L’esercizio del potere sui corpi e i comportamenti
di IDA DOMINIJANNI *
«Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte». La citazione da Foucault (La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978, cap. V, "Diritto di morte e potere sulla vita") è d’obbligo: essa ricorre ormai in tutta la letteratura che sulla scia del filosofo francese analizza il passaggio dal paradigma politico al paradigma bio-politico della nostra epoca. Biopolitica sarebbe dunque l’era, che Foucault data a partire dal XVII secolo, in cui la sovranità non si caratterizza più tanto per il diritto di dare la morte ai sudditi, ma per il potere di presidiare, allungare, risanare la vita dei cittadini; in cui «la funzione più importante del potere non è forse più di uccidere ma di investire direttamente la vita».
L’amministrazone dei corpi e la «gestione calcolatrice della vita» diventano centrali per il governo sui singoli e sulla popolazone nel suo insieme; l’anatomo-politica del corpo umano (disciplina scolastica, militare, psichiatrica, clinica etc., che agiscono sugli individui) e la bio-politica della popolazione (controlli regolatori dei livelli di natalità, mortalità, salute, longevità, fertilità, che agiscono sulla specie) formano l’apparato di pratiche e tecnologie di cui il bio-potere si avvale; la biologia è il sapere che penetra e modifica lo statuto tradizionale del politico.
All’interno di questo nuovo spazio di poteri, saperi e tecnologie «l’uomo occidentale apprende a poco a poco che cosa è una specie vivente in un mondo vivente, cosa vuol dire avere un corpo, delle condizioni di esistenza, delle probabilità di vita, una salute individuale e collettiva. Per la prima volta probabilmente nella storia, la realtà biologica si riflette su quella politica: il fatto di vivere non è più il fondo inaccessibile che emerge solo di tanto in tanto, nelle vicende della morte e della sua fatalità, esso passa, almeno in parte, nel campo di controllo del sapere e d’intervento del potere».
Sapere e potere, com’è noto, vanno sempre assieme nella visione di Foucault. Un recente commento al passo che ho citato (Michele Cammelli, in "Filosofia politica" 2006 n.1) mette acutamente in rilievo come la nascita del paradigma bio-politico sia strettamente connesso, nell’analisi foucaultiana, con l’avvento di una forma di razionalità scientifica che fa perno sulla biologia: intanto è possibile la svolta epocale dalla sovranità politica alla sovranità biopolitica, in quanto a presupporla e a renderla possibile c’è stata l’altra svolta epocale dell’affermarsi del sapere biologico, ovvero della scienza del vivente.
La svolta insomma non è solo politica: è epistemologico-politica. Un elemento che sarebbe cruciale tenere presente per analizzare la natura bio-politica del potere di oggi.
E’ intuitivo infatti capire come e quanto la diagnosi di Foucault parli del e al nostro tempo, un tempo in cui questa natura emerge con sempre maggiore evidenza nel discorso pubblico, nelle leggi (ultima, quella sulla procreazione assistita), nelle politiche della sicurezza.
Meno intuitivo, ma altrettanto necessario, sarebbe connettere queste performance sulla vita del discorso pubblico e del potere agli sviluppi del sapere biologico, e in particolare alle frontiere aperte dalla mappatura del Dna e dalle sue ricadute tecnologiche e cliniche.
La domanda di "Golem l’Indispensabile" sulla salute rientra in questo panorama epistemico-politico. La promessa di una vita sempre più lunga e sempre più sana ci viene infatti congiuntamente, oggi, dal pulpito biologico e da quello politico, alleati nella produzione di un «regime di verità» - per restare al linguaggio foucaultiano - in cui come sempre sotto alcune false evidenze si nascondono molte vere falsità. E’ evidentemente vero che la durata media della vita (in Occidente) si è allungata negli ultimi decenni, che tutti siamo mediamente più sani e che i progressi della medicina, terapeutica e preventiva, ci aiutano a esserlo sempre di più; ma è palesemente falsa la coloritura di ottimismo lineare e progressivo di cui questo miglioramento si tinge nel discorso pubblico, mediatico e pubblicitario, come se il destino dell’umanità si fosse capovolto e davanti ai cittadini del XXI secolo non ci fosse l’inevitabilità della morte ma la promessa della vita eterna, in terra e non più in cielo.
Per quanto sempre più sana, la vita umana resta mortale; per quanto sostenuta dalla medicina, dallo sport, dal fitness e da ogni genere di additivi e integratori, la salute resta soggetta a piccole e grandi catastrofi dell’equilibrio dell’organismo; per quanto ciascuno di noi possa fare per mantenersi in forma, la nostra esistenza resta segnata anche dalla malattia e evitarla non è interamente nelle nostre mani.
Ancora Foucault metteva in guardia dagli esiti normalizzanti e normalizzatori della bio-politica: il disciplinamento dei corpi individuali e la regolazione del corpo-specie produce una soglia di «normalità» a cui ci si deve adeguare pena la caduta nella devianza o nella marginalità. La malattia mentale, non a caso da sempre internata, nascosta, sottratta allo sguardo della società dei «normali» e dei «sani di mente», è tipica di questa parabola, che però oggi rischia di estendersi alla malattia tout court. La promessa di salute non è infatti qualcosa che viene solo dall’alto del potere bio-medico-politico: è anche un’ingiunzione alla collaborazione attiva dal basso dei soggetti a cui si rivolge. Per essere sempre più sani, dobbiamo essere sempre più vigili sulle minacce che sulla nostra salute continuano a incombere: fare sport, non fumare, evitare le occasioni di contagio, mangiare questo e non quello, andare in vacanza, vincere lo stress, restare magri, sottoporci a controlli periodici e terapie preventive.
La promessa di salute comporta dunque un decalogo di regole e comportamenti, e un dispositivo di responsabilizzazione sempre pronto a rovesciarsi in colpevolizzazione: se ti ammali non è perché il caso avverso ti colpisce, ma perché non hai fatto abbastanza per non ammalarti, abbastanza sport, abbastanza resistenza allo stress, abbastanza diete, abbastanza prevenzione; in sostanza, se ti ammali è in gran parte colpa tua: te la sei voluta. Il che non è vero, o è vero solo in parte. Ma è quanto basta per trasformare il desiderio di star bene in strategie individuali e collettive di immunizzazione.
La ricerca della salute sconfina continuamente nella ricerca dei modi per evitare il rischio della malattia e del contagio, e il modo migliore per evitare la malattia e il contagio è quello di evitare, tout court, il contatto con gli altri e con il rischio che qualunque contatto inevitabilmente comporta: l’Aids è stato negli anni Ottanta il grande accidente su cui questa strategia di immunizzazione su vasta scala si è sperimentata, ed è diventata la grande metafora di una più generale immunizzazione dal rischio dell’incontro con l’altro che da allora in poi ha permeato le società occidentali. Non è un caso infatti che la crescita dei livelli di salute vada di pari passo con la crescita dell’individualismo: siamo sempre più sani, ma rischiamo di essere anche sempre più soli. Siamo sempre più consapevoli di come si fa a evitare la malattia, ma rischiamo di dimenticarci che la malattia fa parte della vita come l’ombra del sole e che accettarlo è tanto doloroso quanto inevitabile.
* www.goleminsispensabile.com, n° 5 - luglio 2006
Una biopolitica diversa, senza Foucault
La demografia e le migrazioni come vincoli naturali cui l’uomo non può sottrarsi
Porte aperte ai lavoratori stranieri, diritti alle coppie gay, no al mito della decrescita
di Antonio Carioti (Corriere della Sera-La Lettura, 23.03.2014)
Quando si parla di biopolitica, soprattutto in Italia, il richiamo obbligato è al filosofo francese Michel Foucault, che introdusse questo concetto per definire i conflitti causati dalla tendenza del potere, in epoca moderna, a controllare e regolare l’esistenza delle persone in quanto esseri viventi, attraverso misure profilattiche, sanitarie, demografiche, fino agli orrori dell’eugenetica nazista. Diversi autori di spicco, da Giorgio Agamben a Roberto Esposito, da Toni Negri a Felice Cimatti, s’ispirano oggi a questo lascito foucaultiano.
Esiste però una visione alternativa della biopolitica, proposta dal filosofo del linguaggio Antonino Pennisi, sulla scorta di una vasta letteratura anglosassone, nel saggio L’errore di Platone (il Mulino). Malgrado il titolo, il grande pensatore greco non è al centro della trattazione: il suo sbaglio sarebbe consistito nell’affidare alla volontà umana la missione impossibile di plasmare la convivenza politica sulla base di progetti intellettualistici. Invece Pennisi dice alla «Lettura» di ritenere «che per difendere l’umanità occorra guardare più ai limiti che alle possibilità della nostra specie». Il contrario di quanto è successo nel Novecento, «un secolo presuntuoso, antropocentrico, che non ha voluto riconoscere i vincoli biologici dell’uomo e lo ha giudicato onnipotente, solo perché dotato di linguaggio e coscienza», fino a produrre «i più efferati delitti contro l’umanità».
Insomma, mentre la scuola foucaultiana rivendica il diritto soggettivo alla pienezza della vita, denunciando le costrizioni imposte dal potere, oggi in particolare attraverso le scelte economiche dettate dalla finanza globale, la biopolitica nella versione di Pennisi «parte dalla consapevolezza dei vincoli naturali entro cui può muoversi la progettazione politica».
A suo avviso, ogni disegno riformatore deve fondarsi «su quelle che sin dalle origini sono state le due principali molle dell’evoluzione sociale: i processi riproduttivi e quelli migratori. L’Homo sapiens è comparso 200 mila anni fa in una piccola regione dell’Africa centro-meridionale e si è espanso riproducendosi ed emigrando dappertutto. Tale attività non è mai cessata e ha modellato il mondo. Anche oggi i successi delle politiche nazionali derivano soprattutto dalla capacità di dare risposte concrete per gestire i diritti civili relativi alla riproduzione, quindi alle nuove forme di famiglia e alle migrazioni internazionali, con leggi che garantiscano lo spostamento e l’insediamento civile di coloro che lasciano le proprie terre d’origine».
Non c’è da stupirsi che la ricetta di Pennisi per combattere la crisi parta dal «nesso tra crescita economica e aumento della popolazione», nel quale individua, forse con un eccesso di determinismo, «l’unica bussola reale della navigazione biopolitica». Gli appare ozioso che ci si accapigli su «come redistribuire le ricchezze con piccoli provvedimenti che spostano una coperta stretta da un lato o dall’altro delle classi sociali». E liquida come «un piccolo fattarello di cronaca che la Germania abbia ancora una buona tenuta economica e l’Italia no», poiché i due Paesi sono affetti da fenomeni analoghi di denatalità e invecchiamento della popolazione.
La vera urgenza, afferma Pennisi, è «mantenere in equilibrio le diverse generazioni produttive rispetto a tutte le altre». Perciò è indispensabile «investire in popolazione giovane e in immigrazione», per «immettere energie fresche nel sistema sociale» e innescare così uno sviluppo durevole.
Porte aperte ai lavoratori stranieri, dunque. E anche ai diritti dei gay. Pennisi non reputa affatto casuale la concomitanza tra la crisi economica e l’approvazione di numerose leggi, in molti Paesi del mondo, per il riconoscimento delle coppie omosessuali. Collega tale fenomeno all’emancipazione civile e lavorativa delle giovani donne «che non fanno più, o fanno pochissimi, figli». Il combinato disposto, osserva, «è destinato a creare una depressione demografica ancor più grave». Un meccanismo che «non è arrestabile perché è il naturale risultato di quelle che gli specialisti chiamano transizioni demografiche, uguali nell’evoluzione di tutti i tempi e di tutte le nazioni». Una volta legittimata appieno la «sessualità non riproduttiva», conclude Pennisi, bisognerà prendere atto che al declino della natalità «c’è un solo rimedio naturale: lo spostamento di grandi masse di migranti che potranno redistribuire le giovinezze mancanti».
Detto così sembra un po’ troppo semplice. Date le tensioni socio-culturali provocate dall’immigrazione, viene da obiettare che converrebbe comunque fare qualcosa per aiutare gli autoctoni a mettere al mondo una prole più numerosa. Ma secondo Pennisi «l’ingegneria della fecondazione artificiale o quella del sostegno sociale alle madri che lavorano» sono soltanto «piccoli palliativi». A suo parere la retorica antimmigrati, assurda sotto il profilo biopolitico, è un frutto avvelenato della dote che distingue maggiormente la nostra specie, il linguaggio.
Anche altri animali (api, cervi, babbuini, uccelli migratori), nota Pennisi, «prendono decisioni che passano per l’elaborazione di un consenso collettivo», ma lo fanno «con segnali univoci», mirando sempre «a trovare la soluzione ecologicamente conveniente all’intera comunità e non al bene di un suo membro o di una sua parte». Noi uomini comunichiamo in modo assai più complesso e abbiamo un’acuta coscienza dell’individualità. Qualità eccezionali, che si rivelano tuttavia armi a doppio taglio, perché ci portano a creare «universi di discorso, dispositivi riccamente articolati per la produzione di teorie, sistemi, credenze», spesso finalizzati a «favorire logge, corporazioni, partiti, se non singoli individui». Il risultato è che i parlamenti si perdono in chiacchiere e «non servono ad assumere decisioni utili per tutti».
Tra le ideologie prese di mira da Pennisi non c’è però soltanto il populismo xenofobo antimmigrati. Ammiratore del liberalismo settecentesco, che «inaugurò la grande stagione della circolazione sociale dei beni e delle idee», boccia senza appello i fautori della decrescita. La retromarcia dell’economia non gli appare affatto auspicabile: «In Italia - s’indigna - stiamo già morendo di decrescita, eppure c’è chi vuole propinarla persino all’esercito dei disoccupati, guadagnandoci pure sulle disgrazie altrui. Ma la diminuzione dei consumi è sempre fonte di enormi tragedie collettive».
Un saggio analizza uno dei temi principali del pensiero italiano
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3.11.2012)
In tempo di globalizzazione cavalcante si potrebbe immaginare che anche la filosofia abbia perso qualsiasi tratto nazionale, per omologarsi a temi e linguaggi generali. In realtà, come avviene nel campo manifattura o della cucina, è proprio la contaminazione globale a rigenerare le tradizioni nazionali. Resta da spiegarsi l’attenzione più volte segnalata nei confronti del pensiero italiano. Una risposta convincente è adesso fornita nel volume di Dario Gentili, edito da il Mulino con il titolo Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica.
La sua tesi, condotta attraverso un’accurata genealogia del pensiero italiano contemporaneo, è che a metterlo in sintonia con il nostro tempo è la categoria di crisi, intesa nel suo doppio significato etimologico di divisione e di decisione. In una stagione dominata dal fantasma della crisi, non può sorprendere questa ripresa d’interesse per una filosofia che sembra letteralmente generata da situazioni critiche. Non solo, ma che vede nella crisi, più che un fenomeno di carattere economico, l’esito di determinate opzioni politiche. E’ questa interpretazione politica della crisi a fare del pensiero italiano un punto di riferimento privilegiato per cogliere il significato d’insieme della tempesta che oggi minaccia di travolgere, oltre che le finanze, la stessa possibilità di vita delle nostre società.
Estranea ad una matura teoria dello Stato, la filosofia italiana ha sempre pensato la politica come contrasto tra parti contrapposte in lotta per l’egemonia. Ma il passaggio cruciale avviene negli anni Sessanta e Settanta, quando la crisi della dialettica diventa l’oggetto centrale della teoria, cosiddetta “operaista”, che, in forme diverse, da parte di autori come Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, rompe con la tradizione storicistica per affermare il primato della parte sul tutto - vale a dire della classe operaia sul capitale.
Riviste di quegli anni quali Quaderni rossi, Classe operaia e Contropiano definiscono i contorni di un soggetto non più costruito sul modello universalistico del “popolo” gramsciano, ma espressione di una divisione che taglia l’intero corpo sociale. Il presupposto di tale prospettiva è che le crisi economiche, tutt’altro che eventi neutrali di natura oggettiva, siano prodotte dal capitale stesso per svilupparsi. E che dunque non siano superabili con strumenti puramente tecnici. L’uscita dalla crisi è sempre, in ultima analisi, di tipo politico. Vale a dire orientata a favore degli uni contro altri, in base ai rapporti di forza che di volta in volta si determinano.
Mentre la filosofia anglosassone elabora modelli normativi, quella tedesca si esercita in pratiche ermeneutiche e quella francese si concentra sul rapporto tra parola e scrittura, il pensiero italiano lavora sul nesso, intensamente politico, tra conflitto e crisi. E’ questo il nodo teoretico che, pur con una serie di differenze interne, riconosciute e anzi valorizzate da Gentili, lega autori diversi come de Giovanni e Marramao, Bodei e Virno, Muraro e Cavarero.
Se si eccettua il “pensiero debole” di Vattimo e Rovatti - ancora inscrivibile nell’orizzonte postmoderno, oggi riletto in chiave critica da Ferraris - l’intero quadrante della filosofia italiana ruota intorno alla questione del “politico”, come luogo di costituzione e di dislocazione della differenza. Quando il pensiero femminista rivendica la necessità, per la donna, di “partire da sé”, elaborando un proprio ordine simbolico, riproduce, su un altro piano, quanto gli operaisti avevano visto nel rapporto antagonistico tra Operai e capitale, come titolava il libro di Tronti.
E’ su questo passaggio che s’innesta la seconda ondata di pensiero che ha fatto da traino, sul piano internazionale, all’elaborazione dei filosofi italiani. Si tratta di quella concezione biopolitica che sposta radicalmente l’ordine del discorso operaista, situando il luogo del conflitto nella stessa categoria di vita.
Come è noto, tale svolta, insieme teoretica e politica, prende le mosse dai corsi tenuti da Michel Foucault negli anni Settanta. Ma, rispetto ad essi, apre un cantiere di pensiero largamente originale. La biopolitica italiana - nelle sue varie declinazioni - da un lato presuppone il concetto di crisi, nel senso che elabora paradigmi binari come quelli di bios e zoe, di impero e moltitudine, di communitas e immunitas; dall’altro lo oltrepassa nella misura in cui la focalizzazione sul paradigma di vita biologica assegna al conflitto una portata più ampia e complessa dello scontro economico o politico.
Intanto, differentemente dalla tradizione operaista - giunta da tempo al capolinea, anche per la disgregazione delle classi -, gli interpreti italiani della biopolitica hanno allargato il loro orizzonte al mondo globalizzato. Ma soprattutto si sono lasciati alle spalle quell’idea di “parte” che vincolava la vecchia sinistra ad una visione dicotomica della realtà.
Ciò non vuol dire che il conflitto sia superato - verrebbe meno, con esso, la stessa possibilità della politica. Ma esso è integrato dentro un quadro più ampio in cui il paradigma di crisi va ripensato insieme a quello di governo della complessità. La parte, insomma, non è più ciò che confligge con l’altra per il dominio del tutto, ma il punto di vista dal quale il tutto assume una diversa configurazione, chiamando ad un impegno comune tutte le componenti della società.
Se nasce la biopolitica
di Carlo Galli (la Repubblica, 12 febbraio 2009)
Ora che Eluana non c’è più - sfuggita, com’era sua volontà, al dominio degli oltranzisti della vita - , la decenza e la pietà ci impongono il silenzio sullo straziante caso personale. Tuttavia, la questione politica che si è aperta non può essere frettolosamente richiusa. Il cosiddetto caso Englaro ci ha posto, infatti, e continua a porci, di fronte a una questione di sovranità. Siamo davanti a quello che alcuni giuristi e alcuni filosofi definiscono "caso d’eccezione", cioè a quel punto in cui il sistema delle norme e delle istituzioni è minacciato, e lascia vedere, sotto le maglie lacerate della legalità, il nucleo originario della politica: il nesso fra corpo umano e corpo politico, in cui si mostra che la politica ha a che fare, primariamente, con la vita e con la morte degli esseri umani, e che la sovranità è la decisione che opera su questa materia incandescente.
Un tempo era prerogativa del sovrano decidere se mettere a morte o lasciare in vita un uomo (o una donna): oggi, al contrario, si è trattato di decidere tra il far vivere e il lasciar morire. E questa decisione si è posta all’ordine del giorno perché sta vacillando la normalità costituzionale liberaldemocratica, che cercava di tenere vita e politica il più possibile distinte e separate: secondo il nostro ordinamento, infatti, la politica non afferra direttamente la vita, ma la protegge lasciandone la libera disponibilità al cittadino, riconoscendogli il diritto cruciale di rifiutare le cure mediche (art. 32 Cost.). La sovranità della legge dello Stato liberale e democratico conferisce al singolo la sovranità su se stesso, sulla propria vita e sul proprio lasciare la vita.
Ciò che è capitato è la conferma che questa distinzione vien meno, che cioè il discorso politico è ormai direttamente discorso sulla vita, che il potere politico si fa potere di vita, che è ormai biopotere, e che la politica è apertamente biopolitica. E prende la forma di una sorta di allevamento dell’essere umano, che - per il suo bene, deciso da altri - non può sottrarsi alla tutela, e deve venire esonerato dal suo diritto sovrano su se stesso.
Il caso d’eccezione implica una decisione, ne è il frutto. Molte possono essere le cause contingenti che hanno determinato il caso Englaro - distrarre l’opinione pubblica dalla crisi economica con argomentazioni tra il sentimentale (la pretesa "condanna a morte" di una fanciulla) e il paleopolitico (la costituzione "filosovietica"), segnalare al Vaticano in occasione degli ottant’anni del Concordato la propria disponibilità a un’alleanza strategica in nome dell’autoritarismo etico, mettere in difficoltà il Pd; tuttavia, la decisione di Berlusconi di tentare di opporsi a una sentenza definitiva della magistratura con lo strumento della decretazione avente forza di legge è stata anche la decisione di istituire un percorso che, a partire dal cortocircuito fra vita e politica, avrebbe dovuto passare dal disegno di una società eticamente protetta a ogni altro ambito giuridico e politico. La decisione, cioè, di proporre una nuova normalità postcostituzionale, di tipo plebiscitario e decisionista: l’appello al popolo per rafforzare la potestà legislativa dell’esecutivo, per fare del governo il signore, in generale, della necessità e dell’urgenza.
La presa sul corpo di Eluana ha voluto essere anche la presa sul corpo politico della Repubblica. Lo scenario che quella decisione ci ha prospettato consiste infatti nella perdita delle distinzioni fra pubblico e privato, fra religione e politica, fra Chiesa e Stato, fra popolo e Parlamento, fra potere legislativo esecutivo e ordine giudiziario, fra legge universale e provvedimento ad hoc: "legge salva-Eluana" è stato battezzato il ddl frettolosamente affidato dal governo a un Parlamento trattato come un votificio. E questo mondo indistinto è anche un mondo rovesciato: lo Stato liberaldemocratico che riconosce al singolo la sovranità su se stesso è stato definito il frutto di un’ideologia malvagia e mortifera che lo vuole superiore al cittadino; lo Stato autoritario che non ne riconosce la volontà è stato fatto passare, invece, per liberale.
Attraverso le varie strategie (politiche, mediatiche, amministrative) con cui ha gestito il caso d’eccezione, la destra ha mostrato la propria vera natura, cioè di ritenere che la realtà politica sia un magma indistinto, plasmabile a piacimento: che tutto sia possibile, che ovunque si tratti sempre e solo di una questione di potere.
Ma il caso d’eccezione esige anche una risposta: la prima, doverosa e coraggiosa, è stata quella di Napolitano, per la quale il Capo dello Stato ha pagato e paga il prezzo di attacchi incredibili; ma devono proseguire l’opposizione, l’opinione pubblica, i media. La risposta non può non essere la energica riconferma della Costituzione, preziosa fonte di libertà e democrazia proprio in quanto contiene le distinzioni giuridiche e istituzionali che la destra annulla, proprio perché ha in sé la decisione per il liberalismo democratico che comporta anche il rispetto dei diritti sovrani del cittadino. È questo il tempo, insomma, di una nuova decisione contro il biopotere per l’habeas corpus, contro le tentazioni plebiscitarie per la normalità istituzionale, contro il decisionismo e l’autoritarismo per la libertà e la democrazia.
Biopolitica, controllo dei corpi e forme di ribellione
Due volumi fanno il punto della riflessione: “Biopolitica, storia e attualità di un concetto” e “Lessico di biopolitica”. Resta centrale la teoria di Foucault: l’importanza assunta dalla sessualità come oggetto di scontro politico
di Beatrice Busi (Liberazione, 23.06.2006)
Più che ad una categoria del pensiero, la biopolitica assomiglia ad uno strano animale proteiforme. Flessibile, liquida e sinuosa, riesce ad adattarsi ad ambienti teorici molto diversi tra loro. Come testimonia l’antologia curata da Antonella Cutro (Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Ombrecorte, pp. 171, euro 16) l’idea di un “governo della vita” ha un’origine lontana e un raggio d’azione molto ampio che si estende dal concetto positivista di “biocrazia” coniato da Auguste Comte a metà dell’Ottocento fino alle ricerche attuali del gruppo dei Biopolitics americani, impegnati nella definizione di un approccio biologico allo studio della politica. In mezzo ci sono alcuni tristissimi capitoli della storia del pensiero occidentale che tracciano una linea di continuità tra l’eugenetica statunitense di inizio Novecento e la “tanatopolitica” nazista entrambe legate a quelle estremizzazioni razzistiche del “darwinismo sociale” che tentava spiegazioni biologiche delle disuguaglianze di classe. Per chi intende la politica non solo come tecnica della governance ma soprattutto come arte creativa per una radicale trasformazione dell’esistente, il lavoro fondamentale nella riflessione sulla biopolitica rimane comunque quello di Michel Foucault.
Il filosofo francese la utilizza per la prima volta in una conferenza sulla nascita della medicina sociale tenuta nel 1974 all’Università di Rio de Janeiro, ma è nel primo volume della Storia della sessualità, che vengono gettate le basi della tesi sulla biopolitica sviluppata tra il 1976 e il 1979 nei corsi svolti al Collège de France. «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte (...). La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita». Il passaggio di consegne dal potere sovrano al biopotere si costituisce e si articola principalmente in due forme: una “anatomo-politica del corpo umano” impegnata nel processo di normalizzazione delle sessualità eccentriche oltre che dell’addomesticamento dei corpi ai ritmi e alle esigenze del lavoro produttivo e riproduttivo, ma anche una “bio-politica della popolazione”, ovvero la creazione di un’apparato specifico di sapere e potere che passa attraverso fenomeni di “statalizzazione del biologico” legati all’affermazione dell’economia liberale come strumento di governo. «Su questo sfondo si può capire l’importanza assunta dal sesso come oggetto di scontro politico: esso è l’elemento di connessione dei due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la tecnologia politica della vita (...) il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo e della specie. Ci si serve di esso come matrice delle discipline e principio delle regolazioni».
Tra le cinquantasei voci che costituiscono il recente e corposo volume Lessico di biopolitica (Manifestolibri, pp. 382, euro 30), le più interessanti sono proprio quelle più “fedeli” all’impostazione foucaultiana che desiderava tenere assieme problematizzazione della biopolitica e analisi sull’emergere di pratiche di resistenza radicate nel corpo. Talmente fedeli a Foucault da reiterarne anche la sua sottovalutazione del movimento femminista che ha invece rappresentato un potentissimo “brivido sociale” proprio a partire dalla politicizzazione del sesso e delle relazioni. In particolare sono i lemmi relativi a “Corpi”, “Differenze”, “Singolarità” e “Sessualità”, oltre a quella specifica sulle “Pratiche di resistenza” che ci aiutano ad uscire dal dibattito accademico.
«Riappropriandosi del diritto a esprimere un sapere sulla propria condizione, i gay, le lesbiche, i delinquenti, i pazzi, hanno fatto emergere le strategie attraverso cui i discorsi medici, giuridici, scientifici, religiosi, delegittimano e squalificano le loro condotte. A partire dalla denaturalizzazione delle proprie forme di vita, le minoranze hanno avviato una lotta politica contro il sistema sociale che crea esclusione e stigma» (“Pratiche di resistenza”).
Ma lo sganciamento della sessualità dalla riproduzione e delle identità dal sesso anatomico operato dai movimenti degli anni Settanta che ha aperto ampi spazi di libertà sociale nei processi di soggettivazione, di costruzione delle identità e delle relazioni affettive, è una lotta politica ancora attualissima.
«La riduzione a natura di qualunque stile di vita poco incline al conformismo sociale, è un escamotage della razionalità scientifica per difendere i confini normativi definiti dall’organizzazione politico-sociale»: una mossa riduzionista che sembra non conoscere sosta e deve farci stare costantemente in guardia riguardo ad ogni “uso pubblico” della biologia in favore di una presunta naturalità dell’ordine sociale. E la tendenza neoconservatrice di una larga parte della maggioranza di governo che si è espressa nell’istituzione di un Ministero della famiglia e di una Commissione interministeriale di bioetica presieduta dal Ministro degli interni, la dice lunga sull’attualità stringente di una riflessione e un dibattito approfondito sulla biopolitica. Come abbiamo tristemente già sperimentanto durante la campagna referendaria sulla legge 40, la posta in gioco attuale nello scontro tra Stato, Chiesa e Grande Scienza è proprio la stessa definizione di “vita”. Ma come sottolinea Foucault, «questo non significa che la vita sia stata integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestiscono; essa sfugge senza posa».
Dopo la potente esperienza dei movimenti delle “minoranze” negli anni Settanta rimane aperto l’interrogativo su quali siano le forme dell’organizzazione e della lotta adeguate al presente. Rileggendo Foucault, quando nella Volontà di sapere scrive che è la vita intesa «come bisogni fondamentali, essenza concreta dell’uomo, realizzazione delle sue virtualità e pienezza del possibile» a rappresentare la posta in gioco delle lotte politiche contemporanee anche quando si modulano attraverso richieste di diritti, non possiamo non guardare al significato dei movimenti recenti che, da Roma a Parigi, hanno espresso gesti di ribellione e biosindacalismo radicale contro la precarietà come dispositivo di controllo postfordista. Diritto alla casa, diritto al reddito, diritto alla formazione e alla libera circolazione dei saperi, diritto alla libertà di movimento delle persone significano semplicemente diritto alla vita. L’unico diritto alla vita che un governo di centrosinistra dovrebbe preoccuparsi davvero di garantire: di fronte alle continue rapine del biopotere le lotte sociali non possono essere “arrestate”. Piuttosto, sono destinate a generalizzarsi.