Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
Il «mea culpa» di Lenin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
di Paolo Vicentin (Avvenire, 12.07.2007)
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto. In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato.
Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L’Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l’ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L’articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l’autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l’amico e il giornalista che l’ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l’impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l’ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l’idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di misticismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell’uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l’umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l’inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l’umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell’Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L’Osservatore romano il 24 settembre 1924, l’autore tratta il problema russo dal punto di vista del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l’applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l’altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l’amico: «Dopo aver atteso un po’, insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell’amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l’umanità"». Questo secondo articolo dell’ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l’aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all’immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Chiesa di Costantino, l’Amore ("Charitas") e la nascita della democrazia dei moderni
IL CROCIFISSO: UN PEZZO DI LEGNO, PINOCCHIO, E NOI, ITALIANI ED ITALIANE. INDIETRO NON SI TORNA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
GRAMSCI E LA RELIGIONE
di Andrea Oppo
Ancora una volta: Gramsci e la religione. Provo a impostare la questione, a impostarla in una maniera tale possa essere una base comunque di discussione per il filosofo e lo storico che ho accanto e che parleranno dopo di me: il prof. Tagliagambe e il prof. Prosperi. Non ci siamo parlati prima d’ora, non ci siamo messi d’accordo. Di fatto, stiamo improvvisando un dialogo: proprio per questo provo, appunto, a trovare una piattaforma comune.
Che cos’è la religione per Gramsci? Partiamo da qui. E diciamo che la religione interessa a Gramsci in quanto è connessa all’azione, all’agire umano. È un esito, non una causa. È un fatto, non un’idea. E in quanto fatto Gramsci la giudica, la valuta. Nel Vangelo si dice: l’albero si vede dai frutti. Ecco, questo è esattamente l’atteggiamento di Gramsci. Non è sempre facile od opportuno accostarlo al Vangelo, ma questa frase gli si addice proprio. Questa differenza radicale, tra fatto e idea, tra azione e contenuto di qualcosa, che, posta così, potrà non dirci molto, guardate, è invece centrale. E conduce ad esiti che forse qualcuno neanche sospetta, che vi dico a mo’ di esempio.
Nei Quaderni 10 e 11, forse i più filosofici tra tutti, quelli in cui Gramsci, come ha osservato molto bene Fabio Frosini nel suo ultimo studio, ha necessità di tornare alla filosofia per risolvere alcune aporie della politica, ebbene in quei quaderni Gramsci si definisce filosoficamente: rispetto a Hegel e a Croce soprattutto, ma anche rispetto alla filosofia cristiana e al positivismo. In particolare, parlando della oggettività del reale, verso cui Gramsci ha più di un dubbio, egli sostanzialmente identifica le posizioni della filosofia neoscolastica, la filosofia cristiana “ufficiale”, con le posizioni scientifiche di Engels. Sì, nessuno ha sentito male: Gramsci associa Engels alla filosofia ufficiale della Chiesa cattolica. E lo scrive testualmente a proposito della critica al Saggio popolare di Bucharin: scrive che “il neoscolastico Casotti quando crede già esistenti la vita e l’organismo reale si avvicina alle tesi di Engels dell’Anti-Dühring”. Qui occorre qualche spiegazione. Eugen Dühring era un professore di Berlino, positivista, che aveva recensito molto negativamente Il Capitale di Marx definendo le sue tesi come pseudoscientifiche e quasi mitologiche. Ebbene Engels si premura di difendere Marx dall’accusa di anti-scientismo e così facendo scrive l’Anti-Dühring, tradotto in italiano in La scienza sovvertita del signor Dühring (1878). Ma, così facendo, mostra, secondo Gramsci, il vero volto del socialismo scientifico: quello di teoria trascendente. La materialità del mondo, per Engels, è dimostrata dalle scienze naturali: per Gramsci aver fede in questo equivale ad avere fede in un Dio, né più né meno.
Per capirci meglio, se uno, magari anche qui, fra di noi, affermasse: “Io non credo in Dio
perché credo solo in ciò che vedo e che tocco”, questa affermazione per Gramsci è una
affermazione metafisica. Mi verrebbe da dire un’affermazione quasi teistica. Ciò che si vede e si
tocca, per Gramsci, in quanto oggetto fuori della nostra portata (oggetto di scienza, di misura in sé),
è oggetto metafisico.
L’ateismo di questo tipo è per Gramsci “fede nel trascendente”. Dire “non ci
credo perché non lo vedo” è frase priva di senso da un punto di vista gramsciano. Non importa ciò
che esiste e si tocca: queste cose non hanno alcuna ragione per essere degne di attenzione o di fede.
Lancio una provocazione: se Gramsci fosse qui direbbe che persone come Richard Dawkins (il guru
conclamato dell’ateismo odierno, l’uomo della “materia” per eccellenza) sono persone “credenti”,
“metafisiche”.
Gramsci lo dice e lo scrive in tutta la sezione “La così detta realtà del mondo
esterno” dei Quaderni dal carcere. Ma chi è allora questo ateo, che è Gramsci, che è più ateo del
“più grande ateo al mondo”? Anzi, per il quale “il più grande ateo al mondo” è... “credente”?!
Che cos’è, dunque, l’immanenza, l’ateismo di Gramsci?
Riprendo un esempio, un’immagine dei Quaderni, che è molto chiara e intuitiva a questo
proposito. Gramsci parla del verbo “vedere” come intimamente connesso a questo modo di pensare
e a questa fede per lui assurda nel mondo esterno in quanto tale (dunque nel materialismo in quanto
tale, da cui potremmo quasi tirar fuori una formula paradossale, ma intimamente gramsciana, se
capita in quest’ottica: il materialismo è trascendente). Il verbo vedere, a differenza di guardare, non
è propriamente un’azione volontaria, e se lo è lo è in modo riflesso. Lo stesso si potrebbe dire dei
verbi sentire e ascoltare.
Insomma è la differenza che Kant pone tra le leggi di natura a cui la
volontà è soggetta e le leggi di natura la cui natura è soggetta a volontà. In questo secondo caso, la
volontà è causa degli oggetti. Per Gramsci non è vedere l’azione che conta, ma guardare. Io posso
entrare in un museo e vedere molti quadri, ma quelli che decido di guardare sono il fatto reale,
quello che conta per davvero, la mia “immanenza”. Questa è immanenza per Gramsci: ciò che
decido di fare, e l’esito che da questa decisione deriva.
Il verbo “guardare” è curioso, se ci
pensiamo: non ha radice latina, viene dal germanico, in tedesco è warten, aspettare, è quella radice
wa- forse indica proprio l’intenzionalità se è vero che wachen significa “fare la guardia”, bewachen
“custodire”, e le voci inglesi to wake e to watch indicano ugualmente “coscienza”, “presenza della
volontà”, “presenza a se stessi”.
Se consideriamo il greco antico, che è sempre ricchissimo di verbi,
ma ancora più nell’ambito della “vista”, ci sono tante sfumature e modi di vedere (opsomai, blepo
sono solo alcuni), ma il verbo derkomai è particolare nella sua accezione intenzionale: da una
metatesi della radice deriva la parola “drago”. Il drago è colui che ti fissa con l’occhio vigile, così
come il serpente. Uno dei passi più realistici del Vangelo (Mt, 10) invita ad essere “astuti come i
serpenti”. E questo forse intende Gramsci con la sua metafora del agire/guardare anziché vedere:
non essere ingenui, fare la guardia, appunto, guardare. Il metafisico, potremmo dire, vede e analizza
la sua visione; il filosofo della prassi guarda e si occupa degli esiti di quel guardare.
Per comprendere quanto Gramsci sia dentro questa dimensione si pensi all’attenzione e all’importanza che riserva a San Paolo rispetto a Gesù Cristo: è San Paolo che agisce e fa il cristianesimo, non Cristo. Una visione diametralmente opposta a Nietzsche se vogliamo, il quale nel suo Anticristo (che dovrebbe più correttamente intitolarsi Anti-Paolo) difende la purezza di Cristo dalla “azione corrosiva” di San Paolo. Ma non così per Gramsci, per il quale il cristianesimo delle origini, sino all’editto di Milano, ha valore di spinta e rivoluzione, è religione positiva. E ogni volta che nella Chiesa ci si richiama al cristianesimo delle origini, per lui, è segno di rinascita e rivoluzione. Ma nei secoli a seguire la religione cristiana, letta per questa via fattuale e pratica, per Gramsci non ha realizzato le sue premesse e le sue aspettative.
Valutandola come “fatto”, come un “pensiero agito”, Gramsci giunge alla sua celebre analisi
che dopo la Controriforma e la Rivoluzione francese, la religione (cristiana) non conduce più al
minimo atteggiamento pratico. Dunque, oggi, per Gramsci, la religione è “oppio dei popoli”, cioè
un’ideologia inutile. E aggiungerà: “La più gigantesca utopia metafisica apparsa nella storia, perché
è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita
storica”. Il giudizio è forte, è pesante. Ma faremmo un errore imperdonabile a considerarlo
“giudizio su un’idea”, per esempio l’idea cristiana; giudizio su un contenuto dottrinale, su una
verità, per esempio la verità del cristianesimo: perché di queste cose, delle verità del mondo in se
stesse, a Gramsci non importa praticamente nulla. A Engels importa, a Feuerbach anche. Ma non a
Gramsci. E se noi non capiamo questo suo disinteresse per i contenuti in sé, per le dottrine in sé,
semplicemente non abbiamo capito che cos’è la filosofia della prassi.
Gramsci non è contro il
cristianesimo, semplicemente perché lui non è contro nulla che sia oggetto del mondo in quanto
oggetto: non crede agli oggetti di per sé, come può esservi contro? Crede alle azioni: e quelle
valuta. E le azioni cambiano, mutano nel tempo e nella storia. Sono liquide, non statiche. La sua
valutazione del cristianesimo, inteso come esito, come azione, non differisce dalle sue valutazioni di
tutto il resto. Se l’azione va verso un fine buono, lui la valuta positivamente; viceversa, se va verso
un fine cattivo, la valuta negativamente. Il cattolicesimo che valuta negativamente è, in particolar
modo, quello che inizia con la Controriforma e arriva fino al tempo che a lui è dato di vedere. È su
quello, sul cattolicesimo come azione ed evento storico che occorre concentrarsi, per capire i giudizi
di Gramsci: giudizi che, ripeto, variano a seconda degli esiti e della storia.
Ma torniamo per un momento all’idea più generale di religione che Gramsci ha. Gramsci intende la religione in senso antropologico, su una linea che sostanzialmente ha inizio con Montesquieu (Lo spirito delle leggi, 1745) in cui si opera una distinzione tra la religione vera e la religione utile. È quest’ultima che interessa, la religione utile, e in quest’ottica l’antropologo americano Clifford Geertz, in tempi recenti, definisce la religione come un “sistema simbolico che agisce per instaurare atteggiamenti morali”. Non si sta parlando di teologia qui. Questa è la definizione che interessa a Gramsci. La religione, come fatto immanente, come simbolo che produce una moralità, è una grande opportunità per Gramsci, è un evento estremamente positivo, se agisce bene, se agisce verso il bene. Ugualmente, se il cristianesimo agisce per il bene, verso il bene, esso è una grande opportunità, di cui magari un giorno non vi sarà più bisogno (parliamo di una “escatologia marxista”, tema che sia Marx che Gramsci pongono abbastanza chiaramente), ma per intanto, se fa così, è un fatto positivo.
Sono tante le conclusioni che si possono trarre. Davanti a un pensiero radicale - e quello di Gramsci lo è, è pensiero della rivoluzione a tutti gli effetti, rivoluzione vera, del pensiero che diventa immediatamente azione - si può reagire ignorando le provocazioni, addolcendo gli spigoli, oppure ascoltando e provando a mettersi nell’ottica di quel pensiero. L’ottica della filosofia della prassi è quella di lasciar perdere le cose in sé e dunque evitare di cristallizzare la stessa filosofia della prassi come cosa in sé. Cosa che purtroppo molti interpreti gramsciani inevitabilmente fanno. Va da sé che è più facile ragionare su ciò “che si vede” che su ciò “che si fa” o “che agisce”.
Vorrei chiudere con qualche provocazione, ma che serve a capire, credo, a fondo le intenzioni di Gramsci. Cosa avrebbe da dire Gramsci a, poniamo un cattolico, che prega, va in Chiesa, crede nei dogmi della teologia e nel culto dei santi? Avrebbe da dirgli: “Non credere più”? “Non pregare”? “Abbandona la tua fede perché la tua dottrina è errata”? Non penso che direbbe questo: non foss’altro perché si contraddirebbe nelle sue stesse premesse, iniziando, di fatto, a occuparsi di dogmi e contenuti, di oggetti statici ed esterni, cosa che non ha mai fatto. Gli direbbe piuttosto un’altra cosa, quasi “kantiana” (se mi è permesso, con Gramsci), anche se di un Kant molto pragmatizzato (ragion-pratica, più che ragion-pura-pratica): “Fa’ che l’esito della tua preghiera o della tua fede trascendente sia un effetto universale e in ogni tempo perché tutta l’umanità, a partire dai subalterni, ritorni e ridiventi più umana”. Ecco una legge morale kantianogramsciana! Tradotto in termini più nostrani: “Tu, teista e trascendente, non puoi permetterti di essere ingenuo. La tua fede, che tu lo voglia o no, produce degli effetti e tu non puoi esserne ignaro”. “Non puoi pregare, pensando che quella tua preghiera sia fuori dal mondo; o non stia già generando qualcosa, di buono o cattivo, ma, cosa grave, tu non lo sai perché non te ne occupi”.
Parlando di preghiera, Edith Stein (ebrea, atea, assistente di Husserl all’Università, convertita al cristianesimo, suora di clausura carmelitana, infine internata ad Auschwitz e morta, come Massimiliano Kolbe, scambiando la sua vita con un altro detenuto al quale l’ha, infatti, salvata) nel suo credo era quanto di più trascendente potesse esserci (dalla fenomenologia di Husserl agli studi sull’empatia, a Tommaso, al Carmelo, a S. Teresa d’Avila): eppure nel 1933 scrisse al Papa Pio XI per dirgli di parlare apertamente di Hitler, del male che quest’ultimo faceva. Eppure litigò con le altre suore di clausura per la loro preghiera sterile, eppure non fuggì in America quando poteva farlo e infine si lasciò catturare quasi come Socrate, non sfuggendo al proprio destino. E lo condizionò pure, perché lei non sarebbe dovuta morire neanche nel campo di concentramento. Mi domando, in un’ottica di filosofia della prassi, qual è il giudizio su questa donna, nata tra l’altro nello stesso anno di Gramsci e morta ad Auschwitz nel 1942? Siamo davanti a un caso in cui la trascendenza non porta certo all’inazione.
Detto questo Gramsci è scomodo, non lo nego. Perché fa continuamente i conti in tasca al
trascendente: a qualunque trascendente. Non dimentichiamolo: il problema di Gramsci, io credo,
non è con la fede in genere o con la Chiesa in quanto tali. Il suo problema è col trascendente sterile.
E questo trascendente non è solo nella religione teista. Io capisco che un teista stia male a leggere
Gramsci: perché si trova davanti a uno sguardo per lui forse disincantato, che gli fa i conti in tasca
proprio nel bel mezzo di un’estasi. Sente una disillusione in atto, che non piace a nessuno. Ma non
piacerebbe neppure al musicista, chiuso nel suo mondo musicale; all’artista che crede che un quadro
abbia una sua verità trascendente (idea romantica nell’arte che oggi ha praticamente vinto e si è
imposta dovunque nell’arte), che non dipende da noi; a chi creda che esistano cose come il genio,
l’assoluto, il bello in sé, il sogno, il romanticismo nel senso di Novalis di una vita dedicata all’arte
come l’unica degna di esser vissuta, il “lasciatemi in pace coi miei sogni”: a tutti costoro Gramsci fa
i conti in tasca. E questo non è comodo per nessuno, non è solo un problema di fede teista. Lo
scienziato che crede nella scienza come valore in sé è messo in questione da Gramsci. L’artista che
identifica forma e contenuto, cioè uno che crede nell’arte (su questo Gramsci è esplicito nei
Quaderni, attaccando con chiarezza quel tipo di fede nell’arte). Probabilmente l’intero meccanismo
di produzione del sapere delle università americane di oggi (che è, di fatto, pura classificazione e
infine dominio degli oggetti/enti del mondo esterno) sarebbe oggetto della “messa in guardia”
gramsciana.
Nessuno è al sicuro con Gramsci. La fede religiosa, in quanto trascendenza, è forse “la
più grande” delle utopie trascendenti, ma di utopie del genere, per lui, il mondo è pieno. E lo sarà
sempre di più, dopo la sua morte. Sì perché è esattamente la trascendenza che ha vinto in questo
mondo odierno dominato dall’Occidente americano, che ha di fatto imposto un modello
trascendente in tutto: nella scienza materialistica, nell’arte, nella politica, nella religione.
Nessuno, con le proprie utopie, è al sicuro con Gramsci. Il suo pensiero è scomodo, ripeto,
non solo verso i cattolici. E io non penso che se fosse vivo oggi attaccherebbe tanto la religione
cattolica come la più grande delle utopie trascendenti, ma, credo, il senso comune trascendente che
ne è derivato, e che ormai pervade tutto.
Io personalmente posso avere delle riserve sulla filosofia della prassi radicale di Gramsci.
Posso non seguirlo nella sua radicalità precisamente nel fatto che do valore anche (o soprattutto)
all’utopia improduttiva, alla trascendenza che non dà frutti nella prassi: posso credere, con
Heidegger, in un’opera d’arte come identità di forma e contenuto; o con Pasolini in un valore del
Vangelo come “archetipo in sé” che rivela e magari non agisce secondo i criteri che vorrebbe
Gramsci. E tuttavia anche a un “utopista trascendente” come me il messaggio di Gramsci ha da dire
qualcosa che non è affatto una dichiarazione di guerra a ciò che sono, o sarà che non la vivo così.
Ma è più semplicemente ha da dirmi: “Stai attento”; “Non essere ingenuo, non permettere che
mentre tu sogni altri manovrino quel sogno”; “Tutto, in fondo, si declina in una azione”. Questo è il
messaggio di Antonio Gramsci. Posso accusarlo di non capire o riflettere su ciò su cui ha riflettuto
Heidegger, di non dare valore alle essenze delle cose, di non aver capito il cristianesimo dei Vangeli
nella sua essenza, o quella che secondo me lo è (non quella che agisce di San Paolo, ma quella
“inerme” di Cristo), ma lui, proprio non occupandosene, non contrasta questi valori, non impedisce
da un punto di vista teorico alle cose di essere ciò che sono, e credo non lo faccia con nessuno.
Piuttosto mette in guardia, come il drago del verbo derkomai, che ti fissa mentre tutti sognano o
vedono cose qua e là. Se gli altri vedono, lui guarda. Non necessariamente le cose sono in contrasto.
Così il metafisico con il filosofo della prassi non sono nemici sulle idee, ma saranno i frutti delle
loro azioni a mostrare il risultato finale della loro amicizia. E, come scrisse in una famosa lettera a
sua madre, donna di fede cristiana, che lui ammirava e stimava: “...alla fine ti accorgerai che
eravamo più vicini di quanto non pensassi”».
Per Gramsci la religione è necessaria
Ottant’anni fa la scomparsa dell’intellettuale italiano
di Franco Lo Piparo*
«La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo».
Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole” dell’edizione torinese dell’«Avanti!» il 4 marzo 1916. L’osservazione antropologico-filosofica è parte di un articolo che prende lo spunto dalla notizia di una fattucchiera che aveva visto aumentare la sua clientela in seguito alle vicende belliche. Tesi simili lo studente Gramsci le avrà lette in testi di Croce, Gentile e Bergson. La frase che immediatamente segue ne è la spia: «L’uomo grosso non ha sostituito (perciò diciamo che è grosso) nulla alla religione. La vita si chiude per lui nel cerchio delle occupazioni quotidiane».
Leggi anche: Gli ultimi anni di Antonio Gramsci: dal comunismo a Gesù?
Registriamo che la religione non è né l’oppio dei popoli e nemmeno una sovrastruttura destinata a collassare una volta cambiato l’assetto socio-economico su cui si regge. «È un bisogno dello spirito». Ha a che fare con la natura dell’uomo indipendentemente dai modi in cui quel bisogno nella storia si declina. Le numerose annotazioni, disseminate nei Quaderni, sulle religioni e sulla fede che le sorregge non mettono mai in discussione il principio. Lo ribadiscono e lo rafforzano. Il Quaderno 6, ad esempio, cita, facendola propria, una pagina in cui Plutarco osserva che chi viaggia per il mondo potrà imbattersi in «città senza mura e senza lettere, senza ricchezze e senza l’uso della moneta, prive di teatri e di ginnasi. Ma una città senza templi e senza dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sacrifizi per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai». Detto con parole se è possibile ancora più chiare: non esistono società dove non venga praticata una religione.
Questo è solo un punto di partenza. Nei Quaderni circola con insistenza una tesi che solo gli occhiali marxisti o marxisteggianti degli interpreti non hanno consentito di porre nella giusta luce. Se le religioni si fondano sulla fede (e così stanno le cose), le religioni-fede non sono un fattore aggiuntivo, anche se ineliminabile, delle società umane ma il cemento strutturale necessario che fa di una molteplicità di individui un gruppo sociale coeso, sia esso partito politico o popolo-nazione o chiesa o altro ancora.
Occorre una precisazione semantica sulla parola «fede». Fides è il termine con cui nella vulgata latina del Nuovo Testamento viene tradotta la parola greca pístis. Il termine, nel lessico filosofico greco, indica lo stato d’animo di chi ha fiducia in qualcuno o qualcosa perché è persuaso, per un qualche motivo, della sua verità e/o giustezza. La pístis-fede ha quindi a che fare con la persuasione e la credenza. «Essere persuaso che...» ha lo stesso significato di «credere che...». Non a caso i fedeli sono anche credenti.
Questo è il significato della parola fede-fiducia che dalla Retorica di Aristotele giunge al Nuovo Testamento e da lì si diffonde nel lessico delle lingue moderne. Con questo senso Gramsci usa la parola fede neiQuaderni.
Sulla fede-fiducia in determinati valori culturali e nelle istituzioni che li incarnano poggia il potere invisibile che ciascuno di noi si porta dentro e che ci fa agire in un modo e non in un altro perché fortemente persuasi che sia giusto comportarsi in quel modo. Questo potere invisibile il Gramsci giovane lo chiamava prestigio e, nei Quaderni, lo chiamerà egemonia.
Persone e istituzioni di cui ci si fida e alle cui regole culturali di comportamento ci si conforma per consenso spontaneo sono, nel giudizio silenzioso di chi ne subisce il fascino, persone e istituzioni che, godendo prestigio e ispirando fiducia, esercitano egemonia. Quaderno 12: «Il consenso (...) nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione».
Una pagina del Quaderno 11 si sofferma a lungo sull’argomento. «Nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede». Le argomentazioni razionali, anche se importanti, hanno in ultima analisi un valore strumentale. Se l’argomentazione razionale fosse preminente, «a un uomo del popolo (...) potrebbe capitare di dover mutare le proprie convinzioni una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore». Questo non accade perché «l’elemento più importante della sua concezione del mondo è indubbiamente di carattere non razionale, di fede». E continua: «Ma fede in chi e in che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui». Ed ecco la conclusione: ai fini della diffusione popolare di una nuova concezione del mondo «la forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall’essere decisiva».
Una fede-egemonia realizzata vive come insieme di certezze di senso comune che chi vi aderisce dà per scontato che non vale la pena mettere in dubbio. L’insieme di certezze indubitabili nella sistemazione teorica che ne fa Gramsci è simbolicamente rappresentato dal mito-Principe che per questo «non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta» (Quaderno 13). «Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico».
La Chiesa cattolica è assunta nei Quaderni come esempio paradigmatico di fede-egemonia ben riuscita. Sono molte le pagine in cui l’argomento viene trattato. I punti forti del successo sono fondamentalmente due, tra loro complementari.
L’alto livello della elaborazione teorica non è disgiunto dalla capacità politica tradurre in apparati culturali popolari la teoria. Le figure fondanti della Chiesa sono due: Cristo generatore di una nuova e rivoluzionaria Weltanschauung, san Paolo organizzatore della Weltanschauung. «Essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta» (Quaderno 7).
La Chiesa cattolica non è elitaria ma sa fare convivere e interagire l’alto e il basso, i suoi intellettuali e il popolo dei credenti. «La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione intellettuale di tutta la massa “religiosa” e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che “ufficialmente” si formino due religioni, quella degli “intellettuali” e quella delle “anime semplici”. (...) risalta la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori artefici di questo equilibrio» (Quaderno 11).
Le filosofie immanentiste hanno provato a seguire l’esempio della Chiesa ma hanno fallito. «Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i “semplici” e gli intellettuali».
Sorgono delle domande che Gramsci non pone. E se la causa del fallimento risiedesse tutta nell’immanentismo di quelle filosofie? Una filosofia che non può e non sa dare risposte appaganti alle domande sul senso ultimo della vita e della morte può diventare religione e Chiesa? E se le filosofie immanentiste non fossero capaci, per motivi di principio, di fuoriuscire dalle egemonie-fedi settoriali? Il cristianesimo non è solo una egemonia-fede ma una egemonia-fede globale: non si occupa di questo o quell’assetto socio-economico ma del senso del vivere. E se il fallimento egemonico delle filosofie immanentiste nascesse dalla presunzione di occupare un terreno che non appartiene a loro? Gramsci questo non lo dice ma non è incompatibile con lo spirito liberal-democratico che anima i Quaderni.
IL NUOVO CRISTIANESIMO DELL’UCRAINA
Sono due le principali Chiese ortodosse del Paese invaso: la Chiesa ortodossa ucraina (indipendente) di EPIFANIO e la Chiesa ortodossa d’Ucraina (subordinata al patriarcato di Mosca) di ONOFRIO. È il primo, con toni inequivocaboli, a spiegare che cosa sta nascendo
di Marco Ventura (Corriere della Sera, “La Lettura”, 5 giugno 2022)
Sono i nuovi cristiani quelli che si battono in Ucraina. È un nuovo cristianesimo quello che si produce nella guerra. Ce ne rendiamo conto sempre di più, a mano a mano che gli occhi si abituano all’oscurità di questa guerra. La trasformazione, naturalmente, non appare nitida. Il cristianesimo del futuro si delinea nei chiaroscuri. La sua luce appare fioca come una lampadina a fluorescenza appena accesa. Del resto i nuovi cristiani si stanno facendo mentre gli anfibi affondano nel fango, nella poltiglia dell’urgenza e della forza maggiore, mentre tutto sembra antico e provvisorio.
Per comprendere, «la Lettura» ha dialogato a distanza con il Metropolita di Kiev Epifanio, capo della Chiesa ortodossa ucraina riconosciuta tre anni fa dal patriarca ecumenico di Costantinopoli come indipendente, «autocefala» nel gergo del diritto canonico ortodosso. Le domande e le risposte scritte sono state discusse con Dmytro Vovk, esperto internazionale di libertà religiosa, e da lui tradotte dall’inglese in ucraino e viceversa.
Epifanio è l’uomo sul confine, nuovo cristiano per scelta e per necessità, leader di quella Chiesa indipendente eppure vincolata al destino del popolo da cui comincia questo nuovo cristianesimo. Il metropolita non è d’accordo con l’enfasi sul 2019, l’anno del tomos, il documento che riconosce l’autocefalia: «Non si dovrebbe iniziare dal 2019, ma almeno dal 1917, quando la lotta per l’indipendenza della Chiesa in Ucraina cominciò subito dopo la caduta dei Romanov».
La Chiesa dei nuovi cristiani sa di oppressione, di lotta per la liberazione: «La strada è stata lunga, l’occupazione spirituale di Mosca è durata più di tre secoli». L’invasione russa amplifica il senso del percorso, reclama un sigillo divino: «Siamo a casa nostra, stiamo costruendo la nostra Chiesa ortodossa ucraina autocefala sulla terra dataci da Dio affinché ci prendiamo cura del nostro gregge». Il dubbio che la svolta del 2019 abbia aumentato le tensioni scivola in una domanda. Il metropolita non lascia spazio: «Il modo in cui è posta la domanda corrisponde alla falsa narrativa diffusa dalla Russia». La contrapposizione con il patriarcato di Mosca diventa ancora più esplicita quando si chiede che cosa avrebbero potuto fare gli ortodossi per scongiurare la guerra. Se i vertici della Chiesa russa, nella terminologia tecnica ortodossa «i gerarchi», «si sentissero parte della Chiesa di Cristo e non di un dipartimento religioso al servizio del Cremlino, se vivessero secondo il Vangelo e testimoniassero la verità, non sarebbero uno strumento ideologico del potere russo». L’indipendenza in questione non è soltanto quella tra le Chiese, ma anche quella dallo Stato. Se gli si fa osservare che il connubio di Stato e Chiesa tipico dei Paesi ortodossi appare ancora più problematico oggi a causa della guerra, Epifanio ribatte che «nessuna Chiesa può rinunciare ai rapporti con lo Stato» e visto che dialoga con un quotidiano italiano, respinge al mittente: «Il centro della Chiesa cattolica, il Vaticano, è esso stesso uno Stato e costruisce relazioni con altri Paesi come uno Stato».
Poi prende un’altra strada: «Noi non abbiamo un tale status e non lo cerchiamo». Per illustrare «la differenza che conta» ricorre ancora una volta al contro esempio russo: «La Chiesa può essere un’istituzione indipendente che dialoga con il governo ed è leale verso la statualità, oppure può essere dipendente, subordinata al governo, parte della macchina propagandistica del regime, come si vede in Russia dove la Chiesa è uno dei tentacoli della piovra aggressiva».
Lo schema si ripete sul patriottismo cristiano: «La Chiesa non rifiuta il sano patriottismo perché questo si basa sulla principale virtù cristiana: l’amore». Tuttavia «l’uso del patriottismo, anche cristiano, da parte della Russia è certamente sbagliato, è una colpevole manipolazione», perché «il patriottismo è amore per la patria, non per il dominio dello Stato». Devono dunque essere diversi la relazione con lo Stato ucraino, lo Stato stesso, l’identità di popolo, Stato e Chiesa nel loro insieme. Per Epifanio, infatti, il problema con la Russia sta «nella nostra stessa identità, nella nostra esistenza stessa», non nel tomos del 2019. «Per Putin l’Ucraina non esiste, la nazione ucraina non esiste e quindi non possiamo avere una Chiesa indipendente; di più, Putin non sopporta il successo del popolo ucraino, dello Stato e della Chiesa nella costruzione di un moderno Paese europeo».
Funzionano così il negativo e il positivo, sull’indipendenza tra Chiesa e Chiesa, sull’indipendenza della Chiesa dallo Stato e al contempo sul bisogno di Stato, sul sano patriottismo e su un’identità moderna ed europea. Sono le parole chiave dei nuovi cristiani, su cui Kiev e Mosca sono eguali e contrarie: entrambe gelose della loro terra e del gregge corrispondente, entrambe sparate nel mondo, verso lo spazio liberale «moderno e europeo» gli ucraini, verso lo spazio conservatore postmoderno e globale i russi.
Il test, l’ultima parola chiave, è l’unità. Epifanio non fa concessioni agli ortodossi ucraini rimasti con il metropolita Onofrio nella Chiesa ortodossa d’Ucraina ancora sotto Mosca. Onofrio ha quasi subito unito la sua voce a quella delle comunità religiose ucraine nella condanna dell’invasione e di recente ha annunciato misure tese ad allentare i rapporti. Epifanio è scettico: «Non abbiamo visto passi significativi per recidere i legami istituzionali con il patriarcato di Mosca, né abbiamo assistito a una vera condanna della posizione criminale di Kirill Gundyaev e di altri gerarchi che apertamente giustificano e benedicono l’aggressione russa contro l’Ucraina».
È lungo l’elenco dei capi di accusa: «Non c’è stata una condanna dell’ideologia, praticamente fascista, del “mondo russo”» e invece «si sono registrati numerosi casi di assistenza agli occupanti da parte del loro clero, mentre le nostre attività sono state definite “sovversive”, “sabotatrici” e ritenute “una delle ragioni dell’invasione militare dell’Ucraina”».
La prima unità, quella tra cristiani ortodossi, è per Epifanio quella che è mancata prima dell’invasione e che avrebbe forse dissuaso Mosca: «Se l’ortodossia ucraina fosse stata unita attorno al trono di Kiev, Putin non avrebbe sperato di trovare sostegno in Ucraina». È soprattutto, nella fase presente, «l’unificazione degli ortodossi in Ucraina» che «avverrà sicuramente» e che «è già in corso».
Prima dell’invasione, ricorda il metropolita, il 15% dell’intera popolazione ucraina esprimeva fiducia verso la Chiesa sotto Mosca e il 38% verso la Chiesa indipendente. A marzo la fiducia nella Chiesa di Onofrio era già scesa al 4% mentre quella per la sua Chiesa raggiungeva il 52%. «Le parrocchie lasciano la giurisdizione del Patriarcato di Mosca e si uniscono a noi», aggiunge, «dopotutto il patriarca ecumenico ha stabilito che in Ucraina tutti gli ortodossi appartengano all’unica Chiesa autocefala».
L’unità, come obiettivo, e l’unificazione, come processo, sono decisive per i nuovi cristiani. La libertà, in questa prospettiva, è il migliore alleato e il peggior nemico, e Epifanio sottolinea la propria volontà «che il processo di unificazione avvenga consapevolmente e volontariamente».
Sulla libertà religiosa divergono ancor più il positivo ucraino e il negativo russo. «I regimi repressivi si battono sempre per il controllo completo di tutte le sfere della vita», spiega Epifanio, «il totalitarismo non esiste a metà, quindi non sorprende che non ci sia libertà religiosa in Russia, adesso lì non c’è nessuna libertà». Invece «per noi in Ucraina il totalitarismo è innaturale e del tutto inaccettabile e questo dimostra ancora una volta che siamo popoli diversi».
Dopodiché dalla libertà si torna all’unità: «Cristiani, musulmani, ebrei, pagani e atei difendono insieme la loro patria in Ucraina», scrive Epifanio e aggiunge: «Ci siamo dati un organismo unico: il Consiglio pan-ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, che comprende rappresentanti del 90% delle comunità religiose in Ucraina».
All’unità degli ortodossi in un’unica Chiesa corrisponde l’unità dei credenti in un unico Consiglio le cui decisioni, specifica il metropolita di Kiev, «sono prese esclusivamente per consenso». L’indipendenza, il patriottismo, l’identità, poi l’unità e la libertà, sono l’identikit del nuovo cristianesimo mobilitato e militarizzato che si forgia in trincea. Di fronte, il nemico.
Su Onofrio Epifanio è asciutto: «Non abbiamo rapporti speciali, non ci incontriamo spesso, solo in occasione di eventi ufficiali dello Stato; finora, negli otto anni dalla sua intronizzazione, ha evitato ogni dialogo e continua a farlo».
Il patriarca di Mosca è menzionato solo con nome e cognome, Kirill Gundyaev, per negargli la dignità patriarcale. Nei saluti pasquali Epifanio ha invitato la «pienezza dell’ortodossia» a condannarne «le parole e le azioni» perché «nessuno può tenere il calice e lo scettro pastorale con mani insanguinate». Sollecitato in proposito, Epifanio risponde che «la prima condanna che per tali azioni dovrebbe temere un cristiano, e a maggior ragione un gerarca della Chiesa, è il giudizio di Dio». Il giudizio delle Chiese, tuttavia, è necessario: «Quale sarà la forma e la procedura lo dirà il tempo».
Ricorda però che nella seconda metà del XVII secolo un sinodo dei patriarchi d’Oriente guidato dal patriarca ecumenico «condannò il patriarca russo Nikon e lo spogliò della sua dignità». Peraltro «il verdetto del popolo sulle azioni di Kirill Gundyaev è già arrivato». Le comunità in Ucraina lasciano Mosca «soprattutto a causa della posizione anticristiana del suo leader».
Il nemico è comunque l’intero patriarcato di Mosca: «I responsabili dell’ideologia criminale del “mondo russo” hanno acceso il fuoco della guerra e con labbra false hanno benedetto apertamente carnefici e assassini in nome di Dio e della Chiesa». Pertanto «condannare questi crimini, condannare la trasgressione delle leggi di Dio e dell’uomo, non è solo un diritto, ma un dovere morale di ogni persona, specialmente dei cristiani». Per Epifanio «non si tratta più delle sottigliezze del diritto canonico o delle discussioni storiche, ma del bene e del male in quanto tali e della scelta di ciascuno: sei con Dio o con il diavolo?».
Nelle distruzioni, nella fuga, nelle violenze e nei lutti della guerra, nella «ferita viva che continua a sanguinare», il metropolita vede il ritorno «dell’impero del male», come il presidente Reagan chiamò l’Unione sovietica. Epifanio si dice in generale aperto al dialogo, ma rimprovera agli europei una «politica di relazioni con Mosca» che si è rivelata «un completo fallimento» perché «ha creato l’illusione dell’invincibilità e dell’impunità nell’aggressore russo».
Il giudizio è severo anche sulla Via Crucis di Papa Francesco dello scorso 15 aprile. L’infermiera ucraina e la studentessa di medicina russa che hanno portato insieme la croce, scrive Epifanio, sono infatti apparse del tutto fuori luogo nel momento in cui i russi adottano la narrativa dei «popoli fratelli» e «equiparano la vittima e l’aggressore».
I nuovi cristiani nati dai conflitti hanno bisogno di idee nette sul nemico perché lo sperimentano mimetizzato, infiltrato. Li sostiene, nel loro lavoro tra le ombre, la convinzione che Dio agisca nella storia. Oggi non può esserci «cooperazione» con i russi, precisa Epifanio, ma «la provvidenza di Dio corregge il male e dirige tutto verso il bene» e quando «saranno cambiati la politica, la società e l’ambiente ecclesiale, una rinnovata Chiesa russa potrà anticipare il pentimento della Russia per tutti i crimini commessi, anche in Ucraina». Affondati nella realtà, appesi all’efficacia, i nuovi cristiani vivono di fede. Epifanio conferma che ci sono state «azioni pericolose» contro di lui, «diverse persone sono state arrestate e si sono rinvenuti alcuni dispositivi di guida». Non è abbastanza. «Come cristiani dobbiamo ricordare le parole dei salmi», conclude: «Se il Signore non protegge la città, invano veglia la sentinella».
Religioni e civiltà.
Il silenzio degli agnelli
L’autore dedicò le sue ultime riflessioni all’animale che rappresenta la potenza del sacrificio di Cristo. Spiegato attraverso il contrasto con i temi e i toni dell’Apocalisse
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14 Aprile 2022)
Il libro Sotto gli occhi dell’Agnello di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 107, euro 13)
Nelle ultime settimane che gli restavano Roberto Calasso rilesse l’Apocalisse. Quel testo, chiuso tra catastrofe e rivelazione, gli si rivelò in una forma inaspettata. Lesse quelle pagine, spesso oscure, immaginifiche, terrificanti avendo negli occhi l’immagine nitida e folgorante del Polittico di Gand, un dipinto, oggi diremmo hollywoodiano, di scene sacre di Jan van Eyck (con la collaborazione del fratello Hubert). Al centro vi è la figura dell’agnello, l’animale più mite e misterioso che l’iconografia religiosa ci abbia consegnato. Tanto da suggerire a Calasso il titolo del nuovo libro: Sotto gli occhi dell’Agnello.
Cosa intercetta l’autore in quello sguardo che improvvisamente diviene imprescindibile per la storia che sta per raccontare? La prima cosa che mi è venuta in mente è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Non perché la relazione sia immediata, ma perché, molti anni prima, dedicando alcune pagine al film di Hitchcock e ai Veda, Calasso rimarcava la centralità dell’occhio del fotografo, interpretato da James Stewart. Con questa differenza: l’occhio dell’Agnello mistico, cioè del Cristo, sembra osservarci con sovrana e remota indifferenza, indotta da un cristianesimo che ha tradito le aspettative e si è ridotto a uno stanco rituale liturgico. Mentre lo sguardo "immobile" del fotografo inviterebbe (nella lettura di Calasso) a uscire dal cristianesimo, per incrociare quel mondo vedico le cui dottrine aprono varchi interessanti nell’Occidente ampiamente secolarizzato.
Ad alcuni potrà risultare arbitrario il passaggio fulmineo dalla dottrina vedantica a Hitchcock. Ma nel ridisegnare - con la sua opera - il grande affresco delle civiltà, e le relative religioni che lo sostengono, Calasso forza i confini spazio-temporali e rigetta la concezione lineare della storia. Credo che una tale impostazione valga anche per la lettura dell’Apocalisse, per il modo diretto e spiazzante con cui interviene sulle cesure e le articolazioni del testo. Fino a farne la chiave (o almeno una delle chiavi) per comprendere il nostro debole e rinunciatario rapporto con il sacro. Niente di quello che i numerosi commenti hanno offerto, tra l’allegorico e il liturgico, si ritrova qui. Volutamente si ignora la tenace fortuna che il testo avrà nei secoli, fino a imporsi come il "Libro" al quale ricorrere ogni qualvolta un mondo, una civiltà, una storia sembrano destinati al dissolvimento e alla distruzione (quanto cinema e quanta letteratura si sono nutriti dei suoi effetti speciali e terrificanti!).
Movimenti millenaristici di ogni epoca e latitudine hanno interpretato l’Apocalisse come se quei fatti che vi sono raccontati fossero veri. Come se davvero Dio abbia stabilito un inizio traumatico (la caduta) e una fine contraddistinta dal trionfo e dalla salvezza dei giusti.
La lettura di Calasso si discosta dalla visione escatologica e rigetta l’idea che il testo di Giovanni (o più probabilmente di qualche allievo) sia la prosecuzione e il compimento dei Vangeli. Al contrario, come già sospettava Lutero, ne rappresenta la rottura. Il messaggio che l’Apocalisse diffonde sarebbe dunque il tentativo del cristianesimo di autodistruggersi. Ma perché mai una religione ancora giovane, erede della tensione giudaica e già proiettata a riscriverne la visione, compirebbe un gesto così autolesionistico? Cosa nasconde e poi rivela quel testo che sembra scritto da un dinamitardo?
Nell’Apocalisse cristiana - diversamente da quella giudaica - il Messia è giunto. La sua presenza nel mondo, descritta dalla dolcezza dei Vangeli, non ha tuttavia prodotto i risultati sperati. Egli ha fallito il compito di far coincidere il cambiamento annunciato con il trionfo della salvezza. Precarietà e delusione circolano nelle prime comunità cristiane. Gesù stesso è consapevole che il nuovo che comincia a farsi imperiosamente strada sta prendendo una direzione sbagliata. Invoca un successore, un altro messia, un "consolatore" in grado di rimettere l’umanità sulla retta via.
Ma dov’è un successore che sappia portare a termine il compito escatologico? Dal ruggito dell’Apocalisse si può dedurre solo che un essere molto potente in grado di domare il nuovo stia arrivando: "Quel demone del nuovo che usualmente viene attribuito al mondo secolare e alla scienza che lo innerva ha un’origine cristiana o più precisamente paolina".
Paolo prepara il futuro al culto della novità, ne sposa i segni della rivoluzione più che della rivelazione. È il depositario di una sapere antico e di un ordine nuovo. Fornito di un pensiero militante, si pone alla testa di una rivoluzione che nel nome della novitas liquida l’intero mondo antico: "Nessun Lenin del futuro avrebbe saputo parlare (e agire) con altrettanta concisione e vigore", commenta con lieve sarcasmo l’autore. Il nuovo che avanza travolgente non ha più bisogno del cosmo e delle sue storie. E se, per avventura, fa appello a qualcosa di remoto, tende a sfigurarlo e a tradirne la legittimità.
Sotto gli occhi dell’Agnello prende spunto da un’immagine potente dove la distanza dello sguardo animale sembra ignorare che qualcuno l’ha trafitto e che una lunga storia sacra - cominciata prima di Abele e giunta fino a Gesù - lo riguarda. Davanti a quella immagine si può solo constatare che senza quel sacrificio la potente macchina del mondo non si sarebbe più messa in moto. Ma le scritture non dicono a quale folle velocità essa è lanciata. Niente prefigura davvero cosa accade dopo che "l’innominabile attuale", sotto il cui segno il nuovo agisce, ha preso il sopravvento.
Sotto gli occhi dell’Agnello non appartiene all’oggi, ma al passato che convive col domani. Alcuni versi dell’Apocalisse sigillano il finale, ma l’autore li fa precedere da un preciso richiamo al senso intimo, starei per dire sacro, del leggere: quasi un’identificazione genetica tra chi scrive e l’idea stessa del libro: "Leggere è qualcosa che si misura con le potenze del mondo".
Cosa c’è di più commovente e rischioso di questa frase? Che cosa può frenare il dissolversi dell’esperienza artistica e religiosa se non il libro? Per tutta la vita Roberto Calasso ha cercato di dare un nome, o meglio ancora un libro, all’innominabile attuale. Quel libro - dove poter ammassare, avrebbe detto Baudelaire, le proprie collere - non è il mondo, così come l’Apocalisse non ne è la fine. È una grande finestra spalancata sul fluire della vita e sulle decisioni da prendere anche quando è giunto il tempo di congedarsi. Un tempo non già scandito dalla rassegnazione ma dallo scegliere da che parte stare, perché le battaglie celesti non finiscono mai.
Ucraina.
Ponasenkov: «Smonto la propaganda russa con l’ironia della storia»
Star di TikTok e divulgatore originale, il russo Evgenij Ponasenkov è finito nella lista dei nemici del regime di Putin. «I toni che uso sono sgraditi al potere. Ma era già così al tempo di Pericle»
di Dorella Cianci (Avvenire, mercoledì 13 aprile 2022)
Può una star dei social, amata da milioni di ragazze e ragazzi, diventare una ’minaccia’ per un Paese intero? È questo che sta accadendo, in Russia, a Evgenij Ponasenkov, presentatore tv amato su Tik Tok, conduttore radiofonico di programmi di approfondimento sulla musica classica, oltre che divulgatore di temi storici, con saggi da sempre sgraditi al Cremlino. Nei giorni scorsi, come riporta l’agenzia Reuters, il ministero della Giustizia di Mosca ha aggiornato la cosiddetta lista degli ’agenti stranieri’, cioè persone considerate un pericolo per l’incolumità della nazione. Basti pensare che, ai tempi dell’Urss, il termine ’agente straniero’ era utilizzato per riferirsi ai soggetti sospettati di spionaggio. Di questo elenco fanno parte moltissime ong, scrittori, registi, scultori, giornalisti. E, da qualche giorno, anche il divulgatore Ponasenkov, un curioso personaggio capace di rendere la storia un fenomeno da influencer.
Milioni di giovani si informano, anche sui social, rispetto a quello che sta accadendo ai confini del suo Paese e lei, fra il serio e il faceto, mostra evidente dissenso rispetto a quest’invasione, così come ha fatto, in passato, rispetto all’intervento in Siria.
«Sono un comunicatore, sgradito soprattutto per i miei toni comici nel raccontare la storia e i fatti di oggi, tuttavia questo non deve stupirci. Il tono comico è quasi sempre sgradito al potere, e in particolare a quello autocratico. Pericle, che pur dovrebbe essere l’inventore della democrazia, aveva la testa grossa, ma non si poteva dirglielo e Fidia ebbe l’accortezza, con la sua maestria, di ritrarlo come se fosse un affascinante e virile signore calvo, così da poter essere lautamente retribuito per le sue opere».
E i comici invece?
«Teleclide e il bravo Eupoli, ma soprattutto Cratino lo presero di mira nelle loro commedie. Ricordate quando nelle Tracie, proprio Cratino, ebbe il coraggio di dire che Pericle aveva fatto costruire l’Odeon, sede di proagoni, a somiglianza della propria testa ridicola? E il nervosismo di Nerone dinanzi alle maschere che ritraevano lui e sua moglie? Quelle maschere non dovevano far ridere e invece risultavo comiche volontariamente, amplificando i difetti, per ridicolizzare il potere di un uomo ridicolo. Non devo inventarmi tanto, perché - onestamente - il mondo greco ha spiegato già molto il potere in rapporto alla ridicolizzazione e, anche per questo, gli studi classici, in Russia, non sono particolarmente graditi. Vi immaginate, inoltre, come ho detto sui social, quanto poteva essere sgradito Zelensky quando osava, da comico, prendere in giro il presidente Putin? Zelensky mi era già molto simpatico quando faceva i suoi spettacoli su Napoleone e io mi sono occupato a lungo del politico e condottiero Bonaparte».
Perché si è occupato, così a lungo, di Napoleone in rapporto allo zar di Russia? Anche i suoi saggi, spesso non molto amati dagli storici, hanno avuto al centro la sua "campagna russa". Come mai?
«Gli storici non mi amano solo perché non sono uno storico vero e proprio. Sono innamorato della storia e basta e ritengo, come tanti cittadini, che essa ci guidi sui sentieri dell’oggi. Napoleone perse, a mio giudizio e semplificando un po’, perché volle ostinatamente ragionare coi parametri occidentali in rapporto alla mia terra, anche a livello tattico. Invece la Russia è meglio contrastarla sul piano diplomatico che sulla forza, perché il gelo delle nostre zone rende resistenti i soldati e spesso raffredda le loro coscienze. Tuttavia, è sul piano strategico che Napoleone commise gli errori più gravi ed eclatanti».
Quali furono?
«I suoi collaboratori non avevano adeguatamente calcolato la capacità di traffico delle disastrate strade russe e polacche; avevano sopravvalutato le risorse locali di grano e di foraggio; i depositi vennero stabiliti troppo indietro rispetto al fronte. Per tutta questa serie di motivi, nutrire ed equipaggiare 600mila uomini, in un territorio così vasto come quello russo, divenne pressoché un’impresa impossibile. Altro elemento che portò al disastro fu la scelta di avanzare fino a Mosca. Questa lezione deve essere considerata oggi dall’Europa, anche rispetto all’idea pericolosa del regime change. Su questi temi, Zelensky comico prese più volte in giro le ingenuità di Napoleone, ma, di riflesso, anche la Russia degli zar coi suoi generali, con forza fisica, a scapito del dialogo. È incredibile come, a guardare oggi il presidente ucraino, si provi un brivido nel pensare a quanto sia stato capace di essere profetico. In senso etimologico, senza alcun giudizio di valore».
Su “Avvenire”, ci siamo occupati anche di un fatto molto particolare come la strumentalizzazione russa rispetto ai greci del Ponto, che, in passato, hanno subito un genocidio vero e proprio, eppure, ai confini, col Donbass, la propaganda russa ha esibito, sui carri armati, le loro bandiere, come fossero degli alleati. Come può commentare questo fatto?
«Lo commento con la solita manipolazione della storia. Bisogna, sul tema, tirare in ballo le zone del Mar Nero, che hanno vissuto tante difficoltà, basti pensare alle colonie greche della Crimea, che si sono trovate spesso in condizioni disperate. L’antica denominazione di Tauride ci riporta a quelle zone, di incerta appartenenza etnica, che nel I millennio a.C. abitavano nelle zone montuose della penisola: soprattutto i Cimmeri e gli Sciti, popolazioni iraniche giunte, nella regione, a partire dal VII secolo. Soprattutto gli Sciti ebbero un’importanza notevole nella storia della Crimea, sulla quale esercitarono una nota influenza politica ed economica. Con gli Sciti, i Greci vennero in contatto già nei secoli VI-V a.C., quando cittadini di Mileto e Megara crearono le importanti colonie commerciali di Teodosia, Chersoneso e di Panticapea. Intorno a quest’ultima città nacque verso il 480 a.C. il multietnico regno del Bosforo, che si estendeva sulle regioni costiere del mare d’Azov. L’incontro dei Greci con le popolazioni dell’antica Crimea è testimoniato da testi importanti, come le Storie di Erodoto e l’Ifigenia in Tauride di Euripide. Non voglio farla lunga, ci sarebbe tantissimo da dire, ma credo che questi inizi siano utili a comprendere come la storia della Crimea sia greca, altro che russa. La Russia venne molto dopo e la sua politica verso la Crimea è stata valutata in maniera decisamente controversa. Ricordo rapidamente il Manifesto di annessione dell’8 aprile 1783. Mi permetto, come sempre, di ironizzare, dicendo che la mia Russia ha preso troppo seriamente l’idea staliniana, della logica del potere, che giustifica totalmente la violenza per l’equilibrio del potere».
La rivolta di Dostoevskij. Quel gesto disperato contro la filosofia di Hegel
di Alberto Manguel (la Repubblica, 25 luglio 2012)
Lo scrittore dei “Demoni” rifiutò con orrore la concezione della Storia formulata dal padre dell’idealismo: l’idea che passi inosservata l’esistenza dei singoli. Il principio perseguito dall’autore russo, secondo l’ungherese László Földényi, è che nessuno può essere estromesso dal corso delle vicende umane.
Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi e mi inviò uno dei suoi saggi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, pubblicato in italiano dal Melangolo qualche anno fa. Tra le tante vie che ci portano a leggere un libro (che hanno tutte qualcosa di misterioso) c’è quella del titolo. Magari non ci sentiamo immediatamente attratti verso un testo intitolato la Divina Commedia o Le contemplazioni, ma solo un cuore di pietra può resistere a Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere.
Io lo lessi immediatamente, tutto di un fiato, e poi lo lessi una seconda volta, e poi una terza: il contenuto non faceva assolutamente torto allo splendido titolo. La mia ignoranza dell’ungherese è assoluta e mi dovetti limitare perciò a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori.
Molto tempo fa, le scoperte di Copernico spostarono la visione autocentrata del nostro mondo su un’angolazione che da allora si è spostata sempre più in là, verso i margini dell’universo. La presa di coscienza che noi esseri umani siamo aleatori, minimali, un’apparecchiatura casuale per molecole autoreplicanti, non induce ad alte speranze o grandi ambizioni. Eppure, quello che Nicola Chiaromonte ha chiamato «il tarlo della coscienza» fa anch’esso parte del nostro essere, e pertanto, noi, queste particelle di pulviscolo cosmico, per quanto effimere e distanti siamo anche uno specchio in cui tutte le cose, noi stessi inclusi, ci riflettiamo. Questa modesta gloria dovrebbe bastarci. Il nostro passaggio (e, su una scala minuscola, il passaggio dell’universo insieme a noi) sta a noi registrarlo: un paziente e vano sforzo cominciato quando per la prima volta abbiamo iniziato a leggere il mondo. Chiamiamo Storia quella storia in svolgimento che pretendiamo di decifrare mentre la fabbrichiamo. Dostoevskij aveva capito tutto quando diceva che se la nostra fede nell’immortalità venisse distrutta, «tutto sarebbe permesso ». Così come la Storia, non abbiamo bisogno che l’immortalità sia vera per credere in essa.
Fin dall’inizio, la Storia è la storia raccontata dai suoi testimoni, vera o falsa che sia. Nell’VIII libro dell’Odissea, Ulisse elogia l’aedo che canta le sventure dei greci: «Tu narri quello che i Danai patirono e quanto patirono; uno tu sembri che era presente o che abbia udito da loro». Quel «sembri» è essenziale. La Storia quindi è la storia di quello che noi diciamo che è successo, anche se le giustificazioni che diamo per la nostra testimonianza non possono, per quanto ci sforziamo, essere giustificate.
Secoli dopo, in una polverosa aula di università in Germania, Hegel avrebbe diviso questa «invenzione di ciò che è avvenuto» in tre categorie: la prima è la Storia scritta dai presunti testimoni diretti (ursprünglische Geschichte); la seconda è la Storia come meditazione su se stessa (reflektierende Geschichte); la terza è la Storia come
filosofia (philosophische Geschichte), che alla fine si trasforma in quella che tutti chiamiamo Storia mondiale (Welt-Geschichte), la storia infinita che include se stessa nel racconto.
Immanuel Kant, in precedenza, aveva immaginato due diverse concezioni della nostra evoluzione collettiva: la Historie, che indicava il mero resoconto dei fatti, e la Geschichte, un’elaborazione ragionata di quei fatti, perfino un’a-priori Geschichte, la cronaca di un corso annunciato di eventi a venire. Per Hegel, quello che importava era la comprensione (o l’illusione della comprensione) dell’intero flusso degli eventi, compreso il letto del fiume e gli osservatori sulla riva, e per potersi meglio concentrare sul corso principale escludeva i margini, le pozze laterali e gli estuari.
Földény immagina che questo sia l’orrore scoperto da Dostoevskij: che la Storia, di cui sa di essere la vittima, ignora la sua esistenza, che la sua sofferenza passa inosservata o, ancora peggio, non assolve a nessuno scopo nel flusso generale della specie umana. Quello che Hegel propone, agli occhi di Dostoevskij (e di Földényi) è quello che Kafka dirà poi a Max Brod: «C’è speranza, ma non per noi». Il caveat di Hegel è ancora più terribile dell’esistenza illusoria proposta dagli idealisti: veniamo percepiti, ma non veniamo visti.
Un presupposto del genere, per Földényi, (e altrettanto dovette sembrare a Dostoevskij) è inammissibile. Non solo la Storia non può estromettere nessuno dal suo corso, ma è vero anche l’inverso: è necessario il riconoscimento di tutti perché la Storia possa essere. La mia esistenza, l’esistenza di qualsiasi uomo, è condizionata al vostro essere, all’essere di qualsiasi altro uomo, ed entrambi dobbiamo esistere perché Hegel, Dostoevskij e Földényi esistano, dato che noi (gli anonimi altri) siamo la loro convalida e la loro zavorra, noi li portiamo in vita leggendoli. È questo il significato di quell’antica intuizione che siamo tutti parte di un insieme ineffabile in cui ogni singola morte e ogni sofferenza specifica influenza l’intera collettività umana, un insieme che non è limitato da ciascun io materiale.
Il tarlo della coscienza mina la nostra esistenza, ma allo stesso tempo la convalida; non serve a nulla negarla, nemmeno come atto di fede. «Il mito che nega se stesso», dice Földényi saggiamente, «la fede che pretende di sapere: questo è l’inferno grigio, questa è la schizofrenia universale su cui è inciampato Dostoevskij».
La nostra immaginazione ci consente sempre una speranza in più, al di là della speranza spezzata o realizzata, una frontiera finora apparentemente irraggiungibile, che alla fine raggiungeremo solo per proporne un’altra ancora più in là. Dimenticare questa illimitatezza (come cercava di fare Hegel «potando» la sua concezione di quello che conta in quanto Storia) può riuscire a garantirci la piacevole illusione che ciò che avviene nel mondo e nella nostra vita sia pienamente comprensibile, ma riduce la contestazione dell’universo al catechismo e quella della nostra esistenza al dogma. Come sostiene Földényi, quello che vogliamo non è la consolazione di ciò che appare ragionevole e probabile, ma le inesplorate terre siberiane dell’impossibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Dostoevskij vs. Hegel
di Andrea Monda (BombaCarta, 24 Marzo 2009) *
Nel febbraio del 1854 Dostoevskij si trova ad essere condannato a servire l’esercito come soldato nella città siberiana di Semipalatinsk vicino al confine cinese. Cinque anni prima era stato condannato a morte, poi la pena era stata commutata, all’ultimo minuto, ai lavori forzati a vita; infine anche questa pena, dopo quattro anni durissimi, era stata trasformata nel servizio militare in Siberia. In questo periodo gli furono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant nonché Hegel.
E proprio dalla lettura di Hegel prende le mosse questo strano libretto, a metà tra il racconto biografico e il saggio filosofico, scritto due anni fa dal professore ungherese di letteratura comparata Laszlo Foldèny che oggi arriva in Italia grazie all’edizioni de Il Melangolo.
Foldèny si concentra in quei cinque anni della biografia del grande scrittore russo passati nell’inferno bianco della Siberia (potrà tornare nella Russia europea solo il 18 marzo 1859) ed in particolare sull’effetto che ebbe su di lui la lettura di un brano delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel in cui il filosofo tedesco, parlando dell’Asia, scrive di non essere interessato alla Siberia “in nessun modo, perché la zona nordica giace fuori dalla storia“. Il più grande filosofo e il più grande romanziere discutono “a distanza” (Hegel in realtà è già morto da oltre vent’anni) e il primo rivela al secondo, in modo secco e arrogante, di non far parte della storia.
Il breve saggio di Foldèny può essere visto come un tardivo tentativo di “risarcimento”, un prendere parte nel senso proprio di “parteggiare” per Dostoevskij, duramente colpito dalla lettura hegeliana: “E’ facilmente immaginabile che proprio allora, quando capì di non far parte della storia, per la quale aveva accettato tutte le disavventure” scrive Foldèny, “nacque in lui la convinzione che la vita potesse avere delle dimensioni che non possono essere inquadrate nella storia [...] Che è necessario uscire dalla storia per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza della storia“.
Il saggio è diviso in due parti, la prima si concentra su Hegel e la sua riflessione, perfettamente lucida quanto arida, sulla storia, e la seconda invece dedicata al tumultuosa condizione in cui si trova l’animo del romanziere russo che trova nella Siberia nello stesso tempo l’Inferno per cui disperare ma anche le ragioni per una riconquista più matura della fede e della speranza.
Sul filo del paradosso l’autore conduce al lettore alla conclusione che, proprio perché sconfitto dalla storia e sbattuto nel luogo più sperduto della terra, Dostoevskij riesce a osservare il mondo e l’uomo più in profondità di quanto faccia Hegel, cogliendo che nella storia c’è qualcosa di più, qualcosa di irriducibile e che sfugge anche alla più perfetta “architettura filosofica” realizzata dall’uomo occidentale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Scenari.
Chiudere il mattatoio della storia universale
L’insensato confronto post Guerra Fredda sull’Ucraina richiama ancora una volta alla necessità che l’Europa diventi volano di una visione geopolitica umanista di matrice utopistico-cristiana
di Eugenio Mazzarella (Avvenire, giovedì 24 febbraio 2022)
«Il primato del male sfida la geopolitica», così ha titolato Avvenire il 26 gennaio l’anticipazione di un mio recente volume: Europa, Cristianesimo, Geopolitica. Titolo che torna in mente dinanzi al drammatico aggravarsi della crisi in Ucraina, cuore del confronto tra le ragioni post-imperiali della Russia di Putin e l’atlantismo occidentale a guida americana. Un confronto insensato, se si guarda alla necessità di governare il mondo della globalizzazione multipolare - presupposto ineludibile e ragionevole - con lo sguardo lungo della geopolitica. Perché una delle tesi di quel libretto (si scusi la doppia autocitazione, ma aiuta a far prima nell’argomentazione) è che a reggere la sfida, ai limiti dell’esiziale per il pianeta e i suoi abitanti, di una globalizzazione aberrante per i singoli e per i popoli, come già denunciavano, a Monaco, Habermas e Ratzinger nel 2004, è necessario che torni in campo l’Europa cristiana.
È necessario, cioè, che al fine di un contributo cooperativo e non conflittivo al mondo multipolare della globalizzazione si faccia sentire l’utopia dell’unità geopolitica dello spazio della civilizzazione cristiana. Non per affermare se stesso, ma per servire l’umanità servendo il Vangelo, come dimostra la contro-agenda geopolitica contenuta nell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Evocare, in questo senso, l’utopia non è ragionare del «luogo che non c’è», ma progettare e costruire «il luogo che non c’è ancora». È importante, perciò, che lo spazio della civilizzazione cristiana sappia ritrovare, nelle sue relazioni sulla scena del mondo, la sua ecumene, non solo spirituale, ma politica e culturale.
Un’impresa in cui molto può fare la differenza europea, che questo spazio ha generato, custodendo soprattutto nella cattolicità romana l’attitudine a resistere, da un lato, all’individualismo mercatorio di stampo anglosassone e, dal-l’altro, all’interpretazione lasca dei valori di democrazia liberale in molte aree della civilizzazione cristiana sia latina sia ortodossa. Un’impresa che sollecita la civilizzazione cristiana tutta, da sempre extraeuropea, già prima di insediare a Roma il primato petrino, e di scoprire le Americhe e di insediarsi sulle rotte dell’espansione europea nei secoli ’coloniali’, a farsi ’spazio cristiano’, a sentirsi e costruirsi come ecumene sul piano non solo spirituale, ma culturale, politicocivile e politico-globale.
Perché solo un’ecumene cristiana come spazio geopolitico (dalla Russia alle Americhe, da un’Europa rievangelizzata nel senso almeno dei valori dell’uomo dell’antropologia cristiana, alle pertinenze cristiane insediate nel mondo dal tempo dell’espansione europea) potrà porsi al servizio dell’ecumene umana in una cooperazione fruttuosa per l’uomo con le altre grandi civilizzazioni emerse nella sua storia, con gli altri grandi spazi spirituali che si sono fatti nazioni, istituzioni, spazi geopolitici: dall’islam, al confucianesimo, all’induismo. C’è da indicare al mondo multipolare delle grandi civilizzazioni rientrate, con la globalizzazione, a pieno titolo nella Grande storia la via dell’ecumene umana stretta a riconoscersi come tale mai come prima nella storia. La via del cosmopolitismo oggi possibile: fratelli tutti. Questa è la sfida.
Qualche realista politico potrebbe ricordare che è un aggiornamento dell’utopia kantiana ’Per la pace perpetua’. Lo so, ma so anche che Kant aggiornava un’altra utopia, quella dell’ecumene umana annunciata dal cristianesimo, che qualche passo, zoppo, nel mondo lo ha pur fatto. E per scendere nella cronaca dell’Ucraina oggi questa utopia, che trova insensato il confronto Est- Ovest sul suolo d’Europa, è se ci si pensa un attimo nient’altro che l’aggiornamento della Östpolitik di Agostino Casaroli ispirata alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, che pure qualche frutto pratico lo ha dato, aiutando a risolvere una grave crisi degli accordi di Yalta fondamentalmente senza guerre. Ecco, noi abbiamo bisogno in Europa di continuare a svolgere il filo di quell’ispirazione.
L’ingresso o meno dell’Ucraina nella Nato come casus belli è un reperto argomentativo da guerra fredda, senza senso. A che serve questo ingresso? Ad avere un Paese in più schierato con l’Occidente atlantico in un confronto (inevitabilmente a rischio di escalation atomica) con la Russia post-sovietica? E ci sarebbe bisogno dell’allargamento della Nato per questo scenario più demenziale che nefasto? Quando tutta la geopolitica della deterrenza atomica sa benissimo che bastano due pazzi criminali che premano un bottone, perché non ci sia più per tutti - neanche per i ’neutrali’ geopolitici, affacciati alla finestra del confronto - lo stesso spazio fisico della geopolitica, cioè il pianeta? Sarebbe molto più sensato lavorare all’inclusione della Russia in uno spazio ex Nato come strumento di interdipendenza globale dello spazio dell’antica civilizzazione cristiana, ai fini di una stabilizzazione multipolare del mondo in senso cooperativo.
Nel lungo periodo, e neanche poi tanto, visto che la nuova frontiera del Pacifico è da tempo proiettata su scala globale, le tensioni Usa-Russia sono assolutamente illogiche. Tensioni illogiche sul piano della derivata storica della globalizzazione in atto, e tutte centrate su una sia pur pesante logica congiunturale (alcuni decenni da gestire con saggezza). Ma anche tensioni che, sottratte al prezzo del petrolio e del gas, ai pesi relativi temuti da quella o questa economia, americana ed europea, sono del tutto incomprensibili all’uomo comune, alla sua speranza di pace. O fin troppo comprensibili se il metro di giudizio diventa non l’interesse all’interdipendenza comune dei popoli e delle loro economie, un’assicurazione sulla vita per tutti, ma l’interesse più o meno predatorio di una parte o di un’altra a gestire e guidare quest’interdipendenza necessaria.
Eppure la globalizzazione può ancora essere una grande occasione, se le leadership politiche vorranno essere amiche dei loro popoli e le dirigenze economiche, disciplinando e facendo tacere le pulsioni predatorie, contribuiranno a far diventare globale l’economia sociale di mercato di cui ha bisogno l’interdipendenza pacifica del pianeta. Queste classi dirigenti hanno la grande opportunità di chiudere una volta per tutte il grande mattatoio della storia universale, che ormai non è più neanche razionalizzabile, cioè pensabile con un macellaio vivo al bancone. Lo facciano se vogliono avere dalla storia statue che non siano buttate giù al crollo dei loro imperi o del loro imperio. E gli strateghi delle varie cancellerie vadano al cinema a vedere Don’t Look Up di Adam McKay, o si siedano in poltrona a leggere La strada di Cormac McCarthy.
*
NOTA: "PER LA PACE PERPETUA" (1795) E CONTRO "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929). Messaggio evangelico e questione antropologica...
A mio parere, per "chiudere il mattatoio della storia universale" (come sollecita Eugenio Mazzarella), bisogna fermarsi un momento e riproporsi le stesse domande fatte da papa Francesco nel suo discorso di accettazione del premio Carlomagno: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’ uomo, della democrazia e della libertà? [...] Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?” (cfr. Riccardo Cristiano, "Il digiuno di pace, l’unità impossibile delle Chiese: la guerra vista dal Papa L’angoscia di Bergoglio, sempre più lontano dal Patriarcato di Mosca", Reset, 24 febbraio 2022.)
Solo ripartendo dalla "Europa umanistica", dalla rilettura dell’opera di Lorenzo Valla sulla donazione di Costantino (1440), di Niccolò Cusano sulla "De docta ignorantia" (1440) e sulla "De pace fidei" (1453 - caduta di Costantinopoli) e, infine, dallo scioglimento del nodo antropologico della nascita del "figlio dell’Uomo", forse, è possibile giungere ad ammirare il sorgere della Terra...
Federico La Sala
RECENSIONI
Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio
di LIVIA RIGA *
Augusto, non occorre dirlo, è il personaggio chiave della politica romana antica e quindi anche della nostra storia. Più diplomatico che militare, dimostrò abilità di stratega che gli permisero di cogliere al volo l’occasione creatasi al seguito degli avvenimenti del 44 a.C., ponendosi come restitutor rei publicae relativamente alla pace e all’ordine per la città e, al contempo, come unica alternativa al precipitare degli eventi. Cavalcando l’onda emotiva dell’uccisione di Cesare, Ottaviano si insinua nella politica romana e in un’abile manovra ne diventa il cuore, pur senza abolire le massime cariche dello Stato.
In questo libro - che vede la luce a conclusione delle celebrazioni del secondo Bimillenario Augusteo durante le quali in tutt’Italia si sono succedute iniziative, aperture straordinarie e nuovi allestimenti - Luciano Canfora propone una lettura della politica augustea che, attraverso la storiografia antica e moderna, rivela l’attualità e la genialità programmatica di questo princeps in re publica.
Il primo passo di Ottaviano per insinuarsi nelle dinamiche politiche di Roma è la divinizzazione dello zio Cesare (padre adottivo). In questo venne aiutato da un evento prodigioso occorso nel luglio del 44 a.C. quando nei cieli di Roma apparve una cometa che rimase visibile per sette giorni; questo fenomeno fu interpretato dal popolo come manifestazione dell’anima di Cesare accolta tra gli dei immortali e determinò la decisione del senato di onorarlo come un dio, rendendo Ottaviano di fatto Divi filius.
Che questa divinizzazione sia un passaggio obbligato per l’ascesa politica di Ottaviano appare evidente - sebbene l’autore scelga di non soffermarsi su questo aspetto - anche da alcune opere edilizie intraprese negli ultimi anni del primo secolo a.C. Sul luogo ove il corpo di Cesare rimase esposto subito dopo l’assassinio, Ottaviano costruì un tempio dedicato al Divo Giulio a perenne ricordo di quell’azione ignominiosa che cambiò le sorti della storia romana (e che ancora oggi viene onorata da qualche nostalgico che vi porta dei fiori; cfr. F. Coarelli, Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 90-92); dedicò il tempio nel suo Foro a Marte Ultore, cioè il Vendicatore dei Cesaricidi, e alla statua del dio titolare e di Venere affiancò quella di Cesare divinizzato (cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 133- 134); inoltre nel Pantheon di Agrippa Cesare è ormai assurto allo stesso rango delle divinità canoniche (e Augusto stesso era probabilmente collocato nel pronao, pronto a fare anche lui, alla sua morte, il suo ingresso nell’Olimpo; cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 380- 381). Questa divinizzazione del padre insomma non è che una più o meno velata esaltazione in vita di se stesso.
A ricordo di quegli anni cruciali Augusto scrisse i Commentarii de vita sua e le Res gestae; quest’ultime, pervenuteci integralmente, erano il sacralizzante riepilogo dei propri successi da trasmettere a tutti i sudditi, da scrivere sul marmo per l’impiego monumentale, ispirandosi alla tradizione delle epigrafi regie del mondo persiano, egizio faraonico e tolemaico. Al contrario i Commentarii erano un genere letterario più tipicamente romano, redatti come un diario delle imprese, senza alcuna velleità storiografica ma pensati come materiale cronachistico alla base di eventuali historiae. Questo prezioso testo fu la fonte di diversi storici, ma non è purtroppo giunto fino a noi.
In Augusto figlio di Dio l’autore intende dimostrare che Appiano, lo scrittore e funzionario imperiale vissuto all’epoca degli Antonini (tra il 95 e il 160 d.C. ca.), nella sua Storia di Roma (Ῥωμαικά), attinse fedelmente ai commentari di Augusto traducendone pagine intere in greco.
In effetti, questo saggio di Luciano Canfora è un notevole studio bibliografico su tutte le fonti storiche e manoscritte che mira a far emergere la figura di Appiano sotto una nuova luce. Sono esaminate tutte le critiche, raffrontati tutti gli storici, antichi e moderni, per mostrare l’influenza di questo straordinario storico sulla cultura occidentale fino ai nostri giorni.
È ad esempio dimostrato che Appiano fu la principale fonte di Shakespeare per le sue tragedie, in particolare per il discorso davanti al cadavere di Cesare in cui Antonio, da consumato demagogo, capovolge una situazione per lui molto difficile. E ancora, Canfora mette in risalto come l’esaltazione di Spartaco da parte di Appiano sia stata favorevolmente letta da Marx in termini ‘comunistici’, definendolo un «vero rappresentante dell’antico proletariato» (p. 30). Infatti, nella gestione del bottino (κατ’ἰσομοιρίαν), nell’utilizzo delle armi e delle competenze che i patroni gli avevano fornito solo per il loro tornaconto, Spartaco rappresenta per Marx un modello che il moderno proletariato dovrà seguire nell’ottenere la libertà e conquistare il potere.
Appiano, tuttavia, ha goduto di scarso credito in epoca moderna (tra Cinquecento e Settecento), se non addirittura di discredito, fino a essere definito «plagiario» (fucus alienorum laborum, p. 71) da studiosi dell’Ottocento, quali Schweighauser, Xylander, Perizonio, Scaligero ecc. Questa accusa gli deriva dall’atteggiamento compilativo nell’uso delle sue fonti; egli è infatti un grande ordinatore della storia romana, rispetto alla quale scompone le precedenti hystoriae e i commentarii, per darne una nuova prospettiva geografica e, in alcuni casi, focalizzata su monografie di grandi personaggi. Per esempio nei suoi libri sulle Guerre civili, Appiano consulta tutti gli storici che hanno trattato quel periodo, compreso tra l’età dei Gracchi e la battaglia di Azio, utilizzando la loro documentazione e adottando spesso persino le loro osservazioni.
Per esempio, nei primi libri la fonte è rappresentata soprattutto dalle Historiae ab initio bellorum civilium di Anneo Seneca padre, che a sua volta si ispira alle Historiae di Asinio Pollione. Negli anni che vanno dall’omicidio di Cesare alle guerre con Antonio il riferimento principale sono invece proprio i Commentarii de vita sua di Ottaviano che, secondo Canfora, Appiano riporta con precisione, passando dalle sintesi dell’epoca precedente a un dettagliato e dilungato commento di tipo diaristico dell’età augustea.
Ma pur trascrivendo la cronaca narrata da Ottaviano, Appiano interviene nella narrazione facendo le proprie osservazioni; per esempio stigmatizza la scelta di Ottaviano di farsi chiamare Augusto, Σεβαστός (colui che deve essere adorato), che equivaleva a una divinizzazione addirittura da vivo. Inoltre Augusto, che già con la divinizzazione del padre Cesare era divenuto ‘figlio di Dio’, ha il demerito per l’egiziano Appiano di aver conquistato il regno d’Egitto, «che era il più duraturo e il più potente del lascito di Alessandro» (p. 108; Appiano, Proemio II, 21). E ancora, nell’Introduzione generale alla Storia di Roma egli, parlando del suicidio di Antonio dopo Azio, conclude con queste parole: «con quest’ultima guerra civile anche l’Egitto passò sotto i Romani e Roma tornò a essere una monarchia» (p. 61; Appiano, Guerre civili, 14, 60).
Appiano adopera qui il termine «monarchia» perché rifiuta il gioco di Ottaviano, che si era proposto come il difensore della repubblica, ma riconosce comunque a questo ordinamento politico il merito della raggiunta concordia e un lungo periodo di pace. Appiano, pertanto, non è un semplice trascrittore, ma aggiunge suoi commenti e valutazioni etico-politiche in modo originale, integrando anche all’occorrenza i Commentarii con altri testi non ‘di parte’. È il caso del Libro Siriaco, in cui si rifà a un’altra γραφή, la Storia siriana di Timagene di Alessandria, il cui punto di vista pone al centro Alessandro e la grande storia della Macedonia in chiave antiromana e a favore dei Parti.
Il libro di Canfora affronta in seguito la lettura che viene data di Ottaviano Augusto anche da altri storici come Seneca, Plutarco e Svetonio. Vengono descritti i rapporti di Ottaviano con Cicerone, il quale prima sarà favorevole ai cesaricidi Bruto e Cassio, poi diventerà protettore e ‘sponsor’ nell’ascesa di Ottaviano contro Antonio e, infine, con la costituzione del triunvirato di Ottaviano, Antonio e Lepido, cadrà nelle liste di proscrizione e verrà ucciso. Ben presto però Ottaviano lo recupererà come ‘grande patriota’ e come vate precursore della soluzione del princeps in re publica per conciliare forza, consenso e legalità. Augusto vuole, in effetti, controllare la storia costituendo un archivio delle sole lettere di Cicerone che avrebbero potuto essere strumentali al suo potere (e distruggendo le altre che gli erano ostili), e cerca a tal fine una riappacificazione con il figlio ed erede dell’oratore, concedendogli di condividere con lui il consolato nell’anno 30 a.C.
Nel volume è, poi, oggetto di analisi il “controllo culturale” del princeps, soprattutto attraverso Mecenate, sui poeti del suo tempo e sulle loro opere: basti pensare ai Fasti di Ovidio, l’Eneide di Virgilio, l’opera storica di Livio o alla lirica civile di Orazio. Eppure, anche se buona parte della letteratura nel periodo di Augusto si impegnò a celebrare la pace augustea simboleggiata dalla costruzione dell’Ara Pacis e sebbene il Senato avesse dato ordine di chiudere il tempio di Giano, le verità fatte valere da Augusto vennero negate dagli storici successivi tra cui Tacito, Svetonio e Plinio. Per esempio Tacito pone dubbi sulla morte di Irzio e Pansa e la pax augustea diventa per lui una «pace cruenta», con la repressione delle congiure e con la sconfitta sul suolo germanico di Lollio e Varo.
Augusto, durante il suo principato, aveva fatto di tutto per mettere a tacere la storiografia contraria (su questo argomento cfr. M. Lentano, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Liberilibri, Macerata 2012, recensito per Syzetesis da F. Verde, https://goo.gl/YAG3Pd), tanto che Seneca padre, nato nel 60 a.C. ca., aveva prudentemente affidato la sua opera Historiae ab initio bellorum civilium alla sola circolazione nell’ambito familiare, temendo che la rivendicazione della veritas in un tempo di sistematica manipolazione storica avrebbe potuto nuocere alla sua vita. A titolo esemplificativo nelle Historie Seneca padre aveva descritto la crudeltà delle guerre civili e in particolare aveva rinfacciato a Silla l’invenzione delle proscrizioni, vero meccanismo di violenza legalizzata da parte dello Stato, con l’obiettivo di eliminare una parte delle classi dirigenti. Queste proscrizioni, condannate anche da Cesare, vennero invece riprese durante il triunvirato da Ottaviano, il quale fu inizialmente contrario ma poi, secondo Svetonio, «una volta iniziate le condusse con maggiore durezza degli altri due» (p. 469; Svetonio, Vita di Augusto, 27).
La storiografia dunque sconfigge la vulgata augustea e Appiano, al culmine della sua carriera sotto Marco Aurelio, commenta la mattanza delle proscrizioni triunvirali evidenziando la crudeltà di Ottaviano nel rifiuto della sepoltura delle vittime.
Il testo di Canfora si conclude con un’interessante riflessione sulla parabola politica augustea e sul fatto che Augusto, per affermarsi, abbia eliminato tutti gli avversari e posto l’immagine di sé come erede del Divus Iulius. La strategia culturale del princeps mirava a esaltare la continuità di un organismo politico di cui lui stesso era divenuto un abile manipolatore attraverso la realizzazione di una nuova visione dell’impero.
In questo Canfora raffronta l’era di Augusto con l’epoca moderna, in particolare con la rivoluzione russa e la figura di Ottaviano con quella di Stalin che, dopo aver eliminato tutti i suoi possibili rivali e posto la mummia di Lenin nella piazza Rossa, si erge come successore della sua linea politica.
Per quanto riguarda il titolo, è evidente che l’autore voglia implicitamente richiamare la tematica cristiana della filiazione divina di Cristo e dell’unicità del Dio (che, infatti, viene designato con l’iniziale maiuscola all’interno di tutto il testo). Tali riferimenti però appaiono del tutto estranei allo sviluppo della trattazione nel volume e in generale alla religiosità romana nell’epoca in esame. Inoltre, il titolo Augusto figlio di Dio potrebbe indurre nel lettore un’aspettativa tematica che verrebbe in parte disattesa.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, non è l’aspetto religioso dei culti nel periodo augusteo a essere l’oggetto privilegiato dell’esposizione di Canfora; a titolo di esempio, basti citare il fatto che l’autore sceglie di non soffermarsi sull’importante attività di rifondazione di alcuni culti antichi, portata avanti dal princeps subito dopo la battaglia di Azio.
Proprio perché il libro si configura come un’attenta analisi storiografica e filologica della vita di Ottaviano, forse sarebbe stato interessante mettere in risalto ciò che in quell’epoca fu fatto dagli eruditi su richiesta dello stesso Ottaviano per riportare in vita, in modo talvolta fantasioso, alcuni dei culti arcaici della città di Roma: uno studio antiquario e filologico (v. per esempio il caso dei Fratres arvales) atto a rafforzare l’immagine di Augusto come restitutor non solo dell’ordine politico ma anche dei doveri religiosi trascurati da almeno un secolo. (Sull’argomento si veda il nuovo allestimento del Chiostro Ludovisi inaugurato in occasione del Bimillenario Augusteo nel Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; cfr. inoltre J. Scheid, Gli arvali e il sito ad Deam Diam, in R. Friggeri-M. Magnani Cianetti- C. Caruso, a cura di, Terme di Diocleziano. Il chiostro piccolo della Certosa di Santa Maria degli Angeli, Electa, Milano 2014, pp. 49-59).
I n conclusione, pur scegliendo di non trattare alcuni aspetti della politica edilizia e religiosa di Ottaviano, l’opera Augusto figlio di Dio giunge a un’interessante e condivisibile riflessione sulla modernità della parabola politica augustea e sulla paradigmatica strategia rivoluzionaria del protagonista. Il libro di Luciano Canfora presenta, quindi, un’interessante chiave di lettura di questo affascinante e cruciale periodo della storia umana.
* Fonte: Syzetesis, Anno III - 2016 (Nuova Serie) Fascicolo 2
Il Papa, l’umanità, la civiltà europea.
Richiamo all’essenza
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 7 dicembre 2021)
È una questione di vocabolario, per chiamare l’orrore con il suo nome. Di braccia, che sollevano chi cade e tirano giù i muri. Di occhi, perché anche il cuore parla con il viso, e solo guardando insieme agli altri si può pensare e disegnare un futuro diverso. Il viaggio del Papa in Grecia e a Cipro è stato un richiamo all’essenza dell’umanità, dell’autentica civiltà europea, e a tutti modi che esistono per difenderla e farla crescere. Non solo l’ennesima denuncia della vergogna delle barriere contro i poveri, che pure c’è stata e forse mai con discorsi altrettanto perentori, ma un itinerario politico, nel senso più nobile del termine, che quando si sposa con il Vangelo esce dal recinto dell’ideologia per diventare servizio pastorale, cioè ricerca del bene comune declinato come carità, come amore.
La visita in fondo ha toccato un fazzoletto di poche centinaia di chilometri però il suo respiro ha abbracciato un continente intero. E un sogno comunitario, quello dell’Unione, sempre più a rischio fallimento. A minarlo sono le scorciatoie per aggirare la complessità dei rapporti tra nazioni e dentro le società. Le ricette facili, rassicuranti dei populismi, l’autoritarismo «sbrigativo», la paura che arma la difesa del privilegio. E, dall’altra parte, la rinuncia a se stessi, l’annacquamento della propria identità, in nome di un politicamente corretto che diventa l’olio su cui far scivolare i conflitti, nell’illusione che evaporino come le polveri sottili dopo un giorno di vento. E invece stanno lì, quasi rafforzati dalla scelta del rinvio, che peraltro sembra non pagare più neanche a livello elettorale. Da Atene Francesco lo ha denunciato con chiarezza, oggi la democrazia è messa in pericolo dalle polarizzazioni esasperate, dal ridurre il pensiero alto a miseri interessi di bottega, dall’accettazione finanche del ridicolo pur di blindare il consenso.
Una deriva cui il Pontefice ha opposto il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal tifo urlato dal balcone allo sporcarsi le mani nel nome del dialogo. In fondo, è la ricetta dei padri dell’Europa, e non a caso il richiamo è andato a De Gasperi e al suo discorso di Milano, del 1949: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti» verso «la giustizia sociale». Che alla luce del Vangelo significa molto più della tolleranza, vuol dire solidarietà generosa, «di fatto» come diceva Robert Schuman e, in un crescendo virtuoso, consapevolezza dell’appartenenza a un’unica famiglia umana, fraternità, comunione.
Il sogno dell’Unione non è fallito, sembra suggerire il Pontefice, si tratta di aggiornarlo, di impegnarsi nella costruzione di un nuovo umanesimo che, citando il discorso del 2016 al conferimento del Premio Carlo Magno, si fonda su tre capacità: «capacità di integrare, di dialogare e di generare». La Chiesa, con i suoi figli e figlie, può, in questo. giocare un ruolo fondamentale, cominciando, com’è nel suo Dna, dal basso, dall’andare incontro alle ferite dell’uomo, dal circondare con il suo abbraccio di misericordia e di perdono chi compie un passo falso ma poi sa riconoscere il proprio errore.
Più che sognatori e maestri oggi servono davvero testimoni, oltre all’ardimento c’è bisogno di pazienza, e se un coraggio andiamo cercando è quello che fa rima con chiarezza, capace di chiamare bene il bene e male il male. Come i muri, le barriere, i ’lager’ costruiti sulle coste del Mediterraneo, che sono vernice nera sull’anima delle popolazioni civili, catastrofe del bene comune, «naufragio di civiltà». Ma la denuncia da sola non basta, servono braccia per sollevare chi fa fatica, servono mani unite nella preghiera, servono scarpe solide per incamminarsi sul sentiero, culturale prima e fisico poi, che porta ad abbattere le barriere, recuperando l’insegnamento di Elie Wiesel, il Nobel per la pace richiamato dal Papa a Lesbo: «Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali diventano irrilevanti ».
A Cipro e in Grecia, quei fratelli recintati dalla miseria hanno come in ogni geografia della povertà, volti, storie, nomi. Sono le parole e il cuore di un’Europa che non può e non deve smarrire la sua vocazione di democrazia solidale. Sono la paura e la speranza di ogni uomo e ogni donna che chiede aiuto per non perdere la dignità di essere umani.
Geometrie esistenziali.
Pavel Florenskij: la sottile linea russa
Torna in libreria uno dei testi più visionari e oscuri di Pavel Florenskij
Matematico, filosofo e religioso ha vissuto all’inizio del Novecento
di Chiara Valerio (la Repubblica, 27.10.2021)
Tutto quello di cui Euclide parla non esiste. Ciò nonostante, la geometria così come Euclide l’ha immaginata, è l’unica che si accorda alla nostra esperienza quotidiana e aggiungo - si capirà spero perché - un altro aggettivo: terrena. La geometria euclidea garantisce, per dirne una, che i corpi solidi non cambino forma durante il movimento - al netto delle palle lanciate nei cartoni animati giapponesi da Jenny la tennista, Holly e Benji e Mimì e le ragazze della pallavolo.
Se la geometria che descrive il nostro mondo nasce da ipotesi di misteriosa
esistenza («il punto è ciò
che non ha parti»), c’è da
chiedersi quale ulteriore
rarefazione di realtà stia in
un numero detto immaginario. Il nome lo inventa
Cartesio, ma è Leibniz che
in maniera formidabile (siamo a cavallo tra Seicento e
Settecento) ne svela essenza e specie:
«La natura, madre delle verità eterne, anzi lo spirito divino, è in realtà troppo gelosa della propria straordinaria varietà
per consentire che le cose
si addensino tutte in un
unico genere, ha perciò trovato un sottile e mirabile
espediente in quel prodigio dell’analisi, quel mostro del mondo delle idee,
quella specie di anfibio tra
essere e non essere, chiamata radice immaginaria».
Pensiero che potrebbe essere posto, tra l’altro, a monito e conclusione di tutte le discussioni riguardo l’identità di genere.
Ma torno sui numeri immaginari e sulla loro natura perché la casa editrice
Mimesis porta in libreria
uno dei testi più visionari e
oscuri di Pavel Florenskij,
matematico, filosofo e prete russo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Il libro si intitola Gli immaginari in geometria (a cura di Andrea Oppo e
Massimiliano Spano, traduzione di
Anna Maiorova, A. Oppo e M. Spano, pagg.112, 12 euro) ed è stato pubblicato nel 1922 nonostante Florenskij abbia cominciato a scriverlo
venti anni prima mentre era studente alla facoltà di matematica. E
un libro che lo accompagna per
più di un terzo della vita.
I numeri immaginari o numeri complessi vengono introdotti (anche a scuola) come coppie di un piano cartesiano sulle cui ascisse il passo è scandito dall’unità reale, e sulle cui ordinate il passo è segnato da una unità immaginaria, il simbolo di quest’ultima è i.
Da qui prende l’abbrivo Florenskij per fornire una sua rappresentazione geometrica dei numeri immaginari. Immagina una superficie piana che su una faccia abbia i numeri reali e sull’altra i numeri complessi. Non numeri reali e immaginari sullo stesso piano, ma numeri reali e immaginari sopra e sotto lo stesso piano, opposti.
La geometria che ne deriva è ctonia, in senso proprio, perché le aree delle figure geometriche nella parte immaginaria hanno valore negativo. Esattamente il motivo per cui per quasi duemila anni l’equazione x2+1= O equivalente a x2= -1 non ha avuto soluzione, inconcepibile che un’area avesse misura negativa.
Ipotizza dunque Florenskji che esistano geometrie terrene governate da Euclide e geometrie immaginarie nelle quali è l’impensato a dominare.
Questo impensato matematico, aggiunge in un capitolo
successivo alla prima stesura, è stato però visto da Dante Alighieri. E
la geometria è ctonia perché Florenskij si mette nell’inferno di Dante e da lì, deducendo dai versi la
geometria tolemaico-dantesca della Commedia, ne evidenzia la natura ellittica concorde a quella della
relatività einsteniana:
«Il suo (di
Dante) viaggio è stato reale; ma se
anche qualcuno lo negasse, andrebbe comunque riconosciuto come una realtà poetica, cioè come
qualcosa che può essere immaginato e concepito e, come tale, contiene i dati necessari per comprenderne i presupposti geometrici».
A Floreskji interessa mostrare che lo spazio e il tempo sono finiti e chiusi in sé stessi e che il limite della velocità della luce - limite posto nel modello di Einstein - dice solo che oltre quella velocità cambia il modo di vita e cambia la geometria, e questa nuova geometria giace sulla faccia del piano opposta ai numeri reali, tra i numeri immaginari.
Qualche anno dopo, sia- mo nel 1927, è Mandelstam - che con ogni probabilità aveva letto Florenskij - a ragionare su quanto Dante e il suo poema non stiano dietro ma davanti alla scienza moderna. Mandelstam voca a sé e alla Commedia le scienze della terra, geologia e cristallografia.
La nuova edizione di Conversazione su Dante - fino al mese di maggio 2021 oscuro, oscurissimo testo in italiano e ora luminoso luminosissimo grazie alla cura di Serena Vitale - è stata pubblicata da Adelphi (pagg.116,13 euro).
«La sua poesia - scrive Mandelstam - conosce tutte le forme di energia note alla scienza dei nostri tempi. L’unità di luce, suono e materia ne costituisce l’intima natura».
E continua, qualche pagina dopo: «I versi di Dante rivelano, ap- punto, una formazione e una colorazione geologiche. La loro struttura materiale è di gran lunga più importante del loro decantato carattere scultoreo. (...) In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito come per rivelarne l’essenza: avrete così un’idea abbastanza chiara del rapporto che Dante stabilisce tra forma e contenuto».
È di certo vero che Galileo Galiei, oltre a un grande scienziato, sia stato un grande scrittore, e, leggendo Florenskij e Mandelstam vie- ne da pensare che accade pure che i grandi poeti siano capaci di immaginazioni non metamorfiche, di immaginazioni scientifiche che non prendano l’abbrivo dal reale - tutto quello di cui Euclide parla, non esiste - ma lo chiariscano, viene da pensare, insomma, che i grandi poeti siano grandi scienziati.
La teologia geometrica (ma non euclidea) di Pavel Florenskij
Tradotto e pubblicato per la prima volta integralmente uno dei libri che hanno caratterizzato la parabola intellettuale del matematico e prete ortodosso russo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 28 ottobre 2021)
«Mi permetto di disturbare la censura con quanto segue». Suonano così le parole, scritte il 13 settembre 1922, in apertura alla lettera indirizzata alla sezione politica per distoglierla dal proposito di censurare alcune parti di un testo di geometria. Sono trascorsi cinque anni dalla rivoluzione bolscevica e uno dalla proclamazione della nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche quando Pavel Florenskij si vede cassate talune riflessioni sulle geometrie non euclidee contenute nel testo Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali nella geometria (Esperimento per una nuova interpretazione dei numeri immaginari) (pagine 114, euro 12), tradotto per la prima volta integralmente ora dall’editore Mimesis con la curatela di Andrea Oppo e Massimiliano Spano.
Ma cosa di tanto eversivo e pericoloso per il neonato regime sovietico poteva adombrarsi tra le righe di un testo tecnico dedicato alla rappresentazione geometrica dei numeri complessi? Florenskij, che da molti è considerato il Leonardo da Vinci russo, è un autore dai poliedrici interessi. Matematico, filosofo, teologo consacratosi nel 1909 alla Chiesa ortodossa, ingegnere elettrotecnico, esperto di linguistica, estetica e simbolismo, matura, dall’intreccio delle sue competenze, una visione organica e unitaria del mondo. Una coerenza dottrinaria che non si incrina all’incontro con la vita. Le scelte di padre Pavel lo portano infatti all’arresto nel 1933 e alla fucilazione nel 1937 nei pressi di Leningrado dopo cinque anni trascorsi nel gulag delle isole Solovki. Matematica e teologia in Florenskij non sono due continenti separati ma si corrispondono senza requie.
Lo dimostra proprio l’anno 1922. Sono dodici mesi impegnativi in cui Florenskij consegna alle stampe sia Gli immaginari in geometria sia Iconostasi (anche conosciuto con il titolo Le porte regali) quasi a conferma che le due dimensioni si intrecciano indissolubilmente una con l’altra. Per il teologo russo la matematica non è un vezzo ma una «abitudine di pensiero » che «aiuta a vedere rapporti geometrici in tutta la realtà» e «lega in un unico modo la visione del mondo», scriverà dalla prigionia alla figlia Olga. E Gli immaginari in geometria, in particolare l’ultimo paragrafo aggiunto con vent’anni di ritardo, conferma questa concezione, dove le teorie più spinte della ricerca scientifica si fondono con la teologia mostrando la convivenza di reale e immaginario. Il raggiungimento di questi risultati non è però immediato.
Ci vogliono ben quattro lustri perché il testo giunga a un suo compimento. La gran parte di esso è redatta nel 1902 quando Florenskij è ancora un giovane studente di matematica e fisica all’università di Mosca. Poi, nella primavera del 1921, il pensatore russo decide di integrarlo con un capitolo generalizzando le considerazioni della prima parte. Ma ancora il testo non sembra maturo e così, l’anno seguente, padre Pavel aggiunge un ultimo capitolo in cui lega le sue considerazioni matematiche con la disamina di alcune concezioni cosmologiche e geometriche che fanno capolino tra le terzine della Divina Commedia di Dante. L’importanza del Fiorentino non deve stupire. Egli non solo gioca un ruolo non marginale nella cultura russa dei primi decenni del Novecento ma recita una parte non trascurabile pure nel pensiero di Florenskij come sottolinea anche un recente breve saggio di Natalino Valentini, Il Dante di Florenskij (Lindau), che insieme all’introduzione di Oppo e alla postfazione di Spano costituisce un importante trittico per muoversi tra le pagine non sempre agevoli di Gli immaginari in geometria.
Come Florenskij prova a illustrare anche nell’immagine di copertina composta dall’amico artista Vladimir Favorskij, il modello dello spazio e tempo previsto dalle teorie della relatività generale e ristretta di Albert Einstein, il piano della geometria ellittica di Rieman, la superficie di Felix Klein e la geometria complessa di August Möbius confermano la concezione cosmologica espressa da Dante e dalla fisica tolemaica come rappresentato dalla superficie ricurva (tipo il nastro di Möbius per capirsi) che sembra adombrarsi al passaggio di Dante e Virgilio dall’Inferno al Purgatorio.
Per Florenskij le avanguardie della ricerca matematica e fisica anziché iscriversi in continuità con la scienza moderna, che molto deve al prospettivismo rinascimentale contestato dal russo proprio nei saggi sull’icona, ne rappresentano una discontinuità e confermano la prospettiva aristotelico-tolemaica dantesca al punto che per Florenskij «attraversando il tempo, la Divina Commedia si trova inaspettatamente davanti, e non dietro la scienza moderna».
Lungo questo cammino, dove matematica e teologia sono come germani celesti che contribuiscono ad abbattere la concezione materialista del marxismo sovietico, «il collasso della figura geometrica non significa la sua eliminazione ma solo il suo passaggio all’altro lato della superficie, e di conseguenza la sua accessibilità agli esseri che lì si trovano, allo stesso modo deve essere inteso il carattere immaginario dei parametri di un corpo, non come un segno della sua irrealtà ma semplicemente come l’evidenza del suo passaggio a un’altra realtà».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI.
FLS
"PRIMI CRISTIANI", I MILITANTI DI BASE, , E UNA TRAGEDIA DI LUNGA DURATA.... *
Il comunismo e le bugie della classe intellettuale
di Goffredo Fofi (Avvenire, venerdì 24 settembre 2021)
Stanno scendendo in campo alcuni dei migliori scrittori italiani di oggi (in arrivo Mari e Starnone) e tra di loro Davide Orecchio merita un posto di rilievo. Il suo romanzo Storia aperta (Bompiani) è uno dei migliori di questa stagione. Orecchio sarebbe un forte candidato al prossimo Strega... Egli insiste su qualcosa che ha già affrontato, e che è fin troppo al centro della sua ispirazione: la figura di un padre che fu intellettuale e giornalista comunista, per interrogarsi sulla storia del Novecento e sulle sue difficoltà, le sue speranze ricatti fallimenti. Non è il solo “figlio” o “figlia” di figure del genere a essersi confrontato con questo dilemma: un padre comunista e intellettuale, e va bene, ma anche ligio ai dettami del Partito in un partito ligio per tanti anni ai dettami del Pcus, che erano anche quelli di Stalin.
Stare dalla parte delle “classi subalterne” era eminentemente giusto, ma lo era meno accettare (fino al ’56) l’ottica che nel Pci era dominante, perché non era difficile, soprattutto per un intellettuale, sapere del gulag dei processi delle purghe. Un esempio personale, e me ne scuso, ma quando andavo ancora alle medie e leggevo però di tutto, in casa mia circolava l’“Avanti”, quotidiano socialista, e certe cose io già le sapevo. Mi commuove l’amore filiale e la volontà di conoscere i dilemmi dei padri e le loro ragioni e i loro cedimenti, e anzi mi commuove che ci sia chi lo fa. E però mi accade di continuare a mettermi non dalla parte dei politici e degli intellettuali ma da quella delle “basi”.
Ho conosciuto decine e decine di militanti del Pci che erano contadini e operai, a Nord e a Sud e al Centro, e mi piacerebbe che di questa massa di dimenticati qualche romanziere ancora si interessasse, lo immaginasse verificando storie e dilemmi.
Per dirla tutta, ho avuto e ho ancora un certo rispetto per i politici comunisti, e alcuni ne ho davvero amati, per esempio tra gli ultimi Berlinguer, e ho ammirato i militanti comunisti di base, che mi sembrarono spesso più millenaristi che comunisti, mossi da un’ansia di giustizia e da una pratica della solidarietà, da un’abnegazione “da primi cristiani” che raramente trovavo in altre militanze; ma confesso di non aver mai amato gli intellettuali comunisti, perché non potevano non sapere e dunque mentivano.
Ho conosciuto anche delle rare eccezioni, e ne sono stato più o meno amico: Romano Bilenchi, Lucio Lombardo-Radice, Aldo Natoli, Valentino Parlato, uomini di grandi convinzioni e di grandi aperture, che sapevano andare oltre i compromessi della politica. In passato, nel dopoguerra e ancora per molto, tanti romanzi e film hanno raccontato le “basi”, e talvolta anche i militanti politici di base, ma solo negli anni del centrosinistra osarono affrontare le contraddizioni di militanti già un po’ intellettuali (per esempio, Una vita difficile di Risi e certi film, pur se di parte, del comunista Scola ma da Age e Scarpelli).
Sarebbe bello che chi intende investigare e ragionare sul passato affrontasse i destini delle “basi” e non quelli, fin troppo osannati, di chi sapeva e taceva, pur tenendo conto delle tragiche contraddizioni dell’epoca.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Riscoperte.
Ivan Šmelëv, la verità che grida e che bisbiglia
Uscito in Francia nel 1923, “Il sole dei morti” viene tradotto solo ora in Italia. È la cronaca dei mesi terribili trascorsi dallo scrittore nella Crimea dilaniata da miseria e sospetto
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 16 luglio 2021)
L’ora della rivoluzione è arrivata anche in Russia, ma non è andata come previsto. Al posto della libertà, una nuova oppressione. Al posto dell’uguaglianza, altre ingiustizie. Al posto della prosperità promessa, la fame che incattivisce e uccide, però almeno non fa distinzione. In Crimea, nel biennio terribile 1920-1921, la carestia è ovunque, nelle ville dei signori e nelle case dei contadini. Si sopravvive come si può, quando si può. Abbrustolendo i semi dell’uva e macinando mandorle, mungendo gli ultimi residui di latte dalle mucche ischeletrite e sperando che il capretto, fattosi grande, dia abbastanza grasso per superare il prossimo inverno. A meno che qualcuno non se la rubi prima, quella bestia prodigiosa. E allora giù con le lacrime e con le maledizioni, avanti con le recriminazioni e le accuse.
Di questa umanità disperata fa parte Ivan Šmelëv, che prima della Rivoluzione di Ottobre era uno scrittore di successo e dell’epopea bolscevica, per un momento, aveva immaginato di poter diventare il cantore. Adesso è come imprigionato nella sua dacia in Crimea, costretto a giustificarsi perfino dei libri in suo possesso. Che sono, tra l’altro, i libri che lui stesso ha scritto, ma nel regime comunista esistono solamente regole, non eccezioni. Anzi, no: le eccezioni sono contemplate, ma vanno tutte a favore del caporione di turno e della sua banda di razziatori e fracassatori.
Dove passano loro, non resta che desolazione. «L’immondezzaio incombe, dilaga - annota Šmelëv -. C’è modo di sfuggirgli? Sì, nel Nulla». Parole tanto più tremende se si considera che l’autore non era affatto un nichilista. Devoto alla tradizione ortodossa, Šmelëv (che era nato a Mosca il 3 ottobre 1873) morì improvvisamente nei pressi di Parigi il 24 giugno 1950, nel medesimo giorno della sua ammissione in monastero, alimentando una sorta di pia leggenda che fa di lui un santo e, forse, addirittura un martire.
In esilio in Francia dal 1923, all’indomani della Seconda guerra mondiale si era dovuto difendere dall’accusa di collaborazionismo per aver pubblicato una serie di articoli sull’unico giornale in lingua russa attivo a Parigi e controllato, come prevedibile, dagli occupanti nazisti. Anche in quell’occasione, Šmelëv si era rifatto, in maniera tanto sincera quanto ingenua, a una motivazione spirituale: «Sia pure attraverso un foglio nemico - aveva sostenuto - intendevo “bisbigliare” la verità ai miei lettori». Si tratta, in definitiva, dello stesso compito che viene assolto da Il sole dei morti, uno dei capolavori di Šmelëv, ammirato a suo tempo da Thomas Mann e finora mai pubblicato in Italia, nonostante una traduzione fosse in cantiere già nel lontano 1937, con un ritardo comunque considerevole rispetto all’edizione originale, apparsa in Francia nel 1923.
Il libro esce ora da Bompiani (pagine 392, euro 20,00), magnificamente curato da Sergio Rapetti, lo studioso (e animatore editoriale) al quale si devono contributi fondamentali alla conoscenza della letteratura russa contemporanea, a partire dall’opera di Solženicyn. Il sole dei morti è, appunto, la cronaca dei mesi terribili trascorsi dallo scrittore nella Crimea dilaniata dalla miseria e dal sospetto. Ed è un libro che non bisbiglia: grida. È il diario di una solitudine, appena mitigata dalla presenza accennata della moglie, ma resa ancora più acuta dall’apprensione per la sorte del figlio, che ne frattempo è già stato liquidato come controrivoluzionario. Del resto, basta poco per essere bollati come nemici del popolo.
La colpa di Šmelëv e dei suoi compagni di sventura, infatti, consiste sostanzialmente nel trovarsi a soggiornare in una località considerata un ricettacolo di borghesi (non per niente, una ventina di anni prima Cechov aveva ambientato La signora con il cagnolino tra gli alberghi lussuosi e le spiagge indolenti di Jalta). Šmelëv sopporta più degli altri, e non soltanto perché può fare affidamento su qualche gallina non meno tenace di lui.
Da scrittore e da credente, contempla il Nulla che incombe, ma non se ne lascia conquistare, neppure quando il mistero della Natività di Cristo sembra profanato dall’apparizione di un «bambino-morte », senza dubbio la più straziante fra le numerose figure infantili che si affacciano durante il racconto, spesso per domandare una briciola di pane o per annunciare un’ulteriore sventura. Anche in questo universo devastato, però, la Provvidenza trova modo di manifestarsi, per esempio attraverso il dono inatteso recapitato per conto di un vecchio tataro poco disposto a fare distinzione fra il Dio dei cristiani e l’Altissimo del Corano.
Šmelëv è fin troppo consapevole di vivere in un tempo apocalittico, la minaccia dell’Anticristo è troppo evidente per poter essere ignorata. Eppure, a suo modo, lo scrittore non smette di sperare nella Risurrezione. Non diversamente da lui si comporta l’amico medico, quello che a Londra aveva comprato un orologio nella convinzione che, presto o tardi, avrebbe segnato l’avvento della rivoluzione. Ora che tutto è compiuto, ha trasformata in bara per la moglie l’angoliera nella quale la defunta conservava le sue confetture preferite. Chissà che colpo di scena, ripete, quando alla fine dei tempi lei se ne uscirà dall’armadio, tutta profumata di albicocca: «Lascerà a bocca aperta gli Arcangeli! E lo stesso Domineddio...».
Il sole dei morti
Ivan Sergeevič Šmelëv
Penisola di Crimea, 1920-1921. La Riviera russa, devastata dalla rivoluzione e dalla guerra civile, è teatro della vendetta dei vincitori. Nella terra dei cimmeri, dove un mito degli antichi greci collocava la porta dell’Ade, divampa il moderno inferno dello sterminio dei “nemici del popolo”. Dall’alto di una casetta su un poggio affacciata su Alušta, cittadina incastonata tra i monti e il Mar Nero, il Narratore, che è l’autore stesso, assiste all’agonia per fame, saccheggi e abbandono di intere famiglie con bambine e bambini, arti e mestieri, vigne e frutteti e campi, e degli animali domestici, che deperiscono e muoiono insieme agli umani.
Ivan Šmelëv, scrittore reputato e famoso in Russia fin dai primi anni del Novecento, pur nella catastrofe in atto sceglie di non andarsene per cercare di salvare il figlio, arrestato e scomparso. Quando avrà bussato a lungo e invano alle porte del nuovo Potere, abbandonata ogni speranza, si rassegna ad emigrare. Ospite di Ivan Bunin in Francia, comporrà in pochi mesi del 1923 Il sole dei morti, primo di tanti suoi libri diventati popolari nella “Russia all’estero” e infine ritornati nella Russia postsovietica in innumerevoli ristampe. Šmelëv stesso ha voluto per Il sole dei morti il sottotitolo di epopea: all’afflato epico e lirico di una grande penna si unisce la potente testimonianza su una tragedia epocale a lungo mistificata e rimossa, restituita in presa diretta nelle esistenze concrete delle persone che la subirono.
Ivan Sergeevič Šmelëv
Ivan Sergeevič Šmelëv è nato a Mosca nel 1873 ed è morto esule nel 1950 in Francia. Agli inizi del 1900 è stato tra gli autori di punta della Casa editrice e rivista “Znanie”, apprezzato da Gor’kij e Korolenko. Per Šmelëv e altri la critica successiva ha individuato il termine di “realismo critico”, più permeabile alle suggestioni del coevo simbolismo. Nei suoi racconti e romanzi si riflettono il periodo rivoluzionario 1905-1917 (Il cittadino Uklejkin, 1908; Memorie di un cameriere, 1911; Ciò è stato, 1919-1922) e la guerra civile (Il sole dei morti, 1923). Emigrato in Francia, scrisse numerosi racconti e romanzi, ambientati sia nella sua terra, della cui lingua restò raffinato cultore e novatore, sia nella realtà e nei tormenti dell’esilio. Straordinarie opere di spiritualità popolare sono quelle che lo hanno reso più famoso tra i lettori russi: Pellegrinaggio, 1930-31, e L’anno del Signore, 1934-1944.
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E SOCIETÀ: LA COMUNE PATERNITÀ DI DIO, IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI", E I "FRATELLI TUTTI". A che gioco giochiamo?... *
La fraternità come principio di ordine sociale
di Stefano Zamagni ("Bene comune", 31 dicembre 2020)
Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale è una autentica ispiera - il raggio di luce che, penetrando da una fessura in un ambiente in ombra, lo illumina rendendo visibile ciò che in esso staziona. Duplice la mira che la terza enciclica (dopo Lumen fidei, 2013 e Laudato sì, 2015) di papa Francesco persegue. Per un verso, risvegliare in tutti, credenti e non credenti o diversamente credenti, la passione per il bene comune, sollecitando tutti a trarne le conseguenze dirette. Per l’altro verso, fare chiarezza su concetti che troppo superficialmente vengono presi come sinonimi o quasi. La confusione di pensiero che ne deriva non giova né al dialogo né alla prospettazione delle necessarie linee di azione. Vedo di precisare.
Fraternità non ha lo stesso significato di fratellanza e ancor meno di solidarietà. Mentre quello di fratellanza è un concetto immanente che dice dell’appartenenza delle persone alla stessa specie o a una data comunità di destino, la fraternità è un concetto trascendente che pone il suo fondamento nel riconoscimento della comune paternità di Dio. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci (socio è “colui che è associato per determinati interessi” (102) ) e quindi chiude gli uniti nei confronti degli altri.
La fraternità, invece, proprio in quanto viene dall’alto (la paternità di Dio) è universale e crea fratelli, non soci, e dunque tende a cancellare i confini naturali e storici che separano. Il terzo termine che appare nella bandiera della Rivoluzione Francese (Liberté, egalité, fraternité) scaturisce dall’eguaglianza della specie e della natura di tutti gli uomini. Ma, come si legge nella Lumen fidei, 54, qualsiasi fraternità che sia priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento, non riesce a sussistere.
Altrettanto diversa è la fraternità dalla solidarietà. È merito grande della cultura cristiana quello di aver saputo declinare, in termini sia istituzionali sia economici, il principio di fraternità facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che essa ha conservato nel corso del tempo. Ci sono pagine della Regola di Francesco che aiutano bene a comprendere il senso proprio del principio di fraternità. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, quello di fraternità è il principio che consente ai già eguali di esser diversi - si badi, non differenti.
La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma, cioè la loro singolarità. Questa compresenza di uguaglianza e singolarità è ciò che caratterizza in modo unico il principio di fraternità. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Ma la buona società in cui vivere non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è vero.
Cosa fa la differenza? La gratuità. Dove essa manca non può esserci fraternità. La gratuità, non è una virtù etica, come è la giustizia. Essa riguarda la dimensione sovraetica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza. La logica della giustizia, invece, è quella dell’equivalenza, come già Aristotele insegnava. Capiamo allora perché la fraternità va oltre la giustizia. In una società, solo perfettamente giusta - posto che ciò sia realizzabile - non vi sarebbe spazio per la speranza. Cosa potrebbero mai sperare per l’avvenire i suoi cittadini? Non così in una società dove il principio di fraternità fosse riuscito a mettere radici profonde, proprio perché la speranza si nutre di sovrabbondanza.
Sorge spontanea la domanda: perché papa Francesco ha scelto la parabola del buon Samaritano come fondamento del suo approccio alla fraternità? La domanda ha senso perché il testo evangelico nulla dice (né lascia intendere) a proposito della relazione di reciprocità che, come sappiamo, è necessaria per conservare nel tempo il legame di fraternità. I rapporti tra fratelli sono di reciprocità, non di scambio e tanto meno di comando. La reciprocità è un dare senza perdere e un prendere senza togliere. Tra il Samaritano e la vittima che giace distesa a terra non sorge alcuna reciprocità. La parabola, dunque, è più icona della solidarietà o della fratellanza che non della fraternità in senso proprio. E allora? Il fatto è che papa Francesco con questa sua scelta ha voluto che comprendessimo appieno la differenza tra prossimità e vicinanza. Il levita e il sacerdote erano certamente vicini della vittima (tutti e tre giudei), ma non si sono fatti prossimo della stessa. Alla fratellanza basta la vicinanza; la fraternità postula la prossimità.
Dove ci portano, sul piano della pratica, le sottolineature di cui sopra? Per ragioni di spazio, soffermo qui l’attenzione su alcune soltanto delle implicazioni rilevanti quelle che reputo più urgenti per il tempo presente. Primo, occorre, una volta per tutte, rendersi conto dei guasti seri che la matrice culturale dell’individualismo libertario va producendo. L’individualismo è la posizione filosofica secondo cui è l’individuo che attribuisce valore alle cose e perfino alle relazioni interpersonali. Ed è sempre l’individuo il solo a decidere cosa è bene e cosa è male; quel che è lecito e illecito. In altro modo, è bene tutto ciò cui l’individuo attribuisce valore. Non esistono valori oggettivi per l’individualismo, ma solo valori soggettivi ovvero preferenze legittime. Di qui l’implicazione secondo cui si deve agire “etsi communitas non daretur” (come se la comunità non esistesse).
D’altro canto, il libertarismo è la tesi secondo cui per fondare la libertà e la responsabilità individuale è necessario ricorrere all’idea di autocausazione, per la quale pienamente libero è solamente l’agente auto-causato, quasi fosse Dio. Si può ora capire perché dal connubio tra individualismo e libertarismo, cioè dall’individualismo libertario, sia potuta scaturire la parola d’ordine di questa epoca: “volo ergo sum”, cioè, “io sono quel che voglio”. La radicalizzazione dell’individualismo in termini libertari, e quindi antisociali, ha portato a concludere che ogni individuo ha “diritto” di espandersi fin dove la sua potenza glielo consente. E’ la libertà come scioglimento dai legami l’idea oggi dominante nelle nostre società. Poiché limiterebbero la libertà, i legami sono ciò che deve essere sciolto. Equiparando erroneamente il concetto di legame a quello di vincolo si confondono i condizionamenti della libertà - i vincoli - con le condizioni della libertà - i legami, appunto. E questo perché l’individualismo libertario non riesce a concettualizzare la libertà di soggetti “quae sine invicem esse non possunt” (che senza reciprocità non possono essere). Se si ammette che la persona è un ente in relazione di prossimità con l’altro, il libertarismo non ha ragione d’essere.
Un secondo potente invito che ci viene dall’incalzante magistero di papa Francesco è quello di affrettare i tempi del passaggio dal modello tradizionale (e ormai obsoleto) di responsabilità ad un modello più ricco, all’altezza delle sfide in atto. L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica infatti con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Questa, ancora prevalente, concezione della responsabilità lascia però in ombra il cosa significhi essere responsabili.
Da qualche tempo a questa parte, però, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Dal latino res-pondus, responsabilità significa essenzialmente portare il peso delle cose, prendersi cura dell’altro - come l’ “I care” di Lorenzo Milani (nella foto) ci ha insegnato. Non solamente si risponde “a” ma anche “di”. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare ad essere efficaci. Dall’altra, la capacità di risposta non può essere solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice imputabilità.
E’ rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Si è responsabili non solo e non tanto per quel che si fa, quanto piuttosto per quel che non si fa, pur potendolo fare. L’azione omissiva è sempre più grave di quella commissiva.
Di una terza implicazione pratica del discorso sviluppato in Fratelli tutti giova dire. Se si vuole avere ragione dell’indegno fenomeno delle crescenti ingiustizie sociali e della diffusione a macchia d’olio di atteggiamenti aporofobici - l’aporofobia nel senso di A. Cortina è il disprezzo del povero e del diverso - occorre pensare seriamente ad un modello credibile di governance a livello globale. Qual è la difficoltà a tale riguardo? Quella di come conciliare le regole della governance interna dei singoli paesi, ognuno dei quali ha la sua storia specifica, le sue norme sociali di comportamento, la sua matrice culturale con l’uniformità delle regole che inevitabilmente caratterizzano la governance globale. Mai dimenticare, infatti, che i vincoli esterni al paese, quando questo deve dare forma alle proprie politiche domestiche, comportano sempre un costo in termini di legittimità democratica - costo che, come in questo tempo sta accadendo, finisce col rafforzare le spinte irrazionali verso il populismo sovranista. Si tratta allora di scegliere tra due concezioni alternative di governance economica globale, note come “globalization enhancing global governance” e “democracy-enhancing global governance”.
L’idea di fondo della seconda opzione è che quando si mette mano al disegno delle regole a livello transnazionale occorre inserire tra gli obiettivi da perseguire non solamente l’aumento dell’efficienza nell’allocazione delle risorse, e quindi del reddito, ma anche l’allargamento della base democratica. Per dirla in altro modo, è bensì vero che la globalizzazione accresce lo spazio dei diritti umani negativi (cioè la libertà da), ma restringe lo spazio, se non corretta da clausole di salvaguardia sociale, dei diritti umani positivi (cioè la libertà di). Papa Francesco non esita a prendere posizione a favore della seconda opzione. (Cfr. n.154 e segg.).
Una novità di non poco conto di questa enciclica, che non è passata inosservata e che continuerà a lungo a far discutere, è costituita dal cap. V, significativamente e provocatoriamente intitolato “La migliore politica”. Vi sono due modi errati - ci dice papa Francesco - di porsi di fronte alle sfide di questo momento. Da un lato, quello di chi cede alla tentazione di restare al di sopra della realtà con l’utopia; dall’altro, quello di chi si colloca al di sotto della realtà con la distopia, con la rassegnazione. Non possiamo cadere in trappole del genere. Non possiamo vagare tra l’ottimismo spensierato di chi vede il processo storico come una marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione e il cinismo disperante di chi pensa, con Kafka, che “esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”.
Accogliere lo sguardo della fraternità significa oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede. Se si vuole che l’ordine sociale che chiamiamo capitalismo possa rispettare pienamente il diritto di ciascun individuo a decidere da sé come dare valore alla propria vita e, al tempo stesso, possa dimostrare uguale considerazione per il destino di ciascuna persona, non c’è altra via che quella della politica, ma che sia migliore! Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi, o, peggio, il collasso, perché sta diventando più capitalistico di quanto gli sia utile, è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione dell’esistente ordine sociale.
Un passo famoso di William Blake - poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture - ci aiuta ad afferrare la potenza del principio di fraternità: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre”. Invero, è nella pratica del dono come gratuità che la persona incontra congiuntamente il proprio io, l’altro e Dio. Viviamo in un’epoca desertica del pensiero, che stenta a concepire la complessità della condizione umana. E’ un pensiero sbriciolato che fatica a vedere i rapporti fra le tante dimensioni della nostra crisi. Fraternità e amicizia sociale, al modo di vaccino sociale, ci indicano allora la via pervia di uscita dalla cupa situazione dell’esistente.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
CHARITÉ: SOCIALISMO O BARBARIE ....
Riccardo Cristiano. Bergoglio o barbarie *
Riccardo Cristiano racconta il suo saggio Bergoglio o barbarie, pubblicato da Castelvecchi nel 2020. L’idea di scrivere questo libro è venuta a Cristiano dopo l’incontro con un teologo che lo invitava ad andare negli Stati Uniti d’America per verificare di persona che l’alternativa a Bergoglio è la barbarie. Un’alternativa che ricordava quella famosa di Rosa Luxemburg tra socialismo o barbarie. Sostituire l’ideologia socialista con una persona come Bergoglio ha mostrato che il problema non era l’idea ma la realtà, perché la realtà è più importante delle nostre idee e il sole è quello che brilla oggi non quello dell’avvenire.
I suoi atti pontificali principali sono stati, secondo Cristiano, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza, che è l’antefatto dell’enciclica Fratelli tutti, l’accordo provvisorio con la Cina e il Sinodo per l’Amazzonia che è un po’ la sintesi del suo pontificato:
Riccardo Cristiano, particolarmente attento al dialogo interreligioso, a lungo coordinatore dell’informazione religiosa di Radio Rai, è fondatore dell’Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio e collabora come vaticanista con «Reset» e «La Stampa». Ha pubblicato con Castelvecchi Medio Oriente senza cristiani? (2014), Bergoglio, sfida globale (2015), Siria. L’ultimo genocidio (2017) e ha curato il volume Solo l’inquietudine dà pace. Così Bergoglio rilancia il vivere insieme (2018).
* FONTE: RAI CULTURA/FILOSOFIA
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FLS
Teresa di Lisieux.
Quella «piccola via» verso la grandezza di Dio
di Matteo Liut ( Avvenire, giovedì 1 ottobre 2020)
Dio scava nell’anima, entra nel profondo della nostra vita, incide con il suo amore le fondamenta del nostro esistere, ma non sempre è facile seguire le sue tracce. Capitò anche a santa Teresa di Lisieux di "perdersi", di chiedersi dove fosse Dio e il suo smarrimento è narrato in "Storia di un’anima". Dal senso del limite e dell’imperfezione, però, per santa Teresa passò la scoperta della sua "piccola via" verso Dio: è nelle imperfezioni della vita che è possibile cogliere con più forza l’amore del Signore. Nata nel 1873 ad Alençon in Francia, Teresa era cresciuta in una famiglia "santa" (anche i genitori sono stati canonizzati) e, giovanissima, era entrata nel Carmelo di Lisieux. Il suo intenso cammino spirituale alla ricerca della santità venne interrotto dalla tubercolosi: morì nel 1897 all’età di 24 anni. Nel 1997 è stata proclamata dottore della Chiesa. [...].
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MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine e dottore della Chiesa: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia, divenne per purezza e semplicità di vita maestra di santità in Cristo, insegnando la via dell’infanzia spirituale per giungere alla perfezione cristiana e ponendo ogni mistica sollecitudine al servizio della salvezza delle anime e della crescita della Chiesa. Concluse la sua vita il 30 settembre, all’età di venticinque anni.
SEGNI DEI TEMPI. Dopo la lettera a Pera di Papa Ratzinger ....
IN VATICANO NON NE POSSONO PIU’ !!! "SANTO" GRAMSCI AIUTACI TU. DE MAGISTRIS RICORDA E SOLLECITA A RIPARTIRE NON DALLA "DOMINUS JESUS" MA DAL BAMBIN GESU’ !!! Gramsci aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù !!! [2008]
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede.
Federico La Sala
La sorte della rivoluzione russa nelle mani di Stalin
di Diego Giachetti (Dalla parte del torto, 22 Novembre 2019)
«L’arte staliniana della falsificazione e della disinformazione coglie ogni volta di sorpresa gli storici», così scriveva Jurij Alekseevič Buranov nel 1994 presentando il suo lavoro sulle ultime volontà di Lenin nella traduzione inglese, frutto di una ricerca basata in parte su documenti fino allora secretati e conservati negli archivi del Comitato Centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Per merito delle edizioni Prospettiva marxista, della traduzione di Paolo Casciola che ha curato anche una lunga e dettagliata introduzione, abbiamo oggi a disposizione la versione italiana di questo testo poco conosciuto: Il “testamento” di Lenin falsificato e proibito (Milano, 2019).
La ricerca di Buranov riguarda le mosse attuate da Stalin e dalla cerchia a lui vicina, negli anni in cui stavano intraprendendo una lotta senza scrupoli per ascendere ai vertici del potere sovietico. Il primo, importante ostacolo che trovarono sul percorso furono le ultime iniziative promosse da Lenin, ormai gravemente malato ed emarginato via via dai centri di potere decisionali. Nel riprendere il tema dell’“ultima battaglia di Lenin”, per dirla col titolo del libro di Moshe Lewin, edito da Laterza nel 1969, Buranov poteva avvalersi di documenti rimasti fino ad allora sepolti negli archivi (pubblicati in appendice al testo) e, tra questi, la “sensazionale” scoperta dell’alterazione, operata da Stalin, di una parte di quello che è passato alla storia come il “testamento” di Lenin. Si tratta di note dettate da Lenin tra il dicembre 1922 e il gennaio 1923, raccolte sotto il titolo “Lettera al Congresso” per il XII congresso del Pcus al quale egli non poté partecipare. La lettera non fu presentata a quel congresso, occorrerà attendere un anno prima che fosse letta, peraltro a porte chiuse e in sedute ristrette, durante il XIII Congresso del maggio 1924.
Stalin “corregge” Lenin
Buranov ha ritrovato negli archivi la trascrizione manoscritta e la versione dattiloscritta -contenente alcune modifiche introdotte da Stalin - della prima parte di questa lettera al congresso, dettata da Lenin il 23 dicembre 1922. Non solo Stalin manipolò le note di Lenin, agì in modo tale da ritardarne la divulgazione preoccupato, a ragione, per diverse annotazioni negative sul suo conto che culminavano nella proposta di rimuoverlo dal suo incarico.
Le rivelazioni di Buranov vennero esposte e sostanzialmente condivise da Luciano Canfora nel suo libro La storia falsa (Rizzoli, 2008), il quale affermò che le manipolazioni introdotte avevano come scopo quello di ridimensionare la fiducia posta da Lenin nei confronti delle richieste di Trotsky sul Gosplan, la Commissione statale per la pianificazione economica nell’Unione Sovietica, ed erano parte di un disegno generale volto al controllo del lavoro che Lenin tentava di continuare a svolgere (tra i due c’era crescente dissenso su questioni cruciali come la questione georgiana) e sminuire la sintonia politica tra Lenin e Trotsky in quel momento, sintonia che lasciava intendere che Lenin designasse Trotsky come suo “successore” (pag. 52), timore nient’affatto infondato, soprattutto dopo che Lenin, nella nota del 4 gennaio 1923 era stato molto esplicito circa la necessità di rimuovere Stalin dalla carica di Segretario generale.
Nel riassumere i risultati della sua ricerca, l’autore scrive che nel dicembre 1922 Stalin con l’aiuto dei propri sostenitori, approfittò della malattia di Lenin per cercare di allontanarlo dalla vita politica del paese. Mediante tale azione venne deliberatamente creata una situazione nella quale Lenin fu costretto a rendere segreto il suo rapporto politico all’imminente congresso del partito. Essendo pienamente informato dell’attività di Lenin, il segretario generale escluse da tali informazioni Trotsky, verso il quale aveva motivo di considerarlo come il rivale numero uno nella lotta per la direzione del partito. Nello stesso tempo Stalin incominciò ad alterare i testi dettati da Lenin.
Ciò è dimostrato, come già detto, dal ritrovamento della copia originale del testo dettato da Lenin del 23 dicembre 1922, e dal taglio apportato all’articolo di Lenin sull’Ispezione Operaia e Contadina pubblicato sulla «Pravda» nel gennaio del 1923. Dei tagli apportati a quest’ultimo testo si seppe molti anni dopo, quando la versione originaria dell’articolo sull’Ispezione Operaia e Contadina fu rinvenuto nel 1956, mentre la manipolazione delle note del 23 dicembre 1922 non furono scoperte fino al 1989.
Trotsky esita
Nella lunga introduzione, Paolo Casciola opera un utile lavoro di contestualizzazione delle vicende narrate per segnalare ad esempio, che il lavoro di Buranov getta nuova luce sulla lotta avviata da Lenin contro Stalin e la burocrazia e dimostra, ancora una volta, che tra bolscevismo e stalinismo non esiste continuità politico-programmatica e, purtroppo, neppure fisica, nelle persone, visto che la separazione politica è stata poi sancita dalla linea di soppressione degli avversari della vecchia guardia bolscevica, voluta da Stalin negli anni delle grandi purghe, con i processi farsa di Mosca del 1936-38 prima e, successivamente, con periodiche “ripuliture” condotte tra gli stessi quadri e militanti stalinisti, finiti anch’essi nel tritacarne della macchina poliziesca sotto l’egida di quello Stalin che avevano servito e osannato. In questo quadro s’inseriscono le considerazioni critiche svolte nei confronti della “nuova” scuola della falsificazione riemersa nella recente biografia negazionista di marca neostalinista.
Molto spazio però è dedicato a quelle che l’autore dell’introduzione definisce le “fatali esitazioni di Trotsky”, destinate a pesare in maniera decisiva sulle sorti dell’Unione Sovietica. Non a caso nei documenti proposti in appendice all’edizione italiana, oltre a quelli allegati da Buranov stesso, sono aggiunti testi di Trotsky e altri, tra i quali la moglie di Lenin, riguardanti la diatriba apertasi sul lascito del “testamento” di Lenin.
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Solženicyn non è più “spennato”: il grande affresco della Russia staliniana in traduzione integrale
Arriva in traduzione integrale il manuale di psicologia di tutti i dittatori. “Nel primo cerchio” era stato purgato dall’autore stesso per sfuggire alla censura sovietica
di Anna Zafesova (La Stampa, 06.12.2018)
Dalla prima traduzione di Nel primo cerchio, nel 1968, in poi in Italia veniva pubblicata la versione «spennata», come la definisce lo stesso Solženicyn, che lo scrittore cercò di adattare alla censura sovietica. Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura a venire pubblicata in Occidente e a meritare allo scrittore il Nobel. A venire sacrificati furono, ovviamente, i capitoli su Stalin, e altri passaggi cruciali ma troppo taglienti, per un totale di nove capitoli, oltre alla molla stessa del plot, resa più innocente.
Un romanzo concepito nel 1945-1953, durante la prigionia nel Gulag, scritto nel 1955-58, modificato nel 1964, ricostruito nel 1968, e che la casa editrice Voland propone al lettore italiano mezzo secolo dopo nella versione integrale, in tutta la sua grandezza da cattedrale, alla quale lo paragonò Heinrich Böll, con arcate, volte, travi a sorreggersi in un insieme imponente e leggiadro allo stesso tempo, tenuto insieme in una tensione perfetta da migliaia di mattonelle. Della cattedrale possiede il respiro della navata - il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del Gulag alla dacia del leader - e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono dall’oscurità, composti da singole storie, scene, personaggi, in un quadro che ricorda nella ricchezza e terribile nitidezza un gigantesco Giudizio universale a tutta parete.
Tutti finiscono dannati, in una Russia paragonata all’inferno fin dal titolo. Buona parte dell’azione si svolge nella šaraška, il primo girone «di lusso» del Gulag, la prigione privilegiata alle porte di Mosca dove ingegneri e matematici detenuti inventano apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri. Ci sono tutti i temi più cari a Solženicyn: la rivoluzione, la religione, la donna, il popolo contadino, la monarchia, la lingua russa, l’Europa, il marxismo. Ma non è un romanzo didattico e ideologico, è un racconto polifonico, mirabilmente reso nella traduzione di Denise Silvestri, con decine di storie (i personaggi sono tutti realmente esistiti) che si diramano dalla trama principale.
L’azione è invece pressata in meno di tre giorni, con però decine di flashback che vanno indietro di decenni, e lontano migliaia di chilometri, con improvvisi cambiamenti di ritmo, voragini filosofiche che si alternano a intermezzi quasi comici, in un incastro che sa di perfezione matematica, ma anche di musica. Il fucile appeso alla parete nel primo atto spara nel terzo, come raccomandava Cechov, l’infinito puzzle di dettagli, sfumature, oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza lasciare fessure, in uno dei panorami più ampi e realistici della Russia del Novecento.
Un giorno, forse, si leggerà «soltanto» come un grande romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e cinquant’anni dopo la prima pubblicazione «spennata», è ancora impossibile distinguere questo imponente affresco dal suo soggetto: lo stalinismo. L’enigma di un Paese enorme totalmente soggiogato dal suo sovrano, dove la verità e lo sguardo disincantato sulla realtà sono punibili con la prigione, e solo nella prigione diventano possibili.
Tutti mentono a tutti - i mariti alle mogli, i genitori ai figli, i superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e Stalin a sé stesso, con le «fake news» di cui Solženicyn descrive il funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di comportamentismo moderno.
Un sistema dove tutti sono carnefici, e tutti prigionieri, a cominciare dal Capo Supremo, che vive da recluso nella sua dacia, di notte, nell’autunno di un patriarca che non ha conosciuto una primavera gloriosa, un vecchio rancoroso, paranoico, vanitoso e permaloso, l’antirivoluzionario per definizione: più che ispirato dall’utopia marxista, è il suo becchino, un Grande Inquisitore dostojevskiano che sogna una gerarchia patriarcale.
Solženicyn voleva dimostrare che Stalin non fosse una tragica «deviazione», ma il prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista. Cinquant’anni dopo, oltre ai paralleli con la Russia contemporanea, il romanzo colpisce un bersaglio non circoscritto più nello spazio e nel tempo, un manuale di psicologia del dittatore, da Mao alla dinastia dei Kim, dai peronisti latinoamericani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e populisti europei e americani che, in quella triste farsa che, secondo Marx, è sempre la ripetizione della storia, inneggiano al popolo per trasformarlo in plebe.
Lenin volava alto come un’aquila, capiva la politica e le classi
Stalin non lo leggeva, ma capiva le persone in carne e ossa
di Aleksandr Solženicyn (La Stampa, 06.12.2018)
Incredibile, ma sembrava proprio che in un anno la rivoluzione si fosse realizzata pienamente. Aspettarselo sul serio era impossibile, eppure era accaduto! Quel pagliaccio di Trockij auspicava anche una rivoluzione mondiale, non voleva la pace di Brest-Litovsk, e pure Lenin ci credeva... oh, intellettuali sognatori! Bisognava essere degli asini per credere a una rivoluzione europea; erano vissuti tanto in Europa, eppure non avevano capito niente. Stalin c’era stato solo una volta, di passaggio, e aveva capito tutto. Bisognava farsi il segno della croce se era riuscita la nostra, di rivoluzione. E starsene buoni. A ragionare. Stalin si guardava intorno con sguardo disincantato e obiettivo. E rifletteva. Capiva chiaramente che una rivoluzione importante come quella poteva essere rovinata da simili parolai. Solo lui, Stalin, l’avrebbe indirizzata nel modo giusto. In tutta onestà, e in tutta coscienza, era lui l’unica autentica guida. Si paragonava in modo realistico a quegli smorfiosi, quei farfalloni, e vedeva chiaramente la propria superiorità nella vita, la loro fragilità, la propria stabilità. A distinguerlo da tutti loro era la capacità di capire le persone. Le capiva là dove si congiungevano alla terra, alla base, le capiva in quella parte senza la quale non potevano reggersi, non potevano stare in piedi, e quello che c’era più in alto, quello che fingevano di essere, quello che ostentavano, era una sovrastruttura, non contava nulla.
Lenin, in effetti, volava alto come un’aquila, sapeva stupire: in una notte aveva tirato fuori lo slogan «Terra ai contadini!» (poi da lì vedremo) e in un giorno aveva escogitato la pace di Brest-Litovsk (non solo per un russo, persino per un georgiano sarebbe stato un dolore cedere metà della Russia ai tedeschi, ma per lui non lo era!). Per non parlare poi della Nep, la politica più scaltra di tutte: Lenin non aveva vergogna di inventare simili manovre. La cosa più grande di tutte in Lenin, superstraordinaria, era che teneva saldo il potere reale solo nelle sue mani. Cambiavano gli slogan, cambiavano i temi di discussione, cambiavano gli alleati e gli avversari, ma il pieno potere restava esclusivamente nelle sue mani!
Era un uomo, però, sul quale non si poteva davvero contare, la sua politica economica gli avrebbe portato un sacco di guai, ci si sarebbe impantanato. Stalin sentiva perfettamente la fragilità di Lenin, la sua impazienza, cui si aggiungeva una pessima capacità di comprendere le persone, se non una totale incapacità. (Ne aveva avuto la prova personalmente: quale che fosse il lato di sé che Stalin desiderava mostrargli, Lenin solo quello vedeva.) Quell’uomo era inadatto al losco corpo a corpo della vera politica.
Stalin si sentiva più fermo e saldo di Lenin, proprio com’e vero che i 66° di latitudine di Turuchansk sono maggiori dei 54° di Šušenskoe. Che cosa aveva sperimentato quell’erudito teorico nella vita? Non aveva alle spalle un basso ceto, l’umiliazione, la miseria, la carestia: anche se non ricchissimo, restava pur sempre un possidente. Da esiliato non era tornato in patria nemmeno una volta, un esule esemplare! Una prigione vera non l’aveva mai vista, e nemmeno la vera Russia aveva visto: in quattordici anni di emigrazione si era limitato a bighellonare. Dei suoi scritti Stalin ne aveva letti non più della metà, era convinto di non poterne ricavare molto. (Be’, c’erano anche definizioni straordinarie. Per esempio: «Che cos’è una dittatura? Un governo illimitato non arginato dalle leggi». Stalin aveva scritto a margine: «Bene!»).
Se Lenin avesse potuto contare su una mente davvero razionale, fin da subito avrebbe voluto vicino Stalin più di tutti gli altri, e avrebbe detto: «Aiutami tu! Capisco la politica, le classi, ma le persone in carne e ossa non le capisco affatto!». Invece lui non aveva trovato niente di meglio che mandare Stalin a requisire il grano in un angolo sperduto della Russia. Stalin era l’uomo di cui avrebbe avuto più bisogno a Mosca, e lui lo mandava a Caricyn...
Tre diversi «Lenin» nella tempesta dell’«intellighenzia»
Gor’kij. Il racconto di come uno scrittore cruciale conobbe e si scontrò con un cruciale politico e statista: Marco Caratozzolo studia e compara le versioni ’24, ’27, ’31 di Lenin, un uomo, Sellerio
di Giorgio Fabre (il manifesto, 18.11.2018)
Fa impressione leggere, in questo momento, il libro su Lenin scritto da Gor’kij. Questa è un’epoca in cui vengono ormai lette e pubblicate biografie sofisticate e piene di documenti di tutti i tipi, soprattutto sull’Urss: per i leader russi bastano quelle uscite da pochissimo sullo stesso Lenin, di Victor Sebestyen per Rizzoli, e, ricca di rilevante documentazione, su Stalin di Oleg Clevnjuk (Mondadori). Eppure la biografia su Lenin scritta da Gor’kij resta una guida letteraria e storica che si impone come genere diverso. Non risulta che ci sia stato qualcosa di simile nella stessa cultura mondiale: forse la celebre biografia del dottor Johnson scritta da James Boswell. Forse quella, tutto sommato esile, del 1923-’24, di Anatolij Lunacarskij sullo stesso Lenin.
Quella di Gor’kij ha caratteri suoi ma è davvero un capolavoro dell’analisi storica di un periodo di cui, in fondo, ancor oggi non sappiamo tutto. È il racconto di come un cruciale letterato e anche politico, conobbe, si scontrò e anche attaccò un cruciale politico e statista. Dopo la versione che ne ha fornita qualche tempo fa l’editore Castelvecchi, ristampando la vecchissima traduzione di Ignazio Ambrogio (ma si riferiva soltanto alla versione del 1931), ora esce la biografia completa: Maksim Gor’kij, Lenin, un uomo. E vengono confrontate tra loro le edizioni che lo scrittore russo forse più celebre del Novecento pubblicò nel ’24, dopo la morte del capo comunista, ritoccò tre anni dopo e rifece nel ’31.
L’ha edita la Sellerio («La memoria», pp. 164, euro 13,00) e l’ha curata uno dei nostri migliori russisti, Marco Caratozzolo, che ha tirato fuori e accostato le tre versioni, indicandone, con straordinaria abilità, le rispettive modifiche, aggiunte, eliminazioni e spiegandone i vari motivi. È uno studio di grande rilevanza, senza precedenti direi in nessun paese, neanche in Russia; e forse meriterebbe una traduzione perfino in russo.
Delle tre versioni, il testo cruciale è quello del 1927, che costituisce l’asse portante del libro e in parte corresse quello del ’24, quando Lenin era appena scomparso. Anche l’edizione del ’31 resta però rilevante, perché Gor’kij cercò di modificarvi la versione precedente: il vero capo era cambiato ed era Stalin, e il grande scrittore, che pure continuava a vivere nell’Italia fascista, manteneva un solido e prudente rapporto col proprio paese. Per esempio il racconto dei giudizi di Lenin su Trotzki veniva modificato. Ma non era solo un testo da far accettare al nuovo vožd, al nuovo capo: era un ripensamento della valutazione e del giudizio dello stesso biografo.
Perché il rapporto tra Gor’kij e Lenin non fu tranquillo né sempre affettuoso (ma talvolta sì). Nei testi si vede bene, e per questo sono affascinanti. Caratozzolo ha aggiunto anche brani di articoli che lo stesso Gor’kij pubblicò allo scoppio della Rivoluzione. Durissimi. Uno solo del 7 novembre 1917: «Lenin, Trockij e i loro compagni di strada si sono già intossicati con il putrido veleno del potere, cosa che si riflette nel loro vergognoso atteggiamento verso la libertà di parola, della persona e verso tutti quei diritti per la cui conquista si è battuta la democrazia».
Lo scrittore vide Lenin per la prima volta a San Pietroburgo nel novembre 1905, a un incontro in un giornale bolscevico e poi a una riunione del Comitato Centrale del partito socialdemocratico russo. Già sapevano uno dell’altro da diverso tempo. Ma Gor’kij era entrato allora nel partito di Lenin, e quelli non furono grandi rapporti. Lo scrittore, già famoso, era diffidente, e lo rimase a lungo. Lenin meno, perché il celebre Gor’kij poteva essere uno strumento prezioso per lui e il partito. Ma due anni dopo, a Londra, al nuovo Congresso del partito, Gor’kij cambiò atteggiamento e il capo dei bolscevichi divenne per lui un vero punto di riferimento.
Ma anche Lenin poco dopo, quando Gor’kij per la prima volta andò a vivere per un po’ di tempo a Capri, cambiò il suo, di atteggiamento, e partì all’attacco. Nell’isola lo scrittore aveva invitato, oltre al leader bolscevico, degli amici progressisti e russi come Bogdanov, che aprirono la cosiddetta «scuola di Capri», un gruppo di intellettuali attratti dall’inserimento della religione nella normale vita culturale. «Combriccola di letterati», se ne uscì Lenin; e su Gor’kij, ricordò che a Capri egli lo aveva «ammonito e rimproverato per i suoi errori politici».
Dopo non molto, nel ’17 partirono gli attacchi inversi di Gor’kij a Lenin, per la violenza che aveva attraversato la Rivoluzione, origine di grandi stragi. Eppure i rapporti rimasero buoni. Ma lo scrittore insisteva con la sua diffidenza verso la politica. Lo riassunse nella biografia del ’27: Lenin «era un politico. Usava alla perfezione quella linearità dello sguardo, ormai rifinita e molto chiara, che è indispensabile al capitano di una gigantesca nave come è la greve Russia contadina. Io ho un rifiuto fisiologico della politica e sono un marxista molto dubbioso, perché credo poco nella ragione della masse in generale».
Si affermarono così i rapporti personali, soprattutto dopo che Lenin nel ’18 venne ferito dall’attentato della Kaplan; ma anche la diffidenza di Gor’kij verso la politica bolscevica imposta dal leader. Lo scrittore soprattutto tentò di salvare l’«intellighenzia» russa, che in quel periodo entrava invece, proprio per ispirazione di Lenin, nella tempesta distruttiva del bolscevismo, che privilegiava solo operai e contadini. Era la stessa posizione dell’altro bolscevico cruciale e biografo di Lenin, Lunacarskij. Ma si noti: proprio per difendere l’«intellighenzia», Stalin (in fondo più abile del padre del bolscevismo) negli anni trenta fece nominate Gor’kij capo dell’Unione scrittori. E lui finì per guidare un gruppo intellettuale che ormai dipendeva del tutto dal Partito.
Ottobre russo, una partita a scacchi tra terra e cielo
Letture. «Proletkult»: il romanzo distopico dei Wu Ming sulla Rivoluzione, vista da un «marxista marziano» come Bogdanov e da una giovane aliena
di Girolamo De Michele (il manifesto, 06.11.2018)
Esistono diverse foto che ritraggono Lenin e Bogdanov sfidarsi a scacchi a Capri, nel 1908, alla presenza di Gor’kij, Lunacarskij e altri. Una partita che avrebbe potuto essere - ma non fu - il suggello alla ricomposizione delle divisioni della fazione bolscevica. E che, stando al racconto che ne fanno i Wu Ming nel 14 capitolo di Proletkult, Lenin perse per eccesso di leninismo: per lui la realtà era un dato oggettivo, e la sua conoscenza un atto meccanico e passivo come lo scatto di una fotografia. Già all’epoca una réclame della Kodak diceva: «tu schiacci il pulsante, il resto lo facciamo noi». Il gioco degli scacchi consiste invece nel «vedere lo scacco matto prima dell’avversario, soggettivamente, e poi manovrare per renderlo oggettivo»: qualcosa di molto più affine alla filosofia di Bogdanov. Per il quale la conoscenza è più simile al montaggio di un film, nel quale la stessa scena acquista diversi significati a seconda del suo inserimento.
NON ERA ANCORA ARRIVATO Antonioni a mostrare, con Blow up, che anche la fotografia ha ben poco di oggettivo e passivo. Eppure, nove anni dopo, Lenin fu capace di dare scacco matto allo zar con una mossa che rendeva oggettiva una prefigurazione soggettiva: mentre Bogdanov sosteneva, in nome di una concezione evoluzionistica della rivoluzione, l’appoggio al governo Kerenskij - rimaneva insomma fermo alla fotografia statica della situazione. La rivoluzione è una partita a scacchi? Forse: di certo, in entrambi i giochi agonistici ciò che conta è lo sviluppo futuro: ma anche, e soprattutto, il presente che rende possibile quel futuro. Che lo rende reale - ma al tempo stesso, che nel realizzarlo recide alcuni dei suoi possibili.
DOVEVANO, I WU MING, abbandonare il romanzo storico per narrare la Rivoluzione d’Ottobre: per essere liberi di farlo senza rischiare la caduta nel tribunale della ragione. Narrare la rivoluzione da un duplice punto di vista straniante: quello di Alexandr Bogdanov, «marxista marziano» scomunicato due volte da Lenin, né bolscevico né menscevico, imprigionato dalla Gpu (la dittatura del proletariato non può concedersi l’habeas corpus), scienziato, scrittore di fantascienza, terrorista - un uomo in fuga, come capita di trovarne nei romanzi dei Wu Ming; e quello di Denni, ragazza aliena proveniente dal pianeta Nacun narrato da Bogdanov nel romanzo Stella rossa, ovvero giovane aliena che si è rifugiata in un delirio allucinatorio fondato sulla lettura di quel romanzo. Come dire, l’Usbek di Montesquieu e il Candido di Sciascia nello stesso romanzo, a intrecciare discussioni sulla rivoluzione: ne valeva la pena?
Sì, se si considera che si sono visti posti peggiori. Sì, se, con le parole di Alekandra Kollontaj, si considerano le conquiste delle donne ottenute prendendo il potere: «e anche se il risultato che ottieni non è il meglio che ti aspettavi, lo devi difendere. Se non sei disposto a farlo, tanto vale che non ci provi nemmeno».
PROVARCI, e magari riuscirci, non significa però scattare una fotografia, e fermarsi lì: la vera rivoluzione è quella che accade dentro le teste, e le teste non cambia nello stesso modo. Essere capaci di fare a meno del Piccolo Padre che è dentro di noi. Per questo una rivoluzione non basta: ce ne vorrebbero cento, non in un solo paese ma in tutto l’universo, come afferma Denni, che forse vede l’Urss dall’astro di Nacun, dove la rivoluzione ha già vinto, e forse è una che è evasa dalla realtà. Evadere dalla realtà può essere sbagliato, se il compito è distruggere la prigione: però per farlo bisogna essere capaci di immaginare un mondo senza prigioni, come Denni. E, aggiungerebbe David Foster Wallace, bisogna essere capaci di vederla, la prigione.
PER QUESTO la rivoluzione non può essere giudicata: deve essere narrata, in un dedalo di storie che passano di bocca in bocca, né mie né tue ma nostre, che sono strumenti per conoscere e cambiare il mondo - che sono poi un’unica cosa. Le stelle sono un buon punto di vista: migliore dell’io, il più lurido dei pronomi. Ne vale la pena: per quanto alto sia il prezzo da pagare, non sarà più alto di quello che l’umanità ha pagato in secoli di schiavitù e sfruttamento.
La rivoluzione ultragalattica
Il romanzo «Proletkult» del collettivo Wu Ming, pubblicato da Einaudi
di Giovanna Ferrara (il manifesto, 06.11.2018)
I dieci anni dopo la rivoluzione del 1917, esplorazione di un sogno comune, amarezza di una realtà che non regge al progetto, storia di un dissenso nella frazione bolcesvica, nato ai tempi dell’esilio del 1905, e incarnatosi, dopo la presa del palazzo d’inverno, nel gruppo Proletkult, cui il collettivo Wu Ming dedica un importante romanzo (Proletkult, Einaudi, pp.333, 18,50 euro).
A CONTENDERSI il significato stesso dell’evento-rivoluzione Lenin e Bogdanov. Comuni ai due le mosse iniziali, una rapina colossale per finanziare gli esuli e mantenere acceso il motore dell’insurrezione. Scrivere articoli in una dacia in Finlandia, vita in comune e poi le divisioni.
Lenin non tollerava le speculazioni di Empiriomonismo, dove prima dell’evento veniva la costruzione di una coscienza dell’evento, cui aggiungere il sigillo dato da una scienza dell’organizzazione universale, la tectologhia: processo di organizzazione del dato che dal caos impianta il soggetto collettivo nella dolcezza dell’armonia. Anche il conflitto, ineliminabile, seguiva la stessa traiettoria. Per Bogdanov questo incarnava l’assioma di Rosa Luxembourg: «il marxismo deve sempre lottare per le nuove verità».
A Capri, ospite dello scrittore Gor’kij, negli anni prima del ’17 assieme a Bogdanov c’era anche Lunacarskij, futuro ministro dell’istruzione. A tutti le scoscese a mare, dove sbattono le onde costiere nate da un blu luminescente, regalarono visioni di moltitudini come branchi di pesci, un mondo indistinguibile dalla bellezza. Fondarono la prima scuola per operai, cui partecipò il meccano-filosofo Voloch, che nel romanzo ispira a Bogdanov il libro Stella Rossa, fantavventura di un pianeta socialista (da poco riedito).
NON SOLO PENSARONO a come costruire una cultura proletaria. Si spinsero più in là, arrivando, per il tramite del metodo nietzschiano della trasvalutazione dei valori, a costruire dio dalla potenza del collettivo, il volto dipinto dalla marxista umanità solidale. Ne parlarono anche dopo la scomunica di Lenin, che usò quell’«opportunismo geniale», per azzerare il dissenso interno: era solo idealismo, contrario al materialismo marxista e, per questo, ostacolo alla catena di eventi che doveva portarli nel cuore della Rivoluzione.
Lenin sapeva che fare, la domanda era finzione: la verità oggettiva non la si costruisce assieme, è solo una tavola imbandita, cui bisogna sedere non per un pranzo di gala ma per rovesciare i rapporti di forze e prenderselo quel tavolo. Ma dopo che la rivoluzione ci fu perché diventarono «un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario»? È Alexandra Kollontaj, di cui il libro ricorda la tenacia nella così lungimirante battaglia della differenza, a rispondere allo smarrimento di un Bogdanov ormai solo scienziato: «Se pure questo evento imperfetto, non era il risultato che ci aspettavamo, ebbene, va comunque difeso».
DALLA STELLA ROSSA arriva Denni, trova il padre del suo pianeta e gli racconta di come il suo sogno si è fatto prassi: alla lotta con l’ambiente si faceva fronte con l’«Interplanetarismo», nessun confine né terrestre né stellare. «Mamma» e «papà» non erano altro che aggettivi, perché dopo i tre anni si vive tutti assieme. Poiché il linguaggio fissa i concetti «se si parla della vita come fosse una cosa non si potrà rispettarla». Niente padroni, perché le gerarchie sono scomparse nella testa delle persone.
I lavoratori si dirigevano da soli, per avere più tempo e minore specializzazione. Intanto Proletkult, proiezione in terra del «marxismo marziano», finiva con Bogdanov, che applicando alla scienza il suo comunitarismo, sperimentava uno spericolato incrocio di trasfusioni, convinto che il sangue delle persone andasse mischiato per creare un grande noi, vittorioso persino sulla morte.
La scrittura dei Wu Ming riempie la storia di pensieri segreti su come uscire dall’isolamento senza compromettersi con le proprie ortodossie, come non stingersi nella malattia del reducismo. Una dialettica che continua a tracimare dall’esperienza di chi sogna che il pianeta socialista sia proprio questo mondo. E siccome nella testa delle persone torna sempre la tentazione del dominio, forse davvero bisogna capire che «di rivoluzioni non ne basta una, ce ne vogliono cento».
C’era una volta un paradosso... *
Il governo m5s-lega e il barbiere di Lenin
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto, 03.11.2018)
Secondo Silvio Berlusconi, il governo gialloverde è “il più sbilanciato a sinistra della storia del Paese”. Poiché però il leader di Forza Italia è notoriamente ossessionato dai comunisti, che secondo lui sono insediati in ogni luogo e responsabili di ogni male, la sua opinione non va presa troppo seriamente. Ma può fornire lo spunto per ricercare analogie tra ciò che è successo a Palazzo Chigi dopo il 1° giugno 2018, con il governo del cambiamento italiano, e ciò che è accaduto allo Smolnij e al Cremlino dopo il 7 novembre 1917, con il governo rivoluzionario russo.
Lasciando da parte le opinioni ideologiche, grillo-leghiste da un lato e marxiste-leniniste dall’altro, concentriamoci sui fatti concreti, a cominciare dall’atteggiamento pauperista e semiascetico che i partiti pentastellato e bolscevico hanno imposto ai propri vertici e proposto ai propri militanti. Ad esempio, gli scontrini dei rimborsi spese dei parlamentari 5S della scorsa legislatura e i viaggi in economy dei nuovi ministri richiamano lo stile di vita modesto adottato da Lenin, che si accontentava di vivere insieme alla moglie e alla sorella in quattro sole stanze al Cremlino, e attendeva pazientemente in coda il proprio turno per passare dal barbiere.
Anche l’astio verso i tecnici e il sospetto nei confronti delle loro “manine”, uniti alle minacce e alle promesse di epurazione politica nei ministeri, trovano un’antecedente molto più drastico e radicale nell’esecuzione degli alti comandi zaristi e nel licenziamento degli ufficiali dell’esercito, che furono sostituiti da una nuova gerarchia tratta dalle truppe rivoluzionarie, di scarsa preparazione ed esperienza militare, ma di fidata fede bolscevica.
Quanto alla rimozione del pessimismo dei fatti e alla sua sostituzione con l’ottimismo della volontà, sintetizzate nel rifiuto del nuovo governo grillo-leghista di farsi condizionare dai mercati e dai trattati europei, e nel proposito di abolire la povertà per decreto, impallidiscono di fronte all’analogo rifiuto del nuovo governo bolscevico di farsi condizionare dalla situazione bellica al fronte e dai trattati internazionali, e al proposito di uscire unilateralmente dalla guerra con il decreto sulla Pace, approvato già l’8 novembre 1917.
In fondo non è sorprendente trovare simili analogie, in governi che si propongono programmaticamente di apportare cambiamenti radicali nello status quo del proprio Paese, e quelli fatti non sono che esempi paradigmatici delle novità da introdurre nel comportamento individuale dei nuovi leader, nell’organizzazione interna del nuovo Stato e nelle relazioni esterne con i Paesi stranieri. Novità che devono essere introdotte, per mantenere le promesse di cambiamento, ma che non necessariamente si possono introdurre.
Al proposito, la storia sovietica lascia poche illusioni al riguardo. Ad esempio, fare la fila dal barbiere poteva essere naturale per un politico disoccupato in esilio, ma diventava velleitario e sciocco per un capo di governo occupato a condurre una Guerra civile che impegnava tutto il suo tempo e richiedeva tutte le sue energie. Infatti, poco dopo Lenin capì che era meglio fare meno gesti simbolici, ma meglio il proprio lavoro. Anche aggirare e rimuovere i tecnici nell’esercito non si rivelò essere una grande idea, visti i risultati ottenuti al fronte. Infatti, durante la Guerra civile non si poterono risuscitare gli alti comandi zaristi fucilati, ma si dovettero reintegrare di corsa gli ufficiali rimossi, pur mettendo al loro fianco dei commissari del popolo a controllare le loro “ditine” posate sui grilletti. Perché con i dilettanti si stava perdendo la guerra, mentre per vincerla servirono i professionisti. Quanto ai condizionamenti esterni, si possono anche rimuovere nella propria testa, ma non per questo essi svaniscono miracolosamente.
Il decreto della Pace portò in poche settimane a un ultimatum tedesco e alla capitolazione di Brest-Litovsk, con la perdita di un terzo dell’impero russo: a sconfiggere in seguito la Germania non fu certo l’unilateralismo sovietico, ma l’azione comune degli Alleati.
I sovietici impararono presto la lezione che i proclami utopici e le azioni dimostrative sono malattie infantili del cambiamento, e li sostituirono con un realismo e un pragmatismo che permisero loro di sopravvivere per settant’anni, tanti quanti la nostra Repubblica.
Se il governo giallo-verde vuole provocare un cambiamento serio e desidera durare a lungo, dovrà imparare anch’esso presto la stessa lezione e vaccinarsi velocemente contro le stesse malattie infantili.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
RIFARE UNO STATO?! BASTA UN NOTAIO, UN FUNZIONIARIO DEL MINISTERO DELL’INTERNO E LA REGISTRAZIONE DI UN SIMBOLO DI PARTITO CON IL NOME DEL POPOLO!!! A futura memoria, note e appunti sul caso
Federico La Sala
PLATONE E NOI, OGGI. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!.... *
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 22.10.2018)
Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano.
Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (...) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei centri motori - insieme ai «casi» Marx e Heidegger - del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno.
A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire».
Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone - superamento della proprietà, della famiglia etc. - sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come - diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione - in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché - afferma - quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo - dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) - Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E).
Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che - dopo reiterate sconfitte - «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti.
E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano.
Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj - il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante - diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Tolstoj, "Guerra e pace" - e le leggi della storia *
“L’intelligenza umana non può comprendere la continuità assoluta del movimento. Le leggi di qualunque movimento non diventano comprensibili per l’uomo che al patto di esaminarne separatamente le unità di cui è composto. Ma al tempo stesso, dal fatto che si isolano arbitrariamente e si esaminano a parte le unità inseparabili del movimento continuo, derivano la maggior parte degli errori umani. Una branca moderna della matematica, avendo raggiunto l’arte di trattare con l’infinitamente piccolo, può ora fornire soluzioni in altri problemi di moto più complessi, che sembravano essere insolubili.
Questa branca moderna della matematica, ignota agli antichi, trattando i problemi di moto ammette il concetto dell’infinitamente piccolo, e si conforma così alla condizione principale del moto (continuità assoluta) e in questo modo corregge l’inevitabile errore che la mente umana non può evitare quando tratta con elementi separati del moto invece che esaminare il moto continuo.
Nell’esame delle leggi del movimento storico avviene assolutamente la stessa cosa. Il movimento dell’umanità, prodotto da una quantità innumerevole di volontà umane, si compie senza interruzione. La comprensione di queste leggi è lo scopo della storia. Ma per capire le leggi del movimento continuo, la ragione umana ammette unità arbitrarie separate. Il primo procedimento storico consiste nel prendere arbitrariamente una serie degli avvenimenti ininterrotti ed esaminarla separatamente dagli altri, quando non c’è e non può esserci inizio di alcun avvenimento. Il secondo procedimento consiste nell’esaminare gli atti di un uomo, imperatore o condottiero, come la risultante delle volizioni degli uomini, mentre questa risultante non si esprime mai nell’attività di un personaggio storico preso isolatamente.
La scienza storica, evolvendosi, accetta sempre unità via via più piccole per le sue ricerche e, con questo, cerca di avvicinarsi alla verità. Ma per quanto piccole siano le unità di cui la storia si serve, il fatto di separare l’unità, di ammettere il cominciamento di un fenomeno qualunque, di vedere espresse dell’attività di un solo personaggio le volizioni di tutti gli uomini, questo fatto stesso, dico, lo contamina d’errore. Sotto il minimo sforzo della critica, ogni conclusione della storia cade in polvere e non lascia niente dietro di Sé, e ciò per il solo fatto che la critica sceglie per misura di osservazione un’unità più grande o più piccola - ciò che è suo diritto, poiché l’unità storica è sempre arbitraria.
Soltanto prendendo per nostra osservazione l’unità infinitamente piccola - le differenziali della storia, vale a dire le aspirazioni uniformi degli uomini - e acquistando l’arte di integrare (unire le somme di questi infinitamente piccoli) possiamo sperare di comprendere le leggi della storia”.
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Lev Tolstoj, Guerra e pace, traduzione di A. S. Gladkov e A. M. Osimo, U. Mursia & C., Milano, 1956
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Ricordi un po’ instabili
Gorkij su Lenin, un ritratto accomodato
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 01.10.2018)
«È convinto di avere ragione e non può tollerare che qualcuno gli rovini il lavoro. La sua sete di potere scaturisce dalla immane convinzione che i suoi princìpi siano giusti e forse dalla incapacità - assai utile per un politico - di mettersi dal punto di vista dell’avversario». Queste parole tratte dal profilo di Lenin di Lunaciarskij (Pietrograd, 1919) non figurano più nell’edizione moscovita del 1923 (ripubblicata nel 1924), presa a base, mezzo secolo fa, dall’edizione inglese - e subito dopo italiana (1967) - dei Profili di rivoluzionari dello stesso Anatolij Lunaciarskij («il più intellettuale dei bolscevichi, il più bolscevico degli intellettuali», come venne definito). Riscritture di questo genere sono un fenomeno da studiare con la lente della filologia e la consapevolezza storica dei fatti.
Un caso di straordinario interesse lo ha dissotterrato con perizia e brillantezza, uno dei nostri più apprezzati russologi, Marco Caratozzolo.
Si tratta del profilo di Lenin (Maksim Gorkij, Lenin, un uomo, Sellerio, pagine 176, e 13), scritto di getto da Maksim Gorkij poco dopo la morte di Lenin e poi ripensato, limato, accomodato nella successiva - più nota - edizione (1931): quella approdata nel XXII volume dell’edizione russa, e, di lì, nel XV volume in traduzione italiana delle Opere di Gorkij (Editori Riuniti, 1963).
La stesura originaria era apparsa nel 1924; con modifiche lo scritto fu riedito a Berlino nel 1927. L’edizione del 1931 è quella «sovietica». Per capire la qualità delle modifiche apportate ci si può riferire al breve paragrafo su Trotsky. È un elogio breve e vivace: (Lenin) diede un pugno sul tavolo e disse: «Ecco, che mi mostrino un altro uomo capace in un anno di mettere su un esercito esemplare, e poi anche di conquistarsi il rispetto degli esperti militari. Quest’uomo noi ce l’abbiamo! E faremo miracoli!».
Nel 1931 il paragrafo viene modificato nella sostanza e diventa: «(Lenin disse) Non è uno di noi! È con noi, ma non è uno di noi. È ambizioso. C’è in lui qualcosa di negativo, gli viene da Lassalle» (pp. 152-153 dell’apparato della traduzione selleriana).
L’accusa «non è dei nostri» ha un sapore rituale, non fu infrequente nell’atmosfera kominternista. Nelle note di diario di Dimitrov si legge di un dialogo tra Dolores Ibarruri e José Diaz (entrambi esuli dopo la vittoria franchista) presente Dimitrov, il 19 luglio 1941 a proposito di Togliatti (Ercoli): «Diaz da noi. Esprime sfiducia politica in Ercoli. Anche Dolores dichiara di non avere piena fiducia in Ercoli. Sente in lui qualcosa di estraneo, di non nostro, anche se non può dare a questo un fondamento concreto» (Diario, a cura di Silvio Pons).
I cambiamenti apportati da Gorkij investono ovviamente soprattutto giudizi e notizie su Lenin. Un altro paragrafo che ha subito un capovolgimento totale è il 7: «Non può esserci un vožd (capo) che, a un livello o a un altro, non sia un tiranno. Probabilmente all’epoca di Lenin sono state uccise più persone che all’epoca di Wat Tyler, di Thomas Müntzer, di Garibaldi». Tutta questa parte nell’edizione del 1931 scompare.
L’aspetto che più colpisce, in questa storia, è che questi cambiamenti li hanno apportati gli autori stessi. Trattandosi di «ricordi» - in questo caso risalenti al 1919-20 - e di valutazioni conseguenti, è impressionante come essi vengano consapevolmente modificati dieci anni dopo. La memoria è, com’è noto, creativa, ma quella che deve (o vuole) tener conto delle opportunità politiche è anche insidiosa. E induce a porsi la domanda: cos’è un testimone oculare?
RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ. Al di là dell’Egoismo etico e dello Stato etico .... *
La questione Stirner
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06 maggio 2016)
Quando a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento in Germania uscì “L’Unico e la sua proprietà” di Max Stirner, pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, la censura non intervenne. I funzionari che dovevano vigilare sulla circolazione delle idee ritennero l’opera incomprensibile, frutto di una mente folle, malata o qualcosa del genere; decisero perciò di non bloccarla, perché nessuna persona normale avrebbe potuto ricevere danno da questo professore di un istituto femminile di 39 anni. Il quale, dopo l’uscita del libro, avrebbe perso il posto.
L’”Unico” non passò inosservato. Marx ed Engels ne scrissero subito, anche se le loro pagine saranno pubblicate soltanto all’inizio del Novecento; la cerchia degli amici che con Stirner avevano seguito le lezioni di Hegel, non tacque; per le correnti anarchiche divenne ben presto un riferimento. Negli Stati Uniti Warren, in Francia Proudhon, in Russia Bakunin e poi Kropotkin, per ricordare alcuni classici riferimenti di questa corrente, tennero necessariamente conto di codeste pagine.
Un’opera che a volte si ripete ma che è sempre dominata da una tensione senza eguali. Si apre e si chiude con un’affermazione forte: “Io ho fondato la mia causa su nulla!”. E non è difficile incontrare frasi come questa: “Io che al pari di Dio e dell’umanità sono il nulla di ogni altro, io che sono il mio tutto, io che sono l’unico!”.
Max Stirner distrugge la filosofia del suo tempo, esalta l’egoismo (“nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso!”), sbugiarda il potere, attacca ogni religione, propone qualcosa di irrealizzabile ma tutti i grandi lo mediteranno, a cominciare da Dostoevskij e Nietzsche.
E oggi? Un libro, curato da Marcello Montalto e pubblicato da Mimesis con il titolo “La questione Stirner” (pp. 224, euro 20), raccoglie i primi critici dell’”Unico”. Si tratta di preziosi e poco noti testi ottocenteschi scritti da Moses Hess (un precursore del sionismo), Feuerbach, Kuno Fischer, Szeliga (ovvero Franz Zychlin von Zychlinski, che diventerà generale dell’armata prussiana) e le repliche dello stesso Stirner: mostrano tutti i fraintendimenti a cui fu soggetta l’opera e il suo autore.
Montalto ricorda nell’ampia e documentata introduzione che Stirner era tutt’altro che astratto dalla realtà e ignaro dei meccanismi sociali ed economici (critica di Hess), soprattutto rammenta un’intuizione di Carl Schmitt che in un giudizio lapidario e tagliente affermò: “Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è più oggetto di pensiero”.
Che aggiungere? Fichte, il gran sacerdote dell’io, era morto da tempo e anche i dogmi della filosofia idealistica tedesca ormai avevano lasciato i cuori e abitavano soltanto nelle biblioteche. Stirner mostrò il mondo attuale: egoista, senza ideali, pronto a diventare nulla.
Egoismo etico. Sullo sfondo del problema dell’emancipazione umana, ritorno di interesse per il filosofo tedesco in un’epoca in cui la questione dell’individuo è ridiventata centrale
Quell’asociale di Stirner
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 oRE, Domenica, 19.08.2018)
Alla morte di Hegel, come si sa, la sua scuola si spezzò in due tronconi : da un lato, la destra; dall’altro la sinistra, della quale fecero parte, con autonomia e originalità di pensiero, personalità di primissimo piano come Bruno Bauer, Carlo Marx, Max Stirner, autori di opere che hanno lasciato un solco profondo nella storia del pensiero del XIX secolo. Escono, in generale, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, ed hanno in genere al centro la critica della religione , come principio di una riflessione generale sulla condizione umana. L’Unico di Stirner viene pubblicato nel 1844 (sul frontespizio si legge però 1845); la Tromba dell’ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum, di Bauer, nel 1841, mentre al 1843 risale un’altra sua opera fondamentale, La questione ebraica che, a sua volta, è oggetto di una immediata , e dura, discussione da parte di Marx, il quale pur riconoscendo il valore dell’avversario, ne critica a fondo le tesi, alla luce delle posizioni messe a fuoco in un’altra opera essenziale di questo periodo, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Qui Marx utilizza, e sviluppa sul piano politico, la critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia hegeliana mettendo al centro della sua analisi il rovesciamento tra soggetto e predicato operato, a suo giudizio, da Hegel.
L ’essenza del cristianesimo, come si intitola il libro di Feuerbach, esce nel 1841 - lo stesso anno del testo di Bauer - ed ebbe uno straordinario successo. Come dice Federico Engels, molti anni dopo, leggendolo diventammo tutti “feuerbachiani”, rievocando il senso di liberazione che il testo di Feuerbach aveva generato in lui come in tutta la sua generazione.
Del resto, basterebbe leggere la Critica della filosofia del diritto hegeliano o le pagine finali della Questione ebraica di Marx per comprendere in presa diretta quanto Feuerbach abbia inciso a fondo sui principali esponenti della sinistra
hegeliana, a cominciare proprio da Marx: la critica della politica e della concezione della figura del legislatore di Rousseau che chiude la Questione ebraica e la critica della filosofia hegeliana attuata nella Critica hanno come riferimento principale da un lato la concezione dell’uomo come “ente generico”; dall’altro, la critica del rovesciamento tra soggetto e predicato- entrambi architravi del pensiero di Feuerbach. Come a suo tempo dimostrò Cesare Luporini in un saggio memorabile, è Feuerbach l’interlocutore principale di Marx in questi testi.
In tutti questi pensatori - da Bauer a Marx a Stirner - il problema centrale è quello della emancipazione umana, con un conseguente spostamento della critica dal piano della religione a quello della politica. E questo sia per motivi sia teorici che di ordine storico: nel 1840 era asceso al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, figura complessa e contraddittoria, che attutì, non valutandone le conseguenze, la censura sulla stampa, come conferma la nascita , in questo periodo, di riviste importanti ma nettamente critiche dell’esistente, quale la Reinische Zeitung, pubblicata a Colonia dal gennaio 1842 al marzo 1843, alla quale collaborano sia Marx che Stirner. Sono, questi, anni di straordinarie battaglie in Germania per l’emancipazione religiosa, politica e sociale.
Se il problema è quello della emancipazione si tratta però di comprendere di quale emancipazione abbia bisogno l’uomo, ed è qui che le strade divergono in modo radicale : per Bauer, nella Questione ebraica, l’emancipazione non deve essere dell’ebreo in quanto ebreo, ma dell’uomo in quanto uomo, e deve essere essenzialmente di tipo politico; per Marx l’emancipazione deve essere di ordine sociale: è solo agendo su questo piano che l’uomo può effettivamente emanciparsi, oltrepassando la separazione moderna tra stato e società civile, tra borghese e cittadino; per Stirner occorre andare al di là sia della politica e dello stato che della società, dello stesso concetto dei “diritti umani”- tutti fantasmi, spettri,astrattezze di cui liberarsi - assumendo come principio della liberazione il concetto dell’Unico, quale archetipo di una nuova concezione dell’uomo e del suo destino. A Stirner non interessano né la comunità, né la società: gli altri sono mezzi e strumenti da adoperare come proprietà del singolo.
Rispetto a interlocutori del calibro di Marx e Bauer, Stirner, stravolgendo in chiave individualistica “egoistica” e nihililistica il concetto moderno di potere, e connettendolo a quello di proprietà, si situa in un punto di vista totalmente altro, suscitando per la radicalità delle sue posizioni l’interesse di pensatori come Nietzsche, che ne riprende il concetto di volontà di potenza. Anche se - come ha scritto Roberto Calasso - è quella di Stirner «la vera “filosofia del martello” , che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare , perché troppo irrimediabilmente educato...».
«Si dice di Dio:”Nessun nome ti nomina”. Ciò vale anche per me: nessun concetto mi esprime, niente di ciò che di indica come mia essenza mi esaurisce: sono soltanto nomi..» . L’Unico di Stirner agisce solo per sè, situandosi al di fuori di qualunque apparato costruttivo: l’ Unico, se lo ritiene opportuno, può associarsi , ma il concetto di associazione è del tutto diverso da quello di stato, il quale non ha alcuna legittimità e al quale Stirner è totalmente avverso . Come è avverso al nazionalismo, al liberalismo, allo statalismo, al comunismo, ed anche all’umanismo....In Stirner il nihilismo si realizza in maniera compiuta :«Io - scrive, riprendendo un verso di Goethe - ho fondato la mia causa sul nulla..».
Si capisce che Marx nella Ideologia tedesca abbia sottoposto a una critica radicale il pensiero di San Max, come lo chiama : sono posizioni polari. Non è concepibile per Marx l’opposizione tra individuo e società, l’uomo si determina nei rapporti sociali. E si capisce anche perché Stirner abbia avuto fortuna presso posizioni di tipo anarco-individualistiche, ed anche perché il suo pensiero susciti particolare interesse in un tempo come il nostro nel quale sono in crisi tutti i principi “moderni“ contro cui Stirner conduce una lotta senza quartiere, e quella dell’individuo è ridiventata una questione centrale.
In questo senso, le sue pagine sono singolarmente attuali e possono essere rilette in modo nuovo, al di fuori di vecchi e nuovi pregiudizi . È stato perciò assai opportuno ripubblicare, con testo tedesco a fronte, questo grande libro nella “bella” e “fedele” traduzione di Sossio Giametta, che vi ha premesso anche una originale e limpidissima Introduzione. Stirner ha messo a fuoco aspetti della condizione umana che oggi, mentre un intero mondo si dissolve, appaiono in piena luce. Molto più di quanto sia apparso in passato. Come diceva il vecchio Hegel, è la fine che illumina il principio e il suo sviluppo.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. " Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Appunti e note
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.... *
Discussione
L. Steffens, Moses in Red. The Revolt of Israel as a Typical Revolution Dorrance and Company 1926
di Guido Bartolucci ( Lo Sguardo - rivista di filosofia, "Rivoluzione: un secolo dopo", N. 25, 2017.)
Non sempre gli anniversari sono occasioni per pubblicare e recensire nuovi libri, sono anche momenti utili per riscoprire vecchi autori e testi. È il caso di Lincoln Steffens (1866-1936) e del suo Moses in red, un libro unico nel suo genere, perché fu il primo a riconoscere nel racconto biblico dell’Esodo, le tracce di una ‘teoria’ della rivoluzione che aveva trovato la sua realizzazione negli eventi russi del 1917. «Il libro che ho appena finito», scriverà all’amico Gilbert Roe nel 1925, «è la storia di Mosè raccontata alla luce della rivoluzione, un classico esempio di come la rivolta di un popolo avviene. Jehova simbolizza la natura; Mosè, il riformatore e il leader; il faraone, il re o il padrone capitalista; Aronne l’oratore e gli ebrei sono il popolo. Il parallelo con la Russia o ogni altra rivoluzione è strettissimo».
Quando il libro uscì, nel 1926, Steffens era stato in Russia già tre volte, spettatore degli eventi e intervistatore dei principali protagonisti, come Lenin: una prima, nell’estate del 1917, dopo la rivoluzione di aprile; la seconda, nel 1919 a seguito della missione di pace guidata da William C. Bullitt; la terza nel 1923, durante il periodo della NEP. Fino a quel momento egli era stato quello che negli Stati Uniti si chiamava un muckrakers, cioè un giornalista d’inchiesta che aveva aperto il fronte, nella società americana, della aperta critica al sistema liberale. Ma Steffens non era rimasto chiuso nei confini statunitensi, aveva allargato i suoi orizzonti intellettuali in Europa alla fine dell’800, studiando teoria sociale e psicologia, e assistendo ai primi tentativi di costruire una scienza dell’organizzazione e del comportamento umano. Egli era convinto che la società fosse soggetta a leggi che potevano essere studiate come quelle che regolavano la natura.
Se in un primo momento della sua carriera Steffens aveva creduto nella possibilità che bastasse rendere evidente il legame corruttivo tra politica e affari per riformare la società, dopo l’incontro con la rivoluzione bolscevica si fece strada in lui l’idea che l’unico modo per trasformare la comunità degli uomini era la rivoluzione, che in Messico, in cui era stato tra il 1915 e il 1916 aveva avuto un suo primo momento, ma che in Russia aveva trovato la sua piena realizzazione.
Il libro dell’ Esodo agli occhi di Steffens, rappresenta la possibilità di raccontare a un pubblico che conosce bene gli avvenimenti narrati nel testo veterotestamentario, le tappe attraverso le quali si è sviluppata la rivoluzione russa e le ragioni che hanno mosso i suoi leader a specifiche azioni e politiche.Dopo una lunga introduzione e un breve capitolo preliminare, Steffens articola la sua trattazione in nove parti, che seguono gli avvenimenti narrati nel libro dell’ Esodo.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura di Mosè e alla sua trasformazione in leader del popolo oppresso (pp. 51-59). Gli ebrei erano schiavi in Egitto dopo le politiche di Giuseppe, che avevano provocato l’odio degli egiziani verso il suo popolo. Fu necessario, dunque, che sorgesse un leader capace di guidare gli ebrei fuori dalla schiavitù e quest’uomo si impose perché poteva contare su una formazione unica. Scrive Steffens: «Mosè, nato schiavo, divenne un aristocratico nei sentimenti, nel comportamento e nell’aspetto. Egli era libero, impulsivo, fiero, diretto, audace, e senza legge. Egli si liberò della psicologia servile del suo popolo, ma non perse il senso della razza, che, nel suo caso, era la coscienza di classe. E fu l’unione di questi due tratti, la nobiltà egiziana e la lealtà alla razza che fecero di lui un grande leader ebreo dei lavoratori». (p. 57).
Dopo la formazione del leader, Steffens descrive la strategia, che passa attraverso la cospirazione contro il padrone, il faraone. Mosè si comporta come un classico agitatore politico, un leader dei lavoratori: invece di pretendere qualcosa d’irrealizzabile e difficilmente ottenibile, si limita a domandare un piccolo miglioramento, apparentemente facilmente realizzabile. È Dio, che per il giornalista americano rappresenta la natura, che propone a Mosè di andare dal faraone e chiedere di lasciare andare il popolo nel deserto per tre giorni per organizzare un sacrificio in onore della propria divinità. I leader, scrive Steffens, muovono i lavoratori a chiedere una minima riduzione dell’orario o un piccolo aumento della paga, ma in realtà «gli agitatori vogliono tutto ciò che il lavoratore produce» (p. 63). Allo stesso modo, prima della grande rivoluzione, nel 1907 il popolo fu spinto a chiedere allo zar una modesta partecipazione in un governo costituzionale.
La ragione di tutto ciò è evidente, scrive Steffens: uno dei problemi centrali per un movimento rivoluzionario è convincere e muovere le masse. Le piccole richieste a cui le autorità normalmente rispondono con un netto rifiuto e una violenta reazione hanno la funzione di innescare la rivolta: il primo esempio di questa strategia fu la cospirazione organizzata da Dio e Mosè. Steffens scrive: «I rivoluzionari che hanno studiato la storia, dichiarano che i rivoluzionari non possono fare una rivoluzione, solo il governo e i faraoni possono provocare un tale stato di crisi, e così accadde nella rivoluzione russa» (p. 88).
Ma uno degli aspetti più misteriosi del racconto dell’Esodo, continua il giornalista americano, è la ragione per cui gli ebrei, una volta usciti dall’Egitto non entrarono direttamente nella terra promessa, ma vagarono per quarant’anni nel deserto; la stessa cosa accadde anche in Russia: il popolo non ‘entrò’ direttamente nel nuovo stato comunista, ma si fermò, si voltò indietro, vagò per il deserto del dubbio e del compromesso. I leader della rivoluzione, infatti, sostennero che era necessario un cambio radicale nelle persone, perché la vecchia generazione che aveva conosciuto gli antichi mali dello zar doveva necessariamente essere superata.L’attraversamento del deserto, dunque, contiene al suo interno i passaggi più drammatici della fase rivoluzionaria. Il primo è la strage di parte degli adoratori del vitello d’oro ai piedi del monte Oreb: «c’è una certa legge naturale che governa i terrori. Quando una grande massa di persone ha paura, è incline a diventare crudelissima; quando una nazione sta organizzando un nuovo sistema di leggi e costumi, ecco che si ha un terrore rosso; quando sta difendendo un vecchio sistema ecco che c’è un terrore bianco. Ciò non è bene, ma è chiaramente naturale, e dunque è divino, come Mosè sapeva, o pensava» (p. 108).
Questo momento conferma che il popolo uscito dalla schiavitù, dimostrando di essere ancora legato alla vita in Egitto ha ancora paura e non accetta facilmente i cambiamenti imposti da Dio. È per questa ragione che dopo la strage si afferma la dittatura di Mosè, attraverso la quale si impongono le nuove leggi. Ma non è sufficiente, la paura continua a stringere il popolo, tanto che, una volta che gli esploratori mandati da Mosè sono tornati dalla terra promessa e hanno raccontato ai capi tribù che il paese è occupato da popolazioni bellicose, la maggior parte degli ebrei si rifiuta di entrare e pretende di tornare in Egitto. È in questo momento che l’ultimo insegnamento esodico si rivela ai rivoluzionari: la vecchia generazione deve morire affinché la nuova sia pronta a costruire la nuova nazione.
Sta in questa ragione l’errare degli ebrei per quarant’anni nel deserto, un momento che fu un periodo di transizione e di selezione della nuova generazione. La dittatura di Mosè e il terrore rosso sono necessari per la rivoluzione e per la costruzione di un nuovo popolo, capace, una volta attraversato il Giordano, di fondare una nuova nazione. È questo, secondo Steffens, l’insegnamento dell’ Esodo e che ne fa nelle sue varie tappe, una storia esemplare per tutti i rivoluzionari. Ma non basta: il libro di Mosè ha anche un’altra funzione. Sfeffens fu un ‘pragmatista’, il suo interesse per la rivoluzione doveva passare necessariamente per l’esperienza, sia messicana, che russa, ma al fine di costruire una teoria universale.
L’esaltazione delle politiche leniniste, della dittatura e del terrore, della rivoluzione bolscevica in cui egli riconosceva il futuro del genere umano, non certificano un’adesione acritica al comunismo. Il suo scopo era di indagare e isolare i modi attraverso i quali la rivoluzione operava, come esempio di una nuova strategia di configurazione del potere all’interno della società. Le ‘leggi’ che egli aveva riconosciuto nella storia russa erano ora riproposte al pubblico attraverso un racconto che era alla base di molte delle narrazioni fondative della società americana, come dimostrava, per esempio, l’uscita in quegli anni (1923) del film The Ten Comandments di Charles B. DeMille. Il libro dunque era sì un’operazione propagandistica, ma non esclusivamente rivolta all’esaltazione del bolscevismo (o almeno non solo), ma piuttosto a riconoscere nella rivoluzione l’unica strada per cambiare radicalmente la società americana.
Il libro, pubblicato nel 1926, non ebbe alcun successo e non circolò per il paese, anche se Lincoln Steffens non cessò mai di propagandare nei suoi articoli e nelle sue conferenze tenute in ogni angolo degli Stati Uniti la forza della rivoluzione russa. Ma nonostante la scarsa circolazione, il testo di Steffens conquistò lungo i decenni un ruolo di rilievo nelle riflessioni politiche attorno al testo biblico.
Il primo a riattivare le riflessioni del giornalista americano fu Aaron Wildavsky nel suo The Nursing Father: Moses as a Politica Leader, (1984), ma il testo riacquistò un ruolo centrale nel 1985, quando uscì Exodus and rivolution di Michael Walzer. Proprio questo lavoro parte dalla riflessione di Steffens, ne amplia l’esemplarità storica, riconoscendo il ruolo del racconto esodico per la rivoluzione inglese, e per l’analisi della tradizione politica ebraica.
Il binomio Esodo e rivoluzione, dunque, è diventato un classico della riflessione politica, anche se declinato in prospettive diverse, e ha trovato in Steffens un interprete di rara efficacia interpretativa. «I have seen the future, and it works», scriverà Steffens nel 1919 al ritorno dal secondo viaggio in Russia, e attraverso la storia di Mosè e del popolo ebraico voleva accompagnare il popolo americano proprio nel futuro che aveva pensato di intravedere durante la rivoluzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Il cambio di passo che scopre il valore dei movimenti
Era Francesco. Cinque anni di Bergoglio
di Alessandro Santagata (il manifesto, 13.03.2018)
Scrive Michel Foucault che il «potere pastorale» della Chiesa è stato uno dei dispositivi sui quali si è definita la «governamentalità» occidentale. Comunemente si dà per scontato che a partire dal XVIII secolo, sotto i colpi della secolarizzazione, la Chiesa abbia sostanzialmente perso tale prerogativa, anche in conseguenza dell’erosione del potere temporale.
Una possibile chiave di lettura del pontificato di papa Francesco comporta una messa in discussione di tale considerazione cronologica.
La preoccupazione per le difficoltà di Bergoglio nell’operare le riforme strutturali è il leit-motiv dei settori del cattolicesimo progressista, giustamente in ansia per ciò che succederà dopo la fine del pontificato.
Se però si adotta una prospettiva più larga (ed esterna), il problema della riforma delle strutture appare invece ridimensionarsi. In cosa consiste oggi il potere pastorale della Chiesa? È ormai evidente che il piano della compenetrazione e poi della contesa con lo Stato moderno non è più il principale.
Senza contrasto con quella che è da sempre la funzione principale della cura delle anime, da tempo la partita più importante della Chiesa sembra giocarsi altrove, nel campo dei discorsi, delle identità e delle appartenenze.
Nel corso degli ultimi 50 anni, dal Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha riscoperto nella missionarietà la propria funzione principale.
Dopo il Concilio si è assistito però a una sorta di normalizzazione delle aperture alla società contemporanea, che si è tradotta in una campagna di contrasto alla secolarizzazione, in larga parte incentrata sulla sessualità e volta a ricomporre una comunità frammentata. Rispetto a tutto questo, la discontinuità introdotta dal pontificato di Bergoglio è dirompente e riguarda la ridefinizione della pastoralità e dei suoi contenuti.
Nessuna rottura con la tradizione, ma un chiaro cambio di passo che si è manifestato nella sua radicalità in occasione degli incontri mondiali con i movimenti popolari tra il 2014 e il 2016.
Il manifesto ha diffuso i discorsi tenuti dal papa in queste occasioni, con l’idea che la contaminazione che si è venuta a creare in quella sede con altre culture politiche (comprese quelle della sinistra radicale) non possa essere sottovalutata.
È stato qualcosa di inedito nella storia: precari, famiglie senza tetto, contadini senza terra riuniti sotto la regia del Vaticano per discutere di diritti e lotte sociali; una rete di centinaia di organizzazioni internazionali che ha elaborato piattaforme politiche fondate sulle esperienze concrete di movimento, dalle battaglie contro la privatizzazione dell’acqua alla difesa della sovranità alimentare, dall’introduzione di un salario sociale universale alla garanzia dell’inviolabilità della casa familiare (contro gli sgomberi).
Nell’ultimo incontro papa Francesco ha esortato i movimenti a non farsi «incasellare e corrompere» in un sistema di welfare che tende ad addomesticare il conflitto sociale e a non avere paura di entrare «nella Politica con la P maiuscola», pur senza assumere la forma dei partiti politici. Sono affermazioni che evidentemente forzano i confini della dottrina sociale e che sono da interpretare all’interno di un processo complesso - e non privo di retaggi della cristianità - che vuole ripensare gli assetti della presenza cristiana nella società.
La riforma della Chiesa incontra resistenze perché sta liberando energie a lungo sopite. In un momento storico in cui le istituzioni del ‘900 stanno collassando e, contrariamente a quanto previsto negli anni ‘70, il religioso sta assumendo un nuovo rilievo nella sfera pubblica, la trasformazione assume una valenza che non riguarda solo i cattolici e va ben oltre il nodo delle strutture.
Ratzinger, basta stolto pregiudizio contro Bergoglio *
Lettera del Papa emerito per il V anno di pontificato di Francesco. Per luogo comune "lui sarebbe uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico teologia"
"Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano di oggi". Lo dice Benedetto XVI in una lettera per il quinto anno di pontificato di Bergoglio resa nota a margine di un incontro dal Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Viganò.
I volumi della collana "La Teologia di Papa Francesco" presentati oggi "mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento", dice nel messaggio il Papa emerito Benedetto XVI.
* ANSA, 12.03.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Fedi e mondo
Cinque anni di Francesco
di Marcello Neri (Il Mulino, 12 marzo 2018)
Trasformare un’istituzione complessa e articolata in diversi livelli come è la Chiesa cattolica non è impresa facile. Di sicuro non basta lo slancio profetico dell’uomo solo al comando, che ben sa che per portare a compimento tale impresa si deve tirare dietro tutto un popolo e farlo sentire come a casa sua in una nuova configurazione della comunità ecclesiale. Una riforma costituzionale della Chiesa, quella a cui aspira Francesco, può riuscire solo sulla base di un cambio di mentalità da parte dei credenti (di cui fanno parte tutti, dai cardinali di curia alla vecchietta che ogni giorno va in chiesa per dire il suo rosario). Se altre istituzioni possono immaginarsi di rinnovarsi solo attraverso procedure giuridiche, la Chiesa cattolica sa bene di non poterselo permettere.
In questo Francesco rappresenta una consapevolezza inedita per la Chiesa stessa. Ed è probabile che ciò rappresenti lo snodo cruciale dell’opposizione, non irrilevante nei numeri e sicuramente ben attrezzata nei mezzi, che si muove contro di lui nei mille rivoli del cattolicesimo occidentale. Perché il baricentro di questa forza che si contrappone al suo immaginario di una Chiesa a-venire è prevalentemente raccolto e distribuito fra Europa e Stati Uniti. Grandi forze del cattolicesimo moderno che fu, ma già adesso marginali rispetto alla geografia del cattolicesimo globale.
Inoltre, una compiuta riforma della Chiesa cattolica non avviene, non è mai avvenuta, nell’arco di una sola generazione. I processi che essa richiede sono come quelli dell’Esodo, saranno altri ad entrare nella configurazione ecclesiale auspicata. La fede, anche quella istituzionale, deve imparare la pazienza del contadino, di chi semina e apprende a stare nell’attesa di un tempo che sfugge alla sua possibilità di controllo e manipolazione. È per riferimento a quest’arco esteso delle generazioni credenti che Francesco deve mettere mano, nel tempo che resta, ad alcune scelte istituzionali strategiche. Scelte che permettano alla virtuosità di un traghettamento della Chiesa cattolica in una nuova epoca di continuare a sussistere dopo di lui. Questo ce lo possiamo attendere, è qualcosa che Francesco deve a tutta la comunità ecclesiale come comunità di generazioni (anche quelle che non ci sono più e quelle che non sono ancora). Pretendere di più sarebbe stolto, vorrebbe dire non conoscere né le procedure né la dimensione spirituale di questo strano corpo che è la Chiesa cattolica.
Corpo che Francesco sta cercando di educare a un’estroversione da lungo tempo dimenticata. Facendo perno sulle sue intuizioni, non sempre facili da gestire, Francesco ha comunque restituito dignità e rilievo alla diplomazia vaticana nell’ambito delle innumerevoli situazioni di criticità del nostro tempo. Cercando così di risolvere l’anacronismo di un’istituzione che nasce continuamente dal Vangelo ed è, al tempo stesso, uno stato nella comunità delle nazioni. In questo si lascia guidare da un doppio principio: una concentrazione sui margini del mondo, delle condizioni di vita, delle situazioni umane (anche dentro la Chiesa), da un lato, e un’attenzione notevole al vasto continente asiatico nel suo complesso, dall’altro - al centro della quale va a iscriversi anche la strategia di un dialogo con la Cina.
In un mondo che sembra essere sfuggito di mano alle istituzioni preposte al suo governo, con una sorta di liberi tutti che produce non solo nuovi processi di identità etnica e nazionalista, ma mette a repentaglio l’ambiente stesso del vivere umano, Francesco appare essere l’unica figura disponibile ad assumersi la responsabilità di indicare la direzione verso cui orientare la barra del timone del nostro vivere-insieme a livello globale. Poi si può essere più o meno d’accordo con lui, di sicuro ci sta provando.
Lo fa non attraverso gesti simbolici, ma andando di persona sui luoghi dell’umano vivere - segnato dalle ferite del nostro tempo e dalla nostra cura narcisistica e miope che non ci permette di alzare lo sguardo oltre noi stessi. Lampedusa, a Cuba insieme al Patriarca di Mosca Cirillo, Repubblica Centroafricana con l’apertura anticipata dell’Anno giubilare della misericordia a Bangui, Myanmar, il progetto di viaggio con il primate della Chiesa anglicana Welby nel Sud Sudan... sono solo alcune delle tappe di questo recarsi nella realtà del mondo, tra i dimenticati della storia. Semplicemente per essere davvero lì in mezzo a tutti noi.
Con il desiderio di non dimenticare nessuno, neanche quelli che tra i suoi gli oppongono la più strenua resistenza. In un gesto di intercessione davanti a Dio che raccoglie tutti, nessuno escluso. Non è il gesto devozionale di un’anima bella e un po’ ingenua, ma quello di un «capo» che si fa carico dell’intera umanità nella stagione di uno spaesamento globale che nessun altro sembra essere disposto a cercare di governare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Rilanciare la chiesa in Cina l’obiettivo di papa Francesco
Il Pontefice sta chiudendo l’annosa questione dei cattolici di Pechino aperta con l’inizio della Repubblica popolare. Entro l’anno l’accordo
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 10. 03.2018)
Francesco è stato percepito, cinque anni fa, come un Papa carismatico, esterno però alla diplomazia vaticana (considerata non così decisiva ai tempi di Benedetto XVI, tanto che i governi s’interrogavano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano). Invece gli anni di Francesco hanno visto un’intensa attività diplomatica, come nel 2014 con la mediazione nelle trattative tra Cuba e Stati Uniti. Ora Francesco sta per chiudere l’annosa questione dei cattolici in Cina, aperta dall’avvento della Repubblica popolare, disinteressata al rapporto con il Vaticano (nel 1951 fu espulso il nunzio Riberi, spostatosi poi a Taiwan presso il presidente Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti). La crisi, dopo intense pressioni governative su cattolici e vescovi, cominciò soprattutto con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica nel 1957, espressione del controllo governativo sulla Chiesa.
La Chiesa cinese si divise allora in due segmenti: i cattolici «ufficiali» e quelli «sotterranei», entrambi con propri vescovi. La vicenda ha un precedente nella Rivoluzione francese, quando la Costituzione civile del clero nel 1791 dette origine alla Chiesa ufficiale, respinta dai cattolici fedeli a Roma. La questione fu chiusa nel 1801 dal concordato tra Bonaparte e Pio VII, che depose tutti i vescovi (patriottici e fedeli al Papa), per avviare una nuova procedura di nomina. La divisione in Francia durò dieci anni. In Cina, la Chiesa è divisa da settant’anni in due mondi, seppur con sovrapposizioni specie negli ultimi anni.
Se si guarda la storia della Chiesa, sorprendono i tanti decenni passati per arrivare a ricomporre i cattolici in Cina. Molto dipende da Pechino, ma non solo. Per il Papato, risolvere gli scismi è una priorità, come s’è visto dal grande impegno con i tradizionalisti di Lefèvre. Il protrarsi delle divisioni crea fossati duri da superare e soprattutto rende la Chiesa inabile a compiere la sua missione, come mostra la relativa crescita dei cattolici in Cina, pur in un terreno di mobilità religiosa. I cattolici sono oggi appena attorno ai dieci milioni, mentre gli evangelici (specie neoprotestanti) sarebbero circa settanta milioni con una grande crescita.
La questione sino-vaticana ha suscitato un dibattito quasi superiore alle dimensioni del problema. È considerata l’ultimo dossier dell’Ostpolitik, iniziata dal cardinal Casaroli. Infatti tornano le critiche fatte allora al Vaticano: svendere il martirio dei cristiani e accettare un ambiguo controllo statale. Così ha scritto George Weigel, biografo di Wojtyla, criticando la «cedevolezza» vaticana all’unisono con tante voci anglosassoni. L’accordo è percepito come smarcamento della Santa Sede dall’Occidente e dagli Stati Uniti, come faceva notare Massimo Franco. Si chiedono alla Chiesa posizioni che però i Paesi occidentali non hanno con la Cina.
Il disallineamento dall’Occidente è avvenuto pure con Giovanni Paolo II, Papa delle ragioni del Sud, ma pure dagli intensi legami (anche politici) con l’Europa e gli Stati Uniti. Che il cattolicesimo non debba essere un’agenzia religiosa dell’Occidente è linea costante dei Papi del Novecento, anche se non sempre di facile attuazione. È una realtà, prima che politica, inerente la missione della Chiesa tra culture, civiltà e regimi diversi. Non sorprende, allora, che Francesco cerchi un accordo con Pechino per dare stabilità alla Chiesa e rilanciarla, anche se un negoziato ha sempre un prezzo.
La questione ha un valore simbolico. Suscita aspre critiche tra cattolici (spiccano quelle del card. Zen di Hong Kong), severe sull’approccio «diplomatico» alla questione cattolica in Cina: vi si legge una continuità tra Casaroli e l’attuale Segretario di Stato, Parolin. Ma la diplomazia di Parolin in un mondo multipolare è per forza diversa da quella della Guerra fredda, anche se resta lo strumento negoziale (a fini pastorali però).
Si parla d’intesa sino-vaticana dal 1980, quando la via fu aperta dal cardinal Etchegaray (salutato a Pechino come «un grande funzionario di una grande religione occidentale»). Allora i cinesi - diceva il cardinale - offrivano condizioni migliori di oggi. Il negoziato procedette a salti. Si bloccò con la canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000, festa della Repubblica popolare, vista dai cinesi come atto ostile. Poi nel 2009 ci fu un’altra interruzione, fino alla ripresa del negoziato nel 2013 con Francesco.
Quasi quarant’anni d’incontri e crisi insegnano che, con il tempo, il quadro negoziale s’indurisce da parte cinese. Anche perché la Cina di Xi Jinping ha un’altra dimensione rispetto al passato.
È significativo però che la Cina tratti su affari religiosi interni con un soggetto non nazionale. Mai l’ha fatto l’Urss. Mao Tse Dong, nel 1962, rispose male a Giancarlo Pajetta, che intercedeva per i cattolici: «ognuno ha gli dei del cielo del proprio paese».
L’accordo (forse entro il 2018) è una novità, ma non una clamorosa «Conciliazione» tra il Papa e Xi. Non riguarderà i rapporti diplomatici. Verterà soprattutto sul meccanismo di nomina dei vescovi (ci sarà un rappresentante vaticano non fisso a Pechino per studiare le nomine). L’intesa non verrà sbandierata, ma sarà il primo passo di un negoziato su altre problematiche. Il fatto decisivo è che consentirà, con la formazione di un unico episcopato in Cina, la ricomposizione della Chiesa, essenziale per rilanciare la presenza cattolica in un Paese che cambia. Questo è, per ora, il «modesto «obiettivo di papa Francesco.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA", LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Australia, migliaia di bambini abusati da sacerdoti e insegnanti cattolici
Minori. Conclusa l’inchiesta della Royal commission. Il premier Turnbull: «Tragedia nazionale»*
«Decine di migliaia di bambini sono stati abusati sessualmente in molte istituzioni australiane, non sapremo mai il vero numero. Non si tratta di poche mele marce, le principali istituzioni della società hanno seriamente fallito». È la terribile conclusione a cui è giunta la Royal commission, istituita nel 2013 dal governo laburista di Julia Gillard per fare luce sugli abusi sessuali in Australia, dopo un’inchiesta quinquennale, articolata in 8.013 sessioni private e 57 udienze pubbliche, durante la quale sono state raccolte le testimonianze di oltre 8000 vittime, con più di 1200 testimoni ascoltati in 440 giorni. «La più alta forma di inchiesta pubblica australiana», la definisce la Bbc.
In 17 volumi che ha aggiunto 189 raccomandazioni alle 220 che erano già state rese pubbliche e che saranno ora esaminate dai legislatori, la relazione invita la Chiesa cattolica a rivedere le sue regole sul celibato. Perché secondo il rapporto la maggior parte degli abusi sono stati commessi - tra il 1950 e il 2015 - da ministri religiosi e insegnanti scolastici delle istituzioni cristiane: 4.400 abusi verificati solo nella chiesa cattolica, 1.115 denunce raccolte da quella anglicana, 1000 presunti molestatori nascosti dalla chiesa dei Testimoni di Geova.
Ma «non è un problema del passato», ha avvisato il presidente della commissione McClellan, perché dai sistemi di protezione dell’infanzia alla giustizia civile e la polizia, «molte istituzioni hanno tradito i nostri bambini». Il premier australiano, Malcolm Turnbull, ringraziando «i membri della commissione e coloro che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie», ha parlato di «tragedia nazionale».
Mentre Denis Hart, l’arcivescovo di Melbourne, ha dichiarato di aver preso «molto seriamente» i risultati dell’inchiesta, ha ribadito le «scuse incondizionate per questa sofferenza e il nostro impegno a garantire giustizia per le persone colpite», ma ha respinto la raccomandazione della commissione di rendere obbligatorie le denunce di molestie raccolte durante le confessioni religiose: «Voglio osservare la legge della terra - ha detto - ma la pena per ogni sacerdote che spezza il sigillo della confessione è la scomunica». Il Papa tace.
*il manifesto, 16.12.2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. PAPA RATZINGER A SYDNEY, PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU’: "IL RE E’ NUDO"!!! NON SOLO DEVE CHIEDERE PERDONO ALL’AUSTRALIA E ALL’ITALIA E AL "PADRE NOSTRO", MA CAMBIARE STILE DI VITA!!! Gesù, che non era schizofrenico, non si travestiva da imperatore.
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
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Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PIANETA TERRA, 2017 - RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
Scalfari intervista Francesco: "Il mio grido al G20 sui migranti"
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 08 luglio 2017)
GIOVEDÌ scorso, cioè l’altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L’ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".
Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d’acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l’ho interrotto dicendo: è un po’ che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz’altro.
Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all’altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.
Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell’intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l’affratel-lamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l’amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.
Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.
Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l’amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.
Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".
Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?
"Il pericolo riguarda l’immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D’altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l’invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".
Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?
"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l’Europa. Il colonialismo partì dall’Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l’Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l’obiettivo principale dei popoli migratori".
Anch’io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l’ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.
"È vero, l’ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l’Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".
Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.
"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".
Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest’ultima cosa non l’avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".
Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".
Grazie, comincio dall’Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L’Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.
"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch’io, su sollecitazione dell’Ordine dei Gesuiti. "All’epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".
La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?
"Diciamo che c’è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l’immanenza e confermare la trascendenza".
Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?
"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".
Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c’è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l’aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell’ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.
"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento".
Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un’immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni".
Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c’è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D’altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c’è una linea che dall’orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.
"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l’ha fatto, mi piace moltissimo".
Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.
La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L’aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.
Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un’Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.
Un Papa come questo non l’abbiamo mai avuto.
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima. Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia.
Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
LEGGI ANCHE: Fatima, mistero e profezia del Novecento
LEGGI ANCHE: Il Terzo Segreto di Fatima: dati certi, dubbi e retroscena
* www.lastampa.it, 10.05.2017.
Lenin e gli scritti su Tolstoj
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 24 febbraio 2017)
Chiunque abbia visitato la casa dove morì Lenin a Gorki, non lontano da Mosca, rimane colpito osservando i libri della sua biblioteca qui ricostruita in anni recenti. In particolare, in un armadio che il rivoluzionario aveva fatto trasportare dal suo studio del Cremlino, vi sono le opere dei suoi tre scrittori di riferimento: Dostoevskij, Cechov, Tolstoj.
A dire il vero Lenin adorava soprattutto Cechov, la cui immagine figura anche sul calendario appeso nella stanza dove morì. Dostoevskij lo meditava, forse per le tensioni religiose che sapeva e sa evocare, così come l’avrebbe studiato attentamente l’ex seminarista Stalin; anzi, nella biblioteca di quest’ultimo è conservata una copia de “I Fratelli Karamazov” con note e sottolineature (tranne nelle pagine del Grande Inquisitore).
Tolstoj, invece, conte e pacifista, uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, Lenin lo amava considerandolo “specchio della Rivoluzione russa”. In tal caso, si deve intendere quella del 1905, che spiega molte cose della successiva, la più celebre, scoppiata nell’ottobre del 1917.
Lenin, uomo di vaste letture, dedicò a Tolstoj tra il 1908 e il 1911 sei articoli. Apparvero su riviste e quotidiani. Si tratta di scritti d’occasione, quali gli ottant’anni dell’autore di “Guerra e pace” o la sua scomparsa. Per il futuro rivoluzionario questo scrittore riuscì a comprendere più di altri il desiderio di una società diversa; si era accorto, dopo l’abolizione del 1861 della servitù contadina, che il vecchio giogo si stava trasformando grazie al “capitalismo delle proprietà terriere”.
Scrive Lenin nel novembre 1910: “La sua protesta calorosa, appassionata, a volte impietosamente aspra, contro lo Stato e la Chiesa ufficiale poliziesca, traduce i sentimenti della democrazia contadina primitiva in seno alla quale secoli di servitù, di arbitrio e di brigantaggio amministrativo, di gesuitismo ecclesiastico, di menzogna e di truffe hanno accumulato montagne di collera e di odio”.
Rileggendo queste parole si avverte anche l’oratore Lenin e con un simile viatico si possono meditare le brevi e dense pagine dei suoi “Scritti su Tolstoj”, ora tradotti e pubblicati, con una introduzione di Roberto Peverelli, da Medusa (pp. 80, euro 9,50). Nell’anno che dovrebbe celebrare il primo centenario della Rivoluzione d’ottobre, questi interventi di Lenin spiegano più di altri scritti qual era lo spirito che permeò uno degli eventi che hanno lasciato profonda traccia nella storia contemporanea. Ha scritto ancora Lenin in “Due tattiche della socialdemocrazia”: “La rivoluzione è la festa degli oppressi e degli sfruttati”.
Quei due libri in attesa di una sacra sentenza
Il processo ai giornalisti in Vaticano ricorda i tribunali sovietici
di Ezio Mauro (la Repubblica, 06.07.2016)
DA una parte la croce, incastonata nel legno che regge gli scranni della Corte. Dall’altra il busto severo di Pio XI, “professore di sacra eloquenza”, che sorveglia l’aula. Sul soffitto, il simbolo sacro delle chiavi di Pietro che normalmente aprono il regno dei cieli, ma oggi possono rinserrare anche la porta del carcere vaticano, perché qui, nel Tribunale della Santa Sede, si stanno celebrando gli ultimi atti del processo Vatileaks per la fuga di notizie riservate dai sacri palazzi.
Sulla panca degli imputati che ha sullo schienale un cordolo in rilievo, in modo che nessuno possa appoggiarsi ma tutti rimangano protesi verso la Corte, siedono due funzionari vaticani (monsignor Lucio Vallejo Balda, segretario della commissione nominata da Papa Francesco per l’indagine sulle finanze vaticane, il suo collaboratore Nicola Maio) e una donna, Francesca Immacolata Chaouqui, membro anche lei della commissione.
Nuzzi e Fittipaldi sono accusati del reato di «associazione criminale» per la rivelazione di notizie e documenti che riguardano interessi fondamentali dello Stato. Con loro, imputati di «concorso» nella divulgazione di documenti, due giornalisti, Emiliano Fittipaldi dell’Espresso e Gianluigi Nuzzi, conduttore televisivo. Ma sarebbe più giusto dire che sul banco degli imputati, nella grande sala al pianterreno del Tribunale, ci sono due libri, portati alla sbarra in mezzo all’Europa malandata e all’Occidente distratto del 2016, anno terzo dell’era Bergoglio.
Quei due libri, frutto di due separate inchieste giornalistiche, hanno in realtà molto poco a che fare con quelli che nelle democrazie vengono comunemente considerati gli «interessi fondamentali» dello Stato. Sia Via Crucis di Nuzzi che Avarizia di Fittipaldi riguardano invece la gestione disinvolta e per nulla trasparente dei fondi del Vaticano e degli istituti collegati alla Santa Sede, dai 70-80 milioni annui dell’obolo di San Pietro che finiscono ai poveri solo in minima parte, secondo la Commissione europea, alla fondazione Bambin Gesù che spende quasi mezzo milione di euro non per l’ospedale infantile ma per ristrutturare l’attico del cardinal Bertone, allo Ior che non dichiara a chi appartenevano quei quattromila conti che sono stati chiusi, e ha ancora oggi misteriosi laici intestatari dei suoi conti, al mercato delle case dei cardinali e all’immensa proprietà immobiliare della Santa Sede, al prezzo della cause di beatificazione dei santi, che arriva anche a 500mila euro per ogni anima venerabile canonizzata. Uno scandalo? Certo. Una materia che per la Curia doveva rimanere coperta, secondo quel culto del segreto avviato in Vaticano da Bonifacio VIII? Probabile. Ma cosa c’entrano la Patria e l’interesse nazionale con la denuncia del malgoverno delle sacre finanze?
In realtà due terrori congiunti pesano su San Pietro da quando sulla cupola della basilica, dove una volta nei mosaici s’innalzava immacolata la fenice, vola alto il corvo. La prima paura riguarda la dimensione dei guai economici della Santa Sede, strettamente legati alla gestione oscura di troppi interessi. La seconda paura è che la mancanza di trasparenza su questa materia favorisca un gioco incrociato di ricatti, vendette e avvertimenti, diventando strumento di lotte di potere interne, amplificate dal clamore profano che gonfia ogni rivelazione all’esterno, rimandandola ingigantita dentro i sacri palazzi: soprattutto in un momento in cui l’opera di rinnovamento di Papa Francesco incontra forti resistenze nella Chiesa. Quando La Curia al completo gli si è presentata davanti per gli auguri di Natale, il 23 dicembre di due anni fa, Francesco ha dato un posto d’onore a queste due “malattie” nelle 15 piaghe che affliggono la Chiesa: il «terrorismo delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi» che trasforma gli uomini in «seminatori di zizzania, simili a Satana» e l’accumulo di beni materiali per profitto mondano, «perché il sudario non ha tasche».
Bergoglio sa che nel suo mandato in conclave c’è il recupero del ruolo della Chiesa consumato attraverso gli scandali, i peccati contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto questo è cresciuta avviluppando il visibile e insidiando l’invisibile della sacralità vaticana fino a deturparne il volto, come ha denunciato lo stesso Ratzinger. Anche la rinuncia di Benedetto XVI è infatti un obbligo testamentario, perché denuncia la fragilità papale davanti al peso di una responsabilità di governo diventata intollerabile, quando manca «il vigore del corpo e dell’animo ».
Il nuovo Papa è dunque consapevole fin dall’apparizione sulla Loggia di essere stato eletto in un rovesciamento geografico del potere curiale, quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani del Palazzo, tanto che appena quattro mesi dopo la sua elezione cerca di frenare il volo dei corvi e i piani dei loro addestratori. Lo fa mettendo mano al codice penale vaticano, in particolare al paragrafo sui “Delitti contro la Patria”, aggiungendo un nuovo articolo, il 116 bis. «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni - dice la norma - Se la condotta ha avuto a oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni».
Quando escono i due libri, l’indagine della Gendarmeria scopre una «squadra operativa» che si è formata proprio nella Prefettura per gli Affari Economici, con l’obiettivo di raccogliere materiali riservati e diffonderli all’estero. Il Promotore di Giustizia, cioè il Pubblico Ministero Vaticano, individua in Balda, Chaouqui e Maio il «sodalizio criminale organizzato col presupposto di una missione da seguire per realizzare la vera volontà del Papa», attraverso la raccolta e la diffusione di notizie e documenti sensibili. Con loro, finiscono a giudizio i due giornalisti, prima con l’ipotesi di minacce sui funzionari vaticani per avere i materiali, poi col sospetto di pressioni, infine semplicemente - e incredibilmente - soltanto per aver manifestato un interesse professionale alle notizie che dal Vaticano venivano fatte filtrare. Non potendo bloccare i libri (che hanno autori ed editori italiani, e sono tutelati e soggetti alle leggi italiane) si accusano i loro due autori di «concorso» con i tre principali imputati, accusati di «associazione criminale».
Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo, ma non esiste la Costituzione, non c’è nemmeno l’articolo 21 che nella nostra Carta tutela la libertà di espressione dei cittadini, in quanto «tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con parole, scritti e ogni altro mezzo di diffusione», mentre «la stampa non può essere oggetto di autorizzazione o censura ». Nel tribunale vaticano, così, lunedì i Promotori di Giustizia Gian Pietro Milano e Roberto Zannotti hanno potuto accusare Nuzzi e Fittipaldi di concorso morale nella divulgazione per «l’impulso psicologico » che con la loro «presenza e disponibilità » ha «contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» nei funzionari vaticani. I Promotori hanno precisato che «chi riceve notizie normalmente non è punibile». Ma hanno aggiunto: «Lo diventa se rafforza il proposito di chi le rivela. I giornalisti sono stati una ragione essenziale per divulgare le notizie». Quindi siamo davanti a questo paradosso: due giornalisti sono portati in Tribunale perché con la loro semplice «presenza e disponibilità » hanno rafforzato la decisione di divulgare le carte da parte di un «sodalizio criminale» già organizzato a tal fine in Vaticano; la pura presenza diventa una colpa; la disponibilità a raccogliere notizie un comportamento da censurare. E il mestiere di giornalista finisce sotto accusa.
Quasi una vendetta per il passato, e un monito per il futuro: qui la libertà di stampa non esiste, fare giornalismo secondo le regole e i comandamenti di ogni democrazia dietro le mura leonine può diventare un reato. E infatti mentre per Fittipaldi il Promotore ha proposto l’assoluzione per insufficienza di prove, per Nuzzi ha chiesto la condanna a un anno, con sospensione condizionale. Per Chaouqui 3 anni e nove mesi, per Balda tre anni e un mese, per Maio un anno e nove mesi.
Così finisce lo strano processo in cui gli imputati non hanno potuto avere copia del fascicolo che li riguarda, per la difesa hanno dovuto obbligatoriamente scegliere due nomi nell’elenco presso la Santa Sede degli avvocati rotali, mentre monsignor Balda ha negato in aula di aver ricevuto qualsiasi minaccia dai giornalisti, nessuno ha presentato una querela per affermazioni non veritiere nei due libri, le fonti erano istituzionali. È l’ultimo paradosso di un processo in uno Stato straniero che vede coinvolti tutti cittadini italiani (giudici, Promotori e avvocati compresi) salvo il monsignore segretario della Prefettura per gli Affari Economici. Tanto che Nuzzi ha chiesto al premier Renzi «perché il governo italiano tace, visto che sono intervenute organizzazioni internazionali a tutela della libertà di stampa».
Resta una domanda: e il Papa? Francesco ha parlato due volte di Vatileaks. La prima all’Angelus dell’8 novembre 2015, festa di San Goffredo: «So che molti di voi sono turbati dalle notizie che riguardano documenti riservati della Santa Sede sottratti e pubblicati. Voglio dirvi che rubare questi documenti è un reato, è un atto deplorevole che non aiuta. E voglio assicurarvi che questo fatto non mi distoglie dal lavoro di riforma che sto portando avanti». La seconda il 30 novembre 2015, Sant’Andrea, rispondendo ai giornalisti: «La stampa libera laica e confessionale ma professionale (perché le notizie non devono essere manipolate) per me è importante, perché la denuncia delle ingiustizie e della corruzione è un bel lavoro. Ma la stampa deve dire tutto, senza cadere nei tre peccati più comuni: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione».
In questo caso non c’è calunnia, non c’è diffamazione, non c’è disinformazione. C’è una verità scomoda, che qualcuno dal Vaticano ha voluto far conoscere all’esterno, e che i giornalisti hanno ovviamente pubblicato, verificata la fonte. C’è la fattispecie surreale dell’«impulso psicologico », trasformata in un atto d’accusa. È bastato questo al direttore di Radio Maria, Padre Livio Fanzaga, per condannare con grande anticipo Nuzzi e Fittipaldi, il 6 novembre 2015: «Quelli che mi scandalizzano sono i giuda, i giornalisti dalla lingua e dalla penna biforcuta mi fanno nauseare. Mi fa fatica pregare per loro, perché io li impiccherei, quasi quasi».
Alla fine, restano due libri sugli scranni di un Tribunale, come nel processo sovietico ai romanzi di Sinjavsky e Daniel nel 1966, quando gli imputati provarono invano a spiegare in aula che a un libro non si possono applicare categorie giuridiche. Due libri, che aspettano ormai la sacra sentenza.
I volumi di Fittipaldi e Nuzzi sono frutto di inchieste giornalistiche: nessuno ha presentato querela per affermazioni non veritiere Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo ma non esiste la Costituzione non c’è nemmeno l’articolo 21 che tutela la libertà di espressione dei cittadini.
Il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949
Scomunica dei comunisti. Un errore da correggere
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 15.02.2016)
Caro Nitoglia,
Un cattolico adulto, come Romano Prodi definì se stesso, le risponderebbe che la Chiesa ha il diritto di essere ciecamente obbedita soltanto quando il suo capo parla ex cathedra; e aggiungerebbe che in ogni altra circostanza il fedele ha il diritto di alzare la sua voce e manifestare, con le dovute forme, il suo dissenso. Un osservatore laico sarebbe per molti aspetti ancora più liberale e riconoscerebbe alla Chiesa il diritto di decidere quali regole applicare ai suoi seguaci, anche quando possono apparire datate e anacronistiche. Ma non potrebbe accettare senza reagire quando la Chiesa interviene in materie che rientrano fra le competenze e le responsabilità dello Stato.
Il caso della scomunica ai comunisti è per l’appunto in questa categoria. Ricordo per i lettori che il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949 affermava:
«a) non essere mai lecito iscriversi ai partiti comunisti o dar loro appoggio, poiché il comunismo è materialista e quindi anticristiano;
b) che è vietato diffondere libri o giornali, i quali sostengono la dottrina e prassi del comunismo materialista ed ateo;
c) che i fedeli, i quali compiono con piena consapevolezza gli atti su proibiti, non possono ricevere i Sacramenti;
d) inoltre che i battezzati, i quali professano, difendono o propagandano consapevolmente la dottrina o prassi comunista, incorrono ipso facto nella scomunica riservata in modo speciale alla Santa Sede, in quanto apostati dalla Fede cattolica (l’apostasia è il passaggio dalla religione cristiana ad un’altra totalmente diversa - nel caso il materialismo ateo - e perciò più grave dell’eresia e scisma, quale sarebbe il passare dal Cattolicesimo al Protestantesimo».
Se questi divieti fossero stati applicati, più di sei milioni di cittadini italiani (i voti comunisti nelle elezioni del 1953 furono 6.121.922) sarebbero stati scomunicati e l’intera società cattolica italiana sarebbe stata implicitamente invitata a considerare la loro partecipazione al voto come nulla e non avvenuta.
Se questo fosse accaduto, avremmo avuto il diritto di considerarci ancora un Paese democratico? Non era necessario essere comunisti per considerare quel decreto una minaccia all’unità nazionale. In quegli anni il comunismo, per le sue teorie e le sue affiliazioni internazionali, rappresentava certamente un rischio e una minaccia. Ma occorreva combatterlo nelle urne e in Parlamento.
Aggiungo, caro Nitoglia, che nell’Italia di allora il decreto del 1949 avrebbe avuto l’effetto, in molti casi, di spezzare famiglie e amicizie. La Chiesa se ne accorse ed ebbe il grande merito di seppellire il decreto sotto una montagna di dubbi e incertezze. Di questo anche un laico deve esserle grato.
Papa Francesco: il 12 febbraio storico incontro con il patrarca di Mosca Kyrill a Cuba
Lombardi, incontro con Kyrill preparato da tempo
di Redazione ANSA *
Il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill si incontreranno a Cuba il 12 febbraio, quando il Papa farà una tappa prima del viaggio in Messico. Lo annunciano congiuntamente Sante Sede e Patriarcato di Mosca, definendolo "storico incontro". I due si incontreranno all’aeroporto di Cuba e rilasceranno anche una dichiarazione comune.
"La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca - si legge nel comunicato congiunto, che è stato letto ai giornalisti da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana - hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, si incontreranno il 12 febbraio. Il loro incontro avrà luogo a Cuba, dove il Papa farà scalo prima del suo viaggio in Messico, e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale. Esso comprenderà un colloquio personale presso l’aeroporto internazionale José Martí dell’Avana e si concluderà con la firma di una dichiarazione comune". "Questo incontro - prosegue la nota - dei Primati della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa russa, preparato da lungo tempo, sarà il primo nella storia e segnerà una tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese. La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca auspicano che sia anche un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Invitano tutti i cristiani a pregare con fervore affinché Dio benedica questo incontro, che possa produrre buoni frutti".
L’ incontro tra il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill è stato "preparato da lungo tempo", afferma il comunicato congiunto Santa Sede-Patriarcato di Mosca, letto da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana. "Sono lieto - ha detto il portavoce - di poter leggere un importante comunicato, lo leggerò in quattro lingue, e ho aspettato le 12,10 perché è congiunto con il patriarcato di Mosca".
La rivoluzione cristiana a Cuba
Il Papa e il Patriarca. Il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa in uno storico incontro oggi all’Avana, luogo "neutro" scelto non certo a caso. Saranno loro due a salvare il mondo da fondamentalismi e turbocapitalismi?
di Franco Cardini (il manifesto, 12.02.2016)
Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: «Gli ho detto: - Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà».
Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, oggi 12 febbraio, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto dell’Avana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola caraibica abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.
Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale - nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa - l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario.
Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo.
Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.
La migliore cucina russa
D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca.
Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malecón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il «Restaurante sovietico» nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa.
A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento.
Si sa per certo che nel maggio scorso Raúl Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi - su richiesta di papa Francesco - il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli Usa, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, gliene aveva riferito.
Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono di speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Ted Cruz e Marco Rubio
Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa bianca - anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton - possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno?
Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e L’Avana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il «ritorno della libertà» faccia sì, come accadde nell’Unione sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale. Grazie a Dio, i «Chicago Boys» sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia...
L’isola di Castro e «della libertà»
È comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese: «Abbiamo scelto l’isola della libertà». Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Non è facile credere casuale la scelta del territorio cubano - per definizione “neutro” - come luogo dell’incontro. È vero: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e dell’Avana, il suo ormai «vecchio amico» Raúl Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.
Ma Cuba non è ancora uscita dal socialismo e rischia di diventar terreno di razzìa per il turbocapitalismo. Questo è il punto. Il presente, lo conosciamo. E il futuro?
Di che cosa dunque, parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa.
Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della «inequità» denunziato dall’enciclica Laudato si’, replicano altri.
Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.
Papa Francesco in Messico, a Cuba storico incontro con il patriarca Kirill
parlato come fratelli, io felice E rivela un retroscena,"ne parlai a Raul Castro già a settembre"
di Fausto Gasparroni *
"Con Kirill è stata una conversazione di fratelli. Abbiamo parlato con tutta franchezza. Sono rimasto felice". Sentir raccontare lo storico colloquio col patriarca di Mosca e di tutte le Russie direttamente dalla voce del Papa: tale la gioia e l’entusiasmo di Francesco per l’avvenuto incontro, che il Pontefice ne ha voluto fare partecipi i giornalisti subito dopo, durante il volo che dall’Avana lo ha portato a Città del Messico.
"Voglio dirvi i miei sentimenti - ha esordito Bergoglio -. Prima di tutto i sentimenti di accoglienza e disponibilità del presidente Raul Castro". Il Papa ha rivelato anche un retroscena della preparazione dell’incontro con Kirill. "Io avevo parlato col presidente Castro di questo incontro l’altra volta (nella sua visita dello scorso settembre, ndr) ed era disposto a fare tutto - ha raccontato -. E lo abbiamo visto: ha preparato tutto per bene. Per questo vorrei ringraziarlo".
"Secondo, col patriarca Kirill, è stata una conversazione di fratelli - ha proseguito -. Punti chiari, che ci preoccupano tutti e due. Ne abbiamo parlato con tutta franchezza. Io mi sono sentito davanti a un fratello. E anche lui mi ha detto lo stesso". "Due vescovi - ha spiegato il Pontefice - che parlano delle situazioni delle loro chiese. Poi della situazione del mondo, delle guerre, guerre che adesso si rischia non essere più tanto ’a pezzi’, ma che coinvolgono il mondo". Poi "della situazione dell’ortodossia, del prossimo sinodo pan-ortodosso".
L’ABBRACCIO TRA FRANCESCO E KIRILL
"Ma io vi dico davvero - ha ribadito il Papa -, io sentivo una gioia interiore, una gioia del Signore. Lui parlava liberamente e anche io parlavo liberamente. Si sentiva la gioia, i traduttori erano bravi, tutti e due". Bergoglio ha confermato che "è stato un colloquio a sei occhi: il patriarca Kirill e io, sua eminenza il metropolita Hilarion e il cardinal Koch, e i due traduttori. Ma con tutta libertà: parlavamo noi due, gli altri facevano qualche battuta". Terzo punto. "Si è fatto un programma di possibili attività in comune - ha annunciato Francesco - perché l’unità si fa camminando. Una volta io ho detto che l’unità si fa nello studio, nella teologia, ma verrà il Signore e noi saremo ancora lì a costruire l’unità". "L’unità si fa camminando - ha ripetuto -, che almeno il Signore ci trovi che stiamo camminando". Dopo le due ore di colloquio, "noi abbiamo fatto questa dichiarazione che avete in mano", ha quindi aggiunto il Papa. "Ci saranno tante interpretazioni, tante", ha pronosticato, "se c’è qualche dubbio padre Lombardi potrà dire il significato della cosa". "Non è una dichiarazione politica - ha rimarcato Francesco -, non è una dichiarazione sociologica, è una dichiarazione pastorale. Anche quando si pala di secolarismo, di cose chiare, la manipolazione biogenetica, è pastorale, di due vescovi che si sono incontrati con preoccupazione pastorale. Io sono rimasto felice". E adesso, ha concluso con un sorriso pensando all’arrivo a Città del Messico, "mi aspettano 23 chilometri di ’papamobile’ aperta".
* ANSA, 13 febbraio 2016 (ripresa parziale).
L’ex isola «atea» al centro dei giochi grazie a Raúl (e al doppio legame)
di Rocco Cotroneo (Corriere della Sera, 13.02.2016)
Il paradosso cubano colpisce ancora. Un’isola di medie dimensioni, senza risorse strategiche, con una popolazione (11 milioni) inferiore a quella di tante metropoli, è di nuovo all’attenzione del mondo intero. Come è possibile che uno Stato la cui Costituzione raccomandava l’ateismo fino a vent’anni fa diventi sede privilegiata di un incontro religioso che resterà nella storia?
Prima Fidel Castro, poi con altrettanta abilità il fratello Raúl, sono sempre riusciti a trovare il modo per rendere l’isola caraibica più importante nella grande geopolitica di quello che realmente sia. E a far dimenticare ogni volta la mancanza di democrazia e lo scarso rispetto dei diritti umani.
A un anno dal disgelo con gli Stati Uniti, e dopo aver benedetto la pace in Colombia tra governo e guerriglia (ponendo fine a decenni di trattative a vuoto), Rául Castro riesce stavolta, semplicemente «prestando» un aeroporto, a infilarsi in una disputa secolare come la divisione dei cristiani grazie al doppio legame che Cuba ha mantenuto con i due mondi.
Con la Russia, per il passato non troppo remoto dell’asse militar-economico con l’Unione Sovietica, e con il Vaticano grazie al consolidamento dei rapporti nel fondamentale anno 2015, quello che ha visto sia la visita di papa Francesco, sia l’annuncio della pace con gli Stati Uniti e la riapertura delle ambasciate. Per i quali la mediazione vaticana è risultata fondamentale.
di Gianfranco Brunelli (Il Sole-24 Ore, 09.10.2015)
Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.
Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da Papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia. Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il Papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali.
Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto.
Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire (cfr. Il Regno 7, 2015, 485). Per il Papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».
Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.
Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?
Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il Papa ha indicato qual è per lui l’unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri. L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire.
Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa. Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa.
Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio. Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni.
Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio. Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.
Il Papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.
"CUORE. Settimanale di Resistenza umana".
Se c’è un valore che una pubblicazione del genere ci ha insegnato, è la necessità di mantenere integra la "memoria".
La forza del "non dimenticare". Il desiderio mai pago di "riscoprire e diffondere".
Cuore, Settimanale di Resistenza umana. Settimanale di Resistenza al tempo...
cronologia flash.
1989 - Michele Serra inventa Cuore. Viene proposto per due anni come inserto interno al quotidiano L’Unità.
1991 - Cuore diviene una pubblicazione autonoma. Diretto da Michele Serra, raggiunge il massimo fulgore sino al 1994, anno in cui Serra abbandona la testata.
1996 - Tramonta la straordinaria avventura di Cuore.
La provocazione del leader indio un regalo di Stato “comunista”
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 10.07.2015)
WASHINGTON SAREBBE piaciuto più a Karol Wojtyla che a Jorge Bergoglio, nella ovvia contraddizione simbolica, quel Cristo crocifisso alla falce e martello dalla quale il Papa polacco lottò con successo per schiodarlo nell’Est dell’Europa. Ma il regalo del presidente boliviano Evo Morales a Papa Francesco raggiunge comunque il podio dei doni più bizzarri scambiati fra capi di Stato e leader politici.
Non è ancora dato sapere in quale degli infiniti forzieri e archivi e cripte e nicchie di tesori in Vaticano sarà riposto l’oggetto donato da un uomo politico che inaugurò il proprio trionfale mandato secolarizzando la Bolivia, accusando la Chiesa di collaborazionismo nello sfruttamento, ridimensionando il potere dei vescovi e cacciando proprio crocifisso e Vangelo dall’uffico, come già il Cristo con i mercanti dal Tempio. Tra Deposizioni, martiri torturati del potere temporale del momento, Madonne e Bambini, Pietà, crocifissioni canoniche, il reclutamento del Figlio di Maria di Nazareth nella lotta di classe e nella ideologia del Materialismo Dialettico marxiano potrebbe risultare azzardata.
Ma nel nome della battaglia comune contro la miseria e lo sfruttamento, evocata costantemente anche dal Capo della Chiesa pur senza arrivare ai Soviet, all’elettrificazione e ai Piani Quinquennali, anche la provocatoria e greve allegoria in legno massiccio dell’ “Indio”, ossia di Morales, non è più bizzarra di altri omaggi di Stato che negli anni leader e governanti si sono scambiati. Dalla sella incrostata di pietre preziose e duunque intulizzabili senza acuti dolori in parte delicate che il presidente algerino Chadil Benjedid regalò a Reagan, alle Cadillac che segretamente la Casa Bianca spediva a Breznev per arricchire la sua collezione di supercar, i depositi e gli archivi della nazioni traboccano di paccottiglia più o meno sontuosa da tempo dimenticata. Cose che al momento parevano astute allusioni ideologiche, come il Cristomarxiano di Morales o semplici scherzi, come le due enormi patate dell’Idaho portate a Vladimir Putin dal Segretario di Stato John Kerry, perdono il loro significato nel tempo, si accastano impolverandosi.
Evo Morales, campione delle 36 diverse popolazioni che hanno sofferto, e soffrono, la sottomissione al potere coloniale e alle vere caste che spremono da secoli gli Indio, doveva trovare una forma di sintesi mistica alla dialettica fra la propria vocazione tardocomunista e la nuova teologia della liberazione portata a San Pietro dal vescovo argentino. Un gesuita, che appartiene allo stesso ordine di padre Luis Espinal, «ucciso da coloro che non potevano sopportare il messaggio evangelico che lui diffondeva», come ha detto Francesco.
L’ha trovata in un encomiabile sforzo di immaginazione lignea, forse non riuscitissimo esteticamente e destinato a un ruolo marginale fra opere di Michelangelo o di Bernini, dove la metafora del Cristo martirizzato sulla falce e martello si presta a contraddittorie letture, ma sicuramente meno crudele del cammello che il governo del Mali offrì al presidente Hollande per ringraziarlo dell’aiuto nella lotta all’islamismo violento. Gesto che finì malissimo per il povero animale rispedito, dopo numerose prove di incompatibilità con il palazzo dell’Eliseo, a una famiglia maliana che procedette, non avendo altra sistemazione e probabilmente avendo invece molta fame, a trasformarlo in un succulento stufato.
Lo sguardo allibito, ma garbato, del Papa che si richiama a San Francesco davanti a un artefatto che agli italiani meno giovani avrà ricordato Don Camillo e Peppone e ai più giovani gli stereotipi sul cattocomunismo, ha segnalato una misericordia e una comprensione che i critici darte e i curatori dei Musei Vaticani difficilmente avranno, per l’oggetto. Ma un politico come Morales, incastrato fra il populismo che lo ha trionfalmente eletto e il 78 per cento della popolazione che ancora si proclama parte della Chiesa di Roma, altro non avrebbe potuto fare, per sposare gli estremi culturali e umani della propria nazione.
Il sincretismo religioso e la mescolanza di sacro e profano sono ovunque il segno più profondo della spiritualità nel Centro e nel Sud America, fra teologie della Liberazione, vescovi d’assalto come l’Helder Camara di Recife, preti guerriglieri e prodotti dei collegi dei Gesuiti come Fidel Castro. Nei loro viaggi e visite nelle cattedrali neocoloniali dell’America ispanica, i Papi, come Giovanni Paolo II a Cuba, fingono di non sapere quali culti esoterici e fedi popolari si nascondano dietro Madonne e Santi apparentamente ortodossi. La crocifissione del Cristo a quella falce e martello che aveva proclamato nella propria dottrina ufficiale non soltanto l’ateismo ma la persecuzione contro la religione, non è in fondo più empia dei culti per i serpenti, le divinità e gli dei del mare nascosti dietro i simboli del cattolicesimo a galla tra Santeria e Catechismo. Non soltanto la religione non è più l’oppio dei popoli per il neo marxismo andino alla Morales. Può essere addirittura stimolante, come una manciata di foglie di coca.
La carità di fra Cristoforo e le sirene di Ulisse
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 04.01.2014)
Quando diffida i religiosi dal nutrire un «cuore acido» il riferimento potrebbe essere alla Monaca di Monza del Manzoni che viveva «nell’astio» la vita monacale alla quale era stata costretta. Il richiamo ad attrarre con la carità e a mostrare al mondo che si può «vivere diversamente» ha dietro la figura di fra Cristoforo. Ma nelle direttive del Papa ai «Superiori Generali» ci sono sottotraccia anche richiami meno specifici e di scuola: l’Odissea e l’Eneide, Dante e il Martin Fierro di José Hernández (1834-1886), che è il poema nazionale argentino.
Un riferimento al Martin Fierro lo trovo nell’invito ai religiosi a recuperare la «tenerezza materna» verso le persone affidate alla loro cura. In un saggio sul poema di Hernandez pubblicato nel 2002 il cardinale Bergoglio riportava questi versi come monito ad apprendere il dovere della tenerezza verso i più deboli: «La cicogna quando è vecchia / perde la vista, e si affannano / a curarla nell’età matura / tutte le sue figlie piccole. / Imparate dalle cicogne / questo esempio di tenerezza».
Un rimando all’Ulisse dell’Odissea possiamo vederlo nel richiamo rivolto ai religiosi perché siano «uomini e donne capaci di svegliare il mondo», cioè di scuoterli dall’incantamento «mondano». Era a questo scopo che nell’intervista del settembre scorso alle riviste dei Gesuiti aveva paragonato i «valori avariati» dell’umanità di oggi al «pensiero ingannato» di Ulisse «davanti al canto delle sirene».
L’Enea dell’Eneide fa capolino tra le righe dell’invito a esplorare e «illuminare il futuro», posto come esemplificazione del compito «profetico» dei religiosi. Più volte nei testi del cardinale Bergoglio ricorre l’immagine di Enea che dopo l’incendio di Troia «si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro» (così per esempio nel volume «Il nuovo Papa si racconta», Corriere della Sera 2013, p. 67).
Quando dice «non negoziabile» la predicazione evangelica e afferma rudemente che si tratta di «essere profeti e non di giocare a esserlo», viene alla mente un discorso ai vescovi spagnoli (gennaio 2006) nel quale a quello stesso scopo da cardinale aveva citato il canto XXIX del Paradiso di Dante: «Non disse Cristo al suo primo convento [gruppo di discepoli]: / andate e predicate al mondo ciance».
Per il capitolo della «inculturazione» del cristianesimo nelle diverse civiltà Francesco cita i gesuiti che in tale impresa sono stati più creativi, da Matteo Ricci (1552-1610) a Segundo Llorente (1906-1989), che scrissero diversi volumi di memorie che sicuramente Papa Bergoglio conosce nei testi originali. Ma più interessante, per il lettore non specialista dell’interessante «colloquio» del Papa gesuita con i confratelli religiosi, è l’allusione implicita a testi profani, che è - come sempre nei suoi testi - abbondante.
Nell’invito a concepire la formazione dei religiosi come «opera artigianale e non poliziesca», mirata a far crescere persone capaci di gioia e di tenerezza, si può vedere in trasparenza l’apprezzamento ben noto del cardinale Bergoglio per il film «Il pranzo di Babette» che - disse una volta - mostra come una comunità puritana possa arrivare a ignorare «che cosa sia la felicità». O anche vi si potrebbe scorgere la sua ammirazione per la Crocifissione bianca di Chagall, che «non è crudele ma ricca di speranza».
«Non si rende conto dei danni che sta facendo»
intervista a Michael Novak
a cura di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 21 settembre 2013)
«Un amico mi ha chiesto se il Papa si rende conto dei danni che fa, con questi commenti estemporanei. Di certo usare la parola ossessione nei confronti di chi lavora da sempre per la difesa della vita è una cosa che ferisce». In oltre venti anni che lo conosciamo, non era mai capitato prima di sentire parole così dubbiose verso il Papa da Michael Novak, forse il più noto filosofo cattolico americano, molto legato a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Cosa pensa dell’intervista rilasciata da Francesco a Civiltà Cattolica?
«Ho visto due tipi di reazioni: quella del mio amico, che vi ho descritto; e quella di George Weigel, secondo cui dobbiamo abituarci ai comportamenti di un pontefice evangelico, che non si rivolge a noi come accademico, ma come predicatore. Weigel ha ragione, però, usare parole come “ossessione” ferisce fedeli che hanno rischiato anche la vita, per proteggerla».
Francesco vuole cambiare la dottrina o il tono della Chiesa?
«Il tono. Però l’effetto rischia comunque di essere dannoso».
Perché?
«Mette molti cristiani sulla difensiva, proprio quando sono attaccati. Nello stesso tempo incoraggia le critiche contro la Chiesa, da parte dei suoi avversari dichiarati, che non aspettavano altro».
A cosa si riferisce?
«Le sue parole lo espongono alla strumentalizzazione da parte di chi vuole colpire la Chiesa. Basta guardare come le ha usate il New York Times».
C’è il rischio che una parte dei fedeli americani lasci la Chiesa?
«Non credo. Forse i più fragili estremisti, ma sarà un fenomeno molto limitato. La sinistra, però, si sentirà incoraggiata a spingere per modifiche della dottrina».
Non esiste anche la possibilità inversa, quella che un «Papa evangelico» riavvicini i fedeli?
«Cristo ha portato anche elementi di contraddizione, forse non è possibile farne a meno. Forse è un bene che questo Papa, riconducendo la Chiesa alle radici della sua missione, ci spinga a riflettere»
VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione ...
IL CONCLAVE E L’ OMBRA DEL PAPA EMERITO. I CARDINALI CONFUSI NON SANNO PIU’ DISTINGUERE TRA DIO E MAMMONA. Materiali per riflettere
L’ora impossibile di papa Francesco I
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2013)
Le stanze di Benedetto sono vuote: con quale nome risponderà allo Scrutatore il prossimo papa che dormirà nel suo letto? Dopo l’annuncio del Conclave il pontefice prescelto ha “un intero minuto” per pensarlo. Il primo segno della Chiesa che cambia potrebbe essere il nome del successore di Ratzinger.
Dal balcone nessuno ha mai annunciato “ecco Francesco”, Francesco I per ribadire l’impegno del santo che protegge l’Italia, ma sempre dimenticato dai discendenti di Pietro.
È morto quasi otto secoli fa, eppure nessuno se l’è sentita di abbracciarne spiritualità e dedizione assoluta alla vita degli altri. “Francesco è un nome impossibile per il carico di poteri con i quali nei secoli è stato costruito il papato: infallibilità, sovranità, controllo nella forma di ogni servizio, autorità su milioni di fedeli, responsabilità di proposte. Non è questione di umiltà personale. Francesco impone una povertà difficile a qualsiasi sovrano vaticano”.
Raniero La Valle non immagina che il prossimo papa possa ricordarlo. Lo conforta la rinuncia di Benedetto XVI, che restituisce al pontefice la fragilità umana. Richiamata da Paolo VI nel suo unico discorso a braccio dopo il Concilio: chiede alla Chiesa di diventare povera “non solo nell’essere anche nell’apparire” parole svanite nel tempo.
Direttore e testimone per Avvenire negli anni del Concilio Vaticano II, La Valle oggi gira il mondo per la Rai alla ricerca degli ultimi. Fra i saggi Dalla parte di Abele, Pacem in Terris, La teologia della liberazione e la bellissima memoria Il mio Novecento. Guida i comitati Dossetti per la difesa della Costituzione.
La separazione della Chiesa dalla gestione dei beni è un tormento che attraversa gli anni: lo invoca anche Heinrich Böll, Nobel per la Letteratura cresciuto nel pacifismo cattolico della Germania anno zero. “Sarà sempre troppo tardi quando Chiesa e aristocrazia si separeranno dalle loro immense proprietà, dai loro tesori, dalle ridicole, pompose cianfrusaglie di cui continuano a bardarsi. Un aspetto del mondo occidentale sono appunto le proprietà delle chiese. Terribile peso che grava sul tormentato, sofferente capo di quella che è ancor oggi la più potente delle chiese. Chi potrebbe rinunciare alla proprietà? Chi, se non questa Chiesa che non ha discendenti ? Si fa sempre più tardi”.
Era il 1969. A Castel Gandolfo papa Montini ripeteva le stesse parole: “Con questo Vaticano non ci sarà mai un papa di nome Francesco perché Francesco distruggeva le regole umane nella sola obbedienza al Vangelo. Nessuna struttura piramidale, nessuna burocrazia, nessun privilegio”. Quando scopre che un fratello dell’Ordine si costruisce una piccola casa sale sul tetto e una a una strappa le tegole: che povertà è mai questa se tanti fratelli si riparano nelle grotte della campagna? Lo ricorda Ettore Masina, vaticanista e scrittore che ha raccontato il Concilio.
Francesco veniva dalla ricchezza del padre dal quale si separa spogliandosi degli abiti davanti al vescovo e a una folla di curiosi. La povertà è la vocazione che lo fa passare per matto. “Quindi impossibile nei nostri anni che un pontefice di nome Francesco possa abitare in Vaticano. Dovrebbe vivere nell’ultima parrocchia di Roma”.
Don Paolo Farinella, parroco nel centro di Genova di una parrocchia senza parrocchiani, ha vissuto a Gerusalemme negli anni del cardinale Martini. Studi in ebraico, aramaico, greco. Due licenze in teologia bliblica, soprattutto l’analisi religiosa e politica della Terra Santa sconvolta da repressioni e intifade. I suoi libri escono dall’editore Gabrielli. Nel 2000 pubblica il romanzo Habemus Papam, Francesco I. Dieci anni dopo lo riscrive col titolo Habemus Papam , la leggenda del Papa, ma la storia non cambia.
Racconta di un parroco genovese chiamato a Roma dove i padri del Conclave non trovano l’accordo e un cardinale che conosce le virtù del piccolo prete avanza l’eccentrica proposta: e se scegliessimo uno così? Parroco disarmato nei gironi della burocrazia vaticana. Papa ideale nelle mani dei manovratori.
Ecco la sorpresa: appena lo Scrutatore gli si rivolge per il “quomodo vocaberis?”, come ti vuoi chiamare, il vecchio prete risponde “Francesco I”. E quando si rivolge al popolo dal trono la voce non trema: “Ho scelto il nome di Francesco non per un vezzo politico, ma perché resti come marchio di fuoco sulla mia carne. Deve essere un costante richiamo a prendere sul serio il Vangelo: la carità come legge, la povertà come stile, la comunione come metodo”. La folla ne osserva perplessa i paramenti che brillano.
“So perfettamente cosa state pensando: predichi bene ma razzoli male”. Con lentezza esasperata comincia a spogliarsi. “Depongo questo pastorale d’argento: come dice Marco, oltre un bastone non prendete nulla per il viaggio. Depongo questo copricapo anacronistico: più che un pastore mi mostra come satrapo orientale”. Si sfoglia come una cipolla: dell’anello di zafiro, della croce d’oro massiccio, dei paramenti “lussuosi che dovrebbero rendere gloria a Dio e diventano offesa per i poveri”.
Resta con una tunica bianca. “E per un momento vescovi e cardinali si vergognarono di non essere nudi come Adamo e guardandosi bardati nei paludamenti nello specchio della loro anima si riconobbero ridicoli”.
I sanculotti francescani
Negri, Cacciari e Agamben invocano in coro una rivoluzione ispirata al poverello di Assisi
di Marco Rizzi (Corriere della Sera/La Lettura, 5 agosto 2012)
Qualche giorno fa, durante il concerto di Patti Smith a villa Arconati, un ragno si era inerpicato sul microfono della cantante; l’assistente che si era precipitato a levarlo di mezzo, con fare minaccioso, si era però sentito intimare di non fargli alcun male. A differenza della gran parte dei suoi colleghi dello star system, il rispetto panico per le creature, aracnidi inclusi, non deriva a Patti Smith da qualche filosofia orientale, appresa più o meno di seconda mano, bensì da una intensa frequentazione con san Francesco e i suoi testi.
Nell’ultima raccolta (Banga. Believe or explode, Columbia records), spicca un lungo reading, «Constantine’s dream», il sogno di Costantino, ispirato dal celebre affresco di Piero della Francesca nella chiesa di san Francesco ad Arezzo; il sogno dell’imperatore diviene quello della cantante, che prega con Francesco, dipinge con Piero, accompagna Costantino nella battaglia vittoriosa, prima, e Colombo, poi, alla scoperta dell’America, per concludersi nella notte apocalittica del XXI secolo, in cui «si dissolve nella luce il sogno del re angosciato»; in sottofondo - in italiano - le parole della «preghiera semplice» apocrifamente attribuita a Francesco.
Non pochi lettori potrebbero rimanere del tutto sconcertati dall’accostamento di Francesco all’imperatore della svolta che fece del cristianesimo la religione dell’impero romano e, ancor più, alla conquista dell’America, viaggio sinonimo di tutti gli imperialismi, in andata e - soprattutto - in ritorno. Ma decenni di indagine storiografica hanno demolito l’immagine un po’ melensa e protoecologista del santo di Assisi, sostituendola con un ritratto di una personalità e di una vicenda di ben altra forza e complessità: in Francesco, il problema della natura si lega strettamente a quello della povertà e centrale risulta la distinzione, che diverrà fonte di tutti i successivi conflitti con l’autorità ecclesiastica, tra uso e possesso, tra un rapporto con i beni della creazione fondato sulla condivisione o sull’appropriazione. Tuttavia Francesco è soprattutto diventato oggetto, imprevisto e un po’ paradossale, di una serie di riflessioni in ambito filosofico e politico, che ne fanno il portatore di una «rivoluzione» opposta e alternativa a ogni forma di potere e di imperialismo, che rappresenterebbero l’odierna versione dell’istituzone ecclesiastica che spense l’originario afflato francescano.
Ha iniziato Toni Negri, che in Impero (Rizzoli) non ha avuto remore a scrivere come nell’epoca postmoderna ci ritroviamo esattamente nella medesima situazione di san Francesco e, come lui, alla miseria del potere possiamo contrapporre la gioia dell’essere: «È una rivoluzione che nessun potere potrà controllare. In ciò consiste l’irreprimibile chiarezza e l’irreprimibile gioia di essere comunista».
Meno ingenuamente, Massimo Cacciari (Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi) ricorre alla categoria di «profezia radicale» per individuare l’essenza del messaggio del santo (ma la quarta di copertina sa che per intrigare i lettori bisogna parlare proprio di «rivoluzione francescana»); un messaggio tradito dai suoi due sommi divulgatori sul piano letterario (Dante) e su quello visivo (Giotto), nel momento in cui si sforzano di rapportarlo alle condizioni ordinarie dell’esistenza umana per comunicarlo all’uditorio universale. Allo stesso modo, i progetti religiosi, teologici o politici che nei secoli successivi si sarebbero richiamati a Francesco non lo avrebbero mai rappresentato appieno, come, del resto, il modello cristologico di Francesco (il Gesù dello svuotamento di sé, la kenosis) resisterebbe, secondo Cacciari, «oltre ogni cristianesimo».
Ancora più radicale l’approccio di Giorgio Agamben, che, denunciando l’abbandono del lascito più prezioso del francescanesimo, individua un compito decisivo e indifferibile per l’Occidente: pensare una vita umana «del tutto sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che non si sostanzi mai in un’appropriazione». In tutto questo, però, il messaggio di Francesco nulla avrebbe più a che fare con il cristianesimo né, tanto meno, con la Chiesa. II vecchio detto anarchico «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità», diviene nel neofrancescanesimo anomico di Agamben «pensare la vita come ciò di cui non si dà mai proprietà ma soltanto un uso comune». Questo, però, era già il programma della prima comunità cristiana descritta dal quinto capitolo degli Atti degli apostoli. Senza questo precedente, di natura strettamente ecclesiologica, neppure il riferimento diretto al modello di Cristo avrebbe avuto senso per Francesco: la comunità delle origini è segno della possibilità storica, non mera tensione escatologica, dell’ideale di povertà nella e per la Chiesa predicato da Francesco.
A ben vedere, a inaugurare una via d’uscita «francescana» dalla crisi del pensiero marxista era stata già la pubblicazione, voluta da Paolo Pullega all’inizio degli anni Ottanta, di una raccolta di scritti di Gyorgy Lukàcs anteriori alla svolta marxista, significativamente intitolata Sulla povertà di spirito (Cappelli, 1981), in cui il riferimento era a Francesco come il primo che aveva ricercato la povertà, anziché subirla; in questo, Lukács vedeva un’analogia con lo sforzo di essenzializzazione della rivoluzione astrattista nella pittura.
Due anni prima, nel settembre del 1979, Patti Smith aveva concluso la prima fase della sua carriera con un memorabile concerto a Firenze, nel clima cupo e sovraeccitato dal terrorismo, dalle tensioni sociali e dalle utopie rivoluzionarie che percorrevano l’Italia nell’ultimo scorcio degli anni Settanta. Ricorda lei stessa: «Prima di iniziare misi un nastro con la voce di Giovanni Paolo I che parlava ai bambini, e lo fischiarono. La terza sinfonia di Beethoven, secondo movimento, e la fischiarono». Come era solita fare, allora, iniziò il concerto mandando il fratello a sventolare la bandiera americana. Fu un trionfo. Gran parte del pubblico di allora sognava la rivoluzione, quella vera; qualche decennio dopo, intellettuali pensosi hanno riscoperto quella di Francesco; qualcuno pure quella americana.
Il Papa: l’Italia reagisca
Un governo tecnico in cerca di «supplementi d’anima»
di Massimo Adinolfi (l’Unità, 14.05.2012)
C’È UN PASSAGGIO, NELLE PAROLE PRONUNCIATE IERI DA MONTI, CHE CONVIENE OSSERVARE DA VICINO: non per impugnare la matita rossa e blu, ma solo per capire bene. «La crisi economica - ha detto il premier - se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore». Il contesto in cui cadevano queste assennate parole - l’incontro con Benedetto XVI - giustifica l’attenzione rivolta alle condizioni morali e spirituali del Paese.
Il Papa ha invitato l’Italia a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, e ha indicato nella grande tradizione umanistica del nostro paese i fondamenti culturali a cui attingere per invertire la rotta. Un grande «rinnovamento spirituale ed etico» deve collegarsi alla tradizione storica dell’Italia, per riprenderla, rielaborarla, riproporla su basi nuove.
Ed è vero: la nostra eredità culturale e civile è dote preziosa per tenere unito il Paese, e rimetterlo sul sentiero della crescita. Si può naturalmente discutere su cosa diventino i valori, anche i più “etici” e “spirituali”, quando siano separati dalle condizioni effettive in cui furono pensati e posti in essere, e se una sorta di philosophia perennis possa mai accompagnare un Paese attraverso le sue tante e diverse stagioni storiche e politiche. Ma queste son domande di filosofi.
Nel momento in cui i timori di uno sfilacciamento del tessuto sociale si fanno sempre più grandi, è comprensibile e anzi auspicabile che forti si intendano le parole che infondono fiducia, che donano speranza, che richiamano tutti al comune senso di appartenenza e alla più coraggiosa assunzione di responsabilità. E fa bene il presidente del Consiglio ad accoglierle e rilanciarle, specialmente di fronte a segnali di malessere sociale che vanno acuendosi sempre più.
Ancor più è apprezzabile che Monti abbia sentito ieri l’esigenza di riprendere la parola che fin dal giorno del suo insediamento aveva accompagnato la proposta programmatica del suo governo: la parola equità. Ci vuole equità, aveva detto, e ancora ieri ha ripetuto. E dentro la tradizione umanistica si trovano davvero le risorse per ripensare il valore non solo morale ma anche politico dell’equità: quella dimensione in cui il rigore della giustizia non può andar disgiunto da un ricco senso di umanità, e le proposizioni di principio non vengono mai fatte valere in astratto, nell’ignoranza delle circostanze concrete in cui gli uomini vivono.
Ma resta il passaggio che citavamo in apertura. Perché non può sfuggire che, a rigor di logica, se il premier teme che l’acuirsi della crisi economica possa comportare conseguenze più ampie, sul piano culturale ed etico, allora per lui l’elemento «culturale» ed «etico» si trova in posizione di effetto, mentre la crisi economica, recessione e disoccupazione si trovano in posizione di causa. Ma questo significa che ben difficilmente il rapporto può rovesciarsi, e d’improvviso la fiducia e la speranza, il coraggio e i forti auspici morali possono essere la causa, e la ripresa economica l’effetto. Sempre a rigor di logica si dovrebbe piuttosto pensare il contrario, e che un clima di aspettative favorevoli si stabilirà solo grazie a nuovi investimenti: non solo di fiducia.
Certo, abbiamo bisogno di supplementi d’anima. Forse ne ha ancora più bisogno il governo in carica, che non ha l’etichetta di governo tecnico perché analisti cocciuti si ostinano a ricordare le competenze del premier, ma perché Monti stesso parla alla politica come a un mondo ben distinto e a volte anche distante dal governo. La politica viene individuata come una sfera diversa, con la quale si discute, ma della quale tuttavia non si fa parte e non si intende far parte.
Forse c’è la convinzione che la popolarità dell’esecutivo ne trarrà guadagno, o forse si ritiene che sia così più facile trovare nel governo il punto di mediazione fra interessi contrapposti. Può darsi. Ma sta il fatto che è proprio questo distacco a volte ostentato che rende comprensibile che il premier cerchi supplementi morali a sostegno della sua azione, pur con qualche bisticcio fra la causa e l’effetto. Perché a pensarci il vero supplemento dell’azione di governo c’è, e non può avere altro nome che, per l’appunto, politica. E in tutta Europa, sembra proprio che ne stia di nuovo venendo il tempo.
San Paolo diventa compagno di Lenin?
di Gianni Gennari (l’Unità, 10.05.2012)
CARO DIRETTORE,
LUNEDÌ PRIMA PAGINA DEL TUO “NUOVO” GIORNALE, IN ALTO ANTONIO GRAMSCI: «INDIFFERENZA È ABULIA, È PARASSITISMO, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».
Domenica la liturgia cattolica presentava il vangelo tratto dal capitolo 15 di san Giovanni, ove Gesù dice ai suoi: «Io sono la vite, voi i tralci». Mi vengono in mente un paio di pensieri. Il primo è che il rifiuto dell’indifferenza, a parte quel verbo «odio» che non può piacere a chi pensa che il senso della vita sia l’amore la fede cristiana vi trova l’essenza di Dio stesso, rivelato in Gesù Cristo ha un preciso precedente biblico. Nel libro dell’Apocalisse, che vuol dire “svelamento” pieno della realtà, leggo queste parole sulla bocca di Dio stesso, rivolte alla “Chiesa di Laodicea”: «Conosco le tue opere, e so che non sei né caldo né freddo: perciò sto per vomitarti dalla mia bocca!» Più forte anche di Gramsci, mi pare.
Seconda provocazione. Ho sotto gli occhi uno scritto profondo sul brano del vangelo di San Giovanni della vite e dei tralci: proprio sul testo letto domenica in tutte le Chiese. Quando lo leggo e chiedo chi è l’autore la risposta più frequente è: Papa Giovanni. E invece l’Autore è Karl Marx, che lo scrisse per la sua maturità scolastica. Nessuna esagerazione, ovviamente, ma è un fatto, che tra l’altro si potrebbe collegare ad altri.
Non è qui il luogo, ma approfitto per ricordare un fatto raccontatomi da mio padre, operaio falegname. Primi anni 60, ambiente di lavoro di una grande falegnameria, tra l’altro quella dove sono stati progettati e costruiti i banchi di legno per i vescovi del Concilio Vaticano II. Durante la pausa del pasto di mezzogiorno, nell’Osteria “Sora Eva”, Largo della Gancia, dove si apre il tunnel del Gianicolo, gli operai mangiano le loro povere cose, e uno di essi, Orlando, fervente attivista Pci, esclama energico: «Perché Lenin ha detto che chi non lavora non mangia!». Papà amichevolmente lo richiama: «ma sei sicuro, Orlando, che lo abbia detto per primo Lenin? Diciotto secoli prima lo ha scritto san Paolo!» Perplessità del buon Orlando, e papà tira fuori dalla tasca il libretto del Nuovo Testamento, che lo accompagnava sempre, e apre la Seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 10): «Se qualcuno non vuole lavorare, non deve neppure mangiare!» E Orlando? Resta silenzioso un po’, poi esclama serio: «Arnaldo, va bene, ma allora me lo devi riconoscere: io qualche volta i santi li smoccolo, e impreco, ma San Paolo no, mai! Me lo sentivo che era... un compagno!».
Conclusione all’esempio dei greci antichi: «La favola insegna... ». Non è una favola, ma insegna qualcosa: se qualcuno pensa che si possa costruire qualcosa di serio, ovunque, ma soprattutto qui da noi, disprezzando e opponendosi per principio a tutto ciò che dice Cristianesimo e Chiesa sbaglia di grosso. Laicità è neutralità rispettosa di tutto, non contrapposizione di principio obbligato. Auguri per il “nuovo” giornale, antico, ma molto cambiato.
Parla Christian Weisner, leader del movimento dei cattolici critici "Wir sind Kirche"
"Crisi da affrontare con urgenza il Pontificato mai così oscurato"
Dobbiamo accettare che gli stupri sono un problema globale cui serve una risposta globale
di A. T. [Andrea Tarquini] (la Repubblica, 22.03.2010)
BERLINO - Christian Weisner, leader di Wir sind Kirche la Chiesa siamo noi (il forte movimento dei cattolici critici), è deluso dalla lettera del Papa ma esorta a incoraggiarlo a fare chiarezza fino in fondo. È la grande chance, altrimenti la crisi acquisterà qualche parallelo con quella del socialismo reale sovietico.
Signor Weisner, come giudica la lettera del Papa?
«Il dramma della violenza sessuale viene affrontato con grande apertura. È inusuale per un pontefice. Ma sulle cause e i consigli per la prevenzione futura purtroppo è molto deludente. Egli è all’inizio della presa di coscienza. Lui vede più le tendenze secolari mondiali nella morale come cause, e mi sembra mostruoso anche che veda una falsa lettura del Concilio Vaticano II come concausa. Allora lavorò per il Concilio ma oggi cerca di tornare a più tradizione che innovazione».
E non una parola sulla Germania. Che ne dice?
«Un silenzio accettabile, ma i tedeschi si aspettavano almeno una parola di compassione per le vittime tedesche quando il Papa il 12 marzo ricevette il rapporto dei vescovi tedeschi. Purtroppo il Papa tacque allora e tace in questa lettera. Posso in parte accettarlo, riguarda la ben più grave situazione irlandese. Ma tutti noi cristiani, da ogni fedele al Papa, dobbiamo accettare che la violenza sessuale contro bimbi, minori o donne nella Chiesa è un problema globale e necessita d’una risposta globale».
Il pontificato di Benedetto è in pericolo?
«La crisi deve essere affrontata con urgenza. Mai, nemmeno nei secoli più bui, la luce del Vangelo è stata tanto oscurata come oggi, lo scrive anche il Papa. È cosciente della gravità del problema. Ma la crisi non finisce così. Nessuno chiede le sue dimissioni. Tutti nella Chiesa, vescovi e cardinali, devono aiutarlo in questa tempesta. Egli non ha ancora individuato i problemi strutturali».
Ritiene il Papa responsabile di silenzi e insabbiamenti?
«Vedo una corresponsabilità. Dirlo non è chiederne le dimissioni, ma un vescovo deve avere un’alta autorità morale ma anche amministrativa. Manager e politici pagano gli errori dimettendosi, nella Chiesa c’è la riconciliazione. Ma se lui riconoscesse sue responsabilità, ciò gioverebbe alla sua autorità e a quella della Chiesa».
La difesa del sistema non ricorda l’autunno del socialismo reale sovietico?
«Anche all’Est mancava, ai vertici, la consapevolezza della gravità della crisi. Paralleli ci sono, tra sistemi centralisti e gerarchici, con dogmi. La differenza che mi fa sperare è che cristianesimo non è solo strutture centraliste, ma messaggio di Gesù. Se il sistema entra in una crisi di quel tipo, il messaggio cristiano resta, ben più vitale del socialismo. Ma la mancata riforma della Curia è stata un grave errore». (a.t.)
Mosca, serve una nuova perestrojka
di MIKHAIL GORBACIOV (La Stampa, 18/3/2010)
La perestrojka, lanciata in Unione Sovietica 25 anni fa, è da allora oggetto di acceso dibattito. Che ora riprende quota, non solo per via dell’anniversario ma anche perché la Russia si trova di nuovo a fronteggiare la sfida del cambiamento. In momenti come questi è appropriato e necessario guardare indietro.
Abbiamo introdotto la perestrojka perché sia i nostri cittadini sia i nostri amministratori capivano che continuare così non era più possibile. Il sistema sovietico, creato nell’Urss con lo slogan del socialismo e a prezzo di enormi sforzi, perdite e sacrifici ha reso il nostro Paese una superpotenza con una forte base industriale. In condizioni estreme funzionava; in circostanze più normali ha condannato la nostra patria all’inferiorità. Questo era chiaro a me e agli altri dirigenti della nuova generazione, così come ai membri della vecchia guardia che tenevano al futuro del Paese. Mi ricordo la conversazione con Andrei Gromyko poche ore prima che il Comitato Centrale riunito in assemblea plenaria eleggesse il nuovo segretario generale nel marzo 1985. L’ex ministro degli Esteri conveniva sulla necessità di un cambio epocale e sul fatto che, per quanto i rischi fossero alti, era di vitale importanza procedere.
Chiedono spesso a me e ad altri leader della perestrojka se fossimo consapevoli del tipo di cambiamento a cui saremmo andati incontro. La risposta è sì e no: non del tutto e non immediatamente.
Era chiarissimo cosa dovessimo abbandonare: il rigido ed ideologico sistema politico ed economico; il confronto frontale con la maggior parte degli altri Stati del mondo; la corsa senza regole al riarmo. Rifiutando tutto questo ottenemmo il pieno consenso popolare mentre i funzionari che si rivelarono stalinisti duri a morire dovettero tacere e adeguarsi. Ben più difficile trovare una risposta alla domanda successiva: Quali erano i nostri obiettivi, cosa volevamo ottenere? Noi avevamo percorso un lungo cammino in tempi brevi: eravamo partiti dal tentativo di emendare il sistema esistente ed eravamo arrivati alla conclusione di doverlo cambiare. E tuttavia, sono sempre rimasto fedele alla scelta fatta in favore di un’evoluzione: un cambiamento che non avrebbe distrutto il popolo e il Paese e avrebbe evitato spargimenti di sangue.
Era una bella sfida attenersi a questo programma mentre affioravano conflitti vecchi e nuovi. Da un lato i radicali spingevano sull’acceleratore, dall’altro i conservatori ci mettevano i bastoni tra le ruote. Entrambi i gruppi hanno la maggior colpa per quanto è accaduto in seguito. Ma accetto la mia parte di responsabilità. Noi, i riformatori commettemmo errori che sono costati cari, a noi e al Paese. Il nostro più grave errore è stato intraprendere con troppo ritardo la riforma del Partito comunista. Era stato il partito a dare inizio alla perestrojka, ma presto divenne un ostacolo al suo progresso. I burocrati che ne erano a capo organizzarono il tentato colpo di stato dell’agosto 1991, che tagliò le gambe alla perestrojka. Agimmo con troppo ritardo anche nel riformare l’unione delle repubbliche che avevano fatto già molta strada nel corso della loro esistenza comunitaria. Erano diventati degli Stati a tutti gli effetti, con le loro economie e le loro élite. Dovevamo trovare un modo per garantire la loro sovranità nazionale all’interno di una unione democratica decentrata. Al referendum del marzo 1991 oltre il 70% della popolazione era a favore di una nuova unione di repubbliche sovrane. Ma il colpo di stato, che mi indebolì come Presidente, segnò il loro destino. Abbiamo commesso anche altri sbagli: presi nel vortice delle battaglie politiche perdemmo di vista l’economia e il popolo non ci ha mai perdonato la scarsità dei beni di prima necessità e dei minimi comfort di quei tempi.
Ma detto tutto questo e qualsiasi cosa ne pensi chi mi critica, quello che è stato ottenuto dalla perestrojka è innegabile. Da lì è passata la via per la libertà e la democrazia. I sondaggi confermano che anche i più critici verso la perestrojka e i suoi fautori - e in particolare verso di me - apprezzano le sue conquiste: l’abbattimento del sistema totalitario, la libertà di parola, riunione e fede; la libertà di movimento e il pluralismo economico e politico.
Dopo la fine della perestrojka e lo smantellamento dell’Unione Sovietica, i leader russi hanno optato per una versione «radicale» delle riforme. La loro terapia «shock» si è rivelata peggio della malattia che voleva curare. Molta gente è precipitata nella miseria; il divario nei redditi è fra i più ampi al mondo. Sanità, educazione e cultura subirono enormi decurtazioni. La Russia cominciò a perdere la sua base industriale diventando completamente dipendente dall’esportazione di petrolio e gas naturali. All’inizio del nuovo secolo il Paese si trovava in uno stato di collasso, a un passo dal caos. I processi democratici hanno sofferto di questo degrado nazionale. Le elezioni del 1996 e il trasferimento del potere a un «erede» designato nel 2000 sono stati atti democratici nella forma ma non nella sostanza. Da allora ho iniziato a preoccuparmi per il futuro della democrazia in Russia. Capimmo che in una situazione che metteva in forse la stessa esistenza dello Stato russo non era sempre possibile rispettare in modo formale le leggi: in alcuni casi un certo autoritarismo è necessario.
Ecco perché ho appoggiato Vladimir Putin durante il suo primo mandato presidenziale. E non ero il solo: era con lui dal 70 all’80% della popolazione e credo avessero ragione. Nondimeno, stabilizzare il Paese non può essere l’unico fine. La Russia ha bisogno di sviluppo e di riforme per diventare leader nel mondo globalizzato e interconnesso. Il nostro Paese non ha fatto un passo avanti in questa direzione negli ultimi anni, malgrado per un decennio abbiamo beneficiato degli alti prezzi delle nostre principali esportazioni, petrolio e gas. La crisi globale ha colpito la Russia più duramente di molti altri Paesi e la colpa è solo nostra. La Russia potrà progredire senza problemi solo seguendo un percorso democratico. E recentemente ci sono stati da questo punto di vista diversi passi indietro.
Il processo democratico ha perso mordente. In molti casi ha subito una involuzione. Tutte le decisioni di rilievo sono prese dall’esecutivo, il Parlamento si limita a un’approvazione formale. L’indipendenza dei giudici è stata messa in discussione. Non abbiamo un sistema partitico che dia la possibilità alla maggioranza di vincere lasciando alla minoranza la possibilità di esercitare un ruolo attivo e far valere la propria opinione. C’è la crescente sensazione che il governo sia spaventato dalla società civile e voglia controllare tutto.
Sono cose che conosciamo bene, le abbiamo già passate. Vogliamo tornare indietro? Credo che nessuno, compresi i nostri leader, lo desideri. L’insoddisfazione per questo stato di cose è diffuso a tutti i livelli. Percepisco allarme nelle parole del presidente Dmitry Medvedev quando si chiede, come ha fatto in alcune recenti dichiarazioni pubbliche: «Come può una economia primitiva basata sulle materie prime e su una corruzione endemica portarci verso il futuro?». Possiamo stare tranquilli se «l’apparato di governo nel nostro Paese è il più grande datore di lavoro, il maggior editore, il miglior produttore, giudice di se stesso, e, di per se stesso un partito e persino una nazione?».
Non si potrebbe dirlo meglio. Sono d’accordo con il Presidente e con il suo obiettivo, la modernizzazione. Ma non funzionerà se il popolo è tagliato fuori, se è considerato solo una pedina. Per avere persone che si sentono e agiscono da cittadini c’è una sola ricetta: democrazia, legalità e dialogo aperto tra il popolo e il governo. Quello che ci frena è la paura. Tra la gente come fra chi governa serpeggia il timore che la modernizzazione potrebbe portare all’instabilità e persino al caos. In politica la paura è una cattiva consigliera, dobbiamo superarla. Oggi la Russia ha molti cittadini liberi e indipendenti pronti ad assumersi responsabilità e a sostenere la democrazia. Ma molto dipende dai comportamenti del governo.
Copyright 2010 Mikhail Gorbaciov
Distribuito dal The New York Times Syndicate
Ansa» 2008-07-24 14:03
UCRAINA, STATUA LENIN DIVENTA CAMPANA CHIESA
MOSCA - Gli abitanti della città ucraina di Lutsk, nell’ovest del paese, hanno deciso di fondere una statua in bronzo di Lenin per farne campane per le due cattedrali locali, Santo spirito e Assunzione. Lo riferisce l’agenzia on line Newsru.com. Il monumento era stato già smontato 17 anni fa, ma la statua era rimasta in deposito. Sarà la locale fonderia Valinski a provvedere al ’nuovo look’ del defunto padre dell’Unione Sovietica.
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La rivista «La Nuova Europa» pubblica una lettera inedita in Italia in cui l’autore russo prefigurava l’equivalenza dei regimi
Pasternak: nazismo e comunismo sono gemelli
Lo scrittore nel ’33 definiva i due totalitarismi «figli della stessa notte materialistica»
di Boris Pasternak (Corriere della Sera, 14.07.2008)
5 marzo 1933, Mosca
Miei cari mamma e papà, scusate se per tanto tempo non vi ho scritto, proprio non mi riusciva.
Non so come rispondere alla tua domanda a proposito di Anatolij Vasil’evic’; è questione terribilmente difficile e non ne ho il cuore. Un uomo che ha sofferto un colpo, la cui vita è appesa ad un filo, invecchiato, irriconoscibile, pronuncia davanti agli scrittori un discorso pubblico sulla drammaturgia, pieno di odio e di minacce, assetato di sangue e rivoluzionario: e questo quando ha già un piede nella fossa. Io ascoltavo con orrore e indicibile pietà. Mi sarà difficile trattare con lui, tanto più che si dice sia ancora malato. Forse è meglio che tu chieda a Šura.
Avete gioito troppo presto per la mia raccolta: l’hanno vietata. E inoltre in questi giorni hanno vietato anche la seconda edizione de Il salvacondotto, dedicata alla memoria di Rilke. Nonostante tutti questi dispiaceri siano insignificanti rispetto a come vive qui la gente, scriverò comunque a Gor’kij, per quanto ciò mi pesi. Le parole sul mio conto in cp. pal. hanno colto nel segno. Amara verità.
Come spesso ti ho scritto, a volte mi sembra di essere impazzito o di vivere in un incubo. La passaportizzazione riguarderà anche me: colpisce le due donne che fino ad oggi erano insieme a mio carico e che io ugualmente mantengo. Inoltre, Zina ha ancora una zia che probabilmente sarà sfrattata e non sa dove sbattere la testa. Garrik è già in confusione. Sono nel panico anche i vicini, i Frišman e Praskov’ja Petrovna. Con le tessere del pane ci sono state molte dolorose disavventure. Eppure gli scrittori sono portati in palmo di mano. Ma come fa la gente comune?
D’ora in avanti, forse, diventerà impossibile scriversi: è probabile che cresca la diffidenza da entrambe le parti. Ecco perché scrivo più apertamente che mai e proprio sul tema centrale, affinché in futuro possiamo limitarci esclusivamente a scambi di battute sulla salute, sempre che questa lettera vi arrivi e che a me non succeda nulla.
Auguro di tutto cuore, come pochi altri fanno, che sia coronato da successo qualsiasi tentativo di costruire un’umanità finalmente umana; e lo auguro soprattutto al nostro, visto che è proprio questo lo scopo per cui sono state sopportate così tante prove nel nostro Paese. Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano: cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l’uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un’identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa, che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l’altro, il che è sempre più triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica.
Rispondimi comunicandomi di aver ricevuto questa mia lettera e dandomi notizie sulla vostra salute, e fammi anche sapere se devo continuare a scrivervi in russo o se è meglio in tedesco. Nel caso la corrispondenza alla nostra vecchia maniera crei difficoltà, per comodità comincerei a scrivervi nel mio pessimo francese storpiato. Avete letto la biografia di Wagner di Guy de Pourtalès? Leggetela. Ho molti progetti, ho una voglia matta di lavorare, ma tutto ciò è ancora là da venire: è idealismo.
Vi bacio forte Vostro Borja Lo scrittore Boris Pasternak (1890-1960) ritratto nel 1924 con la prima moglie Evgenija Lourie e il figlio Evgenij
La capacità rabdomantica di anticipare gli eventi
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 14.07.2008)
Un Boris Pasternak talmente ispirato da sembrare il dottor Zivago, da identificarsi completamente con il suo personaggio letterario più famoso. È questo il profilo dell’autore di questa lettera, inedita fuori dalla Russia.
Testimonianza doppiamente forte e inquietante, se si considera la data che porta, cioè il 5 marzo 1933. Hitler era cancelliere in Germania da due mesi, mentre il regno staliniano teneva ancora in serbo i suoi orrori peggiori.
Eppure Pasternak già sapeva quel che sarebbe accaduto. Come spiegarlo? La risposta è nel passo in cui si parla di prefigurazione, cioè della capacità di vivere gli eventi in anticipo, immaginandoli: questa è considerata caratteristica distintiva dello scrittore ma, più in generale, tessuto connettivo di qualsiasi esperienza realmente umana. È invece il materialismo, secondo Pasternak, ovvero il «bestialismo del fatto», a distruggere l’uomo e la sua anima.
Ma là dove il profetismo dello scrittore si rivela inquietante è nel paragone fra «i due regimi gemelli di pari livello, dove uno emula l’altro», comunismo e nazionalsocialismo. Chi, oltre a Pasternak, poteva aver già colto nel 1933 quella affinità tra i due sistemi che qui lo spinge a scrivere: «Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica»? Certo, un altro grande della letteratura russa, Vasilij Grossman, avrebbe descritto in Vita e destino l’equivalenza delle due bandiere rosse - una con la falce e martello e l’altra con la svastica - ma sarebbe arrivato a una simile, amara conclusione solo nel 1960.
L’unica spiegazione possibile è questa: la particolare filosofia di Boris Pasternak, la sua teoria riguardo alla necessità di lasciarsi invadere dalla vita senza remore, pronunciando un sì a ogni suo aspetto, comprese le illuminazioni e le contraddizioni, lo rese straordinariamente ricettivo, acuto, rabdomantico nell’indagare la marea montante dei totalitarismi.
Il merito della scoperta va a Serena Vianello, che si è imbattuta nel documento (il cui originale appartiene al fondo Pasternak di Oxford) consultando a Mosca l’Opera Omnia dello scrittore, da poco pubblicata. I riferimenti cui si allude nel documento sono stati decifrati da Simona Vianello: Anatolij Vasilevic, ad esempio, è Lunacharskij, primo commissario del popolo per l’Istruzione, cui il padre di Boris sperava di strappare l’autorizzazione a pubblicare un suo libro. Šura è il nomignolo di Aleksandr, fratello minore dello scrittore; la «passaportizzazione» allude al nuovo obbligo di passaporto interno con indicazione del domicilio; Garrik era un grande pianista, marito della sua futura seconda moglie; Guy de Pourtalès un biografo svizzero famoso all’epoca. Soltanto della misteriosa sigla «cp. pal.» sembra non sia ancora stata trovata la chiave.
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007