IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO .... MA DA CHI?! Alcune note a margine dell’incontro dei cattolici del 16 maggio di Firenze*
di Federico La Sala *
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?!
Certamente non da Gesù: egli è “venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità”. E certamente non avete ascoltato la sua voce: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv., 18.37).
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?! A quale tavolo vi siete seduti, e con chi?!
Certamente non da Gesù e certamente non con Gesù: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo" (Mt. 26:26); “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi" (Gv. 6:53).
DALLA PRIMA LETTERA DI GIOVANNI:
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE ... DEUS CHARITAS EST (1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ... DIO E’ AMORE (1Gv., 4. 1-16).
In verità, se siete capaci di intendere e di volere, il vostro “vangelo” è il “van-gelo” del “latinorum”, dei don Abbondio e dei don Rodrigo ... dei “Papi” di oggi, e di Ratzinger!!!
E il vostro Padre è “Mammona” (“Caritas”)!!! E’ ora di svegliarsi - al di là del disagio e del dissenso!!! Avete ricevuto e predicate un “van-gelo”, gelido e mortifero che non ha nulla a che fare con la buona-novella (eu-angelo), il messaggio evangelico!!!
Il teologo Ratzinger scrive da papa - senza grazia (“charis”) e senza “h” (acca) - una enciclica sul “Padre nostro” (“Deus charitas est”: 1 Gv. 4.16) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo - nonostante l’Anno della Parola e il Sinodo dei Vescovi (2008).
Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! Benedetto XVI: Deus caritas est, 2006 d. C.!!!
Su questa base, in un tempo (con che segni!) in cui i Papi si confondono con i “Papi” e il Papa in persona parla del Padre Nostro (Deus charitas) come “Mammona” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006) e con tutta la gerarchia vaticana appoggia il cavaliere “Papi della Patria” (come già ieri il cavaliere “Uomo della Provvidenza”), il discorso “per una chiesa della fraternità” e della sororità (G. Ruggieri, Relazione: Il Vangelo che abbiamo ricevuto), se non è da conniventi, è quantomeno ... da sonnambuli!!!
Se è vero, come è vero, che “i suoni emessi con la voce sono simboli (sùmbola) delle passioni (pathémata) dell’anima, ed i segni scritti sono simboli dei suoni emessi dalla voce”( Aristotele, De Interpretatione, 16a), ciò significa che le passioni che si agitano nelle vostre anime non dicono affatto del messaggio evangelico .... E che la vostra tradizione - falsa e menzognera - semplicemente non ha più (se mai l’ha avuto) nessun rapporto con la tradizione evangelica, e “simbolica”!!!**
E la proposta di ogni “prassi sinodale” sotto il vostro controllo ... è solo un’operazione per vendere a caro-prezzo (“caritas”) la grazia del vostro Dio Mammona (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006 d. C.)!!!
Io sono la Via, la Verità, la Vita... Il vostro “vangelo” è una parola ingannevole e un cibo avvelenato, che non ha nulla a che fare con la Lettera e lo Spirito del messaggio di Gesù Cristo, il figlio del Dio Vivente.
* Per gli interventi al convegno del 16 maggio, si cfr.: www.ildialogo.org/parola
* IL DIALOGO, Martedì 26 Maggio,2009 Ore: 11:59
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NOTA:
La parola "simbolo" deriva dal latino symbolum ed a sua volta dal greco σύμβολον súmbolon dalle radici σύμ- (sym-, "insieme") e βολή (bolḗ, "un lancio"), avente il significato approssimativo di "mettere insieme" due parti distinte.
In greco antico, il termine simbolo (Σύμβολον) aveva il significato di "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale", secondo l’usanza per cui due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tessera, di solito di terracotta, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un’alleanza, da cui anche il significato di "patto" o di "accordo" che il termine greco assume per traslato. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera provava l’esistenza dell’accordo (Wikipedia).
La Chiesa gerarchica controlla le "azioni" dello Spirito santo e garantisce, amministra e distribuisce a "caro prezzo" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006) la Grazia di Dio ("charitas")!?! Avanti tutta!!! Verso il III millennio avanti Cristo!!!
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
INDIETRO NON SI TORNA. GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA ...
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”. Per i ‘Settanta’ di VATTIMO
CHIESA CATTOLICA. PENA DI MORTE NEL CATECHISMO
FLS
TEOLOGIA ED ESTETICA. I volti della Grazia... *
La preghiera.
Il nuovo «Padre Nostro» arriva in Avvento
La preghiera con la formula: "Non abbandonarci alla tentazione" anziché "Non indurci in tentazione" sarà recitata durante le Messe a partire dal 29 novembre
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 28 gennaio 2020)
Per il “nuovo” Padre Nostro ci vuole ancora un po’ di pazienza. La traduzione rinnovata della più popolare delle preghiere, insegnata direttamente da Gesù, sarà inserita nel Messale che verrà consegnato subito dopo Pasqua, quest’anno il 12 aprile.
Come noto il Padre Nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione “Non indurci in tentazione” lasci al posto alla più corretta formulazione “Non abbandonarci alla tentazione”. Versione, ha aggiunto monsignor Forte, che verrà recitata durante le Messe nella chiese italiane a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.
Leggi anche
Intervista.Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po’
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ...
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
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Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno, 1964.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KARL MARX E WALTER BENJAMIN: L’ "ODIO DI CLASSE" di EDOARDO SANGUINETI, oggi. "Ieri" a Roma la «Lectio Magistralis» dedicata a Pietro Ingrao
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
Il dono e il rifiuto del mercato *
La buona volontà è importante. Il desiderio di aiutare e sostenersi reciprocamente sono pietre fondanti della solidarietà sociale. Ma la confusione su ciò contro cui stiamo combattendo è probabilmente uno dei nostri maggiori problemi. Non saremo in grado di creare affari per spodestare il business!
Una economia del dono degna di questo nome implica una trasformazione massiccia di dimensioni alle quali, francamente, la maggior parte di noi ha paura di pensare. Apprezzo i miei amici con cui ho soprattutto goduto una generosità e una reciprocità incommensurabili.
Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale.
Forse è possibile. Ma se così è, dovremo comprendere il dibattito politico le dinamiche istituzionali ultime che faciliteranno una tale trasformazione. Non accadrà solo perché lo desideriamo, o perché proviamo molto amore per coloro che ci circondano. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo a venire.
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Cfr. Chris Carlsson, Il dono e il rifiuto del mercato (Comune-info, 12 febbraio 2014)
Una sfida ideologica
di José Castro Caldas, economista, ricercatore presso il Centro Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo)
(traduzione dal francese di José F. Padova) *
«Nella vita niente è gratuito». Questo adagio, che sembra espressione del buon senso, in realtà riflette il pensiero economico dominante. Distillato dai teorici alla moda e da una quantità di manuali universitari, fa parte di una visione sociale nella quale tutto inevitabilmente è commerciale. Ma da dove viene questa idea che opera un amalgama fra le nozioni di costo, di prezzo e di valore, allo scopo di facilitare l’estensione del mercato a detrimento dei beni pubblici e comuni?
Travestito da indigente
Nel 1975 l’economista americano Milton Friedman pubblicava There ’s No Such Thing as a Free Lunch («Un pasto gratuito? Non esiste!»), ma l’espressione circolava già da tempo. Si racconta un aneddoto edificante a proposito di Vilfredo Pareto, teorico liberale della scuola di Losanna, che sosteneva l’esistenza di leggi economiche simili a quelle della fisica. Pareto si sarebbe travestito da poveraccio per domandare al suo contraddittore, l’economista tedesco Gustav von Schmoller, dove trovare un ristorante che servisse un pasto gratuito. Quest’ultimo avrebbe risposto che non esisteva alcun posto simile, fornendo così la prova che tutto si compra.
Ma questo aneddoto, diventato un precetto insegnato agli studenti, ha qualche fondamento storico? Si sa, per esempio, che nel XIX secolo i saloon del nordamericani offrivano pasti gratuiti. I clienti avrebbero soltanto dovuto pagare le bevande che accompagnavano i piatti, in generale abbondantemente salati.
Più tardi, nel corso dei dibattiti sullo Stato previdenziale negli Stati Uniti, l’aneddoto è stato utilizzato dagli avversari del presidente Franklin Delano Roosevelt e di tutti i partigiani del Welfare State. Nel 1942 il giornalista Paul Mallon reagiva così alla proposta del vicepresidente Henry Wallace di garantire un minimo di cibo, di vestiti e di alloggio a tutti gli americani: «Il signor Wallace dimentica che non è mai esistito un pasto gratuito. A meno che l’umanità non acquisisca poteri magici, qualcuno dovrà sempre pagare per il pasto gratuito concesso a un altro». Molto rapidamente la formula «non vi sono pasti gratuiti» è divenuta il ritornello della teoria della scelta razionale. Quando gli individui o la società vogliono ottenere qualcosa, la quantità limitata per definizione delle risorse li obbliga a rinunciare a un’altra cosa.
Il mancato funzionamento del mercato
Secondo questa teoria, in una « ideale economia di mercato » ogni cosa ha un prezzo e chi vuole ottenerla deve pagare. Non si tratta qui di morale, bensì di logica. Fissato dalla legge dell’offerta e della domanda, il prezzo di un bene determina (e riflette) l’efficienza economica. Ogni altra situazione rivela una «lacuna del mercato», un problema da regolamentare e non una realtà alla quale occorre adattarsi.
Prendiamo il caso dei «beni pubblici» (1), il cui classico esempio è il faro che orienta le navi lungo le coste. La luce che diffonde è gratuita. D’altra parte sarebbe difficile immaginare un sistema di pagamento a carico dei naviganti, i quali, per definizione, non fanno altro che passare e sparire senza lasciare tracce.
Per gli economisti dominanti questa situazione è problematica. Effettivamente, se la costruzione dei fari fosse stata affidata al mercato, non ne esisterebbe alcuno. È grazie all’intervento dei poteri pubblici, dotatisi delle risorse necessarie grazie alle imposte, che essi sono stati eretti. E il ragionamento può ampliarsi. Alla fine, l’illuminazione delle città è un bene pubblico, per lo stesso motivo per il quale lo è l’aria pulita, il sapere, o gli oceani. Per certi economisti (2) la proprietà privata ha precisamente per origine la necessità di regolamentare il «problema» dei beni pubblici. Vale a dire, di trovare un mezzo per imporre un prezzo all’utilizzatore di un bene. Così si potrebbe pensare che le strade devono logicamente avere uno status pubblico. Ebbene, si inventano i pedaggi, soluzione capitalista ispirata ai dazi del Medio Evo! Il medesimo principio vale per il sapere: è difficile la sua privatizzazione? Sarebbe nefasta? Non importa! Si inventano i diritti di proprietà intellettuale.
Principio di necessità
Per la teoria dominante, la gratuità è una patologia che deriva da costrizioni naturali o tecniche; è un’eccezione alla buona regola. In linea di massima colui che vuole acquisire un bene o usufruirne deve pagarne il prezzo. E poco importa che il denaro diventi la condizione di accesso a tutto. Ugualmente poco importa per i beni che, per loro natura o funzione, non devono avere prezzo, come la salute o l’educazione.
Tuttavia, la logica mercantile non sarebbe in grado di estendersi a tutto. Così esistono cose o esseri il rispetto dei quali è più importante della ricerca di una pretesa efficienza economica. È il caso delle persone o degli organi umani. D’altro canto, certi beni potrebbero avere un prezzo, ma non ne hanno, perché una parte del loro valore risulta dal loro utilizzo condiviso: una piazza pubblica, per esempio. Infine, vi sono beni ai quali tutti devono avere accesso, indipendentemente dal loro potere d’acquisto, perché lo esige la necessità. In Portogallo si dice che «un bicchiere d’acqua non lo si rifiuta a nessuno» e anche negli esercizi commerciali si dà l’acqua a chi la chiede. Allo stesso modo il medico ha il dovere di prestare assistenza in caso di necessità.
Per lungo tempo spettava alle opere di carità distribuire i beni di base agli indigenti. Ma questa situazione non risponde che molto imperfettamente all’imperativo della necessità. È ciò che voleva dire Adam Smith - che spesso è stato male compreso - quando affermava che per il nostro pranzo non si deve sperare nella bontà del macellaio. La beneficenza ci rende debitori mentre si presume che il mercato ci liberi da qualsiasi legame di dipendenza: pagando il prezzo saremmo liberi. Per questo Smith auspicava che tutti potessero pagare i beni di prima necessità. Tuttavia il capitalismo, si sa, non ha soddisfatto questo auspicio, anche se, in certi casi, si è avvicinato all’ideale che Wallace evocava: la garanzia, da parte dei poteri pubblici, di un minimo di cibo, vestiti e alloggio.
Alla fine, la scelta di quello che deve, o non deve, essere oggetto di una transazione commerciale deriva innanzitutto dall’etica (3). Il mercato si basa su norme costruite storicamente e incrostate nella cultura, che sono spinte a evolversi. Infine, von Schmoller l’avrebbe avuta vinta su Pareto. Se in economia esistono «leggi», esse sono create dagli esseri umani; non risultano dalla natura. Quindi noi possiamo modificarle.
(1) Vedi Philippe Quéau, «A qui appartiennent les connaissances?», Le Monde diplomatique, janvier 2000.
(2) Cf. Armen A. Alchian et Harold Demsetz, «The property right paradigm», The Journal of Economic History, vol. 33, n°1, Cambridge, 1973.
(3) Elisabeth Anderson, «The ethical limitations of the market», Economics and Philosophy, n°6, Cambridge, 1990.
* Le Monde Diplomatique - ottobre 2012
Mai mercanteggiare
di Enrico Peyretti
dell’11 agosto 2012 *
Mai «mercanteggiare » sui valori cristiani, dice il card. Bagnasco. Bene. Non è un valore (anche) cristiano il "non uccidere"? Eppure su questo la chiesa cardinalizia "mercanteggia" con la ragion di stato nel giustificare la guerra (chiamata pace), in casi che praticamente al 100% non sono quei singoli rari casi tragicamente estremi in cui uccidere per non lasciar uccidere può diventare una orrenda necessità (un male, ma meno grave di quello che si cerca di evitare, come fu la collaborazione di Bonhoeffer al complotto contro Hitler).
Praticamente sempre le guerre di oggi (ora lasciamo stare il passato), terribilmente predisposte con la gigantesca e piratesca economia di rapina e di guerra, non sono contrastate con "parresia" evangelica dalla chiesa. E così la pena di morte inflitta per legge (e anche contro la legge) dagli stati con cui la chiesa vuole restare amica, secondo il magistero di Costantino, da 1700 anni.
E così l’economia dell’ingiustizia sistematica, a cui le strutture ecclesiastiche non di rado partecipano.
E così, non è stato un vero "mercanteggiare" con Berlusconi e i suoi misfatti politici quello della chiesa gerarchica italiana per tanti anni, in cambio di vantaggi materiali?
Cosa tutta diversa dal mercanteggiare è la mediazione politica, per la quale, se non si ottiene libero consenso democratico legale sulla maggiore giustizia, nella società pluralistica, si accettano dei passi intermedi, nella direzione giusta, ma senza mai cessare di dichiarare, ricordare e proporre il valore evangelico intero, come la pace e la giustizia, negando la collaborazione dei cristiani alla guerra e all’offesa pianificata della vita e della dignità umana.
* Fonte: Incontri di "Fine settimana"
Cattolici, l’appello di Bagnasco: “Più impegno in politica”
di Orazio La Rocca (la Repubblica, 11 agosto 2012)
In politica e nella vita pubblica «i cattolici siano sempre più numerosi e ben formati, come da tempo esortano Benedetto XVI e i vescovi italiani». Nuovo forte richiamo del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana e arcivescovo di Genova, a favore della presenza cattolica nella vita politica del Paese.
L’appello - lanciato ieri per la festa di San Lorenzo - arriva dopo una serie di analoghi interventi fatti da Bagnasco negli ultimi mesi in occasione delle assemblee vescovili e dei consigli Cei. Appelli e prolusioni che hanno quasi disegnato l’identikit del politico cattolico doc. E vale a dire, una figura «moralmente ineccepibile», fedele al Vangelo, aperta al dialogo, sempre attenta al «bene comune», ma mai disposta a «mercanteggiare » sui valori cristiani. Valori comunemente definiti dalle gerarchie cattoliche «non negoziabili» come la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale, la promozione della famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, libertà di insegnamento.
Punti rilanciati nell’omelia di ieri pubblicata - significativamente - quasi per intero dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede diretto da Giovanni Maria Vian, con un titolo altrettanto significativo, «Controcorrente per fedeltà al Vangelo». La presenza dei cattolici in politica, puntualizza tra l’altro il cardinale Bagnasco, «non è codificata in formule specifiche, fatta salva la consapevolezza che sui principi di fondo non si può mercanteggiare, che i valori non sono tutti uguali, ma esiste una interna gerarchia e connessione; che l’etica della vita e della famiglia non sono la conseguenza, ma il fondamento della giustizia e della solidarietà sociale».
E come “modelli”, il porporato indica «i grandi statisti cattolici che hanno portato la propria indiscutibile statura umana e cristiana che il Paese, l’Europa e gli scenari internazionali esigevano, allora come oggi». «L’appello del cardinale va raccolto sino in fondo e con coerenza», ha commentato Giorgio Merlo, deputato del Partito democratico e vice presidente della Commissione di vigilanza della Rai, secondo il quale «l’impegno politico dei cattolici, ovviamente laico pluralistico, non deve essere marginale e può avere un ruolo determinante anche in vista della prossima campagna elettorale».
Apprezzamenti anche dall’ex ministro Maurizio Sacconi del Pdl: «Ha richiamato i cristiani all’impegno pubblico ricordando che l’etica della vita e della famiglia sono il presupposto di ogni politica per il bene comune». Per Paola Binetti, deputata Udc, è un intervento che «va accolto integralmente, specialmente sulla difesa della valori, della promozione umana e della famiglia».
L’operoso Ferragosto del centro per Monti
di Francesco Lo Sardo (Europa, 10 agosto 2012)
La geometrica perfezione dell’incrocio di date attorno alla “Cosa catto-lib” in gestazione già la dice lunga. Sul suo versante “destro”, se così si può dire, domenica 19 agosto, a Rimini, il Meeting di Cl movimento ecclesiale il cui braccio socio-economico è la Compagnia delle opere - viene aperto dal cattobocconiano Mario Monti, accolto con tutti gli onori. Sul versante “sinistro”, lo stesso giorno, a Trento, all’indomani del convegno su De Gasperi di Pieve Tesino, il presidente della provincia Lorenzo Dellai riunirà molti dei convenuti tra cui l’aclista Olivero, il cislino Bonanni e il ministro Riccardi, per fare il punto in un incontro dell’associazione “Il popolo trentino”.
Cos’hanno in comune i ciellini della Cdo - orfani di Berlusconi e Formigoni - riuniti a Rimini attorno a Monti col cattolico-democratico Dellai - un politico perfetta espressione di quelle istanze del territorio evocate dal sociologo De Rita - con le Acli, la Cisl, la comunità di Sant’Egidio di Riccardi e, volendo proseguire nell’elenco, con l’Mcl, la Confcooperative, la Coldiretti, la Confartigianato?
Le sette grandi sorelle dell’associazionismo cattolico e le figure alla Riccardi (e a maggior ragione alla Corrado Passera) hanno in comune il retroterra di Todi: il summit benedetto dalla Cei di Bagnasco da cui arrivò la spallata a Berlusconi nell’autunno 2011 che, il 21-22 ottobre prossimi, tirerà le fila di un lungo lavoro di cui le tappe di Rimini e Trento segnano il giro di boa.
Nell’intervallo tra il parallelo tavolo Rimini-Trento del dopo Ferragosto e la sintesi di Todi si collocano due passaggi chiave: questi nel più tradizionale perimetro della politica romana. Il 7-9 settembre Chianciano ospiterà una kermesse dell’Udc in cui Casini - per l’ennesima volta, forse quella decisiva visto che il tempo stringe - scioglierà il partito e farà personalmente un passo indietro per mettersi a disposizione nell’impresa di costruzione di una grande lista catto-liberalriformista (forse guidata da Passera o Emma Marcegaglia, o da un consolato-ticket dei due) per le elezioni 2013.
Il 30 settembre Fini, con Fli, farà altrettanto. Passando per la cruna dell’ago dello scioglimento in un più vasto contenitore, la coppia Pier-Gianfranco potrà meglio traghettarsi nella Terza repubblica: in emulsione col complesso e articolato sentire del cattolicesimo democratico e liberalriformista che dalla base sindacale - passando dalla Cattolica e incuneandosi in Bocconi - pulsa nel cuore della raffinata tecnocrazia sociale di Monti e Passera. Anche Montezemolo, come Fini e Casini, farà un passo indietro e s’è già messo a disposizione: in cambio, il listone sarà anche espressione delle competenze selezionate in questi mesi dalla sua Italiafutura.
Obiettivo di questo centro, a bilanciamento e in alleanza col Pd, è la prosecuzione dell’agenda Monti. Elettoralmente si strutturerà in autonomia da Monti: di cui, dopo il voto, reclamerà l’entrata in campo come premier. Così sarà, piaccia o non piaccia. Perché le sole sette grandi sorelle cattoliche hanno un loro bacino elettorale di dieci milioni di voti: in cerca d’interpreti e contenitori. Ha scritto il direttore di Avvenire Marco Tarquinio: «Diverse situazioni politiche e di leadership hanno reso tormentate la militanza partitica e le scelte di voto di tanti cattolici impegnati: nel passato, nel presente e, si spera, non nel futuro». E la soluzione, come dice uno dei cervelli di Todi - il catto-bocconiano Roberto Mazzotta - non è un neo-partito cattolico ma «un accorpamento forte su un progetto che coincida, sostanzialmente, con il proseguimento dell’agenda Monti». Fino al 2018. La Cosa catto-lib, appunto.
Bertone va, i problemi restano
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2012)
Con la stessa intensità con cui per settimane in Vaticano ci si è scagliati contro “corvi”, calunniatori, vigliacchi traditori del Papa e della Chiesa, addirittura strumenti della volontà di seminare zizzania del “Maligno” (così il cardinale Bertone a Famiglia cristiana) giungono ora segnali dalla Curia di una sostituzione del Segretario di Stato dopo la ripresa estiva e di un fantomatico “governo tecnico”, che dovrebbe riportare la pace nel governo centrale della cattolicità.
Il vento è cambiato d’improvviso. Ma la tentazione di pilotare l’informazione, dimostrando che in alto loco si provvede sempre bene, permane intatta.
Non è dato ancora di sapere se e quando il cardinale Bertone cederà il campo. La partita non è chiusa. La lista dei successori immaginati o desiderati dalle varie cordate è lunga: si va dai cardinali Piacenza e Sandri all’attuale ministro degli Esteri vaticano mons. Mamberti, ad alcuni nunzi di nunzi di grande esperienza. Ma la crisi, ancora nel suo pieno svolgimento, dimostra già alcune cose.
I dissidenti, che hanno deciso di manovrare la raccolta di documenti segreti e di lanciarli nell’arena mediatica, hanno visto giusto nell’adottare una strategia che uscisse dal chiuso delle felpate manovre di palazzo. Oggi la questione della gestione della Curia è finalmente in agenda.
Quello che con silenziose pressioni su Benedetto XVI, anche da parte di alti prelati, non si era
riuscito a ottenere, è stato raggiunto attraverso la pianificata e metodica pubblicazione di rivelazioni
tutte autentiche - sul Fatto Quotidiano e nel libro di Gianluigi Nuzzi.
Dunque il “mistero” come strumento di governo non paga più. Anche la Santa Sede dovrà rendersi conto che nel XXI secolo ogni autorità, anche la più antica, deve rispondere all’opinione pubblica delle sue azioni, omissioni e colpe. Gli anglosassoni la chiamano “accountability”. Da lì non si sfugge. Cullarsi ancora nell’illusione che le critiche siano veleno proveniente da presunti nemici della Chiesa si rivela solo una perdita di tempo.
Mentre Benedetto XVI procedeva ad un consulto straordinario con un piccolo comitato di crisi composto da cinque autorevoli cardinali, il Vaticano ha annunciato la nomina di un “consigliere” per la strategia comunicativa, inserito nello staff della Segreteria di Stato.
L’americano Greg Burke, ex corrispondente di Fox News e Time, affiliato all’Opus Dei, è un provato professionista, ma ancora una volta in Vaticano si confonde una crisi nata da problemi di sostanza - finanze e potere - con presunti “errori di comunicazione”. I numerosi incidenti di percorso di questo pontificato sono stati prima negati e poi derubricati a sbagli nel comunicare. Non di questo si tratta.
Dall’incidente di Regensburg, che infiammò l’Islam, all’affare Williamson (il vescovo negazionista lefebvriano liberato dalla scomunica), fino alle polemiche sugli insabbiamenti dei casi di pedofilia, sono sempre state in gioco scelte sostanziali del pontefice e del Vaticano. E comunque né il Papa né il Segretario di Stato hanno mai voluto “consigli” su come comportarsi.
Padre Lombardi, il direttore della Sala Stampa vaticana costretto a difendere continuamente trincee indifendibili, sarebbe stato - ed è - pienamente in grado per la sua esperienza di suggerire al pontefice quali effetti certe decisioni o dichiarazioni hanno sull’opinione pubblica. Non gli è stato mai chiesto di esercitare un ruolo di cooperatore della strategia mediatica papale come avveniva con Navarro ai tempi di Giovanni Paolo II.
Anche perché una strategia questo pontificato non ce l’ha. È stato lo stesso segretario papale Gaenswein a ribadire recentemente che Benedetto XVI “non è un politico” e il suo pontificato “non è un progetto”.
Il problema è esattamente questo: la guida di un organismo di un miliardo e duecento milioni di fedeli, qual è la Chiesa cattolica, richiede un programma di governo. Una vittoria degli avversari di Bertone non risolverà questa carenza di fondo. Perché nel sistema di monarchia assoluta, com’è il governo della Chiesa cattolica, lo stato maggiore alla fine riflette le direttive o le incertezze del comandante supremo.
PAPA RATZINGER, come ciclicamente si è ripetuto nel suo pontificato, sta intervenendo con ritardo e quando i danni maggiori sono già stati provocati. Il momento di prendere in mano la situazione era precisamente quando il cardinale Nicora e l’allora presidente dello Ior Gotti Tedeschi sollevarono la questione della trasparenza della banca vaticana. Aver lasciato passare mesi è segno di una debolezza di leadership, difficile da immaginare superata.
Ad ogni modo i veri nodi attendono tuttora di essere affrontati. Perché l’opinione pubblica poco si cura di “nuove strategie di comunicazione”. Vuole invece sapere cosa ne sarà della banca vaticana, che in passato si è drammaticamente mostrata poco concentrata sulle opere di carità.
Marco Lillo su queste colonne ha anticipato il parere negativo degli ispettori di Moneyval sulla incapacità dello Ior di rispondere - su una serie di punti - ai requisiti di trasparenza richiesti dal sistema finanziario internazionale.
Se lo Ior, come tutto lascia prevedere, non sarà accolto nella “white list” delle banche mondiali, il danno per la credibilità della Santa Sede sarà grande e a poco varranno un consigliere di comunicazione e neanche un cambio di Segretario di Stato
«Eucaristia cuore pulsante della nostra vita»
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle!
Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane naturalmente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti - come spesso avviene - per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani - ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid.
E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).
Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato.
La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.
Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.
Dho ’scomunica’ la Lega: "Non sono cattolici"
intervista a mons. Sebastiano Dho a cura di Giovanni Panettiere
in “Quotidiano.net” del 15 febbraio 2012
Alba, 15 febbraio 2012 - Connivenza tra Santa Sede e Berlusconi? "L’impressione è diffusa e sofferta". Sottovalutazione del fenomeno Lega? "I vertici della Chiesa non hanno vigilato a dovere". Uno-due e palla al centro.
Non si mordeva la lingua, quando era in servizio, figurarsi ora che è in pensione. Per diciassette anni monsignor Sebastiano Dho, classe 1935, come vescovo di Alba, ha preso posizione sui fatti più importanti della politica italiana, diventando una bandiera del cattolicesimo a difesa dei diritti dei migranti.
Celebre il suo intervento di fuoco contro l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina: "Dobbiamo contrastare la marea montante, il linguaggio, la cultura di autentico e violento egoismo, volto a difendere la nostra identità civile, fomentando la barbarie che alcuni manovratori dello Stato hanno voluto introdurre con il reato di clandestinità per chi viene da Paesi diversi, trasformando i centri di identificazione in vere e proprie carceri".
Era il 2009 e Dho alzava la voce contro la Lega, il partito più intransigente sul fronte migratorio. Tre anni più tardi, il vescovo ha lasciato la cattedra di Alba, il Carroccio traballa per le lotte intestine. E il Cavaliere è stato disarcionato da Palazzo Chigi, nonostante le voci insistenti su una ’sacra alleanza’ con la segreteria di Stato vaticana.
Ma davvero la Santa Sede ha favorito il governo Berlusconi?
"Nell’opinione pubblica, anche quella ecclesiale, almeno a livello di base e compreso il clero in diretto contatto con le comunità, l’impressione è diffusa e spesso sofferta".
Perché?
"Non si riesce a comprendere o trovare le ragioni positive di un tale comportamento ai fini di una vera evangelizzazione".
Non pensa che i mass-media abbiano contribuito a montare questa sensazione?
"Alcuni sostengono che l’impressione sia il frutto dei giornali, colpevoli di enfatizzare certi aspetti dei rapporti politici-ecclesiali. In ogni caso, è auspicabile maggiore chiarezza e coerenza nello stile, peraltro indicato autorevolmente dal Concilio Vaticano II".
Sulla Lega, invece, ha cambiato opinione in questi ultimi anni?
"Il mio giudizio negativo sulle politiche migratorie e quindi sulle forze politiche, che le hanno pervicacemente volute, non solo non è cambiato, ma al contrario ha trovato larga conferma in questi ultimi anni".
Che cosa la disturba maggiormente?
"Ogni impostazione di norme inspirate a principi di pregiudiziale discriminazione, con punte di razzismo e xenofobia. Sono in contraddizione diretta con i diritti umani e tanto più con i grandi valori cristiani".
Eppure la Lega, fino a qualche mese fa, è stata partito di governo e in più amministra regioni importanti del calibro di Veneto e Piemonte. Come spiega il successo di Umberto Bossi e compagni?
"É stata ed è preoccupante la cultura dell’egoismo localista, del sospetto, della paura, dell’incitamento all’odio verso il diverso, con esiti esiziali come l’aggressione ai campi rom. Così pure fa paura l’assurdo etico-giuridico del reato di clandestinità, basato sulla falsa ed inique equiparazione ’clandestino uguale criminale’".
E che cosa pensa dei cattolici che votano Carroccio?
"Che dei cattolici, almeno così si definiscono, aderiscano a tali teorie, sostenendone le concrete applicazioni politiche-legislative, certamente non può che allarmare tutti, ma in modo speciale chi nella Chiesa ha la responsabilità della guida pastorale".
Secondo lei i vertici ecclesiali hanno vigilato a dovere sull’ascesa padana?
"Senz’altro vi è stata una grave sottovalutazione, sia a livello di base che, e questo è ancora più preoccupante, da parte di chi sta in alto nell’istituzione cattolica. D’altronde, negli anni ’20-30 è avvenuto lo stesso, salvo pentirsene amaramente, quando era ormai troppo tardi".
Resta il fatto che i leghisti si definiscono cattolici e difendono i ’valori non negoziabili’ (la vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia eterosessuale, la libertà di educazione cattolica) promossi dal magistero. Non basta?
"Sui ’valori non negoziabili’, se non si sta attenti, si incorre facilmente, a volte in buona, ma più spesso in cattiva fede, in pericolosi equivoci. Questo elenco lo si cita sovente in modo parziale, e ciò che è più grave, strumentale ai propri interessi politici; se in effetti si va a verificare nei documenti ufficiali del magistero, ma ancora prima nella Parola di Dio, il primo e ineludibile ’valore non negoziabile’ è l’amore di Dio e del prossimo, senza alcuna discriminazione, anzi con la precedenza assoluta del bisognoso e dello straniero".
Tradotto?
"É giustissimo difendere la vita nascente e morente, ma non si può dimenticare che in mezzo ai due estremi ci sta la vita tutta, con i suoi problemi quotidiani. È una contraddizione difendere il crocifisso appeso al muro, cosa buona e lodevole, e poi calpestare letteralmente i crocifissi vivi, i fratelli sofferenti. Quelli che sono la vera immagine di Cristo a detta di Lui stesso (Mt 25)".
Per chiudere sui ’valori non negoziabili’, non trova martellante la loro promozione ad opera dei vescovi?
"Il richiamo non è martellante, ma è necessario che l’elenco sia sempre completo. Tra i principi va compresa anche la promozione della solidarietà, della giustizia e della pace".
Questi sono mesi segnati dalla crisi economica, con la mannaia delle imposte a decapitare i risparmi degli italiani. E intanto si torna a discutere di Ici e Chiesa cattolica: giusto parlare di privilegi per gli immobili ecclesiastici?
"L’attuale legislazione, se applicata correttamente, è equilibrata: i beni esclusivamente finalizzati al culto, ad opere di carità o comunque sociali, e senza lucro sono esenti in analogia con gli enti laici similari; i beni invece con uso commerciale sono tassati come è giusto che sia".
Non avverte un’indignazione crescente ai danni della Chiesa?
"In materia va denunciato il comportamento, a dir poco scorretto, tenuto dai mass-media. Sono state diffuse informazioni parziali, tendenziose, al limite anche false, inerenti al problema Ici e non solo. Questo atteggiamento può spiegare, almeno in parte, l’indignazione a cui si fa riferimento".
Lei da oltre un anno è vescovo emerito di Alba. Come trascorre le sue giornate?
"É naturale e logico che i giorni da ’emerito’, intesi come tempo e spazi d’impegni, siano, almeno in parte, cambiati. Ad esempio, non vi sono più le udienze d’ufficio con relativo orario. Ma ciò non significa che siano giornate vuote. Semplicemente hanno un’altra impostazione, con maggiore possibilità di preghiera, lettura, studio, ascolto di persone e, perché no?, camminate in montagna o nei boschi. Ovviamente con la precedenza data al ministero pastorale, ancora ampiamente esercitato".
Al raggiungimento dei 75 anni, ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età, in ottemperanza al Codice di diritto canonico. Pochi mesi dopo il papa ha accolto la sua rinuncia: le sarebbe piaciuto restare in servizio ancora un po’?
"Sono sempre stato convinto e lo sono tuttora che la norma dei 75 anni sia saggia e non siano opportuni prolungamenti vari. Non si tratta, infatti, di rinunciare a lavorare nella vigna del Signore. Si è solo sollevati dalla responsabilità delle persone, sacerdoti, in particolare, che rappresenta innegabilmente il peso maggiore. D’altronde, anche nell’ambito laico chi ha responsabilità importanti, a parte alcuni politici, va ’in pensione’ a 75 anni".
Quindi, non si sente in panchina.
"Assolutamente no. Fin da subito ho trovato nella mia diocesi di origine, Mondovì, dove oggi risiedo, e così in molte altre, ampio spazio di impegni pastorali. Il sacramento dell’ordine permane in pienezza e le possibilità, anzi le esigenze, di esercitare il ministero sono innumerevoli: oltre la celebrazione di cresime, l’aiuto, la collaborazione nelle parrocchie, la sostituzione di parroci malati o assenti, la predicazione di esercizi e ritiri spirituali, conferenze varie. In una battuta: la carenza seria non è di vescovi, ma di presbiteri!".
Nel corso del suo episcopato lei ha spesso sottolineato la preminenza del sacerdozio universale rispetto a quello ministeriale. Paolo nelle sue lettere non parla mai di sacerdoti, ma di presbiteri.
"Questa preminenza o meglio precedenza non è frutto di una mia personale opinione, ma piuttosto deriva dalla chiara affermazione del Vaticano II nel documento sulla Chiesa, Lumen Gentium".
Che cosa dice la costituzione conciliare?
"Al numero 10 si passa espressamente e direttamente dal sacerdozio di Cristo a quello di tutti i battezzati per poi precisare che quello ministeriale è posto a servizio dell’universale, il quale ovviamente perdura anche nei pastori".
Ma si può rivedere l’ordine sacro?
"Non penso sia il caso di ripensare il sacramento dell’ordine quanto piuttosto di essere fedeli alla retta impostazione conciliare".
In Austria l’Iniziativa dei parroci punta, tra le altre richieste, a nominare come presbiteri uomini e donne, anche sposati per far fronte alla carenza di preti. Quale è la sua opinione?
"Le proposte avanzate sono quanto mai varie e differenti. Necessitano, perciò, di un serio discernimento, come è stato affermato autorevolmente dai responsabili della Chiesa austriaca".
Nello specifico?
"Occorre distinguere: per le donne l’ordinazione è ritenuta esclusa a quanto risulta da un documento di Giovanni Paolo II. Per gli uomini sposati, di provata fede e vita (i cosiddetti viri probati), invece, la possibilità esiste, come d’altronde da sempre è in atto nella Chiesa orientale non solo ortodossa, ma pure cattolica".
Gratuità nel ministero
di Luisito Bianchi
in “Il Regno” - Attualità - n. 20 del 15 novembre 2006
Se la sapienza ama giocare con gli uomini (cf. Pr 8,31), può darsi che anche il giorno scelto dal potere religioso in Italia per decretare l’entrata in vigore di una legge concordataria faccia parte di tale gioco. Come può essere capitato per il 25 gennaio 1987.
Dicono che da mille anni questa data è consacrata alla memoria liturgica della Conversione di san Paolo. Ma conversio ad quid? Sappiamo che cosa avvenne sulla via che portava a Damasco. E fu in quel bagliore accecante che l’intransigente difensore della legge rimase per sempre travolto dalla piena della gratuità che proveniva dal corpo di Gesù, crocifisso e risorto, unica salvezza.
Accadde in quel momento il definitivo convergere di Paolo (la conversione appunto) sulla gratuità della salvezza, che viene non dalla legge ma da Gesù, come dono assoluto, senza contraccambio. Per tutta la sua vita, Paolo altro non fece che raccontare questa gratuità, operare perché altri si convertissero a questo Evangelo che è la buona notizia della salvezza come dono gratuito, non soggetto a pentimento. E tutto questo spinto dalla «necessità», cui è impossibile sottrarsi, di trasmettere quanto è stato ricevuto, una tradizione fondata sul ricevere e dare gratuitamente.
Da qui la sua assoluta intransigente gratuità nel trasmettere l’accaduto che gli rivelò la gratuità di Dio, al punto da preferire la morte (cf. 1Cor 9, 15) piuttosto che avvalersi perfino della facoltà di sedersi a mensa (eppure «l’operaio è degno del suo nutrimento», come da Mt 10,10) riconosciuta al rabbi nella cultura ebraica, perché non fosse sottoposto il suo annuncio di gratuità («economia della gratuità» di Ef 3,2ss) anche solo al sospetto d’una strumentalizzazione per risolvere il problema del vivere. Di qui la necessità di lavorare con le proprie mani per trarne il sostentamento ed essere assolutamente gratuito nella predicazione.
«Lavorai giorno e notte» dice in diversi luoghi delle sue lettere, e non tanto iperbolicamente se teniamo conto delle cinque motivazioni del lavoro stesso, come riporta il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (cf. At 20,33ss), fra le quali il sostentamento anche dei suoi collaboratori che non avevano la possibilità di lavorare per provvedervi da soli, sempre in viaggio a tenere i contatti fra le giovani Chiese e lo stesso Paolo. Anche loro, quindi, essendo suoi collaboratori, non dovevano far dipendere il loro sostentamento dal Vangelo. Quando poi Paolo, infermo o in prigione, non potrà sostentarsi col lavoro, solo allora accetterà l’aiuto dalla Chiesa di Filippi, ma non perché apostolo (anche da altre Chiese avrebbe dovuto pertanto accettarlo) bensì per amicizia (si ricordi la dolce violenza che gli fece Lidia in At 16,15, dove il verbo scelto da Luca per indicare l’irresistibile pressione di Lidia è lo stesso che usa per i due discepoli di Emmaus quando insistono perché lo sconosciuto entri in casa!).
Lavoro in primo luogo e amicizia poi sono, per Paolo, le due difese della gratuità dell’annuncio. Si raggiunge, così, attraverso l’esperienza di Damasco, il cuore della missione, come l’aveva indicato lo stesso Gesù: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
All’inizio, dunque, delle Chiese d’Occidente (non si dimentichi che anche Barnaba, a detta dello stesso Paolo - cf. 1Cor 9,6 - era del medesimo sentire) sta questa scelta di gratuità assoluta che viene indicata come esempio da imitare (cf. At 20,35; 1Ts 1,6-7; Fil 3,17; e, soprattutto, 2Ts 3,9). Come mai, allora, si arrivò a dichiarare impossibile la gratuità dell’annuncio dopo poco meno di 20 secoli di storia di tale gratuità, scaturita impetuosa dal cuore di Cristo, fatta da Paolo un tutt’uno con la propria vita, e continuata come fiume più o meno abbondante, fluente o in secca, ma sempre presente, per lunghi anni magari alla maniera d’un fiume carsico, che all’improvviso riappare con freschissime acque? Giacché, volere o no, è un fatto innegabile che dal 25 gennaio 1987 il sacerdote, nel momento in cui è ordinato (ordo ad) alla celebrazione della Parola e dell’eucaristiaentra necessariamente nell’istituto del sostentamento del clero e gli viene quindi praticamente chiusa e sigillata la porta alla gratuità in quanto è sottoposto al gesto del do ut des che è il contrario del gesto gratuito, indipendentemente dall’uso che può fare di tale retribuzione.
Questi sono fatti oggettivi, dai quali è facilissimo scivolare via. Che l’illazione poi che ne traggo sia altrettanto oggettiva, bisognerebbe che lo si chiedesse a san Paolo. «Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ’l crede» (D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, II, 32-33). Non so se ci sia stato o ci sia un vescovo che, accettando quanto avvenne il 25 gennaio 1987, abbia pensato alla possibilità che qualche prete, avendo già gustato la gioia liberante della gratuità che fu di Paolo e del filone che ne discende e attraversa tutta la storia della Chiesa, si trovasse sconcertato e perdesse la ragione del vivere dopo che, praticamente, i suoi vescovi gli avevano dichiarato illusoria, senza fondamento, la gioia liberante che durava da due decenni e che lo faceva sentire immerso nella tradizione della sua Chiesa, non ai margini. È vero che la storia di un prete fra migliaia è solo una storia; ed è pur sempre vero che la morte di uno vale la salvezza di tutti. Ma qui entra in gioco quella gioia liberante che è un bene di tutti, che tutti dovrebbero avere la possibilità di sperimentare, i miei confratelli intendo.
La mia storia non interessa, io fui un graziato perché continuai a beneficiare di tale gioia: e sono altri vent’anni che debbo aggiungere a quelli di prima. E tuttavia non sarei onesto se dovessi tacere l’interrogativo che mi posi quando mi fu chiaro che in quel 25 gennaio 1987 l’istituzione ecclesiastica aveva fatto una ben altra conversio di quella di Paolo. E l’interrogativo è questo: se nel 1950, anno in cui fui ordinato prete, al posto del «non datevi pensiero (...) di quello che mangerete (...) guardate i gigli» (Lc 12,22.27) o dell’invio sine baculo, sine pera, sine calceamentis (cf. Lc 10,4), mi si fosse imposta una congrua retribuzione mensile, sarei diventato prete? Non so. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà.
Anche in questo momento mi torna l’interrogativo, e anche ora do la stessa risposta del primo momento: la mia storia non è fondata sui «se», ma mi assicura che da cinquantasei anni sono prete e che da quarant’anni gusto la gioia liberante dell’essere gratuito nell’annunciare il gratuito. Come si può calcolare da questi numeri, io sono giunto ormai al termine della mia corsa. E se ho un testimone da trasmettere alla nuova staffetta che sta per iniziare la sua corsa per tradere a sua volta, eccolo: guardate alla radice dei termini che, nel Nuovo Testamento, indicano gratuità e gioia; è la stessa, char: char-is per gratuità, charà per gioia.
Chissà se posso, senza suscitare diffidenze o malintesi, ma lo dico ugualmente (tanto nessuno può strapparmi questa radice che dà senso ai miei quattro palmi di terra): Fratelli vescovi, introducete fra le materie di studio dell’ultimo anno di teologia la storia della gratuità nel ministero nei venti secoli della Chiesa, e fate voi stessi l’esame finale con la domanda sul significato che racchiude la festa del 25 gennaio, Conversione di san Paolo. Ad quid? chiedete ai vostri giovani candidati, o anche vecchi. E dalla loro risposta capirete se dovete chiudere l’esame con una seconda domanda: «E tu?».
Posso sognare che qualcuno risponderà: sì, eccellenza, proprio ad modum sancti Pauli, e che voi avrete la magnanimità di dargli fiducia e studierete con lui il modo di sostentarsi nell’immane libertà e gioia di non far dipendere il sostentamento dall’annuncio evangelico?
Posso sognare che questa utopia (il non-luogo) diventi una charis-topia (il luogo della gratuità) per qualcuno? Ma fosse anche nessuno, che sia però nella libertà di scegliere, avendo ben presenti i rischi dell’una e dell’altra risposta. È tutt’altra cosa scegliere liberamente l’assegno mensile che il doverlo «subire» ope legis.
L’importante è che anche in circostanze simili, uno, nessuno o centomila si diano onore e gloria all’Unico che nel suo stesso corpo crocifisso e risorto ha fatto dell’u-topia una charis-topia, come unica salvezza. Non è una conclusione consolatoria. Non c’è consolazione né nel ricevere né nel non ricevere l’assegno mensile per il fatto che si è preti. La sola consolazione è il potermi affidare, nel buio, a questo corpo che siede sul trono della gratuità, egli stesso il solo gratuito, «per ricevere misericordia (...) ed essere aiutati nel momento opportuno» (Eb 4, 16).
Non ho comunque difficoltà ad ammettere che queste «parolette brevi» (Paradiso, I, 95) abbiano tutta l’aria d’un monologo, con i fantasmi che tale termine suscita, più che di una dimostrazione attraverso venti secoli di storia della gratuità ministeriale, e, per giunta, un monologo partigiano. Luisito Bianchi*
* Don Luisito Bianchi è noto per la sua esperienza di prete operaio prima e di scrittore poi (La messa dell’uomo disarmato, Come un atomo sulla bilancia, Monologo partigiano sulla gratuità ecc.).
di Roberto Monteforte (l’Unità, 28 gennaio 2012)
Questa mattina nel Palazzo apostolico si terrà un incontro importante. Papa Benedetto XVI ha convocato i capidiscatero di Curia. Ci sarà il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone e il suo sostituto monsignor Giovanni Becciu. Si dovrebbero affrontare problemi di governo interno alla Città del Vaticano, le comunicazioni e il rapporto tra i dicasteri e la segreteria di Stato. Una messa a punto della macchina non solo organizzativa. Dovrebbe rimarcare anche la centralità della Segreteria di Stato, un suo controllo su quanto viene prodotto e comunicato all’esterno dai singoli dicasteri. Pare paradossale dopo quanto abbiamo osservato in questi giorni.
Lettere indirizzate al pontefice e al segretario di Stato, dall’ex segretario del Governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò, finite sui giornali. Si tratta di due lettere scritte lo scorso anno in cui Viganò, che sentiva montare contro di lui un clima ostile che gli avrebbe impedito di succedere al cardinale Lajolo alla guida del Governatorato, denunciava malaffare e corruzione in Vaticano, indicando nomi e circostanze.
La sua decisa azione moralizzatrice gli avrebbe procurato molti nemici che avevano lavorato per screditarlo presso il segretario di Stato e presso lo stesso pontefice. Una campagna denigratoria che nella sua ricostruzione avrebbe avuto effetto, visto che il 19 ottobre 2011 viene nominato Nunzio negli Stati Uniti.
Le sue lettere sono finite alla redazione de Gli Intoccabili la trasmissione de La7 di Gianluigi Nuzzi che dopo le sue verifiche, lo scorso mercoledì sera gli ha dedicato una puntata bomba. A questa è seguita una reazione molto dura della Santa Sede, affidata ad una nota del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ma concordata sin nei particolari con la Segreteria di Stato. Verità parziali, forzature, falsità, denigrazione: per il Vaticano quella trasmissione conteneva gli estremi per una denuncia. Nella nota vaticana si ribadiva che la decisione di spostare Viganò a Washington era del Papa che manteneva intatta la sua fiducia nel monsignore, tanto da nominarlo suo Nunzio nella sede più prestigiosa, quella degli Stati Uniti. Padre Lombardi poi rassicurava: l’azione moralizzatrice di Viganò e del suo «capo» cardinale Lajolo, sarebbe proseguita con i loro successori.
Ieri il secondo round. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la seconda lettera, quella indirizzata dall’ex segretario del Governatorato al segretario di Stato in data 8 maggio 2011 per cercare di fargli cambiare parere e bloccare il suo spostamento. Nella missiva Viganò non solo rivendica i suoi meriti, ma indica per nome i suoi «nemici», ne richiama le responsabilità. Denuncia «una strategia» per metterlo «in cattiva luce». Cita fatti, circostanze e testimoni. Un’altra bomba. la seconda lettera
Indica il suo principale avversario «interno» nel monsignor Paolo Nicolini, direttore amministrativo dei Musei Vaticani. Sarebbe lui l’autore delle «veline» pubblicate da Il Giornale per danneggiarlo. E ne denuncia «comportamenti gravemente riprovevoli per quanto si riferisce alla correttezza della sua amministrazione».
L’elenco è lungo e circostanziato. Si parla di interessi esterni, di cattiva gestione dei Musei vaticani. Altra figura ritenuta impegnata nella campagna di denigrazione sarebbe Marco Simeon, l’attuale responsabile Rai dei rapporti istituzionali e vicedirettore della struttura Rai-Vaticano, vicino a Bertone. chi le ha diffuse?
Siamo a fine gennaio 2012. Oggi monsignor Viganò rappresenta il Papa a Washington. Qual è il senso di questa bomba a tempo scaduto? A chi serve? Chi ha fatto arrivare le lettere ai giornali? Missive riservate di cui erano in possesso soltanto il mittente e i due autorevoli destinatari. Stando a quella «Pervenuta» stampigliata in alto a destra della lettera riprodotta da Il Fatto e inviata aBertone, è dai suoi uffici che sarebbe uscita.
Un segno di quanto l’ostilità verso il segretario di Stato possa essergli vicina. In Curia c’è chi non accetta i sui modi accentratori e chi è preoccupato dal suo protagonismo. Alla fine di quest’anno compirà 78 anni. È l’età che ha visto il suo predecessore, cardinale Angelo Sodano andare in pensione. Starà al Papa decidere. Stima molto il suo più stretto collaboratore. Ma potrebbe non essere indifferente ad una campagna che lo presentasse come ostile alla moralizzazione.
BENEDETTO XVI
La preghiera di Gesù nell’Ultima Cena *
Cari fratelli e sorelle,
nel nostro cammino di riflessione sulla preghiera di Gesù, presentata nei Vangeli, vorrei meditare oggi sul momento, particolarmente solenne, della sua preghiera nell’Ultima Cena.
[...] le tradizioni neotestamentarie dell’istituzione dell’Eucaristia (cfr 1 Cor 11,23-25; Lc 22, 14-20; Mc 14,22-25; Mt 26,26-29), indicando la preghiera che introduce i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino, usano due verbi paralleli e complementari. Paolo e Luca parlano di eucaristia/ringraziamento: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 22,19). Marco e Matteo, invece, sottolineano l’aspetto di eulogia/benedizione: «prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Mc 14,22). Ambedue i termini greci eucaristeìn e eulogeìn rimandano alla berakha ebraica, cioè alla grande preghiera di ringraziamento e di benedizione della tradizione d’Israele che inaugurava i grandi conviti. Le due diverse parole greche indicano le due direzioni intrinseche e complementari di questa preghiera. La berakha, infatti, è anzitutto ringraziamento e lode che sale a Dio per il dono ricevuto: nell’Ultima Cena di Gesù, si tratta del pane - lavorato dal frumento che Dio fa germogliare e crescere dalla terra - e del vino prodotto dal frutto maturato sulle viti. Questa preghiera di lode e ringraziamento, che si innalza verso Dio, ritorna come benedizione, che scende da Dio sul dono e lo arricchisce. Il ringraziare, lodare Dio diventa così benedizione, e l’offerta donata a Dio ritorna all’uomo benedetta dall’Onnipotente. Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia si collocano in questo contesto di preghiera; in esse la lode e la benedizione della berakha diventano benedizione e trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù [...]
Crisi: donna in chiesa grida d’ aver fame. Prete, ora basta
A Palermo fedeli immobili *
(ANSA) - PALERMO, 8 DIC - Fedeli immobili, stamane a Palermo, mentre il sacerdote della chiesa di San Giuseppe dei Teatini celebra la messa e una donna che assiste alla funzione grida: ’’Dov’e’ la carita? Guardate come sono ridotta’’. La donna avanza verso l’altare, mentre il prete continua la sua omelia, e grida ancora: ’’Sono qui, senza niente. Non ho soldi e mi hanno sfrattata. E dove per ora dormo il frigorifero e’ vuoto e io muoio di fame’’. Una signora e poi un sagrestano tentano di calmarla, ma la donna insiste: ’’Ho fame e il mio frigorifero e’ vuoto’’. A questo punto il sacerdote interrompe l’omelia e le dice: ’’Signora, basta’’.(ANSA).
http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/sicilia/2011/12/08/visualizza_new.html_8294091.html
Discorso di congedo all’Assemblea generale della Caritas
di Lesley-Anne Knight
in “Independent Catholic News” del 4 giugno 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
Al termine dei quattro anni del suo mandato in qualità di Segretario generale della Caritas Internationalis, Lesley-Anne Knight si aspettava di servire per un altro mandato, ma la sua nomina era stata bloccata nelle scorse settimane dal Vaticano.
La dott.ssa Knight ha pronunciato il seguente discorso di congedo all’Assemblea generale della Caritas Internationalis lo scorso 27 maggio.
Vostra Eminenza, Eccellenze, Religiosi e Religiose, cari amici della Caritas, si dice che la vita è quello che ti accade, mentre sei impegnato a fare altri piani. Oggi, credevo di iniziare un secondo mandato come Segretario generale. Invece, mi trovo a dirvi addio e mi sembra di essere appena arrivata!
Quattro anni sono davvero un periodo troppo breve.
Ne parlavo ad un amico l’altro giorno, e lui mi ha detto che potevo prendere conforto nel fatto che ci sono stati molti leader di successo che hanno prestato servizio per un tempo altrettanto breve. Per esempio ... Giulio Cesare che fu capo dell’impero romano per circa quattro anni, fino a quando è stato pugnalato a morte nel 44 a. C.; Abraham Lincoln - considerato uno dei più grandi presidenti americani - in carica per soli quattro anni, fino al momento in cui gli spararono nel 1865; e John F. Kennedy, unico presidente cattolico degli Stati Uniti, è stato in carica meno di tre anni, prima di essere assassinato nel 1963.
"Ma faccio fatica a paragonare me stessa con un imperatore romano o di un presidente americano!", ho protestato. “Forse no - ha risposto il mio amico - ma devi comunque ringraziare di non essere stata assassinata”.
Sono stati una fonte di stress questi ultimi mesi, ma non sono questi i ricordi che voglio portare con me al momento di lasciare.
I ricordi sono tanti tesoro riguardo alla Caritas, ma più di tutto mi ricorderò delle persone della Caritas. Anche se ho solo avuto questo incarico solo per quattro anni, la mia partenza mette fine a un impegno all’interno della Caritas che abbraccia 20 anni, dei quali la maggior parte li ho trascorsi nel CAFOD, la nostra organizzazione in Inghilterra e Galles.
In particolare, mi ricordo delle tante persone al lavoro sul campo per la Caritas che ho avuto il piacere di incontrare durante la mia carriera. E sono molto lieta di averne rivisto alcuni in questa settimana.
Queste sono le persone che incarnano la vera essenza della Caritas: le persone che vivono e lavorano a fianco dei poveri, spesso il più difficile e pericoloso degli ambienti. Essi sono in prima linea nella battaglia contro la povertà, la loro realtà è lontana dal mondo esoterico degli statuti, dei regolamenti e del diritto canonico.
In molti casi essi hanno respinto una modalità di vita più comoda e gratificante per fare una opzione preferenziale per i poveri. Ecco il “cuore che vede” di cui parla papa Benedetto parla nella Deus Caritas est.
Si tratta di un’esperienza di umiltà necessaria a tutti i leader della Caritas quella di uscire sul campo e ricollegarsi con questa realtà fondamentale della Caritas in azione.
Dalla mia esperienza di programmi Caritas in tante parti del mondo, so che i lavoratori Caritas servono instancabilmente al fianco, e a favore, di gente di tutte le razze, persone di tutte le fedi, compresi quelli che non ne hanno nessuna. Essi sono un fulgido esempio di amore di Dio per l’umanità. Quale migliore dimostrazione dell’identità cattolica? Perché l’essere cattolico è, per sua stessa definizione, essere onnicomprensivo, lavorare per il bene comune di tutta l’umanità.
Mi ricordo anche dei nostri sostenitori Caritas sparsi in tutto il mondo. Ho avuto il piacere di incontrarli e parlare con molti di loro nel corso degli ultimi quattro anni. Alle riunioni dei cattolicinegli Stati Uniti e Canada, a Singapore, Australia, Nuova Zelanda, e in tutta Europa. Ho anche incontrato i rappresentanti dei trust e delle fondazioni che finanziano il nostro lavoro, così come singoli donatori, che spesso si rivolgono ai nostri uffici per contribuire con tutto ciò che possono permettersi di fronte ad un appello d’emergenza. In molti di questi incontri sono stata profondamente toccata dal rispetto e dall’ammirazione che in ogni parte del mondo la comunità cattolica ha per la Caritas Internationalis.
Sono convinta che essa sia una confederazione di cui essere molto orgogliosi. Nella relazione che ho preparato per l’Assemblea generale, ho parlato del viaggio che abbiamo intrapreso negli ultimi quattro anni. Credo che abbiamo compiuto davvero molta strada in questo periodo. Il mio augurio per la Caritas è che continui il suo viaggio, uniti nella mente e nel cuore. Non ho dubbi che siamo stati sulla strada giusta, e spero che la Caritas:
Continui ad essere una voce forte e autentica dei poveri e si assicuri che le loro voci
vengano ascoltate nei dibattiti internazionali sui cambiamenti climatici, migrazione, salute,
sicurezza alimentare e povertà cronica;
Continui a raggiungere e abbracciare la più ampia comunità di persone. Che possa
collaborare con altre organizzazioni religiose e laiche che condividono i nostri stessi valori.
C’è molto che noi possiamo dare e molto che possiamo imparare.
E, infine, che continui a lavorare per un maggiore equilibrio tra donne e uomini nella direzione delle organizzazioni Caritas. Non dobbiamo dimenticare che le donne laiche costituiscono una percentuale enorme dei lavoratori Caritas. Esse meritano rispetto e riconoscimento. La mia nomina come la prima donna segretario generale nel 2007 è stato un passo coraggioso. Sapete bene che possiamo compiere anche noi un lavoro: unica paura è la misoginia e il pregiudizio che si incontra sulla strada.
Ma qualunque sia la direzione che la Caritas prenderà in futuro, io sono chiamata ad una strada nuova e voi ora avete un nuovo Segretario generale.
Mi congratulo con Michel Roy per la sua nomina. E’ stato per me un grande privilegio essere stata in grado di servire questa meravigliosa comunità che noi conosciamo come la Caritas - e sono certo che Michel proverà gli stessi sentimenti.
Ti consegno le redini con affetto. Sarai nelle mie preghiere, perché so che hai davanti a te delle sfide importanti.
Avrai bisogno del coraggio di un leone, la pelle di un rinoceronte, la saggezza di un gufo e la pazienza di un orso polare. E non so se vi è un animale con gli occhi nella parte posteriore della testa, ma so che anche questo potrebbe essere molto utile!
Ora vorrei ringraziare tutti coloro che nel corso di questi quattro anni mi hanno offerto la loro amicizia e il loro sostegno, e tutti coloro che hanno lavorato così duramente per aiutare la Caritas nella fisionomia che vediamo oggi.
Ringrazio il nostro Presidente, l’Ufficio di presidenza e la Commissione legale per tutte le loro indicazioni preziose e la saggezza dimostrata.
In particolare, ringrazio il card. Rodriguez e tutto il bureau per la fiducia che hanno riposto in me e per la loro costante fedeltà, sostegno e preoccupazione nei miei confronti nei mesi trascorsi. Ringrazio i nostri Coordinatori Regionali, che hanno sempre costituito una critica cassa di risonanza per le nuove proposte, e una preziosa fonte di consigli e feedback da parte loro regioni. Ringrazio tutte le Regioni che mi hanno invitato alle loro conferenze annuali, coloro che hanno fatto parte degli organi consultivi, dei gruppi di lavoro e consultazione. Devo anche ringraziare tutti coloro che sono stati coinvolti nella progettazione e nella realizzazione di questa Assemblea Generale, comprese i nostri gentili e disponibili volontari e ausiliari. Avete tutti lavorato straordinariamente duro e penso che i risultati delle vostre fatiche siano stati apprezzati da tutti noi.
Ma soprattutto, debbo ringraziare i colleghi della squadra del Segretariato generale, senza la loro esperienza e il loro intenso lavoro sarebbe stato impossibile il mio stesso lavoro, e la cui fedeltà e gentilezza mi hanno sempre sostenuto.
Miei cari amici e colleghi del Segretariato generale, desidero rivolgere a voi uno speciale pensiero.Abbiamo parlato tante volte negli ultimi mesi di essere in acque profonde e di come uscirne ... Ci siamo detti quanto sia importante leggere i segni dei tempi ... abbiamo cercato di capire e di compiere la volontà di Dio ...
Ho imparato che la volontà di Dio nella nostra vita non viene in linea retta, o con segni evidenti, o determinate scelte. La vita non è un insieme di costanti a cui ci aggrappiamo per la sicurezza o cercare un’affermazione. Al contrario, la vita è spesso confusa e sfocata, insicura sotto i tuoi piedi, incerta e tremolante al tatto. I nostri rapporti di amicizia non si sentono come ben saldi com’erano una volta. Il mondo intorno a noi si è inclinato e ha perso l’equilibrio senza chiederci il permesso. Nulla è ciò che era una volta, nulla è ciò che ha promesso di essere.
Ma una cosa è inevitabile: il nostro modo di affrontare qualsiasi avvenimento che ci accade all’esterno dipenderà interamente da ciò che siamo diventati dentro di noi.
Il luogo dove abbiamo fissato i nostri cuori, qualunque cosa sia ciò che abbiamo loro offerto, questo determinerà il nostro modo di fare esperienza di tutto quanto ci accade in questo momento. Michel, tu erediti un dream team (una squadra da sogno) che merita il tuo più alto rispetto e riconoscimento, per favore prenditi cura di loro.
Dopo l’annuncio che avrei lasciato la Caritas, sono stata travolta da decine di messaggi di sostegno e di buona volontà provenienti da ogni parte del mondo. Sono giunti da parte di lavoratori Caritas in tutte le nostre sette Regioni, da vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, fondazioni caritative cattoliche, corpi diplomatici e la più ampia comunità umanitaria.
Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno scritto, e anche tutti voi che mi avete espresso i vostri migliori auguri personalmente nel corso di questa settimana. Le vostre parole gentili, i pensieri e le preghiere sono state per me una sorgente enorme di forza e di ispirazione e mi hanno mostrato la profonda bontà che esiste all’interno della famiglia della Caritas che amo.
E io avverto profondamente che la Caritas è una comunità, anzi è per molti versi un modello per la visione di quell’”unica famiglia umana” a cui tendiamo.
Molte famiglie oggi - come anche la mia - sono sparse in tutto il mondo, spesso a migliaia di chilometri di distanza. I moderni mezzi di comunicazione rendono facile il tenersi in contatto. Ma tutti sappiamo che non vi è niente che possa sostituire il riunirsi di una famiglia vera, quando si può raggiungersi e abbracciarsi l’un l’altro. E questo vale anche per la nostra famiglia Caritas.
Una collega Caritas, molto saggia, e di lungo corso, una volta quando mi sentivo un po’ nervosa riguardo agli obiettivi e risultati che avremmo potuto raggiungere in una riunione mi ha dato un buon consiglio: "Abbi fiducia nel fatto stesso che ci troviamo”, mi disse. E infatti c’è qualcosa di molto speciale in un incontro Caritas. Ci incontriamo non solo per parlare di business, ma ci riuniamo per pregare insieme, abbracciarci l’un l’altro ed aprirci il cuore l’uno l’altro.
Ho sperimentato questa speciale comunione che regna in Caritas in diverse occasioni, ma mai in una maniera così intensa come nel corso questa settimana. In questa Assemblea generale ho avvertito il vostro abbraccio amoroso e questa è stata per una esperienza profondamente commovente e rigenerante.
Il vostro generoso riconoscimento del nostro lavoro comune compiuto negli ultimi quattro anni ha fatto sì che io possa andarmene in pace. Ho sempre cercato di fare quello che sentivo era giusto per la Caritas e sono molto grata che la famiglia Caritas l’abbia riconosciuto.
Mi vengono in mente le parole di san Pietro nella sua 1 Lettera:
“E chi potrà farvi del male se siete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia, questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male” (1 Pt,3,13-17). Miei cari amici in Caritas, adesso che vi ho detto addio, prego altresì che restiate sempre orgogliosi e fiduciosi in quello che rappresentiamo come Caritas. E allo stesso modo che voi possiate rimanere aperti a tutto il nuovo che sta emergendo, aperti allo Spirito santo e a quello che Dio ci chiede di fare nel mondo di oggi, e ai nostri sforzi per diventare una sola famiglia umana. Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità ... ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità” (Col 3,1-14).
La chiesa che non ne può più
di Wanda Marra (il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2011)
“Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l’annuncio della Buona Notizia”. Comincia così l’appello di un gruppo di laici del Centro giovanile Antonianum di Padova, un’associazione fatta di persone legata alla Compagnia di Gesù. Una delle tante realtà di base della Chiesa in forte disagio rispetto ai vertici ecclesiastici che non hanno condannato in maniera forte e chiara il bunga-bunga.
“Anche noi abbiamo un sogno” intitolano la loro lettera i cattolici vicini all’Antonianum: ed evidentemente è un sogno condiviso da molti. In 10 giorni - dal 17 al 27 febbraio - l’appello (di cui dà all’inizio notizia il Mattino di Padova) riceve oltre mille firme. Poi viene rilanciato da un post di Paolo Flores d’Arcais sul Fatto quotidiano.it e su MicroMega (che denuncia con toni durissimi “la deriva anticristiana della Chiesa di Ratzinger, Bertone e Bagnasco”). In due giorni di firme ne arrivano altre quattromila. Sono sacerdoti, religiose ed esponenti di varie organizzazioni laiche di ispirazione cristiana, come i Cvx, vicine ai gesuiti, le Acli, l’Azione cattolica, la Caritas, gli scout dell’Agesci. E poi persone che si definiscono “cittadino”, “libero pensante”, “cristiano”, “insegnante cattolico”, “catechista”.
L’appello parla chiaro: un giorno chi guida la Chiesa “dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese. Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante”. Ancora: condannerà chi vuole comprare tutto col denaro. E farà un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. “Allora noi smetteremo di pensare che siano gli interessi economici o di potere a giustificare il sostegno a chi si comporta in modo così scandaloso”. Parole pesanti. Che rispecchiano lo stato d’animo di molti nella Chiesa di base. Da quando la questione Ruby è venuta fuori in tutta la sua evidenza il disagio è diffuso. Molti documenti li raccoglie Noi Chiesa, Movimento internazionale per la Riforma della Chiesa cattolica.
Come la lettera dei suoi membri al Cardinal Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, nella quale si legge: “Siamo sconvolti, perché vediamo la classe politica che governa questo Paese sprofondare sempre più nel degrado morale, nell’arroganza dell’impunità, nella ricerca del tornaconto personale”. E ci sono i contributi di Marcello Vigili, presidente della Comunità di San Paolo, che denuncia la degenerazione “antropologica” della realtà italiana, intrisa del modello berlusconiano. E gli ultimi numeri di Adista, l’agenzia di stampa sul mondo cattolico di base, sono pieni di testimonianze. Che condannano lo spergiuro, la corruzione, l’odio contro i diversi. “L’impressione sta diventando sempre più nitida: in Italia i cristiani investiti di qualche potere, ai potenti tutto perdonano mentre ai poveracci niente risparmiano”, scrive Don Francesco Pasetto, parroco della Chiesa dei ss Vito e Modesto a Lonanno, Pratovecchio (Ar).
E Don Mario Longo, della Parrocchia della Ss. Trinità di Milano: “Dobbiamo dire tutto il nostro sdegno e la nostra riprovazione per il signor Berlusconi che, vestendo panni di difensore della fede, della famiglia, della libertà, dell’amore e dei costumi, si dimostra solo un vecchio falso e laido (non laico, laido) che strumentalizza la sua finta e falsa immagine di cattolico”.
Che si tratti di argomenti scomodi per la Chiesa ufficiale lo dice anche il fatto che dall’Antonianum preferiscono non raccontare troppo di come stanno andando le cose. Dopo l’appello, il gruppo e le persone che vi gravitano intorno si sono incontrate e hanno avviato un percorso di riflessione. Che si interroghi sui temi dell’educazione, della corruzione, dell’onestà e della fatica di educare con i modelli in circolo che non aiutano. Si tratta di una realtà “politicamente trasversale” e non tutti hanno appoggiato l’attacco frontale al premier. Dal centro spiegano che l’appello era nato sulla rabbia e che ora si cerca una riflessione più meditata. L’appuntamento è per l’11 marzo.
Il responsabile della Caritas Internationalis “dovrebbe rafforzare l’identità cattolica della carità”
di Robert Mickens
in “The Tablet” del 26 febbraio 2011 (trad. di Maria Teresa Pontara Pederiva - www.finesettimana.org)
Il Vaticano ha reso noto di aver impedito la nomina per un secondo mandato a Lesley-Anne Knight al timone della più grande organizzazione ecclesiale per la promozione dello sviluppo, perché vuole un nuovo leader in grado di rafforzare l’identità cattolica dell’organizzazione e di stabilire rapporti di lavoro più cordiali con la Santa Sede.
Le ragioni di Roma per negare il consenso al reincarico alla dott. ssa Knigth a segretario generale della sede centrale a Roma della Caritas Internationalis (CI) sono riportate in una Lettera inviata dal Segretario di Stato Vaticano, card. Tarcisio Bertone, a tutte le Conferenze Episcopali del mondo e vista questa settimana da The Tablet.
“Nel corso dei prossimi quattro anni una particolare attenzione dovrà essere riservata all’armonizzazione della dimensione teologica della Caritas Internationalis ... in riferimento al suo ruolo di organizzazione che opera sulla scena internazionale”, si afferma nella lettera di tre pagine, datata 15 febbraio 2011. Si aggiunge poi che il prossimo Segretario generale della CI dovrà anche necessariamente migliorare i rapporti con gli altri organismi ecclesiali e con i Dicasteri della Curia Romana che abbiamo un qualche “interesse” per le attività della Caritas.
La Lettera - che è stata anche inviata a tutti i vescovi responsabili delle 165 Caritas nazionali che compongono la federazione della Caritas - indica inoltre che il lavoro di sostegno che la Caritas svolge dovrà essere coordinato meglio “in stretta collaborazione con la Santa Sede, che è la specifica sede competente al riguardo”.
Espressioni simili sono state riprese martedì scorso dal capo dell’Ufficio per la carità del papa che ha il compito di sovrintendere alla Caritas Internationalis. “Possiamo anche essere competenti a livello organizzativo, ma siamo carenti in quanto a determinate qualità di coordinamento del lavoro e di rafforzamento dell’identità cattolica”, ha detto il card. Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, quando viene interrogato da The Tablet sui motivi per i quali il Vaticano ha negato il reincarico alla dott.ssa Knigth. “Sono convinto che ognuno abbia i suoi limiti”, ha affermato nel corso della conferenza stampa di presentazione del Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima. In un’intervista, pubblicata lunedì scorso, il cardinale ha detto che “Cor Unm” e la Segreteria di Stato erano “in attesa di un nuovo segretario generale della Caritas Internationalis che dovrà affrontare le nuove sfide interne” e tra queste ha citato la caratteristica di identità cattolica e “la cooperazione con la Santa Sede”.
Tuttavia, il card. Sarah ha elogiato la dott.ssa Knight - di nazionalità britannica e prima donna a ricoprire la carica di segretario generale della Caritas Internationalis - per aver reso la confederazione Caritas più agile e professionale. Il card. Bertone, nella sua lettera, le ha anche riconosciuto il merito di “aver conseguito risultati significativi e di aver agito con una professionalità ragguardevole”. Il Segretario di Stato insiste sul fatto che la negazione per un secondo mandato non significa “in alcun modo mettere in dubbio i suoi meriti o diminuire l’apprezzamento per il servizio reso”.
Ma la decisione del Vaticano di bloccare la candidatura per la ri-elezione della dott.ssa Kight ha provocato proteste in seno alla Confederazione, secondo quanto riferisce il suo immediato predecessore. Duncan McLaren, scozzese - che era segretario generale CI dal 1999 al 2007, ha affermato questa settimana che il Vaticano potrebbe bloccare solo quei candidati che non siano in buoni rapporti con la Chiesa. In un articolo inserito lunedì scorso sul sito web australiano della rivista dei gesuiti “Eureka Street” si è interrogato così: “Se la Knight era in buoni rapporti con la Chiesa quattro anni fa, cosa è cambiato nel frattempo?”. (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
Caritas, bocciata la direttrice scontro tra Bertone e Maradiaga
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 24 maggio 2011)
La Caritas internationalis contro la Segreteria di Stato vaticana. L’influente cardinale honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, presidente dell’organismo, contro il braccio destro del Papa, Tarcisio Bertone. È l’epilogo dell’assemblea generale della Caritas, i cui lavori si stanno svolgendo in questi giorni in Vaticano.
Al centro della contesa, in atto da mesi e che soprattutto nello scorso febbraio ha conosciuto toni aspri, la figura del segretario generale della confederazione, Lesley-Anne Knight, nata in Zimbabwe, la cui riconferma è stata esplicitamente bocciata dalla Segreteria di Stato vaticana, nonostante godesse del forte appoggio del presidente dell’organismo, Maradiaga appunto. Nel suo discorso d’apertura l’alto prelato honduregno, personalità di spicco della Chiesa latinoamericana e figura nota negli ambienti diplomatici internazionali, ha elogiato la segretaria uscente.
«Avremmo tutti voluto continuare il nostro viaggio con l’attuale segretario - ha scandito Maradiaga - il modo in cui non le è stato permesso di essere candidata ha causato il reclamo nella nostra confederazione, soprattutto tra le molte donne impegnate nella Caritas». Il caso, benché sommerso, risale allo scorso gennaio. Con una e-mail la Segreteria di Stato vaticana aveva fatto sapere che, in vista dell’assemblea di maggio, mentre Maradiaga avrebbe ricevuto il cosiddetto "nihil obstat" necessario per la riconferma, lo stesso nulla osta non sarebbe stato invece concesso per la Knight.
Il cardinale honduregno si era a quel punto mosso per tentare di far rivedere la decisione. Ma il 15 febbraio, con una lettera scritta di suo pugno alle Conferenze dei vescovi, Bertone chiudeva la questione. Nel suo scritto il Segretario di Stato vaticano motivava il proprio intento non criticando l’impegno della Knight, quanto con il desiderio di dare nuova enfasi alla «dimensione teologica» della Caritas, per «migliorare la comunicazione» fra l’organismo e la Santa Sede, e chiamando la Caritas ad agire «in stretta collaborazione» con i funzionari vaticani.
Nei corridoi il movimento umanitario era criticato per comportarsi più come una secolare Organizzazione non governativa che come un braccio della Chiesa. Domenica sera una messa concelebrata da Bertone e Maradiaga alla vigilia delle cerimonie per i 60 anni della fondazione ha in parte stemperato i toni. Tuttavia, a ben leggere le parole espresse da Bertone nell’omelia, riportate dall’Osservatore Romano, un velato riferimento al caso è rimasto. «All’interno dei termini propri del suo peculiare modo di partecipare alla missione della Chiesa - ha affermato il Segretario di Stato vaticano - e se in comunione con i legittimi Pastori», la Caritas svolge una «azione di advocacy», che «è una ricchezza della Chiesa».
Il ruolo distinto della Caritas Internationalis
di Editoriale
in “The Tablet” del 4 giugno 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva - www.finesettimana.org)
Non è la prima volta che la Caritas Internationalis - grande agenzia umanitaria del mondo seconda solo alla Croce Rossa - si è trovata ad attraversare un momento difficile nei rapporti con il Vaticano. Ciò ha comportato la fuoruscita abbastanza demoralizzante del suo segretario generale, la dott.ssa Lesley-Anne Knight, il cui rinnovo del contratto alla guida dell’organizzazione umanitaria per altri quattro anni è stato bloccato da funzionari del Vaticano. Sembra che ci siano tre elementi in gioco: una lotta per la conquista di un territorio tra la Caritas e il dicastero vaticano che si occupa di carità, il Cor Unum; un conflitto di personalità, nel senso che la dott.ssa Knight e la gerarchia vaticana hanno chiaramente fallito nel creare un buon rapporto di lavoro; e una differenza di enfasi sulla politica, che ha portato alla luce il desiderio del Vaticano che le agenzie di aiuto e sviluppo di matrice cattolica dovrebbero sviluppare una più forte identità cattolica.
Ci sarebbero esili prove a sostegno di una voce circolata su Internet secondo la quale il vero reato della Knight sarebbe stato quello di difendere alcune agenzie umanitarie affiliate alla Caritas in Canada, accusate dagli attivisti pro-vita nordamericani di essere alquanto morbide in materia di aborto. Se quello fosse stato il problema, sicuramente avrebbe dovuto essere gestito in modo diverso.
La dott.ssa Knight, ex alto funzionario presso la sede Cafod a Londra, sarebbe probabilmente stata rieletta all’unanimità se le fosse stato permesso di ricandidarsi. Il presidente rieletto della Caritas, il card. Oscar Rodríguez Maradiaga, aveva parlato con forza in sua difesa. Il successore della Knight, Michel Roy, già alla guida della Caritas di Francia, il Secours Catholique, non ha manifestato alcun segnale che lo faccia porre in discontinuità con la gestione precedente. Ma, stando alle dichiarazioni di un funzionario, il Vaticano premerebbe nell’intenzione di riformare la costituzione della Caritas e creare un "nuovo profilo”.
Cosa questo possa significare è piuttosto confuso, ma sembrerebbe riferirsi al desiderio che la Caritas venga percepita come essere più chiaramente sotto il controllo della Santa Sede. Esistono due idee chiave in tensione fra loro: la necessità di preservare le professionalità all’interno della Caritas, e la necessità di incorporarla all’interno del quadro delle attività principali della Chiesa, in modo che essa non rappresenti solo un veicolo di carità cristiana, bensì anche di evangelizzazione.
Ma i professionisti non accettano con favore il ricevere imposizioni in merito al loro lavoro, né si vedono semplicemente come dei missionari. Ciononostante, è vero che la loro professionalità deve essere permeata di spiritualità cattolica, se la Caritas deve distinguersi per la sua azione.
Ritirare alla fonte il suo sostegno alla rielezione della Knight si è rivelato probabilmente il modo meno brutale con cui il Vaticano ha potuto mettere in atto la sostituzione del direttore generale. Nel racconto della dott.ssa Knight, nel corso dei suoi quattro anni a Roma, il Vaticano stesso avrebbe fatto ben poco per favorire un buon rapporto con lei. Il Vaticano, se solo fosse più aperto su questa vicenda, potrebbe ben dire qualcosa in risposta. Ma lo standard di approccio vaticano alle pubbliche relazioni - mai spiegare, mai chiedere scusa - sembra applicarsi anche in questo caso. E qui sta il pericolo.
Per cercare di costringere la Caritas e le sue 165 filiali internazionali in un cambiamento di ethos senza prima persuadere sulla reale necessità di un cambiamento - o anche spiegare con chiarezza cosa questo comporti - potrebbe sfociare facilmente un fallimento o una reazione di dissenso. Che potrebbe anche finire per danneggiare o persino distruggere una rete che, attraverso un lavoro coraggioso e instancabile per alleviare sofferenze e povertà, porta credito alla Chiesa cattolica in tutto il mondo. E questo è già di per sé una manifestazione dei valori del Vangelo, un potente strumento di evangelizzazione. In ogni riforma, la salvaguardia di questo spirito dovrà essere il punto di partenza.
I vescovi staccano la spina: «Italia, disastro antropologico»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 29 gennaio 2011)
«Siamo di fronte a un disastro antropologico: fermiamoci in tempo prima che degeneri ancora di più». L’invito del segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata è a «superare le risse, le guerre di tutti contro tutti», a recuperare «oggettività» e «pacatezza» per perseguire il «bene comune» e l’«interesse del paese». Questo chiedono i vescovi al termine del loro Consiglio permanente. «Ma pacatezza non vuole dire mancanza di indignazione». Precisa il segretario della Cei, attento a dare voce anche allo sconcerto e all’indignazione di tanta parte del mondo cattolico scandalizzato da quanto è emerso dalla «vicenda Ruby» che ha coinvolto il premier Berlusconi. Assicura che i vescovi si ritrovano pienamente nell’analisi accorta e preoccupata del presidente della Conferenza episcopale, cardinale Angelo Bagnasco.
Presentando ai giornalisti il documento conclusivo della Conferenza permanente il vescovo insiste molto sul bisogno di «mantenere pacatezza ed equità di giudizio, tanto più in un clima che, per ragioni oggettive, si fa più teso».
PACATEZZA E SCONCERTO
È solo così che per la Cei è possibile uscire dall’attuale situazione di crisi. Questo però chiarisce rispondendo a l’Unità, non vuole dire «lasciare marcire i problemi» o «restare indifferenti», ma guardare le cose «con sforzo di oggettività, volontà di risolvere, ciascuno secondo le responsabilità che ricopre». «Non vedo contrapposizione - ha voluto sottolineare - tra indignazione e pacatezza». Mette in guardia. «Finchè la ricerca del bene del Paese viene strumentalizzata e resta tacciabile di essere una difesa di parte, si prolunga la difficoltà di prendere in mano la situazione». Senza alzare i toni i vescovi confermato quanto detto dal loro presidente, Bagnasco. Compreso l’allarme sul degrado morale, ancora meno sostenibile se si considera l’impegno della chiesa per l’«emergenza educativa» e l’esigenza di offrire, in particolare ai giovani, valori positivi e di speranza. È esplicito Crociata. «Chi ha maggiori responsabilità ha un maggiore impegno a risultare esemplare nel suo comportamento, nella sua vita, affinché le giovani generazioni crescano secondo un modello di autentica riuscita morale».
Nelle sue parole non vi sono riferimenti diretti al «caso Ruby» e alle accuse rivolte dalla magistratura al premier Berlusconi. Non è compito della Chiesa - sottolinea il vice di Bagnasco - prendere una posizione «politica», come sull’eventualità di elezioni anticipate come esito della drammatica crisi politica del Paese. «Gli sviluppi di temi strettamente politici - chiarisce Crociata - sono affidati agli attori responsabili di questi sviluppi e dei meccanismi istituzionali che presiederanno a questo ambito». «Tutti - ha aggiunto Crociata - siamo chiamati a seguire gli eventi con senso civico per il bene della vita del paese, perché questo momento di tensione va superato».
Ha pure chiarito come l’attenzione della Chiesa ai temi etici non si limiti soltanto all’inizio e «al fine» vita. A proposito del «federalismo fiscale» i vescovi chiedono attenzione a «non produrre divari tra una parte e l’altra dell’Italia», salvaguardandone «l’unità».
Sull’inchiesta G8 che vede coinvolto oltre all’ex ministro Lunardi anche il cardinale Sepe per quando era a capo di «Propaganda Fide», monsignor Crociata ha espresso la sua solidarietà al porporato ora arcivescovo di Napoli, ma anche fiducia nella magistratura, confidando «che le cose saranno chiarite nelle sedi opportune».
Se Bagnasco fa politica
di Paolo Flores d’Arcais ( il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2010)
Moralmente parlando, siamo al governo Berlusconi-Scilipoti. Politicamente, siamo al governo dei tre B: Berlusconi, Bossi e Bagnasco. Sua Eminenza, infatti, qualche istante dopo il votomercimonio con cui a Montecitorio Berlusconi aveva evitato la sfiducia, già avvertiva l’impellente stimolo di incensarlo così: “Ripetutamente gli italiani si sono espressi con un desiderio di governabilità. Questa volontà, questo desiderio espresso in modo chiaro e democratico, deve essere da tutti rispettato e da tutti perseguito con buona volontà ed onestà”. Il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano viene così santificato dal presidente della Conferenza episcopale, che parla evidentemente a nome di tutti i vescovi italiani.
Cosa c’entrino “buona volontà e onestà” con lo sfacciato acquisto “un tanto al chilo”, prolungato urbi et orbi lungo tutto un mese, di uomini e donne che dovrebbero rappresentare la nazione, lo sa solo Iddio. Con questo ultimo “endorsement” al caro amico di Putin e Gheddafi, la Chiesa gerarchica ha toccato lo zenit nel suo pellegrinaggio di ritorno al costantinismo, calpestando tutte le aperture di laicità del Concilio Vaticano II e del “Papa buono” Giovanni XXIII.
In uno dei passi più noti del Vangelo (Luca, 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo “voi non potete servire Dio e Mammona”, e in Italia non c’è nessuno che - con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati-abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà.
Non è possibile credere che tutta la Chiesa italiana condivida tanto oltranzismo filo-berlusconiano. Certo, ci sono i “preti in prima linea”, che hanno il coraggio di condannare il “pranzo dell’ignominia con Berlusconi” e lo “scandalo della gerarchia cattolica che si è inginocchiata alla mensa della corruzione, ha offerto corruttele e in cambio ha ricevuto soldi di peccato, leggi arraffa” per concludere con un “Bagnasco, Bertone, Ruini. Liberaci, o Signore!” (don Paolo Farinella). Ma anche nella Chiesa gerarchica, tra i vescovi, possibile che i tanti che in privato sussurrano gli stessi giudizi, abbiano deciso di ridursi a una volontaria “Chiesa del silenzio”?
Non è il Dio in cui credo
di Nandino Capovilla (Adista/Notizie, n. 64, 31 luglio 2010)
Tra catechismi e compendi, guide e sussidi, le nostre librerie non riescono nemmeno ad esporre tutta la produzione di tentativi per ridurre, semplificare e sminuzzare l’unico testo veramente consigliabile, la Parola di Dio. Tutti questi Bignami vogliono spiegarci chi è Dio e come rapportarci con lui, ma spesso esco sconcertato dalla libreria col dubbio che quello non sia il Dio in cui credo.
Tutti vorrebbero insegnarmi a pregare Dio, ma non credo vada trascurata anche la testimonianza di Raymond Devos che dice di aver incontrato, in un villaggio della Lozerè, Dio che stava pregando. "Mi son detto: chi prega? Non prega certo se stesso. Non lui, non Dio. Pregava l’uomo! Egli mi pregava. Pregava me! Metteva in dubbio me come io avevo messo in dubbio lui. Diceva: ’O uomo, se tu esisti, dammi un segno’. Ho detto: ’Dio mio sono qui’. Lui ha detto: ’Miracolo! Un’apparizione umana’". Ogni giorno, allora, cerco di "dare un segno" a Dio dalla mia giornata affannata, sapendo che Lui mi ha preceduto e mi precede sempre, che non ho bisogno di cercare le prove della sua esistenza, ma casomai purificare costantemente l’immagine di Dio che mi sta davanti.
Mi basterebbe in realtà tornare più frequentemente a quelle pagine intrise di lacerante sofferenza e gioiosa consolazione con cui Luca ci racconta chi è il nostro Dio attraverso il suo amarci e il suo ostinato legame con ogni uomo. Altro che Dio come l’assoluto che sa tutto e non è giustificato da nulla, imperscrutabile nella sua dimora divina e praticamente micidiale per l’uomo! Il Dio che racconta Gesù, l’unico che vale la pena di ascoltare, non è l’entità che sa tutto e può tutto, ma l’appassionato Padre che ci ama indipendentemente dalla nostra risposta. La grandezza del mio Dio non ha bisogno di spiegarsi perché io ne accetti l’esistenza, visto che da sempre lui stesso si è definito in rapporto a noi uomini e che dalla prima passeggiata nel giardino si è messo in agitazione per cercare Adamo e, in lui, anche me.
Così, ogni giorno e in ogni tempo, Dio ha cercato di convincerci della sua misericordia, della sua enorme bontà e assoluta inermità di fronte al nostro rifiuto. Il Padre prodigo di amore percorre tutti i giorni le strade di tutti gli uomini: cerca, bussa, chiede trafelato e stanco di essere ascoltato e capito nella sua paternità.
È evidente che i due figli della parabola non hanno capito il loro padre. Uno ribelle e l’altro servo, non hanno saputo cogliere che il dono più grande è la libertà dei figli. Tra perdita e ritrovamento, il Padre si ritrova col cuore in gola finché non vede il figlio minore arrivare in fondo alla strada. Questo Dio è dunque sempre più altro rispetto a quello che i poteri politici e le ragioni di Stato stanno costantemente utilizzando.
Aspettiamo il giorno in cui la Chiesa, che si sente depositaria e custode della fede, alzerà forte la voce per fermare coloro che bestemmiano il nome di Dio confiscandolo a loro uso e consumo e facendo della sua storia una consuetudine popolare, una tradizione e una cultura.
Significativo è il modo in cui Luca introduce le tre parabole della misericordia: "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’”. Lo scandalo continua oggi, se siamo fedeli nel mostrare questo volto di Dio che fa saltare gli schemi e le norme acquisite solo col suo amore totalmente gratuito.
Perché allora non ci scuote la sofferenza di tanti per la rigidità di una Chiesa che giudica senza ascoltare, minaccia senza accogliere, condanna senza perdonare? E quanta strada dobbiamo fare per assomigliare a quel Padre che corse verso suo figlio "quando era ancora lontano"? Certo, abbiamo smesso di etichettare mezzo mondo con la categoria dei "lontani" ma non abbiamo ancora tolto il baricentro di questa ipotetica "vicinanza" a Dio dalla nostra Chiesa cattolica, e invece di andare noi verso i fratelli aspettiamo tranquilli che si convertano a noi e arrivino fin sulla porta a bussare.
Cristianesimo la religione «monopolio di Stato»
di Tobia Zevi (l’Unità, 22 agosto 2010)
È lecito parlare di Dio con le categorie della scienza economica? Secondo Adam Smith, il primo teorico del capitalismo moderno, sì. Nella Ricchezza delle nazioni (1776), il filosofo scozzese applica la teoria del mercato alla Chiesa, spingendosi a ritenere che questa si trovi in condizione di «monopolista». Ad un costo maggiore per i credenti e con una qualità peggiore del «prodotto». Smith considera la religione cristiana l’unica degna di fiducia, ma ritiene di poter compiere un’operazione che molti non esitano a definire blasfema.
Il terreno è evidentemente scivoloso, tanto che la pubblicazione de Il mercato di Dio - La matrice economica di ebraismo, cristianesimo ed islam (Fazi Editore, euro 18,50, pp. 338) di Philippe Simonnot ha provocato accese discussioni. L’autore chiarisce che «non si tratta affatto di pretendere di spiegare la religione attraverso l’economia» ma «più modestamente di mettere a disposizione della scienza religiosa gli strumenti dell’analisi economica», e tuttavia il suo approccio si attira necessariamente l’accusa del massimo relativismo culturale possibile. Il volume rilegge dunque i testi sacri delle tre religioni monoteistiche e interpreta i fatti con i principi della scienza economica.
Per l’Ebraismo, nella quasi totale assenza di fonti storiografiche, prevale la prima componente. Per il Cristianesimo e per l’Islam le fonti sono più numerose e ciò rende la teoria più chiara. Il punto di partenza è questo: le religioni sono un bene di «credenza» potenzialmente inesauribile.
L’utente non ne può verificare la correttezza, giacché la Verità si trova necessariamente al di fuori dell’esperienza umana, e pertanto la chiave del successo di una confessione è la sua credibilità, cioè la sua capacità di attrarre più fedeli possibile. Solo lo Stato può garantire il monopolio di una religione, contrattando con essa l’entità delle donazioni che può essere sottratta alla tassazione pubblica.
Abramo è il primo ebreo. Secondo Simonnot, la sua storia testimonia la necessità di controllare il bene più prezioso, la terra. La circoncisione, sugello del patto tra Dio ed Abramo, serve esattamente allo scopo: la proprietà fondiaria è limitata e l’accesso va dunque riservato ad un gruppo ben definito, il popolo eletto, così come la gran quantità di matrimoni tra membri della stessa famiglia riduce le contese territoriali. L’Ebraismo ha bisogno di accreditarsi di una tradizione precedente, e per questa ragione s’impadronisce dei santuari delle più antiche divinità cananee.
Quando il «prodotto» ebraico mostra segnali di crisi, ecco la comparsa del Cristianesimo che fa propria la figura di Abramo, mostrandosi contemporaneamente molto antico e molto nuovo. Inoltre i seguaci di Gesù mirano alla conquista di Roma, e per ottenerla rinunciano alla circoncisione e alle rigide normative alimentari ebraiche.
Se il Tempio di Gerusalemme era stato il centro religioso, statale ed economico della nazione ebraica, i cristiani impiegheranno tre secoli per conquistare la capitale dell’Impero. Grazie all’esaltazione della castità, del tutto inedita, la Chiesa si arricchisce di una gran quantità di patrimoni che perdono i loro eredi naturali.
L’Islam, infine, si richiama anch’esso ad Abramo, dichiarandosi discendente di Ismaele anziché di Isacco. L’identificazione tra la umma, la comunità dei fedeli, e lo Stato è assolutamente immediata, e a tutti coloro che non vogliono convertirsi viene imposto un tributo di protezione.
Pur non elaborando un sistema fiscale paragonabile alla decima ebraica poi mutuata dal Cristianesimo, l’Islam considera l’elemosina - essenziale per il suo sostentamento - una componente fondamentale della vita del fedele. Se la conquista di Gerusalemme, con l’edificazione della Moschea, fu la vittoria principale riportata dall’Islam nei confronti dei due contendenti, la mancata conquista di Costantinopoli prima del quindicesimo secolo costituì a lungo un punto di debolezza.
Un’analisi di questo tipo, lungi dall’esaurire il discorso sulla religione, ha però il merito di proporre una visione innovativa con un tono mai provocatorio, soffermandosi su aspetti in gran parte poco conosciuti.
Biglietto per entrare in chiesa
Caro Direttore,
sono stato da poco a Siena e ho trovato scandaloso che per entrare in duomo (erano le 16,00 di sabato, tra l’altro durante una messa) delle Maschere all’ingresso pretendessero il pagamento del Biglietto!
Alla faccia di come si è ridotta la Chiesa, o ha gettato finalmente la maschera oppure è proprio alla frutta. Cosè diventata, sfacciatamente venale? Per inciso, ho protestato e non sono entrato, promettendo un esposto, al che mi hanno risposto: faccia pure, è sette anni che facciamo pagare.
Dobbiamo sempre starci zitti e subire? Cosa sono diventati questi preti? Ma il Papa lo sa? Adesso si paga il biglietto per entrare in chiesa, roba da matti! La pregherei di dire la sua sull’argomento. Grazie.
Giuseppe D’Amico
Milazzo
* Il Messaggero, 8 agosto 2010: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=114024&sez=HOME_MAIL
Laicità in croce
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2010)
Da Bagnasco a Berlusconi, da Bertone a Napolitano: in attesa della sentenza definitiva della Corte europea sul crocifisso si moltiplicano gli interventi. Sorge artificialmente lo spettro di giudici decisi a conculcare il sentimento religioso italiano. Ha detto il capo dello Stato che le sentenze europee “devono essere comunque accettate”. Ma ha soggiunto che la “laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi”. In realtà la Corte di Strasburgo, a novembre scorso, ha sancito un principio pacifico in tanti altri Paesi: l’esposizione nelle aule scolastiche del simbolo religioso (per di più unico simbolo esposto) rappresenta una “violazione della libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
Da allora sono partite pressioni molteplici perché il secondo grado della
Corte di Strasburgo sconfessi la prima sentenza. Si è mobilitata la Cei, si è mosso il governo, si
sono allertato l’associazionismo cattolico, facendo un gran parlare di identità, tradizioni, libertà.
Berlusconi proclama che la decisione “inaccettabile per la stragrande maggiorana degli italiani”, il
cardinal Bagnasco chiede il “rispetto della libertà religiosa”, il cardinale Bertone definisce la croce
“espressione identitaria, strettamente connessa con la storia e la tradizione dell’Italia come pure dei
popoli europei”. In realtà non un solo argomento, portato in campo in questi mesi per difendere la
presenza obbligatoria del crocifisso nelle aule e nei tribunali, ha un fondamento. L’Unione europea
tranne la pattuglia isolata di Polonia, Irlanda, Italia e Malta - respinse a schiacciante maggioranza
dei suoi 27 stati la menzione delle “radici cristiane” nella propria costituzione. Non fu negazione del
ruolo del cristianesimo nella storia europea, bensì rifiuto che da un generico richiamo costituzionale
potessero scaturire, direttamente o indirettamente, situazioni di privilegio per una religione.
Che l’Europa sovranazionale sia laicista o antireligiosa è falso: infatti il trattato costituzionale prevede un “dialogo permanente” con le varie Chiese. Falso è anche dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”. Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nello spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione). Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
C’è un accenno interessante nel recente intervento di Napolitano. Il richiamo ad una una laicità “inclusiva”, disponibile ad accogliere ed amalgamare le “tradizioni più diverse”. Se è così, si abbia il coraggio di lasciare scegliere gli alunni se nella propria classe vogliono una parete neutrale oppure tale da accogliere la pluralità dei simboli religiosi e filosofici, che ciascuno sente consono.
O si rispetta la libertà di coscienza come astensione volontaria da qualsiasi marchio o si lascia libera l’espressione di tutti. Decidere, invece, di imporre un simbolo dichiarato unilateralmente valido per tutti è totalitarismo mascherato.
Ménage à trois
di don Aldo Antonelli
"Quando in un dato Paese o in dato momento della storia, vedo che gli applausi piovono, che la Religione è onorata da tutti e che Dio come la Chiesa hanno un grande successo, ogni spirito prudente e veramente ispirato dalla fede sarà non già tranquillo, come sovente siamo stati, ma inquieto, temendo che sia qualche specie d’idolo che si adora al posto del vero Dio, e che sia qualche deformazione della religione ad avere un tale successo"! Così il card. John H.Newman già negli anni del secondo ottocento (Pensées sur l’eglise). Chissà cosa direbbe oggi...!
Fatto sta che se il dio di Bossi e di Berlusconi è un idolo (e lo è!) allora la chiesa che lo ostenta e che convive con la Lega e il Pdl non è una chiesa ma una setta.
E i cristiani che essa genera benedice e difende più che cittadini del mondo, quali dovrebbero essere i veri figli di Dio, sono semplicemente adepti di una setta, come i massoni o gli iscritti alla P2.
Culto del capo, obbedienza cieca e ritualità fine a se stessa sono i pilastri cardine di questo nuovo modo di essere cristiani e di fare politica. Il tutto abbondantemente annaffiato da pioggia di danaro e propagandado dalle reti uniticate raimediaset.
In questo ménage à trois (chiesa-politica-denaro) Berlusconi ruba, Bagnasco assolve e il bottino viene equamente diviso.
Il popolo bue guarda, ammira e plaude.
Aldo
"Il Diavolo abita anche in Vaticano"
Padre Amorth, l’esorcista più famoso del mondo, racconta la sua lotta contro il maligno.
E rivela: "Si è infiltrato anche in Vaticano"
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 10.03.2010)
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario. E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica dell’esorcismo. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Naturalmente è difficile trovare le prove. Ma ho confidenze di persone che lo confermano. E, del resto, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia».
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario.
Ha guardato in faccia il diavolo. O almeno le sue incarnazioni terrene. Padre Gabriele Amorth ha affrontato 70 mila indemoniati (veri o presunti) in 24 anni di esercizio. "Il Papa crede in questa pratica" assicura. Anche perché "il Maligno alberga in Vaticano, e se ne vedono le conseguenze" Un esempio? Le ultime storie di pedofilia Il sacerdote, che lavora a Roma, è il più famoso "liberatore di anime" al mondo "Il nostro compito principale è affrancare l’uomo, soprattutto dalla paura di Satana" "Il 90 per cento delle vessazioni diaboliche è la conseguenza di malefici" "La notte di Natale il Nemico ha provato a colpire Ratzinger cercando di buttarlo a terra"
E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica della liberazione dal Male. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Ho confidenze di persone che lo confermano. Naturalmente è difficile trovare le prove. E, comunque, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia. Anche la vicenda di quella povera guardia svizzera, Cedric Tornay, trovata morta con il suo comandante, Alois Estermann, e la moglie. Hanno coperto tutto. Subito. Lì si vede il marcio».
Tutti lo conoscono come l’Esorcista. Molti ne chiedono l’assistenza. Perché Gabriele Amorth, sacerdote paolino nato a Modena, laureato in Giurisprudenza, ex partigiano, medaglia al valor militare, democristiano di scuola dossettiana ed ex direttore del giornale mariano Madre di Dio, è il più famoso liberatore del demonio al mondo.
Ma a 85 anni settantamila casi si fanno sentire. E don Amorth è appena convalescente. «Da un improvviso crollo», dice lui. «Un qualcosa di inspiegabile», rivela confidenzialmente l’amico don Francesco che, a 90 anni, don Gabriele considera come «il bastone della mia vecchiaia». Sebbene sia in pigiama, attorniato dalle medicine sul tavolo, da immagini della Madonna, da una copia di Avvenire che accenna al suo nuovo libro da poco in libreria ("Memorie di un esorcista", intervista di Marco Tosatti, edito da Piemme), lo sfidante di Satana mostra un piglio energico. Osserva la propria foto in copertina ed esclama: «Che faccia da bulldozer. Invece, quando sono tranquillo, i tratti del mio volto si distendono e divento un altro. Forza, parliamo, che di là ho dei casi che mi aspettano».
Padre Amorth, com’è il diavolo? «È puro spirito, invisibile. Ma si manifesta con bestemmie e dolori nelle persone di cui si impossessa. Può restare nascosto. O parlare lingue diverse. Trasformarsi. Oppure fare il simpatico. A volte mi prende in giro. Io però sono un uomo felice del mio lavoro, una nomina inaspettata giunta 25 anni fa dal cardinale Poletti. E né gli indemoniati, che a volte sei o sette dei miei assistenti devono tener fermi, né i chiodi o i vetri che escono dalla bocca dei posseduti, e conservo in questo sacchetto, mi spaventano. So che è il Signore a servirsi di me».
Il Maligno può manifestarsi con violenza. Nella stanza prescelta - padre Amorth ha girato 23 sedi diverse, cacciato ovunque perché i confratelli erano stufi di sentire urla fino a tarda sera, finché non ha trovato stabile dimora nel quartier generale delle edizioni San Paolo - c’è un lettino con le corde per legare l’indemoniato. E una poltrona per le persone che non urlano, e stanno tranquillamente sedute durante le preghiere di esorcismo. «Dalla bocca può uscire di tutto - racconta - pezzi di ferro lunghi come un dito, ma anche petali di rosa. Certi posseduti hanno una forza tale che nemmeno sei uomini riescono a trattenerli. Così vengono legati. Mi aiutano i miei assistenti laici, che pregano con me. Quando gli ossessi sbavano, e allora bisogna pulire, lo faccio anch’io. Vedere la gente vomitare non mi dà nessun fastidio».
Sulla pratica dell’esorcismo, dentro la Chiesa, esistono opinioni diverse. Diffidenze. Resistenze. Dubbi. «Ma il Papa ci crede - ribadisce padre Amorth - tanto è vero che in un discorso pubblico ha incoraggiato e lodato il nostro lavoro. Gli ho scritto, e mi ha promesso che chiederà alla Congregazione per il Culto divino un documento per raccomandare che i vescovi abbiano almeno un esorcista in ogni diocesi, come minimo. Ho avuto modo di parlargli più volte anche quando era prefetto alla Congregazione per la Dottrina della fede, ci ricevette proprio come Associazione degli esorcisti. E non scordiamo che, sia del diavolo sia delle pratiche per allontanarlo, parlò moltissimo lo stesso Wojtyla». Alcuni, addirittura, ricordano ancora la dichiarazione fatta nel 1972 da Papa Montini, quando Paolo VI parlò del "fumo di Satana", cioè delle sètte sataniche, entrato nelle Sacre stanze. Una frase che creò un caso, seguito da un nuovo discorso papale tutto incentrato sul demonio.
Ma il Maligno può colpire anche il Pontefice? «Ci ha già provato. Lo fece nel 1981, con l’attentato a Giovanni Paolo II, lavorando su coloro che armarono la mano di Ali Agca. E anche adesso, la notte di Natale, con quell’ultima matta che ha buttato per terra Benedetto XVI. In fondo, è quel che accadde a Gesù attraverso Giuda, Ponzio Pilato, il Sinedrio». Don Amorth si fa serio. Riflette in silenzio per qualche secondo, alza la testa e dice gravemente: «Altroché. Altroché se il demonio alberga nella Santa Sede. C’è un volume, "Via col vento in Vaticano" (Kaos edizioni, ndr), che parla appunto delle lotte di potere in Curia e del "fumo di Satana". Bene, il 99 per cento di quel che è scritto lì è vero. I vescovi non parlano per timore di critiche di altri vescovi. E sì che su questo tema le Sacre scritture sono le più salate, perché i comandi di Gesù appaiono molto chiari: "Andate, predicate il Vangelo, cacciate i demoni". Secondo me, quando un vescovo non nomina l’esorcista commette un peccato mortale».
Tante le figure di santi che, senza esserne investiti, erano noti come liberatori dal demonio. San Benedetto, che era un monaco. Santa Caterina da Siena, di cui si narrano effetti portentosi. Padre Pio, che secondo i fedeli liberava dall’influenza del maligno. Pure Don Bosco occasionalmente si prestava. «Io lavoro sette giorni su sette, Natale e Pasqua compresi - dice don Gabriele - e non posso materialmente correre ovunque mi chiamano. Perciò spiego a tutti che anche i laici possono operare esorcismi con successo. È scritto in Marco, XVI, 17: "Coloro che credono in me cacceranno i demoni". Ci sono formule ufficiali. Si può dire: "Satana, vattene". Ma c’è anche molta libertà, con preghiere semplici: il Padre Nostro - che contiene già in sé un esorcismo: "e liberaci dal Male" - l’Ave Maria, il Salve Regina, il Credo. Poi raccomando le orazioni quotidiane, la messa, il rosario, la confessione, la comunione, il digiuno».
Un tema, quello della figura antitetica al Messia, che per altri aspetti muove fior di scienziati. L’altro ieri a Roma, nei locali della Sapienza prima e in quelli dell’Università Roma Tre più tardi, si è svolto un convegno dal titolo "L’ultimo nemico di Dio". Cioè l’Anticristo, il personaggio che incarna l’avversario della divinità, presente nell’immaginario giudaico e cristiano relativo agli ultimi tempi del mondo. Approccio scientifico, impronta storica, studiosi di calibro internazionale: Enrico Norelli, Jean-Daniel Kaestli, Marco Rizzi, Gian Luca Potestà, Alberto D’Anna.
«Il ruolo della figura dell’Anticristo - spiegava al pubblico la docente Emanuela Valeriani, una dei coordinatori dell’evento - a prescindere dalle diverse posizioni assunte dagli studiosi, è senza dubbio un tassello tematico fondamentale all’interno del grande mosaico degli studi relativi all’identità cristiana. L’attenzione alla strana e, diciamo pure, spettacolare fisionomia dell’Anticristo è un tema ben rappresentato nelle apocalissi cristiane di epoca più tarda, contribuendo all’elaborazione anche leggendaria di questa figura escatologica. La prima testimonianza si trova in un’opera del III secolo, "Il Testamento siriaco del nostro Signore Gesù Cristo". Ma se, in linea generale, il terribile aspetto dell’Anticristo si può ricondurre alla tradizione precedente al cristianesimo, che identifica l’avversario escatologico con esseri mostruosi, nel caso specifico del nostro testo, esso assume una rilevanza teologica derivante dal confronto con la visione di Dio. Se prendiamo la sezione degli "Acta Iohannis", un testo scritto probabilmente nel secondo secolo, vediamo che lì si afferma che Gesù può essere visto sotto diverse forme (bambino, giovane adulto, vecchio) e apparire contemporaneamente anche a più testimoni».
Nella sua stanza al terzo piano della sede paolina, padre Amorth si prepara ad affrontare il Nemico nell’ennesimo caso difficile. Ma il diavolo chi sceglie di colpire? «Non lo sappiamo - risponde - eppure al 90 per cento le vessazioni diaboliche sono conseguenze di malefici, cioè sono causate da persone che per vendetta o per rabbia si rivolgono a maghi e occultisti legati a Satana i quali, pagati profumatamente, si attivano per far intervenire il maligno. È dunque la cattiveria degli uomini a chiamare il Male. Un’ultima cosa: il diavolo non è così diffuso. Quando c’è, è doloroso. E noi interveniamo. Ma il compito principale dell’Esorcista è uno solo: liberare l’uomo, soprattutto dalla paura del demonio».
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 10.03.2010)
Negli ultimi anni la dottrina cattolica sull’esistenza del diavolo è stata messa in dubbio da più di un teologo. Urs Von Balthazar diceva di credere nell’Inferno ma anche che lo riteneva vuoto. E Borges azzardava che forse i teologi, che avevano esagerato i vantaggi del Paradiso non essendoci mai stati, non avrebbero potuto giurare che i reprobi all’Inferno fossero sempre infelici: come immaginare che una fabbrica così sadica, vendicativa e inarrestabile di tortura dei dannati, una Auschwitz eterna possa essere compatibile con l’idea cristiana di un Dio misericordioso? Il minimo che si esigeva dalla teologia era di rimodellare l’idea della Geenna, destinata ai malvagi.
Soprattutto tenendo in maggiore considerazione il ruolo di salvezza assegnato alla figura di Gesù: i Vangeli raccontano le sue lotte contro i demoni, ma anche le loro disfatte e le guarigioni operate sugli indemoniati. Il Credo cristiano dice che dopo morto egli scese tre giorni agli Inferi con altrettanta potenza liberatoria ma una lettura pigra di quell’evento sembra trattenerlo agli Inferi per molto più tempo.
La maggior parte dei biblisti pensa che non sia possibile, o comunque sia piuttosto rischioso, negare l’esistenza di spiriti maligni. Molti temono che una cerimonia troppo disinvolta di addio al diavolo potrebbe far parte della sua tattica. Citano Baudelaire: "L’astuzia più raffinata del diavolo è di persuadervi che non esiste". Il licenziamento teologico del diavolo produrrebbe l’insignificanza del male nei contemporanei ma questa censura non sembra abbia l’effetto di porre fine al suo evidente successo.
Nel 1972 Paolo VI è il primo a lamentare che il "fumo di Satana" si sia infiltrato da qualche fessura anche «nel tempio di Dio». Si rompe l’incantesimo post-conciliare su un approccio indiscriminato della Chiesa al mondo moderno. Il Papa reagisce a una interpretazione del dialogo con la cultura dei Lumi che potrebbe risolversi in una liquidazione delle soglie critiche della coscienza cristiana di fronte al mondo e dunque in una omologazione della Chiesa ai "poteri del male". Sulla stessa linea Wojtyla lancia dal Monte Gargano, mitico luogo di lotte anti-demoniache, la sfida ai cattolici a sguainare di nuovo la spada di San Michele Arcangelo «contro il dragone, il capo dei demoni, vivo e operante nel mondo».
I suoi segni non sono più le corna, il piede caprino, l’odore dantesco di zolfo ma «consumismo, sfruttamento disordinato delle risorse naturali, voglia sfrenata di divertimento, individualismo esasperato». Negli stessi anni il cardinale Ratzinger ricorda «a certi teologi superficiali» che il diavolo è per la fede cristiana «una presenza misteriosa ma reale, personale, non simbolica, una realtà potente, una malefica libertà sovrumana opposta a quella di Dio». Rivendica al cristianesimo di avere introdotto in Occidente «la libertà dalla paura dei demoni» ma teme che «se questa luce redentrice di Cristo dovesse spegnersi il mondo con tutta la sua tecnologia ricadrebbe nel terrore e nella disperazione». Segnali di ritorno di forze oscure, secondo il futuro Papa, sono i culti satanici in aumento nel mondo secolarizzato, l’espansione del mercato della pornografia e della droga, «la freddezza perversa con cui si corrompe l’uomo, l’infernale cultura che persuade la gente che il solo scopo della vita siano il piacere e l’interesse privato».
Sono i primi tentativi della dottrina cattolica per far uscire la descrizione del diavolo da un linguaggio tradizionale ormai incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei contemporanei. Il diavolo esiste ma assume le nuove forme delle ingiustizie e delle alienazioni. Il suo teatro non è solo il cuore umano ma anche la struttura sociale. Un teologo come Bernard Haring raccomandava molta cautela considerando il modo fantasioso con cui era stata riprodotta la dottrina sul diavolo: «Oggi lo psichiatra si mostra competente nella maggior parte dei casi nei quali si usava far intervenire l’esorcista - dice -. La Scrittura non conosce quel tipo di discorso alienante sul diavolo che è stato coltivato nei secoli dai cristiani delle diverse Chiese sotto l’influsso di culture in cui si realizzava una spaventosa alienazione». E Karl Barth rispondeva a chi chiedeva se dubitasse del diavolo: «Esiste pure quella bestia. Ma quando interviene la fede in Cristo mette la coda tra le gambe e non si fa più vedere».
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Ricominciano proposte e giochi sui «derivati»
Se già torna malafinanza
di Giancarlo Galli *
«Il temporale è passato, la festa può ricominciare...». È questa l’aria che da qualche mese si respira nei santuari della finanza mondiale, e anche fra le boiseries delle Banche italiane. Traducendo, affinché tutti possano comprendere: allorché esplose la Grande Crisi (inverno 2008) che fece temere un crac dell’intero sistema capitalistico globalizzato, non vi fu bisogno di strologare, andare alla ricerca di «mali oscuri». Le responsabilità furono subito chiare, individuate nei comportamenti di banchieri e speculatori; nella talvolta interessata disattenzione dei controllori (Federal Reserve, Banca centrale europea in primis); nella debole autorevolezza dei politici, di quei ministri del Tesoro che pur riunendosi in continuità, non avevano né visto né previsto. Arrivato il ciclone, l’inconsueto spettacolo di una generale autocritica, seguita dalla solenne promessa, quasi un giuramento. «Abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati prendere la mano dalla finanza creativa. Non lo faremo più...». Davvero pentimento da marinai impenitenti.
Infatti, non solo la stragrande maggioranza di coloro che si trovavano ai vertici hanno conservato le poltronissime, ma senza perdere tempo hanno preso a ribattere le vecchie strade. Sui circuiti finanziari sono ricomparsi quegli strani Ufo, che hanno per nome «derivati». In pratica, scommesse da casinò, sulle materie prime, le azioni, i debiti delle aziende e degli Stati; poi trasferite, con astuzie degne di quegli alchimisti che nel Medioevo pretendevano di trasformare il ferro in oro, alla moltitudine dei risparmiatori. Ingenui pesciolini alla mercé degli squali. Tecnicamente (sarebbe complesso entrare nei meccanismi), un bis di quanto è avvenuto coi «mutui facili», all’inizio del crac. Come prima, peggio di prima, allora? Pur evitando moralismi, non si può restare insensibili a un secondo fatto. I bonus milionari che, sotto ogni cielo, banchieri e finanzieri si autoattribuiscono. Precisando: quasi sempre prescindendo dai risultati conseguiti.
Mentre diluviava, si erano impegnati a rivedere i loro compensi; senonché l’appetito e la tentazione sono risultati troppo forti. Tant’è che nel mondo anglosassone è polemica, col premier inglese Gordon Brown e più timidamente col presidente Usa Obama, determinati ad arginare l’andazzo. Anche perché i beneficiari dovrebbero essere quegli stessi personaggi, spesso inamovibili, che sono stati salvati dalla bancarotta da interventi pubblici. Qualche raro economista, non al guinzaglio, sostiene che in questo modo, con imperdonabile dissennatezza, si rischia di andare incontro a occhi chiusi a un ennesimo disastro. L’augurio, ovvio, è che le Cassandre sbaglino. Tuttavia le perplessità vanno aumentando. Mentre troppi politici sembrano occuparsi di tutto, fuorché dell’economia reale, dei problemi delle famiglie, della stagnazione dei consumi che colpisce in particolare i redditi medio-bassi, molti banchieri tornano a comportarsi da entità separata, autonoma, autoreferenziale. La loro stella polare resta il «far profitto» comunque e con ogni mezzo. Quand’erano con l’acqua alla gola, gli Stati hanno loro offerto zattere di salvataggio; adesso si sono rimessi in linea di navigazione.
Come? In Italia lo sappiamo bene: ai depositanti, miseria; alle aziende minori lesinano crediti. In tanti preferiscono macinare utili, appunto, coi «derivati»; inseguendo nuovamente le farfalle della finanza creativa. E ancora una volta, l’etica, lo «spirito di servizio» paiono purtroppo un optional.
Giancarlo Galli
* Avvenire, 22 Gennaio 2010
La scomunicata
di Marco Politi(il Fatto quotidiano, 22 gennaio 2010)
L’intesa Ruini-Berlusconi per sbarrare il passo alla Bonino cade nel giorno in cui la maggioranza approva la legge salva-delinquenti, con un codicillo che imbavaglia la Corte dei conti, favorendo le malversazioni negli enti locali.
E’ l’immagine plastica della spregiudicatezza del cardinale, per il quale la battaglia ideologica contro la Bonino conta maggiormente dello scempio inflitto al sistema giudiziario italiano: caso unico nelle democrazie occidentali. Lo stesso Avvenire, in una rubrichina intitolata “Da sapere”, informa i lettori che la norma transitoria approvata mercoledì “mette al riparo Silvio Berlusconi dai processi Mills e Mediaset, ma sarebbero a rischio anche i giudizi sul crac di Parmalat e su Antonveneta”.
Ce n’è abbastanza perché il lettore cattolico avvertito capisca che sotto attacco è la legalità, ma soprattutto la categoria di “bene comune” fondamentale nella dottrina sociale della Chiesa. Poiché già soltanto nel caso Parmalat rimarranno senza giustizia migliaia e migliaia di poveri cristi. La stessa Udc, per bocca del capogruppo al Senato D’Alia, ha bollato il testo della maggioranza di centrodestra come “tentativo malriuscito di norme ad personam”. Denunciando che vi sarà prescrizione anche nei “processi per mafia, terrorismo, riduzione in schiavitù”.
Sono questioni che non sembrano turbare l’ex presidente della Cei. In lui, da vero “animale politico” (così si definì egli stesso tempo addietro in un convegno), prevale la logica di schieramento. E per la gerarchia ecclesiastica lo schieramento da difendere è il centrodestra, mentre la prospettiva di Emma Bonino governatore del Lazio è da scongiurare a tutti i costi. Non sono unicamente le battaglie in difesa di aborto, divorzio, coppie di fatto, testamento biologico, che vengono addebitate alla leader radicale. In gioco sono interessi materiali corposi: le regioni gestiscono le spese di sanità (vedi ospedali cattolici), le spese scolastiche (vedi scuole cattoliche) e i bonus da concedere ai genitori. Esemplare la distorsione a favore dell’istruzione privata e a scapito degli istituti pubblici, realizzata in Lombardia dal governatore ciellino Formigoni.
In questa fase preelettorale Ruini si muove da battitore libero, ma certo di avere le spalle coperte dal cardinale segretario di Stato Bertone (vero timoniere della “politica italiana” del Vaticano), che Benedetto XVI ha appena riconfermato in carica. Il cardinale Bagnasco, presidente dell’episcopato, si è tenuto sinora defilato. Ieri è stato ricevuto in udienza dal Papa in vista del prossimo Consiglio permanente della Cei, quando darà le sue indicazioni. L’episcopato italiano è diviso fra chi vorrebbe non impegnarsi direttamente nello scontro elettorale imminente e chi come il vescovo ciellino di San Marino mons. Negri già affila le armi e ricorda pubblicamente che quando gli elettori andranno alle urne “non sarà facile coniugare il valore del rispetto assoluto della vita con posizioni politiche di persone che sono evidentemente in contrasto”.
A Torino il cardinale Poletto ha invece sottolineato recentemente che la Chiesa è super partes dato che “il buono e il cattivo stanno dall’una e dall’altra parte”. Poletto, tuttavia, ha indicato alcuni punti chiave su cui i candidati dovranno misurarsi: la “difesa della vita” dal concepimento alla sua fine naturale, il matrimonio tra uomo e donna, il diritto alla scelta dell’educazione scolastica, la libertà religiosa, la difesa della dignità umana indipendentemente dall’etnia. Punti discriminanti che la gerarchia ecclesiastica ricorderà a livello nazionale.
Per Ruini, che in questa vicenda ha voluto tornare sulla scena politico-ecclesiastica dopo la fine della sua presidenza Cei nel 2007, è assolutamente prioritario impedire la vittoria della “laicista” Bonino. Nel 2000, per punire l’ulivista Badaloni governatore del Lazio che voleva varare alcune norme di assistenza anche a favore delle coppie di conviventi, il cardinale spostò voti sulla candidatura di Storace. E il centrodestra vinse. Non è molta la capacità di influenzare voti dell’istituzione ecclesiastica: a spanna, dicono gli esperti, qualcosa tra il 3 e il 5 per cento degli elettori. Ma è una forza decisiva nel caso di duelli testa a testa come si sta configurando quello tra la Polverini e la Bonino.
In questo schema l’alleanza tra Berlusconi e Casini, di cui Ruini era patrono già alle elezioni politiche del 2008 (e che il Cavaliere allora respinse), risponde - perlomeno nel Lazio - ad un esplicito desiderio del Vaticano. L’Avvenire, giornale dei vescovi, sta già cominciando a muoversi in questa direzione. In un editoriale ha attaccato Marini nel Pd per il suo appoggio alla Bonino e da qualche giorno (un modo classico per segnalare il trend) pubblica lettere di lettori con dubbi e delusione “di cattolici” per la candidatura radicale.
Ieri però è apparsa in pagina anche una lettera, in cui si afferma che “il cattolico può militare in qualunque partito” a patto che esprima il lievito della fede. Segno che la situazione generale è ancora fluida e la Chiesa non vuole legarsi totalmente mani e piedi all’avventurismo del Cavaliere. Anche perché i sondaggi delle passate elezioni hanno rivelato che agitare i “temi etici” influisce pochissimo sul voto.
Gherush92
Committee for Human Rights
ECOSOC Organization
GLI AFFAMATI DAL CROCIFISSO
La disutile presenza del pontefice al vertice della FAO, se da una parte evidenzia l’incapacità di questo mastodontico organismo ad affrontare le tematiche della fame, dall’altra ci costringe a delle osservazioni sull’enciclica Caritas in Veritate. Il testo, richiamato più volte nel discorso del papa in plenaria, è l’apogeo di un’ideologia universalista e neo-omologazionista con la quale il cristianesimo vorrebbe costruirsi la patente di risolutore dei problemi della povertà e della fame estrema del mondo, dopo esserne stato uno degli artefici principali in Africa, in America Latina e non solo.
In verità, la Caritas in Veritate non risolve né il problema della povertà, né quello della fame, anzi le aggrava. Il difetto principale sta nel voler gestire il problema con l’assistenzialismo e l’evangelizzazione. Il titolo sintetizza la teoria: la carità nella verità ovvero nell’evangelizzazione; il corollario riepiloga il programma: la croce per un pugno di riso.
Il cristianesimo pratica e prescrive l’evangelizzazione e l’uniformità sotto forma di un unico modello culturale. La diffusione del cristianesimo non è altro che la diffusione di un prototipo universale precostituito, che ostacola la conoscenza e gli scambi fra le specie, fra i popoli e le culture. E’ un processo contro natura perché non accetta la diversità e si adopera per ricondurre le migliaia di opere e culture che incontra all’interno di uno schema precostituito, auto referenziato, ma del tutto inefficace a spiegare e interagire con l’universo, la diversità culturale e i fenomeni naturali. L’evangelizzazione, insieme con altre forme di omologazione, è la causa principale della cancellazione delle diversità, porta alla perdita di conoscenza e ha significato e provocato la scomparsa e l’assimilazione di molti popoli e culture. L’evangelizzazione è una delle principali cause della povertà, della miseria e della fame estrema, perché cancellando la diversità si elimina la conoscenza che è olistica, il bene più prezioso, il motore per la produzione di cibo e di benessere.
L’enciclica Caritas in Veritate, sulla quale si sono espressi in modo servile, ossequioso e incompetente politici e intellettuali e la FAO, è, in realtà, un guazzabuglio tuttologico che affronta i temi della globalizzazione, della cooperazione internazionale, dello sviluppo umano, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, della natalità, della finanza internazionale, del sindacato, usando qua è là parametri di giudizio ereditati, secondo la convenienza, da vulgate terzomondiste e neoglobal da una parte e da analisi economiche di stampo liberale dall’altra.
Tesi e opinioni sostenute con ambiguità, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, fatte per il politicume, per accontentare i benpensanti, i teorici della banalità, i conformisti ad oltranza e, nel caso, qualche cariatide ammuffita degli organismi intergovernativi.
L’enciclica, invece, disboscata e ripulita dalle molte ed inutili incrostazioni, afferma che la salvezza dell’uomo e dei popoli viene solo “dall’unità della carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.
A questo punto vogliamo affermare in maniera chiara che il diritto al cibo non può essere mediato né da Gesù Cristo né da speculazioni finanziarie né da altre presunte verità. Il diritto al cibo deve essere garantito e basta, lasciando la possibilità a ciascuno di riappropriarsi della propria conoscenza per la produzione delle proprie risorse alimentari. Sembrerebbe che il papa voglia fare concorrenza alla FAO nell’agguantare risorse finanziarie da utilizzare nell’assistenzialismo o per lo sviluppo della Caritas in Veritate, dopo averle opportunamente decurtate a proprio uso e consumo. E’ così da sempre.
Il documento parla di carità, ma non propone, come sempre, nessuna regola su come, cosa e quanto dare, su come scambiare, su come creare benessere, sulla soluzione del problema della povertà e della fame. La carità cristiana, infatti, “supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.” Si tratta, viceversa, proprio di un problema di giustizia per sanare le ingiustizie sociali, economiche, ambientali e spirituali commesse nel corso dei secoli da parte del cristianesimo - con la scusa della misericordia che supera la giustizia - per appropriarsi arbitrariamente e avidamente di risorse, uomini, anime, conoscenze e spiritualità. La concezione della carità cristiana ha bisogno di uniformità umana indistinta, “universalizzata”, ridotta all’incapacità di provvedere a se stessa, quale terreno fertile per un disegno di evangelizzazione-omologazione che si perpetua da secoli.
La carità cristiana, così definita, non ha alcuna parentela con il concetto ebraico e islamico rispettivamente di Tzedaka e Sadaqah che vuol dire giustizia e si rifà ai concetti giustizia e diritto sociale e di distribuzione dei beni e che tende a considerare la povertà non uno status perenne da utilizzare per attingere proseliti, ma un incidente di percorso a cui porre rimedio in modo equo ed efficace. Secondo Maimonide esistono otto livelli di carità ma la forma più alta è quella di aiutare qualcuno ad aiutare se stesso cioè a provvedere ai mezzi per la sua riabilitazione.
D’altronde il documento incalza quando sostiene che “le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell’amore di Dio e che l’umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false........Tra evangelizzazione e promozione umana - sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi ”
Cosa significa tutto ciò? L’enciclica lo spiega in modo chiaro e inequivocabile in questo passaggio chiave dove affonda la lama della evangelizzazione:
“Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso un simile criterio.”
La carità non è, quindi, semplice atto di donazione ma, addirittura, metro di giudizio del cristianesimo, per stabilire quali culture e quali popoli possono essere inclusi nella “comunità universale” e quindi possono mangiare. Una nuova inquisizione, dunque, dal volto inumano, dove la scelta è: fame o conversione. Qual è il metodo migliore per convertire se non mantenere popoli e comunità in uno stato perenne di indigenza?
L’enciclica è, peraltro, in perfetta continuità con la dichiarazione Dominus Jesus dello stesso Ratzinger dove “La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità ...e che il dialogo interreligioso deve avere essenzialmente lo scopo di convertire”.
L’evangelizzazione ha praticato il razzismo, lo sfruttamento di risorse ed uomini, fino alla schiavitù.
Ecco cosa significava il rifiuto della conversione nel “Requerimemiento”, il documento letto dai cristiani in spagnolo ai popoli dell’America Latina: “...Ma, se voi non vi convertite (al cristianesimo) e con malizia frapponete ritardi, io vi dichiaro che, con l’aiuto di Dio, noi faremo ingresso con la forza nel vostro paese e vi faremo guerra in tutti i modi e maniere che potremo e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa, e prenderò le vostre persone e figli e i farò schiavi e come tali li venderò....” .
Ed ecco ancora cosa veniva sancito nel breve Dum Diversitas : “Noi concediamo per il presente atto, con la nostra Autorità apostolica, pieno e libero permesso di invadere catturare e sottomettere i saraceni e i pagani e qualunque altro infedele o nemico di Cristo, in qualunque luogo, come anche nei suoi regni ducati, contee e principati e altre proprietà... e di ridurre queste persone a schiavitù perpetua”. Il testo della bolla del papa Nicola V specifica la concessione di ridurre a schiavitù perpetua gli africani e riguarda gli abitanti di tutti i territori a partire da Capo Bojador a Capo Nun e quindi «tutte le coste meridionali fino al limite estremo». Il papa allora poteva condannare interi continenti, come l’Africa, alla cattività perpetua perché esisteva la teologia della schiavitù. Le conseguenze le conosciamo: decine e decine di milioni di morti ammazzati e di schiavi. Ecco da dove viene la povertà e la fame.
La teologia della schiavitù appare come lo sbocco inevitabile dell’evangelizzazione, la quale, definita come il motore di un processo evolutivo dell’umanità verso valori più elevati, per giustificare la propria esistenza, deve necessariamente schematizzare i rapporti fra i popoli (e fra le diverse culture o società), secondo un sistema gerarchico in cui si degradano gli altri per affermare il ruolo guida del cristianesimo. Se l’evangelizzazione è un’operazione di emancipazione, a cui si è sempre associato il significato di civilizzazione, è implicito che deve essere diretta ad emancipare e a civilizzare chi ne ha bisogno, nel caso specifico, gli Ebrei, i Mori, gli Africani e poi gli Indiani, i Roma. Questi non solo erano considerati una merce ma, secondo la teologia della schiavitù, erano destinati ad un’esistenza di subordinazione e assoggettamento ai cristiani, come metodo per evangelizzare il mondo.
Ora c’è da chiedersi che differenza epistemologica c’è tra i documenti di oggi che reiterano il ricatto dell’evangelizzazione come chiave per accedere alla “carità” e le disposizioni di cinque secoli fa che hanno messo interi popoli, allora pienamente in grado di vivere in armonia con l’ambiente, traendone risorse alimentari e il giusto godimento per la vita, sotto il giogo del crocifisso attraverso: separazioni delle famiglie, battesimi forzati, editti da fè, inculturazione, encomiendas, la tratta degli schiavi fino ad oggi con il costoso assistenzialismo perpetuo?
Si resta quindi scioccati nel vedere il massimo esponente della Chiesa Cattolica - campione dell’impoverimento e della distruzione secolare di popoli - dare lezioni alla FAO su come risolvere il problema della povertà che ha contribuito a creare. Si resta anche scioccati nel vedere la FAO senza programmi diventare succube di queste inconsistenti teorie. Nessun “mea culpa”, nessuna volontà di confrontarsi con la propria storia e di riconoscere che il processo di evangelizzazione, del passato e del presente, sia produttore e mantenitore di povertà in quanto distruttore di quella diversità culturale e ambientale data in principio dal Creatore.
Un’operazione di costante revisione e falsificazione storica in contrasto, peraltro, con la Convenzione sulla Diversità Biologica nella quale si prescrive di “rispettare, conservare e mantenere la conoscenza, le innovazioni e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, comprendendo gli stili di vita tradizionali come rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica”.
Questo principio è in netto contrasto con la concezione dell’enciclica dove, invece, è continua l’ipotesi di un’omogeneizzazione del mondo verso lo status entropico del pensiero unico, del cibo unico, della cultura e religione unica.
E’ assolutamente necessario fermare l’opera degli oltre 300.000 missionari che assediano popoli e nazioni nel nome dell’uniformità e interrompere la loro attività distruttiva di cristianizzazione. E’ necessario anche contenere l’opera delle NGO che si ispirano ai principi dell’evangelizzazione e dell’assistenzialismo cristiano.
Secondo Gherush92 è necessario che vengano riaffermati i seguenti principi, senza il ricatto della conversione:
Il principio della solidarietà - aiutare gli altri ad aiutare se stessi;
Il principio della riparazione - ogni danno ad un popolo provocato da razzismo e/o schiavitù deve essere compensato;
Il principio del negoziato - ogni decisione deve essere presa in accordo con ciascun popolo;
Il principio dell’extraterritorialità - ogni cultura deve avere il diritto di gestire la sua identità come un popolo e una nazione;
Il principio della salvaguardia della diversità culturale.
Svelato l’arcano ci sembra chiaro che l’annunciata visita del papa in Sinagoga sia più dannosa che utile. Chiediamo pertanto che non venga. Ad ogni buon conto non porti con se né la Dominus Jesus né la Caritas in Veritate come dono e, nella denegata ipotesi, tale regalia non sia accettata.
NO ALLA VISITA DEL PAPA IN SINAGOGA
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A Genova un convegno sull’enciclica «Caritas in veritate»
Il primo e principale fattore di sviluppo
La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico
Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All’incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l’economista Ettore Gotti Tedeschi.
di Angelo Bagnasco *
La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che "solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta" (n. 3). Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita. Infatti "il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze" (n. 9). Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre "una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali" (n. 31) dello sviluppo. Insomma si richiede "l’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa", secondo il pressante appello che muove - sin dal suo inizio - il magistero di Benedetto XVI (cfr. Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (19 67), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un "corpus dottrinale" (n. 12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell’alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità. Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che "l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" (n. 8).
La percezione della sfida e l’esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione. Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall’altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede. La prospettiva che emerge è dunque "una visione articolata dello sviluppo" (n. 21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica. Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (n. 25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana. Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese.
Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa. Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo. "In realtà - egli scrive - le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato" (n. 11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l’enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio. Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao - ancora lo scorso 19 giugno - ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche. L’enciclica rende avvertiti che "gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati". Per poi aggiungere: "Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi" (n. 21). Infatti "i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani" (n. 32).
Non si fatica d’altra parte a capire che "l’aumento massiccio della povertà... non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del "capitale sociale", ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile" (ibidem). Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione. Infatti "nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, "la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno". Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità" (n. 42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l’uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n. 28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia. Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di "purificazione" è tutt’altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna. Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità. Tra queste due realtà c’è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c’è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l’eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l’insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione. Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate. La grande sfida che abbiamo davanti "è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica" (n. 36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all’ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell’interpretazione dei rapporti internazionali. Per arrivare a un’affermazione forte: "Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" (n. 53). Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n. 77) è un punto fermo richiede in realtà "un nuovo slancio del pensiero" e obbliga "a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo" (n. 53). In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all’interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr. n. 56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme. Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può "avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata" (n. 15). In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti. La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l’eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell’ecosistema o che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado. Come sottolinea con vigore il Papa: "Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono" (n. 28).
Ancora una volta l’enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale. Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone. Lo dice espressamente il Papa: "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune" (n. 71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello "sviluppo integrale", che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi. Mi riferisco al tema dell’ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn. 48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell’attuale Pontefice. Scrive Benedetto XVI: "La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio" (n. 51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai "deserti esteriori" corrispondono "i deserti interiori" (cfr. Benedetto XVI, Omelia per l’inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi "attorno a noi" fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali "dentro di noi", all’inquinamento delle acque corrisponde l’atteggiamento nichilistico nei confronti della vita. Quando infatti l’uomo non viene considerato nell’integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera "ecologia umana" si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l’equilibrio della Terra. Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che "il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società" (n. 51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto "occidentale", come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991). Ma lo sguardo dell’enciclica è tutt’altro che pessimista o fatalista. Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: "La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente" (n. 21).
* ©L’Osservatore Romano - 20 settembre 2009
Ansa» 2009-08-31 12:12
BOFFO, OSSERVATORE ROMANO: SU AVVENIRE EDITORIALI ESAGERATI
ROMA - "E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scritto una riga. Ed è una scelta che rivendico, perché ha ottime ragioni". Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano, prende le distanze da un giornalismo che "pare diventato - osserva in un colloquio pubblicato dal Corriere della sera - la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti - spiega - sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non soltanto informativo, come mostrano anche le vicende degli ultimi giorni".
Sulla solidarietà a Dino Boffo non si discute, ma Vian esprime qualche perplessità sulle scelte di Avvenire: "Non si è forse rivelato imprudente ed esagerato - chiede - paragonare il naufragio degli eritrei alla Shoah, come ha suggerito un editorialista del quotidiano cattolico?". E "come dar torto al ministro degli Esteri italiano - insiste il direttore dell’Osservatore romano - quando ricorda che il suo governo è quello che ha soccorso più immigrati, mentre altri, penso per esempio a quello spagnolo, proprio sugli immigrati usano di norma una mano molto più dura? Mi sembra davvero un caso clamoroso, nei media, di due pesi e di due misure".
Peraltro, assicura Vian, i rapporti tra Italia e Santa Sede "sono buoni. Berlusconi è stato il primo a chiarire che non sarebbe andato a Viterbo per la prossima visita del Papa quando ha capito che la sua presenza avrebbe causato strumentalizzazioni". E l’incontro all’Aquila "é saltato per non alimentare le polemiche", ma "si è trattato di un gesto concordato, di responsabilità istituzionale da entrambe le parti. Tanto più che i rapporti tra le due sponde del Tevere - insiste Vian - sono eccellenti, come più volte è stato confermato". Insomma, "nelle relazioni tra Repubblica italiana e Santa Sede non cambia nulla".
Chiesa, tra moniti e placet
Ma è pronta allo «scambio»
di Fabio Luppino (l’Unità, 13 luglio 2009)
La legge sul testamento biologico verrà usata da Berlusconi e i suoi profeti per l’Assoluzione definitiva, l’indulgenza plenaria. Come un confessionale: da cui non si esce con dieci avemaria e 20 padre nostro. No, si esce con l’affossamento della laicità dello Stato nel fare le sue leggi. Uno scambio indecente. Una accelerazione improvvisa giunta quando tutto sembrava perduto, anche la sponda ecclesiastica. Va riletta attentamente la dichiarazione del ministro Sacconi del 23 giugno, come replica allo sconcerto di Famiglia cristiana riguardo alle vicende «private» del premier. Dall’ex socialista, neo convertito (Dio ci guardi), è partita una rancorosa rampogna per il direttore del settimanale: «La Chiesa più di DonSciortino appare molto interessata all’etica pubblica - ha detto il ministro - che deve caratterizzare i decisori tanto dal punto di vista della loro affidabilità quando promettono, quanto sotto il profilo dell’applicazione laica dei principi cristiani negli atti di governo, a partire da quelli inerenti il valore della vita». Un’affermazione che col tema non c’entrava nulla. Una zeppa, un segnale, una garanzia.
Sacconi, neocrociato, aveva già dato ampie prove di sé negli ultimi giorni di Eluana Englaro. Trombettiere del decreto con il quale si voleva fermare la battaglia del padre per la morte dignitosa della figlia, in coma da 17 anni. Senza indugiare sulle frasi (basta e avanza quella del premier che addirittura ipotizzava per Eluana l’eventualità di dare al mondo un bambino), Sacconi fece fino in fondo la battaglia parlamentare a sostegno di una legge ad personam (le precedenti erano state fatte tutte per «tutelare» Silvio Berlusconi) contra personam. La Chiesa apprezzò. E molto criticò, al contrario, la fermezza di Napolitano. Tre giorni prima della morte di Eluana, il 6 febbraio scorso, il presidente del pontificio consiglio della Salute, il cardinale Javier Lozano Barragan: «Il decreto era giusto». «Eluana è viva, ha il diritto di vivere e la comunità politica deve sostenere la sua vita con i mezzi che ci sono », si associò il presidente emerito della pontificia accademia per la Vita, monsignor Elio Sgreccia.
Il grumo inossidabile. La leva che ha portato alla legge votata dal Senato sul testamento biologico. La logica dello scambio è ben viva nel Pdl. Sempre a Famiglia cristiana rispondeva Bondi il 28 giugno: «Ha fatto più Berlusconi per la Chiesa di qualsiasi politico democristiano». Il Vaticano ci sta. E osserva da lontanol’emergere del puttanaio di circostanze che riguardano la vita privata di Silvio Berlusconi. Settimane di silenzio, interrotto solo qualche giorno fa con la misura finalmente colma e il sillabo di monsignor Crociata contro lo «sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile» non più rubricabile come semplice affare privato.
Il potere temporale ecclesiastico non chiede coerenza ai politici. Guarda ai suoi obiettivi. Non ha avuto nulla da ridire sulla sfilata di separati al Family day. Anche cerchiobottista, se serve. E così con il ddl sicurezza stanno insieme le dure critiche di monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio dei migranti, e la distanza di padre Federico Lombardi, portavoce della Santa sede: «Il Vaticano come tale non ha detto niente sul decreto sicurezza». I parocchiani sono un po’ schifati dai racconti sulle tempeste ormonali di Berlusconi.
Civiltà cattolica di questi giorni, in un saggio su «La coscienza morale e il governo di sé», richiama il monito che Santa Caterina da Siena rivolse ai politici del suo tempo: «Non si può essere buoni politici se prima non si signoreggia se stessi, coloro che non si governano non possono governare la città». La Chiesa millenaria si pone altri traguardi e va oltre. Manda segnali, indubbiamente. Fa sapere che l’udienza con il Papa, affannosamente richiesta da Letta e sherpa di governo, per ora non si mette in agenda; sulle badanti solleva problemi concreti e, in questo clima, riesce ad attenuare anche i furori iconoclasti leghisti. Si tiene, quindi, anche Bondi quando di Berlusconi dice che «sì, è un peccatore come tutti, naturalmente non più di altri, ma sinceramente e profondamente credente», che «non ostenta la sua fede cristiana, non indulge in sterili moralismi da bacchettone, ma va dritto alla sostanza dello spirito».
Il problema, in fondo, non è il Vaticano, anche in questo momento. È il venir meno dell’adagio liberale, libera Chiesa in libero Stato. Non resta che vedere come andrà a finire in una lotta affidata ai freni e contrappesi di maggioranza. Se vincerà Voldemort-Sacconi o Harry Potter-Fini, che sul testamento biologico ha opinioni non integraliste. La posta: lo Stato laico o l’indulgenza per il peccatore-premier.
Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione".
Anche Machiavelli sarebbe d’accordo con il Papa
di Ettore Gotti Tedeschi *
Una enciclica sociale è senza tempo perché affronta, in periodi diversi e condizioni che cambiano, un problema sempre prioritario: l’esigenza di dare un senso alle azioni umane. Esigenza che si soddisfa cercando e trovando la verità. Per questo motivo, la Caritas in veritate nei suoi principi è senza tempo: potrebbe essere stata scritta un secolo fa, così come potrebbe esserlo fra cento anni. Ma un testo papale di questo genere intende ovviamente anche rispondere ai problemi dei tempi in cui nasce.
Quando nel marzo 1891 Leone xiii pubblicò la Rerum novarum, molti vollero interpretarla in chiave anticapitalistica per le considerazioni che conteneva sugli eccessi della concentrazione del potere economico. Ma proprio nello stesso periodo, nel luglio 1890, il Governo statunitense aveva promulgato lo Sherman Act per regolare i monopoli che impedivano al mercato di funzionare. Era una curiosa coincidenza tra valutazione economica e giudizio morale che lascia intendere come le leggi dell’economia non possano prescindere da una naturale conformità con i principi etici.
Allo stesso modo si può interpretare la Caritas in veritate. Consapevole delle origini dell’attuale situazione economica, Benedetto XVI propone la sua analisi e mette in guardia sulla pericolosità di una crescita egoistica, consumistica e insostenibile. La stessa crescita fittizia che ha portato in questi anni a distruggere ricchezza e indebolire l’uomo. Curiosamente, come era avvenuto alla fine del xix secolo, anche questa volta è dagli Stati Uniti che è venuta un’indiretta adesione all’insegnamento del Pontefice. Il presidente Obama - riproponendo la complementarità tra valutazione economica e morale - ha infatti affermato che gli americani devono smetterla di vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Ma quanto durerà l’attenzione alle raccomandazioni contenute nella Caritas in veritate? Il suo richiamo verrà dimenticato appena terminata l’emergenza? Il testo è stato pubblicato in un momento di grave recessione economica originata da una forte crisi dei valori morali. Tutti sono ora molto attenti e si dichiarano d’accordo con il suo messaggio. Ma ci vuole altro per consentire allo spirito dell’enciclica di radicarsi. È necessario comprendere cosa significhi in pratica applicare l’etica all’economia. È forse inutile sperare in un cambiamento delle persone a motivo di un ciclo economico negativo. Molti di quelli che oggi riconoscono l’importanza dell’etica in economia, appena ieri dileggiavano lo stesso richiamo, sottolineando l’esclusiva importanza di produrre profitto. E ignorando che l’aspetto etico riguarda soprattutto come e perché il profitto viene generato.
Le proposte della Caritas in veritate potranno quindi essere accettate e trovare realizzazione anche nei periodi successivi alla crisi attuale se si riconoscerà che esse corrispondono a un concreto interesse generale e individuale. Ci si deve cioè convincere che l’etica in economia produce risultati migliori. E ciò non è affatto impossibile se si regola la competizione sleale. Non è difficile dimostrare che l’etica applicata produce maggiore ricchezza, che è persino un vantaggio competitivo, che realizza risultati più sostenibili nel tempo. Il comportamento etico implica costi minori - si pensi solo a quelli di controllo - e permette di creare valore crescente grazie alla trasparenza e alla fiducia che a loro volta producono più certezze e meno rischi.
Qualcuno diffonde ancora l’idea che la civilizzazione dell’economia - l’applicazione cioè di principi etici alle attività economiche - significhi minore produzione di ricchezza, rallentamento del processo economico, meno vantaggi competitivi e una scarsa attenzione alla misurazione dei risultati in base al profitto. In realtà è vero il contrario. È la mancanza di etica a produrre rischi di distruzione di ricchezza, e la storia della crisi attuale non dovrebbe lasciare dubbi in proposito. È lo spreco di risorse a generare perdite per la comunità. È lo sviluppo truccato a innescare diseconomie e ingiustizie. È l’asservimento del cittadino agli esclusivi bisogni dello Stato a dare vita alla debolezza e alla conseguente sfiducia verso le istituzioni.
L’insegnamento della Caritas in veritate - a partire dalla fondamentale introduzione - può quindi trovare una concretissima e utilissima applicazione. Perché, come Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione". Anche lui sarebbe d’accordo con il Papa.
(©L’Osservatore Romano - 12 luglio 2009)
Ansa» 2009-07-01 13:09
Enciclica "Caritas in Veritate" verrà presentata il 7 luglio
CITTA’ DEL VATICANO - E’ ufficiale: il Vaticano presenterà l’enciclica del papa ’Caritas in Veritate’ il prossimo 7 luglio.
L’enciclica sarà presentata in una conferenza stampa dal card. Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, dal card. Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, da mons. Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e dall’economista Stefano Zamagni. Si tratta di tutti personaggi che hanno contribuito alla stesura del testo pontificio.
L’ANALISI
L’amnesia della morale
di EDMONDO BERSELLI *
In un paese tutto televisivo, da almeno due decenni la politica è stata sostituita dalle immagini dei telegiornali, unica autorappresentazione del potere.
Si capisce facilmente allora come negli ultimi giorni, nonostante le inchieste di giornali come la Repubblica, sia stato possibile azzerare lo scandalo della prostituzione di regime, oscurare i fatti e annullare il giudizio dell’opinione pubblica. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a delineare la strategia: se tutti tacciono, lo scandalo scivola via, e del premier rimane soltanto l’immagine, colorata dalle tv compiacenti, di un uomo di Stato.
Anche questo in realtà è uno scandalo nello scandalo. La prova di una torsione così violenta da ridurre il paese al grado zero della politica. Perché ciò che colpisce, o piuttosto ciò che dovrebbe colpire oggi la coscienza generale, non è solo l’indifferenza anonima e spesso compiacente delle platee televisive, narcotizzate dalla "normalità" degli show privati organizzati dal circuito padronale berlusconiano.
È piuttosto la sensazione "tragica" del degrado che ha contagiato uno dei vertici istituzionali. Ed è per questo che sorprende, e quanto, la sottovalutazione in cui prende forma il giudizio delle classi dirigenti, secondo il calcolo cinico per cui il potere può permettersi qualsiasi scarto rispetto alla regola collettiva.
Il risultato è semplice e spettacolare insieme. Nel racconto delle protagoniste, presunte soubrette o modelle, una sede di fatto istituzionale come Palazzo Grazioli, residenza del capo del governo, è stata ridotta a un privé di escort, ragazze disponibili, teatro di incontri intimi, corteggiamenti sotto l’occhio delle guardie del corpo. Villa Certosa in Sardegna si è trasfigurata in una location di spettacoli grotteschi, talvolta a quanto pare con le aspiranti meteorine in costume da Babbo Natale, in una specie di Hollywood Party strapaesano, o di seriale addio al celibato.
Tutto questo senza che ci sia stata una presa di distanza, o semplicemente un giudizio esplicito, da parte delle élite nazionali: anzi, nell’understatement generale, cioè nella condiscendenza di chi detiene responsabilità pubbliche e private, è come se le ragazze che si fotografano a vicenda nelle toilette di Palazzo Grazioli appartenessero anche stilisticamente a un mondo plausibile: il mondo di Noemi, il mondo di Casoria e delle feste notturne a strascico, il mondo notturno e terminale di Berlusconi e del berlusconismo. Come se quelle fotografie, quegli abiti, quei maquillage designassero lo standard stilistico dell’Italia contemporanea, una misura morale fisiologica, perfetta per i tempi, irriducibile a codici e status che non siano quelli negoziabili del denaro e del corpo.
Prudenze e cautele prelatizie hanno segnato le parole delle comunità di riferimento. Al di là dei giudizi, chiari ma volutamente interlocutori sul piano politico, di Avvenire, ossia il giornale della Conferenza episcopale, non si sentono in giro voci che stigmatizzino la trasformazione di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa in una casa di bambole. Pochi sembrano essersi posti il problema della grave caduta che investe l’immagine del nostro paese sul piano internazionale, e ancora meno appaiono coloro che si pongono il dubbio di quale sarà il clima in cui si svolgerà il G8 dell’Aquila.
Pochissimi, infine, hanno affrontato il tema, colossale, dello scadimento della qualità, e della intrinseca legittimità, del nostro sistema democratico. Insomma, dovremmo essere tutti sotto choc, con una classe dirigente traumatizzata dalle lacerazioni comportamentali di un uomo come Berlusconi, che ha trasferito nel nulla dell’intrattenimento edonistico i contorni del governo, e invece stiamo assistendo a una dissonanza cognitiva perfetta, secondo cui tutto questo è normalità, naturale modernità del gusto, etica ed estetica canoniche, insomma il criterio senza eccezioni a cui ci si confà perché è il vero "pensiero unico" che accomuna nell’autocompiacenza le classi di comando.
Viene da chiedersi tuttavia se questa misura doppia, se il codice che attribuisce la dismisura del potere a chi lo detiene, sia compatibile con la semplice convivenza civile: e viene da rispondere che no, è troppa la distanza fra i saturnalia del sultano e la vita della gente comune. Gli arcana imperii sono tollerati quando risultano iscritti nel segreto, non quando diventano un’esibizione sfrontata e a suo modo feroce. Qui invece, con i ludi fotografici di Palazzo Grazioli, si evoca un vistoso vulnus democratico, dal momento che essi rappresentano la manifestazione sfacciata secondo cui al possessore del comando tutto è possibile, e tutto è dovuto, perfino l’indulgenza.
Ecco, in questo clima di sospensione morale, di fronte a una specie di sorda dichiarazione di irresponsabilità, c’è la minaccia che l’amnesia etica diventi una condizione reale di deficit democratico e civile. Alla fine la doppia misura, una che si applica a Berlusconi e una al popolo, ha un prezzo. Sono già state poste le premesse di una sudditanza. E la credibilità di un intero sistema, nella sua dimensione istituzionale, si dilegua. Resta soltanto la protervia del potere sostanziale, e dello spettacolo che ha allestito nella certezza dell’impunità. Tanto, nell’ipnosi del buio televisivo, quel prezzo lo pagheremo caro, e lo pagheremo noi.
* la Repubblica, 23 giugno 2009
Barbara racconta le visite a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa
"Dopo la cena io me ne andai. Patrizia, che faceva la escort, restò col presidente"
"Io, Silvio e le altre ragazze
tutte lo chiamavano Papi"
"Reclutata" da Giampaolo Tarantini. Difende il premier: "E’ stato simpaticissimo
Mi ha regalato dei gioielli e una busta con una cifra generosa solo per la presenza"
di PAOLO BERIZZI e GABRIELLA DE MATTEIS (la Repubblica, 20 giugno 2009 - per leggere l’art., cliccare sul rosso)
Ansa» 2009-06-13 14:45
CRISI: PAPA CONFERMA ENCICLICA, FISSERA’ PRINCIPI E VALORI
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI ha confermato che presto verrà pubblicata la sua nuova enciclica dedicata al "vasto tema dell’economia e del lavoro" e che in essa traccerà "i valori da difendere instancabilmente " per realizzare una convivenza umana "veramente libera e solidale". La data indicata in Vaticano per la firma del prossimo testo pontificio è quella del 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo.
Benedetto XVI è tornato a parlare della crisi economica mondiale incontrando oggi la Fondazione ’Centesimus Annus’, organismo cattolico che si occupa di studi sociali. "In effetti, la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni", ha spiegato il pontefice. "Come sapete, verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell’economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale", ha aggiunto. L’enciclica si intitolerà "Caritas in veritate" e verrà pubblicata e presentata subito dopo la firma, ai primi di luglio.
SENZA LA PROFEZIA, RIMANE LA COMPLICITÀ *
Egregio sig. Cardinale,
viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E’ il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.
Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.
Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di «frequentare minorenni», dichiara che deve essere trattato «come un malato», lo descrive come il «drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio». Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell’omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull’inazione del suo governo e sulla sua pedofilia. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.
Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la «verità» che è la nuda «realtà». Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell’Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi «principi non negoziabili» e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono «per tutti», cioè per nessuno.
Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all’integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi. Non date forse un’assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi «parlate per tutti»? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l’immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E’ forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l’attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l’8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell’inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.
I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra all’accusa di pedofilia, stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull’odio dell’avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con «modelli televisivi» ignobili, rissosi e immorali.
Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l’altro 50% sotto l’influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d’interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa? Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita «dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale»? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall’eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l’etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant’Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché «anche l’imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa». Voi onorate un vitello d’oro.
Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da «mammona iniquitatis», si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d’oro? Quando il vostro silenzio non regge l’evidenza dell’ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: «troncare, sopire ... sopire, troncare».
Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una «bagatella» per il cui perdono bastano «cinque Pater, Ave e Gloria»? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: «Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix» (La Stampa, 8-5-2009).
Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l’integerrimo sant’Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell’imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 5).
Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei «per interessi superiori», lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.
Lei ha parlato di «emergenza educativa» che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei «modelli negativi della tv». Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l’arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del «velinismo» o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull’altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l’Italia.
Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all’Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: «Non licet»? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro «tacere» porta fortuna.
In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.
Genova 31 maggio 2009
Paolo Farinella, prete