La malattia dell’Occidente, la salute ....

SAPERE BIOPOLITICO. L’esercizio del potere sui corpi e i comportamenti. A partire da Foucault, una riflessione di Ida Dominijanni

venerdì 1 settembre 2006.
 

L’esercizio del potere sui corpi e i comportamenti

di IDA DOMINIJANNI *

«Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte». La citazione da Foucault (La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978, cap. V, "Diritto di morte e potere sulla vita") è d’obbligo: essa ricorre ormai in tutta la letteratura che sulla scia del filosofo francese analizza il passaggio dal paradigma politico al paradigma bio-politico della nostra epoca. Biopolitica sarebbe dunque l’era, che Foucault data a partire dal XVII secolo, in cui la sovranità non si caratterizza più tanto per il diritto di dare la morte ai sudditi, ma per il potere di presidiare, allungare, risanare la vita dei cittadini; in cui «la funzione più importante del potere non è forse più di uccidere ma di investire direttamente la vita».

L’amministrazone dei corpi e la «gestione calcolatrice della vita» diventano centrali per il governo sui singoli e sulla popolazone nel suo insieme; l’anatomo-politica del corpo umano (disciplina scolastica, militare, psichiatrica, clinica etc., che agiscono sugli individui) e la bio-politica della popolazione (controlli regolatori dei livelli di natalità, mortalità, salute, longevità, fertilità, che agiscono sulla specie) formano l’apparato di pratiche e tecnologie di cui il bio-potere si avvale; la biologia è il sapere che penetra e modifica lo statuto tradizionale del politico.

All’interno di questo nuovo spazio di poteri, saperi e tecnologie «l’uomo occidentale apprende a poco a poco che cosa è una specie vivente in un mondo vivente, cosa vuol dire avere un corpo, delle condizioni di esistenza, delle probabilità di vita, una salute individuale e collettiva. Per la prima volta probabilmente nella storia, la realtà biologica si riflette su quella politica: il fatto di vivere non è più il fondo inaccessibile che emerge solo di tanto in tanto, nelle vicende della morte e della sua fatalità, esso passa, almeno in parte, nel campo di controllo del sapere e d’intervento del potere».

Sapere e potere, com’è noto, vanno sempre assieme nella visione di Foucault. Un recente commento al passo che ho citato (Michele Cammelli, in "Filosofia politica" 2006 n.1) mette acutamente in rilievo come la nascita del paradigma bio-politico sia strettamente connesso, nell’analisi foucaultiana, con l’avvento di una forma di razionalità scientifica che fa perno sulla biologia: intanto è possibile la svolta epocale dalla sovranità politica alla sovranità biopolitica, in quanto a presupporla e a renderla possibile c’è stata l’altra svolta epocale dell’affermarsi del sapere biologico, ovvero della scienza del vivente.

La svolta insomma non è solo politica: è epistemologico-politica. Un elemento che sarebbe cruciale tenere presente per analizzare la natura bio-politica del potere di oggi.

E’ intuitivo infatti capire come e quanto la diagnosi di Foucault parli del e al nostro tempo, un tempo in cui questa natura emerge con sempre maggiore evidenza nel discorso pubblico, nelle leggi (ultima, quella sulla procreazione assistita), nelle politiche della sicurezza.

Meno intuitivo, ma altrettanto necessario, sarebbe connettere queste performance sulla vita del discorso pubblico e del potere agli sviluppi del sapere biologico, e in particolare alle frontiere aperte dalla mappatura del Dna e dalle sue ricadute tecnologiche e cliniche.

La domanda di "Golem l’Indispensabile" sulla salute rientra in questo panorama epistemico-politico. La promessa di una vita sempre più lunga e sempre più sana ci viene infatti congiuntamente, oggi, dal pulpito biologico e da quello politico, alleati nella produzione di un «regime di verità» - per restare al linguaggio foucaultiano - in cui come sempre sotto alcune false evidenze si nascondono molte vere falsità. E’ evidentemente vero che la durata media della vita (in Occidente) si è allungata negli ultimi decenni, che tutti siamo mediamente più sani e che i progressi della medicina, terapeutica e preventiva, ci aiutano a esserlo sempre di più; ma è palesemente falsa la coloritura di ottimismo lineare e progressivo di cui questo miglioramento si tinge nel discorso pubblico, mediatico e pubblicitario, come se il destino dell’umanità si fosse capovolto e davanti ai cittadini del XXI secolo non ci fosse l’inevitabilità della morte ma la promessa della vita eterna, in terra e non più in cielo.

Per quanto sempre più sana, la vita umana resta mortale; per quanto sostenuta dalla medicina, dallo sport, dal fitness e da ogni genere di additivi e integratori, la salute resta soggetta a piccole e grandi catastrofi dell’equilibrio dell’organismo; per quanto ciascuno di noi possa fare per mantenersi in forma, la nostra esistenza resta segnata anche dalla malattia e evitarla non è interamente nelle nostre mani.

Ancora Foucault metteva in guardia dagli esiti normalizzanti e normalizzatori della bio-politica: il disciplinamento dei corpi individuali e la regolazione del corpo-specie produce una soglia di «normalità» a cui ci si deve adeguare pena la caduta nella devianza o nella marginalità. La malattia mentale, non a caso da sempre internata, nascosta, sottratta allo sguardo della società dei «normali» e dei «sani di mente», è tipica di questa parabola, che però oggi rischia di estendersi alla malattia tout court. La promessa di salute non è infatti qualcosa che viene solo dall’alto del potere bio-medico-politico: è anche un’ingiunzione alla collaborazione attiva dal basso dei soggetti a cui si rivolge. Per essere sempre più sani, dobbiamo essere sempre più vigili sulle minacce che sulla nostra salute continuano a incombere: fare sport, non fumare, evitare le occasioni di contagio, mangiare questo e non quello, andare in vacanza, vincere lo stress, restare magri, sottoporci a controlli periodici e terapie preventive.

La promessa di salute comporta dunque un decalogo di regole e comportamenti, e un dispositivo di responsabilizzazione sempre pronto a rovesciarsi in colpevolizzazione: se ti ammali non è perché il caso avverso ti colpisce, ma perché non hai fatto abbastanza per non ammalarti, abbastanza sport, abbastanza resistenza allo stress, abbastanza diete, abbastanza prevenzione; in sostanza, se ti ammali è in gran parte colpa tua: te la sei voluta. Il che non è vero, o è vero solo in parte. Ma è quanto basta per trasformare il desiderio di star bene in strategie individuali e collettive di immunizzazione.

La ricerca della salute sconfina continuamente nella ricerca dei modi per evitare il rischio della malattia e del contagio, e il modo migliore per evitare la malattia e il contagio è quello di evitare, tout court, il contatto con gli altri e con il rischio che qualunque contatto inevitabilmente comporta: l’Aids è stato negli anni Ottanta il grande accidente su cui questa strategia di immunizzazione su vasta scala si è sperimentata, ed è diventata la grande metafora di una più generale immunizzazione dal rischio dell’incontro con l’altro che da allora in poi ha permeato le società occidentali. Non è un caso infatti che la crescita dei livelli di salute vada di pari passo con la crescita dell’individualismo: siamo sempre più sani, ma rischiamo di essere anche sempre più soli. Siamo sempre più consapevoli di come si fa a evitare la malattia, ma rischiamo di dimenticarci che la malattia fa parte della vita come l’ombra del sole e che accettarlo è tanto doloroso quanto inevitabile.

* www.goleminsispensabile.com, n° 5 - luglio 2006


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