai niente”
«l’unica emergenza è l’assenza di emergenza», come ha detto Heidegger.
di Gianni Vattimo Santiago Zabala (La Stampa, 14.07.2015)
Leggiamo, sui giornali e sul web, che esiste un nuovo movimento filosofico chiamato «nuovo realismo» o «realismo speculativo». I suoi principali fautori sono giovani filosofi europei come Quentin Meillassoux e Gabriel Markus, tra gli altri. Contro l’idealismo, la fenomenologia e l’ermeneutica sostengono che sia possibile accedere alle qualità primarie del mondo come se esistesse per se stesso, senza dipendere dal linguaggio e dall’interpretazione. Vogliono tornare al Grande Di Fuori (le Grand Dehors) che è costituito di oggetti indipendenti, cioè «una realtà mai esaurita da alcuna relazione con gli esseri umani o con altre entità», come spiega il filosofo americano Graham Harman.
Secondo questi pensatori, siamo stati troppo a lungo imprigionati dalla «svolta linguistica» e dal conflitto delle interpretazioni, per cui l’esistente è soltanto la correlazione con un soggetto che lo concepisce. La filosofia della svolta linguistica ha negato al pensiero qualsiasi accesso razionale alle cose in se stesse, dando risalto a discorsi senza fondamento sulle opere d’arte, le credenze religiose e persino sugli animali.
Contro questi studi i «nuovi realisti» sostengono che si debba tornare all’assoluto pensato come realtà fisica. In altre parole, credono in una realtà indipendente da noi, che soltanto la matematica può spiegare, sebbene, come ha sottolineato Slavoj Zizek qualsiasi «campo di “realtà” (qualsiasi ”mondo”) è già sempre strutturato, visto attraverso un’invisibile cornice». Ma questo ritorno alla realtà sarà in grado di guidare le nostre esistenze individuali o sociali?
Non ci interessa valutare se questi filosofi dicano davvero qualcosa di nuovo, in filosofia cosa sempre sospetta, piuttosto vogliamo capire che cosa si nasconde dietro il loro approccio teoretico. E’ curioso, come fa notare il filosofo britannico Simon Critchley, «che mentre un ceppo della filosofia anglo-americana (si pensi a John McDowell e Robert Brandom) adotta punti di vista di Kant, di Hegel e Heidegger, arrivando persino a flirtare con certe forme di idealismo, gli ultimi sviluppi della filosofia continentale siano un ritorno a un realismo cartesiano che si riteneva morto e sepolto».
Sebbene questi «nuovi» filosofi giustifichino il loro credo teoretico in forme diverse, spesso da un punto di vista matematico, in modo da dimostrare - nonostante Thomas Kuhn - la supposta stabilità della comprensione scientifica del mondo, crediamo che la loro opera faccia parte di un globale richiamo all’ordine. Tutto questo non è molto diverso, come ricorda il filosofo americano Arthur C. Danto da «ciò che dopo la Prima Guerra mondiale fu chiamato in Francia “rappel à l’ordre”, un richiamo all’ordine, in cui gli artisti dell’avanguardia furono invitati a mettere da parte i loro esperimenti e a rappresentare le cose in modi che potessero rassicurare chi aveva visto il proprio mondo devastato dalla guerra». Ma che cosa significa ordine nel XXI secolo, dopo la fine del comunismo, delle ideologie e della stessa storia?
Al contrario di quanto ci si possa in un primo tempo aspettare, quest’ordine non si riferisce a una realtà che debba essere rispettata o imposta, ma a una assenza di eventi ed emergenze che sembra costituire la condizione del nostro mondo globalizzato. Sebbene la nostra vita quotidiana e i giornali siano pieni di «eventi» ed «emergenze», l’impressione dominante dei cittadini dei paesi industrializzati è che non accada più nulla: la realtà è fissata e stabile.
L’assenza di emergenza è la conseguenza di un mondo dove la politica, la finanza e la cultura sono state incapsulate in parametri prestabiliti. Il problema non è soltanto che questi parametri siano stati decisi in precedenza, ma piuttosto che sono stati concepiti per salvarci dalle emergenze, da tutto ciò che emerge come differente. Le differenze escluse includono le alternative politiche, come il movimento Occupy, la riforma globale della finanza come chiede Piketty, o la sopravvivenza delle facoltà umanistiche nelle università. Forse la partecipazione dei cittadini al voto, le richieste dei governi di mettere fine alle politiche di austerità della Bce, la partecipazione degli intellettuali alla sfera pubblica, stanno declinando in tutta l’Europa perché domina una generale rassegnazione, che nemmeno una crisi economica come quella che stiamo vivendo riesce a scalfire. Come dovremmo rispondere a queste condizioni se non interessandoci alla realtà?
Il nuovo realismo «orientato verso gli oggetti» ci chiede di accettare quest’assenza di emergenza e di comportarci di conseguenza. Dopo tutto, quando accettiamo che il mondo com’è in se stesso è il nostro stesso mondo, affidiamo alla matematica e alla fisica il compito di formulare una corretta ontologia della natura.
Chiunque non si sottometta all’attuale assenza di emergenza sbaglia, o peggio sta dalla parte sbagliata della realtà, se non dalla parte sbagliata del confine. Questo non concerne solo la filosofia ma la sociologia, la psicologia e l’economia, così strettamente legate ai loro osservatori, agli interpreti, alle comunità in cui operano. E sono proprio queste comunità che si perdono appena torniamo alla «realtà» per sottometterci ad essa. Invece di stringere le corde dell’ordine sociale che accompagna l’assenza di emergenze della realtà, è necessario indebolire ulteriormente quest’ordine, perché «l’unica emergenza è l’assenza di emergenza», come ha detto Heidegger.
2013, nov 27*
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
* E.C.
Niente di nuovo, niente di realistico, niente di filosofico
di FRANCA D’AGOSTINI *
1. Nuoveau realistes
Quando (intorno all’anno 1978) apparve il fenomeno mass mediatico ed editoriale dei «nouveaux philosophes», chiesero a Gilles Deleuze «che cosa pensi dei nuovi filosofi?» e il filosofo francese, maestro dei «maestri di Parigi» (perché da lui provenne il meglio del post-strutturalismo) rispose: «niente». In effetti, era difficile dire che cosa ci fosse propriamente “da pensare” nell’operazione di Bernard Henry Lévy, André Glucksmann e compagni.
Non si trattava di filosofia ma di una minestra molto riscaldata di tesi diventate quasi ovvie (per esempio l’affinità tra il totalitarismo comunista e quelli nazista e fascista), rovesciate nella zuppiera della casa editrice per cui Lévy lavorava, e di vari giornali e televisioni, e offerta da personaggi in camicia bianca e capelli scompigliati ad arte.
Qualcosa di molto simile sta succedendo, mi sembra, con il «nuovo realismo», il «movimento filosofico» di cui si insiste a dare notizia da circa due anni, su Repubblica (l’ultimo annuncio è del 25/10) e in vari altri luoghi. Ma in modo ancora più triste e confuso. Anzitutto perché nel caso dei nouveaux philosophes era la prima volta che veniva promosso, come si disse, il «supermarket filosofico», ossia il vero e conclamato ingresso della filosofia nel territorio fangoso dei media e della comunicazione di massa.
Dunque almeno la forma del fenomeno (la zuppiera, per così dire) era nuova. Poi perché Glucksmann, Lévy e compagni si avvalevano (pur non riconoscendolo) di un vero movimento di idee nuove che si era prodotto in Francia tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, il cosiddetto poststrutturalismo o neostrutturalismo.
Invece il nuovo realismo tenta di trasformare in movimento lo sfondo tutt’altro che movimentista della filosofia contemporanea. Perché da tempo in ciò che chiamiamo “filosofia” non c’è più (e per fortuna, io credo) lo strife of systems, la lotta dei sistemi, ma ci sono invece diverse discipline specializzate che operano parallelamente, e che oggi (a quel che so) stanno cercando un quadro di riferimento comune, una “filosofia prima”, direbbe Aristotele. (Io credo anzi che questa filosofia prima si stia di fatto delineando. Ma un conto è cercare e descrivere una nuova filosofia prima, un altro conto è produrre “movimenti”.)
In generale, non c’è mai male nel far circolare parvenze di idee filosofiche, o anche solo i nomi filosofici tradizionali, come “realtà”, “verità” o anche “filosofia”. Perlomeno, si attira l’attenzione sul fatto che esistono problemi relativi a questi nomi, e vale la pena che tutti ne tengano conto. Però c’è sempre un rischio, che non va sottovalutato, ed è il rischio che il risultato ultimo della procedura sia un annientamento dei contenuti sostanziali che la procedura stessa nominalmente promuove.
Più banalmente: ciò che ne fa le spese, nel «nuovo realismo», secondo me è precisamente il nuovo realismo, vale a dire: la nuova consapevolezza collettiva che sta affiorando nella vita pubblica circa i concetti di verità e realtà - e affiora per ragioni molto semplici, di cui in molti hanno parlato ripetutamente (io stessa): per l’avanzare mondiale della democrazia. E ovviamente ne fanno le spese anche le novità importanti che la filosofia recente ha prodotto proprio riguardo ai “super-concetti” filosofici di realtà e verità. In altre parole: ciò che ne fa le spese è il nuovo paradigma di filosofia prima che si sta faticosamente cercando e di fatto forse trovando.
Esattamente nello stesso modo, la nouvelle philosophie azzerò, e rese definitivamente stupida, quell’ipotesi di nuova filosofia (nuovo marxismo, nuova sinistra) che si stava annunciando in quegli anni.
2. Stultificazione
È il fenomeno che chiamo stultificazione, dal verbo inglese to stultify, che significa contraddire, annientare dal punto di vista intellettuale, ma anche rendere irrilevante, stupido. Ed è un fenomeno abbastanza frequente, in filosofia. In una certa misura è quasi inevitabile, quando avviene il contatto tra filosofia e mass media. Però, ripeto: credo che tale contatto sia una buona cosa, e anzi sia in una qualche misura necessario. Non sempre inoltre ha esiti stultificanti. Ma il disastro è assicurato quando nell’ambiente stesso in cui si effettua l’operazione non si ha la minima idea di che cosa sia la filosofia, come funzioni, e perché abbia senso occuparsene, ma circola la confusa percezione che in ciò che si chiama “filosofia” sia in gioco qualcosa di prestigioso, e importante per tutti.
Avviene allora che niente di nuovo, niente di realistico, e soprattutto niente di filosofico venga presentato come espressione di un nuovo realismo filosofico, e sia in qualche modo quasi autorizzato a presentarsi per tale. È quanto accade di fatto con il new realism descritto e propagato da Ferraris, con ostinato e pervasivo metodo di sfruttamento di tutti gli spazi disponibili, e sistematica cancellazione o elusione delle voci dei contrari o dei perplessi (che non siano troppo illustri o potenti per poter essere liquidati o ignorati, nel qual caso dovranno essere rabboniti).
Se cercate in effetti che cosa realmente dicano i nuovi realisti di nuovo e di realistico la risposta di Deleuze è inevitabile: non trovate niente. I due più “movimentisti” del gruppo sono Markus Gabriel e ovviamente Maurizio Ferraris. Il primo è molto giovane, ed è stato ingaggiato in un’impresa da cui era meglio dispensarlo. Il secondo sta da tempo presentando come filosofia una produzione di stile tipicamente postmoderno, fatta di tesi molto vaghe e oscillanti (scienza no, scienza sì, verità no, ma anche sì, documenti ovunque ma non proprio ovunque, testualismo sì, ma debole, costruzionismo sì, ma solo in parte, ermeneutica no, però anche sì ...), e quando non vaghe e oscillanti, polemicamente rivolte contro un antirealismo metafisico (effettiva scomparsa dei fatti, annientati dalle interpretazioni) che nessuno ha mai realmente sostenuto, e che ripetono l’antica polemica di Sokal e Brickmont e di altri contro il postmodernismo.
Gli altri sono vecchi filosofi che non hanno più molto da dire, come Putnam o Searle, e i cui “realismi” (ma discuterei l’uso di questa espressione a loro riguardo) non hanno nulla ma proprio nulla a che fare con i realismi realmente nuovi di cui oggi possiamo parlare. Oppure persone che visibilmente non hanno alcuna vera competenza sul tema del realismo perché non si occupano di metafisica, ma di altro (filosofia del linguaggio, letteratura, architettura, ecc.).
Un autore ufficialmente “nuovo-realista” che sembra avere una certa competenza sull’argomento è Mario De Caro. Se però leggete ciò che De Caro dice (per esempio nel suo intervento in Bentornata realtà, il libro da lui curato con Ferraris: Einaudi, 2012), scoprite con sorpresa che non si dichiara affatto realista, e sembra nutrire anche qualche dubbio sulla stessa locuzione, di per sé considerata. De Caro dice che in filosofia non si tratta di realismo e antirealismo, ma piuttosto di “gradi” dell’uno dell’altro; e quanto a lui non si colloca in nessun punto della scala. Si limita invece a dar conto del fatto che nella metafisica analitica le posizioni realistiche sono diventate più importanti, ma - circostanza per me incomprensibile - evita apertamente di dar conto dell’unico nuovo realismo oggi circolante, quello cosiddetto «australiano» (che peraltro conosce benissimo).
3. Un caso italiano
È mai possibile che il gran clamore suscitato da Ferraris corrisponda davvero a questa esiguità e vaghezza di contenuti? Sì è possibile. E la ragione è molto semplice: perché ci sono altre due importanti differenze da considerare tra i nouveaux philosophes e i nuovorealisti.
La prima è che la nouvelle philosophie emergeva in un’epoca in cui esistevano di fatto ancora “voci” filosofiche autorevoli, che potevano contrastarla, o comunque costituire un’alternativa. In altri termini c’era uno sfondo autentico di filosofia pubblica, entro il quale i nuovi filosofi si rivelavano abbastanza chiaramente per quel che erano. Ed esistevano ancora, come ho detto, e avevano senso, “movimenti” filosofici. Tanto è vero che la nouvelle philosophie fu presto sopraffatta dall’emergere ben più potente e devastante del postmodernismo (creatura principalmente americana),
Invece il nuovo realismo emerge in un’epoca in cui non c’è niente di tutto questo, e forse non ci può essere, e forse è bene che non ci sia. Dunque è abbastanza naturale che la stultificazione nuovorealista e la simulazione di movimento che essa produce operino con efficacia, avanzando nel vuoto, e non trovando reali e seri antagonisti.
La seconda è che i nuoveaux philosophes erano francesi, e i nuovorealisti sono (principalmente) italiani: il che vuol dire molto. Vuol dire, per esempio, che il nuovorealismo di Ferraris è piombato in una comunità scientifica particolarmente dissestata da povertà di mezzi e corruzione, e dai frutti naturali dell’una e dell’altra: il declino inevitabile della qualità intellettuale e morale.
Oggi molti contrastano questo andamento nazionale, e la generazione degli studiosi più brillanti e onesti non si trova solo all’estero: anche nell’università italiana ne incontriamo. Ma proprio qui incomincia il rischio: che il “movimento” di costoro (che ovviamente non è filosofico, né ideologico, e meno che mai metafisico ma semplicemente politico-morale) risulti stultificato e annullato da qualcosa che gli assomiglia, ma non è affatto la stessa cosa. Perché in molti sappiamo che c’è qualcosa di nuovo in filosofia, e anche nel pensiero comune; ma non sembra essere quello che con gran clamore ci viene detto essere.
Insomma, il nuovorealismo nella versione ferrarisiana finisce per lasciar passare e incoraggiare il vecchio frenando le effettive novità che stanno emergendo: un’operazione che in Italia conosciamo bene, visto che (così si dice) far mostra di cambiare le cose perché le cose non cambino affatto contraddistingue lo stile nazionale, da Tomasi di Lampedusa a Silvio Berlusconi.
Che fare? Non ho le idee chiare. Lamentarsi del degrado del linguaggio pubblico non ha il minimo senso: personalmente, apprezzo la democrazia, e penso che i suoi limiti e le sue crisi di crescita non vadano condannate, ma se mai curate. Non condivido i lamenti neo-francofortesi contro la civiltà dei consumi, la follia e la degrazione della comunicazione nella Rete, e così via. In generale non condivido i lamenti e le denuncie che si presentano senza offrire soluzioni.
Forse la soluzione però ci sarebbe: bisognerebbe riconoscere che operazioni come quella di Ferraris, e dei suoi modelli (il postmodernismo, il pensiero debole, i nuovi filosofi francesi, e il movimentismo filosofico di Nietzsche), sono oggi inutili tergiversazioni, perché c’è grande lavoro da fare, di altro tipo. In altri termini, bisognerebbe porre fine a quello stile di filosofia pubblica tipicamente tardo-sofista, che solleva gran clamore intorno al niente, allo scopo non lodevole di fare delle debolezze della filosofia, dell’università, della vita pubblica democratica, una ragione di forza e di vantaggio personale.
* * *
Realismo? Una questione non controversa
di Franca D’Agostini, Bollati Boringhieri, dal 14 novembre in libreria
Che cosa è il realismo? che cosa intende dire chi si dichiara “realista” e a chi esattamente si contrappone? Siamo o dobbiamo essere davvero, in filosofia, nell’arte, in politica, più “realisti” di un tempo? In un rapido e originale percorso nei dibattiti recenti sul tema, dal postmodernismo a oggi, Franca D’Agostini risponde con risolutezza e chiarezza a queste domande, smontando un certo numero di luoghi comuni sull’argomento, tanto diffusi quanto infondati.
La prima parte del libro è un breve pamphlet destinato a difendere il realismo dalla confusione e dalla banalità a cui lo condannano molti suoi presunti estimatori. La seconda parte ricostruisce i dibattiti più interessanti, presenta alcuni realismi «realmente nuovi» (di cui si parla poco o nulla in Italia), e delinea una prospettiva originale.
Con lo stile di pensiero che associa alla perizia discussiva una profonda conoscenza del pensiero contemporaneo, D’Agostini ci ricorda che l’antirealismo non è mai esistito in filosofia. Per il pensiero i fatti sono sempre stati, hegelianamente, “il vivente pane della ragione”.
Introduzione
Parte prima: Misinterpretazioni
1. Fatti e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni? 2. Giochi guastati 3. Nuovo realismo e postmodernismo metodologico 4. Staccate la spina del postmodernismo! 5. Analitici e continentali?
Parte seconda: Realismo
6. Una questione non controversa 7. Strani realismi 8. Realismo scientifico 9. Verità e realismo 10. L’unico realismo possibile 11. La rinascita della metafisica dallo spirito della logica 12. Realismi realmente nuovi
Conclusioni
* * *
Nata a Torino l’11 settembre del 1952, Franca D’Agostini dopo il liceo classico studia filosofia nella sua città, dove si laurea nel 1976 con una tesi su “La filosofia della scena di Antonin Artaud”. Consegue poi il dottorato in filosofia (sempre all’Università di Torino).
Autrice di quindici libri e di saggi e articoli in varie lingue su riviste e volumi collettanei, collaboratrice dei quotidiani la Stampa, la Repubblica, il Manifesto, ha svolto lezioni e conferenze in varie Università europee e americane, e ha insegnato a contratto (Teoretica e Filosofia della Scienza) in varie Università italiane. Dal 2000 insegna Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino e dal 2010 Logic and Epistemology of the Social Sciences alla Graduate School of Economic, Politic and Social Sciences dell’Università Statale di Milano (Scienze Politiche).
* MICROMEGA, 13 novembre 2013:
http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/11/13/niente-di-nuovo-niente-di-realistico-niente-di-filosofico/
Il tentativo di Maurizio Ferraris di tornare al principio di una realtà esistente in sé è solo il prodotto di un pensiero autopromozionale
di Guido Vitiello (Corriere La Lettura, 26.05.2013)
Ecco, in una formula, il provincialismo italiano: doppiamo tutti i film americani, perché non sappiamo l’inglese, ma il titolo lo lasciamo nella lingua originale, perché suona meglio. La regola non vale solo per il cinema. Prendiamo il caso di Maurizio Ferraris e della sua creatura filosofica, il New Realism. Battezzarlo «nuovo realismo» non avrebbe avuto lo stesso effetto, così come uno striptease è più allettante di uno spogliarello. Tutto sta a scoprire (già che siamo in tema) quali grazie nasconde la veste esterofila del New Realism. Ebbene, rispondono gli autori del pamphlet Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo): sotto l’etichetta non c’è niente.
Procediamo con ordine. Nell’agosto del 2011, su «Repubblica», Ferraris lancia il Manifesto del New Realism, a cui seguono convegni, libri e controversie giornalistiche. L’operazione è ambiziosa: si tratta di tornare a un’idea forte di realtà accantonando i giochi ermeneutici della filosofia postmoderna, che ha spinto al parossismo il principio di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Doveva essere, quella postmoderna, una filosofia liberatrice, una sfida alla tirannia della verità oggettiva, e invece ci siamo ritrovati, dice Ferraris, con i populismi mediatici che plasmano la realtà a piacimento, con il Berlusconi della nipote di Mubarak e il Bush delle armi di distruzione di massa. Il New Realism ci ricorda, con il vecchio proverbio, che «i fatti hanno la testa dura», e non vuole essere neppure una nuova corrente filosofica, ma la fotografia di una (contro)tendenza in atto, o meglio, dice Ferraris parafrasando Marx ed Engels, di uno spettro che si aggira per l’Europa.
I sei autori del pamphlet, curato da Donatella Di Cesare, Corrado Ocone e Simone Regazzoni, ironizzano sulla forma plumbea e démodé del manifesto, ma dal loro libro, se volessero, potrebbero ricavare un anti-manifesto suddiviso per capi d’accusa. Elenchiamoli. Primo punto: nessuno spettro si aggira per l’Europa, e neppure per l’America. Se si menzionasse il New Realism a Berlino o a New York, scherza Di Cesare, «per tutta risposta ci si sentirebbe fare i nomi di Rossellini e di Germi»: lo scambierebbero per il neorealismo, e chiederebbero i sottotitoli. Ai filosofi del mondo non giunge eco del nostro piccolo dibattito alla provincia dell’impero, e quella che Ferraris presenta abilmente come la grande tendenza del tempo presente ha in realtà un solo esponente di spicco: Maurizio Ferraris.
Questo ci porta al secondo punto: il New Realism è un’operazione di marketing filosofico, è un brand che serve a smerciare una posizione vecchia di secoli (il realismo, appunto) a fini di egemonia personale. Corrado Ocone rivede in Ferraris lo stile «autopromozionale» del suo maestro Vattimo, che trent’anni prima aveva saputo imporre la moda del pensiero debole. Ma con una differenza, che ci porta al terzo capo d’accusa: malgrado il suo richiamo ai fatti, Ferraris ricorre alle più disinvolte interpretazioni per foggiare l’immagine caricaturale del «postmoderno filosofico», un monolite oscurantista ostile alla realtà e alla ragione, e soprattutto una testa di turco contro cui averla vinta facile.
Ma perché l’operazione ha avuto tanta eco su «Repubblica»? È il quarto punto: perché si sposava a meraviglia con la linea politica del giornale. In sostanza il New Realism, scrive impietosamente Simone Regazzoni, «è una piccola filosofia giornalistica cresciuta all’ombra del berlusconismo», e Ferraris ha compiuto un salto mortale «dalla decostruzione di Derrida alla Scomparsa dei fatti di Marco Travaglio». Ricapitolando: il nuovo realismo è un provincialismo, un narcisismo, un illusionismo e un antiberlusconismo. Ed è, recita il titolo, un populismo, ossia «una banalizzazione del pensiero che mira a riscuotere il consenso del vasto pubblico».
Vasto pubblico? Qui gli autori rischiano di dimenticare quanto sia irrisoria l’incidenza dei filosofi, realisti o meno, sul mondo reale (ci permettiamo di aggiungere: grazie al cielo). «Populismo filosofico» è quasi un ossimoro, e così come non è stato Vattimo a inaugurare la società dell’immagine, così non sarà Ferraris a seppellirla. Perché è vero che Umberto Eco, arruolato anch’egli tra i «nuovi realisti», la sera non ha tempo per il bunga bunga perché legge Kant. Ma è anche improbabile, come scrive Laura Cervellione nel suo spiritoso saggio, «che Berlusconi tenga i libri di Baudrillard sul comodino».
Il ritorno del Noi
Da Kant a oggi cosa sta a indicare il pronome fondativo di gruppi, classi e comunità
Le nuove identità nell’epoca dei social network
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 29.05.2013)
Se l’io è, secondo Pascal, il più detestabile dei pronomi, il noi è il pronome più misterioso. Poniamo che quattro persone giochino a poker e che qualcuno chieda loro che cosa stiano facendo. Una risposta come «io sto giocando a poker, e anche lui, e anche lui, e anche lui» suonerebbe a dir poco strana. La risposta ovvia è «noi stiamo giocando a poker».
Ora, in questo “noi” si nascondono parecchi enigmi del mondo sociale che hanno interessato i filosofi (e su cui ritorna proprio in questi giorni Roberta De Monticelli in un capitolo centrale di Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina): che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”? Il punto più rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a una identificazione, a una esclusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire una aggregazione, in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quelli che non sono noi. In questi casi, a differenza da ciò che accade con i nostri quattro giocatori di poker, il confine tra il “noi” e il “loro” è estremamente mobile e soprattutto infinitamente vago e manipolabile.
Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”. Jacques Derrida è stato un campione di questa prospettiva, per esempio facendo notare come l’appello ermeneutico al dialogo e alla “fusione di orizzonti”, alla creazione di un discorso universale dotato di una piena trasparenza comunicativa era sempre sul punto di tradursi nell’evocazione di un fantasma di totalità. Ma come può esercitarsi una vigilanza critica nei confronti della costituzione del “noi”?
Probabilmente, lo strumento più efficace è l’analisi dei connettivi e dei contesti che rendono possibile il “noi”. Storicamente ne abbiamo avuto molte versioni, raramente rassicuranti. La prima è infatti quella del sangue e della terra, cioè l’idea che il “noi” sia assicurato dalla condivisione di certi attributi genetici e di uno spazio geografico. Ma anche l’idea che il “noi” abbia invece una base spirituale non è di per sé meno minacciosa. Basti pensare all’ambigua tesi di Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che definiva i tedeschi come il popolo dello spirito, e poi procedeva a dire che dunque chiunque creda nel progresso dello spirito appartiene alla stirpe tedesca (mentre poteva darsi il caso di chi, non credendo nello spirito, non sarebbe stato tedesco anche se geneticamente lo era).
Nella filosofia contemporanea, la risposta prevalente alla domanda sull’origine del “noi” è fornita dalla teoria della intenzionalità collettiva, proposta dal filosofo finlandese Raimo Tuomela e sviluppata da John Searle. L’idea è che ci sarebbe questo elemento primitivo e naturale (una specie di ghiandola pineale intersoggettiva) che ci fa dire “noi” invece che “io” in un certo numero di situazioni, e che sta alla base della costruzione del mondo sociale. Qui avrei più di un dubbio, perché in effetti al “noi” ci si arriva attraverso un addestramento. È vero che un gruppo di persone in gita può dire “noi camminiamo”, ma si tratta ancora di “intenzionalità collettiva” quando a camminare è un gruppo di prigionieri tenuti sotto tiro?
Se le cose stanno in questi termini, alla versione naturalistica di Searle è di gran lunga preferibile la versione culturalistica che, quasi duecento anni fa, ha dato Hegel con l’idea di “spirito oggettivo”. Quello che noi abbiamo nella nostra testa, le nostre intenzioni e le nostre aspirazioni morali non può restare in un puro mondo intelligibile, come pensava Kant, ma ha bisogno di manifestarsi nella storia. È qui che si introduce la variante hegeliana: lo spirito ha bisogno strutturalmente di mani-festarsi, di solidificarsi in istituzioni. È lì che si manifesta il “noi”: nelle costituzioni, nelle imprese e nelle tradizioni condivise. Ma, attenzione, è importante capire che questo spirito è oggettivato, non è una nostra proprietà personale.
È per questo che, in alternativa a queste forme di costruzione del “noi”, ho suggerito che l’elemento fondamentale è costruito da quello che chiamo “documentalità”. È attraverso la condivisione di documenti e di tradizioni che si costituisce un “noi”. Ed è proprio per questo motivo che la società si è dotata così presto di scritture e di archivi: per far sì che lo spirito possa manifestarsi e diventare riconoscibile, acquisendo visibilità e permanenza temporale. Da questo punto di vista, la forma più trasparente del “noi” è un documento che reca delle firme, e che manifesta con onestà i termini, i confini e gli obiettivi del “noi”, che in questa versione appare come l’accordo cosciente tra un numero definito di persone per un obiettivo riconoscibile.
Oggi la documentalità è rappresentata soprattutto dal web, questo immane apparato che alcuni ottimisti sono portati a definire come l’espressione di una intenzionalità collettiva, per esempio rifacendosi al ruolo del web nella primavera araba, o più recentemente nel successo del Movimento 5 Stelle. A mio avviso però è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno.
Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo.
L’illusione economica
Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, è la Borsa il luogo dove si definisce la verità
Qualunque dottrina che volesse presentarsi come collezione di nudi fatti si ridurrebbe a mero arbitrio
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 12.01.2013)
Nel Conflitto delle facoltà (1798) Kant mette in scena una contesa tra, da una parte, la medicina, la giurisprudenza e la teologia, che definisce "facoltà superiori" (perché offrivano sbocchi di lavoro, compresa la teologia che avviava alla professione di pastore) e, dall’altra, la "facoltà inferiore" rappresentata, manco a dirlo, dalla filosofia. Kant si augurava che sarebbe venuto il giorno in cui la facoltà inferiore avrebbe preso il sopravvento. Non poteva sapere che un suo contemporaneo, Adam Smith, professore di filosofia morale a Glasgow, con l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) aveva gettato le basi di quella che oggi è la facoltà superiore per eccellenza, che detta legge anche al diritto, alla medicina e alla teologia: l’economia.
In un certo senso, la storia degli ultimi due secoli è la vicenda della ascesa politica di questa scienza, i cui cultori diventano consulenti del sovrano e poi sovrani essi stessi. Ancora per tutto il Novecento, si direbbe che la tecnica propedeutica alla politica rispetti la tripartizione delle funzioni della tradizione indoeuropea studiata da Dumézil: guerrieri, sacerdoti (ossia anzitutto tutori delle leggi) e agricoltori. Tolti gli agricoltori (per i quali solo i fisiocrati e Tolstoj avevano immaginato un posto di comando), la leadership va naturalmente alle prime due categorie.
Si pensi ai responsabili della politica all’inizio del secolo scorso. Ai vertici c’erano ancora dei sovrani per diritto ereditario e soprattutto molti militari. Accanto a loro c’erano i giuristi, che traevano il loro potere dall’essere insieme uno strumento tecnico dell’attività legislativa sia un’istanza di controllo, tanto a livello nazionale, quanto - in organizzazioni come le Nazioni Unite - internazionale. Così, tra i presidenti della Repubblica italiana (compreso De Nicola) abbiamo sette laureati in giurisprudenza, due in economia, due in lettere. La prevalenza dei giurisprudenti si ritrova anche tra i presidenti Usa del dopoguerra: sei laureati in legge, quattro militari, un attore, un economista.
Ma non è difficile prevedere che fra qualche anno molti dei premier e dei capi di stato saranno economisti. Forse possiamo anche datare il momento della svolta. Correva l’anno 1992, durante la campagna di Clinton contro Bush padre, e lo slogan clintoniano era: «The economy, stupid!». Solo tre anni prima non sarebbe stato uno slogan praticabile: perché non c’era nessuna possibilità di universalizzare l’economia, vista l’ovvia persistenza dei due blocchi, uno dei quali subordinava apertamente l’economia alla politica. Scomparso quel blocco, sembra che non si possa fare politica senza economia, e soprattutto l’economia è diventata ciò con cui la politica deve misurarsi come di fronte a una oggettività ineludibile.
Perché il punto è proprio questo. L’economia non trae prestigio dalla propria efficacia terapeutica (come avviene, poniamo, per la medicina), ma dall’idea che è lei a stabilire il principio di realtà con cui si devono misurare i politici e i cittadini. Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, della competizione a colpi di razzi e astronavi, finito il mondo del diritto internazionale come alternativa alla guerra, il luogo in cui si definiscono i valori, a partire ovviamente da quello pregiato della oggettività, della realtà e della verità è il mercato finanziario. Un mercato, che, per inciso, è stato l’autentico veicolo della globalizzazione: un impero in cui letteralmente non tramonta mai il sole. Nel 1886, in Al di là del bene e del male, Nietzsche aveva scritto che «i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l’"a che scopo" degli uomini (...) Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è - volontà di potenza». Questi filosofi non si sono fatti avanti, e in tutta sincerità non ne sentiamo la mancanza. Ma - nell’epoca dello spread e delle agenzie di rating - molto di quello che dice Nietzsche sembra applicarsi al ruolo dell’economia come principio di realtà dell’epoca contemporanea.
Tuttavia siamo sicuri che l’economia sia il candidato più attendibile a incarnare il principio di realtà? Se c’è un ambito in cui vige il principio "non ci sono fatti, solo interpretazioni", questo è proprio la sfera dell’economia. Così, in Creare il mondo sociale (Raffaello Cortina, 2010), il filosofo americano John Searle non esita a dire che la recente crisi economica dimostra come il denaro sia frutto di una massiccia immaginazione. Come dire che se c’è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come un po’ futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso, la fisica, ma l’economia. Un ambito in cui si dice, per esempio, che "non ci si può più permettere lo stato sociale" con la stessa sicurezza con cui diremmo che la terra ruota intorno al sole o che la fotosintesi produce glucosio e ossigeno, sebbene (lo ricorda recentemente Federico Rampini in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!, Laterza) si tratti, molto più che di un fatto, di una interpretazione.
Ora, esattamente come il diritto (cioè come il suo immediato predecessore in quanto tecnica e principio di realtà della politica), l’economia ha a che fare con degli oggetti sociali, ossia con oggetti che dipendono dai soggetti. In fondo, come ricorda a giusto titolo Giuseppe Zaccaria in La comprensione del diritto (un altro illuminante libro uscito recentemente da Laterza) la giurisprudenza sarebbe un mero arbitrio se si volesse presentare come una collezione di nudi fatti non accompagnati da interpretazioni. Così, nessuno certo si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica.
Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata. È qui, e non nel mondo degli oggetti naturali, che c’è un grandissimo bisogno di ermeneutica, ed è singolare che ce ne sia così poca, dopo tutto il turbinio di interpretazioni che ha caratterizzato la filosofia del secolo scorso.
REPUBBLICA ITALIANA, 1994-2012: UN POPOLO, UN PRESIDENTE E IL presidente MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO con il suo popolo.....
DEMOCRAZIA, SCIENZA E RELIGIONE: TOPOLINO E RUSSELL LIBERI PENSATORI, MA NON I FILOSOFI ITALIANI.
Il pensiero debole è ancora “forte”
Un intervento sul dibattito filosofico intorno al Nuovo realismo
Nell’agosto scorso Ferraris ha lanciato su queste pagine il manifesto del New Realism che ha aperto il dibattito sul superamento del Pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 16.06.2012)
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo ( Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni.
Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni. Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia? » e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ».
Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin.
Tutto questo percorso - che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) - conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività.
Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette).
Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi. Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi - forse - ancora più di ieri.
Vattimo contro il «nuovo realismo» di Ferraris
Tornare al mondo dei fatti? Botta e risposta (con controrisposta) tra i due filosofi sul «Manifesto del nuovo realismo». Per Vattimo si tratta di un’ideologia reazionaria: «Il ritorno della realtà è un ritorno all’ordine. È un supporto ideologico a Monti». Le replica di Ferraris: «No, è il vostro postmoderno che è sfociato in populismo. La decostruzione è naufragata nel realytismo e nelle guerre». E la disputa promette di proseguire (Alias/il manifesto, 8 APRILE 2012)
FEDERICO LA SALA INTORNO AL ’68, AL FALSO PERNIOLA, E AL BERLUSCONISMO (1994-2011). UNA NOTA DEL 1994....
La mente estatica e l’accoglienza astuta degli apprendisti stregoni. Il caso “Perniola” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=283)
di Federico La Sala (04.12.1994)
Del sentire (Torino Einaudi, 1991) era il tema del precedente lavoro. Con determinazione e coraggio, ora, Mario Perniola rompe gli indugi e decide di farsi sentire. Il sex appeal dell’inorganico (Torino, Einaudi, 1994, pp.185, L. 20.000) è un’opera al vetriolo, per argomento e scrittura.
Chiariamo. Farsi sentire, non è niente di arbitrario, né di meramente soggettivo: significa, innanzitutto, un “operare su se stessi in modo da uscire dall’impassibilità metafisica e dal dualismo tra attività e passività”, “non subire in silenzio le stucchevoli esibizioni del già sentito, né le pretese totalitarie delle sensologie, ma dare voce, corpo, manifestazione alla nascita sempre ripetentesi che esse non riescono a bloccare”.
Ciò a cui egli mira è l’oltrepassamento della “concezione metafisica del sentire come un patire, come uno stato passivo inferiore e subordinato all’attività intellettuale”: la sua convinzione è che, “se da un lato la dimensione affettiva è già un’operazione intellettuale, dall’altro lato la dimensione intellettuale è già una ricezione affettiva”, “pensare è ricevere ciò che viene da fuori, accogliere, ospitare quanto si presenta come estraneo ed enigmatico” (Del sentire, cit. , pp. 93-95). E il vetriolo non è tanto e solo l’acido gettato addosso ai suoi colleghi filosofi (“Trovo più affinità col rock - ha dichiarato in una recente intervista sugli argomenti del libro - che con il pensiero debole”) per sfregiarne il volto accademico, quanto e soprattutto il “viaggio iniziatico” (Visita Interiora Terrae [Terra = corpo] Rectificando Invenies Occultum Lapidem) di chi ha trovato la pietra dei filosofi, si è trasformato in una cosa che sente e ha scoperto “la chiave per intendere tante e disparate manifestazioni della cultura e dell’arte attuali” (p. 3): “non l’arte, ma solo la sessualità può farci vedere e sentire la cosa come cosa” (p. 167) - la sessualità neutra (“Essa emancipa la sessualità della natura e l’affida all’artificio, il quale ci apre un mondo in cui non hanno più importanza la differenza tra i sessi, la forma, l’apparenza sensibile, la bellezza, l’età, la razza” p.5).
Ciò di cui egli scrive, infatti, non è più il frutto di una riflessione sulle riflessioni di esperienze altrui (cfr. i suoi lavori su Bataille, i Situazionisti, Blanchot, Nietzsche, Baudrillard, ecc.), ma il frutto di una riflessione su un’esperienza estatica (benché mimetizzata tra le righe e collocata in un orizzonte teorico carico di equivoci), di cui è stato protagonista, segnata da una sospensione dell’ordine della rappresentazione, dal “sentirsi non più Dio, né animale, ma una cosa senziente” (p. 8), e ... dalla volontà di proporsi come il filosofo fortissimo della sessualità neutra (“il punto di arrivo di un cammino che è sempre appartenuto” alla filosofia) e dello scenario contemporaneo (“il cui protagonista non è Dio, né l’animale, e tantomeno l’uomo, ma la cosa”, p. 21).
Fachinelli scrive, a riguardo: “Ciò che si genera nel vuoto, nell’esterna rarefazione [delle situazioni estatiche], è ciò che si è cercato. Si trova ciò che in noi qualcuno, al di là dell’io, cercava: Dio, l’arte, la scienza: o anche, immediatamente, semplicemente, la sospensione del tempo della caducità. In generale: una nuova figura del mondo. Il rinvenimento è sempre singolare, e rimanda alla singolarità del cercatore. Ma questa sorge dal fondo comune del corpo, se è vero che il passaggio dal vuoto al pieno presuppone il corpo come mediatore indispensabile”; “Norma di se stessa, questa esperienza non tollera alcuna apologetica e rifiuta qualsiasi subordinazione (alla teologia, all’estetica, alla scienza). La si conosce solo attraversandola. Hodie Legimus in libro experientiae” (E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 30-31 e 34).
Come interprete della propria esperienza di vita, a dir poco, Perniola si mostra molto ingenuo. Una minore superficialità autoanalitica e una maggiore attenzione alla decisiva ricerca di Elvio Fachinelli, così come meno risentimento nei confronti dei teorici del pensiero debole, forse, gli avrebbero evitato passi falsi e alti livelli di inflazione ego-logica.
Procediamo con calma, e chiariamo. Al sex appeal dell’inorganico si accede solo “quando il mio corpo e quello del mio partner perdono la loro ovvietà di corpi animati e funzionanti, di forme espressive e rappresentative, di mezzi individuati al raggiungimento di scopi precisi...(p. 166): esso abolisce ogni opposizione e “immerge il sentire in un interminabile sbigottimento, e - perché non dirlo - ci dona l’esperienza della realtà” (pp. 166-167). Egli si rende conto che, “per entrare nell’anonimo e impersonale territorio delle cose che sentono bisogna saper dire [reciprocamente da parte di entrambi i partners] «fai di me ciò che vuoi» ” (p. 27), e saper “sospendere le quattro passioni fondamentali, il piacere, il dolore, il desiderio e la paura” (p. 166), ma poi capovolge tutto e, come sempre è avvenuto in filosofia (il novello Teseo abbandona sempre la novella Arianna), hegelianamente, fa del risultato il cominciamento: “il maestro dell’eccitarsi e dell’accendersi della sensazione è il sex appeal dell’inorganico” (p. 167).
Vere duo in carne una: egli giunge a riconoscere che “ il mutuo e vicendevole darsi e prendere come cose non [è] affatto un vizio, ma una virtù, anzi la sola condizione dell’esercizio della sessualità” e che “vedono più a fondo nell’essenza della sessualità coloro che considerano il matrimonio come un sacramento [...] come attinente al fas, al diritto divino, e non allo ius, al diritto umano” (p. 26), ma poi si vieta - come aveva già fatto Hegel ai suoi tempi - di ammettere che solo l’amore è il vero maestro dell’iniziazione ai “misteri nuziali” (ama l’Amore e fai di me ciò che vuoi), che accende la sensibilità e introduce alla sensualità neutra né dello sposo né della sposa, ma di entrambi: “nel sex appeal dell’inorganico non c’è strazio, né soggetto, né rispecchiamento, né interiorità, né esteriorità”, (p. 120); “un impersonale «si sente» prende il posto delle forme soggettive del sentire [...] si sente insieme con estrema evidenza e con sospensione, come in una specie di epoche colorata e intensa”, (p. 167).
Questo mancato riconoscimento lo porta fuori strada e non gli permette di capire che il problema fondamentale della filosofia non è tanto e solo farsi sentire (e sentirsi Dio, animale e cosa) quanto e soprattutto se e come dare ascolto e risposta a chi e a ciò che bussa alla porta della sensibilità (io intuisco, mi faccio sentire), si fa sentire e chiede di essere riconosciuto dall’intelletto e accolto dalla coscienza (Io penso e Io voglio).
E così, dopo Kant (e senza nemmeno un’analoga confutazione dell’idealismo), ripete lo stesso errore: il filosofo, nell’andata (nell’esperienza), si toglie i panni accademici e osa riconoscere la piena autonomia della sensibilità, nel ritorno (nella riflessione), rientrato in Accademia e rimessi i vestiti del vecchio intelletto e del vecchio io, la nega e comincia ad affermarsi: “spetta oggi proprio al filosofo proclamare la grandezza e la dignità di una sessualità senza vita e senza anima; è il suo impegno e la sua responsabilità dire che il regno delle cose non è tanto il trionfo della tecnica e del capitalismo, quanto l’impero di una sessualità senza orgasmo; così finalmente proprio nell’attimo che sembra più irrazionale, casuale e fragile, quello dell’eccitazione sessuale, viene mostrata la potenza della filosofia, al cui appello non riesco a sottrarmi, anche volendolo” (pp. 14-15).
Non ridere, né piangere. Oggi abbiamo gli strumenti per comprendere il vecchio gioco di Edipo. Ogni figlio uccide il padre-re, uccide la donna sfinge, sposa la madre-regina e proclama urbe et orbi: Io sono lo sposo e il re, io sono l’autorità e la legge! La ripetizione della tragica dichiarazione, oggi, suona così in filosofia: “Il filosofo che si sente cosa ha l’impressione di trasgredire la tradizione che lo ha rappresentato come soggetto, persona,spettatore,attore; ma nello stesso tempo questa trasgressione è fedeltà nel proseguire quel movimento di innovazione paradossale, di superamento e di oltrepassamento imposto da Hegel e da Nietzsche” (p. 17). E sollecita ogni filosofo-custode a riconoscere la sua autorità: “nei secoli fedele”, a chiunque prende il posto del padre-re accanto alla madre-regina (sapienza nell’accademia).
Questa trasgressione è fedeltà: non ci sono inganni, dice Perniola ai suoi colleghi dell’accademia. L’estremismo speculativo della filosofia del sex appeal dell’inorganico non è altro che interpretazione e apologia della “suprema volontà di potenza” platonico- nietzscheana - “imprimere al divenire il carattere dell’essere” (F. Nietzsche, Opere, VIII, 1, p. 297, Milano, Adelphi, 1975): si tratta di imprimere al sentire il carattere dell’intelligenza attuale, quella artistica, “Insomma la cosalità [di cui parlo] - precisa Perniola - non ha niente a che fare con un realismo conoscitivo che afferma la realtà del mondo esterno e la sua trascendenza rispetto al pensiero. Il tipo di conoscenza cui il sex appeal dell’inorganico ci inizia è più prossimo all’immaginazione tecnica che all’epistemologia, nel senso che non si preoccupa tanto delle condizioni dell’oggettività delle proprie esperienze quanto della ricerca di esperienze-limite che allargano insieme gli orizzonti del sentire e del sapere” (pp. 139) della nostra tradizione tecno-logica e capitalistica.
Di destra o di sinistra, dopo Lenin, l’estremismo è una malattia infantile ... Dissociazione, rimozione e volontà di potenza costringono il nostro filosofo nelle maglie edipiche, lo confondono e, alla fine, lo riducono alla Ragione. Dura Lex sed Lex: si entra “in due nel territorio del sesso neutro” (p. 164), ma solo uno può accedere nel territorio della filosofia.
Perniola, come Garibaldi e meglio di Cartesio, afferra il concetto, impone con le buone maniere (“ci vuole molta purezza, onestà e perfino candore”, p. 16) alla sessualità “la sospensione speculativa della libido” (p. 17) e, padrone del proprio e altrui sentire, esibendosi in una girandola di negazioni del diniego (“Questo processo è reso possibile da una scissione dell’io [...] che ci consente di negare la differenza sessuale pur riconoscendola parzialmente: esso implica un rapporto di sostanziale estraneità nei confronti del vero sesso femminile”, pp. 76-77), obbedisce: Io penso “l’idea stessa della cosa senziente” (p.11), Io sono il filosofo del sex appeal dell’inorganico.
E come all’Università, così a casa, “contro le anime belle della liberazione sessuale e della contestazione universitaria”, l’opposizione eccessiva (si allea con l’integralismo cattolico-musulmano) e riafferma il valore della Legge: “E’ ora di vedere il matrimonio e l’università dalla parte del male, come spacciatori di eccessi sessuali e filosofici cui non si può rinunciare, anziché dalla parte del bene come rimedi alla libidine sessuale e a quella conoscitiva” (p. 25).
L’inquietudine è svanita e l’enigma è stato risolto: “il confluire in un unico fenomeno di due dimensioni opposte, quali il modo di essere della cosa e la sensibilità umana” (p. 5) - “l’evento paradigmatico chiave intorno a cui ruota la società e la cultura contemporanea” (p. 145), è stato ben rimosso e posto nel rinnovato Ordine Mondiale.
Ciò che è inorganico è razionale e ciò che è razionale è inorganico! La filosofia, portata la sessualità (“triviale e parola non capita”, p. 16) fuori dal vicolo cieco in cui il sadismo la conduce” (p. 35) e ospitata nella sua casa (“connubio”, p. 3), finalmente, realizza il suo antico sogno “di transitare in dimensioni reali” (p. 16): “la sessualità inorganica è simile ad una eccitazione appagata e implica una reciprocità, una comunanza di sentire tra i partner impegnati in essa, e addirittura una specie di entusiasmo intellettuale, di eretismo cerebrale, di estremismo concettuale che derivano dalla filosofia [...] il sex appeal dell’inorganico è piuttosto un farsi mondo, un abolire la distanza che separa l’uomo dalla cosa” (p. 123). Il filosofo del dissolvimento della soggettività ha vinto i filosofi del pensiero debole, ma chi più chi meno si è consegnato mani e piedi alla propria Signora - la Tecnica.
Come avevano capito Horkheimer e Adorno (Dialettica dell’Illuminismo, Torino, 1980), chi per salvare o per salvarsi, si chiama Nessuno e adopera l’assimilazione allo stato di natura (naturale o artificiale) cade in preda alla hybris. Come a casa così all’Accademia, la logica del sado-masochismo imperversa e devasta le menti e i corpi degli uomini e delle donne, e la comune Terra. E la filosofia ricade nel pantano della totale apologia del vecchio passato, ancora presente, contrabbandato come futuro.
Oggi però, non c’è solo e ancora la servetta tracia a ridere (in strada e a piangere a casa): ci sono donne e uomini con i piedi per terra e lo sguardo sereno, pieno di vita e di amore (vita tua, vita mea) - coraggiose e coraggiosi, entrambi accoglienti, anche nei confronti di chi si attarda in brutti e vecchi sogni.
Al di là di ogni naturalismo e al di là di ogni idealismo, essi ed esse hanno trovato l’accesso a un nuovo rapporto sociale di produzione e a una nuova forza produttiva. Con Marx, con Freud, con W. Reich, con E. Paci, con Fachinelli e tantissimi altri e tantissime altre, hanno capiti che “l’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita” e possono “anche governarla” (W. Reich) - come all’interno, così all’esterno; come a casa, così all’Università; come in famiglia, così nello Stato.
La favola delle api (Bernard de Mandeville, 1705) è finita: gli uomini e le donne della terra hanno già dato inizio a un’altra storia. Al di là di ogni integralismo Tecnologico, Teologico e Politico, si amano e fanno ciò che vogliono - con sensibilità, intelligenza e coscienza, amorevolmente unite.
Milano, 04.12.1994
Federico La Sala
Si può calcolare lo spessore della realtà?
A proposito della «querelle» tra pensiero debole e nuovo realismo in cui è stato coinvolto Umberto Eco: per risolvere la questione una via eccellente sarebbe rilanciare il vecchio Kant con il «volano» di McLuhan
di Renato Barilli (l’Unità, 29.03.2012)
È in atto da qualche tempo nel settore filosofico del nostro Paese una tenzone che vede l’un contro l’altro armato due «opposti estremismi», destinati, come succede in questi casi, ad elidersi reciprocamente e a far auspicare una soluzione intermedia che apparirebbe come la più saggia, e si legherebbe oltretutto a prestigiosi contesti storici che entrambi gli schieramenti sembrano aver dimenticato.
La querelle nasce in seno alla scuola del «pensiero debole» di Gianni Vattimo, da cui un suo allievo di ieri, Maurizio Ferraris, a un tratto si è chiamato fuori aderendo a un preteso «nuovo realismo» cui sarebbe approdato l’Umberto Eco nazionale, il quale accetta quel neofita, ma con qualche imbarazzo e replica avanzando molti «distinguo» e concludendo, come avviene nell’ultimo Alfabeta 2, con la formula di un realismo negativo.
VECCHIE SOLUZIONI IDEALISTE
Il capo d’accusa mosso dall’ex-allievo Ferraris a Vattimo è che nelle sue riflessioni resterebbero solo in campo delle «interpretazioni» da cui la realtà risulta intaccata, logorata, ridotta alla condizione di un gruviera pieno di buchi. In definitiva Vattimo non nega una versione del genere, anzi, in sostanza la conferma in un saggio recente, Della realtà (Garzanti), confermando anche la sua adesione a una linea di pensiero negativo, da Nietzsche a Heidegger. Ma questa è una strada che rassomiglia molto a vecchie e scontate soluzioni idealiste, il mondo non esiste in sé, siamo noi a farlo esistere con i nostri atti di coscienza. Contro questa soluzione già tante volte apparsa sul filo dei secoli, e altrettante volte contestata, ci sta bene l’ennesima protesta inalberata da Ferraris, che ora la affida a un Manifesto del nuovo realismo (Laterza), però a sua volta ha il torto di cadere nel cosiddetto realismo ingenuo, di chi dimentica che comunque siamo noi a vedere, a toccare, a fare congetture su questa ipotetica realtà. In definitiva, l’uno e l’altro sembrano dimenticare il grande padre Kant, usualmente posto all’inizio della nostra età contemporanea (attenzione, non la si chiami moderna, visto che questa etichetta deve restare assegnata al precedente pensiero razionalista-empirista).
Kant aveva posto in campo la perfetta e non superabile formula del giudizio sintetico a priori, un match alla pari, dove noi essere umani mettiamo in gioco la nostra sensibilità e le nostre categorie mentali con cui andiamo a plasmare l’altrimenti amorfa materia d’esperienza, la quale però deve esserci, fornire un ineliminabile supporto ai nostri interventi. Naturalmente molta acqua è passata sotto i ponti, e del resto la geniale soluzione kantiana soffriva di tanti limiti storici. Infatti egli conferiva al soggetto umano il vecchio apparato di forme e categorie risalenti alla geometria euclidea, al pensiero classico, e non teneva in alcun conto l’asse del mutare dei tempi e delle situazioni materiali e sociali.
Da qui l’ampia produzione dei «filosofi della crisi» di fine Ottocento, i pragmatisti, con Peirce e Dewey in testa, Bergson e Husserl e tanti altri, a loro volta in piena sintonia con le rivoluzioni di Freud e di Einstein. Di tutto questo, in reazione agli anni cupi della dittatura fascista, era stato buon erede presso di noi Antonio Banfi, pronto in definitiva a formulare una sorta di «pensiero debole» dell’epoca, cioè a mettere in moto le categorie, troppo rigide in Kant, proclamando che ogni tempo deve allontanare le ipotesi ormai invecchiate e rifarsi un guardaroba ben commisurato sui fatti da valutare. Da lui è venuto il fronte che nel dopoguerra ha provveduto a reintegrare l’Italia in un quadro di pensiero internazionale, partecipando alla nostra ricostruzione e aprendo anche il dialogo col marxismo. Mi riferisco a Enzo Paci, Giulio Preti, Luciano Anceschi...
Bei tempi, quelli, in cui lo stesso Eco, allora funzionario della Bompiani e in procinto di varare una enciclopedia della filosofia, poi non realizzata, mi scriveva che ci saremmo ispirati a Husserl e non a Heidegger, allora sospetto di un forse ingiusto fiancheggiamento del nazismo. Poi, Vattimo ha promosso un suo eccessivo sdoganamento, ereditando anche gli eccessi di nichilismo e terrorismo concettuale che ora gli vengono imputati dall’allievo ribelle.
Eco allora si collocava assai bene in quel quadro, ponendosi anche alla testa della neoavanguardia sul fronte letterario, e producendo quello che forse resta il suo miglior apporto saggistico, l’Opera aperta.
Dopo, ha provveduto anche lui ad assottigliare lo spessore della realtà attraverso l’impresa semiotica, in cui i segni, anzi, le loro due facce, significanti e significati, giocano di specchi e rimandi tra loro, mancando di andare ad ancorarsi, al termine della trafila, sulla realtà.
Nel suo articolo sopra menzionato Eco dimentica del tutto il grande sfondo del miglior pensiero del primo Novecento, come se fossimo nati solo ieri, o ieri altro, e nel tentativo di salvare capra e cavoli si rifugia in una formula compromissoria, proponendo un «realismo negativo», che in definitiva è un modo di avvicinarsi o rendere omaggio al compagno dei vecchi tempi, Vattimo, in fondo entrambi sono venuti fuori dal pensiero di uno spiritualista come Luigi Pareyson.
E dire che oggi ci sarebbe una via eccellente per rilanciare il vecchio Kant, si pensi alla formula centrale del McLuhan-pensiero, ricordata tante volte l’anno scorso per celebrarne il centenario dalla nascita, «il medium è il messaggio», al centro di tutto c’è il nesso, la connessione, che stringe in un nodo stretto, inscindibile, il soggetto e l’oggetto, senza che l’uno possa pretendere di cancellare l’altro.
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
Le parole o le cose
Tra postmoderno e realismo la filosofia non è più in crisi
Dal dibattito di questi mesi, che ha mostrato la vitalità di una disciplina, è nato il saggio di Maurizio Ferraris
È un "Manifesto" che cerca di superare le tesi della "svolta linguistica"
Restano alcune zone critiche nel testo, come il rapporto con il desiderio
di Roberto Esposito (Repubblica, 15.03.2012)
Sul presupposto di partenza del Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pagg. 113, euro 15) - il cui contenuto è già ben noto ai lettori di queste pagine - si può senz’altro convenire. Si tratta della convinzione che alla fine del ventesimo secolo la filosofia contemporanea abbia ruotato intorno al proprio asse, assumendo una diversa inclinazione. Quella che ha mostrato la corda è l’eredità filosofica della cosiddetta "svolta linguistica" dei primi decenni del Novecento, incentrata intorno al primato trascendentale del linguaggio. Che a tale primato si attribuisse una connotazione analitica come in area anglosassone, ermeneutica in Germania o decostruttiva in Francia, l’idea che sottintendeva tale concezione era il carattere linguistico dell’intera realtà.
Da qui una conseguenza di tipo dissolutivo, che investiva non solo il reale, risolto in una serie di narrazioni prive di riscontro oggettivo, ma anche la filosofia stessa, dichiarata dai suoi stessi esponenti finita o quantomeno in perenne crisi. Sfuggendole in linea di principio la presa sull’oggetto, essa non poteva rivolgere la propria attitudine critica che a se stessa in una sorta di perenne autoconfutazione. In queste condizioni, si può dire, essa riusciva ad affermarsi solo negandosi. Piuttosto che elaborare - come suo compito - nuovi concetti, si limitava a smontarli, in una proliferazione di domande senza risposta. È a questa situazione, per così dire bloccata, che il Manifesto intende reagire.
Ma la tesi più suggestiva di Ferraris è che la necessità di muovere in una direzione diametralmente opposta - quella appunto di un "nuovo realismo" - si origini non dal fallimento, quanto dal successo della prospettiva postmoderna del primato dell’interpretazione sui fatti. Il superamento dell’oggettività - già proclamato da Nietzsche, fatto proprio da Heidegger e riproposto diversamente da Foucault - non avrebbe portato ad un’emancipazione dai vincoli oppressivi di una verità totale, ma alla configurazione di quella società dello spettacolo il cui frutto avvelenato è il populismo mediatico diffuso nelle nostre democrazie. Da qui l’esigenza che, dall’inizio degli anni Novanta, ha condotto l’autore ad abbandonare il paradigma ermeneutico a favore di un confronto diretto con il reale sul triplice terreno dell’estetica, della teoria della conoscenza e dell’ontologia sociale.
Questa la prospettiva del libro, proposta con l’intelligenza brillante e caustica cui Ferraris ci ha da tempo abituati. Molte le pagine che risultano convincenti, e anche equilibrate, a favore di quello che egli stesso definisce un "realismo modesto", ancorato alla distinzione tra epistemologia ed ontologia. Realismo, egli sostiene, non equivale né a scientismo, né, tantomeno, al vecchio positivismo. Esso non nega che vi siano oggetti socialmente costruiti, ma solo che tutti lo siano. Così come non contiene alcuna apologia dello stato di cose esistente. Solamente che, per poterlo criticare, è necessario prima conoscerlo "oggettivamente". Accertare qualcosa nella sua radice ontologica non vuol dire, per questo, accettarla supinamente. Anzi è la condizione preliminare per poterla, eventualmente, trasformare. I controeffetti di slogan apparentemente liberatori come quello dell’immaginazione al potere sono del resto sotto gli occhi di tutti: spesso sono stati proprio essi ad impedire, nel loro entusiasmo utopistico, un intervento critico nei confronti della realtà.
Detto questo, la tesi profilata dall’autore si presta ad una serie di critiche e di domande che aspettano una risposta. Innanzitutto l’idea che oggi sarebbe venuto meno ogni effetto impositivo da parte dei dispositivi di verità è tutta da provare.
La battaglia, dagli esiti tuttora incerti, contro il fondamentalismo cattolico, per esempio sul piano della bioetica, lascia pensare piuttosto il contrario. Così come l’ascrizione, operata da Ferraris, della rozza ideologia di Bush, e dei suoi consiglieri neo-con, al pensiero postmoderno può lasciare interdetto il lettore. Ed è, poi, vero che la semantica del desiderio, connessa alle ragioni del corpo, riconduce all’arcaico, alla infanzia, alle Madri? Come osserverebbe l’intera scuola lacaniana, Ferraris sta confondendo il desiderio - sempre connesso alla legge e al limite che questa impone - con il godimento. Non a caso le nostra società soffrono di una mancanza crescente di desiderio, quanto più sono sottoposte all’imperativo di godere senza limiti.
Ma la questione di fondo che la prospettiva di Ferraris apre è per me ancora un’altra. Ed è relativa al superamento della svolta linguistica di cui si diceva. Il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero fuori o non è che lo spostamento dall’una all’altra della sue polarità interne? Non riprende, con altri argomenti, la polemica che Carnap aveva, da un punto di vista logico-realistico, rivolto al decostruzionismo di Heidegger? Non resta dentro il perimetro definito dall’avversario che combatte?
Detto in altre parole, la rivendicazione dell’autonomia dell’oggetto presuppone necessariamente, come contraltare logico, quella del soggetto che pure intende contestare. Io credo si tratti di capire qual è il trascendentale, vale a dire la categoria costitutiva, che, nel pensiero e nella realtà - difficilmente separabili, visto che il pensiero non soltanto nasce sempre dentro una data realtà, ma a sua volta produce realtà - ha sostituito il linguaggio negli ultimi decenni, se non ancora prima. La risposta che una parte significativa della cultura filosofica internazionale ha dato a questa domanda è che si tratta della categoria di vita, nella sua relazione complessa con la politica e la storia.
Cosa deve intendersi qui per "vita"? Non certo un impulso irrazionale o, tantomeno, una forma mascherata di volontà di potenza, ma esattamente il superamento di quella contrapposizione tra soggetto e oggetto che ha condizionato la filosofia postkantiana trattenendola al di qua di una certa soglia epistemica. Da questo punto di vista autori come Nietzsche, e tanto più Foucault, indicano una direzione in singolare risonanza con quella linea di pensiero che è stata definita Italian Theory. Si tratta della rottura delle classiche bipolarità tra soggetto e oggetto, natura e storia, prassi e tecnica.
Oggi, sia nel campo della filosofia continentale che in quello della filosofia analitica, i programmi di ricerca più promettenti sono proprio quelli situati nella zona di indistinzione, o di oscillazione, tra poli che un tempo apparivano reciprocamente incompatibili. Mai come in questa stagione quelle che sembrano, e di fatto sono, invariabili della natura umana vengono sussunte e, per così dire, mese al lavoro, storicizzate, modificate, dalla tecnica in una forma difficilmente riducibile al contrasto tra interno ed esterno o soggetto e oggetto.
L’individuazione del rapporto tra potere e sapere - implicita, ad esempio, nel concetto foucaultiano di "dispositivo", ma anche in quello, gramsciano, di "egemonia" - non ha nulla a che vedere con l’idea che "il potere ha sempre ragione", o con la proclamazione retorica di un contropotere, se non altro perché ogni forma di potere implica di per sé una resistenza. Ciò non solo non è estraneo ad un atteggiamento realistico - è anzi al centro del grande realismo politico da Machiavelli in poi - ma consente di ripensare la soggettività in chiave conflittuale. Non esiste un soggetto unico, contrapposto al proprio oggetto. Il confronto - ed anche lo scontro - che insieme unisce e divide gli uomini verte sulla relazione insolubile di realtà e pensiero, natura e storia, tecnica e vita. Rispetto a tutti questi problemi, ovviamente aperti, il Manifesto di Ferraris permette di aprire una discussione franca e vivace.
Filosofia Vattimo, pensiero debole, e Ferraris, new realism, cercano di spiegare cosa succede a Roma partendo da posizioni radicalmente opposte. Ma entrambi si «dimenticano» dell’importanza della dialettica
Berlusconi esiste o no? Dipende dall’ermeneutica
L’«impasse». I fatti, per sé soli, non dirimono nulla, anzi a volte celano la verità
di Mico Capasso (l’Unità, 05.10.2011)
Le vie di mezzo sono le uniche che non portano a Roma», scriveva Schönberg, celebre compositore, teorico della dodecafonia e della dissonanza. D’altra parte, la fecondità di un dibattito come quello in corso sul New Realism si misura proprio sull’asprezza delle posizioni antitetiche in gioco. Da tempo, la posizione di Maurizio Ferraris lo vede contrapposto al suo antico maestro, Vattimo, rappresentante di una linea di pensiero dominante, l’ermeneutica, di cui il suo «pensiero debole» è versione assai accreditata. La questione è rimbalzata sui giornali per le sue ricadute politiche, in particolare per la lettura del berlusconismo. I due filosofi spiegano infatti lo stesso fenomeno partendo da posizioni radicalmente opposte. Senza vie di mezzo cercano di spiegare cosa succede a Roma.
Da una parte, ed è la posizione di Vattimo e dell’ermeneutica, vale l’istanza secondo cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni». Dall’altra, ed è la posizione di Ferraris e della proposta insita nel suo New Realism, è necessario che i fatti ci siano perché le interpretazioni possano essere smentite (e Berlusconi sbugiardato). Ferraris sprona dunque la filosofia a mettere in moto quella «ragione pigra», come la chiamava Kant, che si è ambientata in un mondo fatto di interpretazioni, rinunciando a porre il problema della loro verificabilità. Nello spirito di una ricerca della verità e non di una sterile polemica politica à la page, il lavoro di Ferraris sprona la comunità ermeneutica e storicistica italiana a ritornare, secondo il noto adagio fenomenologico, alle «cose stesse». Ma l’ermeneutica dice proprio ciò Ferraris vuol farle dire, o il filosofo del New Realism ne attacca, peraltro giustamente, solo una versione assai indebolita? È davvero possibile che l’ermeneutica, al di là dei discorsi che ha prodotto e che, nella critica di Ferraris, ne fanno un sintomo del postmoderno, sia stata così ingenua da barattare la ricerca della verità per un relativismo che non ha più la minima presa o pretesa sulla realtà?
Prendiamo una proposizione semplice: «piove». La verità o falsità di questa proposizione è qualcosa che chiunque può accertare semplicemente guardando fuori dalla finestra. Che piova o non piova è un fatto. Sin qui la reductio di Ferraris. L’ermeneuta però non concede neppure questo, ma ed è questo il punto essenziale non perché non creda alla verificabilità della proposizione, non perché creda che tutto è relativo e che quindi per lui potrebbe non essere pioggia quella che è pioggia per un altro, ma perché pensa che per poterne dirimere la verità, o il senso di verità, occorre guardare allo sfondo interpretativo che si nasconde e su cui si staglia l’enunciato, alle ragioni per cui è prodotto e ai suoi effetti di senso. Con i vecchi ma sempre istruttivi paradossi greci si potrebbe ad esempio chiedere quando finisce la pioggia o dove comincia un temporale. Probabile che in una foresta amazzonica le rilevazioni percepite dal senso comune siano diverse dalle nostre, perché legate ad altre forme di vita e ad altre condizioni di esistenza, senza per questo essere false.
D’altra parte, l’insufficienza del dato salta agli occhi, quando per esempio, in un pubblico dibattito, si ragiona «dati alla mano», e però questi dati dicono gli uni il contrario degli altri. Da un simile impasse non si esce additando il mondo com’è fuori dalla finestra, ma comprendendo le modalità interpretative di quei dati (che in verità dovrebbero chiamarsi «risultati»).
Come sono stati raccolti quei dati? Su quali campioni? Più che di un’esibizione di dati, è in gioco un conflitto di interpretazioni, dove alla fine soltanto quella che descriverà il paese nella sua complessità risulterà più vera. Non bastano ad esempio i dati sulla crescita o sul prodotto interno lordo, ma solo incrociando questi dati con la sperequazione della ricchezza e con l’aumento della forbice tra ricchi e poveri si otterrà un’immagine più veritiera del Paese.
La proposta ermeneutica sta dunque non nel negare i fatti e inventarsi le interpretazioni, ma nella consapevolezza che i fatti, per sé soli, non dirimono nulla (se non inutili dispute meteorologiche, tipo se fuori piove o c’è il sole), e anzi spesso celano, dietro la loro apparente datità, un’operazione di potere tanto più ingannevole in quanto si dissimula nella forma della verità a portata di mano. Anzi, proprio rispetto a chi ci dice che il mondo è quello che è, la filosofia, nella sua originaria vocazione politica, ha bisogno di un’iniezione di dialettica. Cioè di quella cura hegelo-marxiana, coppia non a caso assente da questo dibattito, che riemerge con la forza di un rimosso quando il pensiero, distogliendo lo sguardo dalle contraddizioni esistenti, si assopisce in questa «tenerezza delle cose» condita in salsa postmoderna. E senza vie di mezzo, ma con una robusta proposta di interpretazione del nostro tempo, a Roma ci si arriva e come.
Se l’anima e il suo corteo d’idee si specchiano nell’iPad
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 16.10.2011)
Il pensiero occidentale è stato marchiato a fuoco dall’invenzione dell’esistenza di un’anima immortale da parte di Platone venticinque secoli fa, e ha passato tutto il tempo successivo a cercare di capire che cosa sia questa anima e il suo rapporto con il mondo. Bell’esempio di razionalità, non c’è che dire, da parte di qualcuno che si definisce «animale razionale»: so che devo morire, ciò non mi piace e allora mi invento l’immortalità di qualche mia parte; impongo poi tutto ciò alla ragione e lascio che vi si rompa le corna per secoli, battezzando inoltre questo e altri problemi affini come «domande supreme» o «domande di senso». Non conosco migliore esempio di razionalità asservita alle emozioni.
Per una di quelle combinazioni della vita che sarebbero molto interessanti se non fossero, appunto, casuali, sto leggendo contemporaneamente il De anima di Aristotele e Anima e iPad di Maurizio Ferraris appena uscito da Guanda (pp. 185, 16,50). Non è il caso di parlare qui di Aristotele, uno dei primi a cercare di divincolarsi dalla rete gettata da Platone, ma che nel suo divincolarsi non fa che stringerne sempre più i nodi; del bel libro di Ferraris posso però parlare, non fosse altro che perché sono un ardente appassionato dell’iPad (e uno infettato dalla nascita dal dubbio dell’esistenza dell’anima stessa).
Il libro tratta dello spirito, contrapposto alla lettera, e di tutto ciò che pare appartenervi. Il titolo leggero e il riferimento a temi di attualità non ingannino: Anima e iPad è un libro di filosofia, anzi di filosofia teoretica, la più comprensiva ed essenziale che ci sia. Il fatto che la maggior parte degli esempi siano tratti dalla vita di tutti i giorni e che il tono sia generalmente discorsivo e quasi dimesso dimostra solo che si può fare filosofia in molti modi, dai più paludati ai più casual. Il vantaggio di tutto questo è duplice: l’esposizione può essere seguita da chiunque, e inoltre de te fabula narratur, vale a dire che vi si parla di cose concrete e di persone in carne e ossa. Una specie di registrazione ragionata del presente che sta passando. La parola registrazione non è comparsa per caso: quasi tutto per Ferraris è registrazione e memorizzazione; in questa ottica l’iPad assurge a un ruolo di strumento chiave.
L’esposizione è molto serrata e si snoda con continuità da un capitolo all’altro di quest’opera che sembra scritta quasi per scommessa. Per questo motivo non ne svelerò il contenuto o, peggio, la morale; il lettore si diverta a individuarli da sé, con un’avvertenza: c’è un’esorbitante esibizione di intelligenza in queste pagine, praticamente in ogni osservazione; si direbbe quasi uno spreco, in un Paese nel quale prendersi sul serio è visto un po’ come un peccato.
Una considerazione finale. Ferraris ha una spiccata inclinazione per l’ontologia, e su quel piano parla. Io sono più interessato a un discorso metodologico, non necessariamente epistemologico, e mi chiedo: se proprio uno volesse salvare qualcosa dell’idea di anima, cosa potrebbe chiamare in causa? Quale delle innumerevoli facoltà che sono state assegnate nei secoli all’anima o, se preferite, alla mente, costituiscono una questione ancora aperta? Ci penserò, magari prendendo via via appunti sul mio iPad, cui peraltro voglio un bene dell’anima.
Perché la coscienza non è solo interiore
Già nel secolo scorso filosofi e psicologi hanno sostenuto che per individuare la natura di questa facoltà occorre guardare soprattutto alla realtà esterna
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 04.10.2011)
In inglese, ci racconta Schopenhauer, era solito dire «non sono abbastanza ricco da permettermi una coscienza», questa entità nobile e interiore. Ma è davvero così? Se leggiamo Coscienza di Pietro Perconti (il Mulino, pagg. 216, euro 13,50) vediamo quanto sia potentemente determinata da due esteriorità.
La prima è il corpo. Cosa ci succederebbe se di colpo ci trovassimo con una faccia diversa? Impressionante. E questo sottilmente verrebbe a toccare la nostra coscienza. Per la coscienza è essenziale quello che gli studiosi contemporanei chiamano "embodiment", "incorporazione", ma se traducessimo, come è anche del tutto legittimo, con "incarnazione", ci renderemmo conto di quanto antica sia questa intuizione. Perciò nel secolo scorso filosofi e psicologi comportamentisti hanno risolutamente sostenuto che non si tratta di scavare nell’interno, ma di guardare all’esterno, sino a dare argomenti per una famosa barzelletta da professori. Quella dei due comportamentisti che fanno l’amore e poi lui dice a lei: «A te è piaciuto moltissimo. E a me?». Sono esagerazioni, ma rappresentarsi la coscienza come qualcosa di puramente interiore è insufficiente, per quanto possa apparirci naturale. Perché ci appare altrettanto naturale cercare la coscienza nei volti degli altri, o persino (è un tema a cui Perconti dedica una lunga analisi), nello specchio, un po’ come la regina di Biancaneve. Quando - succede anche questo - ci guardiamo nello specchio dell’ascensore per cercare di capire il nostro umore, non ci comportiamo molto diversamente dai comportamentisti della barzelletta.
Quanto poco sia vero che la nostra coscienza si riduca all’interiorità lo si capisce ancor meglio se si guarda all’esperienza estetica, d’accordo con uno dei fili conduttori di un altro libro uscito di recente, La percezione riflessa (Raffaello Cortina, pagg. 230, euro 23) di Fabrizio Desideri, che getta un ponte tra estetica e filosofia della mente. Che cosa avviene quando troviamo bella una cosa o un paesaggio? Sarebbe sbagliato credere che la bellezza la mettiamo tutta noi, con la nostra coscienza o sensibilità, sarebbe troppo facile. Sicuramente l’apprezzamento viene da noi, non esiste bellezza degli oggetti se non per soggetti che li riconoscono. Però, al tempo stesso, fa parte dell’apprezzamento l’assumere che il bello, una qualità emotiva molto elevata, ha luogo lì fuori, nell’oggetto. Ora, come sottolinea Desideri, qui si crea una strana inversione di ruoli. L’oggetto diventa un quasi-soggetto, sembra rivolgersi a noi come se fosse una persona (Kant notava che in certi giorni sembra che il mondo ci rivolga un sorriso, osservazione giustissima anche se in certi altri giorni sembra invece che ce l’abbia con noi). Il soggetto, invece, diventa un quasi-oggetto, giacché è passivo rispetto all’oggetto, che gli si impone come bello, o brutto, indipendentemente dalla sua volontà.
Con esperienze di questo genere - che non si riducono al bello, si pensi alla fitta di quando si vede la multa sotto il tergicristallo - entriamo in una seconda esteriorità rispetto alla pretesa interiorità della nostra coscienza, ossia nel mondo, naturale e sociale, ciò che gli studiosi contemporanei chiamano "embedment", e che Heidegger, con un altro gergo, chiamava "Dasein", "essere nel mondo". La nostra interiorità si nutre costantemente dell’esterno, e non potrebbe esistere senza di esso. Così non l’interiorità, ma la materia e la memoria, quello che ci imparenta agli archivi e ai computer, è la condizione imprescindibile per la coscienza.
Banalmente, proprio come ci sono delle operazioni intellettuali che sono inattuabili senza supporti esterni, per esempio calcoli complicati che richiedono carta e penna, o pallottolieri, cosi anche funzioni elevatissime come la responsabilità e la decisione morale non potrebbero aver luogo senza memoria. Come si può essere responsabili senza avere a che fare con le vestigia delle nostre azioni? E il fatto che nella nostra vita morale la rimozione (ossia una specie di oblio guidato e artificiale) giochi un ruolo così centrale ci spiega che il fondo della nostra anima è fatto di qualcosa che sta fuori, nel mondo, tanto quanto sta dentro, nella mente, ossia di memoria.
Il manifesto che divide la filosofia *
Ad aprire il dibattito è stato il manifesto del «nuovo realismo» pubblicato da Maurizio Ferraris su «la Repubblica» dell’ 8 agosto. Sulle stesse pagine è uscito poi un dialogo tra Ferraris e Gianni Vattimo, noto fautore del «pensiero debole» postmoderno, cui il nuovo realismo si contrappone. Sono quindi intervenuti sulla questione - affrontata anche nel recente «Almanacco di filosofia» di «MicroMega» - il direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara, «Il Sole 24 Ore», Corrado Ocone sul «Riformista» e poi Paolo Legrenzi, Petar Bojanic, Pier Aldo Rovatti e Paolo Flores d’ Arcais. Nel frattempo in Gran Bretagna la rivista «Prospect» ha annunciato la fine del postmoderno in tutte le sue declinazioni, presentando la mostra «Postmodernism. Style and Subversion», che si inaugura il 24 settembre al Victoria and Albert Museum di Londra. Domani invece si apre a Milano, presso l’ Università Statale e l’ ateneo del San Raffaele, il VII Congresso della Società europea di filosofia analitica, cui partecipano, fino al 6 settembre, studiosi provenienti da 54 Paesi.
* Corriere della sera, 31.08.2011
Deboli e forti
Cari filosofi, non idolatrate la scienza
Il match estivo traFerraris,Vattimo eSeverino sul “nuovorealismo”nasconde troppe concessioni allo scientismo.
Il dubbio è essenziale per la conoscenza
di Nicla Vassallo (il Fatto. 09.09.2011)
IL COSIDDETTO “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post-moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.
Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro-filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.
Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo-scientifiche, con pseudo-scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo-filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza.
Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza - a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors-texte”, sempre che si disponga delle competenze.
Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory-laden”.
L’addio al pensiero debole che divide i filosofi
FERRARIS E VATTIMO DISCUTONO IL MANIFESTO DEL "NEW REALISM" CHE PROPONE DI RIPORTARE I FATTI CONCRETI AL CENTRO DELLA RIFLESSIONE
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Ebbene sì, la terra è rotonda
Perché non tutte le teorie sono equivalenti
Non sempre è decisivo il contesto culturale: i cinesi hanno accettato Eratostene
Lo studioso interviene nel dibattito e spiega il punto di vista della scienza: non si possono costruire dei modelli indipendenti dalla realtà
di Carlo Rovelli (la Repubblica, 27.09.2011)
Il Zhou Bi Suan Jing (il "Classico dell’Aritmetica") è uno dei più antichi testi di matematica cinesi, completato intorno al III secolo a. C. Il libro discute, tra l’altro, della variazione dell’altezza del sole andando verso sud (a Palermo il sole è più alto nel cielo che a Milano). Basandosi sull’idea che la Terra sia piatta, lo Zhou Bi Suan Jing calcola che il Sole sia a circa 10.000 "li" sopra alla nostra testa: poche migliaia di chilometri. Più o meno nello stesso periodo, in Egitto, il direttore della Biblioteca di Alessandria, Eratostene, utilizza la stessa misura, ma si basa sull’idea che la Terra sia una sfera, e conclude che il Sole è lontanissimo e il perimetro del nostro pianeta è 252.000 "stadi", cioè 40.000 chilometri: la dimensione della Terra riportata oggi negli atlanti. Il contesto culturale della Cina della dinastia Han è molto diverso da quello del Mediterraneo Ellenistico, e culture diverse danno interpretazioni diverse della stessa osservazione. L’occidente continuerà a immaginare la Terra come una sfera (pensate a Dante), e il Sole molto lontano e grande; mentre la Cina continuerà a pensare che il Sole sia una pallina, e la Terra sia piatta.
Eratostene e lo Zhou Bi Suan Jing hanno egualmente ragione, ciascuno all’interno del proprio contesto culturale? Oppure Eratostene è più vicino alla realtà? Per usare la bellissima domanda con cui Gianni Vattimo chiude il suo dialogo con Maurizio Ferraris su Repubblica: dando ragione ad Eratostene, «credi davvero di parlare from nowhere?», di accedere alla realtà, parlando da un luogo fuori da ogni contesto culturale? Se diciamo che Eratostene ha ragione, non stiamo forse esprimendo nient’altro che assunzioni arbitrarie del nostro contesto culturale? Vattimo e Ferraris ripropongono, in versione un po’ italiana, una vasta questione che ha interessato la filosofia europea ed americana, la cui eco era giunta al pubblico italiano nel "dibattito fra Analitici e Continentali" lanciato diversi anni fa da Armando Massarenti. È difendibile il realismo, messo in discussione da Vattimo e difeso da Ferraris, cioè la tesi che cose e proprietà esistano indipendentemente dalle convinzioni, dagli schemi concettuali, o dal contesto culturale?
Torniamo in Cina. Verso la fine del 1500 arrivano in Cina i gesuiti, guidati da Matteo Ricci, colto astronomo. Quando i gesuiti vengono a conoscenza delle idee dell’Istituto Imperiale di Astronomia, sorridono. Quando i Cinesi ascoltano dai gesuiti le idee astronomiche occidentali, in brevissimo tempo rinunciano al proprio punto di vista, e adottano la prospettiva occidentale. Si badi, erano tempi politicamente non sospetti: l’esercito del Celeste Impero avrebbe spazzato via facilmente qualunque armata europea. Non è certo stata la forza politica a convincere i Cinesi che l’"interpretazione" occidentale fosse migliore. Cos’è stato? L’osservazione che i valori del vero e del falso sono intimamente influenzati dal contesto culturale è profonda ed intelligente. Parliamo dall’interno di sistemi di credenze, più o meno coerenti. Ma da questo non segue che non si possano mettere a confronto idee diverse, confrontarle, scegliere fra queste e imparare qualcosa "sulla realtà". Soprattutto non segue che la scelta sia solo questione di rapporti di potere o fattori irrazionali. La scelta può essere, anzi, il più delle volte effettivamente è determinata da un serio uso della ragione critica, che ci aiuta a vedere quale fra due alternative sia migliore: più coerente, più efficace e più confortata dai fatti.
Il motivo è che i nostri sistemi di pensiero non sono chiusi in sé stessi. Sono strutturalmente rivolti all’esterno e in continuo dialogo e scambio. Il nostro pensiero è pensiero sulla realtà, ed è in relazione costante sia con fatti inaspettati, con "la realtà, dura e irriducibile, che ci fa cambiare idea", sia con idee diverse. In questo confronto cresce, si modifica, e apprende. Il dialogo, se è sereno, può arrivare a mostrare chi ha ragione e chi ha torto. L’intera storia della scienza, antica e moderna, è una lunga dimostrazione dell’efficacia della ragione: i dibattiti sono feroci, ma prima o poi si arriva a comprendere chi ha ragione e chi ha torto. La Terra è rotonda, non è piatta.
Ragione e torto dal punto di vista di chi? Dal punto di vista from nowhere? No, dal punto di vista degli stessi dialoganti. Il confronto con opinioni diverse e con i fatti esterni conforta una posizione e ne indebolisce un’altra, per quanto la «realtà dei fatti» sia filtrata dalle interpretazioni. Per quanto si voglia interpretare la Terra come piatta, arriva comunque il giorno in cui fare i conti con la nave di Ferdinando Magellano, partita verso occidente e tornata da oriente. Impariamo qualcosa sulla realtà.
L’Italia, ha una difficoltà particolare ad accettare l’idea che si possa dialogare serenamente, cambiare idea ascoltando altri, e arrivare a trovare insieme una convinzione più fondata o una soluzione migliore. Manchiamo di una tradizione di democrazia, dove questo modo di mettersi a confronto abbia avuto tempo di affinarsi. Siamo abituati a lasciar decidere dominatori stranieri, principi, vescovi, o capi carismatici, invece che cercare soluzioni ragionevoli discutendo. Ci facciamo forti di alleanze e reti di amici, piuttosto che di argomenti convincenti. Siamo l’unico paese del mondo in cui nei dibattiti televisivi si toglie la parola all’altro; in ogni altro paese, chi interrompe è giudicato poco credibile dal pubblico: vuol dire che non ha buoni argomenti. Condividiamo con l’Iran il dubbio primato di essere i paesi che si fanno più influenzare da una potente casta sacerdotale. Io ho simpatia per il ribellismo irriducibile di Gianni Vattimo e la sua voglia di cambiamento. Ma dalla democrazia di Atene alla rivoluzione francese, un’arma di cui l’umanità dispone per difendersi dalla concentrazione del potere, come dalla dittatura mediatica, è la ragione.
Credo che l’equivoco di fondo sia confondere conoscenza e certezza. L’umanità vorrebbe un’àncora alla quale aggrappare certezze. Per il pensiero antico poteva essere la fiducia in negli dèi, un Sacro Testo, gli Ayatollah, o il Santo Padre. All’inizio del mondo moderno i limiti della Tradizione diventano palesi e la certezza è cercata nell’esperienza o nella ragione astratta. Nel XIX secolo sembra che la Scienza possa fornire risposte certe, prima di scoprire che perfino le efficacissime teorie di Newton sono poi messe in dubbio da Einstein. Abbiamo imparato che non esistono garanzie su cui fondare certezze. Ma questo non toglie che possiamo riconoscere le soluzioni più ragionevoli e il sapere più credibile. Possiamo ragionevolmente conoscere la realtà indipendente da noi. L’irriducibilità dell’esperienza e l’accordo a cui arriviamo sono le nostre garanzie, imperfette ma sufficienti, che stiamo parlando di una realtà indipendente da noi. Tra chi predica che la Verità è Unica, Assoluta (e lui ne è depositario), e chi sostiene che non c’è criterio generale per scegliere fra le opinioni, esiste una terza strada: quella della discussione e della ragione.
La Cina di oggi sta lentamente avviandosi a tornare quella che è stata per la maggior parte dei cinquanta secoli di civiltà umana: la più grande potenza del pianeta. Non sappiamo se ci riuscirà, né che idee porterà. Ma certo tra queste non ci sarà l’idea che il sole sia a 10.000 "li" e la Terra sia piatta. Perché? Semplicemente perché nonostante le differenze iniziali, grazie al dialogo e al confronto sereno fra interpretazioni diverse, abbiamo trovato ottime ragioni per credere che la Terra sia "realmente" rotonda.