Riscopriamo l’etica. Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee"
intervista a Giorgio Agamben
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 8 febbraio 2011)
In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali - oggetto di una costante erosione - trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.
Proveremo a trattare la questione "credere, credenza", affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di "veridizione". Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».
Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?
«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».
Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?
«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».
Un esempio?
«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, "credere in Gesù Cristo" e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. -La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula "Credo perché è assurdo"».
Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?
«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi. È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di "testimonianza", mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto "l’ho fatto perché così mi piaceva". L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».
Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.
«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».
In Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?
«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione.
Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».
È una strada ancora aperta?
«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: "com’è grazioso - cioè capace di gratuità - l’uomo quando è veramente umano". È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».
Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.
«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».
Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.
«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla "cura di sé", sulla "pratica di sé". Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
PARRHESIA EVANGELICA:IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
CRITICA DELLA CONOSCENZA E DELLA RAGIONE MEDICA....
C. F. SAMUEL HAHNEMANN: "AUDE SAPERE". LA RIVOLUZIONE COPERNICANA IN MEDICINA. Alcune indicazioni per una rilettura dell’Organon dell’arte del guarire
ANTROPOLOGIA E FENOMENOLOGIA DELL’ESPERIENZA (POSSIBILE):
CON KANT (DANTE, PROUST, E HUSSERL), ALLA RICERCA DELL’ IO "ASSENTE".
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"L’ESPERIENZA IMPOSSIBILE
di Irene Calabrò (FataMorgana Web, 15 luglio 2024)
In uno dei testi che compongono Idea della prosa, Giorgio Agamben trova il modo di esprimere l’inesprimibile, un’«esperienza decisiva che, per chi l’abbia avuta, si dice sia così difficile da raccontare», che «non è nemmeno un’esperienza» (2013, p. 15): è «il punto in cui tocchiamo i limiti del linguaggio» (ibidem); il punto in cui tocchiamo la nostra materia.
Cosa significa per uno scrittore o per una scrittrice toccare la materia della parola? Significa forse, seguendo Agamben, fare un’esperienza indicibile; un’esperienza impossibile da raccontare, e che, tuttavia, è la materia che dà forma a qualsiasi scrittura, a qualsiasi racconto. Forse il racconto, che è la messa in forma dell’esperienza, può essere formato solo da chi abbia esperito l’impossibilità di raccontare; che abbia, cioè, fatto esperienza di un’impossibilità di fare esperienza. Che sia stato in un luogo e in un tempo in cui non può, però, dire di esserci stato - quello che Agamben, altrove, definisce un «vuoto centrale, una sospensione o uno scarto», un foglio bianco: «Come se al centro di tutto quello che ho provato a vivere e a scrivere ci fosse un istante, anche solo un quarto di secondo, perfettamente vuoto, perfettamente invivibile» (Agamben 2022, p. 65).
Che ci sia un istante invivibile, significa, innanzitutto, che in un tempo e in luogo imprecisabili, qualcuno non ha potuto fare esperienza di ciò che tuttavia stava esperendo; uno scarto, in cui l’io che cerca di ricordare non può dire di essere stato quell’io che ha vissuto quello che ha vissuto. In effetti, la condizione di possibilità principale che permette di fare esperienza, in un determinato spazio e in un determinato tempo, è la possibilità di dire io. Ma non è proprio rispetto al passato che l’io si trova, spesso, necessariamente, costretto a dubitare della sua presenza passata? Al termine della postfazione al suo testo Patologie (Quodlibet, 2024), Antonella Moscati ragiona proprio su questo vortice di tensioni: c’è un’incalcolabile frazione di tempo che separa le percezioni, le sensazioni, il vissuto dalla memoria che ne abbiamo, ossia dal momento di «registrazione contemporanea o quasi contemporanea di ciò che viviamo» (Moscati 2024, p. 96), separazione che aumenta col passare del tempo, e che è «all’origine di ciò che consideriamo un io umano» (ibidem).
Patologie è composto da due testi, Patologie e Agt. Il primo è «una narrazione semicomica» di una materia, le malattie, che per Moscati è una «materia [...] sempre dolorosa» (ivi, p. 93), di cui si trova traccia in altre sue narrazioni, come in Deliri (2009) o in Una quasi eternità (2022). Quel racconto, in cui Moscati rimaneggia la tara della sua famiglia, ossia la paura delle malattie mortali (ivi, p. 9), è una commedia che è contraria alle sue «disposizioni abituali» narrative (ivi, p. 93), che invece si riconoscono nel secondo racconto, Agt, in cui narra di un episodio di amnesia globale transitoria, che non ha «proprio niente di comico», e che è scritto nella forma più consona a Moscati, ossia «quella che cerca di ritagliare uno spazio fra teoria e narrazione, fra filosofia e vissuto» (ibidem). Benché Patologie e Agt siano allora diametralmente opposti, sono messi insieme perché appaiono «come le due facce di una stessa medaglia, due modi opposti per interrogarsi sulla stessa cosa: come nasce il ricordo, chi è che ricorda, quando, come e se possiamo dire che un ricordo è vero» (ivi, pp. 93-94).
Patologie è un racconto dettagliato della maniera in cui quella tara di famiglia - la paura delle malattie, tutte (o quasi) mortali - prendeva forma: dalla considerazione delle malattie da parte del padre, un «dermosifilopatico» che credeva che «potessero guarire solo le malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedevano a occhio nudo» (ivi, p. 14), alle pratiche quasi religiose che aiutavano a gestire l’ansia di contrarre malattie, come la lettura del «Roversi», la «bibbia medica» che Moscati e le sue sorelle leggevano anche prima di addormentarsi: «Di certo meno commovente di Piccole donne o Pattini d’argento, ma molto più istruttivo intorno a tutte quelle nozioni che ci sarebbero servite nella nostra carriera di medico non medico» (ivi, p. 33). Fino ad arrivare a immaginare una soluzione per non vivere più nella perenne proiezione di possibili malattie mortali: «Fuggir via dai nostri corpi»; sentirsi «parti infinitesimali, atomi, anzi fotoni, quarks, quanti o addirittura neutrini» (ivi, p. 61); trasferirsi in una dimensione che supera anche la distinzione tra vita e morte, «perché in quell’infinita materia fisica e metafisica morire non è nemmeno come galleggiare e respirare al ritmo e al passo delle brezze e delle onde marine, ma solo come scomparire o comparire nell’aritmia del soffio di venti poderosi, nei movimenti delle onde e delle tempeste cosmiche, delle turbolenze che spazzano le giganti rosse disperdendo le sabbie stellari» (ivi, p. 62).
Agt, invece, è un chiaro momento di riflessione filosofica, dove l’accumulo di ricordi del primo testo sparisce per fare spazio a un buco nella memoria: un episodio accaduto in una mattina di fine maggio al mare, dove Moscati fa esperienza di un’assenza di sé, quindi propriamente, di un’esperienza impossibile. «Agt è acronimo di Amnesia globale transitoria, dove globale sta per retrograda e anterograda, oblio cioè di quanto è accaduto prima e di tutto quanto accade o sta accadendo durante l’episodio di amnesia» (ivi, p. 65).
Moscati riflette sulla sua impossibilità di ricordare quell’episodio, perché nell’Agt «non c’è nessuno che registri alcunché, perché io mi assento, io scompaio» (ivi, p. 67). «L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni» è la frase della Critica della ragion pura di Kant a cui Moscati pensa nel momento in cui, subito dopo l’attacco di Agt, recupera «la memoria, quella cosciente, quella che rileva scrupolosamente tutte le nostre percezioni nel momento in cui ci accadono, attestandone così l’esistenza» (ibidem).
Ed è il ritornello del racconto: in quella frase di Kant, si condensa la possibilità dell’io di registrare coscientemente le rappresentazioni, ossia «tutto ciò che si presenta volontariamente o involontariamente alla mente» (ivi, p. 69), e che permette di dire a un io di aver propriamente esperito. In quella mattina al mare, però, benché fosse sveglia e in grado di dare le sue generalità, la sua coscienza si è eclissata, come se qualcuno l’avesse sostituita: «Al mio posto, allora chi c’era? Chi è quell’ombra antica, quel residuo incolore, cieco e sordo, che pur senza aver perso i sensi ne è completamente privo, perché sentire è sempre anche sapere di sentire, forse persino per i neonati» (ivi, p. 71). È possibile considerare un’esperienza quel momento in cui l’io scompare e al suo posto sembra che qualcun altro viva, parli, si muova, guardi senza coscienza alcuna, ossia senza lasciare traccia del vissuto? Quel momento in cui, spiega Moscati con Leibniz, forse sì, si percepisce, ma ciecamente, ossia senza appercepirsi, senza vedere che si sta percependo (ivi, pp. 74-75). Sarà, forse, un’esperienza davvero materica, che si libera di qualsiasi rappresentazione delle rappresentazioni? Che rapporto intrattiene, in quel caso, il pensiero con la memoria, con la registrazione contemporanea della cosa che si sta esperendo? E dove va a finire quell’“io penso” senza cui non si può neppure scrivere? O forse è proprio quella regione impensabile che, diviene, poi, la materia stessa della scrittura?
Di quell’episodio, Moscati riesce a mettere insieme per lo più una serie di domande sulla possibilità o meno di dire che l’io umano è tale anche quando sparisce, anche quando si dimentica di sé:
L’io penso che non registri le percezioni non ha memoria, non pensa, non è un io. Percepisce come un animale: in effetti, «gli animali non hanno io, ma hanno percezioni e memoria, forse anche una certa consapevolezza delle percezioni. Probabilmente anche per gli animali in ogni sentire c’è la percezione di sé che percepisce, ma, mancando loro la parola, quell’amalgama compatto di percezione appercettiva dal quale e nel quale ha inizio il pensiero non può mai sapersi e rammemorarsi come tale, venendo a coscienza saputa» (ivi, p. 77).
Alla fine di Deliri, Moscati racconta che una volta, a Trapani, qualcuno le spiegò che i tonni, «animali così grossi e possenti» restano «preda quasi senza reagire delle reti in cui cadono durante la mattanza» per un difetto di vista (Moscati 2009, p. 102): «I tonni vedono gli oggetti vicini molto ingranditi e sopravvalutano quindi la grandezza e la forza delle maglie della rete. Ritengono perciò che sia impossibile forzarle e si mettono a passeggiare lentamente forse per riflettere sul da farsi. Ed è proprio qui, in questo momento di pausa, d’indecisione o di scoraggiamento, che i pescatori affondano i loro arpioni» (ivi, p. 102). La morte dei tonni è destinata a ripetersi perché, come spiega Moscati, nessun tonno è mai tornato da “quell’esperienza di morte” per raccontare l’errore. Accade perché un tonno non può dire e raccontare quell’errore? Forse, però, alcune scritture e alcuni racconti fanno leva proprio su quell’impossibile, su una sorta di “esperienza di morte”: su un buco nell’esperienza; su un’assenza dell’io. Uno scarto nell’esperienza che, tuttavia, diviene la materia stessa della scrittura: una potenza di dire nel vuoto - al limite, una scrittura animale.
In fondo, qualsiasi scrittura, qualsiasi racconto che traggono la loro linfa da un momento del passato devono scontrarsi con un mero dato di fatto: chi scrive non è più nel momento e nel luogo di cui scrive. Poco importa, allora, se l’accaduto che si rimaneggia sia stato vissuto realmente o meno: una specie di in-archiviabile governa quelle “rappresentazioni”, perché il ricordo conservato solo nella mente sembra sfuggire a qualsiasi possibilità di riproduzione che permetta di ripeterlo in altri tempi e luoghi, imponendo a chi scrive di fare i conti con uno scarto nel vissuto, con un’esperienza di cui non è più possibile fare esperienza. Come se la scrittura avesse a che fare con l’irrappresentabile: la morte, ossia con l’esperienza impossibile per eccellenza. Anche in Patologie, in fondo, si fa leva su uno scarto: «Poiché probabilmente anche nel più sincero e abbagliante ricordare ci sono stati strappi impercettibili che abbiamo ricucito con maestria» (Moscati 2024, p. 95).
Patologie, dunque, sembra derivare da un vuoto; un vuoto che diviene la possibilità stessa della scrittura, laddove si mostra che la materia del racconto e delle riflessioni è l’esperienza, talvolta anche impercettibile, della sparizione dell’io.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2013.
Id., Quel che ho visto, udito, appreso..., Einaudi, Torino 2022.
A. Moscati, Deliri, nottetempo, Roma 2009.
Id., Una quasi eternità, Quodlibet, Macerata 2022.
NOTE:
Una voce
Che cos’è la paura?
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 13 luglio 2020)
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini sembrano a tal punto caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo - eppure, se cerchiamo di definirla, sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento.
La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità».
D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si
cerca - senza riuscirci - di evadere.
Ciò è evidente nel malumore, nella noia o nella depressione, che, come ogni tonalità emotiva, aprono l’Esserci «più originariamente di ogni percezione di sé», ma anche lo chiudono «più recisamente di qualsiasi non-percezione». Così nella depressione «L’Esserci diventa cieco nei confronti di se stesso; il mondo ambiente di cui si prende cura si vela, la previsione ambientale si oscura»; e, tuttavia, anche qui l’Esserci è consegnato a un’apertura da cui non può in alcun modo liberarsi.
È sullo sfondo di questa ontologia delle tonalità emotive che occorre situare la trattazione della paura. Heidegger comincia con l’esaminare tre aspetti del fenomeno: il «davanti a che» (wovor) della paura, l’«aver paura» (Furchten) e il «per-che» (Worum) della paura. Il «davanti a che», l’oggetto della paura è sempre un ente intramondano. Ciò che spaventa è sempre - quale che sia la sua natura - qualcosa che si dà nel mondo e che, come tale, ha il carattere della minacciosità e della dannosità. Esso è più o meno noto, «ma non per questo rassicurante» e, quale che sia la distanza da cui proviene, si situa in una determinata prossimità. «L’ente dannoso e minaccioso non è ancora a distanza controllabile, ma si avvicina. Man mano che esso si avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia... In quanto si avvicina, il dannoso diventa minaccioso, possiamo esserne colpiti o no. Nel farsi più vicino si accresce questo «è possibile ma forse anche no”... l’avvicinarsi di ciò che è nocivo ci fa scoprire la possibilità di essere risparmiati, del suo passar oltre, ma questo non sopprime né diminuisce la paura, anzi l’accresce» (pp. 140-41). (Questo carattere per così dire «certa incertezza» che caratterizza la paura è evidente anche nella definizione che ne dà Spinoza: una «tristezza incostante», in cui «si dubita dell’evento di qualcosa che si odia»).
Quanto al secondo carattere della paura, il temere (lo stesso «aver paura»), Heidegger precisa che non viene prima previsto razionalmente un male futuro, che poi, in un secondo tempo, viene temuto: fin dall’inizio, piuttosto, la cosa che si avvicina è scoperta come temibile. «Solo avendo paura, la paura può, osservando espressamente, rendersi conto di ciò che fa paura. Ci si accorge di ciò che fa paura, perché ci si trova già nella situazione emotiva della paura. Il temere, in quanto possibilità latente dell’essere-al-mondo emotivamente disposto, la paurosità, ha già scoperto il mondo in modo tale, che da esso possa avvicinarsi qualcosa che fa paura» (p. 141). La paurosità, in quanto apertura originaria dell’Esserci, precede sempre ogni determinabile paura.
Quanto, infine, al «per-che», al «per chi e per che cosa» la paura ha paura, in questione è sempre l’ente stesso che ha paura, l’Esserci, quest’uomo determinato. «Solo un essere per il quale nel suo esistere, ne va del suo stesso esistere, può spaventarsi. La paura apre questo ente nel suo essere in pericolo, nel suo essere abbandonato a se stesso» (ibid.). Il fatto che a volte si prova paura per la propria casa, per i propri beni o per gli altri non è un’obiezione contro questa diagnosi: si può dire di «aver paura» per un altro, senza per questo veramente spaventarsi e, se si prova effettivamente paura, è per noi stessi, in quanto temiamo che l’altro ci venga strappato.
La paura è, in questo senso, un modo fondamentale della disposizione emotiva, che apre l’essere umano nel suo essere già sempre esposto e minacciato. Di questa minaccia si danno naturalmente diversi gradi e misure: se qualcosa di minaccioso, che ci sta davanti col suo «per ora non ancora, ma tuttavia in qualsiasi momento», piomba improvvisamente su questo essere, la paura diventa spavento (Erschrecken); se il minaccioso non è già noto, ma ha il carattere dell’estraneità più profonda, la paura diventa orrore (Grauen). Se esso unisce in sé entrambi questi aspetti, allora la paura diventa terrore (Entsetzen). In ogni caso, tutte le diverse forme di questa tonalità emotiva, mostrano che l’uomo, nella sua stessa apertura al mondo, è costitutivamente «impaurito».
La sola altra tonalità emotiva che Heidegger esamina in Essere e tempo è l’angoscia ed è all’angoscia - e non alla paura - che viene attribuito il rango di tonalità emotiva fondamentale. E, tuttavia, è proprio in relazione alla paura che Heidegger può definirne la natura, distinguendo innanzitutto «ciò davanti a cui l’angoscia è angoscia da ciò davanti a cui la paura è paura» (p. 186). Mentre la paura ha sempre a che fare con qualcosa, il «“davanti a che” dell’angoscia non è mai un ente intramondano». Non solo la minaccia che qui si produce non ha il carattere di un possibile danno ad opera di una cosa minacciosa, ma «il “davanti a che” dell’angoscia è completamente indeterminato. Questa indeterminatezza non solo lascia del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che, in generale, l’ente intramondano è “irrilevante”» (ibid.). Il «davanti a che» dell’angoscia non è un ente, ma il mondo come tale. L’angoscia è, cioè, l’apertura originaria del mondo in quanto mondo (p. 187) e «solo perché l’angoscia determina già sempre latentemente l’essere-al-mondo dell’uomo, questi... può provare paura. La paura è un’angoscia caduta nel mondo, inautentica e nascosta a se stessa» (p. 189).
È stato non senza ragione osservato che il primato dell’angoscia rispetto alla paura che Heidegger afferma può essere facilmente rovesciato: invece di definire la paura come un’angoscia diminuita e decaduta in un oggetto, si può altrettanto legittimamente definire l’angoscia come una paura privata del suo oggetto. Se si toglie alla paura il suo oggetto, essa si trasforma in angoscia. In questo senso, la paura sarebbe la tonalità emotiva fondamentale, in cui l’uomo è già sempre a rischio di cadere. Di qui il suo essenziale significato politico, che la costituisce come ciò in cui il potere, almeno a partire da Hobbes, ha cercato il suo fondamento e la sua giustificazione.
Proviamo a svolgere e proseguire l’analisi di Heidegger. Significativo, nella prospettiva che qui ci interessa, è che la paura si riferisca sempre a una «cosa», a un ente intramondano (nel caso presente, al più piccolo degli enti, un virus). Intramondano significa che esso ha smarrito ogni relazione con l’apertura del mondo ed esiste fattiziamente e inesorabilmente, senza alcuna possibile trascendenza. Se la struttura dell’essere-al-mondo implica per Heidegger una trascendenza e un’apertura, è proprio questa stessa trascendenza a consegnare l’Esserci alla sfera della cosalità. Essere-al-mondo significa infatti essere cooriginariamente rimesso alle cose che l’apertura del mondo rivela e fa apparire. Mentre l’animale, privo di mondo, non può percepire un oggetto come oggetto, l’uomo, in quanto si apre a un mondo, può essere assegnato senza scampo a una cosa in quanto cosa.
Di qui la possibilità originaria della paura: essa è la tonalità emotiva che si dischiude quando l’uomo, perdendo il nesso fra il mondo e le cose, si trova irremissibilmente consegnato agli enti intramondani e non può venire a capo del suo rapporto con una «cosa», che diventa ora minacciosa. Una volta smarrita la sua relazione al mondo, la «cosa» è in se stessa terrorizzante. -La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.
Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia - ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa -, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». -Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura. Analogamente, per rassicurarsi ci si può affidare a qualcuno cui si riconosce una qualche autorità in materia - ad esempio a un medico o ai funzionari della protezione civile - ma questo non abolisce in alcun modo la sensazione di insicurezza che accompagna la paura, che è costitutivamente una volontà di insicurezza, un voler-essere-insicuro. E questo è tanto vero che gli stessi soggetti che dovrebbero rassicurare intrattengono invece l’insicurezza e non si stancano di ricordare, nell’interesse degli impauriti, che ciò che fa paura non può essere vinto e eliminato una volta per tutte.
Come venire a capo di questa tonalità emotiva fondamentale, nella quale l’uomo sembra costitutivamente sempre in atto di precipitare? Dal momento che la paura precede ed anticipa la conoscenza e la riflessione, è inutile cercare di convincere l’impaurito con prove e argomenti razionali: la paura è innanzitutto l’impossibilità di accedere a un ragionamento che non sia suggerito dalla stessa paura. Come scrive Heidegger, la paura «paralizza e fa perdere la testa» (p. 141). Così di fronte all’epidemia si è visto che la pubblicazione di dati e opinioni certi provenienti da fonti autorevoli era sistematicamente ignorata e lasciata cadere in nome di altri dati e opinioni che non provavano nemmeno a essere scientificamente attendibili.
Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti.
L’unica possibilità di recidere la «cosa» dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria - il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo - può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La «cosa» che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani - come quest’albero, questo torrente, quest’uomo - aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo - e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano - detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà.
La medicina come religione
di Giorgio Agamben (Quolibet, 02 maggio 2020
Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente. Nell’Occidente moderno hanno convissuto e, in certa misura, ancora convivono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo, il capitalismo e la scienza. Nella storia della modernità, queste tre «religioni» si sono più volte necessariamente incrociate, entrando di volta in volta in conflitto e poi in vario modo riconciliandosi, fino a raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del comune interesse.
Il fatto nuovo è che fra la scienza è le altre due religioni si è riacceso senza che ce ne accorgessimo un conflitto sotterraneo e implacabile, i cui esiti vittoriosi per la scienza sono oggi sotto i nostri occhi e determinano in maniera inaudita tutti gli aspetti della nostra esistenza. Questo conflitto non concerne, come avveniva in passato, la teoria e i principi generali, ma, per così dire, la prassi cultuale. Anche la scienza, infatti, come ogni religione, conosce forme e livelli diversi attraverso i quali organizza e ordina la propria struttura: all’elaborazione di una dogmatica sottile e rigorosa corrisponde nella prassi una sfera cultuale estremamente ampia e capillare che coincide con ciò che chiamiamo tecnologia.
Non sorprende che protagonista di questa nuova guerra di religione sia quella parte della scienza dove la dommatica è meno rigorosa e più forte l’aspetto pragmatico: la medicina, il cui oggetto immediato è il corpo vivente degli esseri umani. Proviamo a fissare i caratteri essenziali di questa fede vittoriosa con la quale dovremo fare i conti in misura crescente.
1) Il primo carattere è che la medicina, come il capitalismo, non ha bisogno di una dogmatica speciale, ma si limita a prendere in prestito dalla biologia i suoi concetti fondamentali. A differenza della biologia, tuttavia, essa articola questi concetti in senso gnostico-manicheo, cioè secondo una esasperata opposizione dualistica. Vi è un dio o un principio maligno, la malattia, appunto, i cui agenti specifici sono i batteri e i virus, e un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia. Come in ogni fede gnostica, i due principi sono chiaramente separati, ma nella prassi possono contaminarsi e il principio benefico e il medico che lo rappresenta possono sbagliare e collaborare senza rendersene conto con il loro nemico, senza che questo invalidi in alcun modo la realtà del dualismo e la necessità del culto attraverso cui il principio benefico combatte la sua battaglia. Ed è significativo che i teologi che devono fissarne la strategia siano i rappresentanti di una scienza, la virologia, che non ha un luogo proprio, ma si situa al confine fra la biologia e la medicina.
2) Se questa pratica cultuale era finora, come ogni liturgia, episodica e limitata nel tempo, il fenomeno inaspettato a cui stiamo assistendo è che essa è diventata permanente e onnipervasiva. Non si tratta più di assumere delle medicine o di sottoporsi quando è necessario a una visita medica o a un intervento chirurgico: la vita intera degli esseri umani deve diventare in ogni istante il luogo di una ininterrotta celebrazione cultuale. Il nemico, il virus, è sempre presente e deve essere combattuto incessantemente e senza possibile tregua. Anche la religione cristiana conosceva simili tendenze totalitarie, ma esse riguardavano solo alcuni individui - in particolare i monaci - che sceglievano di porre la loro intera esistenza sotto l’insegna «pregate incessantemente». La medicina come religione raccoglie questo precetto paolino e, insieme, lo rovescia: dove i monaci si riunivano in conventi per pregare insieme, ora il culto deve essere praticato altrettanto assiduamente, ma mantenendosi separati e a distanza.
3) La pratica cultuale non è più libera e volontaria, esposta solo a sanzioni di ordine spirituale, ma deve essere resa normativamente obbligatoria. La collusione fra religione e potere profano non è certo un fatto nuovo; del tutto nuovo è, però, che essa non riguardi più, come avveniva per le eresie, la professione dei dogmi, ma esclusivamente la celebrazione del culto. Il potere profano deve vegliare a che la liturgia della religione medica, che coincide ormai con l’intera vita, sia puntualmente osservata nei fatti. Che si tratti qui di una pratica cultuale e non di un’esigenza scientifica razionale è immediatamente evidente. La causa di mortalità di gran lunga più frequente nel nostro paese sono le malattie cardio-vascolari ed è noto che queste potrebbero diminuire se si praticasse una forma di vita più sana e se ci si attenesse a una alimentazione particolare. Ma a nessun medico era mai venuto in mente che questa forma di vita e di alimentazione, che essi consigliavano ai pazienti, diventasse oggetto di una normativa giuridica, che decretasse ex lege che cosa si deve mangiare e come si deve vivere, trasformando l’intera esistenza in un obbligo sanitario. Proprio questo è stato fatto e, almeno per ora, la gente ha accettato come se fosse ovvio di rinunciare alla propria libertà di movimento, al lavoro, alle amicizie, agli amori, alle relazioni sociali, alle proprie convinzioni religiose e politiche.
Si misura qui come le due altre religioni dell’Occidente, la religione di Cristo e la religione del denaro, abbiano ceduto il primato, apparentemente senza combattere, alla medicina e alla scienza. La Chiesa ha rinnegato puramente e semplicemente i suoi principi, dimenticando che il santo di cui l’attuale pontefice ha preso il nome abbracciava i lebbrosi, che una delle opere della misericordia era visitare gli ammalati, che i sacramenti si possono amministrare solo in presenza. Il capitalismo per parte sua, pur con qualche protesta, ha accettato perdite di produttività che non aveva mai osato mettere in conto, probabilmente sperando di trovare più tardi un accordo con la nuova religione, che su questo punto sembra disposta a transigere.
4) La religione medica ha raccolto senza riserve dal cristianesimo l’istanza escatologica che quello aveva lasciato cadere. Già il capitalismo, secolarizzando il paradigma teologico della salvezza, aveva eliminato l’idea di una fine dei tempi, sostituendola con uno stato di crisi permanente, senza redenzione né fine. Krisis è in origine un concetto medico, che designava nel corpus ippocratico il momento in cui il medico decideva se il paziente sarebbe sopravvissuto alla malattia. I teologi hanno ripreso il termine per indicare il Giudizio finale che ha luogo nell’ultimo giorno. Se si osserva lo stato di eccezione che stiamo vivendo, si direbbe che la religione medica coniughi insieme la crisi perpetua del capitalismo con l’idea cristiana di un tempo ultimo, di un eschaton in cui la decisione estrema è sempre in corso e la fine viene insieme precipitata e dilazionata, nel tentativo incessante di poterla governare, senza però mai risolverla una volta per tutte. È la religione di un mondo che si sente alla fine e tuttavia non è in grado, come il medico ippocratico, di decidere se soppravviverà o morirà.
5) Come il capitalismo e a differenza del cristianesimo, la religione medica non offre prospettive di salvezza e di redenzione. Al contrario, la guarigione cui mira non può essere che provvisoria, dal momento che il Dio malvagio, il virus, non può essere eliminato una volta per tutte, anzi muta continuamente e assume sempre nuove forme, presumibilmente più rischiose.
L’epidemia, come l’etimologia del termine suggerisce (demos è in greco il popolo come corpo politico e polemos epidemios è in Omero il nome della guerra civile) è innanzi tutto un concetto politico, che si appresta a diventare il nuovo terreno della politica - o della non-politica - mondiale. È possibile, anzi, che l’epidemia che stiamo vivendo sia la realizzazione della guerra civile mondiale che secondo i politologi più attenti ha preso il posto delle guerre mondiali tradizionali. Tutte le nazioni e tutti i popoli sono ora durevolmente in guerra con sé stessi, perché il nemico invisibile e inafferrabile con cui sono in lotta è dentro di noi.
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT. Nota ... *
* Nota:
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT...
CONSIDERATO, PURTROPPO, CHE ” Le riflessioni” di Agamben non riguardano l’epidemia del CORONAVIRUS, “ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa”, ACCOLTA “L’ipotesi [...] che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già [...]”
E CONDIVISA L’IDEA CHE BISOGNA RIFLETTERE SUL “[...] bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo [...]”
E, ANCORA, CHE “come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure. [....] sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” (cf. G. Agamben, “Riflessioni...” : https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste),
PER NON PERDERE IL “FILO” DI “SOFIA” E, CON ESSA, ANCHE LA VITA E LA “SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL SUO “SAPERE AUDE!”, IO RIPRENDEREI IL DISCORSO dalla citazione evangelica, utilizzata anche dallo stesso Agamben in “Pilato e Gesù” (nottetempo 2013), relativa al problema dell’ ECCE HOMO (cfr. RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO ... http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632) e dalla LEZIONE DI KANT sull’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) E SULLA “fine di tutte le cose” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5026). O no?! Boh e bah?!
Federico La Sala
IN SPIRITO DI “AMISTAD” (Steven Spielberg.)! UNA MEDITAZIONE “SAMASATI” .... *
“CORONAVIRTUS” - NOTE A MARGINE DELLE “TESI DI APRILE”, PER USCIRE DALL’ABISSALE VORTICE DEL “MULINO D’AMLETO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=38023#comment-427595):
LENIN PRIMA
(http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2372),
GRAMSCI SUBITO DOPO ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154),
PASOLINI E FACHINELLI POCO FA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4352#forum3157066 ).
CHE ASPETTIAMO ANCORA?! DAVVERO IL MESSIA?! Nelson Mandela ci può insegnare ancora qualcosa, mi sembra ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269)!
“SAMASATI”: RICORDATI CHE SEI UN “BUDDHA”. “Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è” (Nietzsche): Dante ha segnato la strada (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2958)!
Franco Fortini sapeva convivere con “le contraddizioni della verità”, perché sapeva che per comprendere Dante bisognava cominciare a leggere la “Commedia” dal “Paradiso”, non dall’ “Inferno”. Forse sapeva, come sapeva una mia amica che, “per conoscere, bisogna essere già felici” .... O no?! Boh e bah!?
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Cfr. “Dal contagio alla vita. E ritorno. Ancora in margine alle parole di Agamben”.
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
QUESTIONE EPOCALE. Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito....
Nota a margine “Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità” *
E’ DA DIRE che, nonostante “La veglia per Finnegan” (James Joyce), la “Storia notturna” (Carlo Ginzburg) continua: “Ulisse” prosegue il suo “folle volo” ancora nel mare eracliteo (“la stessa cosa sono Ade e Dioniso”)! E, nell’orizzonte cartesiano-heideggeriano, la traccia della “fanciulla straniera” è perduta e, con essa, ogni possibilità di distinguere tra “charitas” e “caritas” (“virus” e “virtus”, “Forza, Italia” e “Forza Italia”, ecc.)!!! Il tempo scorre ... e Dante Alighieri è già oltre!
Non è forse ora di svegliar-si e uscire fuori dall’ inferno epistemologico paolino-hegeliano e dallo “stato di eccezione” schmittico-agambeniano?! Non si è ancora capita la “battuta” di Ponzio Pilato (“Ecce Homo”), di Giuliano l’Apostata e di Keplero (“Vicisti, Galilaee”, 1610)?! Ennio Flaiano , nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”, così scrive: “L’ Amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galileo”! Che dire?! In tempi di “peste”, non è male ricordare Manzoni, i “Promessi sposi”, e la sua “ardua sentenza” su Napoleone. Credo che sia meglio, ora e subito, uscire dal let-argo! O no?!
*
CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”! *
Pensare dentro l’emergenza
di Igino Domanin (Le parole e le cose, 1 Marzo 2020)
Mi trovo a una piccola riunione tra amici, è sabato 22 febbraio, arrivano le prime notizie, ormai le conferme, sul Coronavirus. Ha fatto la sua apparizione improvvisa e contagiosa a Codogno, nel Lodigano, in realtà un centro vicinissimo a Milano. Non sono molto cosciente di cosa sta per succedere, ma uno dei convitati mi ha appena detto di essere passato al supermercato per una spesa fuori del normale. Provviste di scatolame, qualche pacco di pasta, non sia mai che scarseggino. Ammetto che questa situazione mi coglie impreparato, fino a quel momento la visione della città cinese, dove tutto è nato, appariva lontana e virtuale. Mi faceva venire in mente la miniserie su Chernobyl.
Gran parte delle nostre percezioni sono rivolte a costrutti, artefatti, manipolazioni, cose che non esistono come fatto naturale ed esterno alla nostra azione. Siamo parecchio abituati a pensare che la nostra condizione di fondo sia in realtà un prodotto, qualcosa che esiste, in fondo, solo per noi e che dipende da noi. Un forte anestetico che allenta la necessità di avere dolorose reazioni empatiche alle catastrofi quotidiane che appaiono nel nostro mondo mediatizzato. La Natura sembra non preoccupare molto, si muore sempre più tardi, molte malattie si curano e si prevengono. Anche se qualche giorno prima di quel famoso sabato, un assicuratore mi ha proposto una polizza per cure a lungo termine. In pratica, mi dice: lo sai che ti toccherà vivere a lungo e ti pare bello, ma la vita, quando invecchi peggiora, e può essere costosissimo viverla se diventi dipendente da qualcuno che si occupi di te. Ho visto gente distruggere il patrimonio, forse è meglio che ci pensi adesso a pararti con una bella polizza. Quando ti capiterà (ed è statistico), che ti becchi una invalidità, l’assicurazione ci pensa. Ah ecco, siamo dentro il crepuscolo della probabilità, inchiodati in un corpo destinato a una lentissima malattia, ma ostinatamente sopravvivente. Non è mica tanto vero, quindi, che non ci attende la natura, che possiamo vivere anestetizzati come una sorta di parodia della sostanza pensante cartesiana. Dobbiamo preoccuparci in modo opaco della nostra corporeità, impegnati in un lavorio assiduo, dipendente da circostanze accidentali e fortuite, ma potenzialmente incombenti.
Ed eccomi alla domanda che mi sono posto, rispetto a certa abitudine filosofica tardonovecentesca d’infilare tutta la realtà nella finzione, nella mediatizzazione, nel dispositivo e finanche nelle baggianate dello storytelling. Cosa succede, invece, quando arriva un pericolo esterno, un’aggressione della nostra natura umana, che non è in nostro potere e che sconvolge quella idea molto radicata per cui il tratto fondamentale della condizione umana parrebbe determinato da questa onnipotenza del volere, da una supposta artificializzazione assoluta, da una decisione a cui è appesa l’intera possibilità della realtà? In effetti, il disagio che provoca la situazione dell’epidemia di Coronavirus, in me e in molti altri, è la mancanza di risposte. Un’alterità insorta naturalmente, che si rapporta a me e che non dipende da me e che mi condiziona in modo radicale fino a minacciare sordamente la mia stessa esistenza. Un’alterità che non è costrutto, che esorbita dalla mia decisione, che è un Fuori, una Esteriorità senza ancora un linguaggio in grado di descriverla, ma posso solo nominarla: Covid 19.
Questa premessa per rispondere a un articolo di Giorgio Agamben che pretende d’inquadrare nel paradigma dello “stato d’eccezione” la dimensione sociale dell’epidemia di Coronavirus. Non mi convince affatto, perché cala dall’alto la certezza di un modello storico novecentesco senza metterlo alla prova. Si parte dall’idea che l’epidemia, l’evento virale e patogeno e tutte le sue conseguenze siano appunto un costrutto, una macchinazione politica, un “dispositivo” che produce un certo tipo di realtà fondata sulla necessità del controllo e della normalizzazione medica. Insomma tutta la pesante assiomatica che ruota intorno a questa surrettizia metafisica della decisione, non a caso dipendente da una teologia politica, che ignora la cogenza ontologica della natura e dei suoi eventi. Una natura, cioè, che è irriducibile all’uomo, al sapere, al linguaggio, ma che entra prepotentemente in relazione con noi fino a provocare il trauma: l’assenza di altra parola certa che non sia l’ostinazione del nome, dell’evocazione costante e ripetuta del “coronavirus”, una realtà ancora non spiegabile eppure esistente in modo drammatico e incombente.
Abbiamo scoperto di essere esposti costitutivamente al rischio, in modo massivo e imprevedibile. In realtà, a ben vedere, la nostra società è calata nell’azzardo e nella esposizione continua a rischi catastrofici, con i quali deve convivere, pena la regressione e l’annientamento. In altri termini, non abbiamo scelta in termini metafisici, siamo destinati storicamente a rapportarci con una esteriorità che c’invade e ed entra in contatto, che può contaminarci fino ad ucciderci, ma che possiamo però rendere ospitale e convivente. Non possiamo stare nei nostri confini senza un po’ di barbarie. Non esistono fondamenti metafisici ai quali riferirsi, non ci sono evidenze scientifiche, nemmeno principi etici inderogabili ed assiomatici. L’indecidibilità, il rischio, l’incertezza, la vulnerabilità ed altro ancora disegnano una nuova figura storica della condizione umana.
Jean-Luc Nancy ha giustamente insistito in una replica, piuttosto secca, ad Agamben che si tratta appunto di aprire un rapporto positivo con l’esteriorità, con ciò che resta esterno e non assimilabile, venire a patti con un’alterità che si sa minacciosa e inconoscibile, ma che appunto impone nuove forme di convivenza su cui scommettere. Negli anni Ottanta, prima la discussione sul Principio di Responsabilità formulato da Hans Jonas, poi la Società del rischio teorizzata da Ulrich Beck e le ricerche antropologiche di Mary Douglas su Purezza e Pericolo, misero in campo una nuova prospettiva. La condizione umana è immersa in rischi potenziali insondabili e opachi, non possiamo uscire dalla esposizione alla catastrofe. In fondo Gunther Anders si era spinto a pensare a una ormai definitiva immanentizzazione dell’escatologia. La catastrofe è il nostro presente attuale, la nostra quotidianità, il nostro rischio costante. Nessuno può ritenersi protetto da un’immunità già stabilita, tutti devono fare i conti con nuovi modi contingenti e flessibili di pensare la sicurezza. Tra gli eccessi euforici dell’ordoliberismo e dell’accelerazione capitalistica dei flussi transnazionali e la paranoia sovranista che promette una sicurezza basata sulla mera reazione, forse si dovrebbe mettere in pratica pazientemente una nuova etica della responsabilità, che a mio avviso resta importante ancora oggi e dentro l’attualità di questa emergenza. Se l’epidemia del Coronavirus ci costringe a pensare dentro l’emergenza, dentro la contingenza spoglia e radicale dell’evento, allora possiamo riprendere confidenza con alcune virtù antiche, ma illuminanti. La prudenza, l’attesa, la pazienza sono l’antidoto morale a una visione paranoica e complottistica del male e della malattia, risorse morali cui attingere senza pretendere di uscire dall’incertezza.
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CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”!
APPUNTI SULLA “ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE... *
[...] PER IMPARARE “a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia”, CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di “come nascono i bambini” (a tutti i livelli)! [...] Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per “concepire” noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle “favolette” e di ogni “illusione di un altro Messia”. Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche “uomo supremo” o “superuomo”!):
PONZIO PILATO «disse loro: “Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa”. Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”. Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: “Crocifiggi! Crocifiggi!” Disse loro Pilato: “Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa”. Gli risposero gli Ebrei: “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio”» (Gv. 19, 4-7).
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i “sovranisti” laici e religiosi di ieri e di oggi ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269)?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo “Ecce Homo” e non capire una “H” (acca)?!
* Per ulteriori precisazioni, mi sia consentito, cfr. “Dal “che cosa” al “chi”: nuova ermeneutica e nuovo principio di “carità” ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5728#forum3156994).
Federico La Sala (Le parole e le cose,, 02 marzo 2020)
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ": LO "STATO DELL’ECCEZIONE UMANA" ....
La comunità degli abbandonati
di DIVYA DWIVEDI - SHAJ MOHAN *
Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi - Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.
È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”.
Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2]
Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3]
Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine - milioni di anni di tempo della natura - “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.
In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi.
Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in - la nostra responsabilità per - “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo.
Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’.
Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]
Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.
[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.
* Fonte: "Antinomie", 12/03/2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ" ! DI FRONTE A PONZIO PILATO E NON CAPIRE UN’ACCA ?!
Federico La Sala
Chiarimenti
di Giorgio Agamben 17 marzo 2020
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse falsificate.
La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita - e la paura di perderla - non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti - i nostri morti - non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto - ogni contagio - fra gli esseri umani.
Giorgio Agamben
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Archeologia e poesia
di Patricia Peterle (Alfabeta-2, 27 Gennaio 2019)
La riflessione sul perché la politica occidentale si costituisca e si mantenga attraverso l’esclusione è uno dei punti di partenza degli studi di Giorgio Agamben sulla sacertà della vita, ora raccolti nell’«edizione integrale» di Homo sacer, che riunisce i nove volumi editi tra il 1995 e il 2015. Quali sono i nessi tra politica e vita? Come la vita nuda si è trasformata in forma di vita? Leggere queste pagine nel loro insieme significa andare a fondo nella ricerca di una genealogia della politica occidentale. Già nel primo volume, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (originariamente pubblicato da Einaudi nel 1995), appunto, sono presenti molti degli aspetti cardini che verranno poi affrontati e sviluppati nelle altre indagini, prendendo in considerazione lo stato di eccezione, la guerra civile, il giuramento, l’economia; aspetti, questi, che vengono esplorati insieme a un’attenta riflessione dedicata al linguaggio, che «è forse il più antico dei dispositivi» (Che cos’è un dispositivo?, nottetempo 2006). Infatti, è attraverso il linguaggio e la sua esperienza che l’essere si costituisce come soggetto, potendo subire, d’altro canto, anche dei processi di desoggettivazione.
Fin dalle prime pagine di Homo sacer, la sfera del diritto mostra la sua «essenziale prossimità» con quella del linguaggio: «E come il linguaggio presuppone il non-linguistico come ciò con cui esso deve potersi mantenere in relazione virtuale (nella forma della langue, o, più precisamente, di un gioco grammaticale, cioè di un discorso la cui denotazione attuale è mantenuta indefinitamente in sospeso) per poterlo poi denotare nel discorso in atto, così la legge presuppone il non-giuridico (per esempio, la mera violenza in quanto stato di natura) come ciò con cui essa si mantiene in rapporto potenziale nello stato di eccezione. L’eccezione sovrana (come zona d’indifferenza fra natura e diritto) è la presupposizione della referenza giuridica nella forma della sua sospensione».
In tal senso, la domanda «in che modo il vivente ha il linguaggio» corrisponderebbe a «in che modo la nuda vita abita la polis?». E ancora, un po’ più avanti, «Il linguaggio è il sovrano che, in permanente stato di eccezione, dichiara che non vi è un fuori lingua, che esso è sempre al di là di se stesso. La struttura particolare del diritto ha il suo fondamento in questa struttura presupponente del linguaggio umano. Essa esprime il vincolo di esclusione inclusiva cui è soggetta una cosa per il fatto di essere nel linguaggio, di essere nominata. Dire è, in questo senso, sempre ius dicere». Come comprendere, dunque, i complessi processi che portarono alla nuda vita e alla sua esposizione nelle società moderne e post-democratiche?
L’archeologia è il metodo scelto da Agamben, incentrato su una genealogia della figura dell’homo sacer, necessaria a comprendere il perché siano stati possibili lo sterminio di massa, i campi di concentramento, ma anche altre realtà in cui si è avviata l’indistinzione tra corpo biologico e corpo politico (l’eutanasia, i rifugiati). L’archeologia diviene così, più che un metodo, la sola via di accesso, di comprensione del presente. Non esiste presente senza passato, un passato che comunque resta e si fa sentire nel presente, sotto forma di residui minimi che costituiscono l’essere. Se uno dei compiti del pensiero è rispondere alle occasioni mancate che solo il passato ci offre, è quindi necessario interrogare l’ombra che l’interrogazione sul presente getta sul passato. Ecco allora lo scarto tra il punto d’insorgenza di un fenomeno e il modo come la tradizione e i saperi ce lo trasmettono.
La nuda vita, cioè il grado zero della vita, concetto essenziale di tutto questo progetto di ricerca - che si presenta anche come un’esigenza -, viene presa in prestito da Walter Benjamin (preferito in questo senso a Carl Schmitt). Da un lato la vita biologica (zoé) e dall’altro la politicizzazione di essa, cioè «la buona vita» (bìos). Lo scarto tra di esse produce una vita uccidibile e, al contempo, insacrificabile, quella dell’homo sacer appunto. La vita, con la sua sacertà, diventa il centro della politica, sia se si pensa ai lager sia se si pensa, oggi, ai rifugiati. Joseph K., davanti alla porta del capitolo Davanti alla legge del Processo, è il personaggio che viene preso in considerazione per pensare la coincidenza tra corpo, esistenza e processo: la legge, anzi la pura forma di legge, coincide con la vita, cioè il momento in cui essa, non prescrivendo nulla ed esponendosi, si riafferma con più forza. Benjamin lettore di Kafka, dunque, e Agamben lettore di Benjamin e Kafka.
Nel Sacramento del linguaggio (originariamente pubblicato da Laterza nel 2008) - in cui, attraverso il giuramento, vengono accostati la religione e il diritto - la sfera del diritto si avvicina sempre di più a una parola efficace: a un dire che è proclamare, allo ius dicere - dire conforme al diritto -, al vim dicere - dire la parola efficace. In tal senso, il legame tra diritto e linguaggio proposto nei primi due libri, Homo sacer e Stato di eccezione (in origine Bollati Boringhieri 2003), assume ora altri connotati, visto che nel giuramento il rapporto fondamentale è quello della veridicità del linguaggio, ossia la dipendenza dell’efficacia del linguaggio dal legame tra le parole e le cose. L’estraneità qui è impossibile, proprio perché il linguaggio è sempre imperativo e la vita sempre più ridotta al carattere biologico, cioè forma di vita, che è diversa dalla forma-di-vita perseguita e proposta dal filosofo già in Mezzi senza fine (Bollati Boringhieri 1996) e poi ripresa alla fine dell’Uso dei corpi (ultima parte del progetto, in precedenza edita da Neri Pozza nel 2014): «la forma-di-vita, la vita propriamente umana è quella che, rendendo inoperose le opere e funzioni specifiche del vivente, le fa, per così dire, girare a vuoto e, in questo modo, le apre in possibilità». O ancora, «ciò che chiamiamo forma-di-vita corrisponde a questa ontologia dello stile, essa nomina il modo in cui una singolarità testimonia di sé nell’essere e l’essere esprime sé nel singolo corpo».
A questo proposito si fa interessante ricordare la lettura, recuperata da Agamben in Auschwitz. L’archivio e il testimone (originariamente Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri 1998), che Primo Levi fa delle poesie di Celan nel saggio Sullo scrivere oscuro. L’oscurità di Celan non è in alcun modo disprezzo del lettore: il poeta esegue una straordinaria operazione sulla lingua tedesca, che Levi paragona a un «ultimo disarticolato balbettio» e a un «rantolo di moribondo». Nella scrittura di Celan c’è qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, c’è un «rumore di fondo», dice sempre Levi, «un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte».
In questo percorso Agamben sottolinea l’importanza di far esperienza del linguaggio stesso, visto che la politica contemporanea è «questo devastante experimentum linguæ», ossia dei processi di disarticolazione e svuotamenti. Non a caso nel Regno e la Gloria (in precedenza Neri Pozza 2007) la poesia viene ancora una volta proposta come paradigma della disattivazione, proprio perché essa «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso»; e il soggetto poetico «si produce nel punto in cui la lingua è stata inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile». La poesia, nell’uso che fa del linguaggio, mette in evidenza non solo ciò che esprime ma anche il fatto stesso di dirlo, la potenza e l’impotenza di dirlo. La poesia nel suo lavoro con la lingua, la sospende e al contempo la espone. Essa infatti è un’operazione che attua nel linguaggio, disattivando e rendendo inoperose le sue funzioni comunicative e informative, aprendolo così a quel nuovo e possibile uso suggerito da Agamben. In quest’operazione è in gioco la potenza del dire. La poesia, nell’inoperare il linguaggio, sospendendo le sue funzioni più immediate, lo apre a nuove potenzialità.
Nell’Uso dei corpi la lingua, se da un lato sembra naturale e quasi congenita, dall’altro resta in qualche misura estranea al parlante. Appropriazione ed espropriazione sono due moti inerenti all’uso della lingua, sono cioè «un processo che investe e trasforma la lingua in tutti i suoi aspetti. E non solo in letteratura, come nei dialoghi estremi di Platone, nel tardo Goethe e nell’ultimo Caproni, ma anche nelle arti (il caso esemplare è Tiziano) si assiste a questa tensione del campo della lingua, che la elabora e trasforma fino a renderla nuova e quasi irriconoscibile». Di conseguenza, lo «stile», ci dice Agamben, sarebbe un’appropriazione disappropriante - tema sul quale il filosofo aveva già lavorato nel saggio introduttorio a Res amissa di Caproni (poi in Categorie italiane, Marsilio 1996 e Laterza 2010) - e la «maniera» una disappropriazione appropriante. Il gesto del poeta si iscrive tra questi movimenti, parimenti a quello dell’uomo parlante nei confronti della sua lingua. In tal senso, l’uso «significa incessantemente oscillare tra una patria e un esilio: abitare», ossia appropriazione e abito, e perdita ed espropriazione.
L’«inoperosità», termine già presente nel primo volume di Homo sacer, non significa allora inerzia, è invece un’operazione che consiste nel disattivare e rendere inoperose tutte le opere dell’economia, della religione, della politica, per riaprire anch’esse a un nuovo e possibile uso. L’uomo è perciò un essere senz’opera: vita attiva e vita contemplativa non sono separate. L’inoperosità, o contemplazione, diventa così la più umana delle operazioni, stanziandosi nel cuore stesso dell’opera, nella praxis, nell’atto che riconduce alla sua potenza. Ne è esempio ricorrente la poesia (Hölderlin, Dante, Rilke, Celan, Caproni, Sereni), cioè quell’operazione che interviene nel linguaggio comune disattivandolo e rendendolo inoperoso; e, allo stesso tempo, preservandone la potenza di dire. La poesia è dunque la contemplazione della potenza di dire, così come la politica è la contemplazione della potenza di agire. L’esperienza del pensiero, in questo modo, è sempre l’esperienza di una potenza e, al contempo, di una comunicabilità, di un’apertura.
Giorgio Agamben
Il capitalismo è la nuova religione, la banca ha preso il posto della Chiesa, la democrazia è perduta. E lei, professore? "La mia vita è una mappa costruita con gli stracci della Storia"
Colloquio con Antonio Gnoli (la Repubblica, 28.10.2018)
Sono trascorsi poco più di vent’anni da quando Giorgio Agamben inaugurò una ricerca filosofica orientata, fin nelle radici, sui grandi temi della teologia, del diritto e della politica. Dal 1995 al 2015 sono usciti nove libri che ora tornano tutti insieme in un solo grande volume di quasi 1400 pagine. Un’opera monstre, già apparsa in Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Spagna e Francia, che ha conservato il titolo originale Homo sacer appunto, pubblicata da Quodlibet. Guardo quest’uomo accomodarsi su una grande poltrona di bambù. Gli dico se non scorge qualcosa di utopico in questo suo lavoro. Prende tempo, poi dice: «Sono il contrario di un utopista, perché penso che l’unico luogo dell’utopia sia qui e ora. A meno che questa non sia in realtà l’intenzione segreta di tutti gli utopisti».
Come è nata l’idea di raccogliere i nove libri in un solo volume?
«Ciascuno di essi è parte di un’unica ricerca che si potrebbe definire come un’archeologia della politica occidentale. Li ho sempre pensati mentre li scrivevo come un tutto unitario. Solo così diventa visibile il fitto gioco di rimandi interni, delle riprese e dei contrappunti che li compone quasi musicalmente in unità. In ogni opera, penso, c’è come un nucleo incandescente che coincide con la sua origine, col suo momento sorgivo».
Quel momento lo hai trovato nell’homo sacer. Chi è, cosa rappresenta, perché ritieni sia così importante?
«Quest’oscura figura del diritto romano arcaico, un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio, ritengo sia il nucleo incandescente che non ha ancora spento il suo fuoco. Quel che ho subito capito è che in quella formula enigmatica si nascondeva la struttura segreta della politica occidentale: l’inclusione della vita nella sfera del diritto e della politica attraverso la sua esclusione come nuda vita».
Il richiamo alla " nuda vita" rinvia all’idea di biopolitica che Michel Foucault elaborò negli anni Sessanta e Settanta. In che misura sei erede di quella visione filosofica?
«La biopolitica segna per Foucault il passaggio dallo Stato dell’Ancien Régime fondato sulla sovranità a quello moderno fondato sulla popolazione e la cura della vita. Io ho cercato di svolgere questo concetto sia verso il passato, mostrando che la biopolitica ha radici più antiche, sia verso il presente, mostrando come la deposizione attuale delle ideologie politiche in nome dell’economia significhi in realtà l’assunzione della vita biologica come ultimo compito storico dell’umanità».
Perché definisci la tua ricerca archeologia filosofica?
«Qualunque altra forma la filosofia assumesse finirebbe immancabilmente nella chiacchiera. Se uno dei compiti del pensiero è quello di condurci nel cuore del presente, esso può farlo solo inseguendo le ombre che l’interrogazione del presente proietta nel passato. Ho sempre trovato estremamente seria la battuta di Flaiano: " Io faccio progetti solo per il passato". Tutte le mie ricerche vanno in quella direzione, per scoprire che cosa nel passato è ancora possibile».
Il tuo rapporto con il passato si fonda su un concetto che chiami " archè" che significa inizio, principio ma anche comando. Più volte hai precisato che non va confuso con origine.
Cioè con il concetto che è alla base delle religioni monoteiste. Come quando si dice: "Dio è origine di tutte le cose". «Ciò che chiamo archè non è l’origine ma lo scarto tra il punto di insorgenza di un fenomeno e la tradizione storica che ce lo ha trasmesso. Nella preistoria in senso stretto, dove non ci sono documenti, questo intervallo è evidente; ma un momento preistorico è sempre presente anche in ogni ricerca storica e la grandezza di uno storico si misura proprio dalla sua capacità di non occultare e di portare alla luce la preistoria nella storia».
"Archè" per esempio è la parola democrazia. C’è una sostanziale differenza tra il modo in cui la concepirono gli antichi e il nostro?
«La differenza essenziale è che per gli antichi la democrazia era un concetto di cui diffidare o comunque da prendere con le pinze, mentre per noi sembra essere immediatamente positivo. L’ambiguità del termine viene dal fatto che esso designa due cose distinte: da una parte un principio filosofico- politico, cioè la sovranità popolare, dall’altra una tecnica di governo, che nel nostro tempo ha assunto la forma di quel sistema mediatico- elettoralistico che ha svuotato di ogni senso il primo. Il vero problema non è oggi la sovranità, ma il governo, non il re, ma il ministro, non la legge, ma la polizia. Se la democrazia greca si fondava su una politicizzazione della cittadinanza, quella attuale si fonda su una progressiva spoliticizzazione dei cittadini. Una società fatta di telecamere e di dispositivi di sicurezza non può essere democratica».
Nelle tue indagini archeologiche hai spesso affrontato il tema della teologia politica. Qual è il rapporto tra religione e politica?
«Ho cercato di mostrare che dalla teologia cristiana derivano due paradigmi politici in senso lato, distinti ma collegati: la teologia politica che fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano e la teologia economica che fonda nella provvidenza divina il paradigma del governo degli uomini. In questa prospettiva la lettura degli innumerevoli trattati sugli angeli come ministri del governo divino è stata molto più utile e divertente di quella dei manuali di filosofia politica e di politologia».
Questo divertimento si estende anche alle liturgie della politica?
«L’analisi delle liturgie, delle acclamazioni e degli aspetti cerimoniali del potere tanto religioso che profano, mi ha permesso di capire perché il potere, che sembra essere essenzialmente azione efficace, ha invece bisogno del momento apparentemente inutile e inoperoso della gloria. Del resto, proprio nel libro Il regno e la gloria, ho mostrato che la gloria e le acclamazioni non appartengono al passato, ma sono più presenti che mai nelle società moderne nella forma della pubblica opinione e dei media che organizzano e controllano il consenso».
Accennavi prima alla teologia economica. C’è un nesso, come pensava Walter Benjamin, tra religione e capitalismo? Davvero la banca ha preso il posto della Chiesa?
«Che il capitalismo sia una religione non è una metafora. Il capitalismo è una religione in cui Dio è il denaro. Dopotutto, il denaro non è che un titolo di credito che, da quando il governo americano ha sospeso la convertibilità in oro, si fonda solo sulla fiducia, cioè sulla fede. La parola greca che nel Nuovo Testamento significa fede è la stessa che significa credito. La banca, che non è altro che una macchina per creare e gestire credito, ha preso il posto della Chiesa e dei preti e, governando il credito, amministra la fede, l’ultima incerta fiducia che il nostro tempo ha ancora in sé stesso».
La scrittura è una parte fondamentale del tuo lavoro. A questo proposito hai spesso parlato della poesia e del pensiero come due intensità che percorrono l’unico campo della lingua. Quale compito attribuisci alla scrittura?
«C’è un momento poetico in ogni opera di pensiero e un momento filosofico in ogni opera poetica. Per questo la scrittura è importante, per questo un filosofo che non si pone un problema poetico non è un filosofo, il che non significa che debba scrivere poesie o romanzi; al contrario, è solo nella scrittura filosofica che consiste il suo compito poetico».
In che rapporto sta questa scrittura con la verità?
«Vi sono delle verità che non è possibile dire senza mettere in questione se stessi nell’atto di enunciarle. Chiamerei questi atti "veridizioni", per distinguerli dalle asserzioni di tipo scientifico o fattuale, in cui il soggetto è del tutto indifferente alla verità dell’enunciato. La verità dell’asserzione "due più due fa quattro" è indipendente dal soggetto che la pronuncia, mentre in una veridizione il soggetto si costituisce e si mette in gioco nell’atto stesso di proferirla».
La tua idea di filosofia punta meno all’argomentazione logica e più all’intensità. Cosa vuol dire?
«Divido le cose in due grandi classi: le sostanze e le intensità. Le prime possono essere definite e separate chiaramente l’una dall’altra, le seconde sono invece delle tensioni che, come la corrente elettrica, possono investire e animare qualsiasi ambito. Un esempio di intensità è la politica che, come oggi vediamo, può di colpo investire tanto la religione che l’economia, tanto il vestiario che l’arte. Va da sé che il pensiero è per eccellenza un’intensità».
Nella tua riflessione filosofica insisti sul concetto di " inoperoso". Che significato gli attribuisci?
«L’inoperoso - un concetto che è stato spesso frainteso - non significa per me inattività o inerzia. Significa piuttosto un’operazione tesa a rendere inoperose le opere della religione, dell’economia, della politica e di ogni sfera dell’agire umano, per aprirle a un nuovo possibile uso».
Spiegati meglio.
«Un esempio è proprio la poesia. Che cos’è infatti una poesia se non un’operazione nel linguaggio che disattiva le sue funzioni informative per rendere possibile quel particolare e più felice uso della lingua che chiamiamo appunto poesia?». Senza alcun trionfalismo guardi con attenzione agli stracci della storia, cioè a quanto in essa è implicito, residuale, marginale.
Cosa comporta questa scelta di campo?
«L’attenzione agli stracci della storia è per me, come per Benjamin, un principio di metodo. Non bisogna dimenticare che ciò che è veramente importante si presenta spesso nel mondo attuale in forme marginali, malfamate e perfino ridicole. Simone Weil ha scritto una volta che solo uomini caduti nello stato estremo di degradazione sociale possono dire la verità. Credo che questo sia vero anche per le testimonianze storiche che devono interessarci: sono come relitti che rischiano continuamente di andare perduti, ma proprio questo rischio costituisce la forza incomparabile della loro testimonianza».
Mi ha stupito l’idea di voler scrivere un’autobiografia in forma di cartografia.
«È un’idea che mi affascina da sempre. Ho anche provato a incollare insieme le mappe di città diverse, in modo che una strada di Roma sboccasse in una piazza di Napoli e una via di Parigi in un campo veneziano. Mi affascina, inoltre, l’idea di una compresenza dei tempi, di cui l’esempio perfetto è la città in cui sono nato, Roma, dove sopra un mitreo c’è una basilica paleocristiana, e sopra ancora una chiesa romanica, che si trasforma alla fine in una cattedrale barocca».
Verrebbe da dire archeologia della città. Ma cos’è oggi una città?
«Credo che le città stiano morendo e si vadano sempre più trasformando in musei. Forse per questo mi trovo bene a Venezia, una città che è morta da decenni e si trova quindi nello stato che segue alla morte, cioè lo spettro. E a Venezia ho imparato che uno spettro può essere più vivo di quasi tutte le città che ho conosciuto».
I libri a volte sopravvivono a coloro che li hanno scritti. Tu ne hai raccolti ben nove in uno solo. Bobi Bazlen parlò dell’importanza del " libro assoluto". Ti riconosci in questa asserzione?
«Ogni opera filosofica - forse ogni opera - è sempre un frammento, è sempre incompiuta. Non si conclude un’opera come non si conclude una vita: la si abbandona. Abbandonare significa in questo senso lasciare andare. E come nella specie umana l’essere che nasce è sempre immaturo, così l’opera è sempre incompiuta, proemio o prologo a una conclusione che resta sempre a venire. Malgrado la sua mole, dunque, il mio non è un libro assoluto nel senso di Bazlen, perché ha bisogno di un prima e di un dopo, di una preistoria e di una poststoria».
Una curiosità: hai mai conosciuto Bazlen?
«L’ho incontrato una sola volta, quando avevo poco più di vent’anni. Che mentre mi interrogava sulle mie preferenze letterarie indovinasse a prima vista il mio segno astrologico non poteva non sorprendermi. Credo però che per avvicinarsi alla verità del personaggio occorra prima rimuovere la leggenda cartacea che gli è stata costruita intorno. Una volta, rispondendo a chi insisteva perché scrivesse, egli si è definito in questo modo: "Sono una persona perbene che passa quasi tutto il suo tempo a letto fumando e leggendo».
La vera originalità, hai detto una volta, si conquista da epigono. Sei epigono di chi?
«Quando si cerca di sviluppare quel che nell’opera di un autore è rimasto non detto, si raggiunge fatalmente un punto in cui non si sa più se quello che si è trovato appartiene a noi o a lui. La vera originalità è in questa zona di indifferenza, dove è impossibile assegnare un nome e un’identità. Come autore, sono in questo senso un essere che si genera solo a partire da altri».
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Giorgio Agamben: "Il vero Karma dell’Occidente"
Nel suo nuovo libro, “Karman”, il filosofo affronta il tema del rapporto tra un’azione e le sue conseguenze. -Un saggio che analizza i fondamenti dell’etica e del diritto, della teologia e delle filosofie orientali
di CHIARA VALERIO (la Repubblica, 27 agosto 2017)
Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell’altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo. Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l’insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.
Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?
"Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge. E, tuttavia, come lei sa, la Chiesa ha pazientemente ricostruito quell’edificio della legge che il cristianesimo primitivo intendeva mettere in questione, anche se puntualmente fenomeni come il francescanesimo hanno rivendicato ogni volta la possibilità di una vita al di fuori del diritto. Io penso che una società vivibile possa risultare solo dalla dialettica di due principi opposti e, in qualche modo, coordinati: il diritto e l’anomia, un polo istituzionale e uno non istituzionale o anarchico - o, per usare le sue espressioni, gli esseri viventi e i dispositivi storici. Ciò è evidente nel linguaggio: una lingua viva risulta dalla relazione armonica fra spontaneità (il "parlar materno" di Dante) e regola (la lingua "grammatica" di Dante). Mi sembra che oggi questa dialettica sia dovunque - nella lingua come nei rapporti sociali - distorta o spezzata".
Lei scrive " la volontà agisce come un dispositivo il cui scopo è quello di rendere padroneggiabile ciò che l’uomo può fare". Anche la volontà è un dispositivo al quale sfuggire?
"Nel libro ho cercato appunto di mostrare che il concetto di volontà (quasi sconosciuto al mondo antico) è il dispositivo attraverso il quale la teologia cristiana ha inteso fondare l’idea di un’azione libera e responsabile e quindi imputabile a un soggetto: è il "libero arbitrio", che definisce l’azione umana non meno di quella divina (il Dio cristiano non agisce per necessità, come il dio di Aristotele, ma per arbitrium voluntatis). La volontà è il mistero insondabile che sta alla base di quel concetto di azione legalmente sanzionabile (il crimen- karman) senza il quale l’etica e la politica moderna crollerebbero. Se l’uomo antico è un uomo che può, l’uomo moderno è invece un uomo che vuole. Nel mio libro la critica del primato del concetto di azione procede pertanto di pari passo a una critica del concetto di volontà. Mi ha sempre stupito che da Aristotele a Hannah Arendt l’idea di azione sia sempre rimasta immutabilmente al centro della tradizione dell’occidente. Non so se ci sono riuscito, ma ho comunque provato a spostare altrove il luogo dell’etica e della politica".
Restiamo sull’evoluzione de " l’uomo che può" ne " l’uomo che vuole". Marina Cvetaeva osservava "Non posso" è il superamento di tutti i miei "non voglio", il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?
"Le rispondo con le parole di un’altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: "può dire questo"? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: "sì, io posso". Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell’"io posso" non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria".
Landau ne " La Fisica per tutti" osserva " Se all’improvviso il fermacarte fa un salto, penserete di avere le traveggole. Se si ripete, vi metterete di lena a cercare la causa che toglie questo corpo dallo stato di quiete. Perciò è naturale considerare razionale il punto di vista secondo cui i corpi in quiete non si spostano senza l’intervento di una forza". È razionale pensare che i corpi umani non si spostino, non compiano azioni, senza l’intervento di un fine?
"Nel libro la critica del fine è inseparabile da quella dell’azione. Uno dei presupposti che siamo abituati a dare per scontati è che ogni azione sia rivolta a un fine e che questo fine sia il bene che l’agente ogni volta necessariamente si propone. In questo modo, poiché il fine è concepito come qualcosa di trascendente o comunque di esterno, il bene viene separato dall’uomo. Come mi sembra più convincente l’idea epicurea secondo la quale nessun organo del corpo umano è stato creato in vista di un fine e ogni cosa che nasce genera nell’uso il suo bene! A furia di gesticolare, la mano trova la sua delizia e il suo uso, l’occhio a furia di guardare si innamora della visione e le gambe, piegandosi a tentoni, inventano la passeggiata. Del resto è quel che vediamo avvenire nei bambini ed è quello che ci suggeriscono le arti come la danza, che non hanno altro fine che la pura esibizione di un gesto, di ciò che un corpo può fare. Per questo ho cercato di sostituire al paradigma dell’azione rivolta a un fine quella del gesto sottratto a ogni finalità".
Un filosofo ha detto che definire i termini è il momento poetico del pensiero. Come definirebbe il fine?
"Le dò una risposta insieme stoica e zen: il fine è ciò che si raggiunge solo a condizione di non porselo mai".
Se "agisce contro la legge, chi fa ciò che la legge proibisce" e se " non c’è pena senza colpa", cos’è nata prima, la colpa, la legge o la sanzione?
"Come Paolo aveva capito ("la legge è venuta perché la colpa abbondasse"), ogni giurista intelligente sa che il principio secondo cui "non c’è pena senza colpa" va in realtà rovesciato in quello secondo cui "non c’è colpa senza pena". "Non c’è pena senza colpa" significa che la pena può essere inflitta solo in conseguenza di un certo atto, ma la colpa esiste solo in virtù della pena che la sancisce. La sanzione non è accessoria alla legge: la legge consiste essenzialmente nella sanzione".
Ne "Il Nome della Rosa", Eco racconta che il volume riguardante la commedia di Aristotele non ci è mai giunto perché trattava del riso e il riso crea disordine. In "Karman", lei (come già Guglielmo da Baskerville) lo deduce dal volume sulla tragedia e ipotizza pure che Aristotele non lo abbia mai scritto per muovere una critica a Platone. Quale?
"In Grecia il concetto di un’azione colpevole viene elaborato per la prima volta attraverso una riflessione sull’eroe tragico. È quello che fa Aristotele nella Poetica quando scrive che la felicità consiste nell’azione e che nella tragedia gli uomini non agiscono per imitare i caratteri, ma assumono liberamente il loro personaggio attraverso le azioni. Anche se Aristotele non ha completato la sua trattazione della commedia, possiamo dedurne che il personaggio comico agisce invece per imitare il suo carattere e che per questo le sue azioni non possono essergli mai imputate come una colpa. Platone, che teneva sotto il cuscino non le tragedie, ma i mimi di Sofrone, fa dire al suo eroe antitragico, Socrate, che "nessuno fa il male volontariamente", il che implica l’impossibilità della tragedia".
La filosofia s’interessa prima di tutto dell’essere, ma l’essere appare subito con le sue "qualità": possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull’utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: " posso", " voglio", " devo". Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le " qualità" della frase: modali, temporali, causali. Senza queste "qualità" siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C’è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?
"Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa "ma"). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome - anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: "si deve poter volere". Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare".
Sulla quarta di copertina si legge "Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica... è stato visiting professor...". Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?
"Le risponderei spinozianamente: "contempla ciò che può e ciò che non può fare". Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: "Als ich kann", "come posso". Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
Federico La Sala
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth,ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità. E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia. Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro. Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse. Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria. Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOLOGIA, ARTE, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
LA CITTA’ DIVISA [1997]: Questo libro è il capolavoro di Nicole Loraux [(1943-2003], la grande antichista francese da poco scomparsa. Esso tenta di ripensare da capo la polis greca, questo modello prestigioso di tutta la tradizione politica occidentale. La scoperta della Loraux è che a fondare la città greca, a fungere da paradigma alla democrazia, non sono né la libertà, né l’unità, né la comunità, ma qualcosa come un paradossale legame attraverso la divisione.
Si tratta, cioè, di ripensare Atene sotto il segno della “stasis”, della guerra intestina, che divide e insanguina non solo la città, ma anche, l’”oikos”, la famiglia - o, piuttosto, circola, in un movimento incessante, dalla famiglia alla città, dai fratelli rivali ai cittadini nemici.
La guerra civile non è, però, soltanto rottura e anomia, ma costituisce il legame politico segreto che anima e segna profondamente la vita e le istituzioni della democrazia greca, dal giuramento all’amnistia, dalla vendetta alla riconciliazione. -Una città divisa deve essere, infatti, capace non solo di ricordare, ma anche di dimenticare, di ricomporre attraverso l’oblio (l’amnistia) l’unità perduta. E a poco a poco, come in ogni grande libro di storia, l’analisi del passato permette di guardare in una nuova luce le divisioni e i conflitti, la memoria e la smemoratezza della società in cui viviamo. (Neri Pozza Editore, 2006)
Giorgio Agamben - Stasis. La guerra civile come paradigma politico, [1]
di Mauro Balestrieri *
Nell’opera complessiva del filosofo italiano Giorgio Agamben emerge con singolare nettezza l’articolato e celeberrimo progetto che va sotto il nome di Homo sacer. È questa un’opera densa e articolata, avviatasi verso la metà degli anni ‘90 con l’omonimo saggio (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995) e definitivamente conclusasi di recente con il volume L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). Eppure, nella mente e nella penna dell’Autore sembra permanere ancora lo spazio per un’ulteriore incursione nel politico - un’incursione, forse, tra le più problematiche e complesse finora affrontate dall’intellettuale italiano. È questo il caso del recentissimo saggio Stasis. La guerra civile come paradigma politico, che raccoglie i contributi di due conferenze tenutesi presso l’Università di Princeton nel 2001; etichettato con la dicitura Homo sacer, II, 2 il testo si frappone tra il precedente Stato di eccezione ed il successivo Il Regno e la Gloria.
A un primo sguardo, i temi del nuovo volume appaiono collegati e opposti nel medesimo frangente. Da un lato, si assiste a un breve esame critico della nozione greca di stasis, che sinteticamente va a indicare la guerra civile combattuta all’interno di una stessa comunità politica tra fratelli e concittadini. Dall’altro, trova invece spazio un originale e innovativo studio sull’opera più nota del filosofo inglese Thomas Hobbes (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651), ossia su quella costruzione filosofico-giuridica che ergendosi al di sopra della moltitudine sociale scongiura per l’appunto il rischio del conflitto sociale.
Ciò che va fin d’ora notato, tuttavia, è che l’approccio prescelto dall’Autore non è tanto quello di chiosare le note affermazioni che tradizionalmente si ripetono negli studi di settore, né quello di elaborare ex novo una teoria della guerra civile. L’interesse scaturente dalle pagine del breve scritto nasce dal desiderio di tracciare un nuovo filone critico sotteso allo studio della cd. stasiologia, e di sopperire in tal modo alla lacunosità del dibattito filosofico e giuridico attuali.
Secondo Agamben, ciò che manca oggi è propriamente uno studio ragionato e consapevole sul conflitto civile, ossia un tentativo di pensare filosoficamente la crisi e lo scontro. Un tentativo, deve aggiungersi, che ben al contrario si attualizza nel desiderio compulsivo di gestire, risolvere e se possibile anticipare il caso serio, al fine di evitarne ogni possibile problematicità. Proprio alla luce di questa ansia di risoluzione, il dato intellettuale tristemente si smarrisce: a riprova di ciò stanno tanto l’assenza di testi giuridici e politologici di riferimento, quanto la crisi stessa del termine guerra civile, sintagma che nell’ambito internazionale si riduce oramai a fattispecie invocante il mero intervento regolativo degli organismi internazionali. Ecco dunque che di fronte alle civil (o, come sembra ormai consuetudine etichettarle, uncivil) wars non si elabora più una teoria volta alla loro comprensione, bensì si mira a un management delle medesime, ossia a un articolato sistema di iniziative che si esplicita nelle plurime attività «della gestione, della manipolazione e dell’internazionalizzazione dei conflitti interni» (p. 11).
Per colmare questa sorprendente mancanza, il breve saggio di Agamben si incarica di mostrare due eclatanti manifestazioni storiche di tale paradigma, ricorrendo alla tradizione politica della Grecia classica e al pensiero filosofico di Thomas Hobbes. La convinzione che muove l’Autore in questo particolare percorso è infatti che entrambi i momenti rappresentino «le due facce di uno stesso paradigma politico, che si manifesta da una parte nell’affermazione della necessità della guerra civile e, dall’altra, nella necessità della sua esclusione» (p. 12). Tale opposizione, in altri termini, è il segno concreto di una loro intima vicinanza, che il consueto stile espositivo agambeniano chiarisce nelle sue plurime implicazioni.
Prima di tutto, il doppio e opposto significato del termine stasis, che va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “-sta” del verbo greco hìstemi). Nel suo secondo senso, il lemma sembra invece essersi dissipato, permanendo solo come antica vox media di un paradigma politico più ampio e quasi sotterraneo.
Attraverso un’analisi delle sue molteplici ricorrenze sia in Tucidide sia in Platone, Agamben arguisce che in realtà l’emblematica indeterminatezza della voce ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24).
In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Ulteriore conseguenza è che questa stessa indeterminatezza concettuale si riverbera nel formante giuridico, così come mostrato dall’istituto penalistico dell’amnistia. Se infatti il prendere parte alla guerra civile era nell’antica Grecia politicamente necessario, a conclusione del conflitto interveniva comunque la pacificazione sociale, che attraverso le forme dell’oblio (amnistia - da amnestèo - indica appunto la dimenticanza) sanava retroattivamente la partecipazione attiva dei suoi componenti. In questo senso, la stasis non è qualcosa che semplicemente deve essere rimosso, ma è «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti» (p. 29).
Nella Grecia classica, possiamo allora concluderne, non si dà una sostanza politica omogenea, ma un manifestarsi irregolare e continuo di correnti tensionali e instabili, esprimentesi in ultimo grado nelle forme della politicizzazione e della depoliticizzazione, ossia nella commistione belluina della famiglia e della città.
Ora, è precisamente per sconfiggere questo scenario mortifero e abissale che Hobbes costruirà il suo Leviatano, quell’immenso automa o “Dio mortale” composto da una moltitudine di piccole figure umane tradizionalmente intese come sudditi.
Com’è facile scorgere esaminando i due diversi frontespizi dell’opera (l’uno vede rappresentati i sudditi con il viso rivolto verso il lettore; l’altro, coevo al primo, li coglie al contrario di spalle), gli esserini che compongono l’immenso meccanismo artificiale si uniscono saldamente gli uni agli altri. La spiegazione traslata è che ciò avviene per mezzo del loro reciproco accordo, che consente metaforicamente di compattarli dando luogo a quell’ideale corpo politico (body political) così caro al pensatore inglese.
Proprio la nozione di corpo politico, però, si presta alle più dure contestazioni: data la sua sfuggente consistenza, per Hobbes il popolo esiste solo nell’istante in cui si riunisce per nominare un leader o un’assemblea rappresentativa - ma in questo stesso istante svanisce improvvisamente. Il corpo politico, in altri termini, è qualcosa di altro e di impossibile, destinato continuamente a comporsi e subitaneamente a dissolversi nella costituzione del governo effettivo.
È in questo preciso passaggio che Agamben ricerca un’affinità con il summenzionato meccanismo di esclusione/inclusione visto a proposito della guerra civile nella Grecia antica: «se il popolo, che è stato costituito da una moltitudine disunita, si dissolve nuovamente in una moltitudine, allora questa non soltanto preesiste al popolo/re, ma, come multitudo dissoluta, continua a esistere dopo di questo [...] La moltitudine non ha un significato politico, essa è l’elemento impolitico sulla cui esclusione si fonda la città; e, tuttavia, nella città vi è soltanto la moltitudine, perché il popolo è già sempre svanito nel sovrano» (p. 55).
Hobbes, rendendosi conto di tale aporia, oblitera il paradosso della moltitudine/corpo politico risolvendolo, com’è noto, con il ricorso immediato al pactum subiectionis. Ma se ciò ha il pregio di spezzare il circolo che dalla guerra civile conduce alla riconfigurazione della multitudo dissoluta, permane quale operazione problematica e nient’affatto ultimativa - un’operazione che lascia scoperto l’enorme problema di una possibile ripresentazione dello stato di natura e quindi del conflitto generalizzato.
Senza dubbio, è in questi termini che fino a oggi è stato pensato il fine ultimo del Leviatano: la posticipazione indefinita del conflitto civile. Il covenant alla base della sua formazione agirebbe, si sostiene, quale forza frenante rispetto all’avvento della discordia intestina, ossia quale meccanismo giuridico in grado di disinnescare a priori la fine dei tempi rappresentata dal collasso politico. In fondo, si può anche dire, il Leviatano fa paura proprio per questa ragione: se come si è visto la multitudo dissoluta può effettivamente frammentarsi in ogni istante e generare quindi un nuovo conflitto, lo Stato deve continuativamente incutere timore, un timore rivolto all’impedimento immediato di ogni sua concreta demolizione.
Con un doppio ribaltamento, Agamben costruisce invece la propria conclusiva argomentazione accentuando la dimensione messianica e decisamente escatologica dell’intero pensiero hobbesiano. In tal senso il filosofo inglese, in accordo con il messaggio evangelico, configurerebbe il Leviathan quale “capo” di un political body, con ciò adoperando la nota immagine paolina che predica Cristo stesso quale “capo” dell’ekklesìa, ossia dell’assemblea dei fedeli.
Se Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, allora il Leviathan è il capo del corpo politico. Questo rispecchiamento profano del messaggio paolino conduce però a una precisa conseguenza: «nello stato attuale, Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, ma, alla fine dei tempi, nel Regno dei cieli, non vi sarà più distinzione fra la testa e il corpo, perché Dio sarà tutto in tutti [...] Ciò significa che alla fine dei tempi la finzione cefalica del Leviatano potrebbe essere cancellata e il popolo ritrovare il suo corpo. La cesura che divide il body political - soltanto visibile nella finzione ottica del Leviatano, ma di fatto irreale - e la moltitudine reale, ma politicamente invisibile, sarà alla fine colmata nella Chiesa perfetta» (p. 72).
Un nuovo messaggio sembra allora profilarsi quale cifra complessiva di questa antica filosofia: lo Stato (di matrice hobbesiana) non ha affatto la funzione e il ruolo di una forza frenante o catecontica. Esso non vuole in alcun modo posticipare la fine dei tempi, ma al contrario avvicinarla escatologicamente, in modo da rendere reali l’avvento del Regno e la consumazione dei tempi. Buffamente, lo Stato-Leviatano - che nell’immaginario di tutti predicava la garanzia per la pace e la sicurezza dei sudditi - partecipa invece a una visione apocalittica del potere, in cui l’avvento catastrofico del Giorno del Signore è la lettera conclusiva dell’intera esperienza politica occidentale.
Diverse tradizioni sembrano allora confrontarsi nell’immagine storica di questa figura: da un lato quella terrifica di uno Stato assoluto e indomabile, che ingloba senza esitazione le anime di chi tenta di impossessarsene (come sottolinea vividamente Bodin nella sua Daemonomania). Dall’altro, quella cabalistica e messianica che intravede al contrario il grande monstrum scomparire nel festivo banchetto delle sue carni.
Ma se la storia del pensiero politico sembra confinare tali interpretazioni all’archeologia del pensiero storico, una terza e parimenti inquietante forma di manifestazione è stata ben presente nella concezione dello Stato moderno. Una concezione che vedeva il Leviatano quale meccanismo artificiale e impersonale, in cui attraverso la generale neutralizzazione del politico si perveniva a una concezione del diritto quale strumento tecnico neutrale.
L’annoso conflitto tra legalità e legittimità, che oggi prende le forme degli imperativi tecnici e della logica economica, produce ancora manifestazioni assolutizzanti e dotate di un vero e proprio carattere normativo, quali è facile incontrare nelle forme atipiche della soft law e della governance mondiale. Tali istanze scompaginano le categorie giuridiche fondamentali, costruendo e decostruendo lo stesso simbolo del Leviatano, e agendo come operatori eccezionali in grado di (ri)fondare l’ordine politico mondiale.
È forse attraverso la secolarizzazione di questa remota provenienza che sembra giunta allora l’epoca della stasis globale - un’epoca, suggerisce Agamben, in cui la politica contemporanea ricerca il proprio senso teologico senza riuscire pienamente a coglierlo, perché preda di una dimenticanza remota e inquietante che rimonta alle origine stesse della propria costituzione. Il contributo di Agamben, pur nell’estemporaneità della sua trattazione, è allora un piccolo ma denso tassello di un’opera ancora da scrivere e, forse, ancora da pensare.
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Philosophy Kitchen, Recensioni / giugno 2015
Giorgio Agamben
“Credo nel legame tra filosofia e poesia
Ho sempre amato la verità e la parola”
Gli anni parigini con Italo Calvino, le lezioni di Heidegger e la Roma dei Sessanta. Parla lo studioso che ha saputo spaziare tra estetica e biopolitica
colloquio con Antonio Gnoli (la Repubblica, 15.05.2016)
Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? «È mia convinzione» - dice Agamben - «che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare».
Offri un’immagine volatile della filosofia.
«Ho l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto, tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio».
Può verificarsi ovunque?
«La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline - come la vita, del resto - rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche».
Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
«Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi». Nella tua biografia intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi piuttosto insolita dedicata a Simone Weil.
Come è nata questa scelta?
«Scoprii Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi».
Cosa ti colpì del suo pensiero?
«In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré. Fu a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice».
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
«Ci sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano di accompagnarci. L’incontro con Benjamin - come quello con Heidegger a Le Thor - sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile».
Debito è una parola intensiva.
«Basti qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente. Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del libro su Baudelaire a cui Benjamin lavorava negli ultimi anni della sua vita)».
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
«Certamente. Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo».
Un altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
«Lo lessi l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti. Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla poesia e dalla filosofia».
Di sé Debord disse: «Non sono un filosofo, sono uno stratega», secondo te cosa intendeva?
«Malgrado quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo attraverso un confronto con il suo tempo».
Negli anni in cui hai vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con lui, con le sue geometrie illuminanti?
«Accanto al nome di Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo, vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”, “rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio».
Cosa ti seduceva?
«Il fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere letterario».
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
«L’incontro e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi - da Rimbaud a Simone Weil, da Mozart a Spinoza - che essa riconosceva e amava condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura e la filosofia».
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”. Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
«Del Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia: nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il pane doveva essere azzimo».
Hai anche accennato ai tuoi rapporti con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
«L’incontro con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi sono solo aneddoti».
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
«La filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico - penso alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione delle poesie postume di Caproni - ma perché filologia e filosofia, amore per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse cura di questa dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole».
Lo spazio sospeso del possibile e un alfabeto di idee a venire
Saggi. «Che cos’è la filosofia» di Giorgio Agamben per Quodlibet. La voce e la sua relazione con il linguaggio, il dicibile, l’esigenza, il proemio, la musa. Sono i cinque elementi argomentati dal filosofo tra archeologia dei concetti e teoresi
di Marco Pacioni (il manifesto, 28.04.2016)
Secondo un’antica tradizione, nessuna scienza può dire da sé in che cosa essa consista. Rispondere a questa domanda è invece compito della filosofia - l’unica disciplina che può dar conto di sé da sé. Nella misura in cui è in grado di girare su stesso, quello della filosofia si presenta come un discorso centrifugo che implica sempre altro. La dinamica del pensiero somiglia a quella della grammatica per il linguaggio. Cioè al gioco di tutti i presupposti di per sé insignificanti come ad esempio fonemi, lettere, sillabe che messi insieme però formano parole le quali permettono di costruire il senso della frase e dar luogo al soggetto del discorso.
Proprio percorrendone tale dinamica grammaticale, Giorgio Agamben torna a chiedersi Che cos’è la filosofia? (Quodlibet, pp. 156, euro 16) attraverso cinque argomenti: voce, esigenza, idea, proemio e musica.
Sulla voce, Agamben riprende ricerche precedenti approfondendo quello che aveva indagato come un Experimentum linguae in quello che ora diventa un Experimentum vocis. A differenza di quanto sostenuto da Derrida, per Agamben non la voce, ma la lettera che la trascrive è ciò che domina e sbarra il pensiero. Compito della filosofia è allora quello di tornare a indagare la voce quale punto di contatto e al contempo cesura fra tutte le dicotomie che caratterizzano il linguaggio e il vivente.
Per Agamben, il vivente umano non è soltanto «animale politico», ma colui la cui politicità è attestata anzitutto dal fatto di non aver mai rinunciato al linguaggio nel corso della sua storia. In tal senso, il linguaggio non è essenzialmente grammatica, ma è anzitutto antropogenesi politica. Per tal motivo, assolvere il compito del pensiero dell’essere politico parlante richiede la dimissione di ogni grammatica come base del sapere. Per Agamben, occorre andare oltre la trascrizione nelle lettere (grammata) delle affezioni dell’anima di Aristotele. E oltre anche le sempre più stringenti riduzioni del linguaggio a codice senza pensieri.
Per far ciò bisogna rimettersi sulla via tracciata da Platone che riteneva impossibile dividere la voce, il factum loquendi in qualsivoglia sistema di unità e opposizioni. L’origine del linguaggio come inizio dell’umano è una ricerca che parte sempre da dopo. In tal senso questa è sempre, platonicamente, anche rammemorazione. Ed è altresì a causa di ciò che trovare il principio dell’antropogenesi è anche sempre giungere dove già siamo.
Cercare nella lingua conduce a un vivente, a una voce umana, al verso o gesto di un animale. Nessun alfabeto fonetico può da sé insegnarci a pronunciare un segno se non c’è una voce a esso combinata che, almeno la prima volta, ci mostra il collegamento proferendolo.
Ciò vuol dire che tutte le cesure che caratterizzano il linguaggio sono in realtà snodi da una lingua all’altra, passaggi da un vivente all’altro. Senza questo presupposto comunitario, senza questo simultaneo snodarsi di più modalità d’essere, nessuna lingua, codice e sistema sarebbero possibili. Pensare tale presupposto, tale distinzione inseparabile dello snodo è la vocazione della filosofia, la sua stessa voce, secondo Agamben.
Quando dobbiamo scegliere possiamo condurci a forzare la possibilità e trasformarla in dover-fare, in dover-essere. Nella tradizione occidentale si è frequentemente identificato tutto l’essere con il dovere attraverso la dottrina della necessità. Nel secondo scritto qui raccolto, Agamben interviene proprio sulla necessità per riportarla oltre il dover-essere a individuare invece nell’«esigenza» di poter-essere la cosa del pensiero.
Seguendo anche qui Platone (ma anche il conatus di Spinoza), l’esigenza è illustrata da Agamben come la possibilità della materia di diventare tutte le forme dell’essere. Per Agamben la materia non è dunque un sostrato, una sorta di hardware del software delle forme, ma la possibilità stessa che si diano forme.
Come non esiste una materia che non sia già anche la possibilità di una forma, che non sia qualcosa che abbia già un nome, così non esiste un silenzio completamente separato e contrapposto al linguaggio. Non la pretesa dell’indicibile che trasforma la possibilità di dire nel potere (politico) della parola sovrana, ma il dicibile è, secondo Agamben, il problema con il quale la filosofia deve sempre misurarsi. Il silenzio risalta soltanto se esso segue il presupposto di una parola già detta e di un’altra che seguirà. Questa intermediazione senza relazione tra un detto precedente e successivo è il dicibile.
Per Agamben il dicibile rappresenta la vera natura intermediaria dell’idea platonica. Questa non si trova in nessun luogo separato e a lei sola deputato. Non è un universale, sulla cui natura soprattutto la filosofia medievale si è tanto interrogata. Piuttosto, l’idea mette in contatto e per ciò stesso separa il lato semiotico e quello semantico del linguaggio, la materia e la forma delle cose.
Analogamente, essa è da un lato nome e dall’altro numero. Per questo, secondo Agamben, di una matematica fuori dal linguaggio, presunto fondamento diretto dell’ontologia come vorrebbe Badiou, noi non sappiamo nulla.
Se il nominare dell’idea è il presupposto del linguaggio, allora si capisce in che senso per Agamben, la filosofia ha a che fare soprattutto con quel genere di scrittura che precede un’opera poetica, cioè il proemio. Dal punto di vista della scrittura, la filosofia sta nel suo precipuo elemento quando si rende conto che l’idea dell’opera che il pensiero scriverà è già un’opera dell’idea.
Per tal motivo, potremmo immaginare la stessa riflessione filosofica di Agamben come un insieme di note e commenti attorno a pagine che costituiscono lo spazio intonso della possibilità di un’opera a venire.
L’opera per eccellenza sempre a venire, quella che vive solo nello spazio del tempo in cui essa accade, è la musica. Tale fare del tempo spazio e materia è nominare epocalmente il legame tra essere e linguaggio. Per questo secondo Agamben vi è sempre omologia tra musica e politica di un’epoca storica. Quella in cui viviamo ha, sia per la musica che per la politica, l’esigenza di una profonda riforma. Come formulare quest’ultima, con quale ritmo voce idea nominarla è il compito politico per eccellenza del pensiero - la risposta alla domanda che cos’è la filosofia.
Il teologo dell’economia
L’attualità straordinaria di un pensatore che indicò nel capitalismo la religione della nostra epoca
Un culto basato sull’indebitamento generale che non conosce tregua né perdono e cancella la differenza tra il giorno e la notte
Tra i suoi sacerdoti c’è anche Marx, il cui socialismo ne è in fondo l’erede diretto
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 24.01.2016)
È la stella polare della filosofia continentale. Ne traccia la rotta, ne indica la tendenza, la orienta. Da tempo ormai fa quasi ombra a Heidegger e a Wittgenstein. Come se lui, il figlio ribelle, il lucido sognatore, il filosofo malinconico, il critico spietato della modernità, il profeta rivoluzionario che, come un nuovo Isaia, aveva scelto di osservare il mondo dalla soglia del giudizio ultimo, trovasse un riscatto postumo a più di settant’anni dalla morte. Occhiali spessi, sguardo penetrante, espressione interrogativa: non c’è quasi dipartimento di Filosofia, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Corea, al Giappone, all’Australia, in cui non si stagli la sua foto. Ben riconoscibile, è lui: Walter Benjamin.
La sua immagine è assurta a simbolo di un pensiero che resiste, che non si lascia soffocare nella vuota analitica, né rinchiudere negli steccati di una innocua ricostruzione storica, che non si adatta a diventare normativo, né tanto meno si piega a elogiare le fantomatiche libertà del progresso. Ecco perché nel nome di Benjamin si legge la promessa di una filosofia capace di essere filologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla sperimentazione, in grado di descrivere i particolari apparentemente più irrilevanti, senza per questo rinunciare alle visioni ampie e ardite.
Ha contribuito al riscatto postumo di Benjamin l’uscita dei suoi scritti presso l’editore tedesco Suhrkamp. In Italia la pubblicazione delle Opere complete, avviata da Einaudi nel 2001, si è conclusa nel 2014. La disponibilità degli scritti di Benjamin, tradotti ormai in molte lingue, spiega l’aumento drastico degli studi, il profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Il che, peraltro, non vuol dire che non vi siano motivi da scoprire. E in genere la ricerca, in fondo frammentaria, dovrà ancora trovare i nessi segreti che tengono insieme una filosofia più complessa di quanto si immagini, i legami, talvolta sfuggenti, tra i suoi molteplici aspetti. Risponde già a questa esigenza Walter Benjamin. Una biografia critica, di Howard Eiland e Michael W. Jennings (Einaudi).
Ma che cosa rende Benjamin così attuale nella sua dirompente inattualità? Perché i suoi scritti, talvolta brevi frammenti, aneddoti autobiografici, lettere, serbano un potenziale esplosivo? Al punto da indirizzare perfino la riflessione contemporanea? Certo, contribuisce il suo straordinario stile, la prosa costellata di immagini seducenti. Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia, dalla vita nevrotica nella metropoli all’esistenza degli esclusi, dalla letteratura per l’infanzia ai giocattoli, dal gioco d’azzardo all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Quel che emerge, però, sempre più chiaramente, è che Benjamin, già molto presto, ha presagito gli esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.
Che un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di governance , si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore: quella forma economica, divenuta globale, si sarebbe rivelata per quello è: una religione. Non è forse il capitalismo una religione del debito?
Benjamin è stato il primo grande teologo dell’economia nella modernità. Non ha colto solo i legami strutturali fra teologia e politica, indagati negli stessi anni anche da Carl Schmitt. Né si è limitato a ricostruire la provenienza religiosa del capitalismo. Qui si misura, anzi, la sua distanza da Max Weber, che nel capitalismo aveva indicato l’esito dell’etica protestante.
Per Benjamin le cose stanno diversamente: il capitalismo non è una religione secolarizzata, bensì una religione in senso stretto. Perciò non se ne comprenderebbe la portata, il ruolo e il funzionamento, se non lo si considerasse come un fenomeno religioso. Questa è la tesi delineata nel suo ormai celebre frammento del 1921 Capitalismo come religione, la cui riscoperta ha dato avvio, negli ultimi anni, a una nuova riflessione sulla teologia economica. A prendervi parte sono filosofi non di rado anche distanti fra loro, da Peter Sloterdijk a Giorgio Agamben, da Slavoj Žižek a Thomas Macho, da Norbert Bolz a Roberto Esposito - per ricordarne solo alcuni. Il che conferma l’intuizione di Benjamin, che sembra assumere oggi ulteriore validità.
Esistono alternative? Non appare forse il capitalismo il nostro orizzonte ultimo e insuperabile? Questa società crede nel capitalismo, lo accetta come proprio ineluttabile destino. E come nel passato si pregavano gli dei, se ne indagava l’umore, se ne temeva il volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata e secolare è pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del mercato.
«Il capitalismo - scrive Benjamin nel suo testo sibillino - è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata data», dove il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può contare su una «durata permanente». Non c’è tregua né perdono. La pompa sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono inarrestabili. Non si distingue più tra il giorno e la notte là dove il tempo è sempre e solo denaro. Il capitalismo è così un culto che ha annullato persino la settimana, perché richiede una celebrazione ossessiva. Apparentemente è sempre festa - e invece non lo è mai. Se il culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, Schuld, che nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa. «Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia espiare, ma colpevolizza indebitando».
Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, e in fondo il suo terribile lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non potrebbe essere diversamente per una religione, come il capitalismo, che non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale resta solo «disperazione cosmica». Perfino Dio sembra venir implicato nel gorgo di questa colpa, nella rovina di questo debito.
Pur evitando una «smisurata polemica universale», Benjamin punta l’indice contro il cristianesimo che si è mutato nei secoli, convertendosi in capitalismo. Ha ceduto cioè al paganesimo, quella tentazione che da sempre lo affligge - e Benjamin avvicina le icone delle banconote alle immagini sacre. Il capitalismo, questo nuovo paganesimo, è l’ordine in cui si stagliano fato e sventura nella circolarità violenta e ripetitiva del mito. Come interromperla?
Nietzsche, Freud, lo stesso Marx appaiono agli occhi di Benjamin i «gran sacerdoti» del culto capitalista, perché le loro teorie sono il prodotto di un potenziamento del capitalismo - non ne costituiscono la rottura. Il socialismo di Marx non è che l’erede diretto del capitalismo. È un socialismo che non conosce Umkehr, che non sa di «inversione», né di rivolta né di rivoluzione, e prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da progresso.
Ma Umkehr è la traduzione tedesca dell’ebraico teshuvà, ritorno - un tornare indietro per andare avanti, una con-versione che è una inversione di rotta, una interruzione. Marx, quel nipote di un rabbino, sembrava averlo dimenticato. E così Benjamin guarda a Gustav Landauer, l’ebreo anarchico, protagonista della Repubblica dei Consigli di Monaco, che aveva scritto: Sozialismus ist Umkehr , il socialismo è inversione, è cambiamento che spezza il «sempreuguale» della storia.
La polemica di Benjamin investe la socialdemocrazia, questa idolatria della modernizzazione, questa cattiva politica incapace - scrive in Strada a senso unico - di darsi scadenze. Nel suo afflato escatologico Benjamin guarda invece al limite estremo, lì dove si consumerà l’apocalissi ultima del capitalismo. Che sia sul modello dello «sciopero generale» di Sorel, o meglio, su quello dell’interruzione anarchica che si impone nel Giubileo ebraico, la rivoluzione va ripensata.
Marx aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. A questa celebre immagine Benjamin oppone nelle sue Tesi sul concetto di storia , scritte nel 1940, una figura speculare. «Forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza azionato dal genere umano che viaggia sul treno». La rivoluzione è una fenditura nella storia, è arresto, cesura, interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider di sinistra» - così Benjamin amava definirsi - alla fronda anarchica.
Come per Landauer, anche per Benjamin la «rivoluzione» non è solo un concetto politico. D’altronde la filigrana dei suoi scritti è un vocabolario teologico, il filo rosso è il messianismo ebraico. Perciò la rivoluzione non riguarda una salvezza dell’anima nell’aldilà, ma la liberazione nella giustizia sociale adesso, jetzt . Quanto al Messia, Benjamin non ha mai dimenticato quell’antico detto rabbinico: «Quando verrà, cambierà nello stato del mondo solo qualcosa di impercettibile, non lo trasformerà con la violenza, ma lo aggiusterà solo di pochissimo».
Il capitalismo, nella sua sacralità, appare non profanabile. Tentare, malgrado ciò, una profanazione? Non è la via d’uscita a cui pensa Benjamin. Non si deve infatti fraintendere: la critica al capitalismo non è una critica alla religione. E la sua teologia, che per quanto eretica resta teologia, attira sempre più l’attenzione degli interpreti per la sua portata sovversiva - come mostrano gli studi più recenti.
L’ateismo di massa si riduce per Benjamin alla ripetizione del culto capitalista, agevolato dalla perdita di ogni contenuto utopico. In tal senso questo «teologo trasferito in campo profano», come l’ha chiamato Scholem, è tra i primi a mettere sotto accusa il vuoto progresso che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata. Il capitalismo è fra l’altro il culto di una emancipazione infelice. Così, accanto al benessere e alla libertà, Benjamin rivendica la felicità.
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Il personaggio
Filosofo e critico letterario, l’ebreo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) è una delle figure intellettuali più originali del Novecento. Esule a Parigi dopo l’avvento al potere di Hitler, si uccise in seguito all’invasione della Francia, temendo di cadere nelle mani dei nazisti
Bibliografia
L’editore Einaudi ha pubblicato tra il 2001 e il 2014 le Opere complete di Walter Benjamin in otto volumi, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut Riediger, Enrico Ganni, Rolf Tiedemann. Nel 2015 è uscito, sempre da Einaudi, il libro di Howard Eiland e Michael W. Jennings Walter Benjamin. Una biografia critica (traduzione di Alvise La Rocca, pp. 695, e 90). Da segnalare anche il volume di Uwe-Karsten Heye I Benjamin. Una famiglia tedesca (traduzione di Margherita Carbonaro, Sellerio, pp. 333, e 18). In Francia è uscito l’anno scorso il saggio di Stéphane Mosès Walter Benjamin et l’esprit de la modernité (Éditions du Cerf), mentre quest’anno uscirà negli Stati Uniti il volume Walter Benjamin and Theology , a cura di Colby Dickinson e Stéphane Symons (Fordham University Press)
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 26.10.2016)
Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.
Con Agamben nel mare di Pulcinella dove il mondo non affoga
Mettendo in discussione il primato della prassi ricorda che vi è ancora politica al di qua o al di là dell’azione
di Angelo Guglielmi (La Stampa, 04/12/2015)
Nel 1789 La Repubblica marinara di Venezia, dopo secoli di autonomia e di progresso, morì, arrendendosi vilmente ai francesi di Bonaparte Tra i pittori allora operanti nella città vi erano Gianbattista Tiepolo (padre) e Giandomenico (figlio) e entrambi nella triste occasione si impegnarono in due (uno per ciascuno) corposi cicli di dipinti, disegni, incisioni dedicati a Pulcinella. L’uno (il padre) per denigrare e mettere in burla l’ignominia dei veneziani, l’altro (il figlio), che pure era indignato, trattò lo stesso tema (il titolo del suo ciclo è: Pulcinella ovvero divertimento per li regazzi ) con mano più lieve ma non solo per distinguersi dal padre e nemmeno perché d’animo più lieto.
Secondo Giorgio Agamben è perché era più bravo del padre (testimone Roberto Longhi), aveva una testa più fine e non gli era bastevole valorizzare il piglio della beffa. Così il ciclo di Giandomenico oltre l’illustrazione delle tavole è un sostanzioso studio sul personaggio Pulcinella, invero lo studio è di Giorgio Agamben che, inseguendo le tracce lasciate da Giandomenico, evidenzia per noi con dovizia di acume la complessità e particolarità di Pulcinella anche rispetto alle altre maschere della Commedia dell’Arte.
Che cosa ha di particolare Pulcinella? Certo come Arlecchino, Pantalone e gli altri incarnano altrettanti «tipi comici» evidenziati dalla maschera (ciascuno ha la sua) che indossano e con la quale recitano tutte le parti in commedia..
Ma dove sta la specificità di Pulcinella? Sì, anche Pulcinella come le altre maschere vive il personaggio che interpreta ma nel contempo ne prende le distanze e, facendosi discosto, si guarda guardare, e quel che guarda gli è indifferente o meglio lo ha già dimenticato. E’ come se, nota Agamben, «un filosofo gli fosse sempre accanto, muto testimone della sua vita».
Il modo di esprimersi di Pulcinella è «la goffaggine» non la parola, e la «goffaggine» non è una azione, è un gesto del corpo. Ma - sostiene Agamben - Pulcinella «non è, per questo, un impolitico» giacché «mettendo in questione il primato della prassi, ricorda che vi è ancora politica al di qua o al di là dell’azione». «Di qui la sua attualità, ogni volta che la politica attraversa una crisi decisiva - per Giandomenico, la fine dell’indipendenza di Venezia nel 1787, per noi l’eclisse della politica e il regno dell’economia planetaria».
Comunque (non scherziamo) la riflessione (filosofica o no) è estranea a Pulcinella. Pulcinella «non sceglie» e «non vuole», la sua caratteristica più evidente è «l’abulia». E per fortuna! Che disgrazia se avesse dovuto andare dietro agli arzigogoli della filosofia così contraddittori che se uno dice sì un altro (o lo stesso) dice no. Per esempio quando si sono impelagati nella differenza tra apparenza e sostanza hanno corso il rischio di sistemare la sostanza (la necessità) nell’esse (nell’essere) e l’apparenza nell’operare (nel fare). Finendo per giustificare quel che è accaduto a Auschwitz e ieri come oggi il pregiudizio sui diversi (ebrei, zingari, neri) colpevolmente giudicati per quel che sono e non per quel che fanno. Ma Pulcinella non c’entra con tutto questo, anche se lui che è nato a Napoli dice che a Napoli «’o mare nun se vede».
Ma come dargli torto, se il mare (come gli sta dicendo il filosofo che gli sta accanto) «non è altro che un infrangersi di una onda contro l’altra», e «quella che adesso è passata e le altre infinite che seguono...sono quelle che sono e, tuttavia, restano inconcluse, inconcludenti, possibili...». E Pulcinella illuminandosi conclude: «Ammén et requie matrerna! Aggio capito; je song’ o’ mare, song’ o’ mare...». E lo abbiamo capito anche noi.
DAL ’MONDO’ DEL "QUO VADIS?" AL ’MONDO’ DEL "QUO VADO?". PER UNA CRITICA DELLA LUNGA MARCIA DELLA CIVILIZZAZIONE VIDEO-CATTOLICA:
"QUO VADIS, DOMINE? - SIGNORE, DOVE VAI?): "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE - E IL MESSAGGIO EVANGELICO E’ IL MESSAGGIO EVANGELICO
Note su "Quo vadis? (romanzo storico e film" e su "Quo vado?" (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Luca Pasquale Medici, nei panni di Checco Zalone)":
A.
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;
guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano
e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
B.
INTERVISTA A Luca Pasquale Medici
Checco Zalone, dagli sms con Matteo Renzi al pranzo con Silvio Berlusconi: "Zalone starebbe sulle palle anche a me"
di Redazione (L’Huffington Post, 15/01/2016 - ripresa parziale)
Un successo trasversale, senza colori politici. Lo dimostrano gli sms con il premier Renzi e il pranzo a casa Berlusconi.
Forse, come racconta lui stesso in un’intervista a "Sette", Checco Zalone ha un solo difetto, un’eccessiva indulgenza verso gli italiani e i loro vizi. "È vero - dice a Vittorio Zincone - Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo".
Eppure, ormai, Zalone con Quo Vado?, è entrato prepotentemente nell’Olimpo del cinema italiano, quantomeno per i numeri strabilianti registrati ai botteghini, numeri che fanno da cassa di risonanza a un talento ormai appurato, attirando anche l’interesse del premier, che non nasconde di essere un suo fan.
Ma nella vita di Zalone non ci sono solo sms da Palazzo Chigi, ma anche un pranzo ad Arcore.
Poi il racconto della sua "storia" con Gennaro Nunziante, il regista con cui hai realizzato i suoi film.
Inevitabile un rapido passaggio sugli incassi delle pellicole: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? più di 60.
Infine i complimenti da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini e del regista Gabriele Muccino, entrambi concordi sul fatto che Zalone serviva al cinema italiano perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli. Il pugliese si diverte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL "ROMANZO DI FORMAZIONE" EUROPEO: LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI".
Da Aristotele a Marx. Da Heidegger a Foucault. Il nuovo saggio di Giorgio Agamben raccoglie i frutti di una ventennale ricerca filosofica
Oltraggiati e curati l’uso politico dei corpi
Emerge l’idea di una “potenza destituente” capace di disinnescare i meccanismi del potere
Il punto di approdo di una riflessione al centro della quale si pone l’Homo sacer
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 20.09.2014)
NON so se il nuovo lavoro di Giorgio Agamben - L’uso dei corpi in uscita per Neri Pozza - sia il testo conclusivo di una ricerca ventennale nella quale l’autore ha posto al centro della riflessione la figura dell’ Homo sacer e le sue declinazioni (lo stato d’eccezione, Auschwitz, lo scavo nella teologia paolina e in quella francescana, l’archè e il giuramento). Sembrerebbe di sì. Dopotutto, vi è un punto di approdo rispetto al quale la parola fine ha un senso.
E quel senso lo si percepisce nella serietà con cui Agamben ha affrontato il dispositivo della nuda vita. Ma può davvero una ricerca considerarsi conclusa? Può fornirci tutte le risposte che in qualche modo ci saremmo aspettati da essa? O non è forse vero che una ricerca conserva un residuo, un resto, qualcosa che si può solo interrompere, abbandonare, lasciare ad altri come eredità o compito supplementare? Nel chiudere questo libro importante si ha la netta sensazione che nel momento in cui Agamben metta un punto definitivo, lì qualcos’altro dovrà generarsi.
Intanto cos’è l’”uso dei corpi”? L’espressione mostra una certa familiarità con ciò che si è letto in passato. Aristotele - e in generale il mondo greco - paragona lo schiavo a uno strumento animato il cui uso lo rende simile alle suppellettili della casa. Lo schiavo non smette di essere uomo ma l’uso che viene fatto del suo corpo lo rende simile a uno strumento animato.
Il mondo moderno modellerà le proprie esigenze sulla figura dell’uomo libero. Sarà Marx a svelarci che il paradigma antropologico ereditato dal mondo classico, e posto in vario modo al centro dal liberalismo, non fosse poi così privo di inquietanti somiglianze con la schiavitù. Come avrebbe dimostrato l’analisi del lavoratore ai tempi del capitalismo.
Se questo è il possibile sfondo dal quale affiora l’idea di un corpo, in qualche modo oltraggiato (si pensi, tanto per indicare uno dei punti estremi del discorso, al modo in cui Sade teorizza come un fatto naturale la differenza corporea tra padroni e schiavi) resta da considerare il risvolto positivo che il corpo prospetta ove insieme all’uso se ne vede anche la cura.
Ma qual è la relazione tra “uso” e “cura”? Per intenderla - anche nelle sue aporie - Agamben si sofferma sulla riflessione di Michel Foucault. Che in un corso dedicato all’”ermeneutica del soggetto” richiamò l’attenzione su come Socrate distingue “colui che usa” da “ciò che usa”. È evidente la differenza tra me che uso un coltello per tagliare il pane e lo strumento in questione. Socrate ne conclude che anche l’uomo che usa il proprio corpo (prendendosene cura) sta usando qualcosa che è suo e non è suo. Non è suo perché il corpo non appartiene al corpo (una tesi grazie alla quale Aristotele poté giustificare la schiavitù). È suo perché il corpo non potrebbe essere usato senza la presenza di un’anima. Di un sé. Ciò che Platone, attraverso Socrate, scopre, ci dice Foucault, è la prima esperienza del soggetto. Senza la distinzione e la relazione tra uso e cura, difficilmente sarebbe emersa la figura della soggettività. Che il cristianesimo immobilizzerà dentro pretese universalistiche.
La filosofia moderna ha spesso rivestito la figura del soggetto di astratte considerazioni: sia immaginando che ci possa essere un “soggetto sovrano” separato dal mondo che pensa, desidera, anticipa e in seconda battuta riversa tutto questo all’esterno (posizione idealista); sia che vi è un mondo dal quale il “soggetto” si lascia condizionare in forza delle percezioni che prova (posizione materialista). Foucault - ma già Nietzsche e ancor prima Spinoza - respinge la logica del “prima e del dopo” (il dispositivo aristotelico della potenza e dell’atto) e dice che “soggetto” è colui che fa un certo numero di cose: si occupa di sé, entra in rapporto con il mondo e con altri soggetti. Non c’è il soggetto e poi l’oggetto distinto. C’è la relazione tra essi.
È stato Heidegger a spingere con forza il tema della relazione e del soggetto in quella espressione, resa familiare dalle molteplici interpretazioni, per cui l’esserci è da sempre gettato nel mondo. Come l’esserci (diciamo in senso lato l’uomo) si muova dentro questo mondo e si orienti, non è una questione scontata. Quello che l’esserci fa, lo realizza, strano il ripensamento radicale della figura del soggetto e preparano il campo alle analisi successive. In particolare a quelle svolte da Foucault. È difficile, come osserva Agamben, che egli, nonostante le dichiarazioni, non conoscesse i capitoli che Heidegger, nel testo del 1927, dedicò alla cura.
Non ultimo c’è poi la questione dell’etica che il ripensamento del soggetto mette in discussione. Foucault smise di pensare l’etica come il portato di un insieme di norme e la legò con forza all’idea che un “soggetto morale” si forma nelle diverse pratiche del mondo. Non è un caso che egli dedicasse l’ultimo corso a un tema apparentemente lontano e dal sapore vagamente retorico: “Il coraggio della verità”. Che è da intendere come il tentativo di cercare attraverso la vita filosofica la vita vera. E di trovarla non in una dottrina (come farà Platone) ma in una pratica esistenziale scandalosa e sovvertitrice dei modelli correnti della società.
Siamo dunque in pieno tentativo di dare alla politica uno dei significati che sembrano essersi persi: avvicinarla a una forma d’arte. Come dimostrano le esperienze delle avanguardie novecentesche. Fino al situazionismo teorizzato da Guy Debord, figura assai presente nella riflessione di Agamben. Il quale proprio alla politica - come orizzonte entro cui l’Occidente ha cercato la propria fondabilità - ha rivolto costantemente la sua attenzione. È il punto conclusivo. Su cui vorremmo richiamare l’attenzione del lettore. Come la metafisica ha cercato di fondare qualcosa che si è dimostrato infondabile, ossia il dispositivo soggetto-oggetto, così la politica ha cercato il fondamento nella giustificazione del potere. Diciamo la sua legittimazione attraverso il potere costituente. Che è un potere originario e illimitato che prende corpo ogni qualvolta la storia ci mette di fronte a una rivoluzione, a una sommossa, alla nascita di un nuovo diritto. Si tratta di figure che spesso si sono imposte nella violenza e nel sangue. La desolante dialettica tra potere costituente e potere costituito - come ci insegnano i grandi e piccoli eventi - si iscrive in questo tragico orizzonte. Sapremo superarlo?
Agamben suggerisce l’idea di una “potenza destituente”, capace cioè di rendere inoperanti i meccanismi del potere. Quanto il “destituente” sia difficile, rischioso e complicato lo si può capire constatando i fallimenti che il Novecento ha vissuto ogni qual volta ha provato a mettere in discussione un potere costituito. Nondimeno resta viva l’esigenza di un soggetto che destituendo il potere (neutralizzandolo non distruggendolo) si prenda cura della vita. Quale vita, quale forma, resta tutta da inventare.
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 12.01.2014
Il “laboratorio” di Michel Foucault è un pozzo senza fondo da cui sgorgano ogni volta materiali di enorme interesse. Tra non molto leggeremo in italiano (edito da Feltrinelli) l’attesissimo corso del 1980 sul Governo dei viventi, mentre in Francia è appena comparso quello sulla Società punitiva di qualche anno precedente. Intanto, arriva la traduzione (presso Einaudi) delle lezioni tenute a Lovanio tra il gennaio e il maggio 1981, su invito della Facoltà di Diritto e della Scuola di Criminologia della locale università (Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia,a cura di Fabienne Brion e Bernard E. Harcourt).
Qui il problema della confessione, uno degli argomenti più densi dell’ultima fase del lavoro di Foucault, è al centro di un quadro teorico e storico che riguarda l’incrocio tra la psichiatria e la giustizia, nella prima metà del secolo XIX, e che estende i suoi effetti fino alla nostra attualità, introducendo nel campo stesso del sistema penale una specie di “breccia”, o di paradosso, che ha a che fare precisamente con la questione della verità. Foucault ci soccorre delineando una scena inaugurale e una scena finale in termini molto limpidi. Ma prima, occorre forse spiegare un po’ il titolo del corso (e del libro).
“Mal fare” indica soprattutto quell’agire che siamo abituati a chiamare criminoso. “Dir vero” allude certamente alla confessione da parte di chi ha commesso il crimine ed è anche la posta in gioco di tutto il discorso di Foucault, quello che lui definisce i modi di “veridizione”, intendendo che ce n’è più di uno e che nella sequenza storica essi si trasformano.
L’accusato giura di fronte al tribunale di dire la verità, ma in cosa consiste questa verità? Noi pensiamo normalmente che essa stia nell’ammissione del suo crimine, tuttavia, a partire dall’inizio del Novecento, si tratta anche di altro, cioè - in breve - di dire la verità sul fatto stesso di essere un criminale. «Chi sei?», vuole sapere il giudice, e non è detto che l’accusato sappia o voglia rispondere alla domanda. Ma questa risposta diventa sempre più necessaria perché il sistema penale possa funzionare.
La scena inaugurale apre la conferenza in cui Foucault annuncia i temi che tratterà durante il corso. Essa è presa da un manuale del 1840 sul trattamento morale della follia. Lo psichiatra francese François Leuret racconta di come ha risolto un caso di delirio di persecuzione: sospinge il malato sotto una doccia ghiacciata e lo costringe a subire questa tortura finché lui, che si ostina a dichiararsi sano di mente, non cede e ammette: «Tutto il mio delirio è soltanto follia». Ecco una confessione, una “verità” estorta con la violenza. Per quanto tempo gli apparati dell’Inquisizione hanno usato simili pratiche?
Ma il commento di Foucault va oltre: oggi - dice - ci siamo lasciati alle spalle la tortura o l’abbiamo squalificata come mezzo o “prova” giuridicamente utile. Abbiamo girato pagina, tuttavia dall’episodio di Leuret possiamo ricavare molte indicazioni, una soprattutto: che il procedimento inquisitorio è sempre una questione di po-tere dell’accusatore sull’accusato, anche se la giustizia parla in nome del volere collettivo e l’accusato deve non solo riconoscere le sue malefatte ma anche considerare giusta la punizione che riceve.
La seconda scena è la narrazione dell’episodio di un noto avvocato francese che sta difendendo un uomo che ha rapito un bambino e lo ha freddamente ucciso. L’avvocato si sta battendo contro la pena di morte e paradossalmente utilizza il silenzio del proprio assistito di fronte all’incalzare della giuria. Non basta che confessi l’orribile crimine, deve “raddoppiare” questa confessione con un supplemento: dire la verità su cosa è un individuo criminale. Ma lui tace, e allora l’avvocato si rivolge così ai giudici e alla giuria: «Potete davvero condannare a morte qualcuno di cui non sapete nulla?».
L’episodio segnala quella “diffrazione” che a Foucault interessa: il passaggio dalla tradizionale ermeneutica del soggetto (il reo confesso) a una nuova “ermeneutica di sé” attraverso la quale la società vuole sapere dal soggetto stesso cosa è un criminale, per potersi così difendere dal “rischio” che esso comporta. Una nuova “problematizzazione” del dire la verità che, secondo Foucault, immette su una strada probabilmente senza uscita.
PALESTINA E ISRAELE. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe (...)
Antisemitismo Fatti e opinioni
di Moni Ovadia (l’Unità, 24 novembre 2012)
Il lettore di questo giornale sa che sono un suo collaboratore con una rubrica settimanale e con qualche altra rapsodica «incursione» che mi viene richiesta di tanto in tanto. Spesso approfitto dello spazio concessomi per scrivere di Medioriente e specificamente di conflitto israelo-palestinese (fatto).
Ogni volta che, sulla dolorosa questione, esprimo le mie idee strettamente personali e, ribadisco «strettamente personali» perché non rappresento nessuno, piovono contro di me le accuse di ebreo antisemita, nemico del popolo ebraico o traditore (opinioni). Questo avviene tramite mail, post e dichiarazioni su vari blog e siti inviatimi da fanatici, farabutti o sbroccati di varia risma (opinione). Alcune persone, sia amici che detrattori, ritengono che ciò che dico e penso, anche a causa della passione partecipante con cui mi esprimo, abbia un’influenza rilevante a causa della mia notorietà e che quindi dovrei essere cauto (opinione).
Io sostengo invece che ogni essere umano, in democrazia, sia libero di esprimere come meglio crede le sue idee (opinione) e se coloro che non le condividono o vi si oppongono ravvisano nei suoi discorsi i reati di istigazione all’odio o al razzismo, possono rivolgersi all’Autorità giudiziaria per denunciarlo (fatto) in luogo di spargere vigliaccamente ripugnanti accuse protetti dalla libertà della rete (fatto).
Sono ebreo e, a mio modo, ho dedicato trent’anni e più della mia vita professionale e di studio, alla cultura ebraica della Diaspora in particolare quella yiddish (fatto). Ho contribuito alla diffusione dei suoi valori e della sua espressività nel mio Paese (fatto).
Antisemitismo è sottocultura dell’odio e della violenza contro gli ebrei (fatto) ed io ho sempre combattuto con tutte le mie forze quest’ideologia criminale come ebreo e come essere umano (fatto).
Ho invece criticato aspramente le politiche di molti governi israeliani (fatto). Esponenti istituzionali e della destra e dell’estrema destra e loro sostenitori in Israele e nella Diaspora, sostengono che chi professa posizioni politiche radicalmente avverse alla loro, sia antisemita tout court (opinione). Io penso invece che costoro siano fanatici, affetti da cortocircuiti psicopatologici o, peggio, siano dei fascisti (opinione).
Non ho mai messo in discussione il diritto di Israele all’esistenza, né la sua piena legittimità (fatto), in primis perché la proclamazione e la nascita dello Stato di Israele è stata sancita a grande maggioranza da una risoluzione dell’Onu (fatto) e io credo al valore della legalità internazionale pur riconoscendo gli enormi limiti che limitano l’efficacia dell’azione degli organismi preposti alla sua tutela (opinione). Altresì condivido l’assioma che non possa essere messo in discussione l’inviolabile diritto a tutelare la sicurezza dei propri cittadini per ogni nazione, nessuna esclusa (fatto).
Nethanyahu, Lieberman e i loro ultras invece praticano il credo che al governo israeliano sia sempre e comunque consentito violare il diritto internazionale (fatto). Condannano giustamente il lancio di razzi da parte di Hamas sulle città israeliane (fatto) e gli attentati terroristici (fatto), ma hanno trovato giusto blindare Gaza come in una gabbia con un blocco totale, compreso quello navale, glissando sulle convenzioni che considerano l’assedio un atto di guerra (fatto).
Praticano l’occupazione e la colonizzazione di terre dei palestinesi con ininterrotto accanimento (fatto), li espropriano dalle loro case a migliaia o le demoliscono (fatto), li cacciano dalle loro terre e gliele rubano (fatto), razionano loro l’acqua (fatto), praticano durante le operazioni militari stragi di civili e punizioni collettive che rendono un inferno la vita della popolazione inerme, in particolare quella dei bimbi (fatto), hanno instaurato un apartheid de facto e promuovono l’ «ebraizzazione» di Gerusalemme con continue requisizioni (fatto).
Questi sedicenti democratici promuovono, senza se e senza ma, questi abusi e criminalizzano chi li condanna con l’infamante calunnia di antisemita (opinione). Ma se stare dalla parte degli oppressi, dei discriminati, dei segregati, chiunque essi siano e chiunque sia l’oppressore è antisemitismo, allora sì, lo confesso, sono un ebreo antisemita (opinione e fatto).
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16.02.2012)
Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un’altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c’è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos’è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni - esiste anche una disciplina con questo strano nome - stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito".
Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.
Ma la nostra, si sa, è un’epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest’epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c’è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull’euro), c’è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito.
La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l’organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l’ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità).
In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating.
E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.
Ma la fiducia è diversa dalla fede
di Mario Perniola (la Repubblica, 18 febbraio 2012)
Caro Direttore,
l’articolo di Giorgio Agamben "Se la feroce religione del denaro divora il futuro" (La Repubblica, 16 febbraio 2012) ha il merito di mostrare come perfino l’interesse economico, che dovrebbe essere l’ambito per eccellenza della razionalità e del calcolo, possa dar luogo ad un fanatismo e ad un accecamento, nei quali va perduto il senso della vita. Tuttavia l’articolo si presta ad un equivoco piuttosto pericoloso in un’epoca come la nostra in cui è più che mai opportuno stare dalla parte della ragione. Infatti, Agamben confonde la fiducia con la fede.
A queste due parole corrispondono due verbi del greco antico che, pur provenendo dalla stessa radice, hanno assunto significati molto differenti. La fiducia è connessa al verbo peítho, che nella forma passiva e media vuol dire "fidarsi di una persona o di una cosa"; la fede, che è credenza dogmatica, corrisponde al verbo pisteúo, da cui appunto pístis. La fiducia significa essere e restare in uno stato di sicurezza e di calma, qualsiasi cosa succeda: non si tratta di convincere o imporre agli altri il proprio punto di vista o addirittura la condivisione di qualche "valore".
L’accento è posto sulla condizione di sicurezza del "giusto" che, secondo la Bibbia, riposa sulla sua illimitata fiducia in Jahvé. Una cosa completamente diversa è la pístis che è legata al proselitismo e quindi sollecita un’esplicita adesione a una determinata dottrina o religione.
Perciò la nozione di fede urta la sensibilità di chi è allergico ai dogmi e alle prediche: essa implica un’intimazione a credere alcunché e a comportarsi in un certo modo. Essa apre la strada all’intolleranza o perlomeno a un sentire esaltato di cui non abbiamo per niente bisogno nel campo etico-politico; lasciamolo alla letteratura e alle arti.
LA VERITA’, LA "VERIDIZIONE", E .....IL PAESE DI PULCINELLA (1994-2011).
ITALIA. Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
ITALIA. Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E TEOLOGICA: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS". ITALIA, NATALE 2010: AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2010).
ITALIA, NATALE 2010 d. C.: ARCHEOLOGIA EVANGELICA E COSTITUZIONALE. Il buon-messaggio di Giovanni e la preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
Parte da Bologna il dialogo tra atei e credenti ispirato allo spazio per i «gentili» del Tempio di Gerusalemme
di Armando Torno (Corriere della Sera, 09.02.2011)
Nell’antico Tempio di Gerusalemme vi era uno spazio chiamato «Cortile dei Gentili» . Ad esso potevano accedere tutti, non soltanto gli israeliti. Non c’erano vincoli di cultura, lingua o religione. In tal modo, accanto al luogo nel quale Dio aveva fissato la sua presenza, si apriva un’area per i non ebrei, per gli «altri» , o meglio per i non credenti nel Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe. Un atrio esterno, rappresentato appunto da questo cortile dei gojim, con porticato e colonne, sotto cui sostavano scribi e sacerdoti per dialogare con coloro che chiedevano di conoscere meglio la religione di Israele.
La sua esistenza è attestata a partire da Antioco III (223-187 a. C.) e ad esso si riferisce forse l’Apocalisse: «Ma l’atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani» (11,2). Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche (XV, 417) parla dell’iscrizione che proibiva l’ingresso agli stranieri, sotto pena di morte, nella parte riservata al popolo ebraico. Qui si fermò anche Gesù.
Da questa consuetudine, dopo un invito di papa Benedetto XVI alla fine del 2009, è nata l’idea del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di dare vita a uno spazio di incontro e confronto sulla fede chiamato, appunto, «Cortile dei Gentili» . Un dialogo che non si terrà in un luogo fisso come un tempo usava ma percorrerà le città del mondo, incontrando le diverse culture. Cercherà risposte alle domande della fede, alimenterà una reciproca conoscenza tra credenti e non credenti.
Ravasi invita ogni uomo e punta sul dialogo: affida ad esso le speranze, gli approfondimenti, nonché la creazione di nuovi contesti per meglio comprendere i problemi attuali. Del resto, Platone consegnò ai dialoghi il suo pensiero; ora si guarda con spirito aperto a questa forma di comunicazione per scoprire idee e opinioni condivise, allargare le comuni consapevolezze. Il cardinale nota: «In ogni incontro c’è già un valore».
Non è possibile scrivere in questo momento un programma definitivo del progetto riguardante il «Cortile dei Gentili» , perché le richieste stanno giungendo da ogni parte del mondo. Possiamo soltanto ricordare che codesta odissea di ragione e fede comincerà a Bologna il prossimo 12 febbraio; il 24 e 25 marzo sarà la volta di Parigi, ma già si parla di Tirana, Praga, Stoccolma, Ginevra, Mosca, Chicago, senza contare le richieste che stanno giungendo dall’Asia e dal Sud America.
Perché Bologna? Ravasi chiarisce: «Cominceremo il nostro viaggio nella più antica università d’Europa, con una grande tradizione laica. Sabato prossimo sarà la vera e propria "prolusione"di un itinerario di dialogo e di ricerca dalle tappe molteplici. L’idea nasce quasi in connessione, in concorrenza con l’evento di Parigi, in particolare con la manifestazione della Sorbona» .
Il rettore, Ivano Dionigi, precisa che «un’università pubblica e laica che ospita il confronto tra il credere e l’intelligere non abdica alla propria autonomia, ma assolve la funzione di istituzione vocata, per natura e storia, alla formazione e alla ricerca» . Il suo intervento e quello del cardinale apriranno, poco dopo le 10, i discorsi dei primi quattro «relatori» del «Cortile» : lo scienziato Vincenzo Balzani, il costituzionalista Augusto Barbera, i filosofi Massimo Cacciari e Sergio Givone. Saranno intervallati da letture dell’attrice Anna Bonaiuto (tra l’altro, ha lavorato con Pupi Avati, Liliana Cavani e Nanni Moretti), che farà rivivere brani di Agostino (Confessioni), Pascal (dei Pensieri la parte sulla «Scommessa» ) e Nietzsche (Così parlò Zarathustra).
Sottolinea Ravasi: «L’iniziativa sarà aperta a tutti: studenti, docenti e anche a coloro che desiderano percorrere i sentieri di altura della ricerca sia filosofica sia teologica, sia razionale sia di fede. L’universitas torna a raccogliere ogni disciplina, compresa la teologia, e si rivolge all’agorà, alla comunità, a chi cerca e si interroga» . - per l’eminente uomo di Chiesa questo è il primo di due passi da intraprendere: «Mi sono ora rivolto all’orizzonte alto della cultura ed è auspicabile che sia l’inizio di un percorso di confronto nell’ambito accademico o, se si vuole, in quello del sapere più qualificato e specialistico; il secondo, invece, è delicato, decisamente arduo: sarà un confronto serrato, anche aspro, con la tipologia dominante della non credenza attuale che è quella nazional popolare dell’indifferenza, dell’amoralità, dello sberleffo ateistico» .
Inoltre Ravasi chiarisce i termini del primo incontro: «Il rettore e io non faremo, ovvero non daremo il là; vorrei ribadire che la tonalità del dibattito è lasciata completamente libera. Noi presenteremo soltanto la ragione di indole culturale che esige un simile confronto, perciò non sarà mai la finalità dell’incontro strettamente apologetica o volutamente laica, ma quello che si intende avviare è un dibattito aperto, un dialogo sulle letture differenti delle questioni umane fondamentali» .
Chiediamo degli esempi. In tal caso il cardinale mette in campo parole pesanti, che stanno al centro dell’attenzione di scienza e teologia, oltre che in secolari controversie filosofiche: «Vita, morte, oltrevita, bene e male, amore e dolore, verità e relativismo, trascendenza e immanenza» . Aggiunge: «Ovviamente ci sarà un’attenzione per le questioni bioetiche, in modo da essere sempre attenti ai progressi delle scienze ma al tempo stesso anche alla complessità del valore della vita e della persona, che restano il punto di riferimento sia per la teologia che per la filosofia» .
Il «Cortile dei Gentili» combatte la sonnolenza dello spirito, quel genere di torpore - per fare un esempio- alimentato da quell’editoria che fa notizia ma è inutile alla cultura, cara a coloro che confondono il messaggio con il massaggio. È iniziativa che ribadisce il valore della fede e ricorda con Dostoevskij l’impossibilità di vivere pienamente senza riflettere su Dio.
Ci accomiatiamo da Ravasi chiedendogli cosa si aspetta, come teologo, da questa iniziativa. «Con essa - risponde - attendo, oltre quel dialogo ricordato, un aiuto per coloro che desiderano uscire da una concezione povera del credere. Vorrei invitare il laico a non considerare la teologia un reperto archeologico o mitologico, perché ha una sua dignità "scientifica"; mentre il credente comprenda le ragioni profonde della teologia e non la veda come ostacolo: la intenda come un sussidio, una componente fondamentale per percorrere le strade della fede» .