VIS-A-VIS TRA DUE VITE PARALLELE
Ieri a Roma la «Lectio Magistralis» di Edoardo Sanguineti dedicata a Pietro Ingrao
L’avventura ostinata di costruire una «cosa semplice»
di ROBERTO CICCARELLI (il manifesto, 31.03.2006)
«Odio», «Vendetta», «Rivoluzione». Sono le parole forti, cariche di un certo fascino desueto ma quantomai attuali, che ieri Edoardo Sanguineti non ha avuto alcun timore a pronunciare nella sala del Refettorio della Camera davanti a centinaia di persone durante la sua lectio magistralis organizzata dal Centro per la Riforma dello Stato in onore dei 91 anni di Pietro Ingrao.
Parole che hanno indicato una «linea di condotta »: «In un mondo in cui il 98 per cento delle persone vive una condizione di precarietà o di vera e propria miseria - ha detto il poeta e intellettuale genovese - il vero lusso è quello di permettersi ancora di essere gentili con gli altri. No, oggi è doveroso essere sgarbati per rendere evidente a tutti che viviamo in un mondo disumano».
Questo è stato l’inizio sconcertante della lezione del teorico più famoso del «Gruppo 63», autore di un recente Il chierico organico. Scritture e intellettuali (2000) e dell’ultima antologia Microcosmos (2005), che raccoglie la sua opera poetica dal 1951 ad oggi. Ma sono bastati pochi istanti per chiarire che l’odio per chi detiene le più grandi ricchezze del pianeta, la necessità di vendicare non solo le sofferenze dei padri ma anche quelle attuali dei figli, non risponde soltanto ad un’elementare esigenza etica o, peggio, ad un risentimento per chi non ha nulla ed aspira ad avere un credito illimitato per fare shopping tra le vetrine luccicanti dell’Impero. Essere sgarbati, oggi, non significa essere violenti. Almeno fino a quando non sarà viva l’esigenza di dare giustizia alle nuove generazioni, e non solo a quelle dei loro padri. Che hanno potuto permettersi il lusso, ha detto Sanguineti, di seguire una educazione intellettuale e sentimentale che non separava l’attività mentale della ricerca teorica da quella della pratica politica.
Un itinerario che in quel secolo grande e terribile che è stato il Novecento ha prodotto un pensiero - quello del «materialismo storico» - che Sanguineti ha usato come sinonimo di «marxismo» - che non si è mai fermato alla constatazione dei dolori biografici degli intellettuali, ma si è proiettato su uno scenario infinitamente più largo, quello «della condizione oggettiva della lotta di classe».
Oggi anche le nuove generazioni dovrebbero godere di quello stesso lusso che ha permesso di rispondere alla domanda, che alla lezione magistrale ha dato anche il titolo, «come si diventa materialisti storici?». Storie personali e storie politiche si sono intrecciate in platea. Antonio Bassolino seduto accanto a Alfredo Reichlin, dietro c’era Luciana Castellina, e ancora Goffredo Bettini, Giuseppe Vacca, Alfonso Gianni e Gianni Ferrara, Massimo Serafini e Walter Tocci. Più dietro il gruppo de «la voce della luna» del dipartimento di salute mentale della Asl Roma E, oltre ad una serie di giovani e meno giovani legate alla storia politica ed intellettuale di Ingrao.
«Una buona abitudine». Così Mario Tronti, seduto accanto a Sanguineti, ha definito la lezione dedicata a Ingrao che, a partire da quest’anno, sarà tenuta ogni 30 marzo. Sanguineti ha poi raccontato la storia della sua conversione politica da «giovane anarchico radicale» a «materialista storico » ripercorrendo il proprio itinerario intellettuale e politico. Un lungo apprendistato che non si è ancora concluso, ma che si è giovato di una lunga serie di incontri.
Il primo è stato a Torino nel 1940. Siamo in Corso Porto, oggi Corso Matteotti. Un gruppo di ragazzi tira calci ad un pallone. Sanguineti entra per la prima volta in contatto con un altro mondo, quello operaio, quando un giovane di nome Felice si avvicina e propone di giocare insieme. Era il primo avvistamento della rude razza pagana, ma anche la scoperta di un mondo ancora lontano per quei ragazzi, quello della sessualità.
Seguì la scoperta della politica, avvenuta grazie ad un compagno di scuola che indicava al «giovane anarchico radicale qual ero» la strada per una solidarietà umana «che allora ignoravo ». «Era pieno di quell’attenzione verso la debolezza di coloro che non erano conquistati alla causa del partito - ha raccontato Sanguineti - Sono stato stalinista, filo- cinese in polemica contro gli eccessi di burocratismo dei partiti di sinistra, fino all’ultimo approdo l’euro-comunismo di Berlinguer quando feci il deputato dal 1979 al 1983».
«Se fossi oggi in politica - ha continuato Sanguineti - consiglierei a Prodi di tornare ad applicare i principi di quel capolavoro che è la Costituzione italiana: diritto al lavoro, alla scuola e alla sanità pubblica, innanzitutto». In un momento in cui un’intera generazione europea reclama il proprio diritto al futuro, questo non sarà rivoluzionario, ma almeno risponde ad un criterio minimo di giustizia. «Non è follia ma invece fine della follia. Non è il caos ma l’ordine, invece. E’ la semplicità che è difficile a farsi» scriveva Bertolt Brecht, nella sua Ode al comunismo del 1933. Oggi, come ieri, ha ricordato Sanguineti, si sa che questa semplicità è il risultato di una lunga ostinazione.
L’odio di classe di Sanguineti
di Ida Dominijanni (il manifesto, 7 gennaio 2007)
«I potenti odiano i proletari e l’odio deve essere ricambiato». Perciò, sostiene Edoardo Sanguineti, bisogna «restaurare l’odio di classe», per contrastare l’oblìo di sé in cui la classe operaia, «inibita da una cultura dominata dalla tv», è immersa. Pronunciate venerdì sera a Genova, alla conferenza stampa di presentazione del programma della lista «Unione a sinistra» che sostiene la candidatura di Sanguineti a sindaco della città, le parole del grande intellettuale colpiscono gli astanti e le agenzie, e dalle agenzie rimbalzano sui giornali in una serata avara di notizie.
Scandalo: che c’entra l’odio di classe, o anche solo la lotta di classe, mentre si montano pagine e pagine sulla separazione di Nicola Rossi e si celebrano funerali su funerali dei «D’Alema boys» orfani del loro leader? Che c’entra quel richiamo ortodosso di Sanguineti alla forza-lavoro, «la merce uomo, che oggi è la più svenduta», mentre la pietra filosofale della politica sociale sono diventati i tagli alle pensioni? Che c’entra quell’abbozzo di analisi del postfordismo, per cui «oggi i proletari sono anche gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari», mentre si parla di categorie sociali solo nella lingua asettica e fiscale della finanziaria? Il poeta dell’avanguardia, il protagonista del «Gruppo 63», il materialista storico non pentito ha colpito ancora, e ha colpito giusto: fanno stridore solo le parole che l’ordine del discorso decide a un certo punto di rendere impronunciabili, indicibile e indecenti. Lotta di classe e odio di classe fanno parte di questo serbatoio di indicibili oscenità: sono letteralmente fuori scena nel teatrino politico corrente, e perbenisticamente censurate dal discorso corrente della sinistra. E non foss’altro per questo è bene che qualcuno torni a pronunciarle.
Sanguineti in verità non aveva aspettato di essere candidato a sindaco di Genova dal correntone Ds, dal Prc e dai Comunisti italiani per tirarle fuori. Meno di un anno fa le aveva pronunciate con la stessa convinzione a Roma, nella solenne Sala del Refettorio della Camera, durante la sua Lectio Magistralis (oggi pubblicata da Ediesse) in onore dei 91 anni di Pietro Ingrao organizzata dal Centro studi per la riforma dello Stato.
Allora aggiunse anche «rivoluzione», e spiegò come qualmente «oggi è doveroso essere sgarbati per rendere evidente a tutti che viviamo in un mondo disumano, in cui il 98% delle persone vive una condizione di precarietà o di vera e propria miseria». Sgarbati, ecco. Che non vuol dire violenti, aggiunse allora e ripete oggi il poeta.
Significa semplicemente non stare a danzare quel garbatissimo minuetto di parole che vorrebbe convincerci che tutto va bene e che quello in cui viviamo è l’unico nonché il migliore dei mondi possibili. Significa tenere aperta non la speranza per le prossime generazioni - di quella si riempiono la bocca tutti, tanto non ci tocca - ma la responsabilità che lega le generazioni adulte di oggi a quelle che le hanno precedute e a quelle che seguiranno.
Sanguineti pensa a Walter Benjamin e lo dice: il compito della sinistra non è quello di accodarsi all’idea del progresso e alla promessa della felicità futura, ma di rivendicare e vendicare le ingiustizie passate e presenti perpetrate sugli oppressi. E’ la «debole forza messianica» di cui Benjamin scriveva nelle Tesi sul concetto di storia. La sinistra senza alcuna forza messianica di oggi, divisa in tre tronconi e tre candidati a Genova come ovunque ci sia un posto in palio, potrebbe provare a rileggersele.
UN RICONOSCIMENTO E UN OMAGGIO (DEL 2000) A EDOARDO SANGUINETI. Una citazione da:
"CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)
di Federico La Sala
Caro Primo
Convinto, inattualmente e contemporaneamente, che occorra lavorare di più e meglio nella direzione di Marx (Freud, Benjamin, Sohn-Rethel, Paci, Fachinelli, Lea Melandri, e gli infiniti Altri e le infinite Altre) e che oggi, “nella ideologia dominante, invece, la teologia ha assunto il materialismo storico al proprio servizio, approfittando della congiuntura per la quale esso è oggi quel nano che facilmente si occulta, piccolo e brutto come si ritrova” (cfr. E. Sanguineti, Introduzione, K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Roma, Meltemi editore, 1998, p. 9, cors. mio), ho deciso di scriverti di alcuni risultati di mie riflessioni, per sollecitare una ripresa del lavoro critico, della pratica della libertà e della lotta di liberazione. Mi auguro che siano degne della tua stimatissima attenzione. La mia convinzione, per evitare inutili equivoci, è questa: solo con Marx, e con un Marx liberato dalla sua offuscata lucidità, possiamo capire criticamente Platone (la filosofia), Gesù (il messaggio evangelico e la religione cattolico-romana), Hegel (l’identità della filosofia e della religione) e il nostro tempo, non viceversa. E la mia proposta - presentata qui di seguito come via chiasmatica della conoscenza non è altro che la proposta di un materialismo storico liberato dalla sua cecità e capace non solo di realizzare “un’ananmesi della genesi” e “risolvere il miracolo greco passando attraverso il denaro” (come ha intuito e tentato Sohn-Rethel), ma anche di sognare meglio quello che hanno sognato tante generazioni e anche noi ancora sogniamo...
Nell’ideologica confusione e incapacità (di chi?, non forse del famoso Partito Laureati Italiani, a cui si sono iscritti anche quelli della cosiddetta sinistra, di cui parlava don Milani!?) di portare a fondo la critica dell’economia politica, la secolarizzazione del denaro, e lo studio “del modo in cui si organizzano socio-economicamente i rapporti tra gli uomini, e di come tali organizzazioni generino diverse e nuove prospettive etiche”, si preferisce discutere, “con maggiore elevatezza e nobiltà del bene e del male, della virtù e dei vizi” (E.Sanguineti, op. cit., p. 11, cors. mio) e rifugiarsi, beati e tranquilli, sotto l’ombrello di Platone, il filosofo, papa e re, dell’Occidente [...]*
* Per proseguire eventualmente la lettura, in rete:
[Cfr. F. La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e, p. c., a Nelson Mandela), Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 2001, pp. 9-40.
Sanguineti, la vita dell’ultimo marxista tra politica e poesia
Il piccolo volume è una conversazione da lontano che colma un vuoto
di Furio Colombo (Il Fatto, 19.03.2018)
Edoardo Sanguineti era mio compagno di banco al liceo D’Azeglio di Torino. Era appena finito il grande disastro del fascismo ed eravamo sicuri che toccava a noi riempire il vuoto. I nostri insegnanti di quel liceo (il più importante della città ) e di quella nostra classe (sezione B) erano tutti personaggi della Resistenza partigiana. È la Resistenza (la Resistenza, non l’Italia, che in tutta la nostra vita era stata fascista, persecutrice, priva di valori che non fossero uccidere o morire) il territorio in cui eravamo radicati. Anzi, nella Resistenza eravamo nati, giovanissimi adulti, legati per sempre a quello straordinario soprassalto di libertà, legati per sempre a quelle radici, come tutti coloro a cui ci siamo legati a mano a mano, nel corso degli anni. Eppure fra il 1946 e il 1949 (il periodo del nostro liceo) non siamo mai diventati i discepoli di chi già ci parlava del passato.
Puntavamo avanti, in politica (volevamo parlare di delitti non pagati, di diritti non ricevuti, di scioperi già malvisti, dei partiti già inclini a scansare le ingiustizie), nella ricerca di ciò che stava per venire e nel non accettare che il fatto di essere liberi fosse un punto di arrivo. È stato seguendo questa spinta che, nel secondo anno, Sanguineti e io, abbiamo organizzato un nostro luogo di incontro e di discussione. Lui o io abbiamo iniziato a portare testi da leggere e da discutere, e il punto d’incontro era a casa mia, dove mia madre aveva sgombrato una stanza. Sanguineti lo racconta nella sua autobiografia per dire che eravamo più adatti a scoprire il dopo che a celebrare il prima.
Quando ho avuto fra le mani il piccolo, utilissimo libro di Lanfranco Palazzolo, Edoardo Sanguineti, il poeta dell’avanguardia (postfazione di Pino Pisicchio, Historica Editore), mi sono reso conto che questo nuovo testo colmava un vuoto.
Mancava tra le tante opere e i tanti scritti di e su Sanguineti, una conversazione da lontano: Palazzolo raggiunge Sanguineti nel 2010, molti anni dopo l’esperienza tedesca (1971) e 100 poesie dalla DDR, e lo induce a raccontare di un periodo cruciale, per un mondo spaccato della guerra fredda, per la enigmatica politica italiana, per Sanguineti, stesso, mai così poeta, mai così politico (“Torno in Italia e mi iscrivo a Pc”, ha detto a Palazzolo ).
Il fatto è che il giornalista riesce, con domande informate e abili, a far fronte al poeta e a tener testa al politico. E il documento che gli dobbiamo merita di entrare sia nelle biblioteche della politica italiana di quegli anni, sia nella biografia di un grande poeta italiano.
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
Edoardo Sanguineti *
Ballata dell’automa
che cosa è l’uomo? dove cerchi i suoi segni?
è il barometro, l’architettura barocca, il fazzoletto:
non c’era il pane, nemmeno, una volta,
né i tarocchi, né i fotoromanzi, né il letto:
che cosa è l’uomo? dove sta la sua storia?
è la cornice, il cavallo a dondolo, la radio:
è la sua vita tutte queste cose,
il calendario, l’agopuntura, lo stadio:
che cosa è l’uomo? dove poi te lo trovi?
è il gelato alla vaniglia, l’enciclopedia, gli stivali:
dove era un niente, sta un significato,
per le api le arnie, e per gli occhi gli occhiali:
che cosa è l’uomo? dove sta la sua anima?
è il teorema di Pitagora, la chitarra, il giornale:
vedi la vanga, le tenaglie, la biro,
che fanno il mondo che ti è naturale:
sciogli il tuo braccio, che hai tanto sudato,
e lungo è il tempo che ti hanno sfruttato:
quando un automa ci avrà faticato,
può incominciarci anche l’uomo umanato:
*
Senzatitolo (Feltrinelli, 1992)
Pietro Ingrao: poesia atto cognitivo
di Alberto Olivetti (il manifesto, 07.07.2017)
«Nella mia esperienza, poesia è un atto cognitivo: conoscenza. Dunque un elemento attivo. Né una pausa, né un ripiegamento». Così Pietro Ingrao su «Alfazeta» nel dicembre del 1992. Un convincimento che aveva avuto modo di argomentare pubblicando Il dubbio dei vincitori, nel 1986, chiarito da una attenzione costante a segnare il margine che distingue il comporre poetico e l’agire politico.
Nel giugno del 1991, «credo, sostiene Ingrao, a una nuova forte attualità del linguaggio poetico proprio su due aspetti della modernità:a) la crisi di visioni unidimensionali della vita e del tempo. Oggi parliamo molto di complessità e di una vita pluriversa; b) la spinta a subordinare, ad adattare la creatività emotiva del vivente a l’agire strumentale, a la razionalità calcolistica. Da qui una nuova attualità del linguaggio poetico per riscoprire la densità del vivente».
Densità che si credeva possibile affermare grazie al movimento di soppressione dei rapporti capitalistici di produzione ad opera della classe operaia. Densità del vivente finalmente liberata. Quello che il giovane Marx indicava come l’umano proprio della ‘proprietà privata soppressa’: il peculiare, il personale. Il sigillo, diciamo, di ciascuna individualità che è dire il molteplice, il differente, il discreto, il diverso. Scriveva Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «ogni tuo rapporto con gli uomini - e con la natura - dev’essere una espressione determinata, corrispondente all’oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale».
A Madrid, il 6 giugno 1991, nella lezione Un’analisi del presente tenuta presso l’Università, Ingrao svolge, tra l’altro, queste considerazioni: «lo stacco tra tempo di lavoro e tempo di vita si accentua e si complica. La nozione stessa di tempo cambia: diventa - com’è stato detto - puntiforme; e si attenua perciò la trasmissione della memoria storica e quindi del rapporto passato-futuro. La tensione stessa verso il futuro si indebolisce, a causa della difficoltà di afferrare tutte le dimensioni del presente. Insieme con la dimensione del tempo, stanno mutando momenti vitali. Basta pensare alla sfera della sessualità e del corpo. Al rilievo che ha assunto in una lettura diversa del mondo, con la cultura e pratica femminista della differenza sessuale.
Tutto ciò mette in discussione, non solo in teoria, ma nella pratica, la cultura della ‘centralità operaia’ o, se vogliamo andare fino in fondo, mette in discussione la centralità del produrre, del lavorare, che è stata così tipica del mondo operaio e contadino».
Questa analisi comporta rilevanti conseguenze che è bene assumere nella loro radicalità. Una investe direttamente le forme dell’agire collettivo. Agire politico, agire collettivo. Ingrao ricorre a questi termini per rappresentare una complessa interazione organizzata intesa alla trasformazione dei rapporti sociali dominanti. Nel processo delle sue stesse articolazioni intervengono e contano soggetti diversi e istituzioni. Le regole duttili della democrazia partecipata e l’invenzione di forme nuove corrispondenti a nuovi rapporti, alle inedite interrelazioni che attraversano il corpo della società. Ingrao avverte la «crisi radicale delle vecchie forme dell’agire collettivo. La difficoltà vera delle vie ed esperienze democratiche esplorate in Occidente ha radici in questo nodo». Da qui una esigenza urgente che reimposti i fondamenti dell’agire politico per «dare nuova base alla libertà possibile degli esseri umani».
È in questo contesto che l’atto cognitivo della poesia assume un ruolo essenziale, si presenta e si impone come un elemento attivo. Allora, «cognizione poetica assorbente ed esclusiva?», si chiede Ingrao. Niente affatto. La poesia nomina «i campi lesi dalla riduzione del vivente a quantità», ma va perseguita una «pluralità delle angolazioni cognitive necessarie per l’ampiezza di relazioni col reale».
Nel settembre del 1991 dichiara a «Leggere»: «senza dubbio il mio comunismo è cambiato moltissimo. Il modo in cui vedevo, sia la teoria comunista che la strategia comunista di liberazione delle masse oppresse; il modo stesso in cui vedevo quel mondo che si chiamava comunista è molto, molto diverso dall’idea che è venuta in seguito».
Sanguineti, l’erudizione all’avanguardia
di Bruno Pischedda (Il Sole-24 Ore, 12 dicembre 2010)
Poco è trascorso dalla morte improvvisa di Edoardo Sanguineti, e puntualmente, grazie a una curatela precisa (ho notato solo un Finnegan’s wake con il singolare erroneo), Erminio Risso ne raccoglie un’ampia miscellanea di scritti dalla metà degli anni Cinquanta sino a noi. Cultura e realtà è il titolo del volume, ricco di letteratura, arti, musica, teatro: tutte materie che l’artefice di Laborintus affrontava in cataloghi di mostre e riviste come «Marcatrè», «Nuova Corrente», «Il Verri»; quindi da autorevole dispensatore di sapere entro saggi sparsi, convegni, dotte prefazioni. Vi fa spicco, e non poteva essere altrimenti, l’attitudine eversiva della sua parola critica, che particolarmente in letteratura si compiace di anticipazioni anacronistiche e ribaltamenti. Il Satyricon di Petronio, per dare qualche esempio, come forma menippea dell’antiromanzo moderno; Petrarca non già nume fondatore della lirica moderna, ma "sublime epigono", maestro sommo che ricapitola il Medioevo («I Fragmenta sono una pietra miliare. Ma sono tali in quanto pietra tombale»). E ancora, Leopardi filosofo "reazionario", con buona pace di Cesare Luporini; Campana post-continiano, fuori e oltre la deficitaria dicotomia tra poeta visivo e poeta veggente; Pound contro Eliot (lo "schianto" dell’uno in rapporto alla "lagna" dell’altro); Verga dei racconti milanesi riletto con puntiglio sulla falsariga di Brecht e del suo effetto straniante.
Non è senza significato se in un avanguardista d’impegno come Sanguineti il trattamento della poesia e delle poetiche («dico la poetica per intendere l’ideologia») prevale di gran lunga sulla tradizione del romanzo. L’epistolografia, la diaristica, al massimo la forma narrativa breve gli fanno da timone quando si addentra nel territorio della prosa. Eventualmente l’autoriflessione d’autore e gli elementi di consapevolezza programmatica e procedurale, in un arco che appunto dal Petrarca giunge sino a Landolfi e a Petrolini, magistrale saltimbanco e vero campione della "meta-recitazione". Ma soprattutto colpisce nella raccolta il desiderio di ricapitolare esistenzialmente, di fare punto in età matura e di darsi ragione di un tragitto intellettuale che si può ben dire novecentesco.
Fa bene l’editore a mettere in controcopertina il motto forse più istruttivo del volume: «Gli anni di apprendistato continuano per tutta la vita». Così da suggerire che nella sfera del moderno si attenua di molto la circostanza iniziatica a tutto favore di un acquisto sempre inconcluso. Da osservare, se mai, è che in un «tenace razionalista» come Sanguineti (così si definisce) proprio il processo di autocostruzione intellettuale procede tramite un’ininterrotta serie di avventure epifaniche, di lampi improvvisi, utili a rifondere il dato etico e politico nel più ampio mare dell’estetica. A dieci anni l’incontro con Fedele, giovane operaio ed emblema di un’alterità vivente, ossia «la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza». Nel 1947 l’apprezzamento del Dom Juan, giunto a Torino per la resa scenica di Louis Jouvet: «la prima rivelazione di una autentica grandezza teatrale»; le susseguenti e inattese simpatie per gli irrazionalisti maggiori: «da giovane fui incantato da Nietzsche, poi da Kierkegaard, poi da Schopenhauer, poi da Heidegger»; quindi l’approdo entusiasta all’etnologia di Vittorio Lanternari e alla sua opera capostipite, La grande festa, del 1959, «uno di quei testi che bene o male hanno deciso della mia interpretazione del mondo, e anzi, se così posso dire, del mio modo di stare al mondo». Sembrerebbe un percorso noto, generazionalmente condiviso, e solo eccentrico per la quota di circolarità radicale che viene manifestando.
Giovane adepto del Carducci giacobino, e di Campana come protagonista di un salutare «ritorno al disordine», Sanguineti assume presto un costume da «stalinista molto rigido», poi da seguace «filocinese», in seguito è parlamentare eurocomunista; per approdare infine, scomparso il Pci e crollato il muro di Berlino, a una rinnovata forma di ribellismo eslege. «Tutto ciò che nella modernità trascorsa ha avuto senso e peso e rilievo - scrive - si è sempre fondato in qualche modo sopra una pulsione radicalmente anarchica e se non altro anarcoide». Persiste insomma il gusto «del rischioso e dell’imprevedibile», però venato da una screziatura di alacrità pessimista, particolarmente quando si giunge al nodo dell’ideologia. «Io - prosegue - uso la parola positivamente»; e se è pur vero che «a questo mondo non ci sono che false coscienze», il massimo che si potrà fare è agire con tenacia lucida per crearsene una, senza lacune o tradimenti improvvisi.
Diverso in ogni caso è il ragionamento se ci spostiamo sul piano del metodo di analisi (letterario, culturale in genere) e sulla visione complessiva che Sanguineti ne trae. Anche in questo caso non può sfuggire il senso di un percorso: da un momento prioritario nutrito di Brecht, Artaud e di sociologia neomarxista: Goldmann, e magari Escarpit, il nostro Giuseppe Petronio, Hauser, Argan; ecco affiorare i contributi più canonici di Spitzer e soprattutto di Curtius, della critica psicoanalitica, della filologia: Mauron, Roncaglia. L’atteggiamento con cui si dedica a questi scritti è certo diversificato: psicocritico da un lato e attento alle fonti e alla topica generativa dall’altro. Sul terreno dell’interpretazione, osserva, mutuando un celebre motto di Debenedetti, «nessun coltello è da sottovalutare, quando serve ad aprire l’ostrica».
Ma è davvero arduo non vedere il vero collante che tutti questi metodi tiene insieme, ovvero il formidabile e quasi reattivo, polemico eruditismo. Due linee sembrano disegnarsi in definitiva: da un lato l’ampliamento multidisciplinare, come per tanta parte dei letterati impegnati a lui coevi (antropologia, folclore, sociologia, filosofia). E dall’altro una competenza libresca, anche la più minuta, che vale a surclassare qualunque obiezione di ideologismo ristretto. Insomma quel sale enciclopedico e nozionistico che un antico sodale come Eco, uomo in palandrana anche lui, scioglie nello humour accattivante, nel divertissement alla portata di (quasi) tutti, e che invece Sanguineti porge in modo grave, secondo un accademismo accurato e inappellabile.
A colui che intendeva fare dell’avanguardia un’arte da museo, sempre più va sostituendosi l’estimatore del museo e delle opere che vi sono custodite. In uno scritto fondamentale del 2002 annota: «è classico tutto ciò che sopravvive a un medioevo», alludendo con l’articolo determinativo al nostro oggi, che della vecchia barbarie sembrerebbe il duplicato. I classici, prosegue, «ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica, e ci orientano in un autentico storicismo assoluto». Ma il punto, per concludere in battuta, è che di questo storicismo noi non sapremmo cogliere né l’assoluto né eventualmente il dialettico. Soprattutto se poniamo mente a uno dei saggi più ambiziosi e forse più deboli della compagine: lo scritto titolato Per una teoria della citazione (anno 2001), dove è riletta l’intera tradizione d’occidente in forma di recupero intertestuale, senza fasi distinte, articolazioni di merito, modalità accentuate. Un saggio che fa il paio con altra sentenza, o boutade, datata 1997, secondo cui «il sogno di Benjamin di un libro fatto di sole citazioni è un sogno che riassume in sé tutta la modernità, la pulsione della modernità». A un così netto riduzionismo, corrisponde, poi, e pure questo era da aspettarsi, una singolare afasia quando arriviamo alle poetiche del recupero neonarrativo: «Nessuno sa bene - dichiara - che cos’è il postmoderno». Tanto erudito pare insomma Sanguineti, ed è; quanto curiosamente disinteressato, e anzi bizzoso, dinnanzi alle tendenze letterarie delle decadi a noi più vicine. Si capisce la difficoltà, la remora ad affrontare una materia davvero bruciante sotto il profilo post-novecentista e post-sperimentale. Proprio qui, tuttavia, si sarebbe desiderata da una così grande figura di intellettuale e poeta qualche breve parola, magari non assoluta, ma storica.
La rivoluzione francese secondo Wu Ming
Di nuovo storia e finzione per il collettivo
di Ranieri Polese *
Nel 1883, per ricordare la vittoria francese di Valmy (20 settembre 1792) sugli eserciti di Austria e Prussia, Giosuè Carducci componeva i dodici sonetti del Ça ira. In cui, italianizzando nomi francesi (Tuglierì, Ostel di città, Abbadia per Tuileries, Hôtel de Ville e la prigione dell’Abbaye), celebrava la battaglia che aveva salvato la Rivoluzione. E in una nota scriveva: «Oggi è vezzo (...) voler abbassare e impiccolire la rivoluzione francese: con tutto ciò il Settembre del 1792 resta pur sempre il momento più epico della storia moderna». Non aveva paura, Carducci, a esaltare pure il linciaggio della dama di compagnia della regina, la principessa di Lamballe, la cui testa su una picca venne portata sotto la prigione del Tempio. Già dodici anni prima, nella fase più radicale della sua fede giacobina, aveva scritto Versaglia in gloria della grande Rivoluzione. Anche qui, nomi francesi italianizzati (Occhio di bue per l’oeil de boeuf della reggia che, appunto, diventa Versaglia) e la celebrazione degli eventi rivoluzionari come la decapitazione del re, giusto castigo per i secolari delitti di cui si era macchiata la monarchia francese.
All’epoca, all’indomani della sconfitta di Sedan (1870), la Terza Repubblica in Francia operava una drastica revisione della Rivoluzione, condannando senza appello i giacobini, il Terrore, il radicalismo di Robespierre. E il giacobino Carducci protestava con i suoi versi. Oggi, contro le nuove revisioni storiografiche della Rivoluzione, il collettivo di scrittura Wu Ming ci propone un denso romanzo che inizia con l’esecuzione di Luigi XVI (21 gennaio 1793) e si ambienta nei mesi del Terrore, per arrivare, dopo la caduta di Robespierre il 9 Termidoro (27 luglio 1794), alla sconfitta finale del popolo di Parigi nella primavera del 1795. L’armata dei sonnambuli si dichiara subito dalla parte dei sanculotti, dei repubblicani dei grandi sobborghi popolari. Sono loro che appoggiano il governo di Robespierre anche nelle sue estreme decisioni (la messa a morte di Maria Antonietta, Danton, Desmoulins, Hébert), seppure criticando il mancato approvvigionamento di cibo e l’impunità degli accaparratori.
Sanno comunque che quando la ghigliottina smetterà di funzionare, per i sanculotti, gli operai, i miserabili sarà la fine: tornerà lo strapotere dei ricchi. E i Wu Ming si ricordano giustamente di una celebre pagina della Storia della rivoluzione francese di Jules Michelet, quella che racconta come, dopo la morte di Robespierre, le strade si popolano di Incroyables, i muscadins profumati che ostentano lusso e disprezzo e danno man forte alla repressione dei movimenti popolari.
Storia & invenzione Abile combinazione di fatti storici e personaggi di fiction, il romanzo dei Wu Ming segue le vicende di alcune figure d’invenzione: Marie Nozière, operaia del Faubourg Saint Antoine, e suo figlio Bastien; la guardia Treignac; l’attore Léo Modonnet (in realtà è l’italiano Leonida Modenesi, venuto a Parigi per incontrare Goldoni che vi risiede dal 1762); il buon medico Orphée d’Amblanc. Contro questi personaggi positivi spicca la figura di Monsieur Laplace, vera incarnazione del Male. Ospite dell’ospedale di Bicêtre, Laplace è in realtà un nobile, il cavaliere d’Yvers, che aveva tentato di salvare il re prima del suo arrivo sul patibolo. Scoperti, i congiurati vengono catturati o uccisi, ma Yvers si salva e si rifugia sotto falso nome nel manicomio. Dove esercita i suoi poteri magnetici, con la tecnica del dottor Messmer.
Fenomeno di gran moda negli ultimi anni dell’Ancien Régime, il mesmerismo può essere un metodo di cura a fin di bene (il dottor d’Amblanc se ne serve con i suoi malati) ma può anche diventare il mezzo per soggiogare la volontà di singoli individui e pure di gruppi di persone. Yvers, infatti, crea in questo modo una squadra di sonnambuli che invia a seminare il terrore nei faubourg popolari. E quando il governo giacobino viene abbattuto, le squadracce di ipnotizzati si scatenano contro chi prepara l’ultima resistenza sanculotta. Solitario vendicatore, l’attore Modonnet, coperto dalla maschera di Scaramouche, li sfida nel tentativo di frenare la violenza reazionaria.
Linguaggio & feuilleton In contrasto con la lunga tradizione romanzesca che ha narrato gli anni della Rivoluzione con un deciso orientamento reazionario (da Balzac, Les Chouans, ad Anatole France, Gli dei hanno sete, da Dickens, Le due città, alla Baronessa Orczy, La primula rossa; e il cinema non è stato da meno, con i film strappalacrime su Maria Antonietta), i Wu Ming optano per il feuilleton, Sue e Dumas naturalmente. I personaggi popolari - Marie, Bastien, Treignac - ricordano invece I miserabili di Hugo. Una scelta, comunque, quella del feuilleton che, oltre a regalare le migliori pagine del romanzo, ribadisce la scelta di campo dei Wu Ming dalla parte del popolo.
Quanto infine al linguaggio, L’armata dei sonnambuli, fra documenti d’epoca e capitoli avventurosi, dedica largo spazio a una scrittura che vuole imitare (inventare?) un parlato sanculotto. Che è un misto di gergo dialettale infarcito di parole francesi italianizzate con un certo oltranzismo. Tegolerie per Tuileries, Sant’Onorio per Saint Honoré, Ponte Nuovo per Pont Neuf, foborgo per faubourg. E forse in questo pastiche si coglie la riprova di un omaggio a Carducci, al Carducci cantore della Rivoluzione, oggi del tutto dimenticato, travolto nel generale rifiuto che ha colpito da tempo tutta la produzione del poeta.
Ranieri Polese
* FONTE: LA LETTURA - CORRIERE DELLA SERA.
Magazzino Sanguineti. Gli inediti, le curiosità.
Le sue opere scritte, poesia o prosa, sono tutte pubblicate e gli studi su di lui appartengono alla critica e alla letteratura specialistica. Fuori dall’ambito strettamente scientifico, però, in questo sito si possono trovare immagini e notizie, commenti inèditi e exempla delle decine di migliaia di lettere ancora inèdite custodite nella sua casa, fotografie di zone e oggetti della casa stessa, l’elenco di mille tra cassette e dvd scelti e acquistati in un arco temporale lungo quanto la stessa storia del cinema, e molto altro ancora.
Per tutto il prezioso materiale raccolto e fotografato, che in qualche modo sottrae all’oblio anche qualche momento della vita, del quotidiano, degli affetti del poeta, un vivo ringraziamento va alla signora Luciana Sanguineti che ha messo a disposizione con pazienza la propria casa e buona parte dei contenuti perché si potesse realizzare questo sito. Un grazie anche al prof. Federico Sanguineti, che ha voluto mettere a disposizione dei dantisti di tutto il mondo il materiale di commento ai canti 1-26 del Purgatorio che erano di sua proprietà.
Il sito comprende quattro voci principali, ognuna delle quali ha sottovoci interessanti o, a volte sorprendenti. E’ un sito ‘in progress’ che sarà ancora arricchito e in qualche parte completato.
Ingrao: elegia per uno sconfitto
di Augusto Illuminati (Dinamo Press, 28 Settembre 2015)
Rabbrividisco al pensare cosa stanno scrivendo di lui l’Unità o il circo leopoldo, sono fraternamente vicino alle figlie, nipoti, amici che devono ascoltare ipocrite o distratte condoglianze, resto perplesso anche per molti sinceri elogi che rivendicano continuità con l’opera di Pietro Ingrao. La sua grandezza si colloca in un’interruzione, dove è precipitato tutto un pezzo della nostra militanza e giovinezza (che oggi con lui, disfatti, commemoriamo).
Chiediamoci allora piuttosto cosa può tramandare a generazioni viventi il leader centenario di un partito estinto. Un percorso esemplare di vita, certo, dalla lotta partigiana al crepuscolo poetico, lo schietto impegno politico, giornalistico e istituzionale, ma soprattutto avere combattuto e perso, dentro una grande formazione riformista, la battaglia per cambiare l’Italia, senza essersi piegato alla sconfitta e senza collaborare alla gestione del disastro, con il coraggio (tardivo) di rompere nel 1993 con la lunga agonia dell’ultimo partito di massa - che oggi è inutile rimpiangere o riesumare in forme parodistiche.
Nel pieno del centrosinistra e della matura modernizzazione fordista, dopo la morte di Togliatti nel 1964 si era aperto uno spiraglio all’interno del Pci in cui si misurarono per la prima e l’ultima volta delle grandi alternative strategiche di fase, sull’onda di un imponente ciclo di lotte di massa (il rovesciamento del governo Tambroni nel luglio 1960), ripresa operaia (1961-62), innovazione teorica (i “Quaderni rossi” dal 1962) e pratica autonoma di rivolta (piazza Statuto, 1962). Contro lo stanco centrismo post-togliattiano di Longo e contro la proposta socialdemocratica di Amendola e del suo reggicoda Napolitano (integrata peraltro da un’ottusa fedeltà all’Urss brežneviana e da un ferreo divieto di ogni frazionismo), Ingrao si batté accanitamente nel 1965-66 per stabilire un confronto democratico all’interno del Partito, per prendere atto della novità del neo-capitalismo italiano (o pieno fordismo) e per contrastarlo con una strategia più incisiva (le “riforme di struttura”) che facesse leva sul risveglio operaio e la mobilitazione di una società civile in rapida trasformazione. Fu sconfitto ed emarginato all’XI congresso e il Pci perse un’occasione, pur confusa e velleitaria per molti aspetti, di rinnovamento e di sintonizzazione con i mutamenti che stavano intervenendo su scala italiana e internazionale (si pensi al movimento anticoloniale, a Cuba, a quanto maturava a Berkeley o Watts).
Da allora il contrasto di classe cominciò a manifestarsi fuori dal Pci e in parte del sindacato, sebbene con ambigue rispondenze e intrecci: è la stagione del 1967-68 e poi dell’autunno caldo del 1969. Ingrao li seguì con simpatia e intelligenza, ma senza porsi alla testa di una rottura che avrebbe rappresentato l’ultima occasione di saldatura fra tradizione comunista (riformista) e nuovi movimenti (anch’essi, per molti aspetti, di radicale riformismo). Subì invece disciplinatamente la diaspora degli ingraiani e la cacciata del gruppo del Manifesto nel 1969. Le conseguenze furono negative e iniziò un lento scollamento che ben presto, con lo smantellamento del fordismo e la crescita di un’ideologia e di una pratica operaista inassimilabile ai vecchi schemi, si fece aperta frattura.
A partire dagli anni ’70 il Pci divenne l’argine principale contro una terminale stagione di lotte operaie fordiste e di incipienti battaglie post-fordiste e Berlinguer, con la sua parola d’ordine dell’austerità e la gestione dell’unità nazionale contro il terrorismo, ne fu il protagonista, salvo a piangere sulle conseguenze, opporre il rigore morale al primo neo-liberismo craxiano e celebrare i funerali dell’occupazione alla Fiat e della scala mobile. In quegli anni Ingrao, relegato alla prestigiosa ma solo simbolica presidenza della Camera dal 1976 al 1979, non fu complice - va detto a suo onore - ma la storia ormai passava da un’altra parte, vittorie e sconfitte si giocavano su un terreno diverso dalla I Repubblica, dall’emancipazione del lavoro e dalla democrazia dei partiti di massa. La stessa resistenza di Ingrao allo scioglimento del Pci con la Bolognina di Occhetto (che del resto era il più brillante e ondivago suo allievo) era una battaglia di retroguardia, che si completerà con una dignitosa fuoriuscita dal Pds negli anni successivi.
La grandezza di Ingrao fu dunque nella sua sconfitta al culmine delle possibilità di scelta del Pci, quando la biforcazione si chiuse e subentrò un buco nero che gradualmente inghiottì il partito di massa e ne trasformò l’identità da riformista (che rivoluzionario non lo era più dal 1944) a reazionario: prima difensore cieco della repressione fordista, poi ilare avanguardia del neo-liberalismo.
Oggi, che la stessa esistenza e storia del Pci e del “comunismo” italiano è oggetto o di diffamazione prezzolata o di sterile nostalgia, vale la pena di riflettere, al di là di celebrazioni e personale rispettabilità, su una figura singolare di resistenza, che non è immediatamente spendibile sul piano delle strategie politiche (e questo vale per tutto il patrimonio morale di una generazione sconfitta e in via di sparizione, la generazione di chi scrive) ma forse merita un ricordo. La traccia di un cataclisma è sempre istruttiva per il futuro.
La fedeltà al principio speranza
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 28.09.2015)
Gli storici, meglio e più di compagni e colleghi, potranno aiutare a comprendere il ruolo civile e culturale svolto da Ingrao nel nostro Paese, ruolo che trascende di gran lunga l’importanza della sua figura politica e istituzionale. Io che lo conobbi prima come dirigente impegnato in una battaglia decisiva dentro il suo partito e poi come presidente della Camera durante anni tragici - e che da allora più da lui mi allontanavo per tanti aspetti nelle idee e nelle scelte e più lo stimavo e più l’ho sentito umanamente prossimo - vorrei ricordarlo con un’espressione sola: “Ingrao o della fedeltà”. Le personalità di grande formato hanno una parte da coprire, possono interpretarla diversamente, ma rimane quella. Il loro posto assume il carattere di un destino, spesso drammatico, ma è quello che devono tenere. Come si continua a restare in una lingua, in una nazione, in una cultura, nonostante tutto.
Ingrao non si è mai arreso alla moda. Ciò può anche portare a errori: è possibile prender per mode anche aspetti di grandi, complessive trasformazioni. Ma l’essenziale è certo non illudersi che la vana moda sia chissà quale novitas , caratteristica principe della stupidità. Il “destino”’ che Ingrao sentiva in sé era quello di rappresentare il “principio speranza”, irriducibile alla prassi delle “modificazioni” permanenti, nella sinistra italiana. In questo senso Ingrao ha lottato per riformare questo Paese senza essere un riformista. Non si costruiscono “ismi” con le riforme, pena il fissare la prassi riformista come un limite ideologicamente insuperabile. Contro tale dogmatismo Ingrao, anche il poeta Ingrao, ha sempre combattuto.
Pietro Ingrao, morto il vero comunista amato dalla gente. E sofferto dal Pci
Era nato il 30 marzo 1915. Nel 1976 diventa il primo comunista eletto alla presidenza della Camera. Fu lacerato dal dubbio ma senza abbandonare il comunismo. "Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico, dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria"
di Primo Di Nicola (per leggere l’art., cliccare su ->: Il Fatto, 27 settembre 2015)
Omaggio del Parlamento ai 100 anni di Ingrao
ROMA «Una vita spesa per la democrazia, per la sinistra, per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e anche per la pace». Con queste parole, la presidente della Camera Laura Boldrini ha aperto ieri il convegno “Perché la politica” dedicato ai 100 anni di Pietro Ingrao (dirigente del Pci, per 42 anni deputato, dal 1976 al 1979 presidente della Camera).
All’iniziativa ha voluto essere presente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Accanto a lui il suo predecessore Giorgio Napolitano. In sala molti esponenti politici e del mondo della cultura: tra gli altri Pier Luigi Bersani, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola, Massimo D’Alema, Nicola Mancino, Rosa Russo Jervolino, Luciano Violante, Gustavo Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari.
* la Repubblica, 01.04.2015
Walter Benjamin (1892-1940)
Una vita vissuta nel dettaglio
Un’ottima biografia del pensatore tedesco uscita negli Stati Uniti, il Paese che più di tutti ha alimentato l’interesse per lui
di Nicola Gardini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.01.15)
Chi è Walter Benjamin? Foucaultianamente lo si potrebbe definire un "auteur", cioè uno che ha messo in circolazione idee e modelli culturali, "discours", e che sarebbe sbagliato identificare con un individuo biologico, uno come Freud e Marx, insomma, o, certo, lo stesso Foucault, o il nostro Gramsci. E questo è tanto vero che certi manco sanno pronunciare il suo nome, come se appunto lo si identificasse più propriamente con quello che ha lasciato detto, e neanche tutto, qualche formula memorabile, come «l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica» e «il compito del traduttore», che di Benjamin, comunque si pronunci, hanno fatto un’icona della modernità e un mostro sacro dei "graduate studies".
La domanda, però, andrebbe posta anche al passato, perché non c’è "discours" senza mente e la mente ha le sue occasioni storiche, ricercate o prodotte dalle circostanze. Dunque, chi era Benjamin? Ebreo assimilato, amico di Adorno, di Scholem e di Hannah Arendt, nacque e visse lunghi anni a Berlino, cercò alternative alla metropoli a Capri e a Ibiza, finì esule a Parigi per sfuggire al nazismo e morì suicida nel 1940 in un paesino della Spagna, dalla quale sperava di prendere la via dell’America. Si uccise per paura di essere rispedito in bocca al nemico, e il giorno dopo i suoi compagni poterono varcare il confine e mettersi in salvo. Il suo corpo non si sa bene dove sia finito, e neanche il cruciale manoscritto che pare si portasse dietro durante l’ultima fuga.
Dedicò la sua vita alla critica, mischiando teologia e marxismo, filosofia e storia, teorie del linguaggio e poesia, e si occupò da pioniere di cultura mediatica. L’opera scritta è vastissima.
Eccelse nel saggio e nella recensione, ma compose anche poesie, racconti di viaggio e resoconti autobiografici, in particolare uno, Infanzia berlinese, un piccolo capolavoro.
Tradusse Baudelaire e Proust. La varietà dei suoi temi è impressionante: il giocattolo, il romanzo giallo, la letteratura francese e non solo, il dramma barocco tedesco, l’arte di Klee, la radio, la fotografia, la droga, Parigi...
Su tutto mostrava uguale competenza, e tutto nelle sue mani si benjaminizzava, acquistando valore e densità, fino ad apparire complesso, a risaltare sul comune fondo di una cultura sempre più conformista, cui il suo stile teso e spesso difficile si contrapponeva di per sé con forza di oggetto inconquistabile.
Lavorava contemporaneamente a più progetti, e il progetto è certamente la sua "forma" più tipica. I suoi capolavori sono libri mai compiuti, come quello sui passages di Parigi, di cui resta un monumentale abbozzo. Vista dall’alto, tanta opera disegna un paesaggio di approssimazioni, che non sono fallimenti, ma esempi di una nuova rinnovante vitalità e bellezza.
Benjamin insegna a guardare dove l’occhio e l’attenzione meno si provano, a riconoscere la salvezza di una totalità nel residuo, a trasmettere nonostante, anzi proprio in virtù della decurtazione e della costrizione. L’aneddoto vale per la storia; la traduzione per una lingua assoluta e comune. Quello che sembra perdita è sopravvivenza, nel dettaglio di una fotografia sta depositato un tempo.
Quando morì, pochi conoscevano il genio dell’uomo e l’importanza delle sue riflessioni. Oggi esiste una vera e propria industria benjaminiana.
Quasi tutto è edito e pubblicato in numerose lingue. In Italia Benjamin lo conosciamo soprattutto grazie all’editore Einaudi, che da decenni mette a disposizione i saggi fondamentali (ultimamente anche altri si sono dati da fare per averlo in catalogo, da Adelphi a Castelvecchi, che da poco ha pubblicato le trasmissioni radiofoniche).
Ma della fortuna internazionale di Benjamin è principalmente responsabile l’America. E dall’America quest’anno è arrivata anche la biografia che mancava: Walter Benjamin. A Critical Life, uscita per Harvard University Press (da noi uscirà per Einaudi). Gli autori sono Howard Eiland e Michael W. Jennings, che per lo stesso editore curano anche le traduzioni dell’opera.
Questa biografia è un capolavoro. Schivando con eleganza qualunque mitologizzazione, ricostruisce passo passo il formarsi dell’opera e i movimenti, la personalità, i rapporti e le ambizioni del personaggio. Molte delle quasi settecento pagine complessive sono dedicate all’illustrazione del pensiero, mettendo in luce nessi tra momenti anche distanti. Il dosaggio tra cronaca, cronologia, commento e documentazione è perfetto.
Il racconto procede vario e sicuro, con chiarezza esemplare, senza gergalità, senza ingorgarsi di citazioni, con fede così integrale al rigore delle premesse filologiche che a lettura ultimata ci si sente consolati. Non era facile, dati i tanti piani dell’indagine.
Ma i piani qui si incastrano tutti a meraviglia, e se qualche fessura rimane, non si ricorre certo al sensazionalismo, al romanzesco, all’illazione psicanalitica, alla smorfia lirica, al giudizio morale, all’ingrandimento bozzettistico o all’osanna per riempirla.
Gli autori, d’altronde, non cedono mai neppure ad alcuna noiosa cautela, non sanno cos’è la freddezza, perché muovono da una conoscenza completa dei materiali e delle fonti (anche inedite, come certe splendide lettere) e dalla semplice consapevolezza di avere a che fare con uno degli intellettuali più alti del secolo passato.
Il Benjamin che ci ridanno è il pensatore appassionato, lo scrittore dalle più scritture, il critico della modernità, ma anche il campione della più ermetica riservatezza, l’amico di molti talenti, l’uomo dall’andatura impacciata, l’amante quasi immateriale, il marito difficile, "el miserable", come venne soprannominato a Ibiza dalla gente per la sua aria infelice e malandata.
Se un tema accomuna i momenti di una vita così fervida e inquieta sia mentalmente sia geograficamente è proprio il bisogno; e la depressione, le fantasie suicide, che finirono per vincere su qualunque ipotesi di futuro.
Sanguineti, ovvero l’arte di criticare la realtà
«Destrutturava la forma, ma per cambiare la società»
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 03.12.2010)
L’editore Feltrinelli ha raccolto in un volume dal titolo Cultura e realtà (pp. 347, 28) una serie di brevi scritti di Edoardo Sanguineti, che vanno dai temi della letteratura e della politica a quelli delle arti visive, del teatro e della musica. Niente di esauriente certamente per quanto riguarda i saggi di questa personalità centrale della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo ma certo un primo doveroso omaggio a pochi mesi dalla sua scomparsa. All’amicizia e alle discussioni con Sanguineti ed ai suoi consigli anch’io devo molto e questa è una prima occasione per riconoscerlo.
All’ultimo breve saggio del volume Cultura e realtà, che ha come titolo «Per una teoria della citazione», vorrei qui dedicare una breve riflessione per ciò che concerne le questioni connesse al progetto di architettura. Lo scritto di Sanguineti muove dalla tesi che «tutto è citazione» nel linguaggio parlato e scritto e discute del problema del significato della citazione anche in rapporto al contesto storico, ed in particolare nei confronti con quello del presente in cui essa si muove. Per quanto riguarda il mondo delle arti nel contemporaneo aggiunge, a proposito dell’uso del citazionismo, «altro che postmoderno, esso è se mai prearcaico» e più avanti afferma: «Se c’è un sistema citazionale forte, esso è quello del moderno... anche perché (il XX) è il secolo del montaggio», un secolo, quello delle avanguardie, che egli definisce più avanti come il secolo dell’assalto alla sintassi. «È tutto questo che, semmai, entra in crisi con la postmodernità», cioè con la cessazione della capacità autenticamente contestativa ed insieme anarchica della citazione come materiale volutamente estraneo alla sintassi dell’opera, in funzione di un utilizzo efficace della ragione critica intorno allo stato delle cose. La questione del montaggio in quanto citazione-collage è stata, come è noto, oggetto di appassionata discussione tra Benjamin e Adorno negli anni Trenta intorno alla perdita dell’aura ed al senso di autonoma completezza dell’opera, a partire soprattutto «dal principio costruttivistico», come scriveva Peter Bürger, come principio sintattico.
La questione è centrale anche per offrire un giudizio sullo stato di crisi della cultura architettonica dei nostri anni (non a caso coincidente con la sua estesa popolarità mercantile), anche perché in essa risulta palese come la citazione non sia oggi in nessun modo «un assalto alla sintassi» ma, con un ribaltamento del suo significato, funzionale al passaggio per la pratica artistica dell’architettura dalla costituzione di una distanza critica nei confronti della struttura della realtà (e quindi di un giudizio capace di aprire ad essa possibilità altre) al rispecchiamento conveniente dello stato delle cose come il migliore dei mondi possibili.
Ma poiché alla dialettica con la realtà sembra impossibile sottrarsi interamente, tale dialettica viene resa innocua spostandola sulla ricerca di una rottura estetica incessante dell’immagine delle cose come prodotti, soprattutto guardando alla necessità di differenziazione in funzione del loro mercato. Né è un caso che «la citazione», per quanto riguarda l’architettura sia passata da un primo momento che guardava al «revival» stilistico della storia del passato di quest’arte come materiale linguistico (contro la modernità dell’eredità delle avanguardie) ad un altro periodo di «citazione» delle figurazioni della stessa modernità, archiviate anch’esse come storia, e quindi in grado di offrire un panorama linguistico che poteva essere svuotato di senso, tanto da divenire materiale calligrafico preminente di una nuova sintassi della provvisorietà.
Sembra che proprio l’idea di provvisorietà sia diventata l’ultimo rifugio del dubbio sulle ingiustizie e le contraddizioni del nostro mondo, e soprattutto delle sue incertezze di senso (o false certezze) in quanto unici valori rappresentabili del capitalismo finanziario mondializzato.
Si tratta di un giudizio, quest’ultimo, che si riconnette al primo dei saggi (datato 2006 e scritto in occasione del compleanno di Pietro Ingrao) con cui si apre questa raccolta degli scritti di Sanguineti, un saggio dal significativo titolo «Come si diventa materialisti storic i » . Anche se è proprio la poeti c a radicalità di quest’ultimo scritto, anche per quanto riguarda l’architettura, a proporsi come messaggio per i nostri anni.
Conversando con Edoardo Sanguineti
Poeta e scrittore
«Questa Italia scoraggiata è finita nelle mani dell’uomo delle tende azzurre»
La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato» Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»
Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».
intervista di Pietro Spataro (l’Unità 12.04.2009)
In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.
Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?
«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»
L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?
«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».
Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...
«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».
Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?
«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».
Insomma ha vinto Berlusconi?
«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».
Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...
«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».
Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?
«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».
Insomma non c’è speranza?
«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».
Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?
«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».
Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...
«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».
E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?
«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».
Il comunismo è la sua ossessione...
«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»
E come ci si diventa?
«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».
Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?
«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».
Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?
«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».
Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?
«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».
Quale lezione ha lasciato Berlinguer?
«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».
Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?
«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».
Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?
«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».
Civiltà cattolica: «Hegel è ancora da leggere» *
A duecento anni di distanza dalla pubblicazione, avvenuta esattamente durante l’esposizione della fiera pasquale del 1807 a Jena, la «Fenomenologia dello spirito» di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, viene elogiata dalla «Civiltà Cattolica». Scrive la rivista della Compagnia di Gesù: «La "Fenomenologia dello spirito" racchiude in se stessa due esigenze: lo sforzo incessante nella ricerca di unità sistematica e la maggior concretezza possibile dei vari aspetti della realtà che si affronta. Ancora oggi vale quindi la pena di leggere l’opera». Presentando le linne portanti dello scritto hegeliano, Georg Sans sottolinea che «si trova nell’opera del filosofo tedesco un tentativo di riconciliare la ricchezza e concretezza fenomenologica con una visione unitaria della realtà» attraverso l’unità tra gli opposti.
* Avvenire, 06.04.2007
La sinistra che mi manca
di Edoardo Sanguineti
da un’intervista rilasciata a «Telecittà» di Genova e riproposta in parte da «L’Unità» il 20/10/2003 *
A Venezia non ho fatto nulla di coraggioso, ma solo quel che qualsiasi cittadino deve poter fare: esprimere liberamente le proprie opinioni. Qualcosa che anche il Presidente Pera ha riconosciuto essere nel mio diritto. Il fatto che ciò sia apparso come coraggioso e provocatorio, significa che siamo caduti molto in basso. Se, per dire semplicemente ciò che si pensa, anzi per intervenire a difesa della Costituzione repubblicana antifascista, occorre apparire coraggiosi...allora siamo proprio in brutte acque. Ecco quel che mi colpiva, e che è stata poi la ragione di questo moto del cuore in quella circostanza: molte cose sono disputabili, ma oggi si è smarrito un criterio che è di pura legalità nel paese. Ad esempio, chi in questa Repubblica si è mai presa la briga di andare a vedere che cosa dicevano i costituenti, a proposito del finanziamento della scuola privata? Nessuno. Quello sulla scuola è divenuto oggi un dibattito astratto, che nondimeno al tempo dei costituenti si era concluso sulla base di una formula molto chiara e inequivoca: «senza oneri per lo stato ciascuno può aprire le scuole che crede». Ebbene tale punto mi pare poco contestabile. Ma se ci sono dubbi, non si tratta di fare gli acchiappacitrulli o gli abboccapicchi. Si prendono gli atti della Costituzione, il dibattito di allora. E risultano chiare le posizioni a confronto e come si è deliberato al riguardo, ieri e oggi. Veniamo invece al dibattito interno alla sinistra e alla coalizione di centro-sinistra. È molto deludente, e lo dico con molta sofferenza.
Non mi piace infatti contendere con posizioni che amerei molto poter condividere. Invece, debbo dire che il governo del Centrosinistra è stato un governo di Centro. Come è fatale che sia ogni volta che c’è una netta svolta socialdemocratica. Quello che la Destra in fondo non aveva osato fare, lo ha fatto la Sinistra. La quale, come spesso accade nella storia della socialdemocrazia, è stata delegata a tale compito improprio. Non soltanto una guerra illegittima è stata mossa. Quella del Kosovo, contro la Costituzione. Ma si è fatta l’apologia della flessibilità, che poi vuol dire sempre e solo flessibilità in uscita. Riconoscendo al contempo come legittima la revisione della protezione pensionistica.
E poi si sono rese le Università e le scuole, sempre più «autonome ». Il che vuol dire che economicamente esse devono usare i soldi degli studenti, per poter gareggiare tra loro in una situazione competitiva. Il tutto accompagnato da un grande elogio della concorrenza e della competizione, per cui le varie università sono lì a gareggiare, a caccia di sponsor. Con i fuorisede in difficoltà per trovare una stanza, le famiglie gravate da tasse scolastiche e la mistificazione del lavoro flessibile, come cuccagna. Insomma, giovani tutti omologati al mito del figlio di papà plurispecializzato, che un giorno potrà dire: «Finora ho fatto il chimico, adesso invece vado a costruire case in Alaska». Inoltre, dalla Bicamerale al lavoro i risultati del centrosinistra non sono stati esaltanti e in qualche caso disastrosi....
...Devo dire che ho avuto una certa simpatia per l’atteggiamento di Rifondazione perché ha mantenuto un codice d’onore, benché si possa poi disputare l’opportunità politica di alcuni irrigidimenti. Tuttavia ci sono casi in cui la moralità deve prevalere assolutamente come rigore, e precisamente è il caso del rifiuto della guerra. Quanto alla discussione sul «partito unico riformista», vorrei dire quel che segue. Ho un’opinione molto semplice al riguardo.
Credo che la Sinistra che voglia proclamarsi Sinistra debba rivolgersi nuovamente al proletariato, e parlare chiaramente del fatto che viviamo in una Nazione in cui esiste - come in tutte le nazioni - una massa enorme di proletari che debbono riappropriarsi della coscienza di classe. Questo è il compito della Sinistra perché, piaccia o dispiaccia, dopo Marx ed Engels c’è solo una Sinistra, le altre sono Sinistre per modo di dire.
C’è la Sinistra alla Blair, tanto per capirci. La sinistra di un guerrafondaio aperto, che ha falsificato documenti e copiato Internet, per legittimare le sue scelte. Mentre oggi purtroppo la coscienza di classe appartiene in esclusiva e da tempo ai borghesi, ai capitalisti. I quali tranquillamente sanno di essere borghesi e capitalisti e perciò difendono i valori dell’impresa, del profitto. Di contro, per la Sinistra non esistono più proletari, laddove il numero del proletariato effettivo è aumentato. Ormai anche un dirigente di banca o di qualsiasi ufficio può essere licenziato perché è in esubero, come una volta non si usava...
...Si sente ripetere a sinistra sino alla nausea: ci vuole un programma. Bene, c’è effettivamente un problema di alleanze nel centro-sinistra. Ma è inutile rompersi la testa sul programma. C’è già ed è nella Costituzione. La Costituzione proclama il diritto al lavoro, anzi parla perfino di dovere del lavoro. Perché il cittadino è tenuto ad esigere di poter collaborare all’interesse generale della Nazione. Dunque, non è soltanto un diritto quello che egli rivendica quando chiede un posto di lavoro, ma l’attuazione di un dovere.
C’è il diritto alla salute, c’è il diritto all’istruzione libera e gratuita, c’è il diritto alla pensione. Ci sono una serie di diritti che sono nella Costituzione e basterebbe dire: «Signori, noi abbiamo questo programma, come Centrosinistra, come grande alleanza delle forze democratiche».
Ribadire la forza della Costituzione, questo è il programma! È già tutto scritto, non c’è da aggiungere una virgola, né da mutare una parola a quelli che sono i dettati fondamentali. È completamente stolto, allora - è l’unica parola che mi viene in mente - stare a discutere quale sarà il leader che ci può rappresentare meglio. Come se dovessimo accettare la gara di simpatia televisiva, di telegenia come problema politico. No, in questo modo si gioca integralmente il gioco dell’avversario.
Non voglio certo enfatizzare una parola come «odio di classe» che è una parola che potrebbe suonare sgradevole, se non ricondotta a quella che era l’intenzione di chi l’ha formulata. Non era affatto una intenzione di pura aggressività o di indisciplina civile. Al contrario, era la consapevolezza che la storia è fatta di lotta di classe ed è inutile nascondersi dietro ad un dito. La lotta di classe la conducono spietatamente le forze al potere. E basta andare ad un mercato qualunque, per rendersi conto come si conduce la lotta di classe sulle paghe o sopra la miseria della gente. ....
Non capisco perciò, come ci si possa accapigliare a dire: partito unico, più partiti, ci alleiamo, dall’interno, dall’esterno, etc. Questa è pura perdita di tempo ed è da poverelli, perché quello che è il problema radicale - e il vero programma è già tutto scritto - viene ancora una volta accantonato. Semmai si tratta di discutere, di entrare nel dettaglio. Per capire che cosa si può modificare, e come si possono tradurre in pratica le linee maestre di quel programma di cui già disponiamo.
L’altro problema su cui si è molto polemizzato è: «Piazza sì, piazza no» nel fare opposizione. Ebbene, il diritto a manifestare liberamente in piazza è un diritto - anche questo! - sancito dalla Costituzione. Farne una questione fondamentale vuol dire già accettare come dilemmatica la cosa. Il che - a mio avviso - non dovrebbe accadere. Quello di cui bisogna tener conto, è che la piazza, proprio perché è di tutti, è un luogo delicato.
Se si fa la marcia dei 100 mila può mutare l’opinione politica e non solo per la FIAT, per Torino, etc. Si può dimostrare in quel caso che esiste una «maggioranza silenziosa», e si fa presto a far passare il messaggio. Le minacce leghiste ad esempio sono molto orientate in questo senso mediatico. Sono probabilmente utopiche.
Eppure quando abbiamo sentito Bossi dichiarare che bisognava fucilare i democristiani, i socialisti, i comunisti - i Partiti che ci hanno dato la Carta Costituzionale - si è detto solo che è un ragazzo un po’ intemperante. E che in fondo parla ai suoi, e non agli altri. La piazza di sinistra al contrario è delegittimata a priori. No, queste sono cose - a mio parere - assolutamente inaccettabili.
L’unica regola che vale è: ognuno deve - proprio in nome della responsabilità - sapere quello che dice. Misurare il peso delle parole che impiega, perché le parole in certe circostanze sono davvero pietre. Il punto quindi, non è «piazza sì, piazza no». È questione di valutazione politica, di una fase che può essere tattica o strategica. Ma è molto importante che il proletariato in quanto tale riprenda coscienza di sé, anche attraverso manifestazioni di piazza. Benché poi nessun girotondo risolverà mai i problemi. È infatti nella sede parlamentare, e nella sede del programma del Centrosinistra - come programma della Costituzione - che questi problemi vanno realmente posti e affrontati.
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Sanguineti sbanca a Teatro di Ostia. Per 3/a edizione dello spettacolo ’Tra teatro e letteratura’
(ANSA) - ROMA, 15 gen - Tutto esaurito a Ostia al Teatro del Lido ieri per il primo appuntamento di ’Tra teatro e letteratura’, rassegna a cura di Giovanni Greco. La terza edizione dello spettacolo e’ stata inaugurata con l’intervento di Edoardo Sanguineti. Dopo la presentazione del dvd ’Abecedario di Edoardo Sanguineti’,il poeta ha incantato il pubblico raccontando con la consueta ironia e passione il suo rapporto con la letteratura, la poesia e le arti.
ANSA » 2007-01-15 15:58