RIPRENDIAMO QUI
il capitolo III della Terza parte del lavoro di Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 162-189: è un capitolo straordinario, per analisi e scrittura, dell’intera storia della filosofia occidentale. Buona lettura!
La Voce di Fiore
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INDICE DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II.Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli. .
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
FLS
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Tenochtitlan 13 agosto 1521. Conquistadores, la storia di un grande «desencuentro»
Forse quella dell’America non fu né scoperta né conquista, ma incontro mancato. C’è ancora tempo per un’altra modalità di relazione con l’alterità?
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 5 agosto 2021)
«Il sole si alza dal tuo letto di ossa [...]. L’alba lacera la cortina. Città, pila di parole rotte». Cinquecento anni dopo la sconfitta dell’impero azteca con la caduta di Tenochtitlan, la lacerante attualità dei versi di Octavio Paz vibra nel corpo giunonico di Città del Messico. Un organismo vivente più che una città. La spugnosa carne coloniale copre viscere dell’antica capitale precolombiana, per essere a sua volta ricoperta da una sottile pelle ultra-moderna. Gli strati coesistono, a volte confliggono, sempre si alimentano a vicenda. In questo flusso incessante, la megalopoli palpita, respira, sussiste. Impossibile separarli senza ucciderla. Una consapevolezza che, però, la città è incapace di tradurre in parole, come dimostra la polarizzazione delle narrative per l’anniversario. Perché implica fare i conti con l’evento che l’ha generata. E che, in fondo, ha generato l’America Latina.
Più ancora del 12 ottobre 1492, fu l’entrata a Tenochtitlan dei conquistadores al seguito di Hernán Cortés a segnare la nascita del mondo nuovo. E con esso il principio dell’età moderna. Fu “scoperta” o fu “conquista”? Fu incontro o fu scontro? Di sicuro, come afferma Tzvetan Todorov, fu l’esperienza più radicale, estrema, intensa di «scoprimento dell’altro». A differenza degli africani o degli asiatici, gli indo-americani e la loro esistenza erano del tutto ignorati dagli europei. Il confronto, dunque, fu di forza inedita. Mai come allora, gli uni e gli altri dovettero affrontare dei “simili diversi”.
Quel 13 agosto 1521 diviene, dunque, in un certo senso, il “parto” - per parafrasare Amalia Podetti - del globo, inteso come totalità. E del nostro tempo. Con tutte le sue contraddizioni. Non per niente, secondo Todorov, nel XVI secolo si è perpetrato il più grande genocidio della storia umana. Il massacro fu inaudito, questo è incontestabile. La sua definizione aritmetica, invece, è oggetto di dibattito tra gli studiosi ma tutti parlano di decine di milioni di esseri umani ingoiati in un vortice di violenza, schiavitù, epidemie. Magari una simile proporzione non fu voluta e intenzionale. Magari la leggenda nera anglobritannica - non proprio neutrale e benintenzionata - ha esagerato dettagli e crudeltà. Magari numerosi leader politici hanno cavalcato e cavalcano la strage per opportunismo. In questo, l’enfasi posta dal presidente Andrés Manuel López Obrador sul cinquecentesimo come sconfitta dei «veri messicani» è emblematica. Peccato che il Messico è - nel bene e nel male - è figlio di Cortés quanto di Monteczuma. Non sono, tuttavia, gli intenti, più o meno raffinati, di minimizzazione ad accelerare l’uscita dall’impasse.
Oltre che oggetto di studio, la mattanza d’America è soggetto di una storia di dolore, impressa, tuttora, nella carne e nel sangue dei discendenti dei nativi. Per costoro gli abusi antichi non sono che l’eco di quelli presenti, poiché la discriminazione e il rifiuto non sono terminati con la colonizzazione né con l’indipendenza né con le rivoluzioni e controrivoluzioni del secolo scorso. Per questo, gli occhi degli attuali maya si sono velati di lacrime nell’ascoltare papa Francesco affermare, a San Cristóbal de las Casas, il 15 febbraio 2016: «Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Curiosa, dunque, l’ostinata richiesta di López Obrador nel domandare delle “scuse” già fatte senza alcuna sollecitazione. Farsi carico della memoria ferita è la grande occasione offerta dall’anniversario. Non solo per riconciliare il passato. In fondo, cinque secoli dopo, l’essere umano si trova di fronte ancora l’enigma di Cortés. Esiste l’uguaglianza al di fuori dell’identità? C’è spazio per una differenza che non implichi la subordinazione? La distruzione di Tenochtitlan ci ha mostrato le conseguenze di una risposta negativa, come quella del conquistador.
Forse, più che scoperta o conquista, quella d’America fu un grande desencuentro, un incontro mancato. Eppure non è l’unica alternativa. Desencuentro, intraducibile in italiano come unica parola, contiene in se la dimensione dell’encuentro, l’incontro. Anche questo ci ha mostrato la storia del Continente. Dieci anni dopo la devastazione dell’impero azteca, non lontano dalle ceneri ancora fumanti di Tenochtitlan, a Tepeyac, una Madonna dalle fattezze indigene scelse il nativo Juan Diego come proprio testimone. Nello sguardo non assimilativo della Morenita si intuisce un’altra modalità di relazione possibile con l’alterità.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Io, filosofa del postumano, a lezione dagli insetti: «Le api sono superiori»
di Rosi Braidotti *
Adoro gli insetti perché nutrono una sublime indifferenza nei confronti di noi bipedi terrestri umani. Sono proprio l’opposto degli animali domestici, con i quali condividiamo fin troppo volentieri dolori e piaceri. È stupefacente pensare che i milioni di insetti che circolano in terra e per aria, non si curano minimamente di come noi li percepiamo o valutiamo. Non siamo noi il loro punto di riferimento, ma la terra stessa e il sistema cosmico-fisico nel suo insieme. Anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, noi umani non siamo capaci né di vederli né di sentirli, poiché il nostro dispositivo neuronale non ci consente l’udito infrasonoro, la visione microscopica o la recezione delle onde radar. Siamo limitati, a modo nostro. Moltissimi insetti invece, specialmente le api, sanno percepirci perfettamente anche a occhi chiusi, per via olfattiva.
Ignoranza da antropocentrismo culturale
Il nostro antropocentrismo ancestrale genera quindi una specie d’ignoranza collettiva o un deficit relazionale verso le altre specie. Siamo davvero in troppi a condividere la presupposizione - arrogante ed errata - che l’umano è l’apice della scala evolutiva. Le api sono magistrali nelle relazioni diplomatiche con noi: fanno come se la convivenza con gli esseri antropomorfici fosse consensuale e definitiva, invece non è così. Non sono addomesticate, ma collaborano con noi secondo un modello contrattuale relativamente chiaro. Citando Michel Serres lo definirei come un contratto socio-naturale. Lavorano per e con noi, condividendo profitti e rischi, ma tutto a modo loro. E difatti ogni tanto prendono e se ne vanno via in cerca di altre sistemazioni, svuotando le arnie e rompendo ogni legame con noi. Ritrovare gli sciami in fuga e riportarli nella casa predisposta per loro dagli esseri umani è un’operazione di carattere semi magico, frutto di sapienza antica, intuizioni primordiali e saper fare ancestrale. Non è da tutti saper comunicare con una specie cosi profondamente convinta della sua superiorità rispetto a noi. Certo, spesso poi le api ritornano nell’arnia, ma tanto sappiamo tutti che se ne andranno di nuovo, quando e come vorranno loro. A decidere sarà lei, l’ape regina - vero simbolo del femminismo postumano - che comunque è stata prescelta, eletta e nutrita dalle api lavoratrici, operaie qualificate in vari settori e specializzazioni. La vera potenza e forza costituente sono loro, anche se a determinare tempi e modi sarà lei.
Metafora = sfruttamento epistemologico
Noi umani invece siamo affascinati da questi insetti, alternando orrore e passione. La nostra cultura promuove un innamoramento generale specialmente nei confronti delle api. Anche quando le temiamo, o ci fanno ribrezzo, non ci lasciano mai indifferenti. E siamo golosi di miele e di propoli. Loro invece sono molto più attratte dai pistilli succulenti e tentacolari delle specie vegetali, carichi di polline e nutrienti vitali. L’umano in confronto è irsuto e insipido. Il problema però è che quando pensiamo a loro, noi umani precipitiamo in un vero delirio di analogie e metafore - un’overdose quasi infantile di entusiasmo nei loro confronti. La metafora è una forma di sfruttamento epistemologico e letterario, verso la quale dovremmo essere più critici. Prima viene l’ammirazione per la loro carrozzeria, il design visivo incorporato in quegli organismi cosi efficaci, un’estetica industriale avant la lettre capace perfino di sconfiggere la gravità. Non per nulla quelle forme compatte di api e vespe furono immediatamente recuperate dagli ingegneri della Piaggio negli anni Sessanta.
Gli insetti sono metafore viventi
Ma i voli in motorino sono pura metafora della velocità di fuga del capitale, e le loro ruote restano piantate in terra. Poi si scatena tutta la dimensione analogica morale. In un’ottica antropocentrica, gli insetti sono metafore viventi, figure araldiche distinte che evidenziano virtù specifiche alla nostra specie, non alla loro. La letteratura ma anche la filosofia straripano di bestiari moralizzanti, per esempio sulla moltitudine alata o strisciante di insetti come modello del proletariato globale, oppure del populismo organico e delle sue schiere indistinte di seguaci. Così l’ape laboriosa, al servizio della massa, simbolo della classe operaia nella propaganda politica di destra come di sinistra. Ma l’orgia associativa non si ferma: le fiabe, la cultura popolare ed i proverbi celebrano la cicala cialtrona, il calabrone scocciatore, le vespe moleste, le mosche noiose, gli scarafaggi schifosi, i ragni contorsionisti, le larve ributtanti. Per non parlare del miele, definito cibo divino...
Freud e l’esuberanza zoologica
La loro stessa esistenza punzecchia ed interpella la nostra integrità di homo/femina sapiens. «Ma come fanno a esistere, quegli esseri lì?», si diceva a casa mia ogni volta che appariva un insetto mostruoso. Forse la paura della diversità ha davvero radici non umane. La sessualità degli insetti d’altronde affascinava già Plinio il Vecchio e da allora le speculazioni degli umani sulla vita sessuale di questi organismi così radicalmente diversi dagli altri membri del regno animale continua ad accendere scenari fantasmatici torridi. Pensiamo alla mantide così detta religiosa, in realtà ninfomane assassina, le specie di cimici trans, capaci di cambiare e scambiare sesso, i casi di ermafroditismo e la promiscuità strategica dell’ape regina. La stessa rapidità dei cicli di vita e di riproduzione degli insetti, le combinazioni diverse e varie dei loro organi e sistemi sessuali, la mancanza di riferimenti visivi determinanti dell’appartenenza al genere fanno tutto per confondere ma anche eccitare l’immaginazione erotica umana. Loro invece, vanno avanti tranquilli nella loro esuberanza zoologica, infischiandosene di interpretazioni freudiane delle loro microscopiche proboscidi e pelosissime zampette.
La sessualità multi-specie
Minuscole ed impegnatissime, le api sono delle costruzioni morfologiche improbabili ed incomprensibili ibride e nomadi per eccellenza. Davvero inquietanti, questi abitanti del nostro pianeta! Libere e ferocemente affamate di contatti impollinanti, le api praticano quotidianamente una sessualità multi-specie, visitando fiori e piante in quantità industriale. I poteri trasformativi delle metamorfosi larvali, i ritmi delle loro mutazioni, le qualità virali che le contrassegnano intimidiscono e seducono gli umani. La nostra temporalità si avvicina molto di più a quella degli elefanti che ai ritmi di vita e di amore di farfalle, libellule o api. Le api hanno un ritmo esistenziale straordinario, sincronizzato con l’asse terrestre e solare, che permette loro di vivere in un tempo-spazio immenso, un’ecosfera cosmica, che loro contrassegnano con sistemi di riconoscimento in termini di gradi di calore, odore, intensità e profumo. Questa differenza radicale mi interpella. Le api mi sfidano a sviluppar un rapporto non-antropocentrico all’alterità che esse stesse rappresentano nella mia mente fin troppo umana.
Lo sciame digitale
Dovremmo inventarci una maniera non-antropocentrica di rapportarci alle api, che sono una delle forze motrici della Terra, un pianeta che non ci appartiene, come del resto dovremmo fare con tutti gli organismi non-umani. Umanizzarli significa ridurre la loro specificità. Osservare le api e studiarle per me è un apprendistato alla soggettività postumana. Ma non ci si libera dell’antropocentrismo in un batter d’occhio. Avvicinarsi alle api implica un cambiamento corporeo, un divenire-insetto che richiede l’acquisizione di sensi, facoltà e modi di percezione che non fanno parte del patrimonio genetico umano.
L’apicultura, anche come filosofia pratica del divenire, esige duro lavoro. La tecnologia contemporanea offre interessanti possibilità di aumentare le capacità corporee e neuronali umane, inserendo processi di trasformazione postumana. Nel mondo d’oggi, gli insetti e in particolare le api hanno ispirato le immagini dominanti dello sciame digitale, il nugolo di mega-bytes che circola in rete, cioè nel sistema ragnateloso dell’elettronica. Internet insegue ed imita il paradigma dell’insetto come artigiano cosmico. Micro-cellule alate, particelle elementari volanti: non c’è drone che non sogni di poter diventar ape, e difatti i droni stanno diventando piccolissimi.
Entità naturali e culturali, ecologiche e tecnologiche
Per gli umani, le api tracciano dei percorsi di diventare insetto che richiamano questi modelli tecnologici, ma di fatto si appoggiano sul contratto social-naturale che le api hanno saputo perfezionare nel corso di millenni. I soggetti postumani odierni sono entità naturali e culturali, ecologiche e tecnologiche allo stesso tempo. Ciò che li contraddistingue è il fatto di essere immanenti a un territorio, cioè di essere capaci di riconoscere e rispettare le radici materiali e terrestri della loro esistenza. In questo senso, divenire ape è anche un modo di far sparire l’umano nel seno della complessità del nostro pianeta: diventare terreste, divenire impercettibile. Elementari, complesse, atmosferiche e terresti, volanti e caserecce, vagabonde e precise, le api trasportano, traspongono e traducono incessantemente tra gli elementi, le entità, le specie e le cose. Il loro ronzio rende udibile il boato delle alte sfere, la loro attività molto specializzata produce effetti di ibridazione costante. Il loro volo ha il potere di riportarci a terra, di restituire la specie umana all’appartenenza profonda ad un pianeta di cui non sappiamo e non vogliamo aver cura. Imparare dalle api significa anche studiare le radici ecologiche del nostro essere, l’eterogeneità che ci permette di sopravvivere e di prosperare in uno scambio continuo con gli altri, umani e non umani.
L’etica della relazione
L’etica della relazione è il fattore decisivo che ci collega, anche affettivamente, agli altri. Il ronzio cosmico delle api m’interpella davvero e a volte mi spaventa. Scandisce i ritmi di un’etica del divenire collettivo. Ribadisce l’inter-dipendenza a livello molecolare ed ecologico, senza eliminare le differenze. È seduttivo ed esigente al tempo stesso - come può esserlo la materia vivente, nel momento in cui ci rendiamo conto che la vita non ci appartiene e che gli ospiti al banchetto delle dee alate siamo proprio noi.
* SETTE - CORRIERE DELLA SERA, 14.07.2021 (ripresa parziale - senza immagine).
Euro2020, la politica nel pallone
Ci sono manifestazioni sportive che raccontano meglio di qualsiasi opera il proprio tempo. È il caso di questi europei di calcio, rimandati, strani, complicati e in fin dei conti meravigliosi. Sia da vincere sia «da leggere»
di Nicola Pedrazzi (Il Mulino, 12 luglio 2021).
«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e a teatro, le mie vere università». Pare lo abbia detto Albert Camus, ma a prescindere dall’autore l’aforisma è portatore di verità profonde. Lo hanno dimostrato questi Europei 2020, che la Uefa voleva itineranti per festeggiare i sessant’anni della manifestazione, ma che a causa della pandemia si sono svolti un anno più tardi, coinvolgendo undici Paesi di un continente desideroso di assembramento, unito dalla voglia di tornare a dividersi.
Per un mese intero le immagini e le atmosfere provenienti dagli stadi di Azerbaigian, Danimarca, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Scozia, Spagna, Romania, Russia, Ungheria, hanno rappresentato un’Europa più estesa e complessa dell’attuale Unione europea, hanno raccontato le fratture del nostro spazio geografico, hanno dimostrato perché la «geopolitica del pallone» è divenuta un genere letterario serio e praticato. Il calcio delle nazionali intreccia da sempre relazioni politiche con gli Stati-nazione, il capitalismo, l’immaginario collettivo europeo, ma gli Euro2020 hanno miscelato questi tre ingredienti in un racconto quasi perfetto del nostro tempo. Proviamo a dipanarne le trame.
Calcio e nazione. Ce lo siamo dimenticati, ma a vincere i primi europei di calcio (luglio 1960) fu l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov, che piegò ai supplementari la Jugoslavia del maresciallo Tito: due modelli «alternativi» di comunismo, ma soprattutto due grandi Paesi multietnici che oggi non esistono più. È indicativo che la relazione tra calcio e nazione venga spesso indagata a partire dalla dissoluzione della Jugoslavia.
In un libro romantico uscito nel 2016, il giornalista Gigi Riva è arrivato a chiedersi cosa sarebbe accaduto se ai mondiali italiani il capitano jugoslavo Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona.
Era il 30 giugno 1990, e l’eliminazione della nazionale jugoslava consumatasi al comunale di Firenze fece da sfondo alla deflagrazione di uno Stato che per spezzettarsi reclutò proprio nel calcio simboli e milizie, facendo nei suoi stadi le prove generali di una battaglia etnica, come avvenuto un mese prima tra tifosi e giocatori della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado.
Anche alla vigilia di Euro2020 gli organizzatori paventavano operazioni di nation-building calcistico. Si temevano, ad esempio, le gestualità della Turchia di Erdogan che durante le qualificazioni si era rivolta al pubblico parigino con il saluto militare; si temeva che il tabellone incrociasse Russia e Ucraina, la cui maglia ospitava sul petto una mappa comprensiva di Crimea, la penisola del Mar Nero invasa e poi annessa dalla Russia con un referendum molto contestato nel 2014 - nonché, va ricordato, due slogan terrificanti cuciti sul colletto («Gloria all’Ucraina» e «Gloria agli eroi»), entrambi riconducibili ai gruppi nazionalisti che negli anni Trenta finirono per collaborare con la Germania nazista. Alcuni osservatori avevano caricato di valori politici anche il «derby della Brexit» proposto dal gruppo D, tra l’Inghilterra di «God Save The Queen» e una Scozia in cui nazionalismo, indipendentismo ed europeismo sono tornati ad allinearsi. Particolare attenzione era poi rivolta alla Macedonia del Nord, un Paese che non si era mai qualificato alle fasi finali e che esordiva con un nuovo nome negoziato nel 2019 per porre fine al decennale contenzioso con la Grecia, per la quale la «Macedonia» continua ancora oggi a essere una regione del proprio territorio. Pochi in Italia hanno seguito la vicenda, ma su pressione dei tifosi la federazione macedone ha dovuto ripristinare in fretta e furia la vecchia maglia su cui si staglia il sole rosso di Verghina, un riferimento a un reperto archeologico rinvenuto negli anni Settanta nella Macedonia greca che entrambe le tradizioni nazionali riconducono alla dinastia dell’eroe conteso Alessandro Magno.
Se dinanzi a queste dispute «balcaniche» e «primordiali» abbiamo la tentazione di sorridere è soltanto perché abbiamo rimosso che l’azzurro della nostra maglia è il colore di Casa Savoia (peraltro sopravvissuto nel vessillo della presidenza della Repubblica). Come i testi e le musiche degli inni ripassati in queste settimane ci hanno ricordato, gli Stati-nazione sono un’invenzione dei Risorgimenti europei, e questi non sono ugualmente distanti nel tempo e nella memoria di tutti i Paesi. L’Ucraina in fin dei conti non ha inventato niente: durante le qualificazioni all’europeo del 2016 la partita Serbia-Albania fu sospesa a causa dell’atterraggio sul campo di una bandiera raffigurante la Grande Albania etnica, comprensiva del Kosovo e dei faccioni di Ismail Qemali e Isa Boletini, due patrioti fondatori dello Stato albanese. In quel caso la provocazione sui confini non fu organizzata né avvallata dalla federazione albanese, ma il punto da considerare è che i governi dei piccoli Paesi che popolano l’oltre-Adriatico si trovano a stretto contatto con il momento genetico della loro statualità: sono più bisognosi di nation-building e dunque più propensi a conferire alle sfide calcistiche un valore politico. Problema che in diverse forme può valere anche per le Repubbliche dell’Est Europa, che al fine di «ritrovarsi» sono costrette a risalire a prima dell’Unione Sovietica, e fatalmente a ripescare i nazionalismi e le tradizioni del primo Novecento.
Calcio e capitalismo. Sebbene le insidie locali fossero note, la Uefa ha voluto girovagare per un continente post-pandemico, da Roma a Baku, da Bucarest a San Pietroburgo. Perché? La risposta è innanzitutto economica. Come ben spiegato dal giornalista del «Sole 24 Ore» Marco Bellinazzo durante un dibattito organizzato dalla rivista «Le Grand Continent», il principale interesse dell’istituzione presieduta da Aleksander Čeferin - la Uefa in buona sostanza federa gli interessi della Premier League inglese, della Bundesliga tedesca, della Liga spagnola e della Serie A italiana - è di rimettere l’Europa, o meglio la Uefa stessa, «al centro del pianeta calcio». I vessilli locali, di club e nazionali, sventolano ancora fieri tra i mille campanili del vecchio continente, nel mentre però la Fifa, la Federazione internazionale di cui la Uefa stessa è membro, dopo i mondiali di Russia (2018) sta organizzando le prossime edizioni in Qatar (2022: saranno i primi mondiali a tenersi da novembre a dicembre) e in Canada-Usa-Messico (2026: saranno i primi mondiali a ospitare 48 squadre invece che 32, e a svolgersi spalmati su tre Paesi).
Il progetto, sventato solo pochi mesi fa, di una Superlega dei club europei più blasonati di fatto alternativo alla Champions League (la manifestazione più importante gestita dalla Uefa) ha reso evidente che cosa può accadere quando i bilanci scricchiolanti di società storiche con assetti proprietari sempre più internazionalizzati incontrano i finanziamenti di una banca americana, in un contesto tecnologico che spinge per un calcio-intrattenimento globale e digitale e a cui la pandemia ha tolto per mesi ogni addentellato fisico.
L’insistenza con cui la Uefa ha scelto la formula itinerante e ha invitato i Paesi ospitanti a riempire gli stadi si spiega quindi anche con la necessità di uscire dal virtuale pandemico e di recuperare l’immagine di imprescindibile organizzatore delle passioni del popolo del calcio. Per convergenza di interessi populistici, il più disponibile alla mobilitazione di pubblico e alla recita della rinascita è stato il primo ministro ungherese Victor Orban, che ha concesso il 100% della Puskas Arena di Budapest di recente costruzione; ma persino il governo inglese, fiero di una campagna vaccinale gestita fuori dall’Ue e desideroso dell’appoggio Uefa in vista della sua candidatura per i mondiali del 2030, ha messo da parte tante perplessità sanitarie, concedendo una capienza di circa 60.000 spettatori già a partire dalle semifinali.
Negli ultimi mesi la Uefa è stata vissuta e raccontata alternativamente come un baluardo a difesa degli antichi «valori del calcio», come un organismo cosmopolitico che esporta il politicamente corretto dell’anglosfera, come un’istituzione ambigua, che mette l’arcobaleno nel logo ma strizza l’occhio a regimi e sentimenti nazionalistici; quando se guardata con realismo essa ci appare per quello che è: un attore di primo piano di una sport-industry che attraversa una fase epocale di cambiamento, e che dinanzi alla potenza economica di Usa, Russia, Cina e Paesi del Golfo - Bellinazzo l’ha definitiva la «Yalta del calcio» - cerca di difendere con ogni mezzo il suo posto nel mondo. Proprio come fatto per sventare il progetto della Superlega, quando Čeferin ha saputo giocare di sponda sia con diversi governi europei (Macron e Johnson innanzitutto) che con la ricchissima presidenza qatariota del Paris Saint-Germain, la quale tutto è fuorché locale.
Calcio e immaginario europeo. E veniamo così alla dimensione europea di una manifestazione che nasce per essere tale. Qui entra in gioco un immaginario che travalica gli immaginari nazionali e trascura le realtà economiche, perché ha a che fare con l’impareggiabile capacità del calcio periodico e mediatizzato di sincronizzare le esistenze di pubblici che non hanno nulla in comune. Tra dieci anni solo una minoranza di appassionati italiani sarà in grado di discorrere del goal di Pessina contro l’Austria (senza il quale gli azzurri non avrebbero passato il turno), ma milioni di europei ricorderanno il riscaldamento di Italia-Spagna sulle note di «A far l’amore comincia tu», avranno presente che è proprio in quei giorni che se ne è andata Raffaella Carrà, così come è proprio in quei giorni che ho comprato la macchina, ho mangiato in quel posto, ho festeggiato la maturità, si discuteva di arcobaleni, ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati.
Come ricordato a più riprese da Simone Conte nel delizioso Podcast Wembley gli europei e i mondiali di calcio costruiscono un lasso di tempo dentro al quale la vita di un atleta può cambiare per sempre, e per estensione la vita di chiunque si sincronizzi con lo spettacolo. Va inserito qui il dibattito, sconclusionato ma molto interessante, sui gesti simbolici come l’inginocchiamento in solidarietà alla lotta contro il razzismo. Un rito consolidato nel mondo anglosassone - tanto che anche chi è favorevole comincia a denunciare l’usura routinaria del gesto -, ma che una volta europeizzato dalle nazionali britanniche - con l’eccezione del Belgio, le nazionali continentali hanno preferito non aderire - ha scatenato discussioni a non finire non solo sul ruolo dello sport nella lotta a ogni discriminazione, ma sulla libertà di coscienza e il senso dei simboli in un mondo in cui, lo ha ricordato molto bene Daniele Rielli sul «Foglio», il marketing corporate e i social network trasformano i campioni in influencer standardizzati, privando di consapevolezza, gratuità e coraggio gesti il cui impatto solitamente è proporzionale al rischio personale che si corre. Giusto per fare un esempio, durante la presidenza Trump il primo atleta a rimanere seduto all’esecuzione dell’inno è stato il quarterback del San Francisco Colin Kaepernick, che di conseguenza non trova squadra dal 2017 - un’esclusione sportiva profondamente sbagliata, che però non gli ha impedito di diventare testimonial della Nike e protagonista di una serie Netflix, ed ecco di nuovo il corporate.
Un gesto poco mediato intendeva forse essere la richiesta del sindaco di Monaco Dieter Reiter di colorare d’arcobaleno l’Allianz Arena in occasione di Germania-Ungheria, per segnalare la protesta della sua città nei confronti dei recenti provvedimenti del parlamento ungherese volti a evitare la rappresentazione dell’omosessualità nei materiali scolastici e educativi (peraltro all’interno di una legge scritta per combattere la pedofilia). Il no dell’Uefa, che ha distinto tra la fascia arcobaleno del capitano tedesco Neuer (un gesto personale contro l’omofobia e dunque irreprensibile) e l’illuminazione dello stadio ospitante (una presa di posizione ambientale contro uno dei Paesi rappresentato in campo, e dunque non autorizzabile) è stato tempestivo nel rispetto dei regolamenti e scaltro nel lasciare comunque spazio al gesto simbolico, che messo in atto a margine della partita ha bucato l’immaginario europeo altrettanto o forse più che se fosse accaduto durante. Nonostante la sua squadra scintillante, talmente bella da impadronirsi dei cuori delle sue vittime - dei belgi in festa per il successo italiano ne vogliamo parlare? - la Federazione italiana ha per converso dimostrato tutta la sua impreparazione sotto al profilo comunicativo: facendosi cogliere di sorpresa da tematiche internazionali più che prevedibili, e poi fabbricando una contorta interpretazione «di squadra», per cui se si abbraccia un simbolo non lo si fa per il suo significato intrinseco (no al razzismo) ma in solidarietà con la battaglia dell’avversario (?!). Lato italiano è forse questa l’unica occasione persa dell’europeo, ma poco importa quando in finale sei l’unico Paese membro e dalla tua hai persino la presidente della Commissione europea, un’istituzione che per sua natura non fa mai simili professioni di fede nazionali.
In conclusione. Gli europei di calcio sono un afflato europeo che sgorga da contrapposizioni nazionali che non sempre il fatto sportivo riesce a sublimare; la Uefa è un attore economico in difficoltà, che sceglie l’arcobaleno per ragioni di marketing, sa vietarlo per ragioni assennate e dimenticarselo per dissennate convenienze (come riempire lo stadio di Budapest); l’immaginario europeo è un mosaico confuso, diviso e interconnesso, in cui è sempre più difficile distinguere tra l’atleta e il tifoso, perché tra Instagram e Playstation il primo rifruisce sé stesso, in un perfetto cerchio chiaraferragnesco in cui il guardante e il guardato, il milionario e il nullatenente contribuiscono alla reciproca omologazione (è per questo che oggi l’inno non si canta ma si urla, perché i giocatori sono tifosi di loro stessi, non è «colpa» di Pertini, Ciampi o Napolitano). Eppure, persino nelle pieghe meno edificanti di queste contraddizioni, persino nei suoi esiti negativi e paradossali, questo periodico modo di incontrarsi non è mai vano, perché nel confronto dei comportamenti delle proprie squadre e dei propri campioni ognuno è portato a chiedersi, fanciullo o adulto, cosa farebbe lui in quella situazione, e in ultima istanza, chi è, come intende stare e spendersi nel guazzabuglio contemporaneo. La metafora del calcio è politica nella misura in cui accende un’immedesimazione che non conosce classi e culture, sintetizzando in novanta minuti di prato i dilemmi più seri delle vite umane: la fatica, la sofferenza e il sollievo di uscirne in qualche modo tutti insieme. Oltre a una nazionale giocosa come non mai e alla sua meritata coppa europea, è questa morale universale che conviene riportare per un po’ di tempo a Roma.
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ...
Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?
di Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà *
In attesa di un picco che non arriva, chiusi nelle nostre case, attraversiamo giorni claustrofobici e interminabili. Perduti in noi stessi, ci aggiriamo nelle nostre abitazioni-prigioni come se queste fossero labirinti. Dalla mitologia greca riusciamo ad attingere, quasi sempre, un appiglio significativo al fine di evitare un panico illimitato, che può condurci ad azioni del tutto irragionevoli, quale quella ad esempio di spendere le giornate inseguendo il roboante susseguirsi di notizie e numeri (per dolo o colpa) poco chiari riguardo lo sviluppo della pandemia di Coronavirus. Cerchiamo perciò di conferire un senso alla claustrofobia, pure oggettiva, ragionando sull’accezione di mostro. Chi è il mostro oggi?
IL MINOTAURO CORONAVIRUS
Recependoci smarriti e intrappolati nel labirinto della nostra psiche, ci sovviene in mente il mito del labirinto di Cnosso, abitato dal Minotauro. Frutto della gelosia e punizione divina, il Minotauro è feroce, impietoso, mostruoso, pure sul piano figurativo: il suo corpo ricalca quello di un maschio/uomo, mentre la sua testa quella di un toro. Teseo si offre di uccidere il Mostro e vi riesce. Rimane il problema di uscire dal labirinto, problema che viene risolto grazie all’ingegnosità e intelligenza di Arianna, con il suo noto e semplice filo rosso. Molti possono ritenere che il Minotauro sia il Coronavirus, mentre le ricerche scientifiche somiglino al il filo d’Arianna: troveranno il vaccino e ci consentiranno di sopravvivere piuttosto bene anche al post-virus? In ogni caso, al cospetto del Coronavirus, il Minotauro pare mostruoso, in una misura decisamente inferiore. Il Minotauro, alla fin fine, esige da Atene solo sette ragazzini e altrettante ragazzine all’anno, mentre sulla strage causata dal Coronavirus, quando e se verrà sconfitto, il numero di persone morte si ipotizza assai alto a livello mondiale. Ed economicamente come ci ritroveremo? Cosa prevarrà nei sopravvissuti? Egoismo? Altruismo? Narcisismo? Individualismo? E che dire della possibile crescita esponenziale di populismi e nazionalismi?
LA MEDUSA GERMANIA-EUROPA
Sempre alla mitologia greca dobbiamo Medusa, mostro che a differenza di altri/e, è mortale e con un tratto specifico, ovvero una testa cinta soprattutto di serpenti. Siamo portati a credere che la “nostra” Medusa sia la Germania, in quanto pietrifica ogni generosità europea e che l’Europa ci salvERà. Invece, da qualche giorno, stiamo osservando il problema in modo diverso, dato che quest’Europa pare non risultare affatto Gli Stati Uniti d’Europa, ovvero una Repubblica Federale, composta da più membri (Stati), tra loro uniti. Occultare l’attuale realtà non serve a nulla, se non a precipitare in un pericoloso auto-inganno: un aspetto innegabile della realtà è il fatto che l’Unione Europea si è trasformata (grazie anche a una certa recente politica del nostro paese) in un coacervo di avidità nazionali, con in testa la Germania e i pochi Paesi “ricchi” e virtuosi Paesi, che mal tollerano gli “scapigliati” e “spreconi” cugini poveri e “meridionali”.
LA CICLOPICA MERKEL
Riflettiamo infine sulla narrazione politica di questi giorni che descrive una fredda nonché calcolatrice Merkel in quarantena dopo l’incontro con un medico, risultato positivo, mentre adotta rigide misure nei confronti dei tedeschi. E che lo stesso stiano facendo i suoi colleghi di mezzo Mondo (Gran Bretagna, USA, Olanda in ordine sparso). Occorre chiedersi perché, fino a poco fa, si siano tutti percepiti immuni dal virus. Siamo alle solite, o no? Merkel: un “mostro” che cavalca i “conformisti cervelli” tedeschi? Anche, ma forse ci dimentichiamo come negli anni la Germania abbia destinato più risorse del proprio PIL alla sanità rispetto ad altri Paesi (che hanno magari preferito “investire” in pensioni insostenibili) e come sia un Paese che non ha bisogno di impiegare esercito o forze dell’ordine per far rispettare regole e leggi anti pandemia.
“Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a una legittime angosce, tanto nell’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.“. Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà
CHI E’ ALLORA IL MOSTRO?
Sarebbe preferibile ammettere che non riusciamo a conferire un nome al Mostro. Non solo la realtà è così complessa e non c’è un unico mostro/nemico, ma dobbiamo ammettere che il “colossale”, nonché più che ragionevole, consiste nel nostro palese coinvolgimento in una situazione di cui risulta difficile una “veduta a volo d’uccello”, più alta e serena, basilare al fine di discernere tra miti e realtà. Oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze.
Possiamo così affermare che il Mostro non è un virus, né un singolo Stato né un evento. Il Mostro risiede in noi e si alimenta dalle e nelle difficoltà e condizioni avverse. Cerchiamo di guardare ai Mostri finora elencati con uno sguardo a volo d’uccello: il coronavirus è probabilmente determinato da uno sviluppo umano non sostenibile e dal conseguente cambiamento climatico. L’egotismo tedesco rintraccia un terreno fertile in quella politica italiana che ha fatto schizzare la spesa pubblica e il debito per fini meramente populistici, non affatto ai fini della crescita sul medio-lungo termine del Paese. Dopo la clamorosa bocciatura della Costituzione, l’Europa ha perduto la propria generosità perché di fatto l’Europa sognata dai Padri fondatori oggi non esiste e non esiste a causa del prevalere di troppi sovranismi (anche nostrani) oggi recriminanti.
COME CURIAMO I NOSTRI MOSTRI?
Come ci insegnano i Miti greci, all’intelligenza, alla razionalità e a una qualche astuzia dobbiamo la salvezza dai nuovi e illimitati Mostri, che accompagnano le nostre esistenze dall’inizio dei tempi.
Nel presente momento di difficoltà ci si appella profusamente all’empatia, anche se sarebbe forse meglio richiamare il bisogno di compassione e sostegno reciproco. La differenza non è poca: si corre infatti il rischio di limitare il nostro potere di reazione a bandierine, canzoncine e disegni, ovvero alla tentazione di crogiolarsi nella sofferenza. Abbiamo invece bisogno di saper condividere tale sofferenza, il che, pur non rinnegando i limiti e le difficoltà dell’oggi, si situa all’opposto di azioni e linguaggi che generano panico nell’altro-da-sé. Il Coronavirus è sì il Mostro (o uno dei mostri) di turno, al pari di altre pandemie che ci hanno afflitto in passato, ma pure al pari dell’atomica, impiegata a fini militari, dell’11 settembre, dell’Isis, e via dicendo, il che dovrebbe farci riflettere con sulla nostra “universale” condizione errante, sulla finitezza umana, sull’impossibilità dell’onniscienza.
Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a legittime angosce, quanto all’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.
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Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà, 1° aprile 2020 - dalla Quarantena ("amanutricresci").
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.... *
I compiti delle Nazioni
di Roberto Mussapi (Avvenire, sabato 9 febbraio 2019)
«Spesso si è discussa l’utilità delle spedizioni polari. Se si considera solo il vantaggio morale che si ricava da tali spedizioni, io lo credo sufficiente a compensare i sacrifici che per esse si fanno. Come gli uomini, che nelle lotte quotidiane, col superare le difficoltà, si sentono più forti per affrontarne delle maggiori, così è delle Nazioni, che dai successi riportati dai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate e spinte a perseverare nei loro sforzi per la propria grandezza e prosperità».
Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, tra il 1899 e il 1900 guida una spedizione, Stella Polare, con lo scopo di portarsi con una nave lungo una terra il più a settentrione possibile, e dal sito di sverno procedere con le slitte verso il Polo. La meta non fu raggiunta, ma lo scopo fu conseguito. Lo scopo della sua e di ogni altra spedizione, scrive Amedeo di Savoia, è di offrire un conforto e un modello all’uomo che nelle sue «lotte quotidiane», col superare le difficoltà si sente più forte per affrontarne altre maggiori. Così devono fare le Nazioni, «che dai successi riportati ai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate.» Figli non mandati in guerra, ma all’avventura della conoscenza del mondo.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "SIDEREUS NUNCIUS": UNO SHOCK, IERI E (ANCORA) OGGI. L’annuncio stellare (1610) di Galileo Galilei, l’alba di una nuova visione del mondo.
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
A cento anni da La politica come professione di Max Weber /
L’ultimo eroe. Conversazione con Massimo Cacciari
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 28.01.2019)
Cento anni fa, il 28 gennaio del 1919, nelle aule dell’università di Monaco di Baviera, un anno prima della morte, Max Weber tenne una delle sue più celebri conferenze: La politica come professione. In occasione dell’anniversario, la Mondadori ha da poco ristampato l’edizione che contiene questa conferenza e quella tenuta due anni prima, nella stessa università, La scienza come professione, con il titolo: Il lavoro intellettuale come professione, a cura e con l’introduzione di Massimo Cacciari. Il politico vero, secondo Weber, è chi, con perseveranza, senza mai scoraggiarsi, tenta di conciliare vocazione, dedizione alla causa, adesione convinta a determinati valori, con spirito progettuale, professionismo, responsabilità rispetto ai fini, previsione dei mezzi adeguati alla loro realizzazione e delle conseguenze dell’azione. Un traguardo originale che Weber indica agli studenti e ai giovani che lo ascoltano, in un momento storico drammatico per la Germania, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, e per la città stessa di Monaco, scossa da agitazioni rivoluzionarie, consapevole di come l’agire politico, nel contesto della società di massa, possa generare tanto democrazie mature quanto avventure totalitarie o populismi. Di questa straordinaria attualità della lezione del sociologo tedesco abbiamo parlato con Massimo Cacciari.
Francesco Bellusci: Professor Cacciari, lei ha sempre sostenuto l’importanza di questa conferenza di Weber, presentandola come una lezione propedeutica a ogni corso di formazione politica, soprattutto se rivolto ai giovani. Comincio col chiederle: perché conciliare etica dei principi ed etica della responsabilità è però sempre difficile, forse impossibile, e tuttavia l’agire politico non può e non deve ridursi mai all’uno o all’altro, pena il suo snaturamento?
Massimo Cacciari: Il politico di Weber è un "tipo", non la descrizione di qualche "contingenza"; aiuta a far ordine, a comprendere macro-tendenze generali. La realtà è sempre poi una commistione di "tipi". E ogni commistione è poi storicamente relativa. Il "tipo ideale" del politico è chi formula fini "economicamente" raggiungibili, chi si distingue dal profeta e dal demagogo, chi dispone, sì, di un carisma, ma collegato alla sua Zweckrationalität. Si tratta di un ibrido già in sé - ma la maionese impazzisce se c’entrano altri elementi!
Già in L’Arcipelago (Adelphi, Milano 1997), lei rifletteva sull’“ultimo eroe” weberiano. Eroico perché accetta la possibilità che i propri progetti s’infrangano o si ridimensionino sullo scoglio della macchina burocratica e, nello stesso tempo vede, in questa il mezzo indispensabile per la realizzazione di quei progetti. Ma lei insiste anche sul fatto che la vocazione del politico è una “chiamata” che, nel tempo della “morte di Dio” e della “svalorizzazione” dei valori trascendenti (Weber è uno dei primi che apprende a fondo la lezione di Nietzsche), non proviene più da un’autorità extra-umana o da un ordine necessario. Allora: chi “chiama” il politico, a questo compito nella sua vita?
Massimo Cacciari: Chi chiama il politico? Nessuno - la voce del silenzio - la sua "voglia" di rispondere, cioè la sua responsabilità nei confronti di una situazione che intende mutare. Oppure (e anche qui ecco il "doppio") la sua volontà di potere - senza la quale non esiste politico, comunque. Il "tipo" del politico che Weber propone si distacca nettamente da ogni sfondo religioso.
Sono passati più di dieci anni dall’edizione che lei ha curato delle due conferenze. Rispetto ad allora, si sono accentuate alcune tendenze che segnalano la crisi della democrazia rappresentativa. Oggi, il “demagogo” populista prende di mira ora i partiti tradizionali, ora la burocrazia, additandoli come un ostacolo o addirittura una specie di nemico interno per i suoi progetti, presentati come specchio fedele degli interessi popolari. Cioè, prende di mira i due cardini dello Stato democratico moderno per Weber, intesi rispettivamente come la fucina dei “politici di professione” e dei “funzionari specializzati”. È ancora valido il modello di Weber?
Massimo Cacciari: Ciò riguarda la democrazia in generale. Il processo di democratizzazione non era concepibile per Weber senza partiti. Partiti e Stato democratico costituivano un insieme inscindibile. Eppure nient’affatto pacifico - poiché il partito (parte) tende naturalmente a farsi Stato, e cioè a rovinare la democrazia. Bisognava mantenere il rapporto in una "equilibrata tensione" - ecco di nuovo l’eroismo del vero politico!
Adesso, le chiederei qual è il nesso con la conferenza che Weber tiene due anni prima, nel 1917, La scienza come professione. Come si configura per Weber il rapporto tra l’uomo di scienza e l’uomo di azione? In che senso egli considera la scienza e la prassi politica come due forme del lavoro intellettuale? Lo scetticismo su scoperte e applicazioni scientifiche, introdotto nel dibattito pubblico, dimostra come la scienza e la razionalità scientifica, in quanto “valori” e “decisioni” dell’Occidente moderno, non si possano sottrarre al dramma inestinguibile del conflitto di valori. Un aspetto che lei sottolinea nelle prime pagine dell’Introduzione, quando, interpretando anche il Weber metodologo delle scienze storico-sociali, ci dice che la scienza verrebbe meno al suo stesso rigore se avanzasse il suo primato sugli altri saperi, perché - scrive - “la scienza è relativa in quanto all’origine”, ma - aggiunge - “non è relativistica in quanto al suo metodo e al suo rapporto con la realtà che intende comprendere”.
Massimo Cacciari: Scienza e politica formano insieme la "geistige Arbeit" - devono funzionare insieme. Non vi è Stato moderno senza lavoro scientifico, senza rapporto con la Tecnica. E non vi è Tecnica se non sia intrinseca allo Stato. Eppure anche qui si tratta di Due e non di Uno! Ecco il politico di nuovo: che conosce l’essenzialità del lavoro scientifico e in uno conserva l’autonomia delle proprie decisioni. La "politica al comando" è altrettanto utopistica di una "scienza autonoma". Il capitalismo è essenzialmente il sistema che le unifica nel loro stesso contraddirsi.
Si può dire che l’“ultimo eroe”, cioè il politico di vocazione, fosse per Weber l’antidoto agli “ultimi uomini” di cui parla Nietzsche nello Zarathustra e che egli menziona nelle celebri pagine finali dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo? È nel Berufspolitker che Weber confida, per contrastare il destino di un mondo sociale totalmente amministrato e burocratizzato che intravede nel futuro dell’Occidente?
Massimo Cacciari: Weber cita esplicitamente Nietzsche a proposito degli "ultimi uomini" - sono gli "impiegati" senza spirito e i gaudenti (coloro che si godono il proprio benessere) senza cuore. Sono gli invidiosi, gli egoisti, Aristotele avrebbe detto i rappresentanti della pleonexia. Il sistema capitalistico li genera e rigenera - vi sarà un politico in grado di governarli? Weber alla fine della vita ne era disperato.
Weber vedeva, al suo tempo, l’imprenditore industriale moderno come indisponibile alla carriera del “politico di professione”, in quanto inesorabilmente assorbito dalla gestione razionale della sua impresa. Da Berlusconi a Trump, ormai anche il tycoon sembra proporsi come capo politico. Come spiega questo fenomeno? Espone sempre al rischio di una commistione o di una confusione tra l’“impresa politica” e l’“impresa economica”?
Massimo Cacciari: La commistione tra politica e economia genera il capitalismo politico - politica diviene mero attributo. Credo che sia proprio questa la fase che attraversiamo. Non se ne esce regressivamente, nella nostalgia di un "metti la politica al comando" - ma con politici in grado di contra-dire l’economico, di esserne potenti interlocutori - e cioè politici di vocazione dotati di strutture tecnico-organizzative adeguate. Siamo tanto lontani da questa situazione da avvertire l’idea come un’astratta utopia... e questo la dice tutta.
Per Weber, la vanità condanna un politico sempre all’insuccesso o al tramonto o, comunque, ne pregiudica la performance. È d’accordo?
Massimo Cacciari: La vanità è l’opposto della volontà di potenza. quest’ultima sa che cosa deve avere per funzionare e sa calcolare i propri obbiettivi per riuscire. La vanità crede di potere tutto. È esattamente ciò che rovina il politico di professione.
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. In principio era il Logos ... *
Il sogno della Bellezza
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 30 gennaio 2019)
«Un tempo mi stupivo perché una guerra così lunga/ d’Europa e d’Asia davanti a Pergamo/ fosse stata causata da una donna./ Adesso vi comprendo, siete stati saggi,/ Paride e Menelao, tu a rivolerla, / Paride a non volerla cedere. / Fu così bella che valse la pena// che in suo onore Achille morisse, / e Priamo lodasse le cause della guerra.»
Molteplici le cause delle guerre. Spesso economiche, a volte mascherate da valori civili, patriottici o religiosi. Qui però non ci riferiamo a una delle tante tragiche guerre storiche, ma alla prima, che, anche se realmente avvenuta, diviene mito di fondazione del nostro mondo. Troia esiste e fu assalita e arsa dalla lega dei greci.
Ma pur se storica, quella vicenda è mitica, oltre il tempo della storia e del calendario: un poeta, Properzio, il primo ma non l’unico, intuisce il mistero e il segreto di quella terribile contesa: Elena, moglie di un nobile greco, fuggita con un principe troiano: Elena sarà dell’uno e dell’altro, e mai di nessuno definitivamente. È la bellezza assoluta, irraggiungibile, che nessuno potrà mai definitivamente possedere.
La guerra dei primordi è la perversione di un sogno umanamente comprensibile: ognuno di noi vuole la Bellezza, e non comprende che non può essere solo sua. Ci preesiste.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...
"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO.
VERITA’ E VERIDIZIONE: PAROLE PER UNA NUOVA POLITICA. Agamben fa un passo innanzi con Foucault, ma cento passi indietro senza Kant.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Filosofia. In «Partorire con la testa» (Marsilio) Dorella Cianci ragiona sulla maieutica e fa emergere lati meno noti del pensatore greco, anche al di là della versione platonica
Ritratto inatteso di Socrate, sapiente maestro di ribelli
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Una persistente e densa immagine mentale in evoluzione. Mito e raziocinio ruotano fra la tecnica dell’anamnesi e gli aspetti terapeutici della forma dialogica verso la scoperta del sé nascosto nell’inconscio, sorpreso a ragionare con reminiscenze primordiali. Tant’è che oggi si trovano a confluire sulla genesi del pensiero differenti discipline: pedagogia, storia, antropologia, psicoanalisi, filosofia, retorica, teologia.
Con analisi accurata delle fonti dall’antichità al Medioevo, un inatteso Socrate, non più esclusivamente «controllato» dalla versione platonica, scopriamo ora nel volume Partorire con la testa. Alle origini della maieutica di Dorella Cianci (Marsilio).
Nata a Cerignola (Foggia) nel 1984, filologa classica, docente universitaria, l’autrice ritiene che Socrate sia passato alla storia come filosofo grazie alla volontà dall’allievo Platone. È sufficiente leggere fra le righe dei documenti. Una di queste prove si trova non a caso in un dialogo platonico, il Menone. Un giovane schiavo, che credeva di non avere dubbi, dopo l’incontro con Socrate non ha più certezze. Anzi, il ragazzo viene indotto a ricercare il sapere, perché si trova in uno stato di fame della conoscenza.
Socrate è davvero un maestro di parto, un’abilissima ostetrica. Da dove arriva l’idea di generare senza utero se non dal mito? È noto come Atena, dea della sapienza, fosse la figlia prediletta di Zeus, nata dalla testa del padre, aiutato da Efesto che gli spaccò il cranio in due. La potenza simbolica dei miti è ineluttabile nella cultura classica. Giulio Guidorizzi, grecista di chiara fama, sottolinea nell’illuminante prefazione: «Nulla nasce senza dolore e rottura. Questa è in definitiva la natura della maieutica socratica; ...a poco a poco, una nuova idea viene al mondo e con essa un nuovo modo di essere cresce nella mente di una persona, che alla fine ne viene mutata fondamentalmente».
Senza dubbio la teoria socratica parte dall’assunto che la verità esiste già nella mente di una persona. Siamo nel campo dell’inconscio. Tocca al maestro, induttore di idee e non solo levatrice, far emergere la coscienza di sé, quando ancora l’allievo giace in uno stadio d’inconsapevolezza.
Platone attribuisce al comico Aristofane la maggiore responsabilità per la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. È vero, nelle Nuvole, commedia rappresentata nel 423, Socrate viene trasformato in un buffo manichino, maschera ridicola che si arrabbia nel caso qualcuno gli faccia abortire delle idee, un ateo che rigetta la religione olimpica. È il segno che Aristofane testimonia l’opinione dell’uomo della strada, mentre il pubblico ride del «supremo corruttore dei ragazzi». Nessuna colpa, quindi, del comico per la condanna decisa contro il filosofo dopo più di vent’anni dall’allestimento teatrale.
La questione maieutica in Socrate nasce dall’esigenza di proporre una pedagogia nuova. Chi esce dalla sua scuola è un ribelle pronto a demolire i valori etici dell’educazione tradizionale. Per questo Socrate deve morire.
Il Socrate che non t’aspetti svelato da Dorella Cianci
La rigorosa ricostruzione della figura del pensatore nel suo “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” (Marsilio)
di Mirella Fortis (Leggere:tutti, 28 novembre 2018)
Un lungo minuzioso lavoro di analisi della letteratura greca, ma anche di tanti testi successivi, dell’antichità e del Medioevo. Da questo scaturisce il Socrate che non ti aspetti. Con rigore scientifico è Dorella Cianci a ricostruire in modo anche imprevisto uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi nel suo libro “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” pubblicato da Marsilio. La figura di Socrate si allontana così non solo dai luoghi comuni ma anche dalla descrizione praticamente monopolizzata da Platone.
Antichista e filologa, docente nell’Università Lumsa di Filosofia con i bambini e assegnista di ricerca in storia della filosofia medievale, Dorella Cianci è risalita alle origini della maieutica, parola che deriva dal greco con un richiamo all’arte ostetrica, e che fu adoperata da Platone nel “Teeteto” per definire il metodo attribuito a Socrate: il dialogo ottenuto con il susseguirsi di domande e risposte per sollecitare l’interlocutore, come una levatrice, a partorire la verità.
Stanno proprio così le cose? Attenzione: “E’ Platone che vuol far diventare Socrate un vero filosofo!” esclama la Cianci. Che avverte come Socrate operi con convinzione e agilità “nella paradossalità dei suoi nuovi valori di insegnamento, quegli stessi valori che erano balzati agli occhi di un semplice comico, Aristofane, molto più di quanto il fedele Platone li avesse notati!”.
Ed ecco la conseguenza ricavata dall’esame di un’ampia gamma di fonti: “Socrate abortiva e partoriva idee negli allievi, dicendo poi che questi allievi facevano tutto da sé, ma a ben vedere - da bravo maestro - sapeva tirare da burattinaio colto i fili del suo discorso esattamente dove voleva e anzi,,, in alcuni casi era totalmente proiettato su di sé, tanto da creare idee esclusivamente a sua immagine e somiglianza”.
I primi importanti e qualificati apprezzamenti all’originalità dell’impostazione di Dorella Cianci sono espressi già nella prefazione al libro “Partorire con la testa” scritta dal grecista e filologo Giulio Guidorizzi: “Seguo con un certo agio la strada segnata dalla Cianci” riconosce Guidorizzi. In particolare osserva: “Nel "Menone" Socrate non attua alcun parto, non fa nascere ciò che è dentro il ragazzino, in relazione a concetti complessi a lui estranei. È l’atteggiamento
La Cianci, pertanto, entra nel vivo della “pedagogia del maestro Socrate” che, con il suo “paradosso educativo, si è elevato a potente comunicatore, usando una strategia difensiva che lo mettesse al riparo dall’accusa di corruzione dell’animo giovanile”. Così ha mirato a “creare naturalmente allievi grazie alla sua autorità dialettica, pur affermando di non essere un maestro e chiarendo, già nell’"Apologia", che cosa intende con l’essere o meno maestri”.
A proposito di comunicazione, spicca nella prima citazione di “Partorire con la testa” la constatazione di Diogene Laerzio secondo cui “di fatto Platone ha messo per iscritto un numero importante di discorsi che Socrate non ha tenuto”. Sembra quasi una traccia per arrivare al paragrafo di pagina 28 dedicato a una “Postilla sul fake” anzitempo. Le falsificazioni delle informazioni hanno dunque un cuore antico, fa sapere questo libro.
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Dorella Cianci
Partorire con la testa. Alle origini della maieutica
Marsilio, 2018
Euro 13,00, pp. 160
AL DI LA’ DEL PARTO MASCHIO (O FEMMINA) DEL TEMPO. La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica... *
Mitologia
L’eros senza maschio di Leda e il cigno
Il dipinto ripropone il simbolo della donna che dall’antichità ai grandi artisti del Rinascimento afferma la propria indipendenza
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 20.11.2018)
Ed ecco che a Pompei la sempre imponderabile cabala dei crolli e dei controlli fa riemergere una variante ancora più antica, pittorica, di un episodio amoroso da sempre simbolo, nella storia della pittura e della letteratura, dell’autoerotismo femminile: del piacere che la donna può darsi senza la cooperazione del maschio, anzi, di alcun umano. Nella scultura adrianea, copia di un originale ellenistico, il corpo di Leda, completamente nudo, è contratto nell’amplesso, la mano celata nel grembo premuto alle piume, stretto fra le unghie di un onirico cigno dotato di doppio fallo, dove quello proteso nel lungo collo, cui le labbra si accostano in un’appena dissimulata fellatio, prevale sull’altro che si insinua fra le cosce tremanti - per citare i versi di Yeats - della ragazza che è in piedi e barcolla. Nell’altrettanto esplicito erotismo dell’affresco pompeiano, Leda, i drappeggi dell’abito appena scostati, ancora cinta di diadema e calzari, è abbandonata su una sedia ed è al seno scoperto che si protende il becco del bianco fantasma erotico avvinghiato alle sue cosce.
Nelle grandi Lede della storia dell’arte successiva c’è sempre qualcosa di ineffabile dipinto sul viso della donna da cui non a caso nascerà Elena, e con lei la guerra di Troia, e dunque Roma, con la fuga di Enea. Perfino il sorriso leonardesco del dipinto della Galleria Borghese è solo uno dei tanti misteriosi, allusivi, indecifrabili sorrisi che Leda, moltiplicata nel suo sogno in infinite immagini pittoriche, regala prima, durante o spesso dopo l’amplesso all’empatia dei pittori.
Del resto, della meno censurata tra le Lede dei grandi maestri, quella di Michelangelo, non sopravvive l’esecuzione finale, smarrita o censurata in un giro di corti che dalla committenza estense si arenerà in quella di Francia, ma la copia di Rosso Fiorentino della National Gallery dà un’idea di quanto meno pudica della Leda post coitum di Leonardo fosse l’idea che Michelangelo aveva di quell’amplesso.
Il cigno non è una bestia. È la figurazione simbolica dei desideri repressi e insieme delle paure erotiche femminili. Tutta l’imponderabilità e irrefrenabilità dell’erezione maschile è richiusa e dischiusa in quelle grandi ali frementi, che nell’iconografia assumono, come sempre le immagini dei sogni, proporzioni vertiginosamente variabili, ora ridotte alla sensualità del passer della Lesbia di Catullo, ora talmente gigantesche da far intravedere nel corpo a corpo erotico delle Lede avviluppate nelle loro piume qualcosa di simile alla lotta di Giacobbe con l’angelo. In effetti, se a qualcosa la loro tradizione iconografica può essere accostata, è quella di una vertigine del volo - pensiamo allo slancio di Icaro - che il mondo greco, attingendo alla tradizione orientale, consegnerà all’angelologia cristiana e islamica.
Che siano di chimera, di fenice o di cigno, che richiamino Eros o Ermes dal piede alato, e con lui la natura stessa del sogno, le ali, tipico oggetto di fobia sessuale femminile, sono un altro potente simbolo di hybris fallica. Creato dalla fantasia, dalla forza del sogno, dall’urgenza del simbolo, il cigno di Leda è quanto di più lontano da una concreta presenza animale.
Nulla a che fare con gli accoppiamenti bestiali della mitologia greca, come quello di Pasifae col nero, potente toro dall’immenso membro, che non a caso farà sorgere alle fondamenta dell’edificio psicologico greco una creatura - il Minotauro - che simboleggia nella mitologia l’assoluto irrazionale, la parte bestiale che è in noi, tanto avida quanto sapiente, tenuta a guardia del grande labirinto dell’inconscio.
Ma neanche quel figlio, per i greci, è il male, anzi. Sarà la sua uccisione da parte dell’infido eroe Teseo a produrre la combinazione di eventi che porterà a un’ancora più potente compensazione simbolica: a consegnare Arianna, sorella del Minotauro e suo esatto contrario, sacerdotessa della razionalità della dea Atena, a farsi sposa, abbandonata a Nasso, di Dioniso, il dio della natura scatenata e dell’ebbrezza.
Il prodotto dell’accoppiamento di Leda non sarà meno inquietante. Elena incarnerà la femminilità più potente di tutto il mito greco, quella cui non si resiste, capace di addormentare con il suo nepente il cuore degli uomini, di scatenare le loro guerre, di disseminare, con la sua forza di donna creata dal puro piacere di una donna, il massimo disorientamento nel mondo dei maschi. Elena dalle bianche braccia, candida e onirica come "il bianco tumulto" che la fa nascere, sarà la femme fatale per eccellenza, la splendida strega capace di scardinare ognuno degli aspetti dell’egemonia maschile.
Il mito di Leda è dunque il mito d’origine dell’autonomia femminile, del suo desiderio sessuale emancipato dal maschio, delle sue non solo erotiche ma anche concrete paure - poiché certo essere ingravidate da un sogno è da sempre nelle donne uno dei più irrazionali e archetipi timori, non a caso esorcizzato nelle storie di maghe e di streghe. È forse questo solo, nel mito di Leda, l’intervento di Zeus.
Per una volta assolviamolo dalla sua fama di stupratore. Quello di Leda è il contrario di uno stupro. E la vasta fortuna della sua iconografia è uno dei tanti segni nascosti, sotterranei, carsici che la psiche femminile ha lasciato, indecifrati dai molti, còlti dagli artisti e dai poeti, serbati e sussurrati nel segreto delle corti, della sua indipendenza e della sua libertà.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"PARTORIRE CON LA TESTA. Alle origini della maieutica" (Dorella Cianci, Marsilio, Venezia, 2018).
SOCRATE, "LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE....
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta (la Repubblica, 17.11.2018)
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918). Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale - una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile - stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
La sistematica di Linneo
di Luigi Benevelli (POL.IT, 14 gennaio, 2014)
Il pensiero occidentale è contrassegnato dalla prepotenza. Il grande sviluppo della sistematica ebbe pienamente luogo solo nel Settecento, con il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), che cominciò a organizzare le specie raggruppandole in generi, e quindi raggruppando i generi in una serie di categorie superiori basandosi sulle somiglianze morfologiche e anatomiche.
Da quando nel 1735 venne introdotta la sua nomenclatura binomiale - basata sul modello aristotelico di «genere prossimo» e di «differenza specifica» - si è iniziato a declinare in latino il genere e la specie degli organismi.
Linneo ha teorizzato un sistema di classificazione in cui il genere HOMO, posto in cima al regno animale, viene suddiviso in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan.
È curioso come la nostra cultura abbia sempre teso a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime, e il buio come il demoniaco, il basso, il territorio dei bruti. Secondo il sistema delle similitudini e analogie, il Sole - simbolo platonico del Bene, che sempre nella sua corsa, tende a occidente - segna l’uomo occidentale.
Il secolo dei Lumi, nelle retorica settecentesca, porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; allo stesso modo, nella retorica coloniale del secolo successivo, dall’uomo occidentale procede la civilizzazione che porta la luce nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi. Il che è perfettamente in sintonia con la classificazione linneiana di Homo sapiens in sei decrescenti varietà diurne, quattro varietà di «uomini normali», catalogabili secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le corrispettive «qualità morali», e due varietà di «uomini anormali».
Nella tassonomia di Linneo abbiamo
Nella decima edizione del Systema naturae (1758), compare la classe dei primati, che sostituisce il precedente Anthropomorphae; qui avviene l’abbinamento del genere Homo con la specie sapiens. Dopo la scoperta dei fossili nella valle tedesca di Neanderthal, l’Homo sapiens divenne sapiens sapiens.
Sul tema, nel sito, cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
MONDIALE 2018
Italia-Thailandia. Una "partita" di lunga durata e la palla-fiducia che bisogna saper passare **
Sul cavaliere della I-THAILANDIA....
di Federico La Sala *
Caro Direttore,
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La Repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama "Forza ITALIA"...
Il trucco del NOME ("Forza ITALIA") è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io ritengo, sia stata la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e soprattutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo!
Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri.
LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi.
Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo.
Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco!!!
M. cordiali saluti
Federico La Sala
*Il dialogo, Venerdì, 30 maggio 2003.
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Tito, Héctor e la palla-fiducia che bisogna saper passare
di Mauro Berruto ( Avvenire, mercoledì 11 luglio 2018)
«Tuya, Héctor!». Se vi trovate in Uruguay e qualcuno vi dice così, beh significa che siete degni di stima e fiducia. Colui che sta all’origine di questo modo di dire, è un calciatore, Héctor Pedro Scarone, soprannominato El Mago, primo destinatario di quella frase («Tua, Héctor!»), rivoltagli in un istante destinato a passare alla storia da un suo collega. Era il 13 giugno 1928, giorno della finale del torneo di calcio ai Giochi Olimpici di Amsterdam: Uruguay e Argentina, le finaliste, sono sull’1-1. In campo una parata di stelle fra le quali due, particolarmente brillanti, con la maglia celeste dell’Uruguay.
Si chiamano Héctor Scarone e Tito Borjas. Ragazzi che non conoscono ancora i loro destini: Scarone giocherà anche in Italia e, Giuseppe Meazza, suo compagno di squadra all’Inter dirà di lui che faceva cose che «noi potevamo solo immaginare». Borjas è un giocatore pazzesco, ma la sua carriera e la sua vita finiranno presto, solo tre anni dopo, quando disubbidendo ai medici che gli avevano imposto riposo assoluto dopo un forte dolore al petto sentito mentre giocava una partita, lasciò la propria abitazione per andare sugli spalti a vedere il match decisivo per il titolo dei suoi Wanderers Montevideo e al gol del vantaggio dei compagni di squadra venne stroncato da un infarto.
In quel giugno del 1928, ignari del loro futuro, Héctor e Tito stanno giocando, insieme, la finale olimpica. Tuttavia fra i due non scorre buon sangue, sono troppo forti per stare nella stessa metà campo. In realtà, Héctor e Tito non si parlano proprio, da tantissimo tempo, ma al 28° del secondo tempo, Tito ha la palla fra i piedi, vede Héctor arrivare con un razzo e decide di rompere quel silenzio. Passa la parla e gli urla: «Tua, Hectòr!», come a dire: "Vedi di farcela, voglio fidarmi di te". Héctor segna un gol straordinario da 40 metri.
L’Uruguay diventa campione olimpico ai danni degli odiati rivali argentini e da quel giorno, nel Paese, c’è un nuovo modo di dire quando si vuol trasmettere il senso di una fiducia incondizionata, che va oltre ogni divisione. Parole che vengono alla mente pensando alla incredibile vicenda dei 12 giovani calciatori thailandesi rimasti intrappolati in una caverna insieme ad Aek, il loro 25enne allenatore e liberati definitivamente ieri dopo 17 giorni passati all’inferno.
Si è mobilitato il mondo intero per questa vicenda e il risultato è stato raggiunto grazie a un’enorme capacità di condividere fiducia, anche quando le cose sembravano impossibili. Affidarsi a qualcuno, ci insegna questa storia di cui certamente qualche produttore hollywoodiano si approprierà, può portare alla perdizione e alla salvezza. Aek, l’allenatore orfano che ha passato la sua gioventù in un monastero buddhista aveva preso la decisione di portare i suoi ragazzi in quella grotta per meditare.
Stravolto dai sensi di colpa ha chiesto ripetutamente perdono per quell’idea che le piogge monsoniche stavano per trasformare in tragedia. I genitori di tutti i ragazzi lo hanno perdonato in tempi assolutamente non sospetti, ben prima del lieto fine della vicenda. Anzi, gli hanno ricordato che i loro ragazzi contavano su di lui, laggiù sottoterra come sul campo di calcio. Forse anche per questa iniezione di fiducia Aek è stato decisivo per tenere in vita i suoi ragazzi rinunciando per loro al suo stesso cibo, mantenendoli calmi e gestendo le loro emozioni e paure. E lasciando la grotta per ultimo, da vero coach.
«Sembra impossibile, finché non viene fatto», diceva Nelson Mandela e mentre, in superficie, squadre di calcio di fama planetaria lottano al Mondiale per non tornare a casa, la squadra per cui tutti si augurano il ritorno, finalmente, ce l’ha fatta grazie a una collaborazione di persone provenienti, letteralmente, da ogni parte del mondo. «Tuya, Héctor» anche in memoria di Saman Kunan, il soccorritore unica vittima di questa vicenda. Nel suo ultimo video lo si sente dire: «Porteremo i ragazzi a casa». Aveva ragione.
MATERIALE EDITORIALE DEL LIBRO DI
MATTEO VEGETTI
L’invenzione del globo
Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria
Introduzione
Cento anni ci separano dai primi due eventi storici globali per essenza: la Rivoluzione russa e l’ingresso degli Stati Uniti nel pri- mo conflitto mondiale. Agli osservatori dell’epoca come Valéry, Jünger, Schmitt o Freud il perturbante significato di questo duplice passaggio epocale non era sfuggito. Scrive per esempio Valéry:
Il mondo diventa dunque piú piccolo ma insieme piú pericoloso:
Queste parole ci trasmettono un’inquietudine caratteristica del mondo globale, nella quale è ancora oggi facile riconoscersi. Men- tre infatti il globo comincia a lasciarsi percepire come un’unità operativa finita, si determina per contraccolpo una crisi di fiducia nelle coordinate ordinative dello spazio e nella tenuta delle forme politiche tradizionali.
Carl Schmitt avrebbe considerato tutto questo un sintomo di ciò che nel suo gergo filosofico si definisce Entortung : una generale dis- locazione , un dis- orientamento che rimanda a sua volta a una falda piú profonda, quella dalla quale proviene, in rari e decisivi momenti storici, una «rivoluzione spaziale» (Raumrevolution ).
Fra tutti i concetti che hanno provocato un rinnovato interesse per la filosofia schmittiana, quest’ultimo è forse tra i piú stimolanti e i meno indagati. Per restare all’essenziale, una rivoluzio- ne spaziale non è propriamente un fatto storico, o almeno non lo è al modo della rivoluzione industriale o della Rivoluzione russa.
Piú che di un fatto, si tratta di un evento singolare a partire dal quale cambiano le condizioni spaziali dentro le quali i fatti accado- no (per esempio i fatti della politica, della geografia o dell’esteti- ca, intesa come arte e percezione) e che richiede pertanto una sfi- da adattativa, nuovi schemi cognitivi e pragmatici, nuove mappe fisiche e mentali. Una rivoluzione di tale portata si verifica però solamente sotto condizioni del tutto eccezionali. Occorre infatti che uno fra i quattro elementi naturali noti alla filosofia classica (terra, acqua, fuoco, aria) 2 , mobilitato da certe pratiche sociali, si trasformi in spazio, diventando perciò un ambito dove l’agire umano può sperimentare potenzialità prima sconosciute.
Schmitt ha dedicato i suoi migliori sforzi al tentativo di illumi- nare l’origine della modernità (del diritto pubblico europeo, della “civilizzazione”, dell’industria e del capitalismo mondiale) a par- tire dalla rivoluzione spaziale innescata, tra il XVI e il XVII secolo, dalla conquista degli oceani. Di questa lunga storia siamo gli eredi “naturali”, e non ha dunque torto chi sostiene che nel cosiddetto globale c’è poco di nuovo e molto di moderno. Tuttavia, proprio nelle pagine finali di Terra e mare 3 , Schmitt ci ha lasciato in dote anche un’altra affascinante ipotesi: che il nostro tempo sia in realtà già implicato nella fase iniziale di una seconda globalizzazione, o meglio, in una seconda “rivoluzione spaziale” essenzialmente diversa da quella venuta dagli oceani ma altrettanto pro- fonda. A provocarla sarebbe questa volta l’irruzione nella storia dell’elemento aereo, tramutato in estensione spaziale a opera di media intrinsecamente globali come gli aerei, le trasmissioni elettroniche, le onde radio 4 : forze in grado di soverchiare il rapporto dualistico fra la terra e il mare, ovvero l’antico nomos planetario, dando vita a una crisi che coinvolge sul piano storico e categoriale l’insieme di tutti gli ordinamenti riconducibili alla forma-Stato.
Il tema dell’aria occupa comunque in Schmitt un ruolo marginale : è un residuo discorsivo che assegna a chi parla il proprio luogo, sto- ricamente (e ideologicamente) condizionato 5 ; è il margine di una domanda che nel 1942, all’epoca di Terra e mare , non poteva ancora offrirsi a fondate considerazioni, e che forse solo oggi, dunque ben al di là del suo autore, risulta questionabile.
Non è però allo scopo di fornire un “supplemento aereo” al pensiero schmittiano che il presente saggio ripropone a suo modo una lettura elemen- tare dello spazio. Piuttosto, l’aria rappresenta qui l’occasione, il segnavia, per tentare una genealogia della globalizzazione volta a ricostruirne le stratificazioni di senso, i fattori ideologici, gli agenti materiali, le componenti utopiche e distopiche, e soprattutto le visioni politico-spaziali.
Ognuno dei quattro capitoli che compongono il volume assume l’idea del globo secondo una specifica declinazione ermeneutica. Nel titolo del primo capitolo (una discussione intorno alle principali categorie del pensiero politico-elementare di Schmitt) l’espressione unità del mondo fa riferimento all’idea dell’unificazione politica della Terra, o meglio alle condizioni di pensabilità e figurabilità di tale idea. Si tratta di una questione sorta a partire dalla Grande Guerra, divenuta «mondiale» dal momento che gli Stati Uniti vi hanno preso parte. Se dunque le pagine di questo libro esordiscono evocando la scelta interventista dell’America di Wilson ciò è perché in quel decisivo momento tutta la storia moderna (la storia della colonizzazione europea, la storia del mare, la storia del controverso rapporto tra il vecchio e il nuovo Occidente) si è come ripiegata su di sé come un foglio, congiungendo il passato al presente in una sorta di compimento, dato che la Terra e il globo hanno cominciato a coincidere anche in senso geopolitico.
Nel titolo del secondo capitolo ho scelto l’espressione One World (lanciata da un libro di Wendell Lewis Willkie del 1943 e divenuta subito una sorta di manifesto ideologico) 6 per indicare la nascita del globalismo americano. Qui la discussione ruota in vario modo intorno al prefisso geo (geopolitica, geostrategia, geografia) interrogando la genesi di un nuovo punto di vista sul globo, e le implicazioni dell’epoca che con buone ragioni prese il nome di air age 7. Se poi l’America risulterà protagonista del libro lo si deve al fatto di essersi impadronita dell’elemento aereo cosí come l’Inghilterra si era in precedenza impadronita del mare, mantenendo tale pri- mato attraverso tutte le quattro fasi che scandiscono l’ascesa del nuovo elemento: la conquista dell’aria, l’occupazione dell’etere, la colonizzazione del cosmo, l’invenzione dello spazio virtuale.
Nel titolo del terzo capitolo la parola planetarizzazione va presa piuttosto alla lettera, poiché si riferisce alla nascita di una coscienza del pianeta-Terra legata alla colonizzazione dello spazio, alla tec- nologia delle trasmissioni satellitari e alla ricaduta di entrambe le cose sulla Terra, in chiave politica e morale.
Il termine globalizzazione lo si è infine riservato per il titolo dell’ultimo capitolo, dedicato alla genesi dello spazio economico disegnato e percorso da flussi elettronici largamente indipenden- ti dai contenitori nazionali. «La grande opera della modernità di trasformare la sostanza in flusso» 8 potrà dirsi ora effettivamente conclusa, poiché il concetto di «flusso» porta con sé la storia del mare e dell’aria, sublimandola però in un nuovo elemento artificiale che consente il quasi istantaneo movimento globale di tutto ciò che è trasferibile nel medium della rete, a cominciare ovviamente dal capitale. La velocità di trasmissione si confermerà un fattore costitutivo della globalizzazione, ma a interessare questa parte del libro sono soprattutto i suoi effetti sulla geoeconomia, nel tentativo di decifrare alcune tendenze che nell’attuale ordine spaziale eccedono la metrica dello Stato territoriale.
Tuttavia, il predominio dell’aria nell’epoca attuale si dimostra anche nella sempre piú diffusa aspirazione alla ri-territorializzazione della politica e delle economie, ovvero nel desiderio antifrastico di restituire alla terra il suo antico primato e alla sovranità il compito di assicurare il corpo sociale contro i rischi della dissoluzione dell’ordine spaziale internazionale. Il recente riflesso neoisolazionista delle maggiori potenze mondiali (in particolare dell’Inghilterra e degli Stati Uniti), l’anacronistica retorica immunitaria dei muri, le varie dirama- zioni protezionistiche del localismo e persino il ritorno della teologia politica e dei conflitti interetnici: non mancano i segni per dire che la Terra riporta su di sé le ferite della rivoluzione spaziale in corso 9 . Quest’ultima non comporta dunque uno spazio liscio e trasparente, “pura mediazione” contraddistinta dal tratto ontolo- gico del continuum 10 , come suggerirebbero le prerogative naturali dell’aria; piuttosto genera aspre contraddizioni spazio-elementari che turbano la geometria piana del pensiero politico illuminista e le fondamenta ideali del cosmopolitismo, consegnandoci il compito di riorientare il trinomio che lega l’identità e il potere allo spazio.
Ma poiché la conclamata esigenza di un nuovo nomos della terra in grado di contenere i conflitti e gli attriti globali si scontra con l’altrettanto evidente incapacità di immaginarne i principî, la figura e le dimensioni, si ritiene piú prudente, in conclusione al libro, guardare ai frammenti della fase di rinnovamento che ci investe (e che si presenta principalmente nella forma di un cedimento) piuttosto che all’insieme. «La disgregazione - ha scritto Karl Schlögel - è il momento della disillusione, dunque del chiarimento. È lí che si intravedono le forze da cui potrà nascere il nuovo» 11.
Le tre appendici finali, rispettivamente dedicate al «grande- spazio» europeo, all’attacco aereo alle Twin Towers e alla defor- mazione topologica introdotta dai droni, sono appunto da leggere in questa chiave: come frammenti di un discorso politico-spaziale che non ha ancora assunto forma globale.
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE. ( VEDI: LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE - PDF)
Nell’era senza confini rimane una sola patria che si chiama Terra -
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 16.07.2017)
L’acqua di Talete, il fuoco di Eraclito; l’aria e la terra: gli elementi da cui tutto proviene, per i presocratici; teorie ingenue per noi moderni, impegnati nel compito quasi impossibile di capire la meccanica quantistica. Ma non del tutto inutili, forse, se non nel campo della scienza almeno in quello della politica. L’ambizione di quei primi filosofi era quella d’individuare princìpi capaci di fare ordine nella trama dell’universo, di mostrare l’unità che si nasconde dietro alla molteplicità caotica degli eventi. Vale per la realtà fisica, e vale per il mondo degli uomini, che non è certo meno complesso.
Carl Schmitt, quasi un allievo tardivo dei presocratici, aveva avuto l’intuizione che si potessero spiegare le vicende umane proprio partendo dalla coppia terra/ acqua. Dalla terra, in cui gli uomini hanno mosso i primi passi, all’acqua: le grandi esplorazioni che inaugurano la modernità, la conquista degli oceani e del Nuovo Mondo - spazi liberamente contendibili, illimitatamente sfruttabili - aprono prospettive inedite nelle relazioni umane. Delineano un nuovo modello politico, rappresentato dall’impero britannico, in cui il controllo delle vie di comunicazione è di gran lunga più importante dell’inviolabilità dei confini. «Chi governa il mare, governa il commercio, chi governa il commercio dispone della ricchezza del mondo, e di conseguenza governa il mondo stesso». Così parlava Walter Raleigh, corsaro inglese al servizio della regina Elisabetta I.
Ma questa coppia ormai non basta più, spiega Matteo Vegetti nel saggio L’invenzione del globo, appena pubblicato da Einaudi. Sigmund Freud se ne accorse il 25 luglio 1909. L’aviatore Louis Blériot aveva appena compiuto la traversata della Manica, da Calais a Dover, e in Europa si festeggiava, pregustando la nascita di un nuovo mondo in cui tutti avrebbero comunicato con tutti, senza più barriere. Più lucidamente, Freud notò che da quel momento a essere senza confini sarebbe stata la guerra, non la pace.
Un’osservazione di cui gli americani avrebbero compreso la verità il 7 dicembre 1941, mentre l’aviazione giapponese distruggeva la loro flotta a Pearl Harbor. Ad affondare non erano state solo le navi, ma un modo secolare di rappresentarsi il mondo. Anche per questo, mentre allestiva una forza aerea imbattibile, il presidente Franklin Roosevelt invitò tutti i suoi connazionali a dotarsi di un mappamondo, possibilmente il modello che ruotava in tutte le direzioni («Questa guerra è un nuovo tipo di guerra», avrebbe spiegato. «È differente da ogni guerra del passato non solo nei suoi metodi e mezzi, ma anche nella sua geografia»).
C’è uno spazio uniforme sopra alla terra e al mare: lo spazio aereo, trasparente e vuoto, privo di ostacoli, facile da attraversare, che si espande ovunque. Non si trattava solo del volo degli aerei; altrettanto importanti sarebbero state le onde radio e le trasmissioni elettroniche, che avrebbero contratto le distanze ancora di più, fino ad annullarle quasi del tutto. Non era più il tempo di Walter Raleigh, ma di un generale italiano tanto oscuro quanto geniale, Giulio Douhet, autore (nel 1921!) di un libro intitolato Il dominio dell’aria: a controllare il mondo sarebbe stato chi avrebbe controllato i cieli. Il secolo dell’America e dell’ American way of life è il secolo dell’aria.
Studioso appassionato delle tradizioni arcane, Carl Schmitt aveva anche trovato un riferimento biblico-talmudico per rappresentare il nuovo stato di cose. Il regno del Leviatano (il mostro marino che in Thomas Hobbes esprime la potenza dello Stato) è ormai alla mercé di Ziz, un uccello gigantesco, capace di spostarsi continuamente da un posto all’altro della Terra. Un simbolo quanto mai appropriato per descrivere un mondo in cui i confini nazionali non funzionano più, perché quello che importa non sono le sostanze, ma i flussi. A essersi globalizzato è stato il borghese (e dunque l’economia), per così dire, non il cittadino. Questa rivoluzione spaziale non è certo la panacea di tutti i mali, come qualcuno (tra cui Karl Marx) ha creduto. Ma è un fatto da cui non si può prescindere: non sarà qualche muro a riportarci al bel (?) mondo che fu, né possiamo continuare a credere che basti riprodurre su scala mondiale la forma dello Stato nazione per superare tutte le difficoltà. Servono nuove idee politiche per organizzare questo spazio e le sue tensioni.
Perché poi c’è anche il fuoco, o meglio l’etere, un fuoco finissimo di cui erano composti, per Aristotele, le stelle e pianeti che ruotavano intorno alla terra, irraggiungibili. Quando Jurij Gagarin volò nello spazio e Neil Armstrong camminò sulla Luna, anche quest’ultima frontiera fu sfondata. È così conosciuta che quasi non ci si presta più attenzione: ma la prima foto scattata da un satellite lunare, tre anni prima dell’allunaggio, immortala il compimento della globalizzazione. Finalmente l’occhio umano vedeva la Terra come un globo, un tutto finito, senza più punti vuoti e senza più centro, di cui disponiamo completamente. Il Sole è grande come un piede umano, diceva Eraclito irridendo i sapienti del suo tempo: vista dallo spazio, ora è la Terra ad apparire sempre più piccola, in un universo che si scopre immenso.
«Per un’ora un uomo visse al di fuori di ogni orizzonte, intorno a lui tutto era cielo o, più precisamente, tutto era spazio geometrico»: così Emmanuel Levinas commentava i viaggi dei primi astronauti. Ma davvero siamo entrati nell’era della «demondizzazione», dello sradicamento definitivo dalla Terra, come annunciava, profetico e cupo, Martin Heidegger, guardando la solita foto della Terra presa dallo spazio? Certo, l’impulso di Ulisse a spingersi oltre, staccandosi dalla «cara patria», protesi verso nuove mete, è inestinguibile negli uomini. Ma in realtà mai come oggi, proprio perché la vediamo da distanze crescenti, possiamo apprezzare la bellezza e l’unicità irripetibile della nostra casa. Ed è sempre quella stessa foto a spiegare perché. Questo minuscolo pianeta perso in un universo infinito e indifferente è come un’oasi, in fondo: un piccolo miracolo, il pianeta blu, in un deserto spaventosamente immenso e silenzioso. Solo chi è partito può provare il piacere ambiguo della nostalgia. Dal fuoco e dall’etere torniamo alla Terra: e il problema, ora, è quello di coltivare questa piccola oasi, prima che diventi anch’essa un deserto inospitale.
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
La fine dell’universo interroga la filosofia
Da tempo sappiamo che il sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di anni di vita residua della nostra stella. Ora abbiamo imparato che l’intero insieme delle galassie si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in qualunque momento. Per fare i conti con questa gigantesca vulnerabilità dobbiamo riprendere in mano la lezione dei presocratici, di Galileo e Newton. E di Einstein
di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
In un recente articolo su questo giornale («Aristotele contro Hawking», 21 agosto), Carlo Rovelli ha sviluppato con argomenti convincenti il rapporto fra filosofia e scienza. Sono d’accordo su tutto quanto ha scritto. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni, a partire dalla frase di chiusura: «Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile».
La filosofia nasce come cosmologia: da dove nasce il mondo, quale ordine segue e quale ruolo ha l’umanità in tutto questo. Ai nostri giorni invece, sembra che prevalga la spinta a concentrare le riflessioni filosofiche sull’analisi del linguaggio, o limitarle allo studio dei meccanismi epistemologici. Tutte cose importantissime beninteso ma, a mio modo di vedere, un poco riduttive e che eludono comunque la questione di fondo. Perché la filosofia moderna non può riprendere la grande eredità dei presocratici o quella di scienziati-filosofi come Galileo Galilei o Newton per non parlare di Einstein? Valutare cioè, e sottoporre a critica, l’immagine del mondo che scaturisce dalle ricerche scientifiche più avanzate e discuterne le conseguenze sul piano filosofico, etico, culturale.
Sappiamo che, con tutti i suoi limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando nel nostro campo avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.
Abbiamo visto all’opera questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto, in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo. Ed eccoci a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e così via.
Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza progredisce a ritmo incalzante e vorrei citare un paio di esempi. Cominciamo col fare un salto all’indietro di 13,8 miliardi di anni, un volo dell’immaginazione che ci riporta ai primissimi istanti di vita dell’Universo bambino. Le osservazioni più accurate finora effettuate ci indicano che tutto è nato da una microscopica, infinitesima fluttuazione quantistica del vuoto. Lo stato di vuoto non è il nulla. Anzi, può forse essere visto come un qualcosa che contiene già il tutto, un po’ come il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma muto contenitore di tutti i suoni possibili, vibrazioni su tutte le frequenze, perfettamente accoppiate in opposizione di fase.
Come tutti gli stati anche il vuoto segue le leggi della meccanica quantistica. Non è immobile, statico, morto; al contrario, si agita, fluttua, seguendo una dinamica rigorosamente governata dal principio di indeterminazione. Le congetture più convincenti che siamo riusciti a produrre ci dicono che dovremmo immaginare il formarsi, al suo interno, di un brulichio di infinitesime fluttuazioni: microscopiche bollicine di dimensioni inferiori a quelle delle più minuscole particelle elementari. Quasi tutte si comportano in maniera educata e discreta. Ce n’è almeno una tuttavia, che ha fin da subito un comportamento assai bizzarro.
Anziché richiudersi e ritornare allo stato fondamentale si produce in una crescita parossistica. Sotto la spinta di una particella materiale che ha preso corpo al suo interno, tutto si gonfia a una velocità spaventosa. In un tempo ridicolmente piccolo la minuscola porzione di spazio-tempo diventa un qualcosa di dimensioni macroscopiche. Ci sono ancora molti lati oscuri sul meccanismo che chiamiamo inflazione cosmica , ma alcuni punti fermi sembrano raggiunti.
Trovo meraviglioso constatare che l’energia totale dell’Universo, abbia tuttora, dopo miliardi di anni, lo stesso valore zero che aveva all’inizio. Come se questo gigantesco, incredibile dettaglio ci dicesse, parafrasando la frase del poeta: «Ma non vedete che tutto è fatto della stessa sostanza dei sogni?» (William Shakespeare, The Tempest).
Abbiamo capito bene il meccanismo che ha portato la materia a formare corpi persistenti. Ancora una volta tutto è stato definito nei primissimi istanti di vita. È passato solo un attimo e la materia che compone il nostro Universo è già tutta lì, ma la forma in cui si presenta è completamente diversa da quella cui siamo abituati. Una specie di gas impazzito di particelle elementari, prive di massa e che si muovono alla velocità della luce riempie ogni angolo dello spazio-tempo appena nato. Ed ecco che succede qualcosa di molto strano. Non appena l’espansione furibonda degli istanti iniziali si placa e l’oggetto gigantesco che ne è nato si raffredda a sufficienza, una miriade di bosoni di Higgs condensa per sempre in un campo onnipresente. Il nuovo venuto cambia tutto. Le particelle elementari, che rimangono come invischiate nel campo dell’Higgs, si differenziano fra loro a seconda dell’intensità dell’interazione, e così facendo finiscono con l’acquistare masse irrimediabilmente diverse.
Alcuni quark, rimasti leggeri, si aggregheranno con gluoni a formare protoni stabili; intorno ad essi orbiteranno i leggerissimi elettroni e si potranno formare atomi e molecole. Così si sono prodotte le enormi nebulose gassose da cui sono nate le prime stelle e poi le galassie, e i pianeti e i sistemi solari fino ai primi organismi viventi, via via sempre più complessi, per arrivare, in ultima istanza, fino a noi.
Ed ecco che appare subito un’ipotesi che fa girare la testa. È bastato chiedersi che tipo di equilibrio reggesse questo vuoto elettrodebole che ha un ruolo così importante e si è fatta una scoperta strabiliante e inattesa. L’intero Universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile: tutto danza fragile e precario, vicino all’orlo del baratro.
Bastava poco a rendere tutto totalmente instabile: un bosone di Higgs appena più leggero e la microscopica lacerazione, che si era aperta pochi istanti prima, si sarebbe immediatamente richiusa e tutto sarebbe finito prima ancora di cominciare. Ma la sottile impalcatura potrebbe cedere di schianto anche ora, in un qualunque momento. Una delle spaventose catastrofi che interessano le galassie più lontane, potrebbe mettere in gioco energie talmente elevate da produrre un collasso locale del vuoto elettrodebole, e l’intero Universo svanirebbe in un’immane bolla di pura energia.
La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’Universo nel suo complesso. Come se la nostra fragilità di essere umani fosse il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà cosmica che interessa tutto: perfino le gigantesche strutture materiali che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali. «Non illuderti d’essere immortale - canta Orazio - t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo».
Dalla notte dei tempi l’umanità ha cercato di superare questa condizione. Da questo scacco sono nate le religioni, le filosofie e le grandi opere d’arte; produrre qualcosa che duri millenni, che sopravviva al breve ciclo della vita di ciascuno di noi: un cerchio di pietre megalitiche, una gigantesca piramide, un poema epico o una statua meravigliosa. Qualcosa che sfidi il tempo e avvicini le opere dell’uomo all’ immortalità della Terra, e degli astri celesti.
Da tempo sappiamo che il nostro sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di vita residua della nostra cara stella. Ora abbiamo imparato che l’intero Universo si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in un qualunque momento. Ne vogliamo discutere le implicazioni? E chi meglio dei filosofi, degli umanisti, degli artisti lo potrebbe fare? Non è certamente lavoro per gli scienziati. Mancano loro le competenze adeguate e quello sguardo lungo che è necessario avere quando cambiano paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria.
E quale nuova prospettiva potrebbe nascere da questa più profonda consapevolezza della intrinseca fragilità dell’intera struttura materiale che ci circonda? Cosa vorrebbe dire, sul piano etico, fare i conti con questa condizione di radicale, irriducibile vulnerabilità? Forse, anzitutto, prendere coscienza dei propri limiti e salvare la scienza stessa da quella specie di delirio di onnipotenza che ogni tanto sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde motivazioni a prendersi cura dei propri simili, avere rispetto dei viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo umano.
Migranti. Il vertice Onu sui migranti voluto da Ban Ki moon si chiude senza neanche una dichiarazione comune di intenti e con gli Stati. Il commissario ai diritti umani: «Abbiamo fallito verso milioni di persone»
di Marina Catucci (il manifesto, 20.08.2016)
NEW YORK Come gestire 65,3 milioni di sfollati? Il problema è al centro della discussione iniziata ieri al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite con i leader di tutto il mondo arrivati a New York per il primo vertice dedicato a rifugiati e migranti. Il summit apre la settimana dell’Assemblea generale dell’Onu che sarà l’ultima per il sudcoreano Ban ki moon e l’ultima per Barack Obama.
Ma come si risolve una crisi del genere? Le Nazioni Unite devono affrontare il problema del più grande movimento di persone della Storia, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quindi «si terranno riunioni, conferenze, tavole rotonde, si produrranno documenti finali, discorsi, promesse, maledizioni e vilipendi. Poi a fine giornata, si andrà a casa», ha amaramente dichiarato PassBlue, pubblicazione indipendente che si occupa di diritti umani attraverso la lente delle Nazioni Unite. PassBlue è un progetto fondato nel 2011 dal Ralph Bunche Institute per gli Studi Internazionali presso il Graduate Center dell’Università della Città di New York, non legato finanziariamente o in altro modo alle Nazioni Unite, e sono tutti molto scettici sull’esito di questo summit.
La conferenza su rifugiati e migranti è, comunque, senza precedenti per le Nazioni Unite, i capi di Stato e di governo, i leader delle Nazioni Unite e gli esperti della società civile, dovranno intervenire e cercare di trovare un soluzione per i 65 milioni di uomini, donne e bambini che nel 2015 sono stati costretti ad abbandonare la propria casa. Per il momento hanno partorito un documento, dal titolo la Dichiarazione di New York, non vincolante, con principi e impegni da cui partire per ottenere, entro il 2018, la firma di un Global Compact, un trattato che indichi come affrontare la crisi migratoria.
«È molto interessante - ha dichiarato all’Associated Press Filippo Grandi, alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati - e se saremo in grado di tradurre questo documento in una risposta concreta, in cui si impegnano molti attori politici, si potranno risolvere davvero molti problemi riguardanti situazioni di emergenza o coinvolgenti rifugiati a lungo termine, come per la situazione siriana».
Gli argomenti di discussione comprendono i modi in cui si affrontano le cause profonde dei flussi dei migranti, la futura cooperazione internazionale sul problema, le responsabilità derivanti dal diritto internazionale e la vulnerabilità dei migranti mentre tentano di raggiungere le loro destinazioni. Nel corso dei lavori saranno toccate anche le questioni dei diritti umani e l’attuazione dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
I risultati al momento sembrano deludenti, viste le difficoltà a raggiungere anche solo una dichiarazione di intenti condivisi. «L’amara verità è che questo vertice è stato indetto perché abbiamo in gran parte fallito - ha detto Zeid Ra’ad al-Hussein, l’alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani - Non siamo riusciti a porre fine alle sofferenze delle persone in Siria, a porre fine alla guerra al suo esordio. Abbiamo fallito, nei confronti di milioni di migranti che meritano molto di più di vite segnate, dalla culla alla tomba, da umiliazione e disperazione».
Un fallimento ancora più evidente se si considera quello che in origine, era l’ambizioso progetto che Ban Ki moon voleva realizzare: ovvero dividere tra gli Stati membri delle Nazioni unite una quota annua pari al dieci per cento profughi. Per il segretario generale delle Nazioni unite si trattava di un modo per gestire finalmente in maniera ordinata un fenomeno drammatico come quello di chi fugge da guerre, persecuzioni e catastrofi climatiche, riuscendo così a segnare anche la fine del suo mandato. Gli Stati però, non lo hanno permesso.
Da settimane nel Palazzo di Vetro si sapeva che nessun impegno preciso sarebbe stato assunto per quanto riguarda un’eventuale spartizione dei profughi. Un rifiuto conseguenza anche del vuoto vissuto non solo all’interno delle Nazioni unite - visto che Ban è praticamente scaduto e il suo successore ancora non è neanche prevedibile - ma anche alla Casa Bianca dove il nome del futuro inquilino è segnato da altrettanta imprevedibilità. E per di più con uno dei due candidati che non perde occasione per dimostrare la sua ostilità nei confronti di profughi e migranti.
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
L’agone del pensiero critico
Anticipiamo stralci della relazione che il filosofo francese terrà all’annuale appuntamento di Modena, Carpi e Sassuolo. Quest’anno il tema scelto è l’«agonismo»
di Jean-Luc Nancy (il manifesto, 15.09.2016)
Perché oggi si parla tanto spesso di «pensiero critico»? Con questo nome si vuole indicare un pensiero che si sottrae al presunto «pensiero unico», a una dimensione, non contestabile. Ma questo pensiero, che viene accusato di imporsi abusivamente come la via unica della globalizzazione della libera concorrenza - generando discriminazioni ovunque, con le sue appropriazioni senza controllo - questo pensiero e tutto il sistema tecnico-economico che lo sostiene si è dispiegato a partire dal venir meno di una lunga serie di pensieri critici (o «alternativi», come si è cominciato a chiamarli). Si deve dunque ritrovare una capacità critica che sarebbe andata perduta per sbaglio? Ma resterebbe ancora da capire perché e come questa perdita sia avvenuta.
La critica discerne, distingue e consente di suddividere gli oggetti di pensiero in ricevibili e non-ricevibili. Alcune grandi tappe segnano la storia filosofica di questo concetto. Immanuel Kant distingue i fenomeni (costruiti da operazioni dell’intelletto congiunte ai dati della sensibilità) dalle rappresentazioni della realtà in sé, che non sono sottoposte a questa costruzione.
Marx distingue la sequenza di produzione, scambio e appropriazione secondo i momenti dell’idea hegeliana dalla stessa sequenza secondo le condizioni reali, in un dato momento storico, della proprietà dei mezzi di produzione.
Se c’è per Husserl una «crisi delle scienze europee» è perché le scienze non possono più pretendere di indicarci il «senso dell’esistenza», che va dunque distinto dalla loro scientificità. Con la Critica della ragione dialettica, Jean-Paul Sartre vuole distinguere, rispetto alla razionalità delle scienze, una «ragione nuova», aperta alla «comprensione dell’uomo da parte dell’uomo». Infine, per tutta la durata di questa lunga sequenza e dal XVII secolo, la critica letteraria e artistica distingue tra opere conformi a programmi già classificati e opere che creano una forma inedita, forse mal identificabile, ma riconoscibile come dotata di virtù estetica.
Ciascuno di questi orientamenti critici implica il ricorso a un criterio o a un sistema criteriologico. La sperimentazione scientifica è definita dalla misura, il valore del prodotto dalla relazione col suo produttore, la virtù estetica dalla messa in opera di una certa idea di bello o di sublime. Ciascuno di questi criteri chiama in causa a sua volta una definizione preliminare: la misura e il suo calcolo, il valore dell’uomo in quanto produttore della propria esistenza, il bello o il sublime definiti - per esempio - dal lato dell’armonia oppure da quello dell’irregolarità.
In un certo senso Kant, Marx, Husserl e tutti i grandi critici sapevano da sempre che il loro criterio o la loro criteriologia implicita erano un impossibile (l’incondizionato, l’uomo totale, il logos). Spetta a noi decidere di esporci ad esso, piuttosto che «capirlo» di nuovo.
Esporci ad esso presuppone di opporsi al possibile e opporsi richiede lo scontro e il combattimento. C’è dunque un nemico. Kant, Marx, Husserl hanno avuto dei nemici (la metafisica, l’economia politica, la fatica dello spirito) e pertanto hanno capito che la critica non deve essere «solo un bisturi ma un’arma» (Marx). Con Marx questa arma è diventata materiale. «L’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi; la forza materiale può essere abbattuta solo dalla forza materiale».
Tuttavia la critica delle armi ha finito per rovesciare il senso del suo genitivo: da soggettivo (critica attraverso le armi) si è dimostrato oggettivo (messa in discussione delle armi). In effetti l’uso critico delle armi si è fatto trascinare dalla propria forza in un dominio che non ha conservato in sé l’arma della critica e l’appello all’impossibile. Al contrario, il «troppo possibile» del dominio ha bloccato l’apertura verso l’impossibile. La critica attraverso le armi ha smontato l’arma della critica. E infine la critica delle armi è diventata il commercio delle armi: non solo la loro produzione per denaro, ma il loro uso per un dominio esercitato innanzitutto dalla morte e su dei morti.
La crisi allora è tornata, ma solo come nome della divisione interna del «troppo possibile»: la produzione che sa di non produrre l’uomo, l’uomo che sa di non esporsi all’impossibile o di confonderlo con il «troppo possibile». Il capitalismo diventa nemico di se stesso e si fa la guerra. L’Impero si divide contro se stesso. Si pretende di ritrovare o recuperare questo o quell’elemento normativo - un capitalismo regolato, una democrazia virtuosa, un uomo umanista, un progresso controllato, uno sviluppo sostenibile - ma si fa appello a qualcosa che è già stato criticato e autocriticato da cima a fondo...
Nella Roma degli stoici, degli epicurei e degli scettici non si smetteva mai di criticare il corso delle cose e degli affari. Ma la crisi finì per spazzare via le critiche e spuntò un’altra cosa, inedita e come impossibile, chiamata «cristianesimo». È lui che oggi sperimenta la crisi del suo infinito, che non maschera più le discriminazioni sempre più gravi che fomenta. Perciò anche questa crisi deve essere sottoposta a critica, in quanto nasconde e ottura il senso dell’impossibile e l’impossibilità del senso. Ma in fondo questa critica è già fatta. Non cessa di farsi ogni giorno e al tempo stesso di sapersi anch’essa in crisi.
Traduzione di Michelina Borsari
I personal trainer della democrazia
Dalle categorie del politico alla «negazione». Un fitto calendario di appuntamenti, tra lectio magistralis, mostre e performance teatrali
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 15.09.2016)
L’agonismo è quella forma di conflitto che ha un perimetro e regole ben definiti. Il perimetro definisce i luoghi e il contesto istituzionale dove si manifesta. Le regole definiscono i limiti della sua manifestazione. La violazione di uno dei due aspetti è sanzionato con una penalizzazione. La dimensione sociale che meglio rappresenta questa tendenza a governare il conflitto è lo sport.
Non è quindi un azzardo affermare che lo sport è la continuazione della politica con altri mezzi, cancellandone però le dimensione che le sono proprie: visioni del mondo che si scontrano, interessi sociali e economici alteri e oppositivi gli uni all’altri. È infatti la democrazia politica in salsa liberale che fa dell’agonismo la misura della sua esistenza e legittimazione. Non ci sono nemici nell’agire politico liberale, bensì solo avversari. Si possono condurre battaglie brevi o blitz fulminanti ma sempre all’interno di un quadro normativo che non prevede rottura. L’agonismo è dunque il simulacro del conflitto sociale, politico, di classe.
Non è però ignoto il fatto che sin dalla antica Grecia che l’agonismo - e dunque lo sport - svolge questa funzione preventiva del conflitto e della guerra, intesa come la continuazione della guerra con altri mezzi. C’è poi l’agonismo sportivo. Anche qui le radici sono antiche. Elemento che non ha impedito che lo sport diventasse una industria globale che plasma l’immaginario collettivo e contribuisce in maniera significativa alla formazione dell’opinione pubblica.
È questo ordine di problemi che il festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo affronterà da domani fino a domenica 18 settembre. Per tre giorni, secondo un consolidato format di successo, la filosofia scende quindi di nuovo in piazza. Lectio magistralis, incontri ravvicinati, performance artistiche, mostre (quest’anno ce ne è una dedicata agli album di figurine: al Mata di Modena con il titolo I migliori album della nostra vita) e un pubblico in ascolto che può rivolgere domande al relatore di turno.
Da questo punto di vista anche un Festival della filosofia ha molto a che fare con l’agonismo. Soltanto che la partita è tra più giocatori, bensì tra un relatore e un pubblico, che usa gli incontri non solo passivamente, ma anche come un momento di formazione e di accesso alla cultura altrimenti interdetto (tutte le iniziative live sono gratuite).
Il «Festival della filosofia» è uno degli esempi di successo di come la spettacolarizzazione della cultura attivi un circolo virtuoso economico che vede la partecipazione della locale università, delle case editrici e della Fondazione San Carlo e di banche e imprese private.
Una kermesse che è cresciuta nel tempo, moltiplicando, anno dopo anno, gli incontri.
Cercare di ricostruire un significativo filo rosso è sempre un’operazione unilaterale. Per quanto riguarda questa edizione, va segnalata la lectio magistralis della filosofo dalle politica Chantal Mouffe sulla «democrazia agonistica », l’intervento del filosofo francese Jean-Luc Nancy sul cosa è il pensiero critico, la relazione di Alessandro Dal lago sulla relazione del rapporto tra noi e gli altri, polarità imprescindibile dell’agonismo, cioè quella forma di occultamento del conflitto e dimensione propedeutica alla «messa all’angolo» dei migranti.
La parte del leone la svolgeranno ovviamente i filosofi e i sociologi. Zygmunt Bauman, ad esempio, affronterà il tema del «competere»; Nello Preterossi farà «emergere le categorie del politico», svelando così l’ambivalenza del lemma «agonismo». Sulla stessa scia le relazioni di Giacomo Marramao, Simona Forti e Nadia Fusini e Stefano Rodotà. Peter Sloterdijk parlerà invece di «esercizi sportivi». Ci sono infine relazioni che sparigliano le carte. Vanno in questa direzione la lezione di Marcello Musto sull’opera di Karl Marx e la lectio magistralisi di Paolo Virno sulla negazione. Il programma completo è consultabile nel sito: www.festivalfilosofia.it
Remo Bodei
“Si corre per vincere, anche San Paolo invitava a colpire duro”
Il filosofo: i greci ci hanno dato la linea
di Francesca Sforza (La Stampa, 15.09.2016)
Quest’anno si corre, al Festival della Filosofia di Modena. Si corre per capire, per restare al passo con il tempo inquieto della contemporaneità. E anche, un po’, per vincere. Remo Bodei, professore di Filosofia presso la University of California a Los Angeles e Presidente del comitato scientifico del Festival, è uno dei protagonisti di questa maratona del pensiero.
Professore, partiamo dall’origine greca della parola agonismo, cosa resiste dell’antica accezione del termine, e cosa invece è andato perduto o si è trasformato?
«“Agon” è la lotta in vista di una vittoria, in tutte le sue accezioni, fino all’agonia, che è la lotta estrema contro la morte. Direi che grosso modo si è conservato l’essenziale dell’accezione greca, che anzi si è estesa dal campo di partenza, quello sportivo, ad altri ambiti, penso ad esempio a quello economico, che vede tra l’altro l’uso di un modello di origine sportiva di tipo specifico, la corsa. Se pensiamo poi alla concorrenza, come non ricordare la metafora agonistica usata da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi? “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, scrive San Paolo, sottolineando che la differenza, semmai, è nel fatto che gli atleti si muovono per “una corona che appassisce”, mentre i cristiani sono chiamati per “una che dura per sempre”. Interessante notare il suo riferimento al pugilato - “Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria”, cioè invita a colpire in modo da fare male».
In che cosa differisce l’agonismo religioso da quello laico?
«Più che di differenze parlerei di una ripresa laica dello stesso tema, ad esempio con Hobbes, in cui la gara non è conquistare il paradiso, ma vincere sugli altri al punto che la felicità consiste nel sorpassare, l’infelicità nel rimanere indietro, e la fine della corsa - l’abbandono della gara - coincide con la morte. Non c’è nessun premio, nella visione laica di Hobbes, si corre per vincere».
Nella condizione agonistica prevale il cimentarsi con la vittoria (e il rassegnarsi alla sconfitta) o il partecipare alla lotta e alla competizione?
«Se uno prendesse alla lettera Pierre de Coubertin si corre per gareggiare e confrontarsi, ma da un punto di vista più essenziale la concorrenza è spietata, quindi si corre per vincere. La cosa interessante che emergerà da alcune lezioni è che sul piano animale c’è una forma di altruismo che fa bene alla competizione, e anche in campo economico, la cosiddetta economia altruistica, insegna che non sempre è un bene stravincere. Ne parlerà Massimo Recalcati in un suo intervento: anche essere sconfitti aiuta a crescere».
È pensabile una declinazione equa dell’agonismo?
«Nei cicli vitali ci sono sempre i salvati e i sommersi, per dirla con Primo Levi, e la conquista della democrazia vorrebbe che ci fossero, intorno a noi, non nemici, ma avversari. Il problema è nelle condizioni di partenza: è vero che bisogna crearle, in modo tale che poi ognuno sia messo in grado di fare la sua corsa, ma spesso è un’ipocrisia».
Quali sono gli autori che meglio di altri hanno illustrato la dimensione dell’agonismo?
«Nella filosofia è davvero una dimensione iniziale. Pitagora paragonava la contemplazione filosofica con l’andare allo stadio a guardare i contendenti - aggiungendo che se c’era una differenza consisteva nel fatto che la contemplazione filosofica era gratis, mentre allo stadio si doveva pagare. Nei cosiddetti presocratici, il “polemos”, la guerra, è il padre di tutte le cose, segna l’inizio per eccellenza. E da questo discendeva non solo una filosofia, ma un modo di vita per cui la disciplina, l’entrare in conflitto con se stessi, il sottoporsi a esercizi fisici e spirituali, rafforza l’individuo».