GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io").
Appunti e note (cliccare sul ’ rosso’, per leggere i testi)
a cura di Federico La Sala
LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI.
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
IL PARTITO TRASVERSALE DEL "CAVALLO DI TROIA"
CRISI COSTITUZIONALE (1994-2009). DUE PRESIDENTI GRIDANO: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ "PULCINELLA"?
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!!: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI.
FLS
QUALE EUROPA PER UN "BUON 2025"?: UNA STORIA DI LUNGA DURATA E UNA ORAZIANA SOLLECITAZIONE SUL "SAPERE AUDE!" (KANT, KOENIGSBERG, 1784; KALININGRAD, 2024) DA RIPRENDERE...
RICORDANDO CHE “La guerra non si abolisce coi trattati, ma stimolando la riflessione e la cultura di tutti”, come sosteneva Gino Strada, forse, oggi alla fine del 2024, io renderei omaggio anche alla memoria di Enrico Berlinguer che, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della "spinta propulsiva" della rivoluzione sovietica, anticipando sia la svolta di Gorbaciov sia la caduta e la fine del "comunismo" russo, e, con esso, del "muro di Berlino" (1989). Al contempo, e insieme, renderei omaggio allo stesso Michail Gorbaciov (cfr. foto allegata, "Le Monde" 1989) e, ancora, ad Antonio Gramsci (1891-1937).
CULTURA E #SOCIETA’. Alla luce dell’avvio del #Giubileo2025 e delle celebrazioni dell’anniversario del #Primo #Concilio di #Nicea (325), una importante #analogia (carica di #teoria) sulla relazione tra il #cristianesimo e il #paolinismo e il #marxismo e il #leninismo, fatta da Gramsci:
"POSIZIONE DEL #PROBLEMA. [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 § 33").
#BUONANNO, #BUON2025!
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando #BenedettoCroce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don #GiuseppeDeLuca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. .. *
Il caso e la necessità. Come la pandemia migliora l’esame di maturità
di Giovanni Pellegrini ("Le parole e le cose", 22 marzo 2021)
La strada è quella giusta, ma chissà se è una strada! Come quasi sempre nelle cose di scuola, il cuore dell’impero promulga editti sensati o addirittura - oso utilizzare il termine - ragionevoli, in maniera quasi-casuale e quasi solo sotto la pressione della necessità.
Sto parlando dell’Ordinanza ministeriale del 3 marzo 2021 sull’esame di Stato del secondo ciclo, a partire dalla quale vorrei sviluppare qualche riflessione.
Intanto chiariamo subito che, nonostante l’apparenza determinata dal fatto che gran parte del testo è l’esatta fotocopia di quello dello scorso anno, l’ordinanza non è identica alla sua precedente e, soprattutto, non disegna affatto un esame dello stesso tipo. Certo non ci sono gli scritti e al centro dell’unica prova orale c’è ancora quella che, inevitabilmente ma molto impropriamente, abbiamo già iniziato a ri-chiamare “tesina”.
Tuttavia il modo in cui viene normato il colloquio e in particolare il modo in cui viene disegnato “l’elaborato” che gli alunni dovranno presentare sono decisamente migliori.
1. L’elaborato deve “concernere le discipline caratterizzanti [...] ed essere integrato, in una prospettiva multidisciplinare, dagli apporti di altre discipline o competenze individuali [...]”. Sono dunque novità (rispetto all’ordinanza dello scorso anno) sia l’esplicito riferimento all’apporto di altre discipline, sia l’assenza dell’assurda possibilità di “assegnare a tutti i candidati uno stesso argomento che si presti a uno svolgimento fortemente personalizzato”. Su questo punto la redazione della vecchia norma aveva lasciato campo libero al consueto esercizio ministeriale sul nulla, visto che è del tutto evidente che due elaborati sullo stesso tema, in quanto frutto di un lavoro di ricerca svolto da alunni diversi, cioè con riferimenti e approcci diversi, sono a tutti gli effetti elaborati diversi. È quindi ovvio che può essere assegnato anche a più di un alunno lo stesso argomento di partenza. Non c’è né da consigliare né da vietare nulla. E, soprattutto, non c’è alcun bisogno di insegnare agli insegnanti come si fa il lavoro dell’insegnante. Precisare serviva solo a favorire il disimpegno dei Consigli di Classe che potevano quindi serenamente assegnare un unico argomento a tutta la classe, e chi s’è visto s’è visto. Quest’anno ci ha poi pensato l’infaticabile Max Bruschi, nella nota di chiarimento all’ordinanza, a ripristinare un adeguato tasso di non senso. Come spesso accade il buon Bruschi ha perso una buona occasione per tacere. Ma - per nostra fortuna - esiste la gerarchia delle fonti e quindi la nota di Bruschi può e deve essere rapidamente consegnata all’irrilevanza che merita.
2. L’argomento dell’elaborato “è assegnato a ciascun candidato dal consiglio di classe, tenendo conto del percorso personale, su indicazione dei docenti delle discipline caratterizzanti” mentre lo scorso anno, del Consiglio non si faceva alcuna menzione e tutto sembrava lasciato alla relazione fra gli alunni e il docente delle materie di indirizzo. Esattamente come lo scorso anno, invece e in teoria, gli alunni potrebbero anche non avere alcuna voce in capitolo nella scelta. Il che è, al tempo stesso, ovvio ed ottimo. È del tutto evidente che è assolutamente sensato che i docenti invitino gli alunni a proporre un tema/argomento/testo da cui partire e su cui lavorare; ma la definizione dell’argomento è una ovvia prerogativa dei docenti.
3. La cosa più seria e più promettente è la questione dei tutoraggi. Certo è “promettente” anche nel senso che promette di costringerci a un lavoro faticoso ed impegnativo; tuttavia lo fa in modo sensato e con equilibrio. Qualunque percorso di ricerca e di approfondimento (ma anche solo la produzione di una riflessione pubblica) esige confronto e discussione con uno o più interlocutori che fanno osservazioni e che quindi orientano la produzione. Nell’editoria si chiama “referaggio” e di questo dialogo non può fare a meno neppure il ricercatore che si muova ai più avanzati livelli scientifici della sua disciplina. L’argomento secondo cui “gli alunni devono fare da soli” e sulla cui base, nei tanti anni dell’esame con “le tesine”, troppo spesso i docenti si sono sottratti al loro compito di maestri, ha costituito una catastrofica latitanza ed è stato l’architrave della costruzione di una parodia ridicola del vero apprendere e del vero ricercare. I non pochi che hanno tentato di opporsi lo hanno fatto al prezzo di enormi sacrifici individuali in termini di carico di lavoro, e con nessun risultato a livello di sistema.
L’ordinanza del ministro Bianchi fa giustizia di questo triste passato mettendo nero su bianco che il compito di tutoraggio è un compito che spetta all’intero Consiglio di Classe o, almeno (e questo secondo me è un limite), ai docenti “designati per far parte delle sottocommissioni”. Ovviamente questa necessaria chiarezza porta con sé una serie di problemi non solo organizzativi. Come scegliere i tutores per ciascun alunno? Alla base della scelta devono esserci esclusivamente le competenze disciplinari oggetto dell’elaborato? Come può un docente di matematica e fisica svolgere un ruolo di tutoraggio per un elaborato che sviluppa il tema del rapporto fra “legge umana e legge divina” a partire da un brano dell’Antigone o, per converso, come può un docente di latino interloquire produttivamente con un suo alunno su un elaborato che sviluppa una riflessione sui modi di risolvere le equazioni differenziali?
Le soluzioni per questi problemi, che non sono affatto meramente organizzativi ma didattici e persino autenticamente teorici, potranno essere trovate percorrendo strade diverse e alcune soluzioni si riveleranno, certo, migliori di altre. Difficile dire una parola univoca prima di essersi messi alla prova. Ma in generale credo si debba partire dal fatto che una produzione scritta, anche quella più tecnica e formalizzata, deve essere scritta - almeno in parte - in lingua italiana. E l’insegnamento dell’uso della lingua non è una competenza esclusiva del titolare dell’insegnante di italiano. La chiarezza espositiva, l’efficacia comunicativa, la correttezza formale della redazione, il rispetto delle consegne relativa a limiti d’ampiezza e struttura di un elaborato, devono essere prese in carico da docenti di ogni disciplina.
Per come la vedo io ciò cui bisogna puntare è un sistematico lavoro di collaborazione fra i docenti del consiglio di classe. Ciascun docente avrà un numero di alunni di cui sarà il tutor formale, ma poi gli alunni si rapporteranno con i docenti delle discipline che sono coinvolte nella loro produzione e che - forse è il caso di ribadirlo - non devono assolutamente essere tutte le discipline presenti nella commissione d’esame, pena la trasformazione dell’elaborato nell’arlecchinata che troppo spesso sono state le vecchie “tesine”. Ma fra il referee e il consulente disciplinare c’è una differenza essenziale. Sono due lavori diversi, ma altrettanto necessari e altrettanto importanti, soprattutto se i docenti in questione collaborano in un vero dialogo fra loro e con l’allievo.
Si poteva fare meglio? Sì, secondo me si poteva fare meglio, ad esempio disegnando il sistema dei tutoraggi su base di Istituto, coinvolgendo più che i Consigli di Classe i Dipartimenti disciplinari. Forse in questo modo almeno alcuni dei problemi legati alla ripartizione del lavoro e alla assegnazione dei tutores si sarebbe potuta risolvere meglio. Ma a parte l’aspetto organizzativo a me sarebbe parso un enorme guadagno in termini formativi il fatto che un alunno, nel produrre un elaborato in vista di una prova d’esame, avesse avuto la possibilità di relazionarsi con docenti diversi da quelli della sua classe.
Anche i tempi assegnati potevano essere pensati meglio. Intraprendere un lavoro del genere richiede, ad alunni e docenti, molto più tempo di quello previsto dall’ordinanza. Qui - probabilmente - l’emergenza e il cambio di governo hanno giocato a sfavore della ragionevolezza che suggerirebbe di fissare come data limite per la scelta di un argomento su cui iniziare un lavoro di serio approfondimento, il 15 Gennaio e non il 30 Aprile. Per rimediare sarebbe necessario anticipare il più possibile la definizione degli argomenti assegnati e la scelta dei tutores. A questo punto si dovrebbe pensare a compensare questa eccessiva restrizione dei tempi disponendo formalmente che almeno i docenti presenti in commissione, e almeno nell’ultimo mese di lezioni, non effettuino alcuna verifica formale nella loro disciplina; magari prendendo in considerazione la possibilità di valutare disciplinarmente lo stato di avanzamento del lavoro.
Su questo, anche per chi è animato come me da incrollabile ottimismo della volontà, le speranze sono davvero poche. Me lo ha fatto notare una alunna che, mentre ragionavamo in classe di queste cose, mi ha detto sul muso “prof., lei davvero è più idealista di Hegel”! Il vecchio prof., che si sente hegeliano dentro, è stato lusingato ma l’osservazione è dannatamente seria.
In conclusione una parola a tutti coloro per cui “l’esame è una finzione inutile e va abolito”. Un colloquio d’esame di questo tipo, anzi ancora più radicalmente centrato sulla discussione di un elaborato prodotto dal candidato, costituisce un’ottima prova d’esame perché lega il momento della verifica finale alla valutazione della autonomia di lavoro del candidato e alla sua determinazione nello svolgere un serio percorso di approfondimento. E lo è molto di più senza la pletorica presenza degli scritti disciplinari, che restano certo uno strumento essenziale per la valutazione di conoscenze e competenze ma che sono uno strumento a disposizione dei docenti per tutto il curricolo. È sulla base di quelle prove scritte che viene formulata la valutazione annuale. Non c’è alcuna ragione perché essi diventino il centro dell’esame finale. Un colloquio d’esame di questo tipo dovrebbe semmai essere moltiplicato e costituire, a differenti livelli di complessità, una prova d’esame per l’ammissione al successivo anno di corso, magari abbinato alla introduzione di quelle ripetenze disciplinari che consentirebbero ai docenti di segnalare le gravi insufficienze senza bocciare in tutte le discipline e agli alunni di non drammatizzare un esito negativo che non deve essere vissuto come un fallimento.
Chissà se la strada giusta sarà una strada e non solo la casuale risposta a una necessità dettata dalla pandemia. Solo nel caso in cui si tratti dell’inizio di un cammino destinato a durare avremo tempo per sperimentare e trovare soluzioni ancora più coerenti con il nostro compito di maestri.
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NOTA:
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. LA CRITICA DI UN’ALUNNA AD UN “VECCHIO PROF, CHE SI SENTE HEGELIANO DENTRO” ... *
CHIARISSIMO PROF. PELLEGRINI, A LIVELLO FILOSOFICO E , INSIEME, ALLA LUCE DELLA DICHIARAZIONE STRATEGICA DEL GOVERNO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, MARIO DRAGHI, RELATIVA ALLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONALE ( “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge”), NON LASCEREI “CADERE” QUESTA OSSERVAZIONE “DANNATAMENTE SERIA” .
Perché ciò non avvenga, forse, potrebbe essere utile accogliere le riflessioni fatte da Francesca Rigotti nel suo recente intervento dedicato proprio al tema “Donne al futuro” (Doppiozero, 20 marzo 2021: https://www.doppiozero.com/materiali/donne-al-futuro), portarsi fuori dal letargo istituzionale di una antropologia ancora zoppa e cieca (hegeliana) e rendere possibile alle alunne e agli alunni una *reale* uscita (come chiaramente indica l’ art. 3 della *Costituzione*) dallo “stato di minorità”. Avere il coraggio di dire ai nostri giovani e alle nostre giovani che sono tutti *sovrani* e tutte *sovrane* non è che l’altro lato dell’avere il coraggio di servirsi della propria personale intelligenza.... O no?!
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICA. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
#DANTE2021, #STORIOGRAFIA. -#MEMORIA DI UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO ITALICO-ROMANO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889#forum3161063).
Il fascismo e la #storia, oggi
INTERVISTA. “Il fascismo e la storia” a cura di Paola S. Salvatori *
Dott.ssa Paola S. Salvatori, Lei ha curato l’edizione degli Atti del Convegno dal titolo Il fascismo e la storia, pubblicati dalla Scuola Normale Superiore: quale considerazione ebbe delle discipline storiche il regime fascista?
A Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il 16 e il 17 febbraio del 2017 è stato organizzato il convegno intitolato Il fascismo e la storia i cui risultati vengono pubblicati nel volume che stiamo presentando: è stata l’occasione per riflettere - con colleghi esperti di diverse epoche - sulla complessità di un fenomeno non solo culturale ma anche politico e identitario i cui lasciti sono giunti fino a noi.
Durante il Ventennio, l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo - con la sua proiezione anche nella dimensione del futuro - funzionò da pungolo per una storicizzazione estrema di tutti i campi della vita quotidiana e intellettuale del Paese: la storia fu utilizzata e manipolata nella sua prospettiva più diacronica, conducendo a un’interpretazione del passato onnicomprensiva. L’uso politico dell’analogia storica fu dunque uno dei principali strumenti utilizzati dal regime per fabbricare e alimentare il consenso: attraverso una propaganda capillare, la storia contribuì a dimostrare la necessità teleologica dell’avvento del fascismo. Con la rappresentazione della sostanziale unitarietà dell’intera vicenda italica - dai tempi più remoti a quelli presenti - si legittimò l’irruzione di Benito Mussolini nell’attualità, come fosse uno svelamento che perfezionava e portava a maturazione un processo altrimenti incompiuto. Lo stesso duce utilizzò con disinvoltura i riferimenti al passato nell’ambito di discorsi pubblici e di interventi scritti.
Va ricordato che già nei due decenni precedenti la Marcia su Roma, Mussolini nella sua attività giornalistica e politica aveva spesso rievocato personaggi ed eventi della Roma antica, della Rivoluzione francese o del Risorgimento, riflettendo sui conflitti politici e sociali a lui contemporanei con modalità e intenzioni ovviamente molto differenti rispetto a quanto sarebbe accaduto dopo il 28 ottobre del 1922: su questi aspetti ho ragionato negli anni passati, lavorando specificamente sull’uso della storia nella retorica del giovane Mussolini.
Con la presa del potere, il ricorso al passato seguì alcune traiettorie evolutive che avrebbero condotto alla predilezione di specifici temi e di particolari personaggi: così, si pianificarono liturgie pubbliche e politiche in occasione di date e di ricorrenze significative, si celebrarono figure assurte al rango di «precursori» del fascismo stesso, si isolarono specifici aspetti della storia italiana che più di altri si prestavano a una rilettura politica.
Quale approccio alla storia greca, antica e moderna, caratterizzò l’età fascista?
Dopo gli studi fondamentali di Andrea Giardina, negli ultimi vent’anni la centralità del mito di Roma nella propaganda del Ventennio è stata riconosciuta e analizzata nei suoi molteplici aspetti: è ormai indubbio che l’ideologia fascista trovò nella romanità il principale esempio a cui richiamarsi. Recentemente, la storiografia ha iniziato a occuparsi anche dell’uso di quelle che possiamo definire «altre antichità»: si può quindi confermare che nel vagheggiamento fascista di un passato archetipico nel quale riconoscere la propria origine e il proprio riferimento proiettivo, anche la storia greca e quella etrusca si scioglievano in un continuo confronto con l’antica Roma, che è sempre rimasta il vero modello interpretativo.
Quando il 28 ottobre del 1940 l’Italia iniziò la campagna bellica in Grecia, gli intellettuali - archeologi, antichisti, filologi - dovettero assumere in una nuova ricostruzione il debito culturale e filosofico che la civiltà romana aveva contratto secoli prima con quella greca: si ricorse così a un parziale ripensamento della storia della Grecia antica che sfumava naturalmente in una nuova valutazione di quella contemporanea, legittimando politicamente e teoricamente l’aggressione a un popolo civile in nome della difesa dell’antica romanitas.
In che modo il fascismo affrontò il problema degli etruschi?
Il rapporto con gli etruschi costituisce una vicenda più problematica rispetto a quanto accaduto con la Grecia antica: si è parlato di «imbarazzo» creato dalla storia etrusca nella cultura italiana, poiché a essa già prima del Ventennio si legavano riflessioni di medici e antropologi sull’origine mediterranea o ariana di quel popolo. Sul finire degli anni Trenta, quando la questione della razza esplose con le drammatiche conseguenze a tutti note, la presenza degli antichi etruschi nella propaganda e nella cultura si intrecciò ai tentativi di trovare una combinazione di elementi scientifici e culturali che giustificassero un «razzismo italiano» autonomo rispetto a quello nazista.
Che rapporto intercorreva, nella concezione fascista, tra romanità e modernità?
La visione fascista della storia nazionale era di lunghissimo periodo, più che bimillenaria, come gli anniversari delle nascite di illustri poeti ed eroi dell’antichità romana che, per una casualità convenientemente sfruttata dalla propaganda, caddero negli anni Trenta.
Nel 1930 fu infatti celebrato il bimillenario della nascita di Virgilio, nel 1935-’36 di Orazio, nel 1937-’38 di Augusto, con una moltiplicazione di occasioni utili e preziose per sovrapporre la rappresentazione del passato imperiale romano al presente fascista. L’antica Roma offriva il più straordinario accumulo di precedenti storici che si potesse avere: proponendo un modello concreto e astratto al tempo stesso poiché fondeva caratteristiche politiche, etiche e culturali prelevate dalla fase repubblicana e da quella imperiale, elaborava un idealtipo di passato nel quale l’eternità di Roma assumeva una dimensione mistica. Roma era infatti il bacino dal quale estrarre continuamente esempi di virtù guerriere e morali, di comportamenti patriottici, di eroi a cui ispirarsi e a cui aspirare. In questa visione, si appiattivano ovviamente le tante fasi della storia romana per far emergere il predominio di Roma anche sulle antiche provincie in una visione di lunghissimo periodo, funzionale a rimarcare il suo primato spirituale e politico su tutta la storia passata e presente.
Quale interpretazione prevalse nell’Italia fascista di Comune e Signoria?
Della storia medievale, nella propaganda popolare furono esaltati soprattutto aspetti che da tempo sono concordemente analizzati con categorie che richiamano una dimensione folklorica: furono organizzati - e a volte inventati - pali cittadini e giochi ambiziosamente medievali, che rivendicavano specifiche identità municipali; restaurati e ricostruiti edifici, palazzi e piazze secondo stili che riecheggiavano quelli tipici del medioevo; riesumati presunti valori che fondevano insieme la combattività romana con la spiritualità cristiana. -Nel dibattito storiografico, i temi attorno ai quali gli storici medievisti si confrontarono riguardavano principalmente problemi relativi all’assetto statuale. Si trattava di questioni di primaria importanza che evocavano la genesi dell’idea di Italianità, la controversia sulla delega del potere, il rapporto tra la monarchia sabauda e il popolo italiano, la contrapposizione del concetto di comune e di quello di signoria. Nello specifico, l’esperienza del comune fu valutata per i suoi lasciti culturali come vicenda fondativa della nazione italiana; la signoria fu invece apprezzata fortemente per aver anticipato la realizzazione di uno Stato inteso in senso moderno, oltre che per il conferimento dei poteri da parte del popolo.
Quale giudizio espresse il fascismo sulla Rivoluzione francese?
L’ideologia fascista era il risultato della convivenza di componenti politiche differenti e che tali rimasero per l’intero Ventennio: non fu una ideologia monolitica, così come non fu monolitica l’interpretazione di una vicenda storica complessa come quella della Rivoluzione francese. Si può schematicamente riassumere che, accanto a posizioni di ascendenza sindacalista-rivoluzionaria proposte per esempio da Roberto Farinacci che vedevano nella rivoluzione mussoliniana del 1922 il superamento dell’impasse scatenata dalla rivoluzione del 1789, ve ne furono altre di più spiccata matrice cattolico-reazionaria profondamente avverse all’esperienza rivoluzionaria francese, altre ancora di stampo nazionalista, e infine di impronta liberal-nazionale.
Certamente, durante il Ventennio la storia francese fu pure valorizzata nei suoi sbocchi più grandiosi e imperiali, cioè prevalentemente attraverso la mitizzazione della figura di Napoleone, in un implicito (non sappiamo quanto lucido) tentativo di risolvere l’annoso intreccio tra l’originaria cultura rivoluzionaria mussoliniana, l’evoluzione nazionalista e antisocialista espressa nei tanti rivoli del regime, e l’incancellabile eredità della Rivoluzione francese presente anche nella politica italiana ottocentesca.
Quale lettura diede del Risorgimento il fascismo?
Il fascismo sperimentò un duplice atteggiamento nei confronti della più recente storia nazionale, riconoscendo al Risorgimento da un lato il ruolo fondante di genesi della rivoluzione italiana, dall’altro una sostanziale incapacità di completare il processo di unificazione territoriale e politica, con una adesione particolarmente stringente alla figura di Giuseppe Mazzini. Egli non fu di certo l’unico protagonista dell’Unità d’Italia a essere esaltato e celebrato durante il Ventennio (è sufficiente solo accennare alle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi, nel 1932, con - tra l’altro - l’emissione di una corposa serie di francobolli, la pubblicazione dell’edizione nazionale dei suoi scritti, l’allestimento di una mostra storico-documentaria a Roma); ma in Mazzini si fondevano il tema nazionale e quello sociale, permettendo una adesione al suo pensiero pressoché unanime, pur con inevitabili distinzioni.
Come si pose il regime fascista nei confronti degli studi storico-religiosi?
La sacralizzazione della politica compiuta dal fascismo esigeva una inevitabile collaborazione anche con quelle discipline che si occupavano proprio delle dimensioni del sacro e del religioso: fu il regime fascista a istituire a Roma la prima cattedra universitaria di Storia delle religioni già nel 1923. Subito dopo la presa del potere, si volle di fatto ordinare gli insegnamenti universitari in campo storico attraverso una politica di assegnamento delle cattedre e di concorsi che proseguì ancora negli anni Trenta. Si raggiunse comunque un relativo equilibrio tra quelle strategie chiaramente politiche che furono alla base di assunzioni e nomine di commissioni, e le ragioni intellettuali che le comunità scientifiche seppero far affermare sul piano professionale.
Quale approccio caratterizzava i manuali di storia nella scuola fascista?
La proposta pedagogica del fascismo fu impostata già nella scuola, attraverso scelte editoriali e didattiche nelle quali si evocava una presupposta continuità storica assicurata dal valore al richiamo generazionale: la storia era presentata come un valore affettivo familiare, e in esso il legame tra Risorgimento e Prima guerra mondiale creava il terreno più fertile per la nuova educazione nazionale.
Quale rappresentazione dei soggetti storici si riscontra nelle opere artistiche dell’epoca?
Il ruolo educativo che lo Stato assunse con l’obiettivo di costruire un uomo nuovo trovò uno strumento indispensabile nei mezzi di comunicazione di massa. La storia e la politica erano messe alla prova della divulgazione moderna, e il regime fascista superò tale prova. Grazie al cinema, alle arti, al teatro e alla fotografia (ampiamente utilizzata nelle tante mostre storico-espositive organizzate negli anni Venti e Trenta) il fascismo indirizzava le masse facendole sentire al centro di un grandioso progetto collettivo: l’estetizzazione della politica attuata attraverso manifestazioni nazionali, parate, esposizioni e documentari apologetici costituiva non solo un mezzo propagandistico, ma anche l’unica possibilità di incanalare e controllare le ansie rivoluzionarie del popolo.
Il regime si trovò così a far convivere antichi linguaggi culturali e nuovi codici di rappresentazione estetica in una coesistenza di mezzi espressivi, riuscendo a superare il rischio di una inevitabile competizione tra di essi: è quanto accadde col teatro e col cinema, ai quali furono affidati momenti diversi del progetto educativo fascista. Nel primo confluirono aspettative legate a quel gusto del melodramma che il popolo italiano esprimeva ormai da secoli nella predilezione per specifici tipi di letteratura, di poesia, di arte.
Persino il duce fu co-autore di tre copioni teatrali insieme al celebre drammaturgo Giovacchino Forzano: si trattava di soggetti legati a tre illustri personaggi della storia passata (Giulio Cesare, Cavour e Napoleone), nei quali Mussolini e Forzano vollero impersonare quelle individualità storico-eroiche che parevano essere antesignane del duce stesso, oltre che esplicitare la cruciale questione del rapporto tra individuo e masse. Ma il teatro avrebbe potuto subire la rivalità della grande innovazione che il fascismo impose nel racconto degli avvenimenti passati e presenti, cioè del cinema di finzione e narrativo. Al contrario, la convivenza portò a esiti per vari aspetti significativi, in alcuni casi fondendo le due anime e i due linguaggi: proprio Forzano, per esempio, fu anche autore e regista cinematografico, tra i principali protagonisti dell’industria del cinema del Ventennio. La storia diventò soggetto privilegiato di questo mezzo espressivo, ancora una volta con funzione pedagogica: il ricorso all’aneddoto e a episodi specifici trasformava il racconto filmico quasi in un racconto scolastico, poiché il passato, nel regime fascista, legittimò sempre il presente.
Paola S. Salvatori, storica contemporaneista, è contrattista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre. Studiosa delle politiche culturali e propagandistiche del fascismo e delle retoriche celebrative dell’Italia repubblicana, ha scritto saggi sul mito fascista della romanità, sull’uso della storia nella retorica nazionalista e fascista, sul rapporto tra razzismo, propaganda e politica, e sul ruolo degli intellettuali nel Ventennio. Ha pubblicato inoltre la monografia Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo. 1900-1922, Viella, Roma 2016, e ha curato i volumi Nazione e antinazione. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), Viella, Roma 2016, e Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Addio al giurista e polemista. Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici
A 91 anni scomparso il giurista e polemista, capace di spaziare dal diritto al romanzo, con forte inclinazione anticlericale
di Francesco D’Agostino (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Personalità fuori dal comune, quella di Franco Cordero (scomparso due giorni fa a Roma a 91 anni): uomo poliedrico, capace di spaziare con sicurezza dalla giurisprudenza alla storia, dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla politica; polemista memorabile, romanziere di notevole originalità, anche se di ardua leggibilità, inventore di stilemi linguistici suggestivi. Se su queste sue doti non c’è da dubitare, su altre probabilmente è difficile che si trovi un accordo tra i suoi colleghi, i suoi studiosi ed i suoi lettori.
È stato davvero, come alcuni sostengono, uno dei massimi giuristi italiani del Novecento? Sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa. Ma è stato anche vittima della sua intelligenza labirintica, della sua rigidità ideologica, della sua carenza di flessibilità. Ordinario da anni nell’Università Cattolica di Milano, entrò in tensione con il paradigma culturale che la governava e di cui egli aveva perfetta consapevolezza: non ebbe il buon senso (di cui ad esempio diede prova il filosofo Emanuele Severino) di chiedere il trasferimento ad altro Ateneo, che pure avrebbe immediatamente ottenuto; privato tra mille polemiche del necessario nulla-osta all’insegnamento, attivò un duro braccio di ferro con le autorità accademiche, che volle portare fino al giudizio della Corte Costituzionale.
Era ovviamente un suo diritto ricorrere alle vie legali, ma fu molto sgradevole vedere come il suo ricorso si saldasse con un anticlericalismo sempre più aspro, polemico e in definitiva sterile, che egli cercò faticosamente di nobilitare arrivando perfino a scrivere un fitto commento all’Epistola ai Romani di San Paolo.
È difficile dire se il suo anticlericalismo giunse infine a trasformarsi in un vero e proprio anticattolicesimo; è certo però che alla fine logorò anche la pubblica opinione, al punto che, per mantenere comunque un contatto col “suo” pubblico, Cordero trovò uno sfogo cominciando a scrivere numerosi romanzi, dedicando a Savonarola una sterminata biografia, e insinuandosi abilmente nel dibattito politico del tempo (fu lui a forgiare il soprannome di “caimano” per Berlusconi , soprannome che ebbe un certo successo, anche perché ripreso da Nanni Moretti in un suo film omonimo).
Gira la notizia che una nuova e brillante casa editrice starebbe per pubblicare un suo ultimo romanzo e che sarebbe anche in progettazione una nuova edizione di un suo importante testo di molti decenni fa, Gli Osservanti, del 1967, l’opera con la quale Cordero intendeva radicare definitivamente il suo pensiero nella filosofia del diritto. Gli Osservanti è un libro, pieno di riferimenti, provocazioni, citazioni, allusioni, polemiche; un libro col quale l’Autore voleva presentare ai suoi lettori nuovi e rivoluzionari paradigmi dottrinali. Ma si trattava anche di un libro troppo difficile e troppo costoso per divenire popolare tra gli studenti sessantottini e contestatori e troppo farraginoso per conquistare la platea dei giuristi di professione. Se esso, nella sua nuova edizione, avrà successo, ne sarò lieto, perché è pieno di intelligenza. Ma non si tratta di intelligenza né giuridica, né filosofica, ma di intelligenza polemica: ammirevole, ma sterile.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano"
Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome
di ROBERTO ESPOSITO (la Repubblica, 08 maggio 2020)
Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l’ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L’armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni.
Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l’esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all’estero, è stato l’insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L’occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale.
Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all’antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica.
Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti.
Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all’ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l’ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico.
La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c’è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l’uno ad illuminare l’altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c’insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili.
Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita.
Alla fine dell’insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere.
Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d’Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c’è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all’altezza delle sue domande
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI ?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA" !!!
Federico La Sala
A 30 anni dalla morte
Sciascia, perché è il momento di tornare a leggere lo scrittore siciliano
Una nuova raccolta di saggi permette di approfondire l’autore scomparso nel 1989, che scriveva da narratore nei saggi e da saggista nei romanzi, e che lavorava col pensiero costantemente rivolto a Luigi Pirandello
di Salvatore Silvano Nigro *
Leonardo Sciascia si è spesso soffermato sull’opportunità e il diletto della rilettura. All’argomento ha dedicato un intervento specifico nella raccolta di saggi intitolata Cruciverba, seguendo e sviluppando un discorso sottile e dotto di Borges. Ha scritto: «Un libro non esiste in sé, e non soltanto per l’ovvio fatto che la sua vera esistenza, al di là della sua fisicità, consiste nell’esser letto, ma soprattutto perché è diverso per ogni generazione di lettori, per ogni singolo lettore e per lo stesso singolo lettore che torna a leggerlo. “Ogni volta è diverso”.
Un libro, dunque, è come riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. E sarebbe allora il rileggere un leggere: ma un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l’altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi. Ed è perciò che la gioia del rileggere è più intensa e luminosa di quella del leggere».
Ora è arrivato il momento di tornare a leggere Sciascia. Non perché alle sue opere siano mai mancati i lettori rimasti numerosissimi e fedeli. Ma perché, passati trent’anni dalla morte dello scrittore, ce ne offre l’occasione il completameto dell’edizione Adelphi delle Opere esemplarmente curate da Paolo Squillacioti.
È appena arrivato in libreria il tomo secondo (Saggi letterari, storici e civili) del secondo volume (Inquisizioni. Memorie. Saggi). Si tratta di una vera e propria edizione critica. Ma qui la filologia non è un esercizio passivo. I suoi procedimenti sono affabilmente narrativi. Ogni testo ha una sua biografia minima. E dentro vi si abbreviano racconti filologici che documentano ripensamenti sulle bozze, riscritture, varianti, errori di stampa, sviste, recuperi di brani dai dattiloscritti, ripristino della punteggiatura.
La qualità testuale è garantita anche dall’individuazione del vocabolario letterario di Sciascia, con il recupero di dantismi o leopardismi, per esempio, e dall’esplicitazione delle citazioni riposte e, quindi, delle interlocuzioni sottintese. Nel raccogliere i suoi saggi sparsi, Sciascia aveva fatto cadere le note a piè di pagina (quando c’erano).
Queste note sono state riprodotte nell’apparato, per documentare quanto lavoro, quanti scavi bibliografici, nasconde la leggerezza stendhaliana e saviniana della prosa di Sciascia. Squillacioti ha inoltre l’accortezza di contestualizzare gli articoli di polemica, mediante sintetici e indispensabili cappelli informativi.
Il tomo comprende le raccolte Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Cruciverba, Per un ritratto dello scrittore da giovane, Ore di Spagna, Alfabeto pirandelliano, Fatti diversi di storia e letteratura civile, A futura memoria (se la memoria ha un futuro).
Il titolo del tomo è chiaramente esemplato su Fatti diversi di storia letteraria e civile, commentato dallo stesso Sciascia nell’autorisvolto dell’edizione Sellerio del libro: «Faits divers sono, in francese, quelli che noi diciamo fatti di cronaca, cronache quotidiane, cronache a sfondo nero, passionali e criminali spesso, sempre di una certa stranezza e di un certo mistero. Intitolando “fatti diversi” questa raccolta, si è voluto appunto dir parodisticamente, paradossalmente e magari parossisticamente, “cronache”: a render più leggera la specificazione, di crociana ascendenza, di “storia letteraria e civile”».
Va detto subito che la rivendicazione della «scrittura di letteratura» era forte in Sciascia, scrittore che non avvertiva nessuna tensione tra narrativa e saggistica: considerandosi narratore nei saggi e saggista nei romanzi e nei racconti. E al genere saggistico recuperava gli articoli di giornale, fossero essi di letteratura o di politica. Sentì infatti il dovere di difendere Giuseppe Antonio Borgese, considerato con sufficienza un critico-giornalista: «come se», scrisse, «un articolo di due colonne su un giornale non potesse contenere più idee, e più illuminanti, di un lungo scritto pubblicato in una rivista accademica o in un libro».
A scorrere l’indice del tomo adelphiano risalta subito la persistenza di quella che Sciascia chiamava, compiacendosene, la sua «ossessione Pirandello». Ebbe a scrivere: «Sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, a riviverli. Lo scarto tra i suoi libri e la vita è stato per me sempre minimo ... Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi».
L’ultimo tomo dell’edizione si chiude con le furibonde polemiche giornalistiche di A futura memoria (se la memoria ha un futuro), arrivato nelle librerie lo stesso giorno in cui Sciascia morì. «Sciascia l’eretico» della politica italiana dei compromessi e di tutte le maschere del Potere (negli anni dei casi Moro, Sofri, Tortora, e dei cosiddetti professionisti della mafia), dovette difendersi dagli attacchi che gli vennero da tutte le parti, dai comunisti e dai democristiani.
Amava presentarsi così: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità».
Sciascia sofferse la solitudine di tutti gli «eretici». Chi vuole avere un quadro completo sulla solitudine (politica) di Sciascia, deve leggere il coinvolgente libro di Felice Cavallaro, Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo (Solferino, pagg. 304, € 17).
Uno dei primi recensori di A futura memoria fu Angelo Guglielmi su «Tuttolibri». Scrisse: «Che cosa potrebbe pensare un giovane di oggi, incontrandolo per la prima volta, di Leonardo Sciascia? Intanto l’incontro avverrebbe sull’ultimo (appena uscito) libro A futura memoria ... Probabilmente lo leggerebbe con ansia e partecipazione per le gravi cose di cui il libro parla e la passione con cui ne parla.
Poi, giunto alle ultime pagine, sarebbe assalito da qualche disagio e perplessità trovando questa frase: «Non sono infallibile ma credo di avere detto qualche inoppugnabile verità». Ma come, si dice il nostro giovane, è ancor possibile tanta sfacciata sicurezza? E la verità, dov’è la verità? non è forse nel diffidarne? nel prendere le distanze quando crediamo di averla raggiunta?».
Ebbene, Sciascia avrebbe ribattuto che la verità è nella letteratura in quanto basata sulla forza della ragione e del diritto. E infatti, nel rileggere oggi le opere di Sciascia, una volta consegnate al giudizio della storia le polemiche di una volta, rimane al lettore il grande fascino della scrittura letteraria dell’autore: di uno dei più grandi scrittori del nostro secondo Novecento.
Opere, tomo II (Saggi letterari, storici e civili) del volume II (Inquisizioni. Memorie. Saggi)
Leonardo Sciascia
Adelphi, Milano, pagg. 1484, € 75.
In libreria dal 21 novembre
* FONTE: IL SOLE-24-ORE, 19.11.2019 (RIPRESA PARZIALE).
ITALIA, UN PAESE FONDATO SULL’INQUISIZIONE
di Carlo Ginzburg *
Sulla soglia di quest’opera imponente, dedicata alla storia religiosa e civile dell’ Italia del ’500 (Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, pagg. 708, lire 60.000) incontriamo eventi molto più vicini a noi: "l’appello alle Brigate rosse di Paolo VI e la cupa solenne cerimonia funebre sul corpo di Aldo Moro con gli uomini di Stato italiani inginocchiati ai piedi del pontefice romano" (pag. X). Prosperi vede in essi "i momenti simbolici di una rifondazione dello Stato italiano" (io parlerei piuttosto di inizio simbolico della fine della prima repubblica) "che ancora una volta - dopo gli anni della guerra nazifascista - ha dovuto far leva sulle ragioni ultime della sua unità". L’ ironia amara di questa battuta diventa esplicita nel corso del libro, là dove Prosperi osserva che "una forma di alta sovranità del papa sull’ Italia è ancora visibile" (pag. 74). La legittimazione profonda dello Stato italiano si trova, ancora oggi, al di fuori di esso. Tribunali della coscienza rintraccia le premesse di questo persistente dato di fatto nei modi in cui la Chiesa cattolica affrontò e superò la crisi gravissima provocata dalla Riforma protestante. Ci troviamo dunque di fronte a un’ ennesima variazione sul tema della Riforma protestante mancata, che sarebbe all’ origine delle debolezze morali e politiche italiane? Neanche per sogno.
Anziché da quest’idea, cara a Edgar Quinet, a Francesco De Sanctis, a Piero Gobetti (degli odierni ripetitori è meglio tacere), Prosperi parte da ciò che è stato, non da ciò che sarebbe potuto essere. In un libro di originalità non comune (Il sovrano pontefice, Il Mulino, 1988) Paolo Prodi ha sostenuto che nel corso del ’400 lo Stato della Chiesa emerse come prototipo degli Stati nazionali europei: sia dal punto di vista della legittimazione, sia da quello dell’ organizzazione burocratica, imperniata sul sistema delle congregazioni cardinalizie, quasi una prefigurazione dei ministeri moderni. Una di queste congregazioni, la più potente, era quella del Sant’ Uffizio, istituito da Paolo III nel 1542 per rendere più efficace l’ attività antiereticale svolta dall’ Inquisizione fin dal Medioevo.
Prodi invitava a studiare quest’Inquisizione moderna dal punto di vista dello Stato pontificio e della politica italiana.
Tribunali della coscienza raccoglie l’esortazione ma la inserisce in una prospettiva di ricerca molto diversa. L’Inquisizione non fu soltanto "il principal nervo del pontificato", secondo le celebri parole di Paolo IV riferite da Paolo Sarpi: fu anche, osserva Prosperi, "l’unica forma di potere centralizzato che funzionò in Italia durante l’epoca moderna" (pag. 74) attraverso il fittissimo scambio di lettere tra la congregazione romana e i tribunali periferici. In qualche caso, come a Venezia, gli Stati italiani cercarono di difendersi dall’ intrusione del potere ecclesiastico: ma finirono col cedere di fronte alla minaccia di sovversione politica, oltre che religiosa, che aleggiava attorno alla Riforma protestante.
Si arrivò così a quella che Prosperi definisce "unità inquisitoriale dell’ Italia" (pag. 114), basata sulla repressione poliziesca, sul sospetto, sulla delazione, sulla tortura e sui roghi. Sono elementi su cui gli storici cattolici degli ultimi cinquant’anni hanno preferito sorvolare. Essi si sono soffermati piuttosto sui vescovi, sui parroci, sulle visite pastorali: una scelta comprensibile, osserva Prosperi, in un momento in cui la Chiesa, attraverso le sue strutture diocesane, si era posta alla "guida politica delle masse cattoliche".
Tribunali della coscienza segue un’ altra strada. La prima parte è dedicata all’ attività dell’Inquisizione romana nella penisola italiana; la Sicilia e la Sardegna, soggette a un’ altra istituzione - l’Inquisizione spagnola - restano fuori dal quadro. Ma in questo libro la storia istituzionale, che pure funziona da filo conduttore, non ha nulla di astratto: parte dal vertice e dal centro e si dirama verso il basso e la periferia, fino a cogliere il modo in cui le istituzioni della Chiesa cattolica romana hanno modellato i comportamenti e gli atteggiamenti, dai più esteriori ai più intimi, di innumerevoli uomini e donne. (Le loro strategie di resistenza rimangono necessariamente un po’ in ombra: ma ogni prospettiva di ricerca comporta qualche sacrificio conoscitivo).
Il perdurante divieto, al tempo stesso scandaloso e ridicolo, che impedisce agli studiosi di accedere all’ archivio romano del Sant’ Uffizio, ha imposto un limite all’ indagine. Esistono però gli archivi dei tribunali periferici, talvolta ricchissimi: Venezia, Modena, Pisa, eccetera. Prosperi li ha esplorati minuziosamente per più di vent’ anni, senza trascurare le carte inquisitoriali finite dopo varie vicissitudini a Dublino e a Bruxelles. Eresie, stregoneria e incantesimi, bestemmie, lettura di libri proibiti, seduzione in confessionale: il Sant’ Uffizio si occupava di questo e d’ altro.
Nel corso della sua lunghissima ricerca Prosperi deve aver temuto più di una volta di perdersi in una simile foresta. Il rischio c’era, ma è stato superato splendidamente. Tribunali della coscienza non è una storia dell’ Inquisizione. Analizza tutti questi temi sulla base di una documentazione ricchissima, spesso inedita, ma inserendoli in una struttura argomentativa elegante e rigorosa, scandita dai termini enunciati nel sottotitolo del libro: inquisitori, confessori, missionari. I primi due emergono fin dal prologo ("L’esperimento calabrese").
In Calabria, dopo la guerra condotta contro le comunità valdesi dal governatore Martino Caracciolo, si scontrarono tra il 1561 e il 1563 la strategia dura degli inquisitori e quella morbida, imperniata sulla confessione, dei padri gesuiti. Ma si trattava di tensioni episodiche: il rapporto tra inquisitori e confessori era di regola strettissimo. A questa conclusione erano arrivati quasi contemporaneamente alcuni anni fa due valenti studiosi, Giovanni Romeo e Ottavia Niccoli. Studiando l’atteggiamento dell’Inquisizione verso, rispettivamente, streghe e false sante, essi avevano scoperto che in molti casi il confessore impartiva l’assoluzione a patto che il penitente o la penitente si presentassero "spontaneamente" al Sant’Uffizio a denunciare se stessi e gli eventuali complici.
Con un balzo d’immaginazione storiografica Prosperi ha posto il rapporto tra inquisitori e confessori al centro della sua indagine sulle lontane premesse dell’ Italia moderna. Ciò gli ha consentito di liberarsi in due righe delle annose diatribe sul rapporto tra Riforma cattolica e Controriforma, e soprattutto di affrontare il tema delicatissimo della Inquisizione superando vecchi e nuovi luoghi comuni.
Negli ultimi decenni una serie di ricerche di prim’ordine (a cominciare da quelle di John Tedeschi, parzialmente raccolte in un volume di cui è annunciata la traduzione italiana) hanno gettato molta luce sulle strutture e sul funzionamento dell’ Inquisizione romana. Un’ immagine più realistica si è sostituita all’ antico stereotipo, affermatosi nel ’700, dell’ Inquisizione come sinonimo di tribunale feroce e arbitrario. Ma sta emergendo uno stereotipo di segno opposto, secondo cui l’Inquisizione sarebbe stato un tribunale equo e addirittura mite.
Prosperi, partendo dal legame tra inquisitori e confessori, mostra l’inadeguatezza di queste formule. In una prima fase l’Inquisizione fu soprattutto, com’ è ormai accertato, lo strumento di una feroce lotta ai vertici della Curia. Il cardinale Giovanni Morone fu messo sotto processo; un altro cardinale, l’inglese Reginald Pole, accusato di eresia in pieno conclave, vide dileguare le proprie aspirazioni al pontificato; due personaggi di umile estrazione sociale come Michele Ghislieri e Felice Peretti riuscirono, grazie alla carriera fatta come inquisitori, a diventare papi sotto il nome, rispettivamente, di Pio V (poi santo) e Sisto V.
Attraverso la rete dei suoi vicari l’ Inquisizione romana, ormai centro di potere quasi incontrastato, penetrò nella società italiana scalzando le prerogative degli ordini religiosi e sovrapponendosi alle stesse istituzioni diocesane. Il confessore, che il Concilio di Trento aveva già trasformato in un funzionario di stato civile, divenne un "braccio spirituale dell’ Inquisizione" e "un agente della specie più insidiosa di polizia" (pagg. 244, 541).
Soltanto quando il pericolo protestante si attenuò le parti si rovesciarono: gli inquisitori assunsero una fisionomia prossima a quella dei confessori, impartendo con frequenza sempre maggiore perdoni generali e penitenze salutari. Un analogo mutamento di rotta si verificò nei casi di stregoneria. Il Sant’ Uffizio riuscì a imporre la propria cautela perfino a Carlo Borromeo: ossia a colui che, saputo del rogo delle streghe della valle Mesolcina, esortò il gesuita che l’ aveva informato "a far abondante ricolta spirituale da questi semi" (pag. 376).
Negli scorsi decenni vari studiosi hanno insistito sul parallelismo tra i fenomeni di disciplinamento che si sarebbero verificati nei paesi protestanti e in quelli cattolici. Un contributo decisivo in questa direzione venne dato dai missionari, ai quali è dedicata la terza parte, forse la più nuova, di questo libro ricchissimo.
Con grande efficacia Prosperi ricostruisce l’entusiasmo di una generazione scossa e affascinata dalle lettere che descrivevano l’ attività svolta dai missionari, soprattutto gesuiti, in Asia e nelle Americhe. Gli stessi metodi di catechizzazione, lo stesso sguardo distaccato, quasi etnografico s’ incontrano nelle relazioni dedicate a quelle che vennero allora definite "nostre Indie" o "Indie di quaggiù": la Corsica, la Lunigiana, la Campagna romana o i dintorni di Eboli.
Prosperi collega suggestivamente questa straordinaria spregiudicatezza intellettuale all’ apertura dei gesuiti verso i "nuovi cristiani", ossia gli ebrei convertiti o i discendenti di ebrei convertiti. Tra loro troviamo uomini come Diego Lainez, uno dei fondatori della Compagnia; Juan de Polanco, segretario di Ignazio di Loyola; il celebre missionario Antonio Possevino. E del resto, l’adattamento teorizzato dai gesuiti - fino all’ estrema disponibilità verso i riti cinesi - non riecheggiava forse la strategia praticata in Spagna dai marrani?
Le missioni ebbero un successo enorme, ma il prezzo pagato fu alto. "La catechizzazione delle masse avvenne" scrive Prosperi "per via di meccanismi di indottrinamento collettivo che prescindevano dalla lettura diretta e dalla riflessione individuale" (pagg. 634-635). Per il protestantesimo liberale ottocentesco questi fenomeni contrassegnavano l’esclusione del cattolicesimo dal mondo moderno (condannato anche dal Sillabo). Oggi, giunti alla fine del ventesimo secolo, riconosciamo senza sforzo la modernità dei gesuiti.
"Modernità" e "mondo moderno" significano ormai tutto e il contrario di tutto: forse è venuto il momento di congedare questi termini, insieme alla loro vacua appendice postmoderna, come mera chiacchiera.
I gesuiti sono un tema più interessante. Speriamo che Prosperi ci dia un giorno il libro sui gesuiti che egli solo è in grado di scrivere.
Intanto festeggiamo questo Tribunali della coscienza: un’opera che, per la nitidezza della costruzione, la vastità del materiale utilizzato, la calma autorevolezza della prosa è destinata a diventare un classico. Classico è anche l’ ideale, alto e austero, di equanimità storiografica che il suo autore persegue. Esso presuppone il controllo, non l’assenza, delle passioni: prima fra tutte, l’ indignazione (si legga il bellissimo capitolo "Confessori e donne").
La storia che Prosperi racconta è grandiosa e terribile. Dolcezza e minaccia, misericordia e tormenti: l’azione congiunta, segreta e pubblica, di inquisitori, confessori e missionari modellò coscienze e comportamenti individuali e collettivi; insomma, l’ Italia cattolica.
Ma questa, dice Prosperi, è una storia conclusa: la scomparsa di una società prevalentemente contadina, in cui "i ritmi lenti e ripetitivi della vita sociale" erano "regolati dai riti di passaggio coincidenti con i sacramenti della Chiesa" ha "lasciato il posto ad un orizzonte sociale del tutto secolarizzato" (pag. XXI).
E’ una conclusione che lascia interdetti. Come conciliarla con la presenza attiva della Chiesa cattolica nei settori più diversi della società italiana - le banche, le parrocchie, le organizzazioni del volontariato, e così via? - e come conciliarla con quella sorta di "alta sovranità" del papa sull’ Italia di cui ci parla lo stesso Prosperi? Nell’ accenno all’ "orizzonte sociale del tutto secolarizzato" sembra risuonare inaspettatamente, anche se con un timbro completamente diverso, la voce di papa Wojtyla - come se Prosperi si fosse identificato per un attimo, senza volerlo, con l’ estrema propaggine delle sue fonti.
Certo, confrontata con l’ Italia di quattro secoli fa, o con l’ Iran e l’ Afghanistan odierni, l’ Italia appare come un paese secolarizzato. Ma "secolarizzazione" è un termine relativo. Il potere, qualunque potere, trova necessariamente la propria legittimazione in ambiti non secolari come il rituale e il mito. Lo ricorda Angelo Torre, al termine di una ricerca ardua e importante (Il consumo di devozioni, Marsilio, 1995) condotta in una prospettiva che Prosperi, nella prefazione a Tribunali della coscienza, presenta rapidamente, e respinge, in termini che non condivido.
Torniamo alla debole legittimazione dello Stato italiano: il tema attualissimo da cui parte il libro di Prosperi. Questa debolezza ha radici lontane e vicine. L’idea di Italia nasce all’ombra di due poteri universali, il papato e l’Impero (di cui l’ Italia, disse Dante, era il giardino). Nel 1870 la classe dirigente italiana si trovò di fronte al dilemma, analizzato da Federico Chabod in pagine famose, sull’opportunità o no di trasportare a Roma, centro del papato, la capitale del nuovo Stato. La scelta fatta allora ci appare oggi forse inevitabile, ma sicuramente perdente. Ricordiamocene nel momento in cui si annuncia il sinistro baraccone del Giubileo. Le realtà sgradevoli vanno guardate in faccia.
LO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Un’ipotesi di rilettura di "Todo modo" ... *
TODO MODO
di Matteo Meschiari (Doppiozero, 21 ttobre 2019)
La princeps einaudiana è del 1974 e, per comprendere a pieno l’ironica e durissima denuncia civile di questo breve romanzo di Sciascia, bisognerebbe intavolare una seduta spiritica ed evocare la mai defunta processione politico-economica dei primi anni Settanta in Italia. Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani esce lo stesso anno per Feltrinelli: la borghesia di stato, la crisi dell’imprenditoria privata, la scalata di ENI alla Montedison, le partecipazioni statali. E ovviamente la corruzione, le alleanze occulte, la politica dei benefici e dei favori.
Ma a quarantacinque anni di distanza la lettura di Todo modo è attuale e anzi utilissima per ricordarci che, al di là delle parate mediatiche recenti, l’immutabile ontologia politica italiana non è mai quella dei volti pubblici ma è sempre quella sotterranea delle eminenze grigie, degli spazi extraparlamentari, extraromani, extramondani in cui pochissime ombre decidono le sorti del Paese. Proprio come Pietro Campilli, ex presidente della Montedison, racconterà a Turani e Scalfari parlando di un incontro avvenuto nella sua casa di Frascati: «c’erano alti magistrati, qualche grande industriale, Cefis, Petrilli, Carli, alcuni consiglieri di Stato, un paio di “principi del foro”, tre o quattro direttori generali della pubblica amministrazione. Una ventina di persone in tutto», per decidere le sorti d’Italia.
È la stessa eterna tassonomia politica che si raduna nel monastico ecomostro alberghiero di Todo modo, l’Eremo di Zafer. Ma chi era Zafer? Un musulmano convertito alla vera fede? La cosa passa in sordina e subito la si dimentica nell’economia del “giallo”, ma nella geografia simbolica del romanzo è un segnale importante: l’eremo è inglobato nell’albergo, «senz’altro brutto... ma che si può fare mai con questi architetti, oggi? ... Presuntuosi, fanatici, inaccostabili». Uno scandalo edilizio che diventa teatro allegorico della vicenda: un bosco, «Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre», un «vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato», «un casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe», un refettorio «vasto, fitto di tavole rotonde e quadrate» e, finalmente, l’eremo, la cappella, una chiesetta «risparmiata» alla distruzione del luogo. Qui l’ipnotico, coltissimo e seduttivo don Gaetano rivela al protagonista l’origine di Zafer: «Tutta una storia inventata a tavolino: nella seconda metà del secolo scorso, da un erudito locale...».
Il sancta sanctorum dell’albergo è insomma una menzogna, e la mostruosa struttura di cemento, come un bunker o un caveau o una pisside, protegge gelosamente il nulla cosmico. Parallelamente il bosco: «Man mano che mi allontanavo dall’albergo, gli alberi diventavano più fitti, l’aria più fresca e odorosa di resine. La solitudine era perfetta. E mi dicevo di tanta perfezione, e della libertà con cui stavo godendomela, quando tra gli alberi intravidi come un lago di sole e dei colori che si muovevano».
Sono donne in bikini, radunate lì per soddisfare nel «cieco casermone tenuto da preti», proprio durante gli esercizi spirituali, i loro altolocati amanti. La topologia morale del romanzo è allestita: da un lato un bosco sacro ma violato, dall’altro un eremo-albergo gestito dalla Chiesa per convegni di potere e di sesso, e in mezzo lo «spiazzale», dove si svolge la surreale, crepuscolare, inquietante recita camminata del rosario: «E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui non si fosse trovato, al momento del dietrofronte, al centro dell’ultima fila, che diventava la prima». Una recita fasulla «con un che di atterrito e di isterico», come se i potenti d’Italia radunati in quest’eremo nel cuore di una selva «al confine dell’inferno», diventassero tante pecorelle pavide, spaventate dal buio, e allora «veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri».
Il romanzo giunge così al delitto-contrappasso, al quale ne seguono altri, ma il dispositivo spaziale, o il quadrilatero semiotico, è già dato: la Chiesa (don Gaetano), lo Stato (il procuratore Scalambri), la Corruzione (l’onorevole Michelozzi), la Pena (l’assassino). Inutile dire che non esiste soluzione narrativa, ma circolarità, eterno ritorno, prigionia, come nella Ronda dei carcerati di Van Gogh o nella Zattera della Medusa di Géricault, evocata dallo stesso don Gaetano.
L’ipocrisia di un certo cattolicesimo, l’abiezione politica fatta sistema, l’inettitudine della giustizia, le lacune istituzionali e il delitto che le regola, girano in tondo come altrettante allegorie antropomorfe, in un rosario ipnotico che genera assuefazione e svuotamento.
Il protagonista, un pittore ateo, anticlericale, mero spettatore degli eventi nella bolgia solforosa di Zafer, riflette tra cinismo e ironia sulla propria posizione ontologica, si rassegna al mistero non svelato, al segreto per sempre sepolto e al fatto che, alla fine, in un movimento di generale entropia, «Si arriva che tu, io, il commissario, diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche di più: e senza che si possa attribuire una ragione, un movente...». Il todo modo del titolo dice appunto questo, un “con ogni mezzo” che getta un ponte aberrante e tuttavia reale tra gli Esercizi spirituali di Loyola e il Principe di Machiavelli. E lo diceva già il pretino nella hall dell’albergo e del libro: «La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma poiché don Gaetano tutela la Repubblica... Insomma: la solita storia». L’Italia come un albergo anni Settanta.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Politica
Nino Di Matteo a Mezz’ora in Più: "O cambiamo noi magistrati o saremo normalizzati"
Il magistrato ricorda: "Ci sono sentenze definitive sul patto tra mafia e Silvio Berlusconi" *
“O cambiamo noi, o ci cambiano altri, magari a colpi di riforme con lo scopo di normalizzare la magistratura”. Lo ha detto il consigliere del Consiglio Superiore della magistratura Nino Di Matteo, ospite di Mezz’ora in Più su Rai Tre. L’inchiesta di Perugia “ci deve indignare ma non sorprendere, soprattutto non piegare. Non dobbiamo rassegnarci all’idea di una magistratura malata. La magistratura italiana ha scritto pagine altissime nella nostra storia”. “Sono certo che sotto la guida del presidente Mattarella il Csm saprà emendarsi per le cose passate. Dobbiamo reagire e impegnarci per recuperare. Nel momento in cui avevano perso prestigio è prevalsa in me la volontà di dare una mano e un contributo al recupero dell’autorevolezza” ha aggiunto.
“Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l’allora imprenditore Berlusconi””, ha poi ricordato Di Matteo.
“Sulle stragi del ’92 e ’93, e anche sul fallito attentato allo stadio Olimpico del ’94, si sa molto ma non si sa tutto”, ha detto.
“L’ergastolo è l’unica vera pena detentiva a spaventare i capimafia. Riina diceva ai suoi, ci dobbiamo giocare i denti per evitare l’ergastolo. Secondo il mio parere il legislatore deve stabilire che tipo di prova ci vuole per far accedere anche gli ergastolani ai premi, come l’assenza di rapporti con con i clan. Non può dipendere solo dal comportamento perché è noto che i capimafia normalmente in carcere si comportano meglio di tutti gli altri”, ha detto Di Matteo a proposito delle sentenze Cedu e Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.
Di Matteo ha poi aggiunto di essere favorevole alla legge che blocca la prescrizione che entrerà in vigore a gennaio, mentre è contrario a qualsiasi intervento in tema di intercettazioni, come la legge Orlando che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2020. Infine, sulla liberalizzazione delle droghe leggere, il magistrato si è detto contrario.
* www.huffingtonpost.it, 03.11.2019.
Adelphi ristampa il libro più noto di Carlo Ginzburg
Il formaggio e i vermi
di Claudio Piersanti (Doppiozero, 28.11.2019)
“In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto ‘le gesta dei Re’. Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. ‘Chi costruì Tebe dalle sette porte?’ chiedeva già il ‘lettore operaio’ di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.”
Il formaggio e i vermi, oggi riproposto in una nuova edizione da Adelphi, uscì nel 1976, e nel primo paragrafo della prefazione, che ho copiato interamente, Carlo Ginzburg sintetizza l’essenza del libro. Che raccoglie gli umori di un clima culturale e politico, quello degli anni ’70, di cui forse si conserva memoria parziale se non macchiettistica. Ne parla anche Ginzburg nella nuova postfazione. Superati quasi completamente gli schemi ideologici attivi fino a pochi anni prima, messi a nudo come quelli degli avversari, questi movimenti poliformi entravano in contatto con studiosi (allora chiamati ancora intellettuali) non più e non solo attraverso appelli e firme, ma attraverso le loro opere, facendo propria anche una particolare filosofia della storia. Che a sua volta aveva numerosi punti di contatto con altre discipline, prima tra tutte l’antropologia culturale, allora molto letta: il collante metodologico era decisamente lo strutturalismo, di certo più frequentato e adoperato, anche se inconsapevolmente, di qualunque altro strumento critico. Si consideri che all’epoca le categorie merceologiche più desiderate (e rubate) erano dischi e libri. Il primo libro di Carlo Ginzburg si intitolava I benandanti (una sorta di setta religiosa attiva in Friuli nel sedicesimo secolo) e Gianni Celati lo consigliava a tutti. Questo per esemplificare l’accenno alle connessioni: letteratura, poesia, psicanalisi. Gli studenti che leggevano Il formaggio e i vermi, avevano in casa i libri di Foucault, di Levi-Strauss e spesso di Lacan, di Althusser e Barthes.
La citazione di Céline posta come esergo dialoga sia con il clima culturale del momento che con il libro stesso: “Tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre... On ne sait rien de la véritable histoire des hommes”. Céline, soprattutto con il suo Voyage, era presente in tutte le biblioteche giovanili. Con questi continui collocamenti temporali dell’opera di Carlo Ginzburg non voglio affatto coinvolgerlo in un disegno politico o culturale che sovrasti la sua specificità: stiamo rileggendo un importante libro di storia, rigoroso come dev’essere un libro lungamente pensato. Che ha lasciato una traccia profonda nei suoi lettori e tra gli storici. La scrittura di Ginzburg non concede quasi niente alle mode formali dell’epoca, e non è affatto datata o databile. Pochi narratori di professione possono vantare la stessa tenuta. In realtà il Céline posto in esergo è molto poco ex ergon, anzi al contrario dichiara un tema fondamentale del libro: l’impossibilità stessa di scriverlo. Come raccontare la storia degli schiavi? Degli sconfitti. Dei cancellati. Degli oppressi. Dei perseguitati. Come raccontare storie se delle loro storie non resta che una traccia statistica o semplicemente numerica? Semplificando forse troppo si potrebbe dire che Ginzburg dà una risposta più da filologo che da filosofo della storia, fatto che non deve certo sorprendere in uno studioso del ‘500, uno dei secoli più affascinanti e contraddittori della storia umana. La diffusione di libri e opuscoli stampati, lo sviluppo del ragionamento scientifico e il persistere di strutture culturali ancora medioevali (non sempre e soltanto negative), Montaigne, Keplero, Leonardo, Michelangelo, Machiavelli e Galileo, il gusto profondo per l’antichità finalmente accessibile attraverso traduzioni di opere fino a quel momento sconosciute.
La storia scoperta da Ginzburg negli archivi del Sant’Uffizio è insolita, come ammette lo stesso autore, perché è la storia di un mugnaio friulano processato e condannato a morte per eresia che dimostrava una cultura superiore a quella della sua classe. Cultura che non coincideva affatto con i severi dettami della Chiesa, che all’epoca provvedeva semplicemente all’eliminazione dell’eretico.
Il malcapitato si chiamava Domenico Scandella, detto e noto come Menocchio, denunciato al Sant’Uffizio nel 1583 per aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo. La tortura processuale durerà quindici anni. Verranno interrogati tutti i conoscenti, e soprattutto lui verrà interrogato e controinterrogato all’infinito. Menocchio si presenterà sin dalla prima udienza interamente vestito di bianco, insomma nella sua divisa di mugnaio, anche se la sua capacità di ragionare, unita al saper leggere e scrivere, gli aveva fatto guadagnare anche incarichi di qualche prestigio nel suo circondario: era stato amministratore della pieve di Montereale, e anche podestà del paese. Purtroppo per lui aveva un grande difetto: la parlantina facile. Era il tipo che si proponeva ogni volta di tacere e esser prudente ma quando la lingua gli si scioglieva le sparava anche grosse, a impronta, e il popolino ne conservava memoria.
Il Friuli dell’epoca non conosceva i grandi fermenti che si agitavano altrove: a una antica e decadente nobiltà medioevale si contrapponeva la discreta ma occhiuta presenza della Serenissima, in odore essa stessa di eresia luterana e irresistibile richiamo per le manovalanze friulane che a Venezia migravano in massa. I guai per Menocchio nascono certamente dal conflitto, direi manzoniano, con un signorotto locale, il pievano di Montereale, don Oderico Vorai. Più che a un contrasto teologico certe testimonianze processuali fanno pensare a un conflitto di classe.
Un testimone, ricordando le discussioni con lui, lo aveva messo in guardia: “Io son calligaro, et ti molenaro, et tu non sei dotto: a che far disputtar di questo?” Ma cosa aveva detto Menocchio di così grave? Prima di tutto le testimonianze lo dicono grande bestemmiatore, e lui ridacchiando si giustificava così: “Ognuno fal il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di biastemar”. Al di là di vanterie e battute provocatorie il suo modo di pensare, riferito da molti chissà con quante deformazioni, si può esemplificare in pochi chiarissimi esempi. “Che vi maginate che sia Dio? Iddio non è altro che può de fiato, et quello tanto che l’homo se immagina... Tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei.” E ancora: “’l cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Dio.” Non poteva mancare un classico dello scetticismo di ogni tempo: “che credevù, che Giesù Christo sia nasciuto della vergine Maria? Non è possibile che l’habbia parturito et sia restata vergine: puol ben esser questo, che sia stato qualche homo da bene, o figliol di qualche homo da bene.”
Quasi mezzo secolo più tardi, e con ben altro spessore intellettuale, Galilei risponderà in modo assai diverso allo stesso tribunale. Pur pensandolo certamente non credo abbia sussurrato “E pur si muove”. Menocchio ha un buon avvocato, che non gli risparmia buoni consigli, tutti riassumibili nel principale: ammetti il peccato e chiedi perdono, e soprattutto non lasciarti prendere dalla parlantina. Tutta qui la rovina di Menocchio: l’impertinenza gli sfugge in modo naturale, come se il tribunale fosse davvero tribuna aperta sul mondo intero. Sì, ammette le tentazioni demoniache che si impadronivano della sua lingua, ma se gli viene chiesto il dettaglio lui si allarga a macchia d’olio. “Volete che vi insegni la vera strada?” si era vantato in pubblico. “Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era anche Dio creato anchora lui da quella massa”. Spiattellata la sua personalissima cosmogonia, in cui l’universo si formava come un formaggio producente angeli e vermi, Menocchio sembra non avere più freni. Quando gli contestano una nuova affermazione blasfema lui la riconosce come sua, ammette il peccato e lo spirito demoniaco, ma la narrazione del peccato sembra un’ulteriore conferma delle sue opinioni.
Tra l’altro gli chiedono se corrispondono al vero altre vanterie: testimoni riferiscono che avrebbe detto di non temere il giudizio di nessun tribunale. E lui: “è vero che io ho detto che se non havesse havuto paura della giustizia parlarebbe tanto che farebbe stupire; et ho ditto che se havessi gratia di andar avanti o il papa o un re o un principe che mi ascoltasse, haverei ditto molte cose; et se poi m’avessero fatto morir non mi sarei curato.” In fondo Menocchio non si era vantato a sproposito: si comporta esattamente come aveva annunciato. Parla, parla troppo, e troppo chiaramente, annullando le inutili appiccicaticce richieste di pietà e misericordia. La sua voce, così come viene trascritta nei verbali, appare veritiera. I frati che lo giudicano hanno in fondo tutto l’interesse a lasciarlo parlare a ruota libera, e non c’è dubbio che quella trascritta sia davvero la sua voce. E questa voce spazia per ampi territori, ingrossando poco alla volta la pira che lo brucerà. Parla di soldi, di potere, parla della Chiesa. “Et mi par che in questa nostra lege il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de chiesa et preti, e strussiano li poveri, quali se hanno doi campi a fitto sono della chiesa, del tal vescovo, del tal cardinale.” La Chiesa e gran parte della sua dottrina non è altro che “mercantia”, una messa in scena per creduloni. Mentre Dio non può che essere lo stesso per tutte le religioni. “La maestà di Dio ha dato il Spirito Santo a tutti: a christiani, a eretici, a Turchi, a Giudei...” E per essere ancora più chiaro si rivolge direttamente ai presenti: “Et vui altri preti e frati, anchora vui volete saper più de Dio, et sette come il demonio, et volete farvi dei in terra, et saper come Iddio a guisa del demonio: et chi più pensa di saper, manco sa.”
È difficile non restare affascinati da questa voce, coraggiosa o incosciente che sia, impossibile non lasciarla parlare, anche perché si spiega benissimo da sé.
Di questa sensazione, peraltro documentatissima, si serve Carlo Ginzburg in altra parte del libro, per spiegare la differenza tra la vicenda di Menocchio e quella di Pierre Rivière raccontata da Foucault. Due processi che si svolgono in epoche completamente diverse, originati da colpe assai diverse: Pierre è un giovane pluriomicida che ha sterminato mezza famiglia, in bilico tra criminalità e psichiatria forense. Ma Pierre è descritto dall’esterno, resta un mistero anche a se stesso; mentre Menocchio esce dal buio della storia e prende la parola direttamente, a volte deragliando in fantasie teologiche popolari, a volte stupendoci per la sua lucida capacità d’analisi. Ci dà molti elementi, certo non tutti quelli che vorremmo, per cercare di ricostruire il suo vero pensiero, e ci spinge a trovare un contesto che quel pensiero deve aver suscitato, non essendo di sicuro spuntato dal nulla. Ci sono echi di tutto, dalla Riforma luterana all’anabattismo, ma non ci sono riscontri diretti negli interrogatori e nelle testimonianze. Soltanto una Bibbia tradotta in volgare, e pochi altri libri, peraltro tutti analizzati da Ginzburg alla ricerca di assonanze, che a volte ci sono a volte non ci sono.
Esemplare l’analisi di uno di questi testi sequestrati, e sicuramente letti da Menocchio: Il cavalier Zuanne de Mandevilla, meglio conosciuto come I viaggi di sir John Mandeville. Testo ben noto al contemporaneo Montaigne, che non ne rimase meno colpito, e anche a Leonardo, che lo citò per stigmatizzare la crudeltà dell’uomo. In questi viaggi reali e immaginari un Sultano così descrive il comportamento dei cristiani: “elli doverebbono dare exemplo de ben far alla commune gente, doverebbono andare a li templi a servire a Dio, et elli vanno tutto el giorno per le taverne zogando, bevendo e manzando come le bestie. (...) Sono tutti inclinati al mal fare, et tanto sono cupidi, avari, che per poco argento e’ li vendono li fioli, le sorelle e lor proprie mogliere per fare meretrice...”
Indimenticabile il fantasioso e raccapricciante capitolo su pigmei e antropofagi, ma la grande lezione, davvero rivoluzionaria, è questa: non siamo soltanto noi che guardiamo gli altri, gli sconosciuti, i diversi, ma sono loro che ci guardano. Dalla lettura di questo libro Menocchio deduce che “morto il corpo morisse anco l’anima”. La corruzione del clero (la stessa peraltro che lo stava giudicando) l’aveva ampiamente verificata sulla sua pelle. Le esperienze personali, le ingiustizie subite, gli hanno insegnato a ragionare con la sua testa in modo personalissimo (la cosmogonia del formaggio è troppo originale per non essere sua) ma un ambiente con cui erano in sintonia doveva esserci per forza, come si è visto nel contatto con i Viaggi di Mandeville. Certe sue critiche ai fondamenti della religione si ritroveranno quasi identiche tre, quattro secoli più tardi, in veri e propri filosofi.
Ginzburg sottolinea l’importanza di questo atteggiamento mentale fatto di tolleranza e di curiosità positiva verso l’altro: il Dio di Menocchio “non odia creatura che el habia fato”. Un altro testo elaborato a suo modo da Menocchio è il Decameron, di Boccaccio, letto in edizione non purgata dal sant’Uffizio.
In lui cultura orale e cultura alta, scritta, si fondono in una miscela esplosiva, che oggi ci appare come puro buon senso. Se nel primo grande processo notiamo un Menocchio provocatorio, insieme spavaldo e timoroso, confuso, nel secondo le parti si invertono: Menocchio è l’uomo moderno che cerca di parlare ragionevolmente con i suoi interlocutori, che appaiono in tutta la loro (violenta) mediocrità intellettuale.
Studiando i meccanismi della memoria i neuroscienziati hanno scoperto che non esistono soltanto dei luoghi (dei depositi) specializzati, ma che le informazioni sono disseminate quasi ovunque nella corteccia. Mi è venuto in mente rileggendo questo libro. Forse le idee sono disseminate ovunque, in ogni strato della società, e pur sembrando isolate trovano o inaugurano sempre nuove connessioni.
Gli anni che sono passati dalla prima edizione del libro sono un buon filtro per rileggere, nel mio caso con immutato piacere, Il formaggio e i vermi. Ora una valutazione metodologica è forse possibile, ma non spetta certo al recensore un compito del genere. La testimonianza di Menocchio apre una fessura nel silenzio degli ultimi? Cosa ci raccontano la dignità e la pulizia dei suoi ragionamenti nati proprio nella sua testa, come ammette in più occasioni lui stesso? Lo stesso storico sembra abbandonarsi a questa voce, che a tratti quasi lo sovrasta, sorprendendolo. In realtà non si limita a seguirla. La contestualizza anche attraverso le poche letture che gli può attribuire con certezza, ne segue le diramazioni e quando è il caso ne sottolinea l’acume. Menocchio è esistito, era un individuo vero e con la sua individualità ora fa parte della Storia. Non è soltanto un importante libro di storia, Il formaggio e i vermi, ma anche una lezione di stile.
Altre letture: Quodlibet ha appena ripubblicato Occhiacci di legno, dieci saggi sulla distanza, di Carlo Ginzburg. Contiene un testo inedito: Schemi, preconcetti, esperimenti a doppio cieco. Riflessioni di uno storico.
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema.
Federico La Sala (20 giugno 2019)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
Brexit, le costituzioni e la tigre della sovranità popolare
di Francesco Palermo (Il Mulino, 28 marzo 2019)
Il termine tedesco Schadenfreude indica la sensazione di piacere che si può provare quando a qualcuno vanno male le cose. Rallegrarsi delle disgrazie altrui, tuttavia, non solo è un sentimento negativo, ma può essere controproducente, giacché in un mondo interconnesso le sciagure altrui finiscono rapidamente per essere anche nostre. Di certo può essere un divertente e sottilmente perfido esercizio pensare a cosa avrebbe detto il mondo intero se il cortocircuito istituzionale sulla Brexit, che sta paralizzando da tre anni il Regno Unito, si fosse realizzato in Italia... Finita però la soddisfazione per lo scampato pericolo, e non potendo prevedere gli esiti di un processo nel quale la realtà supera quotidianamente la fantasia, si possono comunque avanzare un paio di riflessioni di sistema su questioni che riguardano non solo il Regno Unito, ma tutta Europa e forse tutto il mondo. Questioni sulle quali c’è poco da ridere, come sulle disgrazie altrui.
La prima è che la costituzione più antica e solida del mondo, l’unica talmente resistente da non avere avuto nemmeno bisogno di essere messa interamente nero su bianco in un unico documento, è rapidamente diventata troppo vecchia per stare al passo con la storia. I segnali ci sono già da almeno un paio di decenni (che comunque in termini di storia costituzionale britannica sono un batter di ciglia), e i vari tentativi di manutenzione che si sono susseguiti hanno solo mascherato e leggermente ritardato il declino.
Come talvolta capita alle persone anziane, che quasi all’improvviso passano da una buona forma alla condizione di moribondi, la costituzione britannica si è scoperta non più in grado di reggere le sfide della complessità moderna. Il meccanismo basato sull’onnipotenza del Parlamento, o meglio della sua maggioranza pro tempore, è andato in crisi di fronte ai paradossi delle decisioni a maggioranza. Non tutto può essere disponibile per le maggioranze parlamentari e dunque per i governi, e secoli di costituzionalismo, in buona parte nato proprio in Gran Bretagna, hanno insegnato che non basta confidare sulla responsabilità delle maggioranze, ma occorrono degli argini al loro potere.
Problema britannico si dirà? Niente affatto. Il problema è del mondo intero, perché in tempi burrascosi e difficili servono barche solide per non affondare. La costituzione britannica, a lungo vittoriosa come la flotta di Sua Maestà, si è mostrata troppo semplice e fragile nel momento in cui c’è bisogno di strumenti tecnici più sofisticati. Navigare ancora con un galeone del Settecento, per quanto straordinario fosse per quei tempi, non è consigliabile al giorno d’oggi. Mutatis mutandis vale per tutte le costituzioni: il loro mancato adeguamento tecnico le rende facilmente obsolete.
La seconda riflessione riguarda il cortocircuito del sistema decisionale. Quando la politica non è più in grado di assumere decisioni complesse, le scarica sulla popolazione. Pensando di trarne legittimità, finisce invece in un vicolo cieco. Poteva accadere col referendum sull’indipendenza della Scozia nel 2014. Ma siccome il giochino è sembrato funzionare, l’allora Primo Ministro David Cameron l’ha rifatto tale e quale con la Brexit. E gli è andata male.
Oggi, a fronte della paralisi istituzionale che si è creata, alcuni britannici e molti più europei suggeriscono l’idea di un secondo referendum. Che sarebbe un’idea più stupida della prima. Se anche i rapporti si ribaltassero, e il 52% fosse ora a favore della permanenza nell’Unione europea, cosa cambierebbe? Avremmo due risultati contraddittori presi in momenti diversi. La popolazione resterebbe spaccata e la politica ancora più confusa. E comunque non succederà, perché la tigre della sovranità popolare è già stata liberata, ha disarcionato chi provava a cavalcarla e ora ha reso prigionieri i suoi carcerieri. Quando May ripete che il popolo si è espresso e lei deve dare esecuzione alla volontà popolare dimostra tutta la debolezza del processo politico. E la dimostra proprio perché ha ragione: non ha più alternative, ormai è tardi, e un secondo referendum farebbe altri danni oltre a quelli già fatti dal primo.
Resta il problema di come decidere in contesti altamente complessi come questi. E anche il rischio che i processi decisionali siano lunghi nei tempi e insoddisfacenti nei risultati. Vero. Ma è esattamente quanto sta accadendo con la Brexit. Occorre accettare che servono freni alle maggioranze, invece di provare ad approfittare dell’effimera maggioranza del momento, chiunque l’abbia in mano. Questi freni si chiamano costituzioni. E vanno adeguati alla velocità e ai materiali moderni. Al di là della Schadenfreude momentanea, qualcuno pensa che sia un problema solo britannico?
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .... *
Dello spirito di famiglia
di Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene", 1764)
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.
Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative.
Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole.
Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 18 aprile 2017)
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Per uscire dal buio
Decalogo
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti: si comincia questa domenica con la marcia della pace Perugia-Assisi, cinquant’anni dopo la morte di chi la sognò, Aldo Capitini, scomparso il 17 ottobre 1968. Seguiranno nel Pd la Piazza Grande del nuovo aspirante leader Nicola Zingaretti, a Roma il 14 ottobre; e la Leopolda dell’ex ma sempre incombente Matteo Renzi, una settimana dopo. E le manifestazioni del 13 ottobre in tutta Europa, comprese molte città italiane, «contro il nazionalismo, per un’Europa unita» (www.13-10.org). Si discuterà di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile.
Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria. Qualche settimana fa l’Economist ha offerto ai suoi lettori un manifesto per ripensare il liberalismo. L’Espresso, nel solco di questo dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave (altre ne seguiranno). Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. Un segno di luce, per uscire dal buio.
***
Noi e tu
di Massimo Cacciari
Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.
Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell’altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall’altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto. Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi.
Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.
* l’Espresso, 07.10.2018
Il Confronto -
Ricette per trasformare l’io in noi. Magris dialoga con Michele Zanetti
Evitare sia le chiusure identitarie che i buonismi del «diverso è bello»
Esce «Rendiconto» (Ilmiolibro), saggio dell’ex presidente del Porto di Trieste
di CLAUDIO MAGRIS *
Le prime righe e la citazione che le precede dicono subito lo spirito più profondo del libro, una ferma e calda umanità consapevole della brevità dell’esistenza ma anche del suo sanguigno e forte significato; consapevole soprattutto che nessun frammento di vita svanisce in un nulla indistinto, ma è un tassello della vita intera, di cui si è responsabili.
«Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più tenerla» dice il passo evangelico (Luca, XVI, 2) scelto quale sintesi essenziale, cui seguono le prime righe: «Ho vissuto più a lungo di mio padre e di mio fratello maggiore...».
La qualità della nostra vita non finisce alla punta delle nostre dita ma comprende chi ci sta intorno e, più oltre, l’esistenza di tutti. Michele Zanetti ha dato alla politica più di quanto abbia ricevuto e ha pagato senza batter ciglio, con tranquilla e ironica serenità, il prezzo per le sue iniziative più coraggiose e dirompenti, come la Riforma Basaglia che potrebbe portare pure il suo nome.
La nostra fraterna amicizia dura da 68 anni, in cui abbiamo condiviso alcune tappe essenziali del nostro crescere e invecchiare, vicinanza nelle perdite affettive e momenti felici, da un leggendario match di boxe, con tanto di contratto e ring piantato in casa, alle gare su chi ricordava meglio a memoria i romanzi di Salgari. Le immagini di Ugo Guarino, geniali espressioni di una bislacca, irridente e calda fraternità umana, s’accompagnano coerentemente a questo Rendiconto.
La vocazione politica di Michele Zanetti nasce spontanea dall’incontro con le cose, fin dai tempi degli studi universitari di giurisprudenza a Trieste dove, dopo un breve periodo di insegnamento a Parigi, è stato docente di Diritto del Lavoro. Politica, polis, la Città, il bene comune ossia di tutti o almeno di quanti più possibile. Nel suo Rendiconto scrive raramente «io» e, molto più spesso, «noi». Chi sono, gli chiedo, questi «noi» e dove finiscono (se finiscono)?
Michele Zanetti - Il «noi» è importante per una molteplicità di motivi: per ridurre il narcisismo, per contenere la presunzione di chi ritiene di aver realizzato da solo qualcosa di significativo e per riconoscere di conseguenza il contributo che altri, a volte sconosciuti o restii ad apparire, hanno dato. Ma chi sono per te i «noi»?
Claudio Magris - In linea di principio, ogni individuo sulla terra è parte di noi. Naturalmente ci sono legami affettivamente ben diversi tra chi condivide la nostra vita e chi non abbiamo mai visto ma ciò non può cancellare il senso di una comune patria dell’umanità, che abbraccia differenti persone, nazionalità e culture, pietre di una casa comune. Ma due storture fatali minacciano quel senso del «noi». Da un lato la livida chiusura identitaria, il rifiuto di chi vive dall’altra parte della frontiera o anche solo alla periferia della propria città o in un altro gruppo sociale, etnico o religioso. Anche la famiglia può essere fondamentale per aprirci a un incontro con gli altri o per chiuderci in un particolarismo ringhioso. Dante diceva di aver imparato ad amar fortemente Firenze bevendo l’acqua dell’Arno ma aggiungeva che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare. Dall’altro lato c’è lo sciocco e ideologico buonismo che sproloquia «diverso è bello» (dimenticando che anche Hitler era diverso), che si entusiasma (a parole) per lo straniero e ignora il vicino di casa, fomentando per reazione così le più grette chiusure localistiche, aggressive e razziste. In che senso il tuo cattolicesimo ha influito sulla tua azione politica?
Michele Zanetti - Ha influito moltissimo, sia come ispirazione e bussola di orientamento, sia come controllo e verifica di ciò che si sta facendo, soprattutto per registrare e correggere errori e cadute che inevitabilmente accompagnano l’attività di ciascuno. Il riferimento ai valori cristiani mi pare di grande attualità e utilità nell’epoca presente che, dopo aver cancellato le ideologie del Novecento, brancola in maniera confusa tra un individualismo sfrenato, così poco fecondo e produttivo in ambito socio-politico, e una visione rozza e riduttiva di democrazia quale ricerca di un consenso purchessia che porti alla conquista del potere. Anche tu hai avuto in gioventù una formazione simile alla mia...
Claudio Magris - La fede è il senso dell’oltre, la resistenza al dominio delle cose così come sono e che pretendono di essere le uniche e le definitive, escludendo la possibilità di un futuro diverso dal sistema dominante nel presente. Horkheimer, il grande maestro insieme ad Adorno del pensiero negativo, non certo credente bensì caposcuola di un marxismo esperto della terribile realtà dei tempi nuovi, ha parlato di Dio come dell’«assolutamente Altro», sfida necessaria a un presente irrigidito incapace di pensare un futuro diverso e più umano. Tra le tue attività spicca quella, di particolare rilevanza pratica ed economica per la città, di presidente dell’Ente Porto di Trieste. Come hai vissuto questa tua attività?
Michele Zanetti - Se penso ai 13 anni di presidenza del porto di Trieste, dei quali il primo è stato utilizzato per imparare il «mestiere» di amministratore di una realtà complessa e per me nuova, ho maturato alcune convinzioni sul rapporto tra tecnici e politici. Per sua natura e vocazione il porto franco di Trieste vive se ha buone relazioni internazionali che richiedono conoscenza e comprensione delle esigenze dei partner. Al politico è necessaria la conoscenza della materia grande o piccola che è deputato a trattare; egli non deve delegare al tecnico le scelte sostanziali. Il politico inoltre è chiamato a portare innovazione, anche se il nuovo può far paura. Ero riuscito a intessere una vasta rete di relazioni che avevano prodotto un buon numero di linee marittime, containerizzate e no, oltre a cospicui investimenti nello scalo. Purtroppo i miei successori hanno quasi azzerato il lavoro di 13 anni e soltanto oggi il porto si è nuovamente immesso su quella strada.
Claudio Magris - L’esperienza più importante e rivoluzionaria del tuo lavoro è il tuo ruolo essenziale nella Riforma psichiatrica, la «Riforma Basaglia», che ha cambiato il modo di vedere la sofferenza, l’esclusione, l’emarginazione e ha ridato dignità di persona e diritti a chi era escluso dall’umanità, ignorato se non disprezzato, recluso più che ricoverato. Non ha affatto negato la malattia mentale, com’è stato detto; era il sistema precedente che spesso accumunava i malati alle vittime dell’alcol, della droga, della miseria, del rifiuto, del disagio sociale, anche di sé stesse. Ha certo sottolineato l’importanza delle condizioni esterne; anche per un cardiopatico non è la stessa cosa abitare al piano terra o al ventesimo piano senza ascensore. La riforma psichiatrica - nonostante qualche vacuità ideologica assemblear-pulsionale (l’eterno morbillo culturale infantile che insidia la sinistra) - non ha tradito la concezione classica della materia di cui siamo fatti e senza la quale non c’è vero spirito, Logos che si fa carne, sinapsi di neuroni.
Michele Zanetti - Si può e si deve curare il disagio e il disturbo mentale in forme rispettose della libertà e della dignità delle persone sofferenti. Perciò va abolito il manicomio che non solo toglie libertà, dignità e diritti ai ricoverati, ma ne aggrava o talora addirittura provoca la malattia mentale. Per fare ciò si è dovuto abbattere non soltanto gabbie e muri ma ostacoli ben più grandi, quali una cultura e una legislazione fondate sull’esclusione come garanzia di sicurezza per la società. Un tema ricorrente, se si riflette sulle speculazioni politiche di oggi sulla sicurezza, bene essenziale da proteggere in altri modi. Certamente non è stato facile distruggere l’istituzione manicomio a partire da un’altra istituzione come la Provincia chiamata a gestirlo. Ma dopo quasi cinquant’anni, sebbene seppure possano esserci stati errori ed esagerazioni, non è stata intaccata la validità e l’universalità del movimento contro le istituzioni totali alienanti e totalizzanti, che anzi deve essere continuato con impegno.
Claudio Magris - Siamo entrambi uomini del Ventesimo e non del Ventunesimo secolo e talvolta, anzi spesso, restiamo spiazzati dinanzi alle nuove forme che hanno preso la politica e la lotta politica, dinanzi a tante trasformazioni del mondo in cui la straordinaria creazione di nuove libertà si mescola e talora s’intreccia a nuove terribili schiavitù. È difficile resistere all’impulso di rifiutare tutto ciò o di assecondarlo passivamente. Come ti senti sotto questo punto di vista?
Michele Zanetti - Come hai detto, sono veramente spiazzato dinanzi alle attuali forme della lotta politica, le condanno e le rifiuto. Se soltanto penso a quanto di grottesco e di risibile, ma soprattutto di drammaticamente pericoloso è avvenuto di recente per la ricerca di una maggioranza di governo (o a come si avvia in maniera maldestra e inconcludente l’azione del governo stesso), posso soltanto dedurre che siamo a un punto molto basso della politica. Mi auguro vengano presto superati l’uso manipolatorio della democrazia rappresentativa e la sua erosione da gran parte dei mass media. Tuttavia, anche se io non riesco a intravederlo, mi auguro che si manifesti sia pur parzialmente quanto di positivo e di innovativo sta producendo l’attuale fase di transizione.
* Corriere della Sera, 24 settembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
La sistematica di Linneo
di Luigi Benevelli (POL.IT, 14 gennaio, 2014)
Il pensiero occidentale è contrassegnato dalla prepotenza. Il grande sviluppo della sistematica ebbe pienamente luogo solo nel Settecento, con il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), che cominciò a organizzare le specie raggruppandole in generi, e quindi raggruppando i generi in una serie di categorie superiori basandosi sulle somiglianze morfologiche e anatomiche.
Da quando nel 1735 venne introdotta la sua nomenclatura binomiale - basata sul modello aristotelico di «genere prossimo» e di «differenza specifica» - si è iniziato a declinare in latino il genere e la specie degli organismi.
Linneo ha teorizzato un sistema di classificazione in cui il genere HOMO, posto in cima al regno animale, viene suddiviso in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan.
È curioso come la nostra cultura abbia sempre teso a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime, e il buio come il demoniaco, il basso, il territorio dei bruti. Secondo il sistema delle similitudini e analogie, il Sole - simbolo platonico del Bene, che sempre nella sua corsa, tende a occidente - segna l’uomo occidentale.
Il secolo dei Lumi, nelle retorica settecentesca, porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; allo stesso modo, nella retorica coloniale del secolo successivo, dall’uomo occidentale procede la civilizzazione che porta la luce nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi. Il che è perfettamente in sintonia con la classificazione linneiana di Homo sapiens in sei decrescenti varietà diurne, quattro varietà di «uomini normali», catalogabili secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le corrispettive «qualità morali», e due varietà di «uomini anormali».
Nella tassonomia di Linneo abbiamo
Nella decima edizione del Systema naturae (1758), compare la classe dei primati, che sostituisce il precedente Anthropomorphae; qui avviene l’abbinamento del genere Homo con la specie sapiens. Dopo la scoperta dei fossili nella valle tedesca di Neanderthal, l’Homo sapiens divenne sapiens sapiens.
Sul tema, nel sito, cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Cattolici e politica.
Capire il «secolarismo», dare alternativa al nulla
di Raffaele Vacca (Avvenire, sabato 28 luglio 2018)
Nel marzo del 1994, parlando al clero di Pordenone, Giuseppe Dossetti disse che tutta la sua azione «così detta politica» era stata un’opera di educazione e di formazione, per alimentare e sostenere «la coscienza politica del nostro popolo, che matura non era e non è neanche oggi». Anche Giuseppe Lazzati, a un’azione politica concreta, aveva privilegiato il servizio di aiutare a formare al «pensare politicamente».
Nonostante la proposta e la promozione di scuole di politica negli stessi partiti e soprattutto nell’ambito dell’associazionismo cattolico, la coscienza politica della maggior parte degli italiani non solo non si è fortificata, ma si è indebolita sotto l’urto di una secolarizzazione, tendente a trasformarsi spesso in secolarismo (ovvero in una visione di vita che ritiene Dio superfluo).
Come aveva scritto Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, che è del 1975, la secolarizzazione «è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede e la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa ed in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono, con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore ha posto queste leggi».
Ma, come notò Pietro Scoppola dieci anni dopo, in Italia, con il rapidissimo espandersi del sistema industriale-tecnologico-capitalista, si era imposta un differente tipo di secolarizzazione, che aveva cercato di distruggere tutti i valori di cui aveva bisogno per nascere, e di consumare tutti i valori che non era in grado di riprodurre.
Questa secolarizzazione aveva picconato non solo la cultura cattolica (intendo per tale anche il modo di vivere), ma anche le stesse culture laiche. Con potenti mezzi di comunicazione e introducendo la spettacolarizzazione in ogni campo del vivere, aveva sempre di più diffuso l’opinione che si viene dal nulla e si va verso il nulla, per cui non bisogna pensare ad altro che a conseguire il massimo profitto economico possibile, soddisfare bisogni materiali sia naturali sia artefatti, tralasciare il ’pensare politicamente’ e dare deleghe in bianco a durante le elezioni.
Quantunque potentissimo, il sistema è tuttavia in crisi. Quando si ritrovano con se stessi non pochi avvertono un grave disagio nel vivere. Non lo avvertirebbero se avessero una visione cristianamente ispirata, che rivelerebbe a loro come agire. È questa visione di vita (che parecchi segretamente hanno) che bisognerebbe riproporre e lentamente riportare nella cultura italiana, che è anche cultura europea. Avendo consapevolezze di esperienze del passato (ma senza restare isterilmente in esse), ed avendo precisa consapevolezza della situazione esistente, ad alimentare questa cultura potrebbero essere nuove scuole di educazione e di formazione politica, tendenti non solo a educare e formare coloro che intendono candidarsi a svolgere attività politica in sede nazionale o locale, ma anche a educare e formare cittadini che sappiano comprendere, valutare e sostenere la politica, non restando oggetti passivi della sua azione, ma diventando soggetti consapevoli di questa. Ed aiutando altri a esserlo.
Raffaela Vacca è fondatore del Premio Capri-San Michele
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" ... *
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL POPULISMO ATEO E DEVOTO.... *
Napolitano dimesso dall’ospedale: andrà in clinica per la riabilitazione
Quattro settimane fa il presidente emerito della Repubblica era stato sottoposto a un intervento di sostituzione della valvola aortica
di CARLO PICOZZA (la Repubblica, 22 maggio 2018)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano ha lasciato la Cardiochirurgia del San Camillo alla volta della clinica Villa Betania dove sarà sottoposto alla riabilitazione cardiorespiratoria e motoria. Era martedì 24 aprile, quattro settimane esatte fa, quando, in emergenza, il cardiochirurgo Francesco Musumeci ha sottoposto l’ex capo dello Stato alla sostituzione della valvola aortica e di un ampio tratto dell’aorta ascendente con reimpianto delle coronarie. Napolitano, nel pomeriggio di quel giorno, aveva avvertito dolori al torace mentre era in visita alla moglie Clio, ricoverata in una clinica della capitale. Si era allarmato e aveva subito avvertito il suo cardiologo di fiducia, Roberto Ricci, primario nell’ospedale Santo Spirito dove, visitato il paziente, la diagnosi non lasciava grandi speranze: "Dissecazione acuta dell’aorta ascendete". In altre parole, l’arteria maggiore rischiava di rompersi da un momento all’altro.
La conferma era giunta a stretto giro da Musumeci che, d’accordo con Ricci, indicava di trasportare con urgenza Napolitano al San Camillo per sottoporlo al delicato intervento chirurgico. L’operazione era durata tre ore e mezzo, dalle 22 all’1.30. E da subito, nella Terapia intensiva cardiochirurgica, i clinici avevano guardato con soddisfatto stupore alle capacità di recupero di Napolitano.
"Nonostante l’età, quasi 93 anni", spiega Musumeci, "il presidente emerito ha risposto bene, senza complicazioni e velocemente, alle nostre cure; un recupero eccellente". "L’intervento di Napolitano", aggiunge il cardiochirurgo che, nella Londra degli anni Ottanta, è stato allievo di uno dei maestri della Cardiochirurgia mondiale, Magdi Yacoub, "dimostra che è l’età biologica che conta, le buone condizioni cliniche del paziente e non il numero degli anni: le tecnologie oggi a disposizione consentono interventi impensabili fino ad alcuni anni fa". Ora Napolitano è affidato alle cure dei fisioterapisti che, nel quartiere Aurelio della capitale, metteranno a segno gli ultimi atti della sua riabilitazione.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
POPULISMO: IL ’GIOCO’ DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO. Come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" fosse identica al "tutto".
Monito del Presidente Napolitano: una democrazia sa sempre reagire "alle chiusure e al populismo".
Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 ...
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
di Marco Assennato (Il manifesto, 01.03.2018)
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di Alberto Destasio
«In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» - il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» - quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo piccolo pamphlet - Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco - che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio - scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia - le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 - e si stende nei due decenni successivi. «L’evento - nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume - non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che - come insegna il comandante della lunga marcia - restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze - cui Badiou rende un fuggitivo omaggio - e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la - lunghissima - crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento - scrivevano Deleuze e Guattari - crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
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Federico La Sala
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz...
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO: HENRI DE LUBAC E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL MITO DELL’AUTONOMIA INTELLETTUALE, ROBINSON, E LE ROBINSONATE ....
DOPO 170 ANNI DALLA BRILLANTISSIMA “Introduzione del ’57”, ove Marx scrive parole assolute e definitive (“La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro”), è più che lodevole ricordare ai cittadini e alle cittadine della Repubblica non solo quello che Marx, nel 18 Brumaio e ne L’ideologia tedesca, chiama “il processo di putrefazione dello spirito assoluto”, e, quello che Lukàcs, sulle orme di Marx, chiama “la prassi dell’individuo isolato” (cfr. Mimmo Cangiano, Il mito dell’autonomia intellettuale, "Le parole e le cose", 28.11.2017), ma anche quello che gli intellettuali di "la Repubblica" si preparano a fare per festeggiare il fatto che “Robinson compie un anno (: hai tutti i numeri? Mandaci una foto della tua collezione. Domenica 10 dicembre inviteremo uno dei lettori a visitare l’Arena Robinson, lo stand del nostro settimanale a "Più libri più liberi"”).
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In principio era il Logos, non il "logo" ...
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli" - Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana
Federico La Sala
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore
Dalla battaglia per la Mondadori con le sentenze comprate dal Cavaliere agli ultimi tentavi di fare impresa assieme
di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 23.11.2017)
Il triangolo no, Berlusconi non l’aveva considerato. Eppure Eugenio Scalfari è riuscito a fare in tv l’elogio dell’ex Cavaliere. “Il populismo di Berlusconi ha una sua sostanza”, ha detto il Fondatore. E alla domanda di Giovanni Floris, “se dovesse scegliere tra Di Maio e Berlusconi, chi sceglierebbe?”, ha risposto senza esitazioni: “Berlusconi”. Il terzo del triangolo è l’Editore, Carlo De Benedetti, che completa un ménage à trois burrascoso ma intenso, che si dipana in quarant’anni di scontri e incontri e scontri. Grandi guerre e improvvise alleanze. In cui, più che il giornalismo, pesano gli affari.
All’inizio - era il 1979 - ci fu un incarico commerciale affidato a Scalfari dalla famiglia Mondadori: vendere a Berlusconi Rete 4, che stava trascinando nel baratro la casa editrice di Segrate. “Berlusconi ci invitò a cena ad Arcore”, raccontò poi il Fondatore, “e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale”.
L’agente commerciale Scalfari portò a compimento il suo mandato: “I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente)... Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani”. E allora la quasi-amicizia si interruppe, perché Eugenio preferiva De Mita. Scalfari sparò contro Silvio - era il 1990 - articoli in cui lo paragonò a Mackie Messer, il bandito inventato da Bertolt Brecht. Anche De Benedetti, intanto, aveva incrociato Silvio sulla sua strada. Nel 1985 aveva cercato di portare a casa a buon prezzo la Sme, industria alimentare di Stato. Bettino Craxi chiese a Berlusconi di bloccare a ogni costo l’operazione. Silvio eseguì: gli preparò una cordata concorrente (Barilla, Ferrero, Fininvest) e l’affare sfumò. I due si ritrovarono a fare i duellanti nella “guerra di Segrate”. La Mondadori era diventata di De Benedetti e Repubblica si era integrata nel gruppo. Ma Silvio si era mangiato tutto, anche comprandosi giudici e sentenza. Poi però aveva accettato di spartire il bottino, lasciando Repubblica e L’Espresso a Scalfari e De Benedetti. Ci fu uno strascico: 50 milioni di lire di spese legali.
Non le voleva pagare nessuno, né Berlusconi, né De Benedetti, né Carlo Caracciolo, il principe editore del vecchio Espresso. “A quel punto dovetti intervenire io”, racconta Scalfari, che propose a Berlusconi un baratto. “Riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali... Il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. Allora sparò un’altra delle sue definizioni: non più Mackie Messer, ma “ragazzo coccodé”, prendendola a prestito da Renzo Arbore.
Nel bel mezzo del ventennio berlusconiano - e dunque anche antiberlusconiano - i duellanti della Sme e della “guerra di Segrate”, De Benedetti e Berlusconi, nemici accerrimi, anche antropologicamente inconciliabili, diventano improvvisamente soci. Nel 2005 De Benedetti fonda la società di investimenti M&C. Mission: salvare imprese in difficoltà. Si diffonde la notizia che vi entrerà, con una quota consistente, anche la Fininvest. La Borsa s’infiamma, il titolo s’impenna, la Consob s’insospettisce e De Benedetti, accusato di insider trading, paga una sanzione di 30 mila euro.
Ma la pubblica opinione, di cui i lettori di Repubblica sono parte, s’indigna: ma come, l’Editore, dopo guerre sanguinose per Sme e Mondadori, fa affari insieme al suo arcinemico? Alla fine Berlusconi si sfila: troppe polemiche, troppe insinuazioni (e forse pochi affari). I duellanti riprendono a duellare. Dopo che una sentenza definitiva stabilisce, nel 2007, che la Mondadori era andata a Berlusconi grazie a una sentenza comprata, De Benedetti avvia una causa civile, chiedendo che Fininvest risarcisca la sua Cir per avergli scippato la casa di Segrate. Porta a casa in primo grado, nel 2009, 745 milioni di euro come “danno patrimoniale da perdita di opportunità di un giudizio imparziale”: a scriverlo è il giudice Raimondo Mesiano, subito messo in ridicolo dalle tv di Berlusconi per via dei suoi imperdonabili calzini azzurri. Nel 2011 il risarcimento a De Benedetti è ridotto a 540 milioni, che diventano 560 con gli interessi. Nel 2013, nuovo ritocco: 494 milioni.
Quando il 29 settembre 2016 Silvio compie 80 anni, Eugenio unisce agli auguri un’autocritica: “Sbagliai, non era affatto il ragazzo coccodé e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni. E ancora non è finito”. E allora: “Oggi dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994”. Del resto, “debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio”. Sarà la comune senescenza a farli tornare più vicini? Ora Eugenio recupera Silvio come populista “di sostanza” contro il populismo senza qualità dei 5stelle. Si chiude il cerchio. Anzi il triangolo.
Costituzione e populismi (ateo-devoto) "di sostanza": W "la Repubblica", W "Forza Italia"!!! ... *
L’inganno sul mio voto a Berlusconi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 24.11.2017)
Cari Lettori, non cadete nell’inganno di chi sfrutta una domanda paradossale («Chi voterebbe tra Di Maio e Berlusconi?») per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai. Martedì scorso ho partecipato alla trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris, dove tornerò martedì prossimo. Rispondendo a una domanda sul tema dell’ingovernabilità, ho detto che in caso di estrema necessità per superare una situazione paralizzante per il Paese il Pd (per il quale io ho sempre votato dai tempi di Berlinguer, dell’Ulivo prodiano e infine di quello costruito da Walter Veltroni) potrebbe essere costretto, come già successo in passato, a un’intesa non di natura politica con Forza Italia, sempreché si separasse da Salvini.
Ipotesi a me sgradita, che è emersa parlando del rischio di ingovernabilità del Paese, tema approfondito ieri sul nostro giornale con molta lucidità da Gustavo Zagrebelsky. Ho poi detto che ai miei occhi sia Di Maio che Berlusconi sono populisti, ma che il populismo del secondo ha perlomeno una sua sostanza. Ma veniamo allo stato attuale dei satti e dei sondaggi, i partiti in corsa sono soprattutto tre: il Pd, i Cinquestelle, la destra di Berlusconi e della Lega di Salvini.
Nelle recenti elezioni siciliane la destra ha largamente vinto, seguita dai grillini e a buona distanza dal Pd, con la sinistra dissidente che aveva presentato una propria lista con risultati lillipuziani. Questa situazione si ripeterà probabilmente nelle prossime elezioni di sine Legislatura che avverranno a marzo o aprile del 2018? Probabilmente sì. Il Pd si rassorzerebbe se la sinistra dissidente e Pisapia e Bonino consluissero sin d’ora nel partito: una sinistra unita probabilmente recupererebbe anche una parte degli astenuti che hanno sentimenti di sinistra lacerati dall’attuale dissidenza. Fassino, incaricato da Renzi, ha tentato in tutti i modi di recuperare la dissidenza, ma non è riuscito. Forse Pisapia, ma è ancora molto incerto.
Il tema dell’ingovernabilità è dunque ancora dominante, se nessuno dei tre maggiori partiti assronterà le elezioni della prossima primavera nella situazione attuale, il Paese non avrà un governo legittimato dal voto. Il Centro si orienterà verso la destra ma anche in quel caso un governo Berlusconi- Salvini non avrà la maggioranza, durerà qualche mese dopodiché le elezioni dovranno ripetersi. Ci troviamo purtroppo nella stessa situazione della Germania di Angela Merkel.
Ma c’è un’altra evidenza da sottolineare: così come sta accadendo per la Germania, anche un’Italia sballottata dall’ingovernabilità non conterebbe più nulla in Europa con tutte le conseguenze del caso. La mia risposta nella trasmissione televisiva a Floris era chiaramente motivata da quanto sta accadendo: se l’ingovernabilità prosegue così come le previsioni e i sondaggi attuali consermano, la maggioranza relativa sarà certamente del centrodestra, Salvini compreso ed anzi preponderante.
Ovviamente io non voterò mai Berlusconi, ma con quel tanto di esperienza che gli anni hanno largamente ampliato, la situazione è quella che ho qui esposto.
Come c’era da aspettarsi sono stato ricoperto di insulti dai grillini rappresentati nel Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma considero quegli insulti come una sorta di Legion d’onore. Quanto alla sinistra dissidente, ci pensi bene prima di risiutare le aperture di Renzi nei suoi consronti. Da parte loro è un litigio di comari, come si diceva un tempo. La politica è la prima delle attività dello spirito. Lo dimostrarono Platone e soprattutto Aristotele. Sarebbe opportuno leggerli. L’ho consigliato a Renzi e spero l’abbia satto. A Berlusconi è inutile suggerirlo, la lettura non sa parte della sua attività. Gli consiglio soltanto di piantare Salvini: meglio soli che in pessima compagnia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
Federico La Sala
Ritorna Berlusconi l’alleato necessario
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 13.11.2017)
IL successo di Nello Musumeci alle Regionali in Sicilia ha posto in evidenza la debolezza del Centrosinistra. Ma anche, ovviamente, la capacità competitiva del Centrodestra. Il diverso rendimento dei due poli si spiega con la differente capacità di coalizione. Prima causa della sconfitta del M5s, irriducibile a ogni alleanza. Mentre sull’altro versante, l’accordo fra il Pd e le diverse formazioni di Sinistra è risultato impossibile. Questa situazione non appare condizionata da specifici fattori territoriali.
MA DETTATA, piuttosto, da difficoltà sostanziali, che riguardano i rapporti tra i leader e le forze politiche di quest’area. Anche il centrodestra appare segnato da rilevanti differenze interne: di progetto e di strategie. Eppure, le distanze tra FI, Lega (NcS: Noi con Salvini), FdI e la stessa UdC, per quanto profonde, non hanno prodotto fratture insuperabili. Da ciò il successo del centrodestra. Che costituisce un precedente significativo. Perché delinea uno scenario che potrebbe riprodursi altrove, soprattutto nel Nord, alle prossime elezioni politiche. Tanto più quando entrerà in vigore la nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum (bis), che prevede la possibilità di presentare candidati di coalizione nei collegi uninominali. Diventa, così, probabile l’eventualità che il modello siciliano si riproponga altrove. Nei collegi e in prospettiva nazionale. Con effetti analoghi. Per gli analoghi tipi di relazione fra i partiti. Sulla diversa capacità di coalizione gravano diverse cause. Politiche, ma anche “personali”. Che hanno favorito, fin qui, e potrebbero avvantaggiare - ancora soprattutto - il centrodestra. Fra le altre, vale la pena di sottolinearne una, particolarmente evidente e influente. Il ruolo e la presenza di Silvio Berlusconi.
È infatti lui, il Cavaliere, il principale artefice dell’intesa in Sicilia. E del progetto di coagulare gli altri principali pezzi della destra, ma anche del centro. Per prima: la Lega. Quindi i FdI di Giorgia Meloni. Ma anche l’Udc. Mentre lo stesso Alfano tenta di accodarsi alla compagnia, per non rimanere appiedato - ed escluso - nella prossima legislatura. Silvio Berlusconi, peraltro, è anche l’interlocutore “necessario” per il PdR, il Pd di Renzi. Nella prospettiva di confermare e allargare il programma di riforme avviato negli ultimi anni dal governo. Con il sostegno essenziale di Berlusconi. A partire dal gennaio 2014, quando proprio Renzi e Berlusconi siglarono il Patto del Nazareno. Spezzato e concluso, nel febbraio 2015, dall’elezione di Sergio Mattarella. Ma oggi, meglio: domani, quell’intesa potrebbe divenire nuovamente necessaria. Nella prospettiva - molto realistica - di un Parlamento senza alcuna maggioranza possibile. Perché nessun Partito, nessun Non-partito, nessun Polo (e Non-Polo) pare in grado di affermarsi, alle prossime elezioni. Da solo. E soprattutto di governare. Da solo.
Così, Berlusconi diventa l’alleato necessario, seppure non gradito, per fare le riforme. Istituzionali, ma, ancor prima, economiche, necessarie al Paese per “rimanere in Europa”. L’unico in grado di “coalizzare” - quantomeno, “aggregare” - il centrodestra. O, se si preferisce, le destre di diverso orientamento. Per cercare l’intesa con il centrosinistra e, anzitutto, con il PdR.
La centralità ritrovata - ma, in fondo, mai perduta - di Berlusconi può apparire singolare. Perché il suo partito, FI, attualmente è stimato circa il 14%. Un paio di punti sopra, rispetto a un anno fa. Ma quasi 3 in meno, rispetto alle europee del 2014. E oltre 7, rispetto alle politiche del 2013. Senza risalire al periodo 2008-2009, quando il Pdl si attestò intorno al 35-37%. Mentre Berlusconi stesso, ha visto la fiducia nei suoi confronti, come leader, attestarsi al 30%. In risalita dopo l’uscita dal governo, nel 2011. Ma sostanzialmente stabile, negli ultimi anni.
In altri termini, Silvio Berlusconi si è imposto come tessitore politico proprio mentre lui, “personalmente”, ma soprattutto il suo partito “personale” appaiono deboli. Comunque e sicuramente: “più” deboli che in passato.
Tuttavia, la coincidenza fra i due dati non appare “casuale”. Anzi, in qualche misura è “causale”. Berlusconi, in altri termini, diventa un alleato possibile anche per gli altri, gli avversari politici, perché è più debole che in passato. Personalmente e politicamente.
Perché lui, per primo, ha bisogno di contare, sulle scelte di governo. Per ragioni politiche, personali. E per interessi aziendali. In secondo luogo, nessun soggetto politico, conviene ripeterlo, è in grado di governare da solo. Ma l’area di Centro-Destra, dove si collocano, FI, Udc, Lega e FdI, oggi appare il Polo che attrae maggiori consensi. Oltre un terzo dei voti. È, inoltre, il accreditato nella competizione per conquistare i collegi del Nord.
Ma Berlusconi è, sicuramente, l’unico a poterlo tenere insieme. L’unico in grado di trasformarlo da un’area confusa in un Polo effettivo. Non per caso, intercetta le simpatie dei due terzi degli elettori che si collocano a Centro- destra. Ma convince anche la maggioranza di quelli che si dicono di Destra. Senza “mezzi termini”. Berlusconi, infine, negli ultimi anni, ha visto crescere la fiducia nei suoi confronti presso gli elettori di Centro, ma anche di Centrosinistra.
Per questo oggi si propone, e può agire, come un “mediatore”. Mentre ieri era la bandiera di una “parte”, più che di un partito. E ciò segna un passaggio e un cambiamento significativo, rispetto alla nostra storia recente, segnata dalla sua presenza. Perché, dal 1994 fino a ieri, egli ha segnato la principale frattura del nostro sistema politico. Di più: del sentimento politico del nostro Paese. L’alternativa fra berlusconismo e anti- berlusconismo, infatti, ha rimpiazzato - in parte assorbito - il muro dell’anti-comunismo. Oggi neppure Berlusconi è in grado di erigere muri, intorno a sé. Per volontà e/o debolezza propria. E degli altri. Non importa. Ma il suo muro è divenuto una tela. Così, un’epoca della nostra storia è finita. E non è chiaro cosa ci attenda domani. Anzi: oggi stesso.
INDIVIDUO E SOCIETÀ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ, APRIRE GLI OCCHI ..
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.07.2017)
IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti).
Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.
Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata.
I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.
Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta.
Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato.
Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.
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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
La vera società libera è quella che rifiuta la tirannia dei padri
Nel loro saggio Marco Marzano e Nadia Urbinati riflettono sulle trasformazioni della nostra organizzazione di vita proponendo un “patto” tra pari che elimini ogni leaderismo
di Giulio Azzolini (la Repubblica, 02.06.2017)
Chi ha paura della “morte del padre”? Chi teme la crisi di quell’autorità che la tradizione ha visto incarnata nella figura maschile e paterna? Non certo Marco Marzano e Nadia Urbinati, che anzi nel loro saggio La società orizzontale (Feltrinelli) si scagliano apertamente contro quello che chiamano «il modello di Telemaco»: il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo né mira all’autoaffermazione di Narciso. Invece, secondo il sociologo e la teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie.
Alla «logica neo-patriarcale» andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una «società orizzontale», ovvero autenticamente democratica. E il saggio, che pone in modo polemico e sempre lucido questioni radicali, àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di “orizzontalizzazione” è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa «mutazione antiegualitaria» denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013 (Laterza).
La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta «controrivoluzione dei padri ». Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico.
Sul piano religioso, Marzano e Urbinati descrivono una sorta di passaggio al protestantesimo, compiuto da una generazione di giovani che ragiona in autonomia e stabilisce un rapporto sempre più diretto e libero con la dimensione del divino. Sul piano famigliare, si nega che il declino della famiglia tradizionale, cioè paternalistica e autoritaria, rappresenti una catastrofe.
Al contrario, la democratizzazione delle famiglie avrebbe portato con sé un clima più pacifico, fatto di dialogo e di rispetto reciproco.
Sul piano politico, infine, viene diagnosticata la crisi dei partiti identitari. La loro restaurazione è una causa persa. Ma la loro natura dev’essere per forza leaderistica o verticale? No. La sfida, secondo gli autori, è quella di costruire partiti orizzontali, con una struttura sempre meno piramidale e più reticolare, capace cioè di federare gruppi sorti nella società civile. E ciò non implica il rigetto della dicotomia destra-sinistra, come pretende l’attuale vulgata movimentista. Marzano e Urbinati sostengono che gli stessi valori democratici possono ancora essere declinati con uno spirito riformista e sociale oppure conservatore e liberista, e dunque che le categorie di destra e sinistra restano utili criteri di orientamento.
Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo.
di Roberta De Monticelli (Libertà e Giustizia, 17 dicembre 2016)
E’ vero che “diploma di laurea” non vuole dire “laurea”? E’ vero che scrivere che si possiede un diploma di laurea che non si possiede è soltanto “una leggerezza”? Ed è giusto che proprio una persona che una laurea non ce l’ha sia a capo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, cioè a capo di un’istituzione chiamata a governare e decidere della vita, della fatica, delle speranze e del merito di tutti coloro cui lauree, diplomi, master, dottorati, TFA, abilitazioni e concorsi non bastano a esercitare la professione per cui studiano da decenni? Ma soprattutto, è giusto che la massima autorità sulla scuola pubblica, sulle regole e le istituzioni che inquadrano la trasmissione e la ricerca del vero, invece di presentare un onesto ancorché modesto curriculum, lo falsifichi? E che nessuno batta ciglio di fronte a un fatto come questo? E’ accettabile che anzi, se qualche isolata voce mormora la sua perplessità, sia lo stesso capo del governo a dichiarare pubblicamente solidarietà al suo ministro, invece di scusarsi con i cittadini e pregare il ministro di dare le dimissioni?
E’ vero, siamo nel Paese europeo che più fatica a restare a livelli di minima decenza quanto al numero di laureati: e allora, è un bene che al vertice del ministero che dovrebbe occuparsi di questa piaga, una delle vere radici del nostro declino, ci sia qualcuno che non solo non supera il livello base delle statistiche, ma pretende di rimediare la verità col trucco, come Lucignolo, come Pinocchio, come un personaggio di Alberto Sordi o di Totò? E’ un buon esempio per i nostri scolari, i nostri studenti, i nostri figli? Saprà rendere ancora più buona la “buona scuola”?
MIUR vale Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. E’ l’acronimo del ministero che, come studiosi, docenti e anche semplicemente genitori, ci riguarda più da vicino. Un acronimo che ritorna negli incubi di quelli di noi che hanno recentemente dovuto collaborare alla modifica dell’offerta formativa della propria Facoltà o all’aggiornamento del proprio cv sulla pagina nazionale, lottando con idiosincrasie elettroniche e burocrazie mentali misteriosamente tenaci nei decenni.
Resta il fatto che questo Ministero governa la vita di una delle grandi “agenzie di verità” che una società democratica ha interesse a mantenere indipendenti dal potere politico. E forse, dal nostro punto di vista almeno, la più importante. Quella che ha come valore di riferimento la conoscenza da trasmettere alle future generazioni e quella da ricercare. L’informazione che circola attraverso l’insieme dei media e delle altre grandi piazze del dibattito pubblico, come i social network, è l’agenzia di verità necessaria al dibattito pubblico, e quindi al secondo pilastro di una democrazia, accanto a quello istituzionale degli organismi di deliberazione e decisione delle politiche. E sappiamo che questa agenzia di verità in Italia non è messa molto bene, secondo certe classifiche il grado di indipendenza dei media relega l’Italia agli ultimi posti fra le nazioni, civili o meno.
I tribunali civili e penali e tutto il macchinario che vi si connette costituiscono l’agenzia di verità che rende possibile l’esercizio della giustizia. E anche qui, coi processi che si trascinano per decenni fino a prescrizione della verità, non siamo messi benissimo. Ma le riforme di quelle due agenzie sono cosa tanto necessaria quanto complicata - non a caso subito caduta dalle agende del governo dimissionario, come di quelli precedenti.
La solidarietà dichiarata a un ministro che non possiede un curriculum onesto e per di più lo difende, invece, è un paradosso gigantesco, almeno quanto quello, moralmente forse ancora più tragico e meno ridicolo, di quel Presidente del CNR recentemente nominato dal precedente ministro, che siccome presiede anche la Commissione per l’Etica della Ricerca, si è per prima cosa scatenato, pur con qualche incertezza grammaticale, contro la Senatrice della Repubblica e scienziata Elena Cattaneo, quando lamentava l’opacità e l’arbitrio nella gestione governativa del progetto Human Technopole: «Guai a chi parla dell’etica superiore di tutti perché questo era Robespierre....il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. - Mah! Senza pensare a .... a principi etici».
Una bella accoppiata, una bella successione, al Ministero che più di ogni altro incide sull’educazione dei “sovrani di domani”, e quindi sulla qualità di una democrazia. Saremo anche nell’epoca della post-verità: ma quando è troppo, è troppo.
Roberta De Monticelli
Il mistero dell’intervista scomparsa
Perché chiedere un’intervista a uno dei più prestigiosi giuristi europei (di cui sono stranote le posizioni politiche e lo stile comunicativo) per poi non pubblicarla? Perché comportarsi in modo così offensivo verso uno degli intellettuali italiani più stimati e rispettati (anche dai suoi avversari) per la qualità, il rigore, l’indipendenza del suo lavoro? Un episodio che riempie di amarezza e incredulità.
di Franco Cordero
L’arte docile del giornale
Le premesse remote risalgono a quando scrivevo in «Repubblica». M’aveva invitato Ezio Mauro (novembre 2001): centinaia d’articoli e il Bagutta 2004, sul filo del rasoio perché Divus Berlusco regnava e i cautelosi rabbrividivano, ma non la direi mésaillance se bene o male è durata quindici anni. Due mesi fa esce Rutulia (Quodlibet), dove confluisce largo materiale d’allora. Il «Venerdì» manda qualcuno a intervistarmi, 24 ottobre: non so chi sia, né figura nel folto onomasticon del quotidiano e settimanale; ero sul chi vive, perciò lascio che parli a dirotto sfogliando il libro costellato da scarabocchi. Niente in contrario quando chiedo quesiti scritti. Arrivano e li sciolgo nella stessa forma. L’indomani canta genuflesso (26 ottobre): «Professore, grazie mille»; usciremo l’11 novembre; qualche giorno prima manderà l’intero testo affinché io lo riveda. La formula perentoria smentisce i sospetti ma il séguito rimane nella luna. L’ufficio stampa Quodlibet s’informa presso l’intervistatore: l’hanno spostata al 25 novembre; rinascono i dubbi, più gravi; e quel mattino non ne appare nemmeno l’ombra. Interpellato dall’editore, il predetto racconta un’historiette: le risposte erano nello stile dei miei articoli, quindi «non adatte» all’intervista (mai uditi argomenti simili), sicché lui e il direttore hanno deciso di non pubblicarla; in graziosa vece propongono una recensione. Il verbo “proporre” suona equivoco: l’homo in fabula accondiscenda e sarà benvoluto; altrimenti sibila la frusta recensoria. Forse erano servizi alla Leopolda, i cui adepti temono le lame affilate. Secondo questo canone, l’intervista, genus letterario, è ammissibile in quanto vi coli broda tiepida. Non interessano le opinioni cliniche sulla storia recente d’un paese afflitto da qualche tabe ereditaria.
Tali i fatti, ed ecco l’opus svanito in mano ai maestri stilisti del «Venerdì» (ogni capoverso risponde a uno o più quesiti).
Divus Berlusco regnabat. Ottant’anni gli pesano addosso, senza contare le gaffes accumulate nel quarto di secolo, ma resta temibile. Nello schieramento referendario sceglie “no”: è mossa tattica non sappiamo quanto credibile; niente lo fa supporre rassegnato alla vecchiaia quieta. L’animale biblico Leviathan nuota sott’acqua, sornione, cacciatore inesorabile: inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto. Nel caso suo è lacuna utile non avere l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali: risparmia fatica e dubbi tormentosi; operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia.
Le «larghe intese» erano l’obiettivo d’una politica quirinalesca d’impronta monarchica, tenacemente perseguìta. Sarebbe enorme la grazia pretesa dal pirata dopo «l’attentato alla democrazia» che la Corte ha perpetrato applicandogli le norme. Qualche cortigiano ventila «guerra civile» e lascia pochi dubbi la fulminea nota con cui il Quirinale manda lodi al condannato, chiedendo riforme giudiziarie.
L’attuale presidente sta agli antipodi del predecessore. Temporibus illis (giovedì 26 luglio 1990) s’era dimesso con quattro ministri quando l’impudente Andreotti poneva la fiducia sulla legge Mammì, intesa al profitto parassitario d’un Re Lanterna già padrone delle Camere, sebbene non avesse ancora identità politica.
I 101 voti tolti a Prodi nel coup de scène 19 aprile 2013 gonfiano d’euforia l’Olonese: «meno male che Giorgio c’è», canta al microfono e dal complotto notturno nasce un governo a due teste, presieduto da Letta junior, nipote del mellifluo plenipotenziario d’Arcore; il séguito sarebbe diverso se la parola contasse qualcosa nel conclave politicante.
Storia tenebrosa d’una prigionia. Il recluso era Aldo Moro, nel «carcere del popolo». L’hanno rapito le Brigate Rosse abbattendo i cinque della scorta, tamquam non esset. Al Viminale, sotto Francesco Cossiga, tiene banco la P2, ferocemente ostile al sequestrato, fautore d’una cauta apertura al PCI e presidente della Repubblica in pectore. Le messinscene poliziesche durano 55 giorni, incluso lo scandaglio d’un Lago della Duchessa. Dovevano salvarlo. Fallite le ricerche, trattino. Lo Stato non può, dicono rigoristi ignoranti del codice penale (art. 54, stato di necessità). L’introvabile scrive lettere disperatamente lucide, spiegando che delitto sia lasciarlo lì. «Non è più lui», dicono i santoni, nella cui favola il misteriosamente recluso è succubo dei terroristi; muoia com’erano morti i cinque della scorta. I brigatisti hanno l’occasione d’un colpo formidabile (lo suggeriva caritatevolmente Paolo VI), quale sarebbe restituirlo senza contropartite scatenando una crisi nel sistema, ma inviluppati in formule subintellettuali, non sanno risolversi; alla fine l’ammazzano con intuibile sollievo degli «imperialisti» contro cui declamano. Assente il cadavere, Tartufi sanguinari fingono lutto in San Giovanni. Hanno vinto, Andreotti, P2, Cossiga, il quale non cambia mestiere vergognandosi dell’inettitudine: nient’affatto, vola ad sidera; successore d’Andreotti in due governi, presiede il Senato e da Palazzo Madama sale al Quirinale; poi infesta le acque politiche, caso clinico e mina vagante. Che vita rimarrebbe al povero «irriconoscibile» se rapitori con la testa sul collo, senza disegni occulti, l’avessero liberato, guidandolo in salvo perché ormai incuteva paura agli pseudolegalisti eroi sulla pelle altrui? Vita cattiva, da homo sacer, esposto al malanimo pubblico. Eventi simili lasciano segni indelebili nel corpo sociale. L’Italia esce marchiata come paese infetto.
Che l’antiberlusconismo «non conduca da nessuna parte» e Sua Maestà d’Arcore sia idoneo al cursus honorum, era giaculatoria corrente nel Pd: Enrico Letta riteneva fattibile una «piccola legge» immunitaria che lo liberasse dalle rogne penali; Neapolitanus Rex s’era immischiato nell’invalido privilegio; e fin dalla XIII legislatura oligarchi postcomunisti garantivano Mediaset. Non s’è mai parlato sul serio del conflitto d’interessi. Enrico Letta difendeva con le unghie l’innaturale premiership costruita dal Colle sull’asse berlusconoide Pd-Pdl: l’unico possibile, salmodiavano cercatori d’ingaggio; la «ripresa» è dietro l’angolo ma svanisce se il governo cade (dopo quattro anni l’aspettiamo ancora). Reduce dal Golfo Persico, vantava 500 milioni lasciati cadere nel cappello dagli Emiri. In via Arenula custodiva i sigilli l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, cara al Colle e puntuale nel sostegno della famiglia Ligresti. Eventi esterni rompono l’immobilità verbosa.
Il fattore dirompente è l’uomo nuovo, la cui apparizione spariglia i conti: ha stravinto le primarie, infliggendo un avvilente 68% contro 18% alla vecchia guardia; la segreteria del partito era obiettivo preliminare; punta all’en plein quando siano riaperte le urne. I conoscitori lo descrivono animal politicum dalle rotte sicure: boy scout, campione d’un concorso televisivo (Canale 5), presidente della provincia, sindaco fiorentino. La mainmise sul Pd svela un cuculo rapace. Nelle immagini dagli schermi pedala bardato in bicicletta. Non incarna l’icona perfetta e volano sospetti ma i gerarchi sconfitti non offrono soluzioni raccomandabili. Ovvio che l’aborrano: è titolo a suo favore; avevano mani in pasta nelle «larghe intese». Va colpita l’immagine d’innovatore. L’offerta avvelenata è una premiership che l’abbindoli nel marasma: l’equivoca maggioranza gl’inibirebbe ogni serio tentativo; sono maestri nell’arte del tagliare teste. Napolitano spranga l’unica via negando lo scioglimento delle Camere: resti vivo l’esecutivo inerte; e loda chi lo presiede.
Lo sottovalutavano: in scena appare «veloce» (un Filippo Tommaso Marinetti senza insegna letteraria); è scaltro, insonne, famelico, ingordo, sicuro d’essere predestinato, molto pragmatico, pronto a muoversi in ogni verso. I suoi mondi mentali ignorano le ideologie. L’evanescente Letta apriva larghi spazi, ormai derelitto dal Quirinale, sicché una lieve spinta lo manda ai pesci. Agl’italiani piacciono i numeri da palcoscenico e i notabili Pd hanno poco appeal. Così ribalta le prospettive seminandosi un futuro nell’area postberlusconiana dalla quale l’adocchiano (gli elettori, non i gerarchi, spaventati dal concorrente). Nessuno lo supera come possibile erede del monarca logoro. Figura, gesti, parola, egotismi lo candidano al «partito nazionale». Saltano all’occhio due precedenti. Nella Roma medievale orfana del papa inscena mirabilia l’omonimo giovane notaio latinista, Nicola, abbreviato in Cola, figlio dell’oste Rienzi: s’è qualificato Spiritus Sancti miles, liberator Urbis, et cetera; sfoderata la spada in San Giovanni, taglia il mondo in tre fette, esclamando ogni volta «è mia» (1 agosto 1347). Ed è ancora giovane l’oratore imperioso Benito Mussolini, presidente del consiglio dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Non nominiamo Savonarola, il cui pathos tragico è assente nel fiorentino a Palazzo Chigi.
S’è identificato con l’Italia e racconta che la salus Rei publicae stia nel sì al referendum. Se il colpo gli riuscisse, sommando riforma costituzionale e Italicum o norme elettorali equivalenti avremmo in sella l’uomo che decide. Non è prospettiva consolante perché le sventure italiane dipendono da un malaffare economico nel quale l’eredità berlusconiana impedisce ogni serio intervento repressivo (vedi come lobbies industriose sabotino la raccolta delle prove).
p.s.
Sic stabant res domenica mattina 4 dicembre, quando gli uffici elettorali aprono le urne. Davano favorito l’uomo in sella: partito con un handicap, appariva irresistibile; aveva dalla sua organi influenti sull’opinione pubblica. Politici più o meno rusés scioglievano le riserve schierandosi. I conti notturni li deludono: quel referendum somigliava al gesto con cui l’omonimo notaio romano tagliava il mondo in tre fette aggiudicandosele; e lo sconfitto subisce la rovinosa percentuale che quattro anni fa aveva inflitto agli avversari nelle primarie. Stavolta è fallita l’ipnosi, ricorrente nella storia italiana. Bene ma l’orizzonte resta buio, data l’eterogenea motivazione dei «no»: vi figura l’Olonese; sbocceranno «larghe intese», i cui retroscena alimentano cronico illegalismo (vedi banche svaligiate et cetera); e finché la corruzione succhi miliardi, saremo bel paese depresso. L’unica terapia pensabile è un’effettiva legalità.
L’astuzia della Costituzione
di Walter Tocci *
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Non è più tempo di scagliare le pietre; è tempo di raccogliere le pietre per consolidare ciò che è duraturo. Nell’Italia spaesata e divisa si erge la Costituzione come unica certezza. Dovremmo curarne la condivisione nel cuore e nelle menti degli italiani.
Anche compiendo gesti semplici, prendendo l’abitudine magari di aprire qualsiasi nostra assemblea leggendo un articolo della Carta. Nei dibattiti leggevo l’articolo 36, secondo il quale la retribuzione del lavoratore dovrebbe essere "sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa". Cento milioni di voucher sono in contrasto con la Costituzione! I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma un’eredità vivente e una promessa per l’avvenire. Così l’avvertono i ceti popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti non riescono più a comprenderlo, perché hanno smarrito la "competenza della vita", come la chiamava Martinazzoli.
Anche i giovani hanno votato per conservare la Carta, al di là del merito della revisione. Nelle burrasche del mare globalizzato cercano un’àncora nel capolavoro italiano del Novecento. Seguono l’esempio dei nonni per sopperire alla penuria educativa dei padri, come i millennials di Sanders.
Ci sono queste correnti profonde nel risultato referendario. Sbaglieremmo a vedere solo le correnti superficiali degli schieramenti partitici. C’è un’astuzia della Costituzione - come l’astuzia della Ragione hegeliana - che per resistere ai ripetuti assalti, di volta in volta si serve delle diverse forze che trova sul campo, della sinistra nel 2006 e della destra e ancora una parte della sinistra dieci anni dopo.
Per noi del PD sarebbe meglio valorizzare le correnti profonde piuttosto che quelle superficiali. Le seconde ci hanno diviso, mentre le prime uniscono il Si e il No nel comune impegno: attuare la Costituzione, la prima e la seconda parte. Potrei dimostrare che si possono realizzare molti obiettivi del SI con il testo vigente.
Si possono dimezzare da subito il numero e la lunghezza delle leggi, delegando e controllando la pubblica amministrazione negli adempimenti, e ottenendo un bicameralismo più rapido, efficace e trasparente. Le limitazioni ai decreti legge e le leggi a data certa sono in parte già in vigore e debbono essere solo rispettate. I poteri governativi di surroga contro la malasanità sono già previsti nel vecchio Titolo V e non sono mai stati applicati dal ministero.
La riduzione delle poltrone è stato un argomento miserabile che non poteva fondare un patto costituente, ma la riduzione dei costi della politica è da fare subito con legge ordinaria; si convochi un’assemblea straordinaria dei gruppi parlamentari e regionali del Pd per assumere precisi impegni nelle rispettive assemblee.
A mio avviso, questa legislatura doveva terminare nel 2014, approvando una buona legge elettorale, e senza avventurarsi nella revisione costituzionale. Si proseguì promettendo faville. Oggi non si può sentire “dopo di me non c’è nessuno”. I conservatori inglesi, dopo la Brexit, hanno sostituito Cameron con la signora May e hanno ripreso a governare.
Anche noi possiamo esprimere un premier autorevole tra gli attuali ministri. Non abbiamo bisogno di governi tecnici, che già hanno combinato guai in passato. Ci vuole un esecutivo a guida Pd per risolvere i problemi urgenti dell’economia, per proseguire le cose buone e la politica europea sui migranti, ma anche per correggere gli errori compiuti - ad esempio su lavoro e scuola - con uno stile di governo non rissoso, e che anzi riporti serenità in un Paese già troppo lacerato. Nel frattempo, il Parlamento può approvare la legge elettorale senza intromissioni del governo.
Andare subito alle elezioni significa dichiarare che il leader sconfitto è insostituibile. È lo stesso autolesionismo che ha portato a un plebiscito personale sul cambiamento costituzionale. Senza quel cupio dissolvi oggi ci sarebbe ancora il governo Renzi, e forse avremmo visto approvata anche la legge Boschi. Il demone della disfatta referendaria è ancora al lavoro per la sconfitta alle elezioni anticipate. Chi può fermarlo si faccia sentire in questa sala, prima che sia troppo tardi.
Invece delle elezioni bisogna anticipare il congresso in primavera. Mentre governa, il PD deve curare sé stesso. Per dieci anni abbiamo pensato solo al leader e non ci siamo mai occupati del resto: un’idea del Paese, una cultura politica per il nuovo secolo, un’organizzazione innovativa, una selezione dei dirigenti. Il PD che non abbiamo ancora conosciuto è il compito del congresso. Il primo passo è riconciliare il PD con l’Ulivo, inteso come vasto campo di cultura, etica, cittadinanza attiva e forze sociali. Per non ripetere i riti del passato la minoranza deve uscire dal guscio e la maggioranza deve riconoscere onestamente i suoi insuccessi.
Per creare un clima più sereno si dovrebbe affidare la guida del partito fino alla primavera a una personalità autorevole e stimata. Sarebbe utile per tutti un passo indietro del segretario, e aiuterebbe anche lui a prepararsi meglio al congresso.
L’ordine del giorno dell’assise è l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. L’Italia ha bisogno di moderni partiti popolari che governino con ampio consenso, non solo con il premio di maggioranza. Riformare il PD è la principale riforma istituzionale che possiamo realizzare. Non dipende dalle leggi e dai referendum, ma vive nella passione e nell’intelligenza di milioni di militanti e di elettori. Se guadagneremo la loro stima, molti torneranno a dare una mano per la vittoria.
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***Pubblico qui il testo del discorso che avevo scritto per il mio intervento alla Direzione nazionale del PD, che non mi è stato consentito di fare per dubbie ragioni di orario.
La direzione era stata convocata per oggi alle 15, ed è poi stata spostata alle 17.30 a causa degli impegni del Senato.
Destra e Sinistra
di DARIO BORSO e ELVIO FACHINELLI *
Premessa
di Dario Borso
1. Una psicanalisi della domanda invece che della risposta: questo fu in sintesi l’indirizzo che perseguì Elvio Fachinelli nella sua breve vita[1]. Quindi fondamentalmente interrogò - non solo i soggetti in analisi, e neanche solo gli individui in genere, interrogò la «realtà», quel fantasma che Jacques Lacan amava ridicolizzare e invece lui prendeva assai sul serio. Così il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana - esattamente dal 1966, appena conclusa con il decano Cesare Musatti l’analisi didattica, all’anno di morte 1989.
Di Musatti, ergo di Freud, Fachinelli adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare. E perciò dell’Italia, quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività «giornalistica» sezionò e ricompose con sapiente tempestività.
Ciò che è noto, l’elenco intendo (rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta), viene riscritto da Fachinelli per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia - piuttosto un mosaico, o più ancora un puzzle.
2. Da presto egli aveva intuito che con Freud «si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali: comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore»[2]. Per Fachinelli dunque non si trattava né di integrare il dettato freudiano ibridandolo ad altre «scienze», né di restaurarlo nella sua ortodossa purezza, bensì di aprirlo, allargarlo. E se nexologia è la scienza a venire, la ricerca di nessi fu conoscenza in fieri, per vie varie e vieppiù complesse, ma sempre animata da: curiositas, Lebensinstinkt, eros[3].
Solo assai tardi, invece, capì di essersi staccato in qualche modo da Freud, seppure per completarlo: vide cioè che, essendosi Freud perlopiù impegnato a smantellare barriere psichiche, il suo apparato teorico aveva assunto i contorni analoghi di una fortezza, idonea più a controllare che ad accogliere[4].
Lo stacco ovviamente era stato progressivo, anzi si originava da una sua forma mentis, anteriore in quanto tale a ogni «teoria». Logico perciò che a coglierla, più che i lettori o i pazienti, siano stati i promiscui nella vita: colleghi, compagni di strada e soprattutto amici. Uno lo intervistò poco prima della morte. Gli chiese dei suoi inizi con Musatti, ed ebbe per risposta:
Dopodiché fu l’amico a evocare gli inizi del loro rapporto, Milano 1974, l’anno in cui Fachinelli aveva allestito un gruppo aperto di autoformazione, salvo poi scioglierlo in fretta: «quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente “non mi divertiva più!”»[6].
Ecco, lo spettro ampio di significati impliciti nel verbo «divertire», che va dall’imprevisto al gioco, basta a classificare l’attitudine di Fachinelli verso il reale, ovvero la sua forma mentis. Così, se Freud fu maestro nel «tenere fermo al mortuum», sulla sua scia lui fu più aperto al vivum, tant’è che la realtà gli si presentò infine come regalo:
Da questo punto di vista, il détournement predicato dai situazionisti è, prima che un enunciato teorico, un tentativo di recuperare e praticare il gesto infantile del gioco. E come nelle attività di provocazione situazionista, il bambino usa le occasioni della vita quotidiana, più che il mondo dei giocattoli a lui espressamente destinato dagli adulti. Cos’è mai il telefonino gracchiante di plastica rispetto al telefono in persona, misterioso organo tubante che secondo ogni verosimiglianza contiene in sé tante persone, delle quali lascia uscire soltanto la voce? Se guardiamo senza paraocchi i bambini più piccoli, meno addomesticati, li vedremo accorrere, nonostante i divieti, verso gli infiniti tasti bottoni pulsanti da premere, chiavi e chiavette da girare, rubinetti da aprire e chiudere, verso gli innumerevoli comandi che da vicino o da lontano spargono luci e suoni in ogni punto della nostra vita quotidiana. Mentre ci affanniamo a costruire per loro un universo fittizio, facsimile ridotto e talora grottesco, sempre insufficiente, del nostro mondo, e questo mondo ci appare difficile, inquinato ed esplosivo, i bambini aprono gli occhi sul più meraviglioso Paese dei Balocchi che si sia mai visto[7].
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Destra e Sinistra [i]
di ELVIO FACHINELLI
Mi sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.
Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simbolici si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È questa «assonanza», questo aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto notare a Enrico Berlinguer. Ma non si tratta di assonanza, o di affinità etimologica; si tratta di correlazione simbolica - e il simbolico è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta dichiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distinguere[ii].
Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nella piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testimoniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’ambito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quando non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...
Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia simbolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un centinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del Capitale c’era il Marx che aveva parlato del «comunismo dell’invidia»[iii] - e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’attacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo? Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei loro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante.
Ciò che questo popolo si proponeva risulta chiaro: era la tramutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza doveva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femminile davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e finezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al posto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.
Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi davanti a una situazione di grave scacco, risulta mi pare evidente a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne offre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la polarità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di tensione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizzazione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione dell’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nell’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra[iv]...
Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dunque attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita dell’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di questa situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha contraddistinto in Italia l’azione delle forze politiche di sinistra negli ultimi anni.
Se usciamo dall’ambito della politica in senso stretto, ci accorgiamo di come lo scacco nel simbolico si manifesti essenzialmente come un regime di sdoppiamento nei rapporti sociali, interpersonali e, di sicuro, anche intrapersonali: mentre in profondo si fa avanti la simbolica tradizionale della destra, in superficie prevale un luogo comune di sinistra, talmente esteso da ricoprire settori tradizionalmente estranei se non ostili alla problematica della sinistra.
Potrei moltiplicare gli esempi, ma per non superare i limiti di un intervento concludo in tre punti, che mi sembrano essenziali:
1. Come operazione preliminare di ogni compito intellettuale significativo, propongo il non uso, esplicito e implicito, della polarità sinistra-destra. Attenzione! Non ne propongo l’abolizione, sarebbe assurdo, trattandosi appunto di una polarità nel simbolico. Ne propongo il non uso, perché ciò che si è svolto nell’ambito della sinistra si è disegnato quasi per intero dentro un negativo, un disvalore complessivo disegnato dalla destra e, entro questi limiti, si è concluso con uno scacco. L’impiego attuale è puramente locativo, detemporalizzato e quindi profondamente paralizzante.
2. In via del tutto provvisoria, propongo l’uso implicito e il privilegio, in ogni valutazione intellettuale, di qualcosa che si potrebbe chiamare creatività-generatività, contrapposta a non creatività e a non generatività. Sarà facile notare come il valore simbolico della creatività-generatività sia fondamentalmente estraneo alla coppia sinistra-destra, che è dominata dall’elemento della potenza virile e dalle varie opposizioni a essa. La creatività-generatività esorbita da quest’ambito e si pone come criterio valutativo di esso. Inoltre, e soprattutto, essa costituisce uno spostamento nel campo simbolico: parlo di spostamento, e non intendo una creazione velleitaria di uno o pochi individui, perché questa coppia simbolica è già o è già stata attiva in masse storiche recenti.
3. Per una riflessione intellettuale e non, propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e figura, hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele-infedele, credente-non credente nell’ambito religioso; oppure alla dicotomia razza eletta-razza reietta nel successo della propaganda hitleriana. Ed è caratteristico di queste polarità il loro spostarsi spesso, con sempre maggiore intensità e crudezza, ad ambiti via via più ristretti e selezionati. Ci basti qui pensare alle scissioni che hanno successivamente segmentato tutto l’ambito della sinistra politica. Ma tale tipo di polarizzazione non risparmia nessun campo culturale se è vero, come sosteneva Freud, che si potrebbero avere guerre in nome della scienza[v]. Vi è qui un ambito di ricerche che può estendersi dalla scissione detta schizoparanoide nel bambino che succhia il latte, secondo le ipotesi di Melanie Klein[vi], fino al manicheismo adulto, sicuro di sé e in apparenza correttamente razionale.
NOTE
[1] Cfr. E. Fachinelli, Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?, In «Quaderni piacentini», aprile 1970 (subito tradotto in francese su «Topique»).
[2] Continua: «Di essa, la psicanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare», E. Fachinelli, Il deserto e le fortezze (parte II), in «L’erba voglio», aprile 1972, poi ripreso col titolo Il paradosso delle ripetizione in Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.
[3] Nell’accezione anche hegeliana («Vita è la connessione della connessione e della non-connessione») che da un punto di vista culturale Fachinelli integrò col concetto kierkegaardiano di Gjentagelse (cfr. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, Guerini, Milano 1991).
[4] Il riferimento qui è a E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.
[5] Pubblicata postuma da Sergio Benvenuto col titolo Sull’impossibile formazione degli analisti in Aa.Vv., La bottega dell’anima, a cura di S. Benvenuto e O. Nicolaus, F. Angeli, Milano 1990.
[6] S. Benvenuto, La «gioia eccessiva» di Elvio Fachinelli, in E. Fachinelli, Intorno al ’68, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Massari, Bolsena 1998.
[7] E. Fachinelli, Un regalo? La realtà, su «L’Espresso» del 16 dicembre 1984. [i] «Lotta continua», 27 ottobre 1981. Comunicazione presentata al convegno Il concetto di sinistra, Roma, 20-22 ottobre 1981. (Poi in Aa.Vv., Il concetto di sinistra, Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24.)
[ii] La visita all’Avana del segretario nazionale del PCI si svolse a inizio ottobre 1981.
[iii] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 104: «L’idea di ogni proprietà privata come tale è rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono l’essenza della concorrenza.Il comunista rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento».
[iv] Qui Fachinelli fa il verso a Rose is a rose is a rose is a rose di Gertrude Stein.
[v] Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere, cit., VIII.
[vi] Cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine (1957), Martinelli, Firenze 1969.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
L’analisi del filosofo Axel Honneth sul principio cardine della modernità
La libertà nei destini incrociati di “Io” e “Noi”
Una teoria innovativa che supera le tesi opposte di Hobbes e di Kant
L’autodeterminazione non può essere definita in modo negativo (ciò che “non” ostacola il mio agire) ma si sviluppa in una dimensione sociale e istituzionale
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 26.11.2015)
“Il diritto della libertà” di Axel Honneth tratta un tema mai esaurito o esauribile una volta per tutte. La prospettiva è la libertà sociale, formula nella quale l’aggettivo esprime in sintesi l’idea capitale attorno alla quale ruotano le quasi seicento pagine che si offrono oggi al pubblico di lingua italiana. La materia - filosofica, giuridica, sociologica - trattata è grande ma la struttura della trattazione è assai semplice. La si può dividere in due parti: “l’io della libertà”, la prima; “il noi della libertà”, la seconda.
L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà. Nel titolo di un suo libro del 2010, Axel Honneth aveva usato, per esprimere in sintesi questo doppio lato della libertà, la formula Das Ich im Wir: un’espressione che già a prima vista si distingue dalle tante teorizzazioni del rapporto di riconoscimento dell’Io a fronte del Tu. La formula, come vedremo, potrebbe essere rovesciata in Das Wir im Ich. Sciogliendo questi motti, si può dire così: l’asse portante è che la libertà singolare non può esistere se non in connessione con la libertà plurale e che, viceversa, la libertà plurale non può dividersi da quella singolare.
Dire connessione, però, è dire troppo poco. Bisogna dire, piuttosto, intrinseco rapporto di mutua penetrazione e fecondazione, in un equilibrio difficile. La preponderanza dell’aspetto soggettivo condurrebbe, infatti, a una concezione individualistica della libertà, che Honneth respinge, così come la preponderanza dell’aspetto oggettivo, nei termini hegeliani dello “spirito oggettivo”, cioè della realtà sociale storicamente determinata, condurrebbe a una sorta di olismo, ch’egli ugualmente respinge, pur ponendosi dichiaratamente, sia pure criticamente, entro un’interpretazione della Filosofia del diritto di Hegel.
Tra la prima e la seconda parte del libro - dedicate, rispettivamente, alla trattazione di concetti e alla loro verifica storico- empirica - sono collocate - sotto il titolo La possibilità della libertà - due sezioni che costituiscono, per così dire, un “a parte” e potrebbero stare in piedi anche autonomamente. Sono dedicate al Daseingrund (termine qui tradotto con “ragion d’essere”, dove l’essere è piuttosto un “esserci”, cioè non un’astrazione ma una collocazione storico- concreta) della libertà giuridica e della libertà morale. Si tratta, per così dire, di due moniti contro l’estremizzazione: il giuridicismo e il moralismo, due fonti di pericolo per la convivenza sociale.
Questi due capitoli rappresentano la cerniera tra la prima parte, d’impostazione filosofica, e la seconda parte d’impostazione sociologica. In queste due parti si traduce la doppia faccia di un libro che, partendo dalle definizioni, giunge all’immersione nelle condizioni delle società in cui viviamo e nelle contraddizioni da cui sono segnate, rispetto alla libertà.
La parte filosofica contiene principi normativi: dai concetti, si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive teoriche; la parte pratica contiene verifiche circa le potenzialità e le difficoltà d’inveramento della libertà nelle strutture sociali del nostro tempo. Non, però, come separazione e contrapposizione astratte tra dover essere ed essere, ma come ricerca delle condizioni pratiche di vita di società libere: una ricerca dalle conclusioni piuttosto sconfortanti.
La libertà non è districabile dalla giustizia. Giustizia, nel nostro tempo (la “modernità”), equivale a garanzia di autodeterminazione. Nel nostro tempo: date le premesse assunte, che l’Autore definisce non-kantiane, la giustizia non appartiene al puro ideale, alle formule evanescenti come quella che la identifica con la generalizzabilità delle “massime” delle proprie azioni, ma è un dato storico-sociale.
La giustizia come autodeterminazione è lontanissima da quella che tale si considerava nell’antichità, obbiettiva, organica, sovra-individuale, obbligante. La giustizia, per noi, al contrario è “liberatrice”, ma con un vincolo: la “riproducibilità sociale”. Questo concetto, che rappresenta il cavallo di battaglia della sociologia, è assunto qui come qualcosa di simile a un imperativo categorico. L’autonomia che la compromette non è giustizia, ma corruzione della giustizia.(...) Il primo stadio della libertà è quello negativo, l’assenza di costrizioni esterne. La più semplice, elementare e intuitiva definizione è l’assenza di impedimenti. È la definizione di Thomas Hobbes, risalente al tempo della guerra civile di religione: «Libero è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha volontà di fare». (...)
Non ci si può fermare qui. Essere liberi nel corpo e nelle azioni, ma schiavi delle proprie passioni irrazionali e dei propri errori, è ancora libertà? Questa è la domanda di Rousseau, che pone la libertà nell’obbedienza alla legge che ogni singolo dà davvero a se stesso, cioè nell’autonomia. Questo principio sta alla base tanto della libertà del singolo quanto della libertà della società tutta intera. Come la libertà negativa implica la ripulsa delle costrizioni fisiche, così la libertà come autodeterminazione - che l’autore del libro chiama «riflessiva » - esige la purificazione dalle costrizioni morali che inquinano la retta (cioè non perturbata da vizi, passioni, errori) formazione della coscienza. Si tratta, dunque, della sovranità morale rispetto alle pressioni dell’“ambiente” che, con i suoi pregiudizi, le sue lusinghe, le sue seduzioni, i suoi inganni altera la percezione del sé e, alla fine, svuota la libertà del suo contenuto d’autonomia e lo riempie di forze psichiche eteronome. (...)
La libertà «sociale» di cui Honneth tratta non è un’alternativa rispetto alle altre due concezioni della libertà. È piuttosto il prolungamento, o l’implicazione necessaria, della libertà riflessiva, così come quest’ultima è lo sviluppo della libertà negativa.
A essere prese in considerazione sono le condizioni istituzionali della libertà, intese non come aggiunte esteriori, ma come necessità intrinseche al suo concetto. Su questo punto si insiste particolarmente, allo scopo - anche - di prendere le distanze, differenziandosene, dalle concezioni della democrazia discorsive nelle quali l’aspetto istituzionale, secondo l’Autore, è concepito come condizione esteriore della libertà.
È l’occasione, per Honneth, per prendere qualche distanza da Habermas, il suo predecessore alla direzione dell’Institut francofortese per la ricerca sociale. La teoria del discorso di Habermas, in quanto teoria, rimarrebbe, secondo Honneth, in una sfera di astrattezza; l’intersoggettività, che ne è il nucleo essenziale, restererebbe confinato in un a priori incapace di tradursi in idea politico- sociale concreta, alias “istituzionale”, di libertà. In altri termini, le istituzioni sarebbero il governo esteriore arbitrale del gioco degli intenti in campo, e l’obiettivo di formulare un’idea di libertà tale da incorporare la dimensione relazionale, intersoggettiva e quindi sociale, sarebbe mancato. (...)
Non c’è bisogno di richiamare la letteratura sociologica e psicologica che mette in luce il lato repressivo delle istituzioni e di ogni “istituzionalizzazione” dei comportamenti individuali e collettivi. La libertà consisterebbe, secondo questo punto di vista, nella de-istituzionalizzazione o, comunque, nell’assenza di predeterminazioni istituzionalizzate.
Il contrario della visione di Honneth, il quale pone precisamente nell’istituzione la possibilità di libertà. Le istituzioni non sono sorte, necessariamente, per reprimere, ma anche per promuovere la libertà: la libertà concreta, realistica, non velleitaria o puramente agitatoria. L’esercizio della libertà che non riesce a farsi istituzione”, secondo questa visione sociale della libertà, è sterile. (...)
Nelle prime pagine di questo libro si spiega come la libertà sia il tratto caratteristico della modernità, lo shibolet per poter prendere parte al discorso politico moderno. Ma proprio questo libro rafforza la comune consapevolezza della plurivocità della parola, dell’esistenza di numerose concezioni del concetto; il lettore è come condotto per mano, sempre in nome della libertà, anzi della libertà al suo più alto grado, a salire fino a un colmo che sta sul crinale dell’ambiguità: l’ambiguità che connota il concetto di istituzione e, così, anche la immedesimazione istituzionalizzata della libertà degli uni nella libertà di tutti: l’eterno problema dell’equilibrio tra gli uni e i tutti.
“Bioteologia” la scommessa che riavvicina Dio e Natura
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 13 novembre 2015)
Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali.
La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.
La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio.
La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.
Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.
Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia.
E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007).
Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.
Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura.
Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.
Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano spiegare l’esistenza di strutture complesse - fossero il mondo, la mente o il linguaggio - se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente.
Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.
Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza - tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta - solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abba- stanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920).
Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.
La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste.
Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».
Biologia.
In teoria la selezione naturale dovrebbe privilegiare gli egoisti. Non è così
L’altruismo (ma non troppo) fa bene
La solidarietà ha favorito l’evoluzione
Gli eccessi però rendono integralisti
di Telmo Pievani (Corriere della Sera - La Lettura, 14.06.2015)
Il rompicapo dell’altruismo angustiava già Charles Darwin. La selezione naturale, infatti, favorisce tratti che portano un individuo a sopravvivere e a riprodursi meglio dei suoi simili. Siamo di fronte a un processo individualistico e non preveggente: la variazione vantaggiosa deve premiare il singolo individuo nel corso della sua vita ed essere trasmissibile alla generazione successiva. Eppure Darwin, da buon osservatore, si accorse che la natura trabocca di comportamenti altruistici, di animali che sacrificano la loro vita (come l’ape che si suicida emettendo il pungiglione) e di milioni di individui (come le operaie e le soldatesse sterili in api, vespe e formiche) che addirittura rinunciano a riprodursi per servire la loro comunità. Un altruista non dovrebbe già essere estinto? Come si spiega il successo evolutivo di tutti quei gesti che aumentano le probabilità di sopravvivenza e riproduzione degli altri a scapito di quelle dell’altruista?
Il naturalista inglese abbozzò un’ipotesi esplicativa. In alcuni casi l’individuo preferisce cooperare con gli altri perché in questo modo il suo gruppo diventa più forte e coeso, vincendo la competizione con altri gruppi. Il singolo rinuncia ai propri interessi a favore del gruppo, che in cambio lo proteggerà insieme ai suoi parenti e ai suoi figli. L’idea è ingegnosa, ma si espone a un altro rompicapo non meno insidioso: se in un gruppo di cooperatori compare un egoista che inizia a fare gli affari propri, costui godrà di un doppio vantaggio darwiniano perché difende egoisticamente se stesso e al contempo beneficia dei comportamenti altruistici di chi lo circonda (un ottimo esempio è l’evasore fiscale). Si tratta del noto argomento del free rider, il battitore libero che dovrebbe sempre ribaltare la situazione e sbaragliare i cooperatori, disgregando qualsiasi gruppo di altruisti. Come mai, invece, in natura la cooperazione di gruppo vince così spesso sull’egoismo individuale e i free rider restano tutto sommato (fatta eccezione per gli evasori fiscali in alcuni Paesi) una piccola minoranza sotto controllo?
Evidentemente esiste qualche meccanismo che impedisce la sovversione interna da parte del free rider e fa prevalere l’altruismo. Alcuni grandi evoluzionisti del secolo scorso, come William Hamilton, pensarono di averlo trovato al livello della trasmissione dei geni. Nel gruppo, infatti, è probabile che vivano anche i nostri parenti stretti: fratelli e sorelle, figli, cugini, ognuno dei quali condivide con noi una certa percentuale degli stessi geni. Ciò significa che, se io sono altruista verso il mio gruppo, sacrifico sì i geni di cui sono portatore diretto, ma favorisco la sopravvivenza e la riproduzione di chi porta con sé una parte dei miei stessi geni. In altri termini: puoi anche rinunciare a trasmettere i tuoi geni se così facendo garantisci il successo di due o più fratelli, di quattro figli o di otto cugini. Si chiama «selezione di parentela» e sul piano strettamente darwiniano funziona.
Se questa è la chiave di lettura, significa che l’altruismo - termine coniato nel 1851 dal sociologo Auguste Comte e posto al centro della sua positivistica «religione dell’umanità» - in realtà non esiste. È soltanto una forma indiretta di egoismo genetico e in natura l’individuo risponde comunque e sempre ai propri interessi particolari. Non tutti gli evoluzionisti condividono però questa visione cruda. Molte ricerche mostrano che l’altruismo si manifesta spesso in gruppi in cui le probabilità di favorire un proprio parente stretto sono basse. Lo troviamo anche in situazioni in cui l’individuo agisce da altruista senza aspettarsi una ricompensa, cioè un atto reciproco di restituzione del favore. Essere altruisti conferisce autorevolezza sociale e reputazione. I battitori liberi, al contrario, vengono sanzionati. Qualcosa di nascosto nella logica stessa del gruppo, e non soltanto l’egoismo genetico, spiega l’evoluzione dell’altruismo.
Questa è la tesi del biologo statunitense della Binghamton University, David Sloan Wilson, esposta nel libro L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri (Bollati Boringhieri). Tutto nasce da un calcolo matematico. Se una popolazione biologica è uniforme e ognuno gioca per sé, allora prevale l’egoismo individuale. Se invece una popolazione è divisa in gruppi che competono fra loro, può avvenire un fenomeno particolare: di generazione in generazione, all’interno di ciascun gruppo, gli egoisti tenderanno a prevalere (secondo il principio del free rider), ma un gruppo pieno di cooperatori avrà successo sugli altri gruppi e crescerà di dimensioni, facendo aumentare quindi anche il numero dei cooperatori. Mettendo sulla bilancia egoisti e altruisti, alla fine i secondi saranno di più, nonostante la continua minaccia dei battitori liberi all’interno di ciascun gruppo.
Il segreto sta in un continuo bilanciamento fra la selezione a livello individuale all’interno dei gruppi (che favorisce gli egoisti) e la selezione fra gruppi, che premia la cooperazione. La selezione opera quindi a più livelli. Quando prevale la forza del gruppo, come nelle specie sociali quali la nostra, l’altruismo diventa una strategia vincente. I gruppi, diversi uno dall’altro per numero di egoisti e altruisti, competono fra loro e la cooperazione si diffonde.
L’altruismo quindi non è un esito accidentale dell’evoluzione. Il lavoro di squadra rappresenta l’adattamento distintivo della nostra specie, il che mostra peraltro quanto sia fuorviante la metafora della «sopravvivenza del più forte» (del tutto assente nell’ Origine delle specie di Darwin). In natura l’adattamento è sempre relativo a un contesto di relazioni: qualche volta sopravvive il più abile, il più flessibile, talvolta il più forte, talaltra il più opportunista, il più fortunato, e spesso il più altruista. Se visto nel contesto del singolo gruppo, l’altruismo è costoso, ma se alziamo lo sguardo alle dinamiche fra più gruppi che competono fra loro diventa molto remunerativo. In sintesi: all’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo, ma i gruppi altruisti battono i gruppi egoisti. Darwin, tutto sommato, c’era andato vicino.
Si può essere altruisti per le motivazioni più diverse (alcune delle quali, peraltro, egoistiche), ma ciò che conta secondo Wilson non sono le ragioni o i sentimenti che portano all’altruismo, bensì le azioni stesse che favoriscono gli altri. È il loro successo evolutivo antico che dobbiamo spiegare, tanto nell’evoluzione biologica quanto in quella culturale umana. Quando i componenti di un gruppo coeso e ben organizzato coordinano in modo funzionale le loro attività in vista di uno scopo comune, diventano più potenti di qualsiasi individuo (e anche più efficienti nel gestire i beni comuni, secondo le teorie di Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009). Altruismo significa dunque diventare parte di qualcosa di più grande.
L’agile introduzione di Wilson a questi temi propone anche un’educazione sociale all’altruismo nella scuola e nella vita, sperimentata nei quartieri di Binghamton. L’obiettivo è favorire ambienti sociali che permettano all’altruismo di imporsi in un mondo competitivo. Non manca un duro attacco ai «fondamentalisti del mercato» e a coloro che considerano egoismo e avidità come spinte propulsive dell’economia.
Il libro è un inno alla potenza dei gruppi organizzati, ritenuti persino capaci di esibire un’«intelligenza collettiva», concetto controverso in campo scientifico. Talvolta l’associarsi in gruppo ha un tale successo da trasformarsi in un tutt’uno, cioè in un «super organismo» che si comporta come se fosse un singolo anche se in realtà è composto da milioni di individui. La selezione egoistica all’interno del gruppo in questi casi recede (ma non scompare mai, come nel caso delle cellule tumorali che proliferano a scapito dell’organismo a cui appartengono) e così emerge un nuovo livello di cooperazione. Le società umane, secondo l’ottimistica visione di Wilson, rappresentano un nuovo stadio dell’evoluzione e devono ora avviarsi verso un «altruismo planetario» che consideri come suo obiettivo il benessere di tutto il mondo.
Forse non tutti però gradirebbero far parte di una società alveare su larga scala, o di un super organismo policentrico come quello prefigurato dall’autore. I gruppi umani (cementati secondo Wilson da una selezione culturale di gruppo, in cui le religioni hanno svolto un ruolo cruciale di collante) presentano anche patologie ed eccessi, come il tribalismo, il conformismo sociale e l’integralismo. Un altruista troppo zelante e mal indirizzato può fare disastri. Benché Wilson non ne parli, è una diretta conseguenza della sua teoria: la cooperazione che ha reso così forti i nostri gruppi non sarebbe stata possibile senza il conflitto tra i gruppi stessi.
L’altruismo è una strategia vincente per il nostro «noi» (il gruppo dei nostri simili), ma trova in chi è «altro da noi» il suo potenziale nemico. La specie umana sarebbe cioè socialmente ambivalente: cooperazione e aggressività nascono da una matrice comune, ovvero la nostra evoluzione in piccoli gruppi in competizione. Così il conflitto, paradossalmente, potrebbe aver nutrito il nostro altruismo. L’impressione è che solo una lunga evoluzione culturale e sociale potrà liberarci da questo retaggio ambiguo e insegnarci a considerare come nostro gruppo di appartenenza l’intera specie umana.
Altruisti sì, senza esagerare
Il rischio è diventare talebani
Dai geni alle tribù: le ultime scoperte sulla selezione di gruppo
di Maurilio Orbecchi (La Stampa TuttoScienze, 15.07.2015)
«Gli egoisti prevalgono all’interno di gruppi isolati, ma i gruppi che hanno altruisti al loro interno hanno la meglio su quelli nei quali prevalgono gli egoisti. Per questo motivo gli altruisti, in una specie sociale come la nostra, sono tenuti in grande considerazione. Così gli altruisti, nel corso dell’evoluzione, hanno ottenuto molti vantaggi, tra cui l’accesso alla riproduzione, diffondendo ulteriormente l’altruismo». Chi parla, dal suo studio nella Binghamton University dello Stato di New York, è David Sloan Wilson, uno dei più importanti sostenitori della selezione multilivello.
Negli ultimi 150 anni si è molto discusso su quale fosse l’«oggetto» colpito dalla selezione naturale: se il gene, come sostenevano William Hamilton, Richard Dawkins e altri teorici del «gene egoista», oppure gli organismi, i gruppi o persino le specie intere. Ma ora sembra superata la posizione estrema del gene (egoista) come unica unità di selezione. In occasione del 30° anniversario della pubblicazione de «Il gene egoista» lo stesso Dawkins ha infatti aggiustato il tiro, facendo una parziale autocritica e parlando di «gene cooperativo», più che egoista, e di selezione che, quindi, si svolge su due oggetti contemporaneamente: oltre che sul gene, anche sull’organismo nel suo complesso.
David Sloan Wilson, insieme con molti altri evoluzionisti, tra cui il famoso e omonimo entomologo Edward O. Wilson, allargano ancora di più questa visione pluralista, sostenendo che la selezione naturale darwiniana agisce su tutti i livelli di organizzazione della vita biologica e culturale: sui geni e sugli organismi, ma anche su cellule, popolazioni e specie. In particolare è la competizione tra gruppi di individui che spiega l’altruismo, scrive Wilson nel suo «L’altruismo: la cultura, la genetica e il benessere degli altri», appena uscito per Bollati Boringhieri.
Wilson sa bene che in un animale complesso come l’Homo sapiens possono essere presenti motivazioni differenti e che ciò che appare altruistico a livello di azione può invece essere egoistico a livello di pensiero (per esempio per ottenere la salvezza dell’anima o per fissare il proprio ricordo nel mondo terreno). Proprio per non incorrere in simili contestazioni, sceglie quindi di limitare il suo discorso all’altruismo come azione, che è poi l’unica forma di altruismo che davvero interessa agli altri. In questo senso il massimo altruismo è quello che limita la propria probabilità di sopravvivenza per favorire quella di altri. Tuttavia, senza arrivare a questo estremo, «esiste comunque un altruismo cooperativo piuttosto riconoscibile e condivisibile: io mi riferisco a questo - dice Wilson -. Per una persona che ha bisogno di soldi, l’importante è che questi arrivino. Non importa se sono donati per salvarsi l’anima, per diventare famoso come benefattore o per un senso di dovere morale».
Naturalmente anche gli evoluzionisti che non ammettono la selezione multilivello sono consapevoli della presenza di azioni altruistiche nella vita sociale. Esistono infatti altre due teorie per spiegare il fenomeno dell’altruismo in natura: la selezione parentale, ossia il riconoscimento inconsapevole della presenza dei propri geni nei parenti stretti, che sarebbe alla base dell’accudimento della prole (e della sua degenerazione nel nepotismo), e l’altruismo reciproco, una teoria che interpreta le azioni altruistiche come un gioco di crediti che ci si aspetta saranno ricambiati in un secondo tempo.
Wilson ammette entrambe le teorie, ma ritiene che, da sole, queste non siano sufficienti a spiegare la diffusione di forme importanti di altruismo: «Non penso che l’azione di una persona che fa da scudo ad amici o sconosciuti a prezzo della propria vita possa essere spiegata con l’altruismo reciproco e neppure con l’altruismo di parentela. È necessario usare linguaggi diversi per cose diverse. Un unico linguaggio non è sufficiente per descrivere la complessità del mondo».
La teoria della selezione di gruppo, tuttavia, non spiega solo la nascita dell’altruismo, ma anche i conflitti sociali che esistono nella specie umana dall’inizio della storia. Nel corso dell’evoluzione si è passati da una guerra endemica tra tribù, formate da poche decine di persone, a conflitti sociali di ampia portata. Uno dei motivi dell’allargamento dei conflitti sta nel fatto che, nel tempo e grazie ai mezzi di comunicazione, l’identità di gruppo si è estesa a nazioni composte da decine o centinaia di milioni di persone. Se la teoria della selezione di gruppo è vera, non possiamo che aspettarci altre guerre, che tenderanno a scomparire solo quando l’identità di gruppo sarà estesa a tutta l’umanità. Si tratta di un processo in corso, la cui soluzione positiva non è scontata, ma neppure impossibile.
La lectio al Salone del libro di Torino
L’oscura forza della parola fra dogmi e dissenso
di Franco Cordero (la Repubblica, 15.05.2015)
I GRECI disponevano d’un magnifico strumentario lessicale, sintattico, stilistico. Dio sa quanta fatica vi abbiano speso, rileva Nietzsche: la semplicità satura e limpida, rara nello scambio linguistico, è eroicamente artificiale; in natura la parola esce confusa, sconnessa, ridondante, oscura (...). I verbi oráo, e idon, oida descrivono effetti visivi: e idos è la cosa vista; siamo nel mondo delle forme, ma alla visione intellettuale ostano barriere emotive, oblio, sonno amniotico.
E poi postulati rassicuranti, comodi automatismi, ogniqualvolta l’argomento sia insopportabile, cominciando dalla condanna biologica sotto cui ogni animale viene al mondo. Nel frammento d’Anassimandro (sesto secolo ante Christum) il mondo terrestre è flusso perpetuo: gl’individui escono dalla matrice e vi tornano; individuandosi commettevano adikía, un sopruso punito dal deperimento letale, sicché ogni esistente nasce bacato. Sotto, pulsa una materia viva smisurata, ápeiron, da cui emergono in strutture varianti gli scenari mondani per riaffondarvi: eravamo pesci; e niente assicura un futuro all’homo sapiens; forse ominidi microcefali serviranno sotto squali, corvi, topi. Non l’ha detto ma è arguibile.
Sappiamo come nasca la tragedia: Prometeo o Edipo impersonano Dioniso dilaniato dai Titani, allegoria d’una scissione nella materia primitiva. La sapienza dionisiaca cerca riflussi all’indistinto. Il coro danza, suona, canta, scatenando tempeste emotive: gli attori recitano trame, uno, poi due, infine tre (il quarto rimane muto); e l’arte apollinea fissa l’evento. Euripide addomestica la musica in melodramma: finissimo critico, psicologo, dialettico, narratore, porta gli spettatori sulla scena (un Flaubert più abile nel dipanare storie); istruisce il coro, regista ante litteram.
Nei prologhi un deus ex machina rievoca l’antefatto e talora interviene con effetti risolutivi (ad esempio, Atena nell’ Ifigenia in Tauride ). L’artista vela la realtà. Lo sguardo analitico opera disvelamenti senza venirne a capo, illuso d’averla afferrata e addirittura corretta. Desta sgomento l’Io profondo. Non esiste tormento più spietato dell’insonnia «tête-àtête avec soi-même», dove non valgono consolazioni diurne (Emile Cioran, gnostico disfattista: Exercises d’admiration, Oeuvres, « Pléiade», 2011, 1234s.); e qui fa testo Pascal. È impresa temeraria l’abisso introspettivo (...). La Morte e il Diavolo accompagnano gli uomini, la cui futile difesa consiste nel fingere che non esistano. Lo spirito dionisiaco soffia nell’impassibile Cavaliere inciso da Albrecht Dürer. Insomma, il pensiero ha motivi inibitori endogeni. Arte, conforto intellettuale, divertimenti forniscono un malinconico placebo al male d’esistere.
L’imposizione dogmatica è prassi diffusa in ambiente ecclesiastico, teista o ateo, qual era il Partito comunista (...). Richard Simon e Alfred Loisy, biblisti in chiave critica, escono quasi incolumi, ma dove l’ ecclesia sia abbastanza forte, l’affare diventa grave. L’aragonese Miguel Serveto a vent’anni confutava le sciarade teologali, De Trinitatis erroribus libri septem, e nel quinto descrive la circolazione del sangue precedendo d’un secolo William Harvey. In Francia professa l’arte medica. En passant sfida Calvino al contraddittorio pubblico: se viene, è uomo morto, sibila lo sfidato; esiste l’orribile lettera a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546. Sette anni dopo, pubblica a spese sue, più 100 scudi, Christianismi restitutio in 800 copie, e l’avversario complotta un perfido intrigo epistolare presso l’inquisitore cattolico. Evaso dalla prigione, Serveto gli cade sotto le unghie. Aveva il rogo nei cromosomi. L’unico dubbio è se meriti una pena capitale addolcita (taglio della testa): a maggioranza, il consiglio ginevrino gliela nega; e venerdì 27 ottobre 1553 lo bruciano vivo.
È sanguinario l’ homo ecclesiasticus. Da Berna, Zurigo, Sciaffusa, autorità religiose chiedevano una condanna esemplare. Esulta Melantone, delicato umanista luterano: era iudicium Dei ; Gesù Cristo incorona il vincitore; grazie a nome della Chiesa presente e futura. Tre secoli dopo, Benedetto Croce narra che fosse in pericolo il futuro della libertà, insidiato dall’anarchia intellettuale, e Calvino l’abbia difeso ( Vite d’avventure, di fede e di passione , Laterza, 1953, terza ed., 217-20). Così declamano gli ecclesiarchi, siano Roberto Bellarmino S. J. o György Lukács, cardinali nelle rispettive chiese, come Andrey _ danov, Palmiro Togliatti, Alfredo Ottaviani et ceteri . Che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è dialettica da Politburo. Cappellani stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l’Urss da Hitler. Gli avvocati del diavolo hanno l’argomento facile. Stavolta appare tale anche Benedetto Croce: dogmi, spie, polizie segrete, censure, anatemi, patiboli non allevano culture né industria o commerci, tanto meno «pensiero libero» o «etica moderna»; altrettanto indecorosa suona l’apologia dell’Inquisizione, «veramente santa» quale forma storica d’una salutare pressione sui «manipolatori d’errori» ( Filosofia della pratica, Laterza, 1963, ottava ed., 240s.).
Salvano l’onore umano i dissidenti. Mani anonime (Sebastiano Castellione, Celio Se- condo Curione, Lelio Sozzini) compilano una summa delle opinioni liberali in materia d’idee, dai Padri agli autori contemporanei ( De haereticis an sint persequendi , per Georgium Rausch, Magdeburgi, sotto lo pseudonimo Martinus Bellius, primavera 1554).
Meglio vivere nascosto in Italia che sotto la polizia calvinista, esclama Camillo Renato in un carme latino. È Matteo Gribaldi Mopha l’«Italus iurisconsultus celeber» evocato da Castellione nel Contra libellum Calvini: disputava in duro e rischioso dissenso dai persecutori nei giorni del processo; aveva cattedra a Padova. Due anni dopo se ne va, «ob monachorum insidias»: lo chiama Tubinga ma ormai è vita impossibile; subirà l’ultimo sfratto dal cattolico Francesco Guisa, Governatore del Delfinato nella cui Università insegnava ius civile, in guerra con i praticoni. Gli antitrinitari italiani lasciano un’eredità gloriosa. Spicca la componente piemontese: Gribaldi nasce a Chieri; Curione a Ciriè; Giorgio Biandrata, insigne medico, viene da Saluzzo. (...).
I dogmi inducono atrofia logica. La censura espelle idee confiscando le parole con cui pensarle, ma non impedisce i rumori vocali, anzi li moltiplica fornendo una lingua automatica, i cui utenti differiscono solo nel gesto, dal bisbiglio all’ululato: fosse autentica, la verità ufficiale s’imporrebbe da sola; invece le formule suonano tanto più perentorie quanto meno dicono. I programmi regolano un sonnambulismo diurno dove ogni cosa muta secondo decreti dall’alto; e magari tra le verità imposte c’è che il relativismo sia vizio imperdonabile.
Gli assuefatti bevono tutto, anche 2+2=5, né basta dirlo; devono esserne convinti (càpita a Winston Smith in Nineteen eightyfour). L’effetto selettivo tocca i cromosomi a livelli profondi, oltre le consuete categorie sociali, quali politica o religione. L’apparato teme lo sguardo intellettuale, quindi condanna arsenale analitico e parola chiara. Contese cannibalesche vagliano il personale: è concorrente idoneo chiunque abbia toupet, loquela, spiriti animali, intuito delle occasioni; vigono i canoni «amico»-«nemico», con larghi spazi aperti al dialogo diplomatico.
PIETAS e CHARITAS. SIAMO sinceri! Enea non ci piace....
Note su un testo di G. Zagrebelsky
La pia ipocrisia di Enea eroe di regime
Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 14.05.2015)
SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’ Iliade. In fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato. Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e, perciò malsana.
“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.
Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è grande.
L’ Odissea è l’epopea delle radici; l’Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas è la soggezione fedele a questo destino. Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra impossibile.
Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni». Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà».
Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore, dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella.
La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.
Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.
Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana.
* Federico La Sala
Federico La Sala (06.03.2006)
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17 giugno 2013)
Dai teo-con ai teo-pro. Le “armate” del Papa cambiano casacca. A sancire il passaggio di testimone tanti segni. Non ultimo, una pagina appositamente dedicata al tema da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani che per anni ha dato voce a quegli intellettuali disposti a tutto pur di riconoscere un ruolo alla religione cristiana non separata dalla sfera pubblica, i teo-con appunto. “Atei devoti”, li ha chiamati qualcuno. «Importanti uomini di cultura non credenti, ma che avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà», li definì, invece, Benedetto XVI al convengo della Cei di Verona del 2006. Fu come un’investitura ufficiale, quella di Ratzinger, una chiamata alle armi per un esercito disposto a tutto pur di seguirlo.
Ma i Papi cambiano. E chi non vuole soccombere deve allinearsi. Lo scorso 9 giugno Avvenire segnala un cambio di rotta, una virata in perfetto tempismo con l’avvento del primo Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, in onore di una Chiesa diversa, umile, povera, degli ultimi. «C’erano una volta i teo-con, versione italiana dei neo-con americani molto attivi nell’era Bush», scrive Avvenire.
C’erano una volta e ora non ci sono più: «Il dizionario è da aggiornare. Perché si sta affermando a livello internazionale una corrente filosofica teo-pro: intellettuali rigorosamente non credenti e decisamente “progressisti”, i quali prendono il pensiero teologico cristiano (soprattutto quello di san Paolo) e lo trasformano in un dibattito filosofico nuovo e propositivo per l’Occidente».
Come a dire: se fino a pochi mesi fa la difesa dei princìpi non negoziabili andava di pari passo con il kerigma, l’annuncio del Vangelo, ora con Francesco le gerarchie sono ribaltate. I princìpi restano, certo, ma l’accento è anzitutto sull’annuncio della misericordia.
E così non sono più i conservatori americani alla Michael Novak, Richard John Neuhaus, George Weigel, o gli atei devoti italiani alla Marcello Pera e Giuliano Ferrara - ma il direttore del Foglio, a onor del vero, non si è mai considerato tale - a essere tenuti in auge, quanto i nomi, eterogenei fra loro, che Kurt Appel, docente di teologia alla Facoltà teologica di Milano, ha percorso in un volume a più voci dedicato a Cristianesimo e Occidente. Quale futuro Immaginare? (edizioni Glossa).
Dal francese Alain Badiou all’italiano Giorgio Agamben, fino allo sloveno Slavoj Zizek, sono diversi gli intellettuali che, riscoprendo san Paolo come alternativa al relativismo assoluto e mettendo al centro del proprio pensare uno sguardo verso l’altro anzitutto di misericordia, entrano di diritto nelle file dell’“esercito” bergogliano.
Del resto il filosofo francese Rémi Brague l’aveva predetto. Nel volume del 1992 Il futuro dell’Occidente (Bompiani), introdusse la distinzione che tra cristiani e “cristianisti”, prevendendo i pericoli per la Chiesa della corrente che successivamente si sarebbe chiamata teo-con, ma non solo di quella: «Cristianista - scrive Brague -, è chi s’interessa, del (proprio) cristianesimo e non di Cristo. Vede il cristianesimo, astraendolo, come una “tavola di valori”.
E ci sono i cristianisti identitari e i cristianisti del e nel “cattolicesimo democratico”. Il cristianista identitario insiste sul tema dell’Occidente e del suo valore. Richiamando il cristianesimo come uno strumento per il persistere di una “purezza”!». Mentre «il cristianista cattolicodemocratico pratica e impone un cristianesimo come faccenda individuale e socialmente irrilevante e/o arrendevole. Irreprensibile sul piano della vita privata finisce per asservirsi al “volontarismo politico” delle sinistre riconoscendogli, con la sconfessione pratica dell’antropologia cristiana, una presunta superiorità etica».
Esiste una sintesi? Difficile rispondere. Di certo, i cosiddetti teo-pro, nonostante l’endorsement di Avvenire, non sembrano riuscire a stare nel mezzo. Anche loro rivalutano il cristianesimo, però soltanto in chiave culturale. Non c’è conversione in loro, c’è soltanto un riscatto culturale, da sinistra, del cristianesimo. La differenza fra loro e i nuovi atei, insomma, (da Richard Dawkins a Sam Harris fino a Christopher Hitchens) risiede soltanto nel fatto che per questi ultimi il cristianesimo è falso e insano. Mentre per i teo pro è un qualcosa da valorizzare ma non a cui aderire. Avvenire li prende, invece, a modello. Ma cosa diranno i settori più conservatori del cattolicesimo in merito? E cosa i teologi più illuminati del cattolicesimo oggi?
Pierangelo Sequeri, preside della facoltà teologica dell’Italia settentrionale, vede note positive. Dice, infatti, che «la corrente teo-pro è interessante perché marca una distanza netta dal pensiero debole e rappresenta una via per ridare vita all’autentico umanesimo».
Di autentico umanesimo, in effetti, parla Zizek quando in La mostruosità di Cristo (Transeuropa) spiega con San Paolo che è questo il tempo di «una vita vera nell’amore, accessibile a tutti noi attraverso la grazia». È il tempo, dice, di «un cristianesimo focalizzato sull’agape ».
Eppure i rischi ci sono, come Brague insegna. Dice in proposito il sociologo Luca Diotallevi, fresco autore di La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale ( Rubbettino). «Da una parte esistono nostalgie di cristianesimo giocate come avversione alla modernità avanzata. In un certo senso la versione originale dei teo-con è la declinazione di destra di questo fenomeno. Ma ne esiste anche una di sinistra, speculare, affine alla prima.
Nella direzione opposta, è invece presente, e robusta, nel mondo anglosassone ma anche in quello francese, l’idea di un cristianesimo come vettore di un cammino che accetta e sfida la modernità avanzata per una società in cui il primato dell’amore non contrasti con una prospettiva sociale ancora più libera e aperta.
L’alternativa principale è quella tra un cristianesimo che rifiuta e uno che affronta e attraversa la modernità avanzata. Quando Tony Blair si converte al cattolicesimo dice proprio che una civitas aperta ha bisogno del cristianesimo. Nel mondo francofono è il filosofo Jean-Luc Nancy, erede di Jacques Derrida, a dire che la decostruzione, e dunque il principio dell’apertura, sono un prodotto del cristianesimo e che vive di cristianesimo.
In questo prevalere della speranza sulla nostalgia, che è anche lo spirito del Vaticano II, si può cogliere l’eco della patristica e di una lettura liberante di Agostino. Per lui, nel secolo della civitas terrena permixta alla civitas celeste l’amore alimenta la libertà e conosce e non teme il conflitto. Il filone che è stato chiamato teo-pro è esso stesso attraversato da un alternativa più profonda, intorno alla conciliabilità o meno di libertà e amore».
NOTE SUL TEMA:
Un saggio analizza uno dei temi principali del pensiero italiano
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3.11.2012)
In tempo di globalizzazione cavalcante si potrebbe immaginare che anche la filosofia abbia perso qualsiasi tratto nazionale, per omologarsi a temi e linguaggi generali. In realtà, come avviene nel campo manifattura o della cucina, è proprio la contaminazione globale a rigenerare le tradizioni nazionali. Resta da spiegarsi l’attenzione più volte segnalata nei confronti del pensiero italiano. Una risposta convincente è adesso fornita nel volume di Dario Gentili, edito da il Mulino con il titolo Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica.
La sua tesi, condotta attraverso un’accurata genealogia del pensiero italiano contemporaneo, è che a metterlo in sintonia con il nostro tempo è la categoria di crisi, intesa nel suo doppio significato etimologico di divisione e di decisione. In una stagione dominata dal fantasma della crisi, non può sorprendere questa ripresa d’interesse per una filosofia che sembra letteralmente generata da situazioni critiche. Non solo, ma che vede nella crisi, più che un fenomeno di carattere economico, l’esito di determinate opzioni politiche. E’ questa interpretazione politica della crisi a fare del pensiero italiano un punto di riferimento privilegiato per cogliere il significato d’insieme della tempesta che oggi minaccia di travolgere, oltre che le finanze, la stessa possibilità di vita delle nostre società.
Estranea ad una matura teoria dello Stato, la filosofia italiana ha sempre pensato la politica come contrasto tra parti contrapposte in lotta per l’egemonia. Ma il passaggio cruciale avviene negli anni Sessanta e Settanta, quando la crisi della dialettica diventa l’oggetto centrale della teoria, cosiddetta “operaista”, che, in forme diverse, da parte di autori come Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, rompe con la tradizione storicistica per affermare il primato della parte sul tutto - vale a dire della classe operaia sul capitale.
Riviste di quegli anni quali Quaderni rossi, Classe operaia e Contropiano definiscono i contorni di un soggetto non più costruito sul modello universalistico del “popolo” gramsciano, ma espressione di una divisione che taglia l’intero corpo sociale. Il presupposto di tale prospettiva è che le crisi economiche, tutt’altro che eventi neutrali di natura oggettiva, siano prodotte dal capitale stesso per svilupparsi. E che dunque non siano superabili con strumenti puramente tecnici. L’uscita dalla crisi è sempre, in ultima analisi, di tipo politico. Vale a dire orientata a favore degli uni contro altri, in base ai rapporti di forza che di volta in volta si determinano.
Mentre la filosofia anglosassone elabora modelli normativi, quella tedesca si esercita in pratiche ermeneutiche e quella francese si concentra sul rapporto tra parola e scrittura, il pensiero italiano lavora sul nesso, intensamente politico, tra conflitto e crisi.
E’ questo il nodo teoretico che, pur con una serie di differenze interne, riconosciute e anzi valorizzate da Gentili, lega autori diversi come de Giovanni e Marramao, Bodei e Virno, Muraro e Cavarero. Se si eccettua il “pensiero debole” di Vattimo e Rovatti - ancora inscrivibile nell’orizzonte postmoderno, oggi riletto in chiave critica da Ferraris - l’intero quadrante della filosofia italiana ruota intorno alla questione del “politico”, come luogo di costituzione e di dislocazione della differenza. Quando il pensiero femminista rivendica la necessità, per la donna, di “partire da sé”, elaborando un proprio ordine simbolico, riproduce, su un altro piano, quanto gli operaisti avevano visto nel rapporto antagonistico tra Operai e capitale, come titolava il libro di Tronti.
E’ su questo passaggio che s’innesta la seconda ondata di pensiero che ha fatto da traino, sul piano internazionale, all’elaborazione dei filosofi italiani. Si tratta di quella concezione biopolitica che sposta radicalmente l’ordine del discorso operaista, situando il luogo del conflitto nella stessa categoria di vita.
Come è noto, tale svolta, insieme teoretica e politica, prende le mosse dai corsi tenuti da Michel Foucault negli anni Settanta. Ma, rispetto ad essi, apre un cantiere di pensiero largamente originale. La biopolitica italiana - nelle sue varie declinazioni - da un lato presuppone il concetto di crisi, nel senso che elabora paradigmi binari come quelli di bios e zoe, di impero e moltitudine, di communitas e immunitas; dall’altro lo oltrepassa nella misura in cui la focalizzazione sul paradigma di vita biologica assegna al conflitto una portata più ampia e complessa dello scontro economico o politico.
Intanto, differentemente dalla tradizione operaista - giunta da tempo al capolinea, anche per la disgregazione delle classi -, gli interpreti italiani della biopolitica hanno allargato il loro orizzonte al mondo globalizzato. Ma soprattutto si sono lasciati alle spalle quell’idea di “parte” che vincolava la vecchia sinistra ad una visione dicotomica della realtà.
Ciò non vuol dire che il conflitto sia superato - verrebbe meno, con esso, la stessa possibilità della politica. Ma esso è integrato dentro un quadro più ampio in cui il paradigma di crisi va ripensato insieme a quello di governo della complessità. La parte, insomma, non è più ciò che confligge con l’altra per il dominio del tutto, ma il punto di vista dal quale il tutto assume una diversa configurazione, chiamando ad un impegno comune tutte le componenti della società.
Tra Toni Negri e Tommaso d’Aquino
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 27.04.2012)
Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com’è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell’intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l’accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».
Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).
1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L’idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l’altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all’interno del sistema dello sfruttamento e dell’utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d’Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull’abusivismo vincerebbero gli abusivisti.
La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l’auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell’altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.
L’idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L’idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all’unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il sistema - il sistema tutt’intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt’intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo.
2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch’esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c’è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».
Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l’interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d’individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell’opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch’esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell’autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch’essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall’idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d’Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l’uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l’ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n’è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt’altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all’avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, il manifesto, 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch’esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.
Il riferimento a Tommaso d’Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica.
Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell’agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l’ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).
3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l’ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev’esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell’empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l’incredibile violenza dell’attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull’«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell’amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).
4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l’indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s’identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un’articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d’interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).
Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?
La cosa è tutt’altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim’ordine. Allora, se le cose stanno così, all’ordine del giorno oggi non c’è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c’è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all’esistente, eventualmente si rafforzi e s’allarghi con l’individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l’intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.
5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s’è detto, appare sul manifesto il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di Piero Bevilacqua (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.
Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un’organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all’interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell’insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un’altra volta).
Ma l’obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell’economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.
PREMESSA SUL TEMA:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
(Federico La Sala)
La teologia cristiana può aiutare la sinistra
La domenica prima di Pasqua volontari della Cgil hanno distribuito sul sagrato di centinaia di chiese italiane volantini «contro i licenziamenti facili e per la dignità del lavoro»: un gesto di forte spessore simbolico che si pone come appello ai cristiani e alla Chiesa intera, anche nelle sue strutture istituzionali. In una stagione nella quale la crisi economica e la discussione sulle forme di partecipazione politica mettono impietosamente a nudo una fragilità che è prima di tutto culturale, può venire un contributo a delineare il volto di una visione progressista e «di sinistra» in Europa dalla tradizione cristiana, dal modo in cui essa pone la domanda sull’umano e sulle dinamiche del vivere sociale?
Per rispondere positivamente, un buon punto di partenza è il binomio persona-Noi (sociale), che fa da chiave di volta per il pensiero sociale cristiano. Da tale binomio discendono l’affermazione del valore delle differenze nel processo di determinazione dell’identità personale e sociale, la comprensione del soggetto a partire dalla rete di relazioni in cui è posta l’esistenza, l’attestazione che la società è intrinsecamente necessaria alla realizzazione dell’uomo, il riconoscimento dell’apporto dei singoli a costituire un Noi che è ben più della somma degli individui.
È un binomio che, riconoscendo il valore del singolo, della sua libertà, dei suoi legittimi desideri e aspirazioni, della tutela dei diritti individuali, salvaguarda dalla deriva dei totalitarismi (di natura politica o, più spesso oggi, economica) che sacrificano i singoli alla ragion di Stato; ma al tempo stesso evita forme di «individualismo di gruppo», che antepongono gli interessi di alcuni (classi sociali, comitati, o persino istituzioni religiose) alla dedizione al bene comune, che non è mai un particulare imposto a tutti. È per questo che il principio di sussidiarietà non può essere inteso come principio primo, ma è sempre inseparabile da un principio di solidarietà globale e di assunzione comune di responsabilità per l’insieme.
Il documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, in particolare, declina il rapporto persona-Noi sociale facendo appello all’orizzonte ultimo della famiglia umana e alle necessità e possibilità implicate da uno scenario mondiale. Anche se la congiuntura odierna è lontana dallo scenario geo-politico ed economico degli anni ’60 del secolo scorso, e quelle visioni ottimistiche possono apparire oggi ingenue e datate, il pensiero sociale cristiano non può non rinviare a quello stesso orizzonte di valore.
Un secondo apporto può venire dalla considerazione della giustizia e della ricerca inesausta della sua realizzazione quale dinamica fondamentale che deve animare, secondo le Scritture ebraico-cristiane, il vivere sociale. Giustizia nell’accesso ai beni primari e nella regolamentazione delle relazioni economiche, giustizia sul piano giuridico, del riconoscimento dei diritti e dell’esercizio dei doveri. Giustizia infine come modalità di impostare ogni relazione umana (nella sfera dei rapporti primari, delle comunità intermedie, delle forme istituzionalizzate del vivere sociale) nella fedeltà all’altro e insieme al senso del Noi, al pieno sviluppo di ciascuno. Non a caso per la Bibbia la realizzazione della giustizia viene verificata rispetto alla condizione di vita di alcuni gruppi umani: i poveri e gli stranieri.
Lungi dall’essere mero destinatario di un’opera assistenziale di risposta immediata al bisogno (prassi alla quale per troppi secoli la Chiesa si è limitata, mentre tutelava lo status quo e rinviava a un futuro consolatorio dopo la morte), il povero è colui che, drammaticamente, mette sotto gli occhi di tutti i bisogni fondamentali a cui una società realmente umana deve dare risposta. È colui che segnala ciò che è necessario, e che per la sua stessa condizione denuncia quanto sia falsa, fallace e incompleta la realizzazione della società a cui appartiene.
La Bibbia consegna poi un elemento di riflessione critica alle legislazioni attuali quando regolamenta la convivenza civile a partire non esclusivamente dalle esigenze degli abitanti del Paese appartenenti al popolo, ma dalla condizione dello straniero che vi soggiorna e di quello che vi sopraggiunge. Opzione per i poveri e tutela di coloro che nel contesto del tempo venivano considerati i «senza diritti» non sono solo indicazioni per una prassi individuale, ma sono orientamenti su come guardare ai soggetti sociali e su come rispondere alle esigenze di tutti a livello politico.
L’ultimo elemento caratterizzante la via della giustizia così come la intendono i cristiani è la scelta decisa per la nonviolenza. La Bibbia è ben consapevole di quanto siano inevitabili i conflitti e ferite le relazioni umane, ma le parole di Gesù e la sua stessa prassi fino alla croce attestano con chiarezza la nonviolenza come unica forma realmente praticabile con la quale affrontare tensioni e conflitti, se non si vuole negare a se stessi e all’avversario lo spazio di una umanità sempre possibile.
Le Chiese cristiane hanno indubbiamente contraddetto nel corso dei secoli molti di questi principi e la storia dell’Occidente e non solo, ne porta i segni e le ferite: il mancato riconoscimento della libertà di coscienza (a fronte del continuamente riaffermato diritto della verità), la negazione del valore dell’altro e talora la sua soppressione violenta, la giustificazione religiosa dell’intervento armato e la benedizione degli eserciti in armi, la sacralizzazione di forme di potere oppressive e alienanti, i compromessi continui davanti a poteri e ricchezze, mostrano la resistenza che i cristiani stessi hanno opposto a questa visione della giustizia, offuscando così la profezia ecclesiale. La stessa idea di laicità è maturata dall’incapacità di garantire la pace sociale su base religiosa cristiana nelle guerre di religione del XVI-XVII secolo. Ma questi principi fanno parte del dna fondativo dell’esperienza cristiana e indubbiamente costituiscono uno dei contributi determinanti per il delinearsi di quell’antropologia moderna occidentale nella quale ci riconosciamo; come tali rappresentano a un tempo una sfida per la revisione della teologia e dell’agire cristiano, ma anche un apporto specifico che può essere condiviso con quanti, pur mossi da altre motivazioni o da altro sentire, lottano per gli stessi valori umani.
La giustizia ha animato la lotta e alimentato le motivazioni ideali di tanti attraverso i secoli. In un contesto culturale che coniuga secondo l’intuizione di Lyotard crisi delle grandi istituzioni e crisi delle metanarrazioni, la teologia cristiana può in fondo costituire per la sinistra un richiamo a pensare il Noi sociale intorno a un futuro comune; senza indulgere a generici utopismi, senza rassegnarsi a un pragmatismo insensibile al confronto sul possibile «non ancora», l’antropologia cristiana richiama le istituzioni (non ultime quelle ecclesiali) a riformarsi in una logica di giustizia, che verifichi continuamente se stessa su ciò che è individuato come bene comune al di là dei particolarismi, che valuti i passi compiuti sulla base di quanto fatto nella lotta contro ogni impoverimento ed esclusione.
Il futuro dell’Unione tra crisi e populismo
I filosofi e l’economia, simposio a Parigi
di Jurgen Habermas (la Repubblica, 10.11.2011)
Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell’unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un’unione politica adeguata: l’Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l’Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un’incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.
Da quando l’embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell’Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall’accettazione dell’inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell’indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity - difficili da imporre sul fronte interno - possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.
Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l’occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell’unificazione economica e politica dell’Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un’unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un’altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.
Fino a questo momento l’Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l’indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell’Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.
Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l’orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell’Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell’Unione. Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell’euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l’esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.
Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all’Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l’organo intergovernativo dell’Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.
L’Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l’omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un’integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.
© Le Monde (tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti)
Fateci ritrovare il senso del "noi"
di Giancarlo Bosetti (la Repubblica, 08.11.2011)
Una sfida capitale per la filosofia politica è quella del dileguarsi di un affidabile "noi". Il soggetto collettivo subisce attacchi, deformazioni, rimescolamenti che lo sottopongono a una geografia variabile. Diventa così più difficile costruire un edificio concettuale liberaldemocratico con solide basi e capace di ospitare progetti politici di lunga durata. La tendenza del noi a liquefarsi è un effetto dell’accelerazione della vita sociale e della caduta di barriere, come le distanze, le abitudini e i ritmi regolari di crescita economica, tutti fattori che davano forza e stabilità a diversi "noi": la nazione, la cittadinanza, la classe, la fabbrica, il posto fisso, il gruppo politico, la città, la parrocchia. Il vacillare di tanti pilastri smentisce i teorici che ritengono il liberalismo dottrina pura e cristallina, immunizzata rispetto alla storia.
Seguiamo allora lo sforzo di due dei più maturi e affermati filosofi italiani per rinnovare l’attrezzatura concettuale: Salvatore Veca con le sue quattro lezioni in L’idea di incompletezza, (Feltrinelli) - e Alessandro Ferrara con il suo saggio Democrazia e apertura (Bruno Mondadori). La sfida è il pluralismo radicale che rende difficile anche parlare di "bene comune". "Comune" a chi? A noi italiani? europei? precari? indignati? umanità tutta, boat-people compresi? o solo padani?
Omnia mutantur, tutto si trasforma - seguiamo Veca sotto l’insegna delle Metamorfosi di Ovidio -, ma non è solo la realtà cangiante intorno a "noi" a dare spettacolo; la parte più sorprendente del cambiamento, quella che fa talvolta inorridire è il mutamento del "noi", che trasfigura miracolosamente gli esseri, come nei miti umano e divino, animale e vegetale, l’uno nell’altro. Riprendiamo allora, con Veca, la lezione di Isaiah Berlin sulla pluralità dei valori e sui «diversi modi di essere umani» e facciamocene una ragione anche in questa parte del mondo, l’Europa, che ha di più protetto una certa "purezza"nelle nicchie nazionali. La purezza, sostiene il pensiero pluralista, si addice all’olio d’oliva, ma non alle faccende sociali, mentre l’orizzonte dell’umanità è meticcio e creolo. Il che ci appare quasi ovvio se guardiamo al passato: chi può negare oggi i benefici dell’immigrazione dal Sud e l’apporto che ha dato al miracolo italiano e all’identità nazionale? Eppure all’epoca a Torino negli annunci immobiliari si leggeva: «non si affitta a meridionali». Troviamo naturale non riconoscere per il presente e il futuro quello che riconosciamo per il passato. Non ci dispiace vedere rappresentate le variazioni del noi, più o meno drammatiche e foriere di tanti successi, che avvennero allora, ma quelle di oggi fanno male. Così un giorno (tra vent’anni?) ci racconteremo ridendo la Lega e la sua retorica segregazionista. E che cosa diremo del milione di romeni che intanto saranno diventati italiani?
Anche per questo il filosofo "colleziona storie" che documentano il nostro stato di perenne provvisorietà e se ne vale per esplorare nuove connessioni, nel tentativo di trovare in questa contingenza le risorse per alimentare empatia: siamo intrinsecamente "insaturi" e la nostra identità è fatta di cose prese a prestito. Lo sguardo sul passato aiuta a metabolizzare il presente indigesto.
Fin qui Veca, mentre il percorso filosofico di Ferrara è più direttamente rivolto alla ricerca dell’ethos democratico per un "noi" ad assetto instabile. Abbiamo imparato che la democrazia vive non solo di regole ma anche di uno spirito sottostante e che di questo spirito fa parte una certa passione per il rispetto reciproco, per l’individualità, per l’eguaglianza. Tanto bastava in una situazione coerente del "noi", ma adesso la grande debolezza delle nostre lealtà e l’affacciarsi di tante altre possibili lealtà al supermarket del mondo globale con le sue continue offerte speciali, di confessioni e miscredenze, missioni e appartenenze a scadenza breve, la passione che serve è quella per l’"apertura", la disponibilità al nuovo, la prontezza nel fronteggiare l’inatteso.
Quanti anni (o generazioni) ci sono voluti per sviluppare lealtà a una religione, a un progetto politico, a un sindacato, a un movimento? Non abbiamo più tanto tempo. Non possiamo permetterci lunghe fasi di navigazione col pilota automatico, serve la capacità di esplorare nuove possibilità, di considerare alternative cognitive e pratiche diverse da quelle cui siamo abituati. L’«infrastruttura affettiva ed emotiva della democrazia», che Ferrara va cercando, ha bisogno di questa dote, che fa parte da sempre del corredo umano, ma può addormentarsi per lunghi cicli narcolettici. Serve allora chi cerca di risvegliare l’attitudine a gestire l’imprevisto, come certi esercizi muscolari, più utili se fatti su una piattaforma traballante che su un pavimento immobile. La società aperta ha bisogno di quei muscoli che sono le menti allenate al pluralismo radicale, che è diventato il nostro orizzonte quotidiano.
A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare”. (pre leggere tutto l’art., cliccca ->)
La repubblica? Nasce dalla Bibbia
di Giulio Busi (Il Sole 24 Ore, 12.09.2010)
«Religione e politica non sono forse la stessa cosa?». Agli inizi dell’Ottocento, quando quell’inguaribile testa calda di William Blake poneva questa domanda ai (pochissimi) lettori del suo Jerusalem, la frase aveva ormai un valore soprattutto provocatorio. Erano quasi due secoli che gli intellettuali europei si scagliavano contro la vecchia alleanza tra Stato e Religione, e le rivoluzioni settecentesche avevano sancito la separazione tra i due domini.
Il distacco tra cosa pubblica e istituzione di fede è generalmente considerato il risultato di un lento cammino di laicizzazione della società occidentale. In un nuovo libro, destinato a far discutere, Eric Nelson dell’Università di Harvard prova a smontare questa vulgata e per farlo non esita a gettare nella mischia pii teologi protestanti del Seicento e, cosa ancora più inaspettata, un bel numero di rabbini tradizionalisti.
Il volume s’intitola eloquentemente La Repubblica ebraica (The Hebrew Republic), e cerca di dimostrare che non solo la Bibbia ma anche la letteratura talmudica e le fonti del giudaismo medievale giocarono un ruolo decisivo nell’emergere della tolleranza religiosa e di una rigorosa idea repubblicana.
Il laboratorio di questa virata del pensiero politico europeo fu, secondo Nelson, il mondo protestante, alla ricerca di modelli culturali da cui trarre ispirazione per raccapezzarsi tra gli errori delle guerre di religione. E quale esempio poteva essere migliore dell’antico governo degli ebrei, voluto da Dio stesso? Forte delle scoperte dell’ebraistica cristiana - nata in Italia ma emigrata con la Controriforma verso il Nord Europa - autori come Ugo Grozio studiarono a fondo l’antecedente ebraico.
Nel primitivo Stato degli ebrei, potere politico e potere religioso erano uniti. Bene, si dirà, proprio il contrario della concezione moderna, ma - e qui sta il "trucco" di Nelson - una simile unione funzionava solo poiché i detentori del potere civile (prima i Giudici, poi i Re e alla fine il Sinedrio) avevano anche potere religioso. Questo significa che non c’era presso gli ebrei un’autorità religiosa autonoma; pertanto, quello che potrebbe sembrare un modello teocratico per eccellenza, limitava gli interventi delle autorità in materia di fede solo a ciò che toccava il bene comune, lasciando libere le coscienze e i cuori. Impegnati a difendersi contro le pretese dei calvinisti, che volevano imporre a forza l’ortodossia, alcuni teologi protestanti sarebbero dunque ricorsi all’esempio degli ebrei di età biblica per affermare il principio di tolleranza, propugnando l’idea di una cosa pubblica religiosa sì, ma senza pretese di controllo sulle anime, sui pensieri e sulle opinioni.
Ma c’è di più, rileggendo i testi rabbinici, questi teologi politici del Seicento scoprirono che la tradizione giudaica condannava il conferimento del regno a Samuele come un atto sostanzialmente empio, una sorta di "lesa maestà" nei confronti di Dio, unico e vero sovrano d’Israele. Era quanto bastava per diventare repubblicani arrabbiati, e teorici dell’illegittimità di qualsiasi monarchia, come avrebbe imparato a proprie spese Carlo I, il re d’Inghilterra giustiziato nel 1649.
Quella di Nelson è una suggestiva rilettura di fonti in parte dimenticate, che funziona però solo a patto di lasciar fuori molti rivoli e qualche grosso fiume del pensiero politico tra Cinque e Seicento, da Erasmo a Sebastian Castellio - ch’era insorto per condannare la messa a morte di Serveto da parte di Calvino - e sino a Spinoza che, seppure influenzato da Grozio, rigettò senza mezzi termini la teocrazia ebraica.
Insomma, pur senza essere rivoluzionario, come sarebbe nelle sue intenzioni, con la Repubblica degli ebrei, Nelson porta alla luce un altro episodio della lunga e tormentata relazione tra tolleranza e modernità.
Eric Nelson, «The Hebrew Republic», Harvard Up, Cambridge Massachusetts, pagg. 230, € 21,00.
I padri costituenti e la difesa della Carta
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20.10.2009)
Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia. Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione - proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.
Retroscena di un funerale e «relativismo» della Cei
di Paolo Farinella, prete
Oggi alle 11.40
Genova 21-09-2009. - Ricevo una comunicazione riservata da persona proveniente da «dentro» il sistema militare dei «corpi speciali» che mi ha fatto rabbrividire. A motivo del mio lavoro (terapia di sostegno), avevo intuito che molte cose non quadrassero, ma questa rivelazione mi ha sconcertato. Il berretto al bambino di due anni e la corsa dell’altro bambino alla bara del padre con la mano che si copre il volto (foto giornali perché non ho visto i funerali né ascoltato tg e rg) non sono frutto di spontaneità o gesti di mamme che cercano di proteggere i figli con «qualcosa» del padre (berretto e abbraccio).
Al contrario, sembra che tutto sia stato centellinato dall’équipe di sostegno psicologico che in questi giorni circondano i familiari con un cordone sanitario strettissimo. Mi dice il militare interlocutore che lo scopo di questo gruppo di sostegno non è aiutare le famiglie ad elaborare la morte e il lutto, ma impedire che facciano scenate o mettano in atto comportamento lesivi dell’onore dell’esercito. La mia fonte asserisce che buona parte di questo personale non è specializzata in psicologia, ma è un corpo speciale che un obiettivo preciso: la gestione dei giorni successivi alla morte e il contenimento o meglio l’annullamento della rabbia, della contestazione e della disperazione conseguenti che potrebbero portare a comportamenti di indignazione verso l’esercito e le istituzioni.
Le tecniche quindi mirano ad adeguare il pensiero delle famiglie allo «status di eroe» del congiunto perché appaia «coerente» con la «nobiltà della missione» del morto che diventa anche la «missione della famiglia». Sarebbe una tragedia per l’immagine militare se mogli, madri, figli e fidanzate si mettessero a gridare contro l’esercito e il governo che li ha mandati a farsi ammazzare.
In questa logica si capisce la retorica dell’«eroe», l’insulsaggine del servizio alla Patria, il sacrificio per la Pace nel mondo e anche la lotta al terrorismo. Tutti sanno tutto e giocano a fare i burattini. Se le informazioni che ho ricevuto sono vere, e non posso dubitare della serietà della fonte, i funerali dei sei militari uccisi e tutta l’opera dei pupi presente a San Paolo, è stata un’operazione terribile, ancora peggiore degli attacchi dei talebani. Tutto è gestito per deviare il Paese, le Coscienze e la Verità. E’ una strategia scientificamente codificata.
Il vescovo militare (generale di corpo di armata) non ha risparmiato parole grosse di encomio e di osanna al servizio che i militari fanno alla Pace e alla Democrazia. Una sviolinata che neppure La Russa è capace di fare. A lui si è unito il cardinale Angelo Bagnasco che ha detto:
«Non è esagerato parlare di strage, tanto più assurda se si pensa ai compiti assolti dalla forza internazionale che opera in quel Paese e allo stile da tutti apprezzato con cui si muove in particolare il contingente italiano. Non è un caso che questo lutto, com’era successo per la strage di Nassiriya, abbia toccato il cuore dei nostri connazionali, commossi dalla testimonianza di altruismo e di dedizione di questi giovani quasi tutti figli delle generose terre del nostro Sud. E per questo il nostro popolo si è stretto alle famiglie dei colpiti con una partecipazione corale al loro immane dolore. Anche noi ci uniamo ai sentimenti prontamente espressi dal Santo Padre» (21-09-2009).
Mi dispiace per il signor cardinale, ma non posso associarmi a questa mistificazione collettiva. Enrico Peyretti mi dice che durante l’Eucaristia, pane spezzato per la fame del mondo, è risuonato l’urlo di guerra dei parà: «Folgore!» quasi una schioppettata nel cuore del Sacramento. Credo che si possa dire che la Messa è stata la cornice vacua di una parata militare con i propri riti.
Oggi (21-09-2009), infine, il cardinale Bagnasco ha parlato anche della questione morale e della legge sugli immigrati senza mai nominare e né l’uno e né l’altra. Nessun cenno esplicito alla legge sul reato di clandestinità: si intravede tra le righe un leggero senso di disapprovazione. Figuriamoci se chiamava per nome il Papi Priapeo. Si è limitato a fare una predica generalizzata, valida per tutti e, quindi per nessuno, come giustamente interpreta «Il Giornale» di famiglia.. Tutto va bene, madama la marchesa? Ma, sì! Diamoci una botta e via! «Domani è un altro giorno« diceva Rossella O’Hara o Tarcisio Bertone? Non ricordo bene.
* Il Dialogo,, Martedì 22 Settembre,2009 Ore: 11:59
"NON MI SENTO ITALIANO"
BUFERA SUL CINEFORUM
APPELLO ALLA GELMINI: "TITOLO OFFENSIVO"
Questo il titolo dell’articolo, in la Repubblica/Milano di oggi, sabato 19 settembre 2009, pagina IX, di Franco Vanni.
Nella circolare che presenta l’iniziativa si legge:
"Il cineforum di quest’anno si propone una rassegna incentrata sulla maleducazione civica degli italiani".
PIENA TOTALE APPROVAZIONE DEL PROGETTO E MASSIMA SOLIDARIETA’
Per la redazione
Federico La Sala
La comunità degli individui liberati
A Modena fino a domani il Festival della Filosofia alle prese con il concetto di comunità. Ma in una chiave alternativa rispetto all’uso conservatore del termine. Ne parlano Remo Bodei, Salvatore Natoli, Carlo Sini e Carlo Galli
La tradizione. A destra Il legame comunitario è una piovra contro i singoli
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 19.09.2009)
Inutile nasconderlo. La nozione di «comunità», per storia, significato ed uso, non appartiene alla costellazione delle idee progressiste. Al contrario, fin da quando nel 1877 il sociologo Ferdinand Toennies, preceduto in Germania da una robusta tradizione romantica, la lanciò nell’arena delle idee filosofiche, «comunità» fu subito sinonimo di insieme di legami naturali, che avvolgevano prescrittivamente il singolo. Fino a dar senso all’interezza della sua vita. E il tutto contro l’aridità e l’anarchia meccanica della Civiltà tecnica. Democratica, anonima, atea e senza valori. Perché invasa da troppi valori in lotta tra di loro, come ribadì Max Weber dopo Toennies. Però malgrado tutti questi presupposti, accade che il Festival della filosofia di Modena in onda sulle piazze a Modena, Carpi e Sassuolo da ieri a domani sera abbia scelto a tema dei suoi lavori proprio questa idea. Incurante delle controindicazioni culturali e politiche. E anche del fatto che «comunità», declinata come «Umma», radici e territorio, sia ormai il cavallo di battaglia di fondamentalismi e nuove destre etniciste (inclusa la nostra Lega). Perché dunque «comunità», dopo le scelte più ambivalenti o divaganti degli anni trascorsi, come «felicità» o «vita»?
Ce lo siamo fatto spiegare da alcuni dei protagonisti della kermesse, ai quali tra gli altri è stato affidato il compito di ridefinire e misurarre il concetto di comunità oggi. Magari passandoci attraverso, per rovesciarlo come un guanto.
Remo Bodei, direttore del comitatto scientifico del Festival, è molto esplicito a riguardo: «Ovvio che a tutta prima la nozione di comunità suggerisca qualcosa di compatto, di localistico e gerarchico. Ma la proposta è quella di analizzarla da tutti i punti di vista, a partire dal dato innegabile che c’è stato un recupero della comunità come pulsione e desiderio. Dentro i processi di secolarizzazione, e dentro la polemica sul relativismo». Nondimeno, prosegue Bodei, «il punto è proporre una visione conflittuale della comunità, riconoscendone il bisogno, e insieme la pluralità, la multiformità. All’interno delle comunità e dei singoli». Traduciamo: l’individuo anche quello moderno o postmoderno psichicamente nasce dentro una relazione. Tende a far comunità, magari piccola con gli altri. Tuttavia ciascuno fa comunità a suo modo e non è detto che la Comunità sia una sola e imperativa. Ciascuno insomma si sceglie la sua forma di vita in comune, e può uscirne. È così professore? «Certo, da un punto di vista laico la comunità democratica citando Einaudi non può che essere un’ anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge. Perciò essa nel moderno si dà come articolazione e conflitto: regolati». Bodei ricorda che il vissuto comunitario viene analizzato a Modena in chiave molteplice. Come rabbia, nostalgia, solitudine, esilio. Come insieme di luoghi mobili, dove le comunità, anche sotto l’impulso dei processi economici post-fordisti, si fanno e si disfano. E si vedrà nelle relazioni di Severino, Bodei stesso, Maramao, Augè, Turnaturi (il «segreto» nei gruppi di potere). E conclude Bodei con la metafora del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti: Comunità, secondo l’etimo «creativo» dell’artista nel 1340, è la con-cordia dove i cittadini tirano ciascuno da una parte la stessa corda che li unisce. Come nelle lotte civili del Machiavelli conflittualista e repubblicano.
Tocca a Salvatore Natoli, filosofo «pagano», autore di una relazione sulla «fiducia» come molla di comunità libere e non oppressive. «Fiducia dice non è un negozio giuridico, ma un patto emotivo: si dà e si riceve. La comuntà moderna può nascere solo da una rottura di appartenenenze, alla quale segue la libera capacità di ricostruire legami. Perché non si tratta di regeredire all’Antico indifferenziato gerarchico. ma di rifare per ciascuno comunità con l’altro. Dall’interno del singolo e preservando l’altro senza eliminarlo o inglobarlo». E c’è in Natoli malgrado l’apparenza una profonda critica dell’individualismo imperante. Cioè: illusoriamente l’individualismo liberale proclama la sovranità del soggetto. In realtà è il contrario. Infatti a quell’individualismo corrisponde un affidamento gerarchico, dove vincono le scelte strumentali dei più forti. Fino all’impersonale «dominio del cinismo e della finanza astratta», senza fiducia stabile, senza istanze normative e senza responsabilità verso l’altro, che come tale diviene invisibile.
Parla Carlo Sini, già ordinario di teoretica a Milano, studioso heideggeriano e della Tecnica. «È indubbio dice che la nostra società si va imbarbarendo. Tra disgegazione, indifferenza diffusa e populismo salvifico. Perché? Perché si è inaridita ogni fonte di ethos comune. Manca cioè una istanza mediatrice e responsaibile, che sappia farsi carico del “comune”, come capacità di sentire l’altro in quanto nostro, pur restando altro». E qui Sini usa una metafora manzonianna. Quella del frate che alla fine della peste nei Promessi sposi lascia andre i «risanati» e chiede loro perdono per quanta poca caritas è stata loro riservata durante la malattia. «In realtà spiega Sini mancano i padri e i fratelli simbolici, in grado di trasmetterci la pietas e la caritas. Di fronte alla morte, alla comune sofferenza e alla solitudine delle scelte. La comunità? Non è certo il, territorio né la Chiesa gerarchica e dogmatica. Ma la capacità di ciascuno di farsi carico, di sentirsi “con”. Fuori da dogmi o da fusioni mistiche». Conclusione di Sini: «La comunità non può essere che un sogno di tutti e di ciascuno. Una costruzione dinamica e una civiltà delle relazioni. Non già una realtà data e naturale a cui obbedire come a una piovra».
Chi di «comunità» all’inizio non vuol sentir parlare è Carlo Galli, storico delle dottrine politiche a Bologna: «Mi fa venire i brividi dichiara e non per caso a Modena parlo di individuo». Perché? «Perché già Cartesio e Hobbes la consideravano un incubo, a cui contrappore il sogno razionale dell’individuo pensante, che feconda ordini politici, magari assoluti». Con l’ottocento però, con Hegel e Marx, «è l’individuo a diventare un sogno, sciolto nel linguaggio, nella storia, nello spirito e nella classe. Finché Nietzsche nel 900 rovescia tutto: individui e comunità sono entrambi sogni, fantasmi». Conclusione? «Se ne conclude che l’individuo nasce contro la comunità, ma la rimpiange e non può farne a meno. Talché, meglio privilegiare comunque l’individuo che sogna se stesso e progetta laicamente una comunità. Senza che la comunità lo renda schiavo però». Insomma, spiega Galli, l’individuo può diventare «progetto», legame non oppressivo con gli altri, capace di «far fiorire un proprio disegno nell’eguale dignità con gli altri, senza violenza e senza dominio».
Puro liberalismo, tutto ciò? Niente affatto per Galli. Piuttosto comunità come processo comune e condiviso della liberazione di tutti: «Società fraterna senza padri». Ma così la comunità non somiglia un po’ al «comunismo», almeno come ideale regolativo? ●
ANTICIPAZIONE DEL NUOVO LIBRO
Anche la fede ha bisogno del dubbio
Senza il confronto di idee qualsiasi opinione, morale o religiosa, perde capacità di persuasione
di Barbara Spinelli (17/9/2009)
Si intitola "Una parola ha detto Dio, due ne ho udite" il pamphlet di Barbara Spinelli, scrittrice e editorialista della Stampa, che esce oggi da Laterza (pp. 86, e8) e di cui anticipiamo un brano. Il sottotitolo, "Lo splendore delle verità", corregge - al plurale, l’enciclica di Giovanni Paolo II. È una risposta alla rinnovata domanda di assoluto, e un elogio del relativismo. «Tutto tende all’Uno: una è la radice culturale e politica dell’Europa, una la via per governare e sanare l’economia, una per costruire l’Unione Europea [...]. Da tempo si è smesso di contare oltre l’Uno. Eppure di questo pensare oltre l’Uno c’è un bisogno che non muore».
L’accusa più rilevante che può venire dal ragionamento filosofico e teologico è quella del relativismo. Difendendo la libertà incondizionata dell’opinione contraria alla mia, affermo infatti qualcosa di pericoloso: dico, in sostanza, che le più svariate e contrastanti opinioni si equivalgono, che non esiste la possibilità di una verità e convinzione morale sufficientemente solide. Espongo ambedue - verità e convinzione - ad attacchi periodici e logoranti.
La verità ha uno splendore che rischia di spegnersi, se messa in competizione con altre che aspirano a eguale splendore e per di più scintillano in maniere intensamente diverse. È un’obiezione molto seria e ha molti alleati, non solo appartenenti alla sfera religiosa. Grande è la paura, sia nelle Chiese sia nella pólis laica, di vivere in un mondo - i Dizionari dei Luoghi Comuni sono monotoni lungo i secoli - senza punti di riferimento stabili, fissi. Qui, in questa paura di smarrirsi e cadere nel vuoto, senza reti di sicurezza che raccolgano l’acrobata troppo audace, è il filo sottile che lega le due obiezioni, quella democratica e quella antirelativista: il timore di un collasso dei princìpi-guida le affratella, e le spinge a spostare l’obiettivo della ricerca da quel che è vero a quel che viene ritenuto utile o nocivo per la società o l’individuo, indistintamente. Nell’ottica di chi è preso da simili paure non è conveniente che il punto di riferimento stabile venga a mancare, dentro l’animo del cittadino, anche se il punto di riferimento non è pienamente dimostrabile e neppure tanto veridico.
Accade in tal modo che l’individuo libero venga due volte sopraffatto: come essere umano che cerca il vero, e come essere umano che con proprie risorse e un proprio metro tenta di far cose utili a sé e agli altri. Tedium vitae, appassire della passione politica, indifferenza s’insediano nella sua mente. Il principio che dovrebbe servire a orientarsi diventa valore cui urge conformarsi, ordine dall’alto che azzittisce la coscienza invece di tenerla in stato di veglia: che le addita, come vedremo nel paragrafo sulla battaglia dei valori, la via da seguire. C’è, in questo sovrapporsi dell’utile al vero, una dose cospicua di anti-intellettualismo: non spacchiamo il capello in quattro, col rischio di perdere tempo in ricerche non necessariamente proficue e forse anche parecchio dannose. Contro queste scorciatoie intimidenti si erge Mill quando cita la definizione che Thomas Carlyle dà dell’anti-intellettualismo in epoca vittoriana: una passione triste che dilagava in un’«età al tempo stesso priva di fede e terrorizzata dallo scetticismo».
Quel che conta, per chi cerca il vero nel solo orizzonte dell’Utile o del presunto Bene della Società, è avere opinioni cui appoggiarsi come ci si appoggia a una salda roccia: opinioni che agli esordi hanno magari conosciuto il fervore immaginifico dei tempi fondatori, ma che con l’andare del tempo vengono adottate non per intima persuasione ma per fiducia o fede, delegando ad altri il compito di spaccare - se proprio vogliono buttarsi in questa spericolata avventura di acrobati - il capello in quattro. Per i tutori del Bene le opinioni valide sono quelle in cui si crede, e che è dunque pericoloso esporre oltremisura al contraddittorio, alla miscredenza e perfino alla conversazione. Ma il ragionamento non tiene: né dal punto di vista del vero, e neppure se quel che si cerca è la mera utilità. Se non viene confrontata con un parere altrettanto poderoso e argomentato, nessuna opinione morale o religiosa riesce a mantenere, alla lunga, la propria facoltà di persuasione e diffusione. Viene come prosciugata, svuotata, e quel che resta è un insieme di formule aride: che diventano insignificanti per i più, e che ineluttabilmente si fossilizzeranno in dogmi. La ragione non può che patirne, scrive Karl Popper in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, nel 1972: «Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere». [...]
Ma il vero precursore in materia resta John Stuart Mill, che già nel 1859 insorge contro l’aspirazione all’infallibilità, quale che sia il pulpito da cui proviene. Esclusa è solo la matematica: chi sostiene che due più due fa cinque cade manifestamente in errore e l’errore di questo tipo è, sì, una verità difficilmente oppugnabile. Non sono invece verità inoppugnabili quelle riguardanti la morale, la politica, la religione, la società, e in particolare i privati stili di vita (compreso il modo in cui ci si prepara alla propria morte), su cui anche oggi, come ai tempi di Mill, tanto si sorveglia e si legifera. Qui vale solo la coscienza della fallibilità, e solo la fallibilità consente di acquisire opinioni magari non ultime, magari non valevoli per l’eternità, ma abbastanza tenaci perché verificate razionalmente e via via corrette in modo da divenire princìpi di orientamento negli ambiti della politica, della morale, del costume o della religione.
Mill ricorda come la stessa Chiesa cattolica romana, quando decide di canonizzare un fedele trapassato, intenti nei suoi confronti un processo (un processo di trial and error, direbbe Popper, di prova ed errore) e giunga persino a istituire la figura, contrapposta al relatore, dell’avvocato del diavolo e delle sue animadversiones. Anche se travestito da diavolo, il pubblico ministero ha il diritto di cercare ogni possibile falla nel discorso dominante - nel caso specifico sulla santità ipotetica del defunto - concentrandosi su ciascun dettaglio ed esplorando ogni anfratto della sua vita e delle sue opere che dovesse contraddire quella che viene congetturata come giusta dottrina. L’invenzione dell’advocatus diaboli conferma come il dubbio penetri fin dentro il tabernacolo delle fedi assolute. Penetra fin dentro la religione cattolica, che nel momento decisivo non esita a mostrare diffidenza verso le congetture considerate infallibili dai più e dalle stesse massime autorità. Che dà uno spazio ampio e ufficiale a chi potrebbe smontare tali congetture, lasciandogli indossare la veste diabolica dell’Avversario: per raggiungere il vero, le argomentazioni giuste occorre saggiarle, provarle nel crogiolo della tribolazione che è il contraddittorio. Dio stesso «saggia i cuori e le reni dell’uomo» (la formula è ricorrente nell’Antico Testamento), prima di forgiarne il destino o lasciare che sia l’uomo stesso a forgiarlo.
L’avversario è il nostro saggiatore, il nostro verificatore, nel conflitto militare e ancor più nella disputa dialettica: è «la forma che assume il nostro problema», scrive Carl Schmitt. È il pubblico ministero che mette in causa quello che Giovanni Paolo II, nell’enciclica del 1993, chiamò Splendore della Verità. Anche quando l’intenzione è quella di preservare un’unica consistente verità, la prudenza è d’obbligo e dello scetticismo non c’è da avere terrore: se la verità viene fatta propria senza un convincimento profondo, essa diventa una fede ereditata anziché conquistata, che s’impone con l’ortodossia e con l’uso del potere politico necessario a ogni ortodossia. Occorre che esistano almeno due ragioni contrastanti perché una verità possa apparire superiore: nessuna può esserlo in assoluto, e forse per ciò bisognerebbe rinunciare a questo aggettivo troppo usato - assoluto - sia quando si parla di una verità o di un bene, sia quando si denuncia un male o una contro-verità.
Vent’anni dopo
di Piero Stefani (Koinonia-Forum, n. 171, 08 novembre 2009)
Per ricordare il crollo del comunismo ci sia lecito percorrere, sia pure ingenuamente, un largo tratto del pensiero occidentale, confrontando tra loro Kant, Hegel e Marx.
Verso la fine della sua vita, Kant scrive un piccolo trattato dal titolo ambizioso: Per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità di tregue prolungate che possano garantire una tranquilla convivenza tra gli stati: esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione permanente per tutta l’umanità. Il libretto non ha l’andamento del sogno, al contrario assume piuttosto la veste di progetto, fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Esse sono presentate come idee razionali e non già come fantasie, per questo possono diventare un modello.
Nelle ultime righe dell’opera Kant scrive: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico [vale a dire attuare le condizioni che consentono di stabilire un effettivo diritto internazionale], anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota». Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. Proprio l’aver rinunciato a un definitivo congiungimento evidenzia il carattere laico e progettuale del pensare di Kant.
A molti pensatori del XIX sec., a cominciare da Hegel, questo modo di procedere non sembrò né razionale, né realistico e l’idea apparve davvero vuota. Il punto di incontro tra l’agire umano e quanto accade perché deve accadere non è la speranza: è la storia. Il grande bacino di raccolta di tutte le acque lo si trova lì. I rivoli delle azioni di individui, collettività e stati scorrono inevitabilmente verso il mare della storia che li rimescola facendone un tutt’uno. Ogni fiume perde la propria specificità per realizzare la sua destinazione più autentica: fornire il proprio contributo perché si realizzi l’immensa e unitaria distesa delle acque. Nella sua accezione più autentica il termine «storia» va sempre coniugato al singolare.
Tenendo conto di ciò il pensoso sguardo di Hegel si rivolse dunque al presente e al passato (dal mare ai fiumi), non al futuro. I confini del mare non si possono tracciare, né conoscere in modo preventivo. La filosofia non può prevedere, il suo compito è di comprendere il presente e il passato. Assieme allo slancio utopico, in tal modo è riposto nel cassetto anche ogni senso forte legato al dover essere. Possiamo avere grandi ideali, ma essi da soli non ci garantiscono che diverranno realtà. A darci ragione deve essere in primis la storia. Tuttavia è regola aurea affermare che la storia ci dà ragione solo se noi diamo ragione ad essa.
Nel corso dell’Ottocento a qualcuno parve che la meta ultima della storia, più che come pace perpetua fondata su un diritto internazionale, dovesse essere pensata come l’avvento di una società giusta. È vano parlare di pace là dove vi sono ricchi che sono tali in virtù del loro sistematico sfruttamento del lavoro dei poveri. È ingannevole prospettare un’uguaglianza formale di diritti politici là dove la disuguaglianza sociale celebra i propri trionfi. L’affermarsi di una società giusta e ugualitaria va spogliata dall’aspetto, insoddisfacente, di tangenza all’infinito. Quell’esito doveva essere fondato solidamente sulla storia, la quale era dalla nostra parte appunto perché noi siamo dalla sua. Marx e il socialismo furono le punte di diamante di questa maniera di pensare e di agire.
Molte e non lievi furono le differenze di intendere i modi in cui la storia avrebbe confermato quella prospettiva. Per alcuni l’esito era a tal punto iscritto nell’ordine delle cose che bastava attendere che il sistema capitalista crollasse a motivo delle sue insanabili contraddizioni interne; per altri occorreva passare attraverso le doglie di una rivoluzione violenta. Per tutti la storia avrebbe comunque dato ragione a loro e torto agli altri. Milioni di persone hanno ritenuto che davanti a loro splendesse realmente il bel sol dell’avvenire. Per questo hanno vissuto e combattuto.
Nel XX sec. alcuni stati hanno sperimentato quello che si è definito il socialismo reale. Il potere è passato in quelle mani, ma la società giusta non si è realizzata. Per un certo periodo si è detto che si trattava di un’epoca di transizione e che a poco a poco le società socialiste avrebbero dimostrato la loro solidità e la loro superiorità storica. L’avvenire era ancora da quella parte. Verso lo scadere del secolo contraddizioni insanabili e collassi interni hanno travolto i sistemi socialisti e non quello capitalista. Il socialismo reale è crollato: la storia gli ha dato torto. Con esso sembra definitivamente tramontata anche la prospettiva di poter conseguire una società giusta. Tuttavia poiché il nesso tra giustizia e pace appare ancora inscritto nell’ordine delle cose, la mancanza del primo termine comporta anche quella del secondo: a essere perpetua è la guerra, non la pace.
Qualcuno però ancora si interroga se davvero la nascita, lo sviluppo e la scomparsa del socialismo reale abbiano costituito la fine senza rimedio di ogni speranza di conseguire una società giusta. A questa domanda si può rispondere in modo affermativo, aggiungendo però che ciò vale per quel tanto in cui il socialismo si è appoggiato sulla storia ed ha affidato a essa il compito dell’ultima conferma. Chi crede di avere ragione dalla storia non ha scampo quando essa gli dà invece torto. L’ideale è crollato per quel tanto che si è voluto presentare come reale.
Il nesso tra pace e giustizia e la volontà di non rassegnarsi a società profondamente e strutturalmente ingiuste è tuttora il fronte su cui si misura una politica alta, degna di questo nome. Si tratta, ai nostri giorni, di merce rarissima. È tale anche perché a essa è precluso di operare secondo i termini otto-novecenteschi di storia, progresso, sviluppo, crescita.
La politica internazionale deve assumersi a pieno titolo un compito inedito per le passate generazioni umane e alieno alla mentalità sia capitalistica sia socialista: salvaguardare, per quel che è ancora possibile, le condizioni nelle quali la terra possa essere un habitat confacente alla specie umana. Su questo fronte Hegel e Marx non hanno nulla da dirci; altro è il discorso per il significato del limite perno su cui ruota il pensiero kantiano.
Piero Stefani
La passione dell’Ottantanove
di Ida Dominijanni (il manifesto, 10.11.2009)
Vissuti diversi precipitano nel ventennale del crollo del Muro di Berlino, come diversi erano i vissuti che precipitarono vent’anni fa sull’evento, anche all’interno di quella sinistra radicale che respinse la conversione al verbo neoliberal adottata con la svolta della Bolognina dalla maggioranza del Pci. Il resoconto corrente delle posizioni, attestato sulla divisione fra «oltrepassatori» e «nostalgici» del comunismo, non ne rende conto. C’erano, per cominciare, differenze generazionali che pesavano non poco nella valutazione, e prim’ancora nella percezione emotiva, di quello che stava accadendo. Nella generazione che si era formata con la guerra, la Resistenza e poi la guerra fredda, il crollo del Muro significava il venir meno di un campo di appartenenza, per quanto già in precedenza criticato, e per qualcuno anche il tornare a galla di un incubo: raccontano le cronache postume che Alessandro Natta, ad esempio, reagì alle notizie che arrivavano da Berlino esclamando «Ha vinto Hitler», e non era certo l’unico, nel Pci e fuori dal Pci, a essere preoccupato dal ritorno della «Grande Germania».
Per la generazione che si era formata con il Sessantotto e contro i carri sovietici a Praga, il crollo del Muro significava invece la fine di un comunismo di stato e di partito con cui il «suo» comunismo libertario non si era mai identificato: crollava finalmente una gabbia che aveva resistito troppo a lungo. Vado con l’accetta naturalmente e me ne scuso, perché molte e variegate erano anche le linee di scorrimento fra queste differenze e infatti, fra differenze e linee di scorrimento, in quei mesi si discusse e si litigò, a sinistra, con una passione mai più ritrovata - se non, forse, su quell’altro evento decisivo che è stato l’11 settembre 2001. Il fatto è però che anche adesso che a sinistra ogni passione è spenta, molto di questo spegnimento ha ancora a che fare con i noccioli induriti o non sciolti di quell’anno.
Che infatti pare ieri, anche se è passato un ventennio densissimo di fatti e di misfatti per l’intera umanità, il mondo ha cambiato faccia con la globalizzzaione e tutti ragioniamo con categorie mutate. Bisognerebbe riponderare con pacatezza le ragioni e i torti di quella passione di allora, e filtrarli con la consapevolezza del dopo. Nella generazione della guerra fredda, ad esempio, l’incubo del ritorno della grande Germania era eccessivo; ma la percezione che col vento di libertà che spirava da Est sarebbe arrivata anche la tempesta di una nuova e durissima egemonia capitalistica da Ovest era giusta. Ed era viceversa sottovalutata dalla generazione successiva; che però aveva ragione a puntare sulle nuove contraddizioni, i nuovi conflitti e le nuove soggettività che si sarebbero dispiegati in un mondo solcato da fratture diverse da quelle geopolitiche e ideologiche novecentesche. Erano differenze che non avrebbero smesso, in seguito, di riflettersi in differenti letture della globalizzazione e differenti concezioni dell’agire politico.
Venti anni tuttavia non sono passati invano. A tutti, compresa la sinistra che allora scelse il verbo neoliberal, il ventennale che si celebra in questi giorni offrirebbe sul piatto un’agenda politico-culturale che invece tutti stentano a formulare con la necessaria convinzione. Come spesso capita, è un’agenda che si ricava facilmente, oltre che dall’analisi dei fatti, leggendo all’incontrario quella dell’ideologia dominante. Quest’ultima, in venti anni, non si è spostata di un millimetro, si è solo autoconfermata, fino a diventare un recitativo che non solo non rispecchia la realtà ma la contraddice. Il recitativo ripete che con il crollo del Muro ha vinto la democrazia, dando a questa parola la pienezza di un’autoevidenza che di evidente, invece, non ha più nulla.
E’ precisamente da quando ha vinto la guerra fredda che la democrazia ha cominciato infatti a svuotarsi, a deformarsi, a decostituzionalizzarsi. E’ precisamente da quando ha sconfitto il totalitarismo comunista che ha cominciato a far affiorare, come da un passato rimosso, rigurgiti del totalitarismo fascista che si insinuano nelle pieghe della passività politica, delle vocazioni plebiscitarie, dei culti del Capo. Ed è precisamente da quando ha vinto sullo stato sociale sovietico che la democrazia ha perso quel correttivo del welfare state che ne ha fatto nella seconda metà del 900 qualcosa di più credibile e più stabile dei regimi liberali d’inizio secolo. Nel corso di vent’anni, questa deformazione democratica ha percorso a Ovest il vecchio e il nuovo continernte, quasi un riflesso tellurico della scossa sistemica dell’89.
Metterla al primo posto dell’agenda politico-culturale è urgente, anzi indilazionabile. Per riparare i danni del fronte occidentale, ma non solo. Anche per decrittare il paradosso e la sorpresa di questo ventennale. Il paradosso è che la vera potenza vincente del ventennio non è l’America democratica ma la Cina non democratica. La sorpresa è che nell’America democratica una riforma sanitaria di valore epocale, con la sua iniezione di welfare sul liberismo sfrenato che fu, ha ottenuto il sì del congresso proprio allo scoccare del ventesimo compleanno del crollo del Muro.
«20 anni dopo il muro vi spiego il mio dissenso»
di Rossana Rossanda *
Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent’anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell’avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del ’68 ne aveva avuto un’intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l’egemonia dell’occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici. Se no anche la società europea sarebbe andata, nell’ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un’americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt’al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l’Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l’altra?
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L’errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più.
Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all’egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa. Malamente nascosta dall’esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell’opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri?
Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall’assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.
Rossanda, sul comunismo avete sbagliato anche voi
di Piero Sansonetti *
Come molte altre persone di sinistra della mia generazione - cioè di quella che ha iniziato a fare politica nel 1968 - ho per Rossana Rossanda una stima che sconfina nella venerazione. Quindi mi è molto difficile polemizzare con lei, sono intimidito e affetto da complesso di inferiorità. Però questo articolo che Rossanda ha scritto per il Manifesto subito dopo l’anniversario della caduta del muro di Berlino (articolo molto polemico con il suo giornale e con tutta la sinistra; articolo intitolato: "il mio dissenso") mi ha messo di fronte al"mio" dissenso da Rossana Rossanda e questa volta voglio esprimerlo. Anche perché non è solo un dissenso, e un disagio, verso il pensiero politico di Rossanda; ma è una cosa più ampia, che riguarda quasi tutti i padri nobili della sinistra italiana, cioè i miei maestri - da Ingrao, a Tronti e tanti altri - e una certa loro "pigrizia" - se posso usare questa parola un po’ aspra - che da tanto tempo vorrei rimproveragli ma no oso. Stavolta oso.
Riassumo tre dei concetti espressi da Rossanda nell’articolo che pubblichiamo qui sopra. Il primo è una affermazione presa a prestito da Hannah Arendt: finiremo con il ritrovarci in una società americanizzata, cioè in una condizione di libertà politica e schiavitù sociale. Il secondo è una domanda: dove è cominciato l’errore - si chiede Rossanda - con Stalin, con Lenin, con Marx? Il terzo è l’analisi dell’errore. Che in sostanza - schematizzo - consiste nel non aver saputo difendere lo Stato dal mercato, il lavoro dal capitale, e perciò essere rimasti senza un pensiero e una pratica anti-capitalistici.
Perché dissento? Provo a dirlo molto schematicamente. Io semplicemente credo che l’errore che ha fatto fallire la rivoluzione d’ottobre, e ha cancellato il comunismo, è un errore che sta nella rivoluzione d’ottobre e nel comunismo. E sta nel terzo concetto espresso da Rossanda: non penso che il problema della sinistra sia stata la sua incapacità di costruire una fortezza di idee anticapitaliste, credo che sia stato l’opposto: pensare che l’anticapitalismo fosse tutto - fosse esauriente - e che il sapersi battere eroicamente sulla trincea dove si scontrano capitale e lavoro salariato fosse risolutivo. Penso che nessuna delle due cose sia vera oggi, e penso - soprattutto - che non fosse vera nemmeno all’inizio del cammino. Il capitalismo è un aspetto, una fase, un versante della storia della sopraffazione: non è possibile separarlo da tutto il resto, consideralo l’unica fonte della sopraffazione e contentarsi di questo.
Se per caso ho ragione, vuol dire che l’errore non era marginale: era proprio uno sbaglio nelle fondamenta, nel presupposto. Così grande da andare anche molto oltre la nostra area. Perché penso che sia sbagliata anche la convinzione di Hannah Arendt. Non è vero che l’americanizzazione vuol dire schiavitù sociale e libertà politica. La libertà politica, da molto anni, è in fase di continuo ridimensionamento. In tutto l’occidente e in particolare negli Stati Uniti. La libertà politica oggi è poca cosa rispetto a quella degli anni sessanta, e così la libertà individuale, di pensiero, la libertà sessuale, la libertà sociale.
Come non era vero che si poteva costruire un mondo giusto sul piano sociale ma illiberale - l’illusione del comunismo - non era vero neppure il contrario: non si poteva realizzare una grande libertà fondandola sulla schiavitù economica. È un errore di giudizio che non ci riguarda? Ci riguarda eccome, è fondamentale. Io credo che aver pensato che i due campi - destra e sinistra, capitalismo e comunismo - si potessero dividere sui due Gradi Valori (uno per la libertà l’altro per l’uguaglianza) sia stato uno sbaglio. Non credo che sia possibile nemmeno pensare una lotta per l’uguaglianza che non parta dai grandi temi della libertà, e dunque della liberazione da sopraffazioni che - nella maggior parte dei casi - non dipendono solo dal sistema economico e dallo sfruttamento capitalistico.
E allora? Niente, non so andare avanti. Dico solo a Rossanda, a Ingrao, a Tronti, e tantissimi altri, che se continuano a restare prigionieri dell’idea che il problema della sinistra sia solo quello di rafforzare il suo radicamento nella classe operaia, è un guaio. Non perché il mondo sia cambiato (non solo perché il mondo è cambiato) ma perché neppure 50 o 90 anni fa le cose stavano così. Il leninismo è stata una rovina per la sinistra. E non credo che ce ne siamo liberati.
E allora, l’unica cosa che posso dire è che bisogna porsi di fronte a nuovi "pezzi" di pensiero politico - per esempio il femminismo, per esempio l’ambientalismo, per esempio il pensiero della nonviolenza - non come qualcosa da accogliere e sottomettere al proprio pensiero e alle proprie abitudini, ma come qualcosa che cambia noi stessi, come qualcosa non da annettere ma a cui sottomettersi.
Non mi pare, Rossanda, che nessuno di voi sia disposto a questo. Mi sbaglio? E credo che da quella data che tu indichi nel tuo articolo (1978-1981) voi - che avevate guidato grandi rotture culturali nella sinistra, fino a quel momento - non siate più riusciti a produrre molto di nuovo, in termini di pensiero.
E siccome tutta la generazione più giovane di intellettuali è subalterna al vostro pensiero e al vostro carisma, è l’intera sinistra ad essere rimasta senza capacità di pensare. Forse per questo è moribonda, o forse è morta.