Domande di un lettore operaio
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante vicende.
Tante domande.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INDICAZIONE DI PIERRE BAYLE *
Tutti quelli che conoscono la legge della storia saranno d’accordo che uno storico che vuole compiere fedelmente le sue funzioni deve spogliarsi dello spirito di lusinga e dello spirito di maldicenza, e mettersi il più possibile nello stato di uno stoico che non è agitato da alcuna passione. Insensibile a tutto il resto, dev’essere attento solo agli interessi della verità, e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria. Deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato allevato in una certa comunità, che è debitore della sua fortuna a questo e a quello, e che questi o gli altri sono i suoi genitori o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è come Melchisedec, senza padre, senza madre e senza genealogia.
Se gli si domanda: Di dove sei? Bisogna che risponda: -Non sono né francese, né tedesco, né inglese, né spagnolo, etc.; sono abitante del mondo. Non sono né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma soltanto al servizio della verità; è la mia sola regina; solo a lei ho prestato il giuramento d’obbedienza; sono il suo fido cavaliere e per collare d’ordine porto lo stesso ornamento del capo della giustizia e del sacerdoti degli Egiziani.
Tutto ciò che lo storico dà all’amore della patria lo toglie agli attributi della storia, e diventa un cattivo storico a misura che si dimostra un buon suddito.
* Pierre Bayle (1647-1706), Dictionaire historique et critique (1697)
DERIVE CULTURALI. Nel suo ultimo saggio, Prosperi evidenzia le conseguenze della divaricazione tra il concetto tedesco di nazione, ancorato allo ius sanguinis, e quello francese legato allo ius soli: «Un tempo senza storia», Einaudi
Adriano Prosperi, il nostro futuro precipitato nell’addio al passato
di Francesco Benigno (il manifesto - Alias, 28 marzo 2021
Il Novecento è ormai divenuto un tempo remoto, antico, distante. In un’epoca soggetta a imponenti accelerazioni, è come se il passato si allontanasse sullo sfondo e uscisse malinconicamente di scena, lasciando il campo a un indefinito presente, ovvero a quella tendenza che François Hartog ha chiamato «presentismo». Di fronte alle novità di un cambiamento segnato da quella rivoluzione digitale che ha ridisegnato completamente il nostro orizzonte, la storia sembra una disciplina superflua. Da un artigianato faticoso e costoso che riservava a pochi addetti il privilegio del sapere, si è passati alla messa a disposizione informatica di infiniti materiali non gerarchizzati. Di più, la storia viene sempre più spesso sopravanzata e scalzata dalla memoria, dominatrice dell’identità collettiva. Questo tema, attuale e impegnativo, viene ora affrontato da Adriano Prosperi in un libro agile e accorato: "Un tempo senza storia La distruzione del passato" (Einaudi, pp. 122, € 13,00).
Grande studioso della storia religiosa italiana ed europea, Prosperi riflette in questo testo sulla sua esperienza di storico, e sullo smarrimento collettivo che ha segnato la sua vita e la nostra nell’ultimo trentennio, vale a dire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda in poi. In poche pagine sofferte descrive i danni provocati dalla svolta di deregolamentazione globalizzata (il «rovesciarsi dell’idea di libertà nel liberismo») e dal conseguente emergere dei populismi che stanno risorgendo, fermandosi anche sulla crisi delle strutture tradizionali (i giornali, i partiti). Ne è nata un’epoca di ripiegamento e di nuove divisioni, definita come «l’età dell’oblio», in cui trova ragione la crisi della storia, considerata ormai, nel senso comune «un vecchiume da abbandonare come dannoso».
Tra ’700 e ’800 la svolta
C’è nel libro di Prosperi un’acuta consapevolezza del carattere frammisto, lui scrive «sporco», della conoscenza storica, che non si dà in separazione dal movimento complessivo della società ed è invece intimamente connessa ai bisogni e alle speranze di mutamento sociale. Ciò comporta una presa di distanze da un certo modo di fare storia intellettuale in quanto storia separata, «come se le idee si sviluppassero per partenogenesi, come se esse non camminassero, per così dire, sulle gambe degli esseri umani». Per riattivare il collegamento tra presente e passato, quel ponte tra i vivi e i morti che oggi sembra perduto, come inghiottito dalla nebbia, occorre allora ripercorrere quel che la storia è stata e come si è venuta costituendo come disciplina nella cultura occidentale.
Il testo è così una ricognizione della storia come storiografia, historia rerum gestarum, delineata sin dai tempi di Tucidide e degli storici antichi riscoperti nel Rinascimento per giungere poi, attraverso Mabillon e i Marini, a quel mutamento di paradigma costituito dalla fissazione delle regole per l’accertamento del vero e cioè a una conoscenza capace di sfuggire all’arbitrarietà. La svolta sarebbe arrivata poi, tra Sette e Ottocento, con la Rivoluzione Francese e con i diversi modi con cui venne declinata l’idea di nazione. Se da un lato la cultura illuministica diede vita infatti alla concezione della storia come civilisation progressiva, dall’altro l’egemonia culturale tedesca - via Hegel e Ranke - avrebbe imposto, tra romanticismo e positivismo, un modo particolare di fare storia, legato allo stato-nazione e alla persistenza della Kultur come tratto identitario, uno stile egemonico che si sarebbe situato al centro della formazione scolastica e universitaria. Nasceva la storia come disciplina accademica al servizio dello stato nazionale, e cresceva di conseguenza il prestigio sociale degli storici.
Prosperi insiste sulla divaricazione che si produsse, nel corso del XIX secolo, tra una concezione tedesca della nazione ancorata alla razza e allo ius sanguinis, foriera dei drammi del totalitarismo sino alla Shoah, e una concezione francese legata allo ius soli e convergente sull’idea di patria.
I senza voce alle spalle
L’invito di Michelet agli storici perché si facciano interpreti dei senza voce e guardino alle folle in rivolta come portatrici di futuro troverà spazio con le Annales di Bloch e Febvre e con la grande apertura dei territori della storia avvenuto nel secondo dopoguerra: non più solo ricostruzione di classi dirigenti e di istituzioni, la storiografia si apriva allora a un grande ventaglio di temi e problemi nuovi, con una nuova attenzione ai popoli emersi dalla decolonizzazione, alle classi subalterne, alla condizione femminile, alle tante folle di dimenticati e di vinti che presero ad essere riscoperte dalle ricerche degli storici.
Il problema è che anche questa spinta sembra ormai esaurita e la volontà di oblio risulta più forte del bisogno di conoscenza. I canali di trasmissione dei saperi da una generazione all’altra sembrano entrati in una crisi profonda, mentre la memoria storica si affida ai social media. Prosperi dedica dunque le sue conclusioni a ricordare ciò che ci serve: «Un passato non tramontato e un futuro fatto di speranze da realizzare: ecco tutto. E da qui muove chi vuole studiare la storia».
Raccontare la vita
La storia deve tornare a parlare delle persone che hanno fatto la storia (e che l’hanno subita)
di Giorgio Van Straten (Linkiesta, 16 maggio 2023) *
Un aspetto fondamentale che riguarda i rapporti fra storia e letteratura è quello della scrittura, cioè come la storia viene raccontata, perché nel corso degli ultimi anni - ma ormai è più corretto parlare di decenni - molti storici si sono riavvicinati a un’idea della storia come narrazione.
Il primo ad accorgersi dell’affermarsi o almeno del diffondersi di questa tendenza storiografica fu Lawrence Stone, che in un saggio significativamente intitolato Il ritorno al racconto. Riflessioni su una nuova vecchia storia, pubblicato nel 1979, cercò di descrivere quello che secondo lui stava succedendo.
Dopo cinquant’anni di prevalenza della storia strutturale, sembrava riemergere l’idea narrativa che era stata all’origine del mestiere di storico.
L’influenza del marxismo e delle scienze sociali aveva, nei decenni precedenti, portato gli storici a concentrarsi sulla società e non sugli individui, nella convinzione che fosse possibile accentuare il carattere di scientificità della ricerca storica. I modelli e i metodi seguiti da chi si ispirava a questa “nuova storia” erano stati tre: il modello economico marxista, quello di lunga durata propugnato dagli storici della scuola francese delle «Annales» e la cosiddetta cliometria, cioè la storia che parte dall’applicazione di metodi statistici e da fonti quantitative (come censimenti, serie di prezzi e salari), sostenuta soprattutto in ambito statunitense.
Tutte e tre queste tendenze erano accomunate dall’idea che i dati economici e demografici fossero quelli determinanti e rappresentassero l’elemento decisivo nello sviluppo storico, seguiti dal livello della struttura sociale e infine dal livello dello sviluppo intellettuale, culturale e politico.
In questo quadro la cultura dei gruppi, come la volontà dei singoli, non venivano considerate in grado di influenzare, se non marginalmente, i processi storici, che finivano spesso per essere ricostruiti secondo i canoni di un piatto determinismo.
Noi siamo scienziati, avevano sostenuto gli storici e, affascinati dalla prospettiva di dare alla propria disciplina uno statuto di precisione e oggettività, avevano cercato di allontanarsi il più possibile da un mondo di alta imprecisione e soggettività come quello della letteratura.
Questa presunta scientificità, però, si era scontrata con la complessità del reale e con la necessità di dar conto anche di come gli individui si collocano nel processo storico, attraverso i loro sentimenti, le emozioni, i valori. Le donne e gli uomini in carne e ossa chiedevano di tornare a far parte della scena come singoli e non solo come parte di una classe, di un’etnia o di una generazione, e insieme a questo elemento era riemersa anche la scelta di una nuova generazione di storici di partire da eventi singoli in grado di gettare luce su un intero periodo, sui fenomeni di maggiori dimensioni.
Ovviamente questo diverso approccio non era coincidente con la storia tradizionale com’era stata concepita nell’Ottocento, ma se ne differenziava per l’attenzione alle classi subalterne, per una forte presenza dell’analisi accanto alla descrizione, per l’uso di nuove fonti, per l’influenza, in quel tipo di racconto, del romanzo moderno. Attraverso un singolo episodio questi storici volevano far luce sui meccanismi interni di una società e di una cultura del passato.
Nel descrivere questo fenomeno nuovo in ambito storiografico, Stone rimaneva comunque abbastanza perplesso, perché, a suo parere,
Ma la storia è mai una «dimostrazione scientifica»? Esistono degli esperimenti di laboratorio che permettano di appurare che una tesi è quella giusta? La storia è una scienza esatta? A mio parere ogni interpretazione storiografica è un’approssimazione, e ciò che conta è quanto quell’approssimazione si avvicina alla verità. Dunque perché degli esempi selettivi non sono una base persuasiva per la ricerca?
Anche le perplessità che Stone mostrava sul fatto che storie eccezionali (come quelle ricavabili dai verbali dei tribunali) fossero considerate come tipiche potrebbero essere confutate a partire dal fatto che a volte è proprio l’eccezionalità a mettere in luce, per contrasto, ciò che è normale.
Insomma, l’impressione che si ricava dall’articolo di Stone - che certo ebbe il grande pregio di indicare con chiarezza quanto stava accadendo e ancor più sarebbe accaduto negli anni successivi con gli studi sulla storia delle donne - è che, anche nel suo caso, l’idea di narrativa fosse abbastanza circoscritta e poco attenta all’evoluzione dei generi e delle teorie letterarie. Proprio Ginzburg, citato come esempio della nuova tendenza da Stone, ritornando su queste vicende e in un saggio del 1994, notava come ci fosse un
Quasi che non ci fossero stati Marcel Proust, Virginia Woolf o James Joyce a scardinare l’idea tradizionale di romanzo.
Questa diversa tendenza all’interno del mondo della ricerca storica si è esplicitata sostanzialmente attraverso tre elementi. Il primo è, appunto, il recupero di un’idea della storia come narrazione, sia in termini di scelte stilistiche sia, soprattutto, attraverso una costruzione del racconto che mutua dalla letteratura una modalità di rappresentazione di ciò che si vuole mettere al centro del proprio lavoro di ricerca.
Per citare ancora Carlo Ginzburg, «Il formaggio e i vermi non si limita a ricostruire una vicenda individuale: la racconta».
Questo non significa che in storia, come in letteratura, quando si decida di assumere un approccio narrativo si debba per forza scegliere un tracciato rettilineo e seguire l’ordine cronologico come, appunto, non viene più fatto da grandissima parte della narrativa a partire dai testi che, nella prima metà del Novecento, hanno rotto la tradizione del romanzo del secolo precedente.
Il punto vero è che, nelle impostazioni più recenti e innovative, la storia,
Trama, personaggi, metafora: sembrano termini esclusivamente letterari, necessariamente fuori del campo della storia, e invece si rivelano strumenti efficaci nello sviluppo della ricerca e della conoscenza.
Ma non si tratta solo di una questione di scrittura e di costruzione narrativa, la relazione fra la storia e la letteratura passa anche attraverso un altro mutamento evidente nel ruolo dello storico rispetto alla sua ricerca e al suo testo: se confrontata col passato, anche relativamente recente, la sua figura non è più esterna e neutra rispetto alla materia che tratta, ma la soggettività dello storico è adesso riconosciuta come una parte integrante del suo lavoro.
Dice, per esempio, Giovanni De Luna, nel suo volume sul mestiere dello storico contemporaneo:
Lo storico ha un’esperienza, ha una cultura, interessi specifici, passioni, ha nei confronti della materia trattata motivi di vicinanza o di distanziamento: tutti elementi che, per quanto posti a confronto con i dati oggettivi che verranno emergendo dalla ricerca, non possono non influenzare le ipotesi interpretative che lo storico finirà per formulare. Esserne consapevoli ed eventualmente darne conto al lettore diviene un modo per rappresentare onestamente il proprio percorso.
[...]
Certamente la nostra società tende a mettere l’io al centro della scena, ma, come è stato giustamente detto, nel caso di uno storico il recupero della propria soggettività non rappresenta necessariamente una forma di impudicizia o di egocentrismo, piuttosto vuol dire seguire un procedimento rigoroso e onesto, un modo per «rendere oggettiva la parte di soggettività che si trova nella ricerca». Per riprendere la lunga citazione precedente: mettere nel testo il percorso della ricerca può essere necessario per motivi di ordine cognitivo, etico ed estetico.
Come non notare qui la somiglianza con tanti testi letterari che rientrano nell’ambito della cosiddetta autofiction, in cui la storia è accompagnata dalla presenza del narratore che quella storia lentamente ricostruisce e che quindi diventa anche un personaggio del suo romanzo? Ma su queste forme ibride fra storia e romanzo torneremo più avanti.
Infine, in queste nuove tendenze della scrittura storica un ruolo centrale nell’avvicinamento alla letteratura l’ha giocato l’elemento che, qualche pagina fa, abbiamo visto definire da Stone «l’interesse focalizzato sull’uomo piuttosto che sulle circostanze».
Si tratta di una riscoperta del ruolo della soggettività nella storia, che in ambito italiano è molto legata alla storia delle donne e che, in un quadro più generale, trae origine da «un revisionismo anti-determinista volto alla ricerca della soggettività in storia».
[...]
Ora invece le persone tornano a prendere il loro spazio sulla scena, a richiamare la nostra attenzione. Come è stato scritto, con grande efficacia, «non esiste una cosa chiamata fascismo. Esistono solo uomini e movimenti che noi chiamiamo con quel nome».
Non è questa la sede per esaminare le questioni teoriche e le categorie delle scienze sociali, in particolare il funzionalismo e l’individualismo metodologico, che sono state utilizzate in questa direzione. Quello che mi interessa riportare qui è l’idea che «l’attore sociale ridiventa soggetto attivo nel conferimento di significati alle cose che accadono». In altre parole, se è vero che ogni individuo inserito in un contesto ne è condizionato e ha quindi a disposizione una serie finita di opzioni, è altrettanto vero che egli mantiene una possibilità di scelta e quindi di modificare, per quanto limitatamente, il contesto stesso, perché «ogni configurazione sociale è il risultato dell’interazione di numerose strategie individuali». Ne consegue che l’efficacia di ricostruzione storica si misurerà anche sulla sua capacità, calando dall’alto verso il basso, dal generale al particolare, di «rendere conto dei comportamenti individuali e delle loro motivazioni».
La riscoperta dell’individuo come oggetto della ricerca si è allargata dalle ricerche della microstoria a molti e diversi settori del lavoro storico.
[...]
La storia deve tornare a parlare degli uomini e delle donne reali, quelli che la storia l’hanno fatta e l’hanno subita. E qui senza dubbio la letteratura aiuta, è un riferimento imprescindibile. Non posso dimenticare cosa abbia rappresentato per me, studente di storia e militante politico, l’uscita nel 1974 de La Storia di Elsa Morante e la sua visione in cui le vicende storiche interagiscono, si scontrano, schiacciano le storie dei singoli, dei più deboli, in primo luogo delle donne e dei bambini. Una visione apocalittica, ma anche di una forza travolgente. In anni molto più vicini a noi, questa dialettica, non sempre perdente, delle relazioni fra individui e contesto storico è stata delineata con grande efficacia da uno scrittore contemporaneo, Daniel Mendelsohn, il cui percorso è senza dubbio di grande rilievo nella mia riflessione:
*
Da “Invasione di campo. Quando la letteratura racconta la storia” (Laterza), di Giorgio van Straten, p. 176, 18€
LA POLITICA DELL’EUCARESTIA ... E "LA QUARTA «P» (QUELLA DELLA «PACE») CHE MANCA ALL’AGENDA DEL G20"
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
Scheda
MEMORIA DI LORENZO VALLA:
Lunedì 24 febbraio [2020], alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
* Fonte: INSR. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 24 febbraio 2020
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
I libri e chi li legge
La menzogna come pratica politica dei fascismi
di David Bidussa (Gli Stati Generali, 2 Gennaio 2021)
La menzogna è vecchia quanto la politica e del resto, la subordinazione della verità alla politica è un elemento centrale della modernità. E allora perché Federico Finchelstein, a ragione, sottolinea e insiste nel sostenere che da Hitler a Mussolini, i capi dei regimi fascisti hanno fatto della menzogna la base del proprio potere?
Perché, scrive, “i fascisti pensavano che le loro bugie fossero al servizio di semplici verità assolute che in realtà erano falsità ancora maggiori” per cui quella delle loro menzogne non rientra appunto nelle regole non scritte, ma diffusamente praticate, della politica moderna e contemporanea, ma è una storia a sé che come tale merita un capitolo proprio, distinto, rispetto alle pratiche consolidate della menzogna in politica.
Questa unicità sta In due principi.
il primo. Quello che si potrebbe chiamare il codice fondamentalista di un apparato ideologico.
Il secondo riguarda il modo stesso di intendere la distinzione tra vero e falso. Per cui il falso non è il contrario del vero, ma solo ciò che ostacola la realizzazione del progetto politico.
Il primo modello è proprio ei si incarna nella costruzione di tutte le élite politiche fasciste co ovvero la definizione di una classe politica come “ordine” religioso. È il principio che si incarna nel modello della Guardia di Ferro romena di Corneliu Codreanu ovvero la definizione di un nucleo spirituale che si propone come incarnazione della verità della fede (lo stesso percorso caratterizzerà la definizione culturale delle SS, del movimento rexista in Belgio, delle molte forme di collaborazionismo ideologico che caratterizzano i movimenti fascisti nell’Europa nazificata tra fine anni ’30 e 1944.
Tutte realtà che si rappresentano come il tutore ideologico e spirituale del movimento e allo stesso tempo detengono e controllano il sistema di governo.
Il secondo principio è quello rappresentato dalla logica del fascismo italiano che si definisce non solo in alternativa ma specularmente in opposizione alla democrazia prima ancora come pratica di governo come principio logico di argomentazione. Se il principio culturale della democrazia è un continuo confronto e contrapposizione fra verità e menzogna, fra piattaforma di ciò che è certo e nel confronto continuo con credenze erronee o informazioni infondate cui la pratica del confronto e della verifica consentono una progressiva affermazione della verità, nella pratica del fascismo la verità non è nella dimostrazione della fallacia delle opinioni e delle convinzioni contrarie, ma nell’azione che consente alla propria verità di acquisire ed esercitare predominio.
I seguaci delle ideologie fasciste credevano ad ogni affermazione del capo, ritenendolo una sorta di incarnazione della verità stessa. E così Finchelstein conclude che nel fascismo è l’idea stessa della verità empirica ad essere messa in discussione. Ovvero: la verità non corrisponde a ciò che si vede, ma a ciò che si crede.
Profilo interessante che mette da una parte la articolazione del potere e che privilegia il rapporto masse-capo. Ma un meccanismo che proprio perché il nodo problematico a cui tenta di dare una risposta risiede nel legame tra capo e masse, prima ancora che in una definita teoria e normativa del sistema politico che quelle formazioni intendono realizzare, non può non chiedersi se quel paradigma non sia finito a metà del ‘900, ma abbia anche altre possibilità di tornare nell’epica dei nuovi populismi. Percorso che in effetti Finchelstein non evita confrontandosi sui principi, sui meccanismi di convinzione, di mobilitazione che riguardano i populismi e gli autoritarismi di massa oggi più radicali: il Brasile di Bolsonaro, l’Ungheria di Órban, la Turchia di Erdogan, l’India di Modi, la Russia di Putin e non ultimo gli Stati Uniti di Donald Trump. Il problema non è tanto loro natura o la loro durata, se si possibile o no invertire il percorso, ma i costi che quelle realtà e quelle esperienze lasciano sul campo e i tempi per uscire dalla forza del loro campo magnetico.
Se la grande storia che racconta la Tv è sempre quella delle élite
Siamo a un ritorno indietro di un secolo, in coerenza con l’involuzione generale di questa fase della storia del mondo. Un modo di fare storia definito «évenémentielle»
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.10.2020)
La Grande storia è un fortunato programma televisivo che dal 1997 porta nelle case degli italiani frammenti visivi e anche puntuali commenti di alcune delle pagine più drammatiche del ‘900. Grazie a documentari, foto d’epoca, testimonianze originali e spesso di prima mano, momenti salienti del nostro passato si fanno spettacolo per la fruizione del grande pubblico.
Le trincee della prima guerra mondiale, ma soprattutto la marcia su Roma, Mussolini, il re Vittorio Emanuele III, i gerarchi fascisti, l’ascesa del nazismo, Hitler, le sue donne, i suoi compagni e i suoi generali, la guerra e le varie campagne militari, i bombardamenti delle città, la Shoa e i campi di sterminio, lo sbarco degli americani in Europa, la sconfitta del nazifascismo, il dopoguerra, la ricostruzione,ecc. Grazie alla drammatica spettacolarità delle immagini, la storia si fa vicenda epica che affascina ed emoziona, mentre certamente contribuisce a gettare qualche luce sul nostro recente passato e a tenerne desta la memoria.
E tuttavia, questo modo di rappresentare la storia, diventato con gli anni sempre più insistito ed esclusivo, reca con sé un pesante carico di ideologia. A partire dal titolo della trasmissione: Grande storia. Perché a guidarla sono i grandi uomini, dittatori, generali, capi di stato, gerarchi, uomini politici di vario rango? È vero che c’è posto anche per le grandi masse, ma sempre come soggetto passivo, vittime, oggetto di comando o persecuzione. Non ci sono dubbi che la guerra sia un grande evento storico, ma i popoli, i cittadini, gli uomini comuni, sono solo la massa dannata che subisce i comandi di un pugno di capi.
Sul piano storiografico siamo di fronte a un ritorno indietro di poco meno di un secolo, in coerenza con l’involuzione generale di questa fase della storia del mondo e del grave scadimento culturale che segna in particolare la vicenda italiana degli ultimi decenni. Ricordo che questo modo di fare storia venne definita évenémentielle, cioé un racconto di eventi, dagli storici delle Annales, fondata nel 1929 da due storici eminenti: Marc Bloch e Lucien Febvre. Quella definizione svalutativa, riferita al fatto che sino ad allora gli storici avevano generalmente raccontato solo vicende politiche, eventi diplomatici e militari, cronache di re e capi di stato, venne accompagnata e seguita da una massa spettacolare di studi e ricerche, dei due fondatori e di altri storici, destinata a rivoluzionare per sempre la disciplina.
Entravano allora sulla scena, per la prima volta, titolari di storia a tutti gli effetti e non più masse anonime manovrate dall’alto, i contadini con le loro condizioni di vita, lavoro, mentalità. Tutta la multiforme stoffa della vita umana, l’alimentazione, la vita sessuale, le pratiche di lavoro, i modi dell’abitare, divennero ben presto materia di storia. Sicché tutti coloro che non avevano nome né cognome, sterminate masse prima senza storia, ne divennero i protagonisti. Si è trattato di una gigantesca democratizzazione della storia, sino ad allora narrazione privilegiata delle élites.
Bloch e Febvre anticipavano il grande processo di emancipazione politica e culturale che sarebbe seguita alla guerra mondiale. Ma un altro fondamentale apporto venne da quella svolta, uno dei contributi più alti del sapere storico alla cultura del ‘900: l’ingresso dello spazio nella vicenda storica e una nuova dimensione del tempo.
Fernand Braudel ha dato forse il più alto saggio, con la sua Méditerranée, della possibilità che la geografia, i monti, i fiumi, le pianure diventino soggetti di storia in cooperazione con le popolazioni. Mentre ha mostrato che il tempo storico non è solo quello degli eventi, ma soprattutto quello della lunga durata, dei vasti processi sotterranei e strutturali in cui le società sono immerse e in cui le masse sono protagoniste.
Allora diciamo che il ritorno insistito della storia politica ed événementielle in Tv non giova alla cultura nazionale. Insinua la vecchia idea che la storia la fanno i capi e indirettamente rivaluta vecchie ideologie autoritarie. Ma soprattutto perpetua una millenaria rimozione, la cancellazione che da sempre la storia ha operato della natura.
In questa narrazione di eventi e grandi uomini i protagonisti vivono come angeli o demoni, staccati dal suolo. Ma proprio noi italiani non possiamo dar credito a una ricostruzione del passato che cancella le vicende del nostro territorio e il lavoro del nostro popolo. Siamo diventati un grande paese moderno, grazie a una gigantesca opera di risanamento e rimodellamento del nostro habitat.
Ancora nel 1865 una inchiesta governativa accertava la presenza di oltre 1 milone di ettari di acquitrini nella Penisola, dove imperversava la malaria. Tecnici e contadini, ingegneri e grandi masse, sono stati i protagonisti di questa epopea, così come della diffusione della nostra agricoltura, dell’edificazione delle nostre città, di canali e ferrovie, della ricostruzione degli abitati dopo i tanti terremoti, di tutte le opere di pace che costituiscono la stoffa di quella che è la nostra Grande storia.
Adelphi ristampa il libro più noto di Carlo Ginzburg
Il formaggio e i vermi
di Claudio Piersanti (Doppiozero, 28.11.2019)
“In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto ‘le gesta dei Re’. Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. ‘Chi costruì Tebe dalle sette porte?’ chiedeva già il ‘lettore operaio’ di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.”
Il formaggio e i vermi, oggi riproposto in una nuova edizione da Adelphi, uscì nel 1976, e nel primo paragrafo della prefazione, che ho copiato interamente, Carlo Ginzburg sintetizza l’essenza del libro. Che raccoglie gli umori di un clima culturale e politico, quello degli anni ’70, di cui forse si conserva memoria parziale se non macchiettistica. Ne parla anche Ginzburg nella nuova postfazione. Superati quasi completamente gli schemi ideologici attivi fino a pochi anni prima, messi a nudo come quelli degli avversari, questi movimenti poliformi entravano in contatto con studiosi (allora chiamati ancora intellettuali) non più e non solo attraverso appelli e firme, ma attraverso le loro opere, facendo propria anche una particolare filosofia della storia. Che a sua volta aveva numerosi punti di contatto con altre discipline, prima tra tutte l’antropologia culturale, allora molto letta: il collante metodologico era decisamente lo strutturalismo, di certo più frequentato e adoperato, anche se inconsapevolmente, di qualunque altro strumento critico. Si consideri che all’epoca le categorie merceologiche più desiderate (e rubate) erano dischi e libri. Il primo libro di Carlo Ginzburg si intitolava I benandanti (una sorta di setta religiosa attiva in Friuli nel sedicesimo secolo) e Gianni Celati lo consigliava a tutti. Questo per esemplificare l’accenno alle connessioni: letteratura, poesia, psicanalisi. Gli studenti che leggevano Il formaggio e i vermi, avevano in casa i libri di Foucault, di Levi-Strauss e spesso di Lacan, di Althusser e Barthes.
La citazione di Céline posta come esergo dialoga sia con il clima culturale del momento che con il libro stesso: “Tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre... On ne sait rien de la véritable histoire des hommes”. Céline, soprattutto con il suo Voyage, era presente in tutte le biblioteche giovanili. Con questi continui collocamenti temporali dell’opera di Carlo Ginzburg non voglio affatto coinvolgerlo in un disegno politico o culturale che sovrasti la sua specificità: stiamo rileggendo un importante libro di storia, rigoroso come dev’essere un libro lungamente pensato. Che ha lasciato una traccia profonda nei suoi lettori e tra gli storici. La scrittura di Ginzburg non concede quasi niente alle mode formali dell’epoca, e non è affatto datata o databile. Pochi narratori di professione possono vantare la stessa tenuta. In realtà il Céline posto in esergo è molto poco ex ergon, anzi al contrario dichiara un tema fondamentale del libro: l’impossibilità stessa di scriverlo. Come raccontare la storia degli schiavi? Degli sconfitti. Dei cancellati. Degli oppressi. Dei perseguitati. Come raccontare storie se delle loro storie non resta che una traccia statistica o semplicemente numerica? Semplificando forse troppo si potrebbe dire che Ginzburg dà una risposta più da filologo che da filosofo della storia, fatto che non deve certo sorprendere in uno studioso del ‘500, uno dei secoli più affascinanti e contraddittori della storia umana. La diffusione di libri e opuscoli stampati, lo sviluppo del ragionamento scientifico e il persistere di strutture culturali ancora medioevali (non sempre e soltanto negative), Montaigne, Keplero, Leonardo, Michelangelo, Machiavelli e Galileo, il gusto profondo per l’antichità finalmente accessibile attraverso traduzioni di opere fino a quel momento sconosciute.
La storia scoperta da Ginzburg negli archivi del Sant’Uffizio è insolita, come ammette lo stesso autore, perché è la storia di un mugnaio friulano processato e condannato a morte per eresia che dimostrava una cultura superiore a quella della sua classe. Cultura che non coincideva affatto con i severi dettami della Chiesa, che all’epoca provvedeva semplicemente all’eliminazione dell’eretico.
Il malcapitato si chiamava Domenico Scandella, detto e noto come Menocchio, denunciato al Sant’Uffizio nel 1583 per aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo. La tortura processuale durerà quindici anni. Verranno interrogati tutti i conoscenti, e soprattutto lui verrà interrogato e controinterrogato all’infinito. Menocchio si presenterà sin dalla prima udienza interamente vestito di bianco, insomma nella sua divisa di mugnaio, anche se la sua capacità di ragionare, unita al saper leggere e scrivere, gli aveva fatto guadagnare anche incarichi di qualche prestigio nel suo circondario: era stato amministratore della pieve di Montereale, e anche podestà del paese. Purtroppo per lui aveva un grande difetto: la parlantina facile. Era il tipo che si proponeva ogni volta di tacere e esser prudente ma quando la lingua gli si scioglieva le sparava anche grosse, a impronta, e il popolino ne conservava memoria.
Il Friuli dell’epoca non conosceva i grandi fermenti che si agitavano altrove: a una antica e decadente nobiltà medioevale si contrapponeva la discreta ma occhiuta presenza della Serenissima, in odore essa stessa di eresia luterana e irresistibile richiamo per le manovalanze friulane che a Venezia migravano in massa. I guai per Menocchio nascono certamente dal conflitto, direi manzoniano, con un signorotto locale, il pievano di Montereale, don Oderico Vorai. Più che a un contrasto teologico certe testimonianze processuali fanno pensare a un conflitto di classe.
Un testimone, ricordando le discussioni con lui, lo aveva messo in guardia: “Io son calligaro, et ti molenaro, et tu non sei dotto: a che far disputtar di questo?” Ma cosa aveva detto Menocchio di così grave? Prima di tutto le testimonianze lo dicono grande bestemmiatore, e lui ridacchiando si giustificava così: “Ognuno fal il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di biastemar”.
Al di là di vanterie e battute provocatorie il suo modo di pensare, riferito da molti chissà con quante deformazioni, si può esemplificare in pochi chiarissimi esempi. “Che vi maginate che sia Dio? Iddio non è altro che può de fiato, et quello tanto che l’homo se immagina... Tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei.” E ancora: “’l cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Dio.” Non poteva mancare un classico dello scetticismo di ogni tempo: “che credevù, che Giesù Christo sia nasciuto della vergine Maria? Non è possibile che l’habbia parturito et sia restata vergine: puol ben esser questo, che sia stato qualche homo da bene, o figliol di qualche homo da bene.”
Quasi mezzo secolo più tardi, e con ben altro spessore intellettuale, Galilei risponderà in modo assai diverso allo stesso tribunale. Pur pensandolo certamente non credo abbia sussurrato “E pur si muove”. Menocchio ha un buon avvocato, che non gli risparmia buoni consigli, tutti riassumibili nel principale: ammetti il peccato e chiedi perdono, e soprattutto non lasciarti prendere dalla parlantina. Tutta qui la rovina di Menocchio: l’impertinenza gli sfugge in modo naturale, come se il tribunale fosse davvero tribuna aperta sul mondo intero. Sì, ammette le tentazioni demoniache che si impadronivano della sua lingua, ma se gli viene chiesto il dettaglio lui si allarga a macchia d’olio. “Volete che vi insegni la vera strada?” si era vantato in pubblico. “Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era anche Dio creato anchora lui da quella massa”. Spiattellata la sua personalissima cosmogonia, in cui l’universo si formava come un formaggio producente angeli e vermi, Menocchio sembra non avere più freni. Quando gli contestano una nuova affermazione blasfema lui la riconosce come sua, ammette il peccato e lo spirito demoniaco, ma la narrazione del peccato sembra un’ulteriore conferma delle sue opinioni.
Tra l’altro gli chiedono se corrispondono al vero altre vanterie: testimoni riferiscono che avrebbe detto di non temere il giudizio di nessun tribunale. E lui: “è vero che io ho detto che se non havesse havuto paura della giustizia parlarebbe tanto che farebbe stupire; et ho ditto che se havessi gratia di andar avanti o il papa o un re o un principe che mi ascoltasse, haverei ditto molte cose; et se poi m’avessero fatto morir non mi sarei curato.” In fondo Menocchio non si era vantato a sproposito: si comporta esattamente come aveva annunciato. Parla, parla troppo, e troppo chiaramente, annullando le inutili appiccicaticce richieste di pietà e misericordia. La sua voce, così come viene trascritta nei verbali, appare veritiera. I frati che lo giudicano hanno in fondo tutto l’interesse a lasciarlo parlare a ruota libera, e non c’è dubbio che quella trascritta sia davvero la sua voce. E questa voce spazia per ampi territori, ingrossando poco alla volta la pira che lo brucerà. Parla di soldi, di potere, parla della Chiesa. “Et mi par che in questa nostra lege il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de chiesa et preti, e strussiano li poveri, quali se hanno doi campi a fitto sono della chiesa, del tal vescovo, del tal cardinale.” La Chiesa e gran parte della sua dottrina non è altro che “mercantia”, una messa in scena per creduloni. Mentre Dio non può che essere lo stesso per tutte le religioni. “La maestà di Dio ha dato il Spirito Santo a tutti: a christiani, a eretici, a Turchi, a Giudei...” E per essere ancora più chiaro si rivolge direttamente ai presenti: “Et vui altri preti e frati, anchora vui volete saper più de Dio, et sette come il demonio, et volete farvi dei in terra, et saper come Iddio a guisa del demonio: et chi più pensa di saper, manco sa.”
È difficile non restare affascinati da questa voce, coraggiosa o incosciente che sia, impossibile non lasciarla parlare, anche perché si spiega benissimo da sé.
Di questa sensazione, peraltro documentatissima, si serve Carlo Ginzburg in altra parte del libro, per spiegare la differenza tra la vicenda di Menocchio e quella di Pierre Rivière raccontata da Foucault. Due processi che si svolgono in epoche completamente diverse, originati da colpe assai diverse: Pierre è un giovane pluriomicida che ha sterminato mezza famiglia, in bilico tra criminalità e psichiatria forense. Ma Pierre è descritto dall’esterno, resta un mistero anche a se stesso; mentre Menocchio esce dal buio della storia e prende la parola direttamente, a volte deragliando in fantasie teologiche popolari, a volte stupendoci per la sua lucida capacità d’analisi. Ci dà molti elementi, certo non tutti quelli che vorremmo, per cercare di ricostruire il suo vero pensiero, e ci spinge a trovare un contesto che quel pensiero deve aver suscitato, non essendo di sicuro spuntato dal nulla. Ci sono echi di tutto, dalla Riforma luterana all’anabattismo, ma non ci sono riscontri diretti negli interrogatori e nelle testimonianze. Soltanto una Bibbia tradotta in volgare, e pochi altri libri, peraltro tutti analizzati da Ginzburg alla ricerca di assonanze, che a volte ci sono a volte non ci sono.
Esemplare l’analisi di uno di questi testi sequestrati, e sicuramente letti da Menocchio: Il cavalier Zuanne de Mandevilla, meglio conosciuto come I viaggi di sir John Mandeville. Testo ben noto al contemporaneo Montaigne, che non ne rimase meno colpito, e anche a Leonardo, che lo citò per stigmatizzare la crudeltà dell’uomo. In questi viaggi reali e immaginari un Sultano così descrive il comportamento dei cristiani: “elli doverebbono dare exemplo de ben far alla commune gente, doverebbono andare a li templi a servire a Dio, et elli vanno tutto el giorno per le taverne zogando, bevendo e manzando come le bestie. (...) Sono tutti inclinati al mal fare, et tanto sono cupidi, avari, che per poco argento e’ li vendono li fioli, le sorelle e lor proprie mogliere per fare meretrice...”
Indimenticabile il fantasioso e raccapricciante capitolo su pigmei e antropofagi, ma la grande lezione, davvero rivoluzionaria, è questa: non siamo soltanto noi che guardiamo gli altri, gli sconosciuti, i diversi, ma sono loro che ci guardano. Dalla lettura di questo libro Menocchio deduce che “morto il corpo morisse anco l’anima”. La corruzione del clero (la stessa peraltro che lo stava giudicando) l’aveva ampiamente verificata sulla sua pelle. Le esperienze personali, le ingiustizie subite, gli hanno insegnato a ragionare con la sua testa in modo personalissimo (la cosmogonia del formaggio è troppo originale per non essere sua) ma un ambiente con cui erano in sintonia doveva esserci per forza, come si è visto nel contatto con i Viaggi di Mandeville. Certe sue critiche ai fondamenti della religione si ritroveranno quasi identiche tre, quattro secoli più tardi, in veri e propri filosofi.
Ginzburg sottolinea l’importanza di questo atteggiamento mentale fatto di tolleranza e di curiosità positiva verso l’altro: il Dio di Menocchio “non odia creatura che el habia fato”. Un altro testo elaborato a suo modo da Menocchio è il Decameron, di Boccaccio, letto in edizione non purgata dal sant’Uffizio.
In lui cultura orale e cultura alta, scritta, si fondono in una miscela esplosiva, che oggi ci appare come puro buon senso. Se nel primo grande processo notiamo un Menocchio provocatorio, insieme spavaldo e timoroso, confuso, nel secondo le parti si invertono: Menocchio è l’uomo moderno che cerca di parlare ragionevolmente con i suoi interlocutori, che appaiono in tutta la loro (violenta) mediocrità intellettuale.
Studiando i meccanismi della memoria i neuroscienziati hanno scoperto che non esistono soltanto dei luoghi (dei depositi) specializzati, ma che le informazioni sono disseminate quasi ovunque nella corteccia. Mi è venuto in mente rileggendo questo libro. Forse le idee sono disseminate ovunque, in ogni strato della società, e pur sembrando isolate trovano o inaugurano sempre nuove connessioni.
Gli anni che sono passati dalla prima edizione del libro sono un buon filtro per rileggere, nel mio caso con immutato piacere, Il formaggio e i vermi. Ora una valutazione metodologica è forse possibile, ma non spetta certo al recensore un compito del genere. La testimonianza di Menocchio apre una fessura nel silenzio degli ultimi? Cosa ci raccontano la dignità e la pulizia dei suoi ragionamenti nati proprio nella sua testa, come ammette in più occasioni lui stesso? Lo stesso storico sembra abbandonarsi a questa voce, che a tratti quasi lo sovrasta, sorprendendolo. In realtà non si limita a seguirla. La contestualizza anche attraverso le poche letture che gli può attribuire con certezza, ne segue le diramazioni e quando è il caso ne sottolinea l’acume. Menocchio è esistito, era un individuo vero e con la sua individualità ora fa parte della Storia. Non è soltanto un importante libro di storia, Il formaggio e i vermi, ma anche una lezione di stile.
Altre letture: Quodlibet ha appena ripubblicato Occhiacci di legno, dieci saggi sulla distanza, di Carlo Ginzburg. Contiene un testo inedito: Schemi, preconcetti, esperimenti a doppio cieco. Riflessioni di uno storico.
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
PER IL CAMBIAMENTO DELLA DENOMINAZIONE
DA
AD
L’esperienza storica insegna che ogni istituzione umana, sorta pure con le migliori tutele e con vigorose e fondate speranze di progresso, toccata fatalmente dal tempo, proprio per rimanere fedele a se stessa e agli scopi ideali della sua natura, avverte il bisogno, non già di mutare la propria fisionomia, ma di trasporre nelle diverse epoche e culture i propri valori ispiratori e operare quegli aggiornamenti che si rendono convenienti e a volte necessari.
Anche l’Archivio Segreto Vaticano, al quale i Romani Pontefici hanno sempre riservato sollecitudine e cura in ragione dell’ingente e rilevante patrimonio documentario che conserva, tanto prezioso per la Chiesa Cattolica quanto per la cultura universale, non sfugge, nella sua storia ormai più che quattro volte centenaria, a tali inevitabili condizionamenti.
Sorto dal nucleo documentario della Camera Apostolica e della stessa Biblioteca Apostolica (la cosiddetta Bibliotheca secreta) fra il primo e secondo decennio del XVII secolo, l’Archivio Pontificio, che cominciò a chiamarsi Segreto (Archivum Secretum Vaticanum) solo intorno alla metà di tale secolo, accolto in confacenti locali del Palazzo Apostolico, crebbe nel tempo in consistenza notevolissima e fin da subito si aprì alle richieste di documenti che pervenivano al Pontefice Romano, al cardinale Camerlengo e poi al cardinale Archivista e Bibliotecario da ogni parte dell’Europa e del mondo. Se è vero che l’apertura ufficiale dell’Archivio ai ricercatori di ogni Paese si avrà soltanto nel 1881, è vero anche che fra il XVII e il XIX secolo molte opere erudite si poterono pubblicare con l’ausilio di copie documentarie fedeli o autentiche che gli storici ottenevano dai custodi e dai prefetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Tanto che il celebre filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, il quale pure vi attinse, scrisse nel 1702 che esso poteva considerarsi in certo modo l’Archivio centrale dell’Europa (quod quodam modo totius Europae commune Archivum censeri debet).
Questo lungo servizio reso alla Chiesa, alla cultura e agli studiosi di tutto il mondo ha sempre guadagnato all’Archivio Segreto Vaticano stima e riconoscenza, tanto più crescenti da Leone XIII ai nostri giorni, sia in ragione delle progressive «aperture» della documentazione resa disponibile alla consultazione (che dal prossimo 2 marzo 2020, per mia disposizione, si estenderà fino al termine del pontificato di Pio XII), sia in ragione dell’aumento di ricercatori che sono quotidianamente ammessi all’Archivio medesimo e aiutati in ogni modo nelle loro ricerche.
Tale meritorio servizio ecclesiale e culturale, così apprezzato, bene risponde agli intenti di tutti i miei predecessori, che secondo i tempi e le possibilità hanno favorito le ricerche storiche in così vasto Archivio, dotandolo, secondo i suggerimenti dei cardinali Archivisti o dei prefetti pro tempore, di persone, di mezzi e anche di nuove tecnologie. In tal modo si è provveduto alla graduale crescita della struttura dell’Archivio stesso per il suo sempre più impegnativo servizio alla Chiesa e al mondo della cultura, mantenendo sempre fede agli insegnamenti e alle direttive dei Pontefici.
Vi è tuttavia un aspetto che penso possa essere ancora utile aggiornare, ribadendo le finalità ecclesiali e culturali della missione dell’Archivio. Tale aspetto riguarda la stessa denominazione dell’istituto: Archivio Segreto Vaticano.
Nato, come accennato, dalla Bibliotheca secreta del Romano Pontefice, ovvero dalla parte di codici e scritture più particolarmente di proprietà e sotto la giurisdizione diretta del Papa, l’Archivio si intitolò dapprima semplicemente Archivum novum, poi Archivum Apostolicum, quindi Archivum Secretum (le prime attestazioni del termine risalgono al 1646 circa).
Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti.
Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola «segreto», in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva «echi e vestigia» del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa «non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!» (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6).
Sollecitato in questi ultimi anni da alcuni stimati Presuli, nonché dai miei più stretti collaboratori, ascoltato anche il parere dei Superiori del medesimo Archivio Segreto Vaticano, con questo mio Motu Proprio decido che:
da ora in poi l’attuale Archivio Segreto Vaticano, nulla mutando della sua identità, del suo assetto e della sua missione, sia denominato Archivio Apostolico Vaticano.
Riaffermando la fattiva volontà di servizio alla Chiesa e alla cultura, la nuova denominazione mette in evidenza lo stretto legame della Sede romana con l’Archivio, strumento indispensabile del ministero petrino, e al tempo stesso ne sottolinea l’immediata dipendenza dal Romano Pontefice, così come già avviene in parallelo per la denominazione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dispongo che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano, entrando in immediato vigore a partire da detta pubblicazione, così da essere subito recepita nei documenti ufficiali della Santa Sede, e che, successivamente, sia inserita negli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 ottobre 2019, settimo del nostro Pontificato.
Francesco
* Fonte: http://w2.vatican.va/
Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini *
Recensendo un volume dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa.
Per sostenere tale tesi ha offerto una descrizione caricaturale del lavoro degli storici, cui attribuisce il tentativo di «entrare» nella «testa» dei personaggi e la pretesa di «sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione». Fa quindi dipendere in generale gli studi storici (e con essi anche il diritto, e implicitamente la filosofia e le scienze umane in genere) dalle «narrazioni» e dalla «ricerca delle motivazioni di un comportamento», e li destituisce così di credibilità fino a definirli «falsi».
Questa presa di posizione ignora totalmente la rilevanza che la questione della prova, la critica delle narrazioni e delle testimonianze, la distinzione fra storia e memoria hanno avuto e hanno nella riflessione storiografica. Fin dai tempi di Lorenzo Valla gli storici sono impegnati a mettere a punto quegli «approcci controllabili» che Corbellini li accusa di ignorare, e gli ultimi decenni li hanno visti partecipi di una significativa riflessione epistemologica, in sintonia con le altre scienze sociali, tesa a superare rigide dicotomie metodologiche quali, ad esempio, quantitativo/qualitativo o struttura/soggettività. E d’altro canto ipotizzare, come si propone nell’articolo, l’opportunità di dimenticare eventi estremi quali i genocidi sminuisce il significato dell’elaborazione e dell’interpretazione, spesso conflittuale, della memoria per la costruzione dei valori della nostra cultura.
Come studiosi e studiose di discipline storiche e umanistiche del Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale del CNR intendiamo esprimere la nostra preoccupazione per queste affermazioni. Si tratta dichiaratamente di una «provocazione» e come tale, se provenisse semplicemente da un autorevole studioso, ci si potrebbe limitare a trarne spunti di riflessione o a lasciarla cadere. Il professor Corbellini, tuttavia, non è un qualsiasi storico della medicina che si rivolge alla propria comunità scientifica e all’opinione pubblica, ma ha la responsabilità di dirigere il nostro Dipartimento, al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Le sue parole, che implicano una delegittimazione pubblica del lavoro degli storici e non solo, investono quindi in pieno il senso della presenza stessa delle nostre discipline all’interno del maggiore ente di ricerca italiano.
Se oggi in Italia i saperi storici e umanistici appaiono quanto mai marginalizzati, un intervento come questo, tanto più per il ruolo istituzionale di elevata responsabilità del suo autore, sembra essere più il sintomo di un profondo problema culturale e scientifico che non un contributo al suo superamento. Esso offre quindi l’occasione per sollecitare ai vertici del CNR un pronunciamento in merito al ruolo e alle prospettive delle discipline umanistiche all’interno dell’ente e per aprire in proposito un dibattito all’interno della comunità scientifica e della società.
Grazia Biorci (IRCRES-CNR)
Olga Capirci (ISTC-CNR)
Geri Cerchiai (ISPF-CNR)
Gemma Colesanti (ISEM-CNR)
Gabriella Corona (ISSM-CNR)
Roberto Evangelista (ISPF-CNR)
Amedeo Feniello (ISEM-CNR)
Ida Maria Fusco (ISSM-CNR)
Stefano Gallo (ISSM-CNR)
Patrizia Grifoni (IRPPS-CNR)
Paolo Landri (IRPPS-CNR)
Maurizio Lupo (ISSM-CNR)
Daniela Luzi (IRPPS-CNR)
Fabio Marcelli (ISGI-CNR)
Armando Mascolo (ISPF-CNR)
Marina Montacutelli (ISSM-CNR)
Michele Nani (ISSM-CNR)
Anna Maria Oliva (ISEM-CNR)
Walter Palmieri (ISSM-CNR)
Claudia Pennacchiotti (IRPPS-CNR)
Leonardo Pica Ciamarra (ISPF-CNR)
Mariarosaria Rescigno (ISSM-CNR)
Giovanni Rota (ISPF-CNR)
Alessia Scognamiglio (ISPF-CNR)
Luisa Simonutti (ISPF-CNR)
Luisa Spagnoli (ISEM-CNR)
Alessandro Stile (ISPF-CNR)
Antonio Tintori (IRPPS-CNR)
Pina Totaro (ILIESI-CNR)
Mattia Vitiello (IRPPS-CNR)
* ALFABETA-2: Per chi desiderasse mettersi in contatto con gli autori della lettera, l’email di riferimento è storiascienza.cnr@libero.it.
Brecht nell’occhio del ciclone /
Georges Didi-Huberman prende posizione
di Andrea Cortellessa *
La figura è una Madonna con Bambino, e insieme una Pietà. Lei, inquadrata leggermente dall’altro, Lo sorregge ma anche Lo ostende, Lo mostra a chi Le sta davanti. I Loro sguardi divergono: quello di Lei si piega verso l’alto invocando appunto Pietà, mentre quello di Lui è sereno, curioso, forse divertito.
In calce alla fotografia, quattro versi: «E molti di noi affondarono nei pressi / delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora. / Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero. / Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora».
Alla pagina a fianco, una didascalia traduce quella che figura in fondo al ritaglio stampa: «Rifugiati senza rifugio. Questa madre ebrea e il suo bambino sono stati ripescati dal mare insieme con 180 altre persone, che cercavano rifugio in Palestina. Ma 200 sono annegate quando il Salvador si sfracellò contro le coste rocciose della Turchia. Il Salvador non era la prima nave. La Patria esplose con a bordo 1771 persone [...]. La Pacific fu costretta, con 1062 profughi, a proseguire il viaggio senza sbarcare in Palestina [...]. A parte l’odissea dei 500 ebrei su una nave che fu rimandata di porto in porto per quattro mesi. Vengono da tutte le parti d’Europa, ammassati come bestie su carrette incapaci di tenere il mare [...]. La quota di immigrazione in Palestina ne prevede 12000 all’anno. Le navi da carico e per il bestiame portano un carico nuovo, una nuova specie di contrabbando umano.
Nell’ultimo anno 26000 persone sono state introdotte clandestinamente in Palestina. Ma che ne sarà dei sette milioni? Il bambino può giocare con il suo piede - si sente a casa sua in braccio alla madre. Non sa che suo padre è annegato nel mare di Marmara. Solo la madre sa che la morte per annegamento in vista della cosa è doppiamente atroce».
Non è cronaca di oggi, è la storia di sempre. Si tratta infatti della tavola 48, delle 69 che si susseguivano, nel 1955, nell’Abicì della guerra di Bertolt Brecht. Un testo che a sua volta a lungo dovette cercare approdo: ideato nel ’40 durante l’esilio in Finlandia, alcune tavole ne escono nel ’44-45 su una rivista di fuoriusciti in America, ma al ritorno di Brecht in Germania viene rifiutato, nel ’48, dall’editore Desch (allorché lui annota, nel Diario di lavoro, che del passato nazista «niente è stato liquidato anche se quasi tutto è distrutto»); nel ’54 l’Ufficio per la Letteratura della Repubblica Democratica ne deplora le «tendenze pacifiste», poi Brecht viene insignito del Premio Stalin e si trova nell’interessante condizione di dover dare in prima persona l’imprimatur al suo testo; lui stesso, a quel punto, decide di censurarne venti tavole (che verranno pubblicate solo nel 1985, e mancano tuttora dall’edizione italiana: frettolosamente riproposta da Einaudi nel 2002 dopo la bella princeps del ’72, con traduzione di Roberto Fertonani, tre anni dopo stravolta da Renato Solmi per renderla «immediatamente accessibile a un pubblico di giovani e di operai») e finalmente, l’anno dopo, il libro può uscire. Ma senza alcuna eco: e Brecht deve prendere atto (quarant’anni prima del Sebald della Storia naturale della distruzione) della «rimozione insensata», da parte dei lettori tedeschi, di «tutti i fatti e giudizi riguardanti il periodo hitleriano e la guerra».
Sempre si parva licet, con sensibile ritardo - a più di dieci anni dalla pubblicazione in Spagna e in Francia - esce (per le cure non impeccabili di Francesco Agnellini e il package non accattivante di Mimesis, pp. 289, € 22) Quando le immagini prendono posizione di Georges Didi-Huberman: primo volume di una serie, L’occhio della storia, che da Minuit ha contato, fra il 2009 e il 2016, sei titoli (seguiti da una ulteriore serie di pubblicazioni a partire dalla mostra Soulèvements, che nel 2016 al Jeu de Paume è stata il precipitato di questo suo lavoro storico e teorico); e che proprio al lavoro verbovisivo e iconotestuale di Brecht è dedicato - a cavallo fra l’Abicì (Kriegsfibel), il monumentale Diario di lavoro (Arbeitsjournal, da Einaudi nel 1976 in due volumi, sempre precedenti le edizioni critiche degli anni Novanta) e i Modellbücher dei testi per il teatro.
S’è scelto dunque un Virgilio proverbialmente scontroso, Didi-Huberman, per una svolta “politica”, la sua, che non a caso ha lasciato perplessi (non senza impazienze e ingenerosità francamente eccessive) molti degli ammiratori (a suo tempo sfegatati e del pari troppo acritici, magari) dei suoi lavori anni degli Ottanta e Novanta (i quali a loro volta giunsero da noi con un buon decennio di ritardo: da un punto di vista editoriale non porta bene, a GDH, la divisa teorica dell’anacronismo cui da sempre è fedele). Ma, come nei suoi entusiasmanti pindarismi teorici non nasconde, e anzi valorizza, i conflitti di piani temporali, così nell’Œil de l’Histoire GDH non si sottrae, com’è giusto, ai dilemmi e alle vere e proprie aporie cui lo espone, e ci espone, il pensiero, prima che la prassi artistica, di Brecht.
Questi aderisce infatti, nel 1950, al programma leninista (e alla prassi stalinista) della «pianificazione delle arti» da parte del partito, che deve «proporre agli artisti dei problemi» (anche se non si nasconde che «da persone che siano state costrette a piegare la testa non è facile riuscire ad avere opere non servili»), in vista della «mobilitazione delle nuove masse di lettori»; e già qualche anno prima, negli appunti Sul realismo socialista, faceva venire i brividi il suo elogio dell’«avveduta presa di posizione di Stalin rispetto a Majakovskij, che è un distruttore di forme di prim’ordine, e della sua interessante affermazione che i poeti dovrebbero essere gli ingegneri dell’anima» (ma questa sua posizione era già implicita nelle frasi sprezzanti, rivolte all’incredulo Walter Benjamin che era andato a trovarlo a Svendborg, su Kafka che «ha visto il futuro, senza vedere che cosa è»: nel dopoguerra i comunisti francesi, chiedendosi se non fosse il caso di bruciarlo, Kafka). Eppure è lo stesso Brecht che, nella Kriegsbibel e forse ancor più nell’Arbeitsjournal, pratica un’arte del montaggio che sfida dadaisti e surrealisti sul loro stesso terreno (al punto che Ernst Bloch, in polemica con Lukács, poteva accostarlo oltre che a loro - da Brecht disprezzati, in quanto dilettanti di ebbrezze e misticismi profani - anche a Proust e a Joyce - che invece Brecht apprezza per aver «modificato la concezione del romanzo» -: tutti artefici dell’«epoca caleidoscopica»).
Ingrandendo le tavole montate da Brecht con l’aiuto della sua amante fotografa Ruth Berlau, e svolgendole come in una sequenza cinematografica - raddoppiando cioè, nella forma saggistica, il principio del montaggio che analizza - Didi-Huberman ci mostra come questo Brecht, davvero, si possa leggere meglio in sintonia con Moholy-Nagy, Ėjzenštejn e naturalmente Benjamin che con l’ortodossia neohegeliana. La verità è concreta - secondo il motto che Brecht aveva scritto sulle tavole del suo studio durante l’esilio -, sì, ma proprio in quanto conflittuale, contraddittoria, obliqua: il lettore della Kriegsfibel non «dispone della “verità”, ma vede piuttosto dei missili, frammenti, schianti di verità che si disperdono qui e là, nella “dis-posizione” delle immagini» (e sono acutissime le pagine di GDH sullo straniamento - Verfremdung - teorizzato e praticato da Brecht, nella sua forma più audace e rivoluzionaria, proprio nei lunghi anni dell’esilio: «come se la sua posizione estetica sull’estraneità andasse di pari passo con la sua situazione poetica di esiliato, di straniero»).
Una forma, il montaggio, figlia della guerra. Non la seconda, di cui parla l’Abicì, bensì la prima: come se, scrive GDH, «le trincee scavate in Europa durante la Grande Guerra avessero suscitato, nel campo estetico come in quello delle scienze umane - si pensi a Georg Simmel, Sigmund Freud, Aby Warburg, Marc Bloch -, la decisione di mostrare attraverso i montaggi, cioè per dislocazioni e ricomposizioni di ogni cosa». Il montaggio, irriducibile «presa d’atto del “disordine del mondo”» (splendida formula brechtiana, che pare appunto mutuare quelle del Simmel della tragedia della cultura), diventa così «il metodo moderno per antonomasia».
In questo modo la maniera iconotestuale della Kriegsfibel può riassumere in sé i modi contrastanti degli architesti specificamente germanici: da un lato il dadaista Deutschland, Deutschland über alles di Kurt Tucholsky e John Heartfield (da poco riproposto da Meltemi, a cura di Maurizio Guerri: ben ne ha scritto su Alias Giorgio Fabre), e ancor più da vicino il precedente Guerra alla guerra dell’anarchico Ernst Friedrich (che Brecht elogia nel 1926); ma anche, all’altro capo dello schieramento politico, il perturbante (e purtroppo formidabile) Ernst Jünger del Mondo mutato (che sempre Guerri ha restaurato da Mimesis), apparso alla vigilia della presa di potere di Hitler, che sulle masse naziste getta il solito sguardo gelido, minerale (stigmatizzandole, si capisce, ma da destra).
Così davvero le immagini prendono posizione (e non partito, distingue con un filo di volontarismo Didi-Huberman), sia in senso ideologico che nell’architettura della pagina-campo di battaglia. E imprimono, alla carsica tradizione dell’iconotesto, quella natura intrinsecamente conflittuale (anche se non sempre politicamente tale) che le è propria. Nel fotografare una storia tragica, prendono una forma tragica - ancorché modernisticamente tale, per via appunto di montaggio. E così davvero si può parlare dell’occhio della storia: «come si dice l’occhio del ciclone».
* Doppiozero, 25 maggio 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM"): LA "HISTORIA" DI ALESSANDRO MANZONI....*
"I PROMESSI SPOSI. Introduzione":
«L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose.
Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche.
E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti.
Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter.
Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...»
«Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?»
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. [...] **
** Fonte: A. Manzoni, I Promessi Sposi, "Introduzione", classici italiani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
Ipocriti e venali? Un convegno per superare i pregiudizi sui farisei
E il 9 maggio papa Francesco riceve i partecipanti all’iniziativa organizzata dal Pontificio Istituto Biblico e sponsorizzata anche da Cei e American Jewish Committee
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 04/04/2019)
Roma. Spesso raffigurati come «esempi di legalismo, ipocrisia e avidità», presentati nei Vangeli come i rivali maggiori di Gesù, i farisei saranno al centro di un convegno organizzato dal Pontificio Istituto Biblico, a Roma, teso a riesaminare le fonti e superare i pregiudizi che circondano questo antico gruppo giudaico, e possono intrecciarsi con pulsioni antisemite, nelle omelie e nei testi scolastici, nel linguaggio quotidiano così come in libri e film. L’ultimo giorno del convegno su «Gesù e i farisei» («Un riesame interdisciplinare») i partecipanti saranno ricevuti in udienza privata dal Papa.
«Il tema della relazione tra Gesù e i farisei è un altro modo per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei attraverso due millenni», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il gesuita Michael Kolarcik, rettore dell’istituto. «Quanto affermiamo su questo rapporto, e come lo diciamo, ha conseguenze significative per la nostra relazione attuale». Padre Etienne Veto, direttore del Centro cardinale Bea per gli Studi Giudaici, ha sottolineato che grazie alle evoluzioni della ricerca biblica e storica è emerso da tempo che «non è corretta» la rappresentazione invalsa dei farisei e che «c’è un collegamento tra l’antisemitismo e la concezione dei farisei».
Il convegno, sostenuto anche dall’American Jewish Committee, dalla Conferenza episcopale italiana e dalla società Verbum di software per gli studi cattolici, vedrà la partecipazione di oltre trecento esperti di varie materie, cattolici protestanti ed ebrei. Numeri superiori alle attese tanto che avrà luogo nell’aula magna della attigua Pontificia Università Gregoriana. Tra gli altri ci saranno i rabbini David Rosen, Riccardo Di Segni e Abrhama Skorka, quest’ultimo amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, il presidente della commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei Ambrogio Spreafico, e ancora esperti di storia, archeologia, studi rabbinici, Nuovo Testamento, educazione, arte popolare da Argentina, Austria, Canada, Colombia, Germania, India, Israele, Italia, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Scopo del convegno, si legge in una presentazione, è «un riesame delle fonti, per fornire un quadro più chiaro dei farisei “letterari” e “storici” dell’antichità» e, in secondo luogo, «riconsiderare i fattori responsabili dei pregiudizi che hanno danneggiato la percezione comune dei farisei - e di suggerire modi per superarli»: per questo il convegno «discuterà anche di problemi relativi non solo agli studi biblici, ma anche all’omiletica (cioè come fare un’omelia sui farisei, quando essi compaiono sul lezionario), a testi scolastici e alla cultura popolare, compresi libri e film su Gesù e sulle rappresentazioni della Passione».
Non a caso parteciperà al convegno anche Christian Stueckl, direttore artistico della famosa «Rappresentazione della Passione» di Oberammergau che va in scena ogni anno dal 1634. «Vogliamo individuare le radici di questa rappresentazione inadeguata dei farisei», ha detto in conferenza stampa il professore Joseph Sievers, tra i principali organizzatori dell’evento, «e superare i pregiudizi».
«Non c’è bisogno di presentare male i farisei in particolare e l’ebraismo in generale per presentare bene Gesù: Gesù si presenta bene da solo», ha detto da parte sua la professoressa ebrea Amy Jill Levine, che al Biblico insegna Nuovo Testamento: «Il trattamento negativo dei farisei è parte di un problema più ampio» che affonda le radici nella distorta contrapposizione tra il cattolicesimo, quale religione di amore, e nell’ebraismo, quale religione della legge, ma «siamo entrambe religioni di amore», ha detto padre Veto, «e siamo entrambe religioni che fanno attenzione a ciò che facciamo, all’etica», ha detto Jill Levine, ricordando che Gesù è anzi più rigoroso dei maestri ebrei quando, ad esempio, anziché condannare l’assassinio condanna anche la rabbia o quando condanna non solo il tradimento effettuato ma anche quello pensato.
Amy Jill Levine, che in passato ha consegnato al Papa la versione commentata ebraica del Nuovo Testamento (The Jewish Annotated New Testament), ha ricordato che san Paolo di Tarso era fariseo, che lo storico Tito Flavio Giuseppe parlava bene dei farisei e che i rotoli del Mar Morto non li citano e anzi criticano un gruppo ebraico lassista: «Se avessimo solo Paolo, Flavio Giuseppe e i rotoli del Mar Morto non avremmo bisogno di questo convegno. Ma abbiamo i Vangeli che descrivono i farisei come ipocriti e nemici di Gesù», ha detto, auspicando che «le omelie sui farisei non propaghino l’antisemitismo ma presentino correttamente il Vangelo della pace».
Ai giornalisti che facevano notare come Papa Francesco abbia più volte, coerentemente con i Vangeli, indicato i farisei come esempi negativi di ipocrisia e legalismo, il professor Sievers ha risposto ricordando che non bisogna dimenticare «l’amore di Francesco nei confronti dell’ebraismo e i suoi rapporti cordiali con gli ebrei già quando era a Buenos Aires, ed ha poi detto, più in generale, che «capita a tutti noi di avere un punto cieco: noi non saremo polemici nei confronti di alcunché, ma desideriamo completare una visione che dia spazio ad una concezione più sfaccettata dei farisei, sperando che completare il quadro possa innescare anche qualche cambiamento».
La storia
Alla vecchia stazione Sud
Da Freud a Brecht un museo a Berlino per i grandi esiliati
Mezzo milione di tedeschi e austriaci scapparono dal nazismo. La Germania li ricorda con un omaggio ai geni in fuga
di Tonia Mastrobuoni (la Repubblica, 13.05.2019)
BERLINO Thomas Mann lo chiamava "l’asma del cuore". È il dolore dell’esilio, il destino che colpì innumerevoli ebrei e oppositori del regime costretti dai nazisti a scappare, ad abbandonare i loro Paesi d’origine. Secondo alcune stime, si trattò di mezzo milione di persone - 360mila tedeschi, 140mila austriaci. C’è ormai un’ampia letteratura su Marlene Dietrich e Billy Wilder e la Hollywood dei tedeschi e degli austriaci. O sulla colonia dei Brecht, dei Mann, dei Feuchtwanger e degli Adorno che trascorsero il dodicennio più buio della storia tedesca sulla costa californiana, tra Pacific Palisades e Santa Monica. E tra quelle centinaia di migliaia di esuli, fuggiti non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, ci sono ovviamente geni come Walter Gropius, Hannah Arendt, Hedy Lamarr, Albert Einstein o Sigmund Freud.
In Germania, Paese attentissimo alla memoria storica e soprattutto alla ricostruzione dei crimini del nazismo, mancava finora un museo dedicato all’"asma del cuore", alle sofferenze e alle vite gli esuli - come dimenticare Stefan Zweig che si tolse la vita all’estero o Willy Brandt che fu meschinamente accusato di aver trascorso gli anni del nazismo in Norvegia. E così la capitale che più di ogni altra è abituata a mostrare al mondo le cicatrici del Novecento, Berlino, ha deciso di dedicare finalmente un museo a questo importante pezzo di storia tedesca e austriaca.
La scintilla è una lettera del 2011 di un’illustre esule, il Nobel della letteratura Herta Mueller, ad Angela Merkel. Allora la scrittrice scappata a Berlino trent’anni fa dalla Romania di Ceaucescu, scrisse alla cancelliera che «in nessun luogo di questo Paese esiste un posto che possa spiegare il significato dell’esilio attraverso il racconto di singoli destini. I pericoli della fuga, la vita sofferta nell’esilio, l’estraneità, la paura e la nostalgia di casa». Secondo la grande scrittrice cresciuta nella minoranza tedesca in Romania, «un Museo dell’Esilio potrebbe aiutare i giovani a capirne il significato. Sarebbe un esercizio di educazione alla partecipazione».
Entro il 2025 i terreni intorno all’Anhalter Bahnhof, la vecchia stazione sud di Berlino da cui partivano i treni per l’estero ma anche quelli per Auschwitz, ospiterà 4.000 metri quadri di video e documenti, comprese interviste che gli organizzatori stanno svolgendo in questi mesi agli esuli ancora vivi.
Finora al progetto per un Museo dell’Esilio si sono messi a lavorare a testa bassa soprattutto i privati.
Il fondatore della casa d’aste Villa Grisebach, Bernd Schultz, che lo ritiene «un progetto del cuore» e ha già investito sei milioni di euro per avviare la fondazione. E la squadra che si è buttata a capofitto nel progetto, e che, a parte Schultz, conta altri cervelli illustri. C’è l’ex direttore del meraviglioso museo della Storia tedesca ed ex assessore alla Cultura della capitale, Christoph Stoelzl e le note curatrici Meike-Marie Thiele e Cornelia Vossen.
Schultz ha raccontato al quotidiano Tagesspiegel che dal 1965 colleziona arte e che «in centinaia di viaggi a New York, in California, a Londra e ovunque nel mondo ho incontrato esuli, le loro collezioni, le loro perdite, i loro destini - e il debito che abbiamo nei loro confronti. L’esilio fa parte della memoria collettiva di questo Paese. Chi può ricordare al giorno d’oggi, ad esempio, che Lucian Freud era nato a Berlino?».
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.... *
Plutarco, il maestro ripudiato dallo storicismo
di Maurizio Morini (Ritiri filosofici, 05.05.2019)
Plutarco è uno degli scrittori antichi di cui ci è pervenuto il maggior numero di scritti. Nato a Cheronea nella Grecia centrale, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo, Plutarco ha esercitato un’influenza enorme soprattutto nel periodo umanistico e rinascimentale tanto da essere riconosciuto come vero e proprio maestro da Montaigne ed Erasmo, Shakespeare e Bacone, Montesquieu e Rousseau. La sua opera più famosa, Le Vite parallele, biografie dei personaggi più famosi dell’antichità, è stata per lungo tempo fonte di ispirazione e notizie storiche. Tuttavia, a partire dalla metà del XIX secolo, Plutarco ha visto improvvisamente spegnere la sua fama fino ad essere prima accantonato e poi dimenticato.
Positivismo e storicismo prima, ideologie totalitarie e liberticide poi, hanno messo in secondo piano una filosofia che faceva della vita buona e della saggezza il suo centro. In nome di un auspicato “ritorno a Plutarco”, la Bompiani ha pubblicato nel 2017 la prima traduzione italiana completa dei Moralia, opera che raccoglie un’estesa trattatistica di carattere filosofico, pedagogico, religioso e di scienze naturali in cui non mancano saggi e brevi componimenti che affrontano il rapporto dei filosofi con la politica.
Il governo di se stessi prima condizione per governare
I testi di Plutarco sono un ricettacolo di osservazioni, consigli e massime nate spesso da piccoli episodi tratti dall’esperienza quotidiana di uomini impegnati nella cura degli affari pubblici. Il breve saggio Chi governa deve sapere prima di tutto governare se stesso inizia con l’osservazione secondo cui «nulla in natura è più orgoglioso, scostante e ingovernabile di un uomo che presuma di possedere la felicità». Se il trattato verte sulla necessità di ascoltare la ragione, in modo che il governante si ponga in sintonia con la provvidenza allontanando da sé gli istinti peggiori, è anche vero, riconosce Plutarco, che è difficile che i governanti ascoltino, presi come sono dal governo delle emozioni e dall’idea secondo la quale la ragione possa mettere a repentaglio la loro autorità. Non solo chi non riesce a controllare le proprie passioni, ma anche persone rozze e prive di cultura, nascoste dietro maschere di apparente sapere, giungono spesso al governo dello Stato. Tuttavia, è possibile riconoscere tal genere di individui utilizzando due paragoni. Il primo è quello del vaso vuoto: così come una volta riempiti, se marci o piene di crepe, i vasi cominciano a colare da tutte le parti andando facilmente in malora, così gli uomini privi di spessore culturale non riusciranno a mantenere quanto promesso finendo per rovinarsi da soli. Il secondo paragone è quello delle statue: chi ha più cultura ha peso e riesce a mantenersi, chi non ce l’ha non riesce a reggersi e finisce per rovesciarsi da sé.
I criteri di cui tener conto per entrare in politica
«La politica è come un pozzo: chi vi cade in modo accidentale è preso da angosce e rimorsi; chi vi scende con tranquillità affronta gli impegni con cura e serenità». Con questa metafora contenuta nei Consigli politici, Plutarco indica quattro elementi da considerare per chi vuole entrare in politica. Il primo è la motivazione, la quale non dev’essere fondata né sul capriccio né sulla vanagloria ma su una costante preoccupazione per il bene pubblico. In secondo luogo, bisogna essere consapevoli del carattere dei propri concittadini, in quanto l’ignoranza dei costumi e dei modi di vita porta a fallire il bersaglio e a cadute non meno rovinose di quelle che si hanno nei rapporti di amicizia con un re quando il suo favore viene meno. Importante è poi per il politico lo stile di vita perché, ricorda Plutarco, il popolo è attento ad ogni dettaglio e pronto a giudicare. Tutto ciò non deve far dimenticare infine l’efficacia della parola che si affianca al carattere della persona nella capacità di persuasione: l’arte di guidare gli uomini consiste nel convincere con l’eloquio, mentre addomesticare le masse con espedienti, come banchetti o elargizioni, è come pascolare animali privi di ragione.
Fine dell’educazione politica per Plutarco consiste nel rendere i cittadini ubbidienti per la semplice ragione che in ogni città i governati sono più numerosi dei governanti: di conseguenza, la scienza più bella è quella di saper ubbidire a chi detiene il potere. Le dinamiche del rapporto tra governanti e governati sono un tema particolarmente caro al filosofo: ad esempio, il popolo rinuncia alla propria forza quando cede alle lusinghe del denaro, così come gli stessi politici causano la propria rovina nel momento in cui, diremmo oggi, diventano populisti, solleticando il popolo nei suoi più bassi istinti con il risultato di renderlo soltanto più arrogante.
Nel breve opuscolo I filosofi devono dialogare soprattutto con i potenti, la riflessione di Plutarco si colloca su di un piano, per così dire, di massimizzazione dell’efficienza. La tesi del saggio consiste nell’idea che rivolgersi all’uomo politico, cioè alla persona che più di tutte più influenzare gli altri, costituisce per il filosofo il modo più efficace per diffondere la saggezza che deriva dalla filosofia: in questo modo l’impegno per l’edificazione altrui è più bello del ritrarsi in disparte.
Il declino della filosofia antica e il ritorno a Plutarco
Definito da Federico II di Prussia come l’antimachiavelli, Plutarco e le sue opere rientrano in un certo qual modo nella tradizione degli specula principis, termine con il quale si designa tutta quella trattatistica rivolta a re e governanti finalizzata alla loro educazione morale. Un colpo a questa letteratura fu dato da Machiavelli e dai suoi consigli rivolti al principe per la gestione cinica e spregiudicata del potere politico. Tuttavia, non fu l’acutissimo fiorentino a provocare il declino di Plutarco. Il suo vero affossatore fu Hegel ed il principio secondo cui la filosofia politica deve astenersi dal dare consigli allo Stato e interpretare il momento storico come qualcosa di razionalmente fondato, senza alcun riferimento a ciò che è bene o a ciò che è male. Lo storicismo aggravò il divario tra etica e politica in base all’idea secondo la quale è necessario distinguere tra giudizi di fatto e giudizi di valore, in nome di singole Weltanschauung alle quali riconoscere piena legittimità. Pretendendo di essere il continuatore dello scetticismo, lo storicismo ha demolito qualsiasi posizione che pretenda di rappresentare una dimensione di universalità: così facendo, la filosofia, specialmente quella antica, diventa qualcosa di assurdo.
Lo storicismo diventa la maschera del dogmatismo grazie soprattutto, come osservava Leo Strauss, a quella forma di storicismo radicale costituito dall’ermeneutica: se tutto è interpretazione, viene negata ab origine qualsiasi ricerca di un fondamento e diventa concreta la frase di Foucault secondo cui «un tempo c’erano i maestri di verità, oggi la volontà di verità». Lessing ripeteva che lo storicismo è l’inclinazione ad identificare il traguardo del nostro pensiero con il punto in cui ci siamo stancati di pensare: insieme a dogmatismo e relativismo, esso ha formato una triplice alleanza che ha liquidato Plutarco e la saggezza della filosofia antica. In un tempo, come quello attuale, in cui ci sarebbe bisogno di moderazione e prudenza politica, la lettura di un autore classico come Plutarco costituirebbe il rimedio a molti mali.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Filosofi: scomodi e amanti del sapere
Un’attività che nasce dallo stupore, una passione inquieta per la quale nulla è scontato
di DONATELLA DI CESARE *
Che valore ha oggi la filosofia? A quale compito saranno chiamati le filosofe e i filosofi nell’età del tecnocapitalismo e della governance neoliberale? La Regina delle scienze, rimasta sola, dopo il distacco definitivo delle scienze naturali, appare caduta in un grave discredito. E se la senatrice Liliana Segre richiama i politici allo studio della storia, è altrettanto giusto richiamarli allo studio della filosofia.
Il ritmo accelerato sembra bandire ogni riflessione considerata un gioco improduttivo, una fuga irresponsabile in sogni evanescenti. Così il vecchio pregiudizio contro la filosofia si è andato rafforzando. Urgono risposte rapide, soluzioni definitive agli innumerevoli problemi di un’epoca tanto complessa. A che pro la filosofia? A che cosa serve? Che cos’è?
Rispondere implica già accogliere una sfida subdola, accettando i presupposti impliciti nella domanda: cioè che la filosofia sia un mezzo utile a un fine. Eppure la sua inattualità, che la rende così attuale, sta proprio nel sottrarsi all’economia del profitto. In tal senso non servirà forse a nulla. Si potrebbe allora cancellarla con un colpo di spugna - il che poi vorrebbe dire rimuovere il cuore stesso della tradizione occidentale. Tuttavia la filosofia non è solo un patrimonio di testi. È molto di più. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.
Sin dai suoi esordi, nell’antica Grecia, la filosofia è stata chiamata a dimostrare il proprio diritto a esistere. Sennonché anche chi la contesta, chi ne mette in dubbio la legittimità, è già immerso nel movimento del pensiero, già filosofa. Ecco perché il ritornello sulla fine della filosofia è banale e vacuo. Certo nessuno immagina che possano ancora edificarsi quei sistemi che miravano a collegare tutto il sapere in un’immagine unitaria. L’impero hegeliano dello Spirito assoluto si è dissolto. Ma ciò non ha decretato la fine della riflessione. La filosofia non va e non viene, non finisce. Immanuel Kant parla di «attitudine naturale» dell’essere umano. Seppur inconsapevolmente, tutti filosofano. E già i bambini si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è - i filosofi la riconoscono.
Si potrebbe dire con Heidegger che «filosofia è filosofare». Se solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri al pensiero, la filosofia, lungi dall’essere privilegio di pochi, tocca al fondo l’esistenza di ciascuno. Studiare i classici vuol dire anzitutto imparare a interrogarsi. Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda radicale, quella che va alle radici, che non chiede per sapere, ma che, anzi, mette in questione ogni sapere. Non vengono fornite soluzioni definitive. La filosofia non avrebbe altrimenti una storia dove, in forma sempre diversa, si ripropongono le questioni che la assillano: sulla verità, sul bene, sulla libertà. I problemi fondamentali della filosofia sono piuttosto aporie per cui non si danno soluzioni - né ottimali, né univoche, né definitive. Le risposte sono molteplici, le indicazioni differenti. Ecco perché i filosofi tornano ai testi di più di 2.000 anni fa - quelli di Eraclito, di Platone, di Aristotele - e li leggono come se fossero stati scritti ieri.
Sta qui una differenza decisiva rispetto alla scienza. Circoscritte a un ambito del sapere, le scienze non danno conto dei loro presupposti. Kant esorta a non confondere la filosofia con la matematica che, pure, è una costruzione concettuale. Ma già solo interrogandosi sullo statuto della matematica, la filosofia ne valica i limiti, va oltre l’ovvietà dei principi. Così ciò che per la scienza è fuori questione viene innalzato alla dignità della domanda filosofica.
Non c’è fenomeno che sfugga. Neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». Formulata da Leibniz, questa è la domanda esemplare della filosofia, che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l’aura di solenne gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all’interrogare. Persino l’interrogante, il filosofo stesso, che viene così deposto dal suo pulpito.
D’altronde l’inizio aporetico della filosofia è il non-sapere di Socrate, che ha inaugurato la ricerca introspettiva, il «conosci te stesso». Stupore, ma anche struggimento e smania per l’irraggiungibile sophía.
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Ed eccolo quel cittadino, così strambo e fuori-luogo, uno straniero in patria. Chi lo vede da lontano scappa; altri ostentano disprezzo, lo deridono. Socrate mette in dubbio le idee più correnti, non riconosce nessuna autorità, si fa beffe persino del démos sovrano. Soprattutto mostra ai propri concittadini che non sanno quel che pretendono di sapere. Che democrazia potrebbe mai essere la loro? Il risentimento è tale che si traduce nella condanna a morte di quel singolare cittadino che aveva osato, con il dialogo, fare dello stupore una pratica pubblica insinuando il dissenso già nell’anima altrui, prima ancora che nella comunità.
Da allora si è aperto un abisso tra la filosofia e la politica e la tensione non è mai venuta meno. In esilio nella città, quasi stranieri residenti, i filosofi hanno resistito per secoli e millenni, testimoni critici di una pólis altra e migliore. Così questi sublimi migranti del pensiero hanno saputo convertire la perdita irreparabile in una conquista a venire.
* Corriere della Sera, 28 aprile 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
AGONISMO TRAGICO: LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Il testo in difesa dello studio della Storia
Il manifesto: "ll passato è un bene comune" *
La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione.
Ci appelliamo a tutti i cittadini e alle loro rappresentanze politiche e istituzionali per la difesa e il progresso della ricerca storica in un momento di grave pericolo per la sopravvivenza stessa della conoscenza critica del passato e delle esperienze che la storia fornisce al presente e al futuro del nostro Paese.
Sono diffusi, in molte società contemporanee, sentimenti di rifiuto e diffidenza nei confronti degli "esperti", a qualunque settore appartengano, la medicina come l’astronomia, l’economia come la storia. La comunicazione semplificata tipica dei social media fa nascere la figura del contro-esperto che rappresenta una presunta opinione del popolo, una sorta di sapienza mistica che attinge a giacimenti di verità che i professori, i maestri e i competenti occulterebbero per proteggere interessi e privilegi.
I pericoli sono sotto gli occhi di tutti: si negano fatti ampiamente documentati; si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in nome della deideologizzazione. Ciò nonostante, queste stesse distorsioni celano un bisogno di storia e nascono anche da sensibilità autentiche, curiosità, desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. È necessario quindi rafforzare l’impegno, rinnovare le parole, trovare vie di contatto, moltiplicare i luoghi di incontro per la trasmissione della conoscenza.
Ma nulla di questo può farsi se la storia, come sta avvenendo precipitosamente, viene soffocata già nelle scuole e nelle università, esautorata dal suo ruolo essenziale, rappresentata come una conoscenza residuale, dove reperire al massimo qualche passatempo. I ragazzi europei che giocano sui binari di Auschwitz offendono certo le vittime, ma sono al tempo stesso vittime dell’incuria e dei fallimenti educativi.
Il ridimensionamento della prova di storia nell’esame di maturità, l’avvenuta riduzione delle ore di insegnamento nelle scuole, il vertiginoso decremento delle cattedre universitarie, il blocco del reclutamento degli studiosi più giovani, la situazione precaria degli archivi e delle biblioteche, rappresentano un attentato alla vita culturale e civile del nostro Paese.
Ignorare la nostra storia vuol dire smarrire noi stessi, la nostra nazione, l’Europa e il mondo. Vuol dire vivere ignari in uno spazio fittizio, proprio nel momento in cui i fenomeni di globalizzazione impongono panorami sconfinati alla coscienza e all’azione dei singoli e delle comunità.
Per questo cittadini di vario orientamento politico ma uniti da un condiviso sentimento di allarme si rivolgono al governo e ai partiti, alle istituzioni pubbliche e alle associazioni private perché si protegga e si faccia progredire quel bene comune che si chiama storia e chiedono
Lo storico Andrea Giardina, 70 anni e la senatrice a vita Liliana Segre, 88 anni
L’iniziativa
"Non cancellerete lo studio della storia"
L’appello lanciato su "Repubblica" da Andrea Camilleri, Andrea Giardina e Liliana Segre è al centro del festival organizzato da Laterza che si è aperto a Napoli. Studiosi di diverso orientamento da Canfora a Cardini, da Barbero a Cantarella aderiscono: la politica restituisca il valore civile alla disciplina
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 27.04.2019)
NAPOLI La storia a Napoli non devi andare a cercarla. La storia ti invade da ogni parte, anche dalle volte secentesche dell’oratorio gesuitico che ospita il liceo Genovesi. «La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini...»: Alessandro Laterza legge il manifesto lanciato da Repubblica davanti a una platea di storici e insegnanti.
Ed è subito un applauso lungo, ostinato, quasi uno scatto di orgoglio civile nel riprendere il filo d’un discorso che in questi ultimi anni è andato smarrito. «Perché la storia non è una disciplina come un’altra, ma è esercizio di cittadinanza», dice l’editore che firma l’appello insieme al cugino Giuseppe Laterza. E allora bisogna mettere via dispute accademiche e piccole competizioni inutili per concentrarsi sui vuoti di memoria della contemporaneità.
Le cose non accadono mai per caso. Ed è significativa la coincidenza temporale tra l’appello di Repubblica e il primo festival di storia organizzato da Laterza a Napoli, con le sale del Madre e del Teatro Bellini affollate da persone che vogliono sapere dell’Italia araba o della "xenia" classica celebrata da Omero.
Perché il bisogno di storia è oggi enorme, la necessità di mappe e bussole per orientarsi nella complessità, ma paradossalmente è proprio la risposta delle istituzioni a essere inadeguata. «Le ore a scuola sono insufficienti», interviene la grecista Eva Cantarella che aderisce al manifesto insieme alla sua allieva Laura Pepe. «E certo l’abolizione del tema storico è stato un pessimo segnale. Mi piacerebbe che il ministro Bussetti parlasse di più non solo di storia ma anche di scuola pubblica: perché è da qui che si deve ripartire».
Bisogna ripartire dai banchi di scuola, dai luoghi dove si formano coscienza e conoscenza storica delle nuove generazioni. Firmano il manifesto presidi e insegnanti, da Maria Filippone al timone del liceo Genovesi a Maria Luisa Buono che dirige un liceo di frontiera dove non ci sono gli affreschi del Caracciolo, ma un altro genere di bellezza costruita pazientemente ogni giorno.
«La formazione non è stata mai la prima preoccupazione delle classi politiche al governo dell’Italia repubblicana», dice la contemporaneista Simona Colarizi. «Ma oggi con la cancellazione della storia stiamo toccando il fondo, anche perché non è una materia uguale alle altre, ma il punto di raccordo dei saperi umanistici».
Per gli storici di professione, l’appello firmato da Andrea Giardina con Liliana Segre e Andrea Camilleri è anche un’occasione di autocritica. «Il manifesto ci ricorda che la storia è un bene comune», dice Luigi Mascilli Migliorini, presidente della Società dei modernisti. «Ci dice in sostanza che occorre superare le vecchie contese tra noi accademici. Ma ora è necessaria anche una grande alleanza con chi fa divulgazione al di fuori della cittadella universitaria. Perfino il Trono di spade può essere un alleato prezioso in questa battaglia di civiltà».
Da una prospettiva diversa invita all’autocritica Andrea Graziosi, ex presidente dell’Anvur e contemporaneista con esperienza internazionale.
«Giustamente nell’appello è scritto che anche le distorsioni rivelano un bisogno di storia e nascono da curiosità e desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. Ed è qui che ci dobbiamo chiedere: siamo stati capaci di soddisfare le nuove domande dei più giovani? Io credo che questa sfida si possa vincere solo cambiando modo di fare didattica e ricerca, e quindi anche spingendosi oltre l’orizzonte nazionale». E ben venga la buona divulgazione, aggiunge Graziosi, «ma essa si nutre delle ricerche storiche che non devono mai rinunciare a rigore e complessità».
Tra gli ospiti del festival di storia, sono tanti i medievisti che aderiscono all’iniziativa di Repubblica, da Franco Cardini ad Alessandro Barbero, da Amedeo Feniello a Giuseppina Muzzarelli. «Oggi c’è un’urgenza civile che ci invita a rivalutare la storia», dice Cardini. «In una società che non è più capace di essere valutativa, ossia non è più capace di definire dei valori, la storia assume una funzione civica irrinunciabile».
Conoscere la storia significa anche capire la gravità di certi gesti, come l’aggressione ai simboli della Resistenza ad opera dei gruppi neofascisti.
In occasione del 25 aprile Liliana Segre su questo giornale non si è limitata a lamentare l’ignoranza della storia da parte della classe politica. Si è anche chiesta se dalla diffusa ignoranza della storia la politica non tragga convenienza: il popolo ignaro non oppone resistenza. Ne è convinto Luciano Canfora, atteso oggi al festival di Napoli per una lezione sulla democrazia ateniese: «Vengo invitato in molte scuole per spiegare cosa è stato il fascismo. E i presidi lanciano un comune allarme: tra i banchi ci sono diciottenni che salutano con il braccio teso. La storia serve ad educare. E non è poco». Anche la sua firma sotto il manifesto.
Cultura
Maturità 2019, impariamo a insegnare la Storia
di David Bidussa (Il Sole-24 ore, 28 febbraio 2019)
A proposito della ipotizzata soppressione della traccia di storia alla prossima maturità non si può non sottolineare il paradosso: da una parte le istituzioni possono decidere che la storia si può anche mandare in soffitta perché è un genere che non ha successo (la traccia di storia è stata scelta all’ultima maturità dal 3% dei candidati); dall’altra sta una domanda di storia che è in crescita e attrae (per esempio ne parla Marta Stella nell’ ultimo numero di “Marie Claire” in un articolo dal titolo Perché abbiamo sempre più bisogno di ritrovare le nostre origini?).
Dove sta la verità? Qui e là e, contemporaneamente, né qui e né là. Dunque la storia è una disciplina in riserva: destinata a un pubblico sempre più ristretto, secondo le opinioni di chi ci governa; disciplina lontana, e non coltivata, comunque scarsamente attraente (nel 2018 solo 20 classi a Roma hanno scelto come una delle mete di gita scolastica l’archivio di Stato).
Disciplina che non gode di investimenti, o in cui si investe sempre meno (secondo alcuni dati nel giro di 15 anni gran parte dei corsi di laurea in storia presso gli atenei italiani andranno a chiudere, o comunque saranno destinati ad essere assorbiti all’interno di strutture disciplinari più generali).
Contemporaneamente aumenta in misura considerevole la domanda di sapere il passato (più spesso di sapere il passato della propria famiglia è in crescita, basta guardare i numeri della consultazione on-line del portale Antenati, il portale dedicato alle storie di famiglia, segno evidente che pur in maniera molto complicata la storia ha ancora un volto, un fine per le persone.
Ma appunto si potrebbe osservare che quel fine ha una fisionomia «privata», personale, non implica una funzione pubblica, collettiva della storia. Allora proviamo a precisare la domanda: perché la storia è percepita come una risorsa privata, volta a soddisfare la propria ansia di sapere passato, di avere un radicamento nella storia, ma questa ansia non si traduce in dimensione pubblica, ovvero nella percezione e nella convinzione che la storia sia un bene pubblico? Che cos’è dunque che non va?
L’opinione comune più ricorrente è che prima di tutto ci sia un difetto di didattica della storia, ovvero che la causa principale sia da cercare in chi insegna la storia, e principalmente tra gli insegnanti delle scuole, soprattutto della fascia tra 14 e 19 anni, per non dire della capacità didattica della gran parte del corpo docente accademico. Dunque un tema è la formazione verso la didattica del corpo docente.
Un’altra opinione molto comune è la convinzione che l’insegnamento della storia in gran parte segua programmi che non sono capaci di sollevare l’interesse di un pubblico, perché difficilmente si immergono nel presente, o nel passato immediato, e dunque parlino di temi, di scene, di questioni lontane, incapace di coinvolgere. In breve una narrazione che non susciterebbe passione, emozione, coinvolgimento.
Per quanto sia convinto che in queste due spiegazioni ci sia del vero, tuttavia a me sembra che la crisi alluda ad altro, o almeno che per superarla occorra impegnarsi a trovare risposte su altre questioni che non sono solo la senescenza dei programmi (e dunque un dato burocratico, percui sarebbe sufficiente svecchiarli o renderli più agili) oppure produrre un corso di aggiornamento alla didattica per i docenti.
Il primo dato importante è che noi in Italia difettiamo di una capacità di saper narrare storia. Riguarda come pensiamo, progettiamo e costruiamo musei di storia, per esempio. Ma non solo. La misura su cui valutare questa incapacità è nella dimensione ridotta che dedichiamo ai percorsi e alle problematiche della Public History.
Public History non è né solo, né prevalentemente la divulgazione della storia, ma è quell’ambito disciplinare che si occupa di come rendere fruibile, interessante, motivante e soprattutto ricco di suggestioni l’insegnamento della storia. E contemporaneamente, è quella disciplina che si pone anche il problema di costruire format per la didattica della storia (pensando per esempio alla drammaturgia, alla rappresentazione scenografica, alla produzione di podcast, alla costruzione di kit didattici;...).
Si analizzi, tanto per fare un esempio, la produzione di materiali relativi al centenario della Prima guerra mondiale, che in questi anni, a partire dal 2014, ha coinvolto istituti, centri di ricerca, associazioni di giovani storici che si dedicano alla didattica alternativa, alla didattica “a distanza”, e si vedrà che il complesso delle attività, prime fra tutte le diverse modalità della comunicazione social con cui in realtà come Francia, Regno Unito, Germania, Spagna hanno sollevato e coinvolto docenti, studenti, segmenti non irrilevanti di società civile, “università della terza età”, realtà di formazione volte alla cura educativa di adolescenti di prima immigrazione, ovvero i nuovi e i futuri cittadini di domani, in Italia ha avuto scarso seguito.
La storia trasportata sul web è stata spesso lo stesso pacchetto di contenuti che veniva proposto nella didattica tradizionale. Comunque scarsamente lavorato. Il risultato è stato, prima ancora della noia, l’inutilità. Spesso una quantità di risorse investite nella costruzione di progetti la cui ricaduta è stata scarsa, comunque di scarso effetto.
E’ un ambito enorme che non riguarda solo la storia attuale, ma riguarda forse la storia che ha più successo (sia nei giochi on line che nella fiction) che è la storia medievale, da molti ritenuta anni fa un a storia “finita” di scarso interesse, ma che ha una sua stagione rinnovata ormai da tempo, ma su cui in Italia soffriamo, eccetto alcuni poli di eccellenza, di una scarsa diffusione di competenze, spesso perché la storia medievale è assorbita o assimilata a un’immagine, malintesa, di storia locale, di esaltazione del proprio territorio, di ricerca della propria tradizione folclorica, perché ossessionata dall’ansia di rimarcare e ribadire una identità, con scarsa propensione a pensarla come un modi diverso di raccontarla e di affrontarla come “storia mondo” con cui dobbiamo prendere la misura.
C’è un secondo aspetto della storia e della marginalizzazione della storia nella scuola che riguarda la riduzione delle ore dedicate alla storia nella ripartizione dei programmi e delle ore di insegnamento. Una questione che riguarda soprattutto gli istituti tecnici e professionali. L’effetto nel tempo medio-lungo (ma in questo caso parliamo di pochi anni) è quello di dare luogo a una conoscenza della storia rigidamente separata riproponendo la vecchia ripartizione tra scuole volte alla formazione per un mestiere e scuole destinate a definire un profilo culturale per le libere professioni. In un qualche modo la riproposizione del sistema scolastico proprio della prima metà del’900.
Come si risponde a questa scelta? Difficilmente si darà uno spazio ampliata o allargato alla storia negli istituti professionali, ma le ore di letteratura. Non si tratta di abbandonare la studio della letteratura, ma di proporre lo studio della letteratura come occasione di scavo nella storia.
Mi limito ad indicare alcuni testi del Novecento che di fatto hanno svolto questa funzione e che la possono svolgere anche in relazione ai vuoti di programma. Una questione privata di Beppe Fenoglio o L’orologio di Carlo Levi sono nei fatti due testi con cui poter discutere, raccontare, analizzare la Resistenza o l’inizio dell’Italia repubblicana. Ma lo stesso di potrebbe dire per Caro Michele di Natalia Ginzburg, se qualcuno avesse per davvero interesse a parlare di ’68 e di generazione ’68; di Buio a Mezzogiorno di Arthur Koestler se il tema fosse lo scavo negli anni bui dello stalinismo e di cosa sia stato il socialismo reale, di Niente di nuovo sul fronte occidentale di E. M. Remarque o di Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per parlare di Prima guerra mondiale. Senza dimenticare i film.
Di nuovo non per sostituire l’approfondimento di storia, ma per renderlo un momento di formazione in cui contano le risorse culturali, documentarie, che si propongono. Ma soprattutto per proporre un’idea di storia dove essenziali sono le domande e non tanto le risposte definitive che si danno. Perché lo studio della storia, che piaccia o no, non è trovare la risposta definitiva, avere l’ultima parola. Ma proporre domande, fare questioni, sapendo che dopo, arriveranno altri a proporre altri percorsi, altre questioni, spesso modificando strutturalmente l’ordine del racconto.
Il bravo storico è insomma uno che ha, al massimo la possibilità di proporre la penultima parola e di insegnare che appunto la avere la penultima parola non è un difetto, o una mancanza, ma è la consapevolezza che il dossier non è chiuso. Perché uno storico non è un giudice. E nemmeno un ideologo. Anche questo è, a suo modo, una funzione civile dell’insegnamento della storia. Forse non solo della storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DOMANDE AGLI STORICI... NON E’ IL CASO DI SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO E RISPONDERE "SENZA FARE LE SPALLUCCE"?!
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
La vicenda vera di un gruppo di studiosi di Varsavia che cercò di contrastare la supremazia della memoria nazista
Nel 1999 l’Unesco ha incluso l’archivio “Oyneg Shabes” (nome della compagnia dei 60 studiosi) nella “Memoria del Mondo”
di Federico Pontiggia (Il Fatto, 15.01.2019)
“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto - dice Kassow nel film - per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce - “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” - e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”.
Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.
Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio
di Andrea Santurbano (Alfabeta-2, 02 dicembre 2018)
La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento», ricorda Michel Foucault nel Pensiero del fuori, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero. Luciano di Samosata, che della civiltà greca ed ellenistica poteva ormai osservare l’epilogo dall’alto del II sec. d. C., può aggiustare il tiro: «giacché non ho a contar niente di vero [...], mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia».
Quanto mai opportuno, dunque, appare oggi, in epoca di fake news, recuperare un classico impolverato dal tempo, di Luciano appunto, Una storia vera e altre storie scelte da Alberto Savinio, libro apparso per la prima volta nel 1944, da Bompiani, e ora riproposto da Adelphi. E già, non poteva essere che Savinio l’artefice di tale riscoperta, in anni, tra l’altro, che lo vedevano impegnato nella stesura di articoli, poi riuniti in Nuova enciclopedia (opera anch’essa riproposta da Adelphi, lo scorso anno), in cui non manca di esprimersi al riguardo con la sua consueta, funambolica arguzia: «Il difetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutistici come di ogni condizione assolutistica, è il principio della ‘verità unica’. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità ‘vera’ è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero».
In realtà, è difficile distinguere a chi appartenga la paternità del volume: se Kafka, come vuole Borges, altro maestro di paradossi, avrebbe prodotto retroattivamente lo scrivano Bartleby, non è fuori luogo affermare che Savinio abbia prodotto retroattivamente questi scritti di Luciano. Ci si trova di fronte, infatti, a una lettura nella lettura: si legge Luciano ma si legge Savinio, che nell’introduzione lascia che sia lo stesso Luciano a raccontare la sua storia - questa sì, presumibilmente vera - alla maniera di un’«intervista impossibile».
E non bisogna dimenticare la modernissima traduzione di Luigi Settembrini, realizzata durante la prigionia sull’isola di Santo Stefano (1851-59) per cospirazione contro il regime borbonico (anni in cui - o forse più tardi, ma il discorso non cambia molto - il serio letterato scrisse, probabilmente suggestionato da questa stessa traduzione, la breve favola omoerotica dei Neoplatonici, rinvenuta solo nel 1937, che Croce avrebbe considerato una «caduta» del maestro e di cui invece Giorgio Manganelli accompagnerà con un memorabile scritto la prima edizione nel 1977). Savinio, nella nuova edizione, si premura appena di «rinettare» questa versione di pochissimi arcaismi, considerandola bella, fedele e minuziosa.
Ma si diceva, insomma, di una polifonia di fondo; di un dialogo a tre, neanche troppo tenero, spesso spassoso, in cui Settembrini fa più compuntamente da esegeta al testo, mentre Savinio, teppisticamente, usa le note da contrappunto, per vivaci commenti o per libere divagazioni. Ne è esempio il dialogo Il Menippo o la negromanzia, in cui Savinio apre le danze chiamando in causa Settembrini: «Nota, o lettore, il modo “filologico” col quale è usato qui l’aggettivo indifferente: è a simili finezze che si riconosce l’eccellenza di questa versione dal greco»; Luciano, da parte sua, si lancia in uno dei suoi contundenti attacchi: «manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, ché son tutte sciocchezze; e attendi solo a questo, usare bene del presente, passare ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla»; al che segue la pungente reazione di Savinio: «Peccato che questo dialogo così spiritoso finisca in una così povera morale. Questo purtroppo è il lato debole degli spiriti liberi: Luciano, Voltaire... Tra libertà di spirito e sciocchezza il passo è breve: troppo spesso gli spiriti liberi fanno il passo oltre il limite»; ma subito dopo Settembrini riporta la calma con una precisazione da par suo: «Livadia, città di Beozia, dov’era il tempio, anzi l’antro di Trofonio».
Proviamo per un attimo anche noi, allora, a riportare tutto sotto controllo. Una storia vera e altre storie si divide in due sezioni: «Dialoghi e saggi» e «Una storia vera e altre opere». Dei dialoghi soprattutto si sa quanto abbiano, e dichiaratamente, influenzato le Operette morali di Leopardi. Ma è tutta la silloge a rappresentare uno scrigno prezioso, a partire dal meraviglioso «trattatello storico-didascalico» Della dea Siria e dalla stessa Una storia vera, viaggio fintamente autobiografico che rivisita tradizione mitologica, storica e odeporica, tra battaglie interplanetarie fra Lunari e Solari (una sorta di Guerre Stellari ante litteram) e mesi vissuti nella pancia di una balena (Collodi, come Savinio suggerisce, doveva aver letto questa storia!). E poi l’incontro vis-à-vis, durante le peripezie marittime, con filosofi e personaggi di quel grande universo della cultura greca, fatta oggetto di ironia, ancorché venata di affetto, perché l’ironia, come puntualizza Savinio nell’introduzione, «- e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini - [...] è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso».
Quel che non smette di sorprendere in un autore come Luciano di Samosata, ancora oggi, sono tuttavia i tanti spunti, quella sorte di immagini dialettiche che continueranno a brillare nei secoli a venire in materia di critica letteraria o di rapporti tra storia e letteratura. Per esempio, in una Storia vera è già chiamata in causa l’«intenzionalità» dell’autore. A domanda specifica, «E perché cominciasti da quel Cantami l’ira?», Omero, fattosi personaggio e già satireggiato in altro passo, risponde: «Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo?». Verrebbe addirittura da chiedersi: ma chi scrive, Luciano o Savinio? O ancora, sul finale, giunge la stoccata agli storici, relegati in una specie di girone infernale: «le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, e altri molti».
Ancorché in forma di satira, dunque, è già messo sotto accusa lo statuto di verità della storia, prima di Marc Bloch, e prima dei vari Michel de Certeau, Roger Chartier e Carlo Ginzburg che finiscono col fare i conti con un dilemma evidente: l’esigenza di organizzarsi secondo un ordine diegetico, che muove evidentemente da categorie retoriche e narrative proprie della letteratura, la quale però non è obbligata a stringere compromessi con un’esigenza di veridicità, non farebbe anche della storia un «racconto»? Jacques Rancière non esita addirittura a reclamare un’esigenza opposta, quando afferma che «il reale deve essere reso finzione per poter essere pensato».
Anche in questo caso risulta complice, dunque, il dialogo Luciano-Savinio: provvedendo alla demolizione di rigide frontiere narrative, compreso quell’autobiografismo impastato anch’esso dall’ibridismo dei generi scritturali, che nel secondo (sarà bene ricordare, nato e cresciuto in Grecia) sfocerà in un continuo gioco di rimandi e dissimulazioni, di ricordi e libere associazioni (ri)creative: da Tragedia dell’infanzia a Dico a te, Clio, da Narrate, uomini, la vostra storia a Infanzia di Nivasio Dolcemare.
Discorso a parte meritano infine le illustrazioni di Savinio che impreziosiscono il volume. Quell’animismo metamorfico, suo marchio di fabbrica, che insuffla vita agli oggetti e rapprende gli esseri umani in forme materiche, animali o vegetali, trova nelle mirabolanti narrazioni di Luciano un terreno fertilissimo d’ispirazione. Insomma, nel rileggere questo libro si entra nel vivo di quell’idea di anacronismo suggerita da Georges Didi-Huberman: un palpitare, un metodo, un montaggio vivo e fecondo di tempi diversi, e non quel tremendo peccato inviso agli storici. Gli storici, già, ancora loro.
Tolstoj, "Guerra e pace" - e le leggi della storia *
“L’intelligenza umana non può comprendere la continuità assoluta del movimento. Le leggi di qualunque movimento non diventano comprensibili per l’uomo che al patto di esaminarne separatamente le unità di cui è composto. Ma al tempo stesso, dal fatto che si isolano arbitrariamente e si esaminano a parte le unità inseparabili del movimento continuo, derivano la maggior parte degli errori umani.
Una branca moderna della matematica, avendo raggiunto l’arte di trattare con l’infinitamente piccolo, può ora fornire soluzioni in altri problemi di moto più complessi, che sembravano essere insolubili.
Questa branca moderna della matematica, ignota agli antichi, trattando i problemi di moto ammette il concetto dell’infinitamente piccolo, e si conforma così alla condizione principale del moto (continuità assoluta) e in questo modo corregge l’inevitabile errore che la mente umana non può evitare quando tratta con elementi separati del moto invece che esaminare il moto continuo.
Nell’esame delle leggi del movimento storico avviene assolutamente la stessa cosa. Il movimento dell’umanità, prodotto da una quantità innumerevole di volontà umane, si compie senza interruzione. La comprensione di queste leggi è lo scopo della storia. Ma per capire le leggi del movimento continuo, la ragione umana ammette unità arbitrarie separate.
Il primo procedimento storico consiste nel prendere arbitrariamente una serie degli avvenimenti ininterrotti ed esaminarla separatamente dagli altri, quando non c’è e non può esserci inizio di alcun avvenimento.
Il secondo procedimento consiste nell’esaminare gli atti di un uomo, imperatore o condottiero, come la risultante delle volizioni degli uomini, mentre questa risultante non si esprime mai nell’attività di un personaggio storico preso isolatamente.
La scienza storica, evolvendosi, accetta sempre unità via via più piccole per le sue ricerche e, con questo, cerca di avvicinarsi alla verità. Ma per quanto piccole siano le unità di cui la storia si serve, il fatto di separare l’unità, di ammettere il cominciamento di un fenomeno qualunque, di vedere espresse dell’attività di un solo personaggio le volizioni di tutti gli uomini, questo fatto stesso, dico, lo contamina d’errore. Sotto il minimo sforzo della critica, ogni conclusione della storia cade in polvere e non lascia niente dietro di Sé, e ciò per il solo fatto che la critica sceglie per misura di osservazione un’unità più grande o più piccola - ciò che è suo diritto, poiché l’unità storica è sempre arbitraria.
Soltanto prendendo per nostra osservazione l’unità infinitamente piccola - le differenziali della storia, vale a dire le aspirazioni uniformi degli uomini - e acquistando l’arte di integrare (unire le somme di questi infinitamente piccoli) possiamo sperare di comprendere le leggi della storia”.
*
Lev Tolstoj, Guerra e pace, traduzione di A. S. Gladkov e A. M. Osimo, U. Mursia & C., Milano, 1956
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
COSTITUZIONE E INSEGNAMENTO....
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 25.01.2018)
La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai... insomma... la manovalanza... No! Ma tutti quelli che ordinano... che decidono... che intascano... affaristi, direttori, tutti giudei... completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”.
Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere?
Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza.
La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Heiner Müller, anatomia della differenza
di Massimo Palma *
Come si ferma la patologia della vendetta, come si esce da un’epidemia della mutilazione in cui tutti tagliano arti, recidono organi e versano lacrime assieme col sangue? Sembra chiedere questo Heiner Müller, quando nel 1984-85 - la perestrojka non è ancora all’orizzonte, la DDR itera annoiata la sua “tolleranza repressiva” in materia culturale - affronta il primo Shakespeare, che dal vortice grandguignolesco del teatro elisabettiano estrae una trama illeggibile, il Tito Andronico.
Protagonista finto di una storia vera - il declino di Roma, la progressiva commistione Romani-barbari, la contaminazione della romanitas in una koinè cupa e “incivile” -, Tito Andronico è il generale che ha sconfitto i Goti, portandosi in trionfo la regina per poi concederla al nuovo imperatore Saturnino. Questo non prima di averne squartato il figlio - come atto sacrificale, atto di pietas -, scatenando una sequela di vendette mutuata da Seneca e da Ovidio che attraverso frodi, stupri, mutilazioni inferte, richieste ed esaudite, porterà fino al pasto cannibalico, dove l’eroe eponimo s’improvvisa cuoco di pietanze umane per genitrice ignara.
Come sempre in Müller, la lezione del maestro Brecht è mandata a memoria e insieme modificata: i classici vengono rivisitati per consegnarli al presente, vengono tradotti, stravolti e integrati per farli rimare col proprio tempo. E se Shakespeare parla sempre anche della nostra barbarie, in Anatomia Tito - anatomia che fa il protagonista del corpo proprio e altrui, anatomia che fa Müller del testo altrui e proprio, perché «si assimila solo disintegrando dentro di sé l’oggetto della conoscenza», ammonisce il curatore Francesco Fiorentino nell’essenziale introduzione che restituisce alcune linee guida per addentrarsi nel labirinto mülleriano - si arriva al grado estremo di sopportabilità, un grado zero dell’umano che lascia trasudare, nella sua eco pulp, persino inattesi scatti comici.
Un testo autenticamente mostruoso già in Shakespeare, quindi, che Müller traduce, chiosa e dota di commenti d’inaudita profondità, riportati in maiuscoletto, che affondano nella trama per toglierle orpelli e aggiungere carne e materia, o prendono una distanza politica, letteraria, storica, dislocandone i temi nell’oggi o nell’altrove minerale o animale. E lettera e commento, in questa preziosa edizione italiana, appaiono illuminate da un ulteriore elemento d’eco e di rimando: immagini romane di oggi, foto scattate da Alejandro Gomez Tuddo, che risuonano superbamente nell’iconografia altrimenti solo immaginata del Tito.
Il metodo, nella follia dell’oggetto, è scritto nel titolo e nel verso finale - l’anatomia, lo smembramento, è il fondamento dell’analisi: «se gli strappate la pelle di dosso, lo conoscerete». Dissezionare il Tito Andronico per comprendere Shakespeare e insieme la caduta di Roma, l’osmosi barbari-romani e insieme la proiezione culturale verso il problema dell’altro che preme alle frontiere: ovvero, il problema del prossimo secolo, amava ripetere Müller citando Pasolini, sarà l’entrata del Terzo Mondo nel Primo.
Il grande protagonista del testo è quindi quello più inatteso. Oltre la spietata Tamora, oltre Tito, oltre Lavinia - “scultura” di donna dopo la violenza subita da quei “barbari” che però imitano la letteratura romana (“non è mai un documento di cultura senza essere un documento di barbarie”, il monito brechtiano-benjaminiano alla base di molte riflessioni a cuore aperto del commento) -, l’eroe è l’indemoniato Aronne, il villain che ha appreso l’alfabeto di Roma ed è male assoluto, teorico e pratico del supplizio inflitto agli altri e allo spettatore. E soprattutto Aronne, insieme Satana in terra e nero dal nome ebraico, nella lettura di Müller è anche il “regista di se stesso”, il Negro - contro ogni politicamente corretto - che vomita verità accanto alle atrocità. Il Terzo mondo che arriva nel Primo per minarne ogni finzione di convivenza, per velargli l’inimicizia come fondamento del politico (“il resto è politica”, asserisce Aronne canzonando l’Amleto), radicalizza il suo ciclo di lutti, ne rivela la legge, la costante: ecco “il plot del nostro dramma luttuoso / Il filo rosso è il sangue dei nemici”.
Non più tragedia, ma mero Trauerspiel affogato nell’immanenza, lo scenario di Tito è la fine di ogni altezza, di ogni trascendenza del giusto e del divino, è il cielo che si abbassa e piove sangue (“nevica monumenti”, sostiene Tito in una sinestesia totalizzante). In questo cielo basso, nell’atmosfera soffocante di una Roma in rovina e senza tempo, dove appaiono supermercati, televisioni e campi di calcio, si affollano sciami di mosche, che da elementi di paesaggio divengono protagoniste e simboli dell’itinerario di Tito nella vendetta.
Ma domina dunque solo la legge del taglione in questo recital della colpa ripetuta? Regna dunque solo la letteralità scabra dell’ occhio per occhio? Dov’è l’altro, rispetto a quel Carl Schmitt che Müller legge, compulsa e fruga - lui, famelico lettore di Sofocle e di Deleuze, ossessionato dal problema-Dostoevskij del male (assoluto, radicale, innocente)?
La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.
Mentre i primi due mondi stavano finendo di guardarsi come ostili, Müller scopriva, al di là del nemico a est e a ovest, l’incredibile pressione anche culturale di chi finora non ha visto e non sa, perché “vive e muore là sotto”. Mentre ancora Honecker si diceva sicuro che il Muro sarebbe durato cent’anni, in Anatomia Tito la questione migratoria albeggiava come continuazione di quella “differenza”-Shakespeare, di cui parla la densa “conferenza” che chiude il libro. “Il terrore che proviene dalle immagini riflesse di Shakespeare è l’eterno ritorno dell’identico”, spiega Müller a se stesso e a noi. La barbarie di ogni civiltà è lo sfruttamento. Ma Aronne che ne gode, che gode del suo raccontare il male inferto, è, problematicamente, la mosca di un’intera cultura che ronza per portare altrove. Verso quell’utopia cui l’arte allude - anche quando guarda all’inimicizia assoluta e sembra affondarvi.
Risposte a Heiner Müller, anatomia della differenza *
TEATRO E CINEMA. “Anatomia Titus Fall of Rome “, “Il Gladiatore” ...
== “QUINTO: Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto. MASSIMO: TU lo capiresti Quinto? IO LO CAPIREI?”* ==
IL GLADIATORE (Ridley Scott, 2000) è un film-saggio da rivedere-rileggere! Per una riflessione sulla caduta dell’impero romano-americano-occidentale, è da mettere in corrispondenza e in parallelo con il lavoro di Muller, “Anatomia Titus. Fall of Rome” - e con questa ipotesi di ‘lettura’ di Palma-Fiorentino (e la storica fondamentale riflessione di Gramsci, su “Romolo Augustolo” e sul “rinato Sacro Romano Impero”, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154)
MASSIMO HA CAPITO: SA GIA’ CHE I “BARBARI” COMBATTERANNO (PER LA LORO LIBERTA’ E PER LA LORO DIGNITA’) E STANNO APETTANDO LA LORO RISPOSTA.
MA QUINTO NO! Quinto non risponde (cfr: https://www.youtube.com/watch?v=yeZhxEJ-fkk): non capisce (e siamo all’Inizio del film, l’attimo prima di sapere se ci sarà o meno lo scontro tra romani e “barbari”), che cosa voleva dire Massimo: lo capisce solo alla fine (quando Commodo - nel duello con Massimo - chiede a Quinto un’altra spada, ma la sua richiesta viene rifiutata, sia da Quinto che dai pretoriani (“rinfoderate le spade”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=vznl3uX0DaU da lui comandati).
CHI COMPRENDE IL DISCORSO DI MASSIMO è un Africano, Juba. Alla fine del film, dopo la morte di Massimo, è proprio Juba (l’amico gladiatore, il cacciatore numida, memore della sua libertà e della sua dignità), la notte seguente, che fa ritorno nell’arena vuota, lo ricorda (“Adesso siamo liberi ... Io ti rincontrrò un giorno. Ma non ancora, non ancora”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=r-XgMTevoQ0), seppellisce le statuine della moglie e del figlio di Massimo, nella sabbia dell’arena, e si avvia verso l’uscita (ultima scena del film).
Heiner Müller, anatomia della differenza: “La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.”(M. Palma)
P. S.
***L’Europa non è l’unico luogo dove sia esistito l’illuminislmo(Amartya Sen)***
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di “una seconda rivoluzione copernicana” (CFR.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2962)
Federico La Sala
*
UNA RISPOSTA "SPECIALE C17": IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino *
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
*
LA COSCIENZA A POSTO. Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere (...)
MADDALENA SANTORO, ARNALDO MUSSOLINI, E I LIBRI DI STORIA:
SU ***NAZIONE INDIANA*** sotto il titolo di "Infanzia salentina" è stato ripreso il primo capitolo di un libro di grande interesse: Nicola Fanizza, Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare, Ediziioni Dal Sud, Bari 2016.
NON è CHE L’INIZIO! BENE! CONTINUARE LA LETTURA!!! E non fermarsi al primo "libro"! Nella
Il "carteggio" della seconda parte (pp. 109-154), è un altro "libro": le 32 lettere che Maddalena Santoro, invia, dal 1919 al 1938, all’amica di Mola di Bari, Caterina Tanzarella, sono dei documenti storici di grande rilevanza, per sapere di più e meglio sia di questa donna salentina, intellettuale e scrittrice, fedele a se stessa e alla sua amica (e alla sua famiglia), sia del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello" (che, se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 - cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini": http://www.corriere.it/solferino/montanelli/00-11-09/01.spm, non per questo deve continuare a restarvi).
Il coraggioso e originale lavoro di Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione storica sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile occasione per riprendere una "vecchia" indicazione di Luisa Passerini(in una sua relazione nel convegno a Bologna nel 1993, su "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio"): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico"(cfr.: AA.VV, "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506). E riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera!) con due occhi, non con un occhio solo!
DA NOTARE che in quello stesso Convegno (e si riconsideri il titolo e il tema) una - e dicesi: una! - sola volta è citato Arnaldo Mussolini e solo per problemi relativi al "connubio tra affari e politica" (op. cit., p. 133), e una e una sola volta (e proprio da Luisa Passerini) è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre sua e del "Grande Fratello", oggetto di "un culto molto ampio" durante il fascismo...
Federico La Sala
Una Risposta a Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato *
BRECHT E IL RITORNELLO DEI “TUI” DI IERI E DI OGGI. «Abbiamo appena salvato la cultura» ...
«Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso» (B. Brecht).
IN OMAGGIO A “L’ORMA”, A FRANCESCO FIORENTINO, E AD “ALFABETA2”, CONTRO UN MONDO CONCEPITO COME “IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE” DEL *MACROANTROPO* (“UOMO SUPREMO”, “SUPERUOMO”, “DOMINUS IESUS”), CON TUTTA LA SUA FILOSOFIA, TEOLOGIA POLITICA, E “ANDRO-PO-LOGIA” ATEA E DEVOTA.... ho ripreso in collegamento con LA RISATA DI KANT (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) la brillante recensione di Fiorentino e sottolineato con alcune note (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028#forum3119870) l’importanza del discorso di Brecht sul ritornello dei “TUI” di ieri e di oggi.
Federico La Sala (Alfabeta2, 15 gennaio 2017).
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato
di Francesco Fiorentino (alfapiù, 13 gennaio 2017)
«Abbiamo appena salvato la cultura», scrive Brecht a George Grosz dopo aver preso parte al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, che si tenne a Parigi nel giugno del 1935. «Ci abbiamo messo 4 (quattro) giorni, e abbiamo deciso di sacrificare tutto piuttosto che far morire la cultura. In caso di necessità di sacrificare anche 10-20 milioni di persone».
È l’ideologia della cultura che chiude gli occhi davanti ai crimini, che è essa stessa criminale perché collusiva con le condizioni economiche e sociali che rendevano possibile il nazismo. Portatore e beneficiario - ma anche vittima - di questa ideologia è il tui, come Brecht chiama ironicamente «l’intellettuale dell’epoca delle merci e dei mercati, il noleggiatore dell’intelletto». Su questa figura progetta di scrivere un Romanzo dei tui, cui lavora tra il 1930 e il 1942 senza concluderlo. Ora L’orma lo propone per la prima volta in italiano, insieme ad altri scritti - racconti, trattati, appunti, schizzi - che ne hanno accompagnato la stesura.
È un libro che contiene molti libri; che usa e mischia satira, parabola filosofica, aneddoto, barzelletta, aforisma, racconto. C’è una provocatoria riabilitazione satirica di un serial killer che macella le sue vittime per mangiarne o venderne la carne; c’è un gustosissimo trattato sull’arte del leccapiedi o uno sull’arte del coito, poi il frammento di un Epos dei tui, ma ci sono anche una serie di Storie dei tui, piccoli gioielli di scrittura popolare ad alta tensione dialettica; poi diverse pagine di appunti, lacerti di quel magma già depurato da cui nasce la scrittura tersa di Brecht. Ma soprattutto c’è il frammento del Romanzo dei tui: un tentativo di scrivere la storia della Repubblica di Weimar in forma di una grande satira sugli intellettuali ambientata in una Cima che serve a trasportare i fatti storici nella terra di uno straniamento parabolico.
La Repubblica di Weimar è rappresentata come «la grande era dei tui», che poi è l’epoca del loro grande tradimento della «rivoluzione degli operai e dei contadini». La satira di Brecht è dolorosa; è come alimentata da una rabbia divertita, da una rabbia che non si lascia piegare dal pessimismo. Ma in certi punti rivela un’origine traumatica, come quando dipinge con tratti quasi comici l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che è il grande choc per la sinistra tedesca, il fallimento della speranza di una rivoluzione comunista in Europa. Un altro trauma dissimulato satiricamente è l’elezione democratica di Hitler: «Che la prima applicazione della democrazia provochi la sua abrograzione; che il popolo liberato imponga la propria sottomissione, questo è il paradosso comico del libro». Paradosso comico e lancinante.
L’origine del nazismo sta nella democrazia di Weimar, in un ordine economico e sociale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La grande colpa dei tui è di non averlo riconosciuto e contestato; di aver preso partito per la cultura senza opporsi ai rapporti di proprietà ingiusti su cui essa si fonda. Solo un’illusione è la libertà della cultura: lo spirito può credersi libero finché le sue critiche sono innocue o magari si prestano a essere sfruttate per far profitti, per esempio dai giornali sui quali vengono formulate.
Il mercato è capace di assorbire e sfruttare anche chi lo contesta. Perché quelle contestazioni poggiano su basi sbagliate. Idealistiche. Brecht non si stanca di mettere alla berlina la collusività tra idealismo e mercificazione. Il tui è oggetto e soggetto di mercificazione: crede di esercitare la libertà di pensiero, ma in realtà vende il proprio intelletto facendosi complice di un sistema governato dalla produzione di mancanza.
Ne ha per tutti, Brecht. Anche per quelli che trattano il socialismo come merce e traggono profitto dalle loro opinioni «sulla pericolosità sociale del fatto che tutto ormai sia una merce». Sulla Scuola di Francoforte è fulminante: «Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso».
Un altro choc è l’esilio americano: l’esperienza di una florida industria culturale in cui davvero l’intelletto è sottomesso apertamente al ritmo e all’ordine della merce: «questo paese mi manda in fumo il mio Romanzo dei tui», appunta il 18 aprile 1942 nel suo Diario di lavoro. «Qui la vendita delle opinioni non la si può svelare. Perché se ne va in giro nuda». La realtà supera la satira e la rende superflua.
Non siamo lontani dall’attuale condizione neoliberale in cui l’intellettuale è costretto sempre più a farsi imprenditore di se stesso, impegnato soprattutto a autopubblicizzarsi, a trasformarsi in marchio riconoscibile capace di garantire per i prodotti del suo lavoro, i quali però sono sempre meno richiesti. Quale satira può essere all’altezza dei tanti lamenti sulla condizione del lavoro intellettuale in quest’epoca post-salariale? In quest’epoca in cui l’intellettuale è impegnato in un marketing del sé che va fino ai limiti dell’autosfruttamento, alla disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità da spendere su un mercato sempre più ristretto? Ogni critica è metabolizzata a priori, utilizzata anzi come alimento di un sistema in cui il controllo ideologico è ormai interiorizzato, automatizzato; e che perciò non ha più bisogno di intellettuali che forniscano giustificazioni dell’ingiustizia sociale o ammantino la violenza con una retorica della libertà.
Il romanzo dei tui suscita continuamente domande sulla possibilità di pensare la figura e la funzione dell’intellettuale al di fuori della logica della merce e dell’ideologia dell’inelluttabilità del mercato. La risposta che sembra prospettare Brecht, insieme a Benjamin, è l’utopia di un’espansione del «sapere sociale generale» (Marx) che facesse evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale. Svanirebbe allora la figura dell’intellettuale di professione, cioè di un individuo che mette a frutto il proprio intelletto nella competizione economica; svanirebbe per lasciar posto a un’intellettualità diffusa, anonima, non più legata a nomi, titoli, riconoscimenti. Quindi svincolata dalla doppia morsa della mercificazione e del narcisismo che sottrae all’intelletto la sua potenza critica. È un’utopia che la rivoluzione digitale sembra rendere una possibilità concreta: l’unica, forse, sulla quale potremmo e dovremmo puntare.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
“Il romanzo dei tui” uscito solo ora in Italia è una satira (attualissima) su chi vende idee e talento al miglior offerente
“Gli intellettuali da tre soldi smascherati da Brecht”
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 05/01/2017)
«Su larga scala la stupidità diventa invisibile», suggerisce Bertolt Brecht, e le sue parole risuonano più che mai concrete e pertinenti mentre galleggiamo negli oceani delle scemenze populiste. Quanto alla prassi del leccapiedi, che è sempre in auge, il sommo drammaturgo del Novecento tedesco la dipinge con cura irresistibile. Perché se è vero che di adulazioni è affollato
il mondo, l’arte del leccapiedismo esige allenamento e disciplina.
«Solo con l’esercizio ci si può elevare dalle bassezze della leccata corriva, e soltanto quando la perseveranza lascia il posto alla fantasia si diventa maestri», scrive. Aggiungendo che bisogna distinguere la più ovvia adulazione dal lecchinaggio artistico: il primo «è merce dozzinale e cicaleggio meccanico»; il secondo «produce espressioni originali e profondamente sentite: crea una forma».
Stiamo pescando citazioni da un libro di Brecht che piacerebbe da matti a Dario Fo: stessa satira sferzante e stessa rabbia giullaresca lanciata a sinistra del marxismo. S’intitola Il romanzo dei tui e lo ha appena pubblicato in Italia L’Orma editore. A questa raccolta di considerazioni e siparietti futuristici sull’opportunismo dei cosiddetti pensatori, Brecht lavorò dal 1931 al 1942, ben piantato nel proprio odio per tutti gli ideologi occidentali: da Hegel a Freud, da Marx a Lenin, dagli artisti partecipi dell’impresa mitica del Bauhaus fino agli accademici, ai ministri, ai rivoluzionari e ai poeti.
È una strage che non salva nessuno, proprio come le vignette schiacciasassi di Charlie Hebdo, irrispettose per principio con chiunque al di là di tendenze e colori. Collezionando ritratti, cronache mascherate e testi corrosivi in un florilegio di nomi storpiati, Brecht offre una messe di materiali acidi e inopportuni, curati nella versione italiana da Marco Federici Solari, abile nell’arricchire il “Roman” con appendici relative alla progettazione dell’opera e con un attento vocabolarietto dei termini e dei loro equivalenti.
Il bersaglio di Brecht sono le creature che non esitano, in ogni tempo e luogo, a prostituire l’ingegno, e sappiamo che il pianeta annovera una tale moltitudine di membri di questa categoria che il lettore, tuffandosi nella costellazione “tuistica”, si sente di continuo emergere sulla punta della lingua una miriade di esempi ritagliati dalla politica e dalla intellighenzia di ieri e oggi.
Nato dalla parola “intellettuale” (Brecht isola le inziali di “Tellekt-uell-in”), il “tui” è il noleggiatore dell’intelletto che ingrassa vendendo analisi e opinioni al miglior offerente. Muovendosi tra la storiografia comica e la parabola filosofica, l’epopea dei “tui” narra le sorti del Reich dal suo primo germinare fino agli apici del nazismo. La storia che dalla disfatta tedesca della prima guerra mondiale arriva all’ascesa di Hitler e all’esilio degli intellettuali passando attraverso la Repubblica di Weimar viene trasposta in “Cima” o in Cina, luogo focale corrispondente alla Germania. Grande territorio in cui tra l’altro dilaga biecamente la razza dei funzionari, dato che la burocrazia dell’impero ha inventato quel genere di “basso” intellettuale pronto ad affannarsi su astrazioni e scartoffie «sostituendo in corso d’opera il mezzo con il fine ».
Così, mentre da esule si aggira furente in una dozzina di paesi, l’autore di Mahagonny e de L’opera da tre soldi si sfoga identificando con il tema del «cattivo uso dell’intelletto » il fulcro della propria rivolta. Nemico della malafede dei cerebralisti di ogni risma, giunge a mettere alla berlina anche eventi tragici come l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ed è talmente perfido da descrivere, con sprezzo da comunista snob, «i cappellini inguardabili » della Luxemburg.
Paradossale è il tono roboante e impavido che vibra in ogni pagina dello pseudo- romanzo, dove il Führer diventa Gogher Gogh, il ministro della propaganda Goebbels si riconosce in un certo ridicolo Gobbelo e i riflettori della prosa, teatralmente, illuminano le gesta degli agiografi, dei pretestologi e dei reggicoda. Avventurandosi nell’etica “tuista” fin dalle radici, Brecht rievoca Kant, «il grande filosofo tuistico Ka-an», ricordato per la sua definizione del matrimonio come «unione di un uomo e una donna finalizzata alla cessione reciproca degli organi genitali». Il Papa è un grottesco capopopolo catalogato come “Tashi-Lama” che attraversa la Cima marciando a braccia aperte verso l’imperatore, e “Len”, che sarebbe Lenin, è un danneggiatore tarchiato e munito di barba caprina. Nei comportamenti pubblici e privati non esistono alternative al male dei pochi che si approfittano dell’idiozia dei molti. Ogni speranza di giustizia cade nell’irraggiungibilità di auspici buoni e onesti.
Il diario non è mai un apologo sul valore e l’efficacia del raziocinio, anzi: dal Romanzo dei tui è completamente assente il Brecht articolato e finissimo di Vita di Galileo, dove la forza cieca dell’ideologia viene attaccata in nome della ragione. Piuttosto qui s’alza la voce di un individuo folle di sdegno e soffocato dalle proprie risate, o dai propri singhiozzi espressionisti, di fronte allo spettacolo mostruoso del nazismo.
Sotto apparenze ludiche, leggiamo insomma una dichiarazione di assoluto e disperato isolamento. Solo in tal senso Brecht potrebbe somigliare al personaggio di Galileo, che davanti alla sconfitta impostagli dall’Inquisizione si ritira a riflettere in solitudine, abbandonato da tutti. Specialmente dai propri ideali.
Mieli, un viaggio nella Storia al servizio della verità
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore Napoletano, 23 Ottobre 2016)
La storiografia di professione dovrebbe tentare di ricostruire il passato sulla base di documenti e di testimonianze riscontrabili, con la dovuta autonomia e prendendo le giuste distanze dall’argomento oggetto della ricerca. Ma dalla notte dei tempi c’è chi fa un “uso pubblico della storia” (volendo utilizzare la definizione coniata nel 1986 dal filosofo tedesco Jürgen Habermas), per costruire consenso o veicolare la vulgata di comodo dello storytelling nazionale.
Da qualche anno Paolo Mieli, giornalista e storico, negli anni Settanta allievo di Renzo De Felice e Rosario Romeo, conduce una lodevole battaglia contro la mistificazione e l’alterazione degli eventi storici, con una rubrica molto seguita sul Corsera, trasmissioni televisive e saggi che fanno luce su episodi controversi della storia mondiale.
L’ultimo capitolo di questa sfida, appena uscito in libreria per i tipi della Rizzoli, s’intitola “In guerra con il passato. Le falsificazioni della Storia” (pp. 280), che fa seguito ad altri due volumi che toccano lo stesso tema, “L’arma della memoria” e “I conti con la Storia”.
La guerra a cui allude Mieli è quella alla verità storica, attraverso cui il passato viene piegato alle categorie e alle necessità del presente, spesso al servizio della classe dirigente di turno.
Un conflitto senza armi e non dichiarato ma ugualmente micidiale, che continua fino ai giorni nostri. Un’operazione destinata a provocare danni incalcolabili, “primo tra tutti quello di disarmare le generazioni che dovrebbero essere pronte ad affrontare le guerre, purtroppo non metaforiche, di oggi o di domani”.
In questo nuovo saggio Mieli compie un altro viaggio in 27 tappe lungo i secoli, dall’antica Roma al dopoguerra, e traendo spunto da opere storiografiche recenti, smonta alcune versioni ufficiali di momenti cruciali della storia occidentale, antica, medievale e moderna.
Ad esempio, siamo proprio sicuri che l’azione di Robespierre e il Terrore giacobino siano collegati agli ideali dell’Illuminismo?
L’idea secondo cui Robespierre e il Terrore “segnarono l’epilogo naturale della Rivoluzione”, venne teorizzata da monarchici, cattolici e rivoluzionari pentiti allo scopo di screditare le idee illuministe, facendo finta di ignorare che i filosofi ispiratori e protagonisti della rivoluzione del 1789 furono brutalmente mandati alla ghigliottina dall’Incorruttibile.
Con l’effetto perverso che quando l’Illuminismo venne rivalutato, lo fu anche la figura di Robespierre, al quale in Francia sono tuttora intitolate strade, scuole ed edifici.
Anche la lettura del Congresso di Vienna del 1814-1815 esclusivamente come momento di avvio della Restaurazione presenta qualche falla, perché in quel consesso fu cercato e trovato un “cauto consenso tra liberali moderati e conservatori riformisti” che consentì all’Europa di transitare verso il futuro.
Certe etichette cucite addosso ad alcuni personaggi meriterebbero una riflessione e in molti casi una revisione.
Carlo Magno fu davvero il padre dell’Europa?
Secondo Jacques le Goff la risposta è no, in quanto il suo progetto era quello di far rinascere l’antica civiltà romana, rianimandola grazie al cristianesimo.
Un’altra figura controversa è quella di Junipero Serra, il gesuita nato nel 1713 a Maiorca e che aveva evangelizzato la California, beatificato nel 1988 da Giovanni Paolo II e proclamato santo da Francesco nel settembre 2015, al termine del viaggio a Cuba.
Serra infatti secondo i rappresentanti delle tribù indigene utilizzò l’incarcerazione e la tortura per convertire al cristianesimo gli indiani della California, trasformando le missioni in campi di concentramento e causando la decimazione dei nativi.
Che dire di un grande intellettuale come George Byron che nel 1824, poco prima di morire, tenne un discorso alla House of Lords in difesa dei luddisti e della tesi secondo cui la rivoluzione indistriale avrebbe creato disoccupazione? Sbagliava clamorosamente.
Tra le pagine più interessanti in chiave italiana, quelle su D’Annunzio prigioniero di Mussolini, la vera trattativa su Stato e mafia e i primi scandali dell’Italia unita.
L’invito che arriva dal libro di Mieli è duplice. Ai lettori e agli appassionati di storia, la disponibilità a rivedere i propri giudizi sui fatti e sui personaggi, nella consapevolezza che spesso anche la parte “giusta” ha commesso atti riprovevoli e facendo attenzione a non cercare a tutti i costi negli eventi i retroscena delle posizioni politiche del presente.
E agli storici di professione di affrontare anche i temi più cari alla nostra memoria collettiva senza partigianeria e con “una buona dose di imperturbabilità”.
La reinvenzione della storia
Per capire il mondo meticcio serve un patto con l’antropologia
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 02.10.2016
Si chiama Labyrin-thé il sito «patrimoniale» che ho visitato l’estate scorsa, nel sud dell’isola di La Réunion, un dipartimento francese dell’Oceano Indiano, a qualche centinaio di chilometri a est del Madagascar. Situato a oltre mille metri di altitudine, il villaggio di Grand Coude che ospita il sito è disteso su una stretta ed aerea striscia di terra che, da una parte e dall’altra, strapiomba con falesie quasi verticali verso le parti più basse dell’isola. L’attrazione principale è un «labirinto» di sentieri di oltre un ettaro, ricavato in un fittissimo bosco di alberi di tè e boschetti di bambù. Il nome gioca ovviamente sulla presenza, nel termine francese labyrinthe , della parola the . Mentre le mie figlie si perdevano e ritrovavano nel labirinto, una guida ci portava in una vicina piantagione di gerani e in campi di tè ancora produttivi.
I primi esploratori di Grand Coude furono con tutta probabilità, a metà Ottocento, schiavi di origine africana fuggiti dalle sottostanti piantagioni di canna da zucchero - La Réunion ne è tuttora il maggior produttore europeo. A fine secolo alcuni coloni francesi costruirono le prime abitazioni permanenti, per sfruttare l’abbondante legname della foresta circostante.
Furono loro a introdurre, più tardi, la coltivazione del tè, in un periodo in cui la domanda europea era particolarmente forte e i prezzi elevati. Con l’apertura di colture e mercati asiatici, la piccola produzione locale di tè cadde tuttavia in declino e fu sostituita da quella di gerani per la distillazione di essenze base, destinate all’industria dei profumi. Poco dopo la metà del secolo scorso anche la coltivazione di gerani ebbe fine, per la concorrenza di essenze prodotte a minor costo in altre parti di mondo: Grand Coude sopravvisse come luogo di allevamento di bovini, per l’autoconsumo di carni e latte. Oggi, il turismo patrimoniale ed «etnico» offre un’occasione di riscatto e il fittissimo bosco di tè abbandonato e trasformato in labirinto, le residue piante di geranio profumato, gli alambicchi di rame in cui si ricavava la preziosa essenza dal fascino antico, attraggono i turisti di passaggio.
Grand Coude è un sito che piacerebbe a Serge Gruzinski, autore di Abbiamo ancora bisogno della storia? (Raffaello Cortina), perché consente di definire e articolare bene la sua nozione di «storia globale» (global o world history come dicono gli inglesi). A Grand Coude si incontrano perfettamente la storia globale e quella «nuova» antropologia che non teme di tornare in luoghi concepiti a lungo e in modo errato come «esotici» e «altri», e che si rivelano invece oggi profondamente intrecciati con la storia e i destini delle società europee. Luoghi in cui hanno preso forma società scaturite dall’incontro, dalla creatività e dal meticciato; luoghi modellati dalle forze dure e spesso violente del colonialismo e della globalizzazione, ma che hanno saputo a loro volta resistere e ridefinire i flussi e le correnti globali.
«Privilegiare una prospettiva globale significa concentrare l’attenzione sui rapporti che le società intrattengono tra loro, sulle articolazioni e sulle aggregazioni che costruiscono, ma anche sul modo in cui tali organizzazioni umane, economiche, sociali, religiose o politiche omogeneizzano il globo oppure resistono al movimento», scrive Gruzinski nel quinto capitolo, una sorta di manifesto per una storia globale.
Le stratificazioni che lo storico e l’antropologo colgono sull’isola di La Réunion ci riportano alle esplorazioni portoghesi del XVI secolo delle vie marittime per le Indie; all
Judaica
Rilettura femminista della Bibbia
di Giulio Busi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.05.2016)
È una porta stretta, quella del pensiero contemporaneo. E chi voglia oltrepassarla, deve spogliarsi di molti panni, antichi e nobili. Come fare a portare con sé fede e innocenza religiosa, anche oltre la soglia della ragione che tutto dubita? Tamara Ross è studiosa e filosofa, una voce importante nel femminismo ebraico di orientamento ortodosso.
Della pretesa degli storici d’essere oggettivi e imparziali ha fatto esperienza fin dai suoi studi accademici, negli Stati Uniti prima , e in Israele poi, dove insegna all’Università Bar Ilan di Tel Aviv.
Rispetto a cosa, vuol essere imparziale uno storico? Alla verità del passato, da ricostruire con il freddo metodo della scienza, o alla verità del presente, che come un mare in tempesta ci lambisce, a volte ci sommerge, quasi sempre c’impensierisce? E la fede, poi, che pretese conoscitive può mai avere, con le sue deboli prove fattuali, con quel credere, così tangibile nelle azioni e nelle parole e pure sfuggente nelle sue cause profonde.
Quando Mosè vuol preparare la sua gente alla rivelazione divina, sul Monte Sinai, mette in guardia il popolo: «Siate pronti fra tre giorni, non vi accostate a donna». Per una donna ebrea di oggi, che sia credente e viva il proprio ruolo con convinzione, quella separazione e tabuizzazione del femminile, proprio alle soglie della teofania, può essere frustrante e incomprensibile.
Ross, che credente e convinta interprete della tradizione lo è senza dubbio, ha cercato, in scritti importanti, di riflettere sullo statuto di immutabilità del testo sacro.
Se la Bibbia e la tradizione rabbinica attribuiscono alla donna un ruolo subalterno, e usano un linguaggio maschilista, dove s’annida l’errore? È l’interprete, che fraintende, o è il testo, che è come avviluppato in un mondo arcaico, paternalistico, discriminatorio?
Tamara Ross ha il dono di una prosa cauta ed equilibrata. E non ama le posizioni radicali. Chiede a se stessa e agli altri con tono educato, sebbene le domande siano gravi ed eloquenti. Se il linguaggio della rivelazione stride con la sensibilità contemporanea, a chi dar retta? Cosa rimane di divino, se ogni testo, anche quello biblico, può essere storicizzato, visto nei limiti dell’ambiente in cui è stato redatto? Molto, risponde la Ross, anzi tutto e un poco di più, ed è affermazione sorprendente quando ci saremmo aspettati un rifiuto o una critica distruttiva.
Il concetto cardine attorno a cui si muove questa rilettura femminista è quello di interpretazione cumulativa. La rivelazione non avviene una volta per tutte, in maniera definitiva, ma dipende e si sviluppa dalla comunità a cui è rivolta, la custodisce, la medita, l’approfondisce. In questo senso, l’apparizione sul Sinai è solo un inizio. E se quest’inizio parla la lingua della società patriarcale del Vicino oriente antico, tutto il lavorio delle generazioni successive, e di quelle attuali, è anch’esso parte costitutiva dell’incontro tra divino e umano.
Partita dalla questione femminile, la Ross giunge a considerazioni che abbracciano il più ampio problema dell’attualità del discorso religioso. Non è modificando il testo che si riscrive il giudaismo. Piuttosto, il giudaismo, di cui le donne fanno ora parte in maniera più consapevole, può impossessarsi sempre più profondamente della forza della Torah.
Come a dire, che il libro sacro, e il patrimonio delle usanze e della legge, non sono contenuti fissati per sempre, ma un’energia, che si libera in ogni generazione, nei modi plausibili e comprensibili per quell’epoca. Non sfugge come questa visione sia calibrata sul senso, tutto postmoderno, di una verità contestuale.
Religione, insomma, non come sistema chiuso ma come esperienza che si avvera nella sua intensità storica ed emotiva.
La porta stretta della ragione e della critica la si può varcare anche di slancio, conservando solo l’essenziale. Tamara Ross è convinta che per continuare a credere nel passato sia necessario cambiarlo, oggi.
"Non vogliamo fare i preti, solamente contare di più"
Parla suor Carmen Sammut, paladina della richiesta di diaconato femminile.
"Dal Papa una scossa alla Chiesa maschilista"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 14 maggio 2016)
CITTÀ DEL VATICANO. "Ma lei ha mai riflettuto sull’Ultima cena?".
In che senso, madre?
"Nelle raffigurazioni fatte anche da grandi artisti quasi mai ci sono donne. Le pare possibile? Una cena senza donne? Eppure questa visione di una comunità ecclesiale senza donne, di una Chiesa nei suoi vertici solo maschile, ci è entrata dentro, l’abbiamo interiorizzata. Credo sia arrivato il momento di liberarcene e di dare il giusto peso alla presenza femminile nella Chiesa". Suor Carmen Sammut, presidente della Uisg (Unione internazionale superiore generali), ha raccolto insieme ad altre sorelle le domande fatte ieri a Francesco. Minuta, occhi svegli, in una pausa dei lavori del raduno delle 800 religiose all’Hotel Ergife a Roma ammette: "In ogni caso, che botta!".
Come, scusi?
"La risposta di Francesco sul diaconato femminile, una bella botta salutare. È ora che della cosa s’inizi a parlare".
Se ne parla troppo poco?
"Beh, è evidente. Non solo la Chiesa a Roma, ma la Chiesa in tutto il mondo ha eluso il problema. Invece molte di noi sono chiamate a svolgere un servizio che nei fatti è già un diaconato. Per questo abbiamo posto la domanda al Papa: ci sembra giusto che il diaconato ci venga riconosciuto perché ci siamo rese conto che la gente a cui siamo mandate ci guarda così. Il diaconato in questo senso può portare molto frutto".
Diceva dell’ultima cena. Gesù come discepoli ha scelto dodici uomini...
"Sì, guardi, ma con le donne nei Vangeli ha fatto cose scandalose, mi si passi il termine, per quell’epoca. Si faceva avvicinare, potevano toccarlo, stargli vicino. Le sembra poco? Poi purtroppo è stata la Chiesa a dividere uomini e donne, una divisione disastrosa".
Un Papa, Albino Luciani, ha anche parlato di Dio come madre.
"Dio non è pensabile semplicemente come padre, come uomo. Lo Spirito, del resto, è sempre stato visto al femminile".
Che impressione ha avuto dal Papa, è favorevole al diaconato oppure no?
"Ci ha detto che anche per lui dovrebbero esserci più donne nei posti di comando della Chiesa. E che questi posti vanno sganciati dall’idea che possono occuparli soltanto dei preti. In virtù del nostro battesimo possiamo contribuire al momento decisionale della Chiesa stessa. Sarebbe un valore per tutti".
E sul diaconato?
"Intanto non ha eluso la domanda, che gli è stata fatta perché da diverse parti del mondo ci è stato chiesto di porla. Gli abbiamo inviato le domande prima e ha accettato di rispondere a tutte. Anche a una dedicata al denaro, che era stata espunta. In ogni caso, la disponibilità a studiare il diaconato è un passo importante. Non vogliamo fare i preti e nemmeno i vescovi, per carità, ma che venga riconosciuto il nostro diaconato come servizio perché è utile per la gente".
Perché ritiene le donne importanti per i processi decisionali della Chiesa?
"Noi donne abbiamo un’altra visuale sui problemi. Senza la nostra visuale le decisioni sono monche, manca loro una parte. Donne e uomini devono lavorare insieme".
La Chiesa è troppo maschile?
"Secondo me nei suoi vertici sì".
Al Sinodo avete avuto spazio?
"Beh, troppo poco. C’erano delle donne, ma poche. Ma davvero non credo che sia solo un problema di Roma. È un problema della Chiesa in generale. A un certo punto si è iniziato a fare così e questa usanza è divenuta prassi".
Il cardinale Piero Parolin ha detto che di per sé una donna potrebbe diventare Segretario di Stato.
"Segretario di Stato non lo so. Ma andare alla guida di dicasteri sì, certo. Francesco l’ha ribadito ieri: si devono separare le funzioni, i ruoli nella Chiesa dai "sacramenti". Dunque, una donna può essere messa in qualsiasi ruolo. E poi ha detto un’altra cosa molto forte".
Quale?
"Ha parlato del codice di diritto canonico. E ha spiegato che se una cosa è vietata dal codice non significa che debba rimanere vietata per sempre. Il codice racchiude delle leggi, ma le leggi si possono cambiare".
LA STORIA DI JUDITH, LA "SORELLA MERAVIGLIOSAMENTE DOTATA" DI SHAKESPEARE.
LA LEZIONE DI VIRGINIA WOOLF: *
* Virginia Woolf, "Una stanza tutta per sé", in: Romanzi e Altro, "I Meridiani" - Mondadori, pp. 761-763, e, pp. 831-833.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA.
L’ANTICIPAZIONE
Tucidide, l’esistenza segreta
Il mito di uno strano esilio
La premessa: leggi l’estratto
Una tesi originale nel nuovo libro di Luciano Canfora sul grande storico ateniese
di MAURO BONAZZI *
Ricorda la Vienna del Terzo uomo, il film di Orson Welles, l’Atene di cui scrive Luciano Canfora nel suo ultimo libro Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza). Una città nervosa, opaca, attraversata da tensioni e conflitti, in cui bisogna muoversi con attenzione. Non certo la «scuola dell’Ellade», esaltata da Pericle. Una città tutta politica, piuttosto, in cui anche quello di storico è un mestiere pericoloso: così si ricava dalle vicende di Tucidide (e Senofonte), che Canfora ricostruisce con il consueto piglio poliziesco, ritornando con nuovi argomenti sull’ipotesi sviluppata diversi anni fa.
Membro delle famiglie aristocratiche, Tucidide non aveva disdegnato l’impegno politico diretto: eletto stratego, aveva partecipato a diverse campagne militari durante il conflitto con Sparta, in particolare nella Grecia settentrionale, dove aveva interessi economici. Ed è lì che succede il misfatto, nel 424 a.C., quando il generale spartano Brasida riuscì a conquistare - «liberare», diceva lui - la strategica Amfipoli. Un grave perdita per Atene, che punì Tucidide con l’esilio. Ormai condannato all’inattività, il generale si sarebbe così dedicato (dove?) a scrivere del conflitto che aveva sconvolto la Grecia.
Intanto ad Atene muoveva i primi passi Senofonte, un altro oppositore della democrazia. Compromesso col famigerato governo dei Trenta Tiranni del 404, fu costretto a un esilio ventennale, come mercenario in Persia prima e poi come possidente terriero nel Peloponneso, dove a sua volta si mise a scrivere delle vicende greche. È una ricostruzione ben radicata tra gli studiosi. Ma non tutto torna.
Per Tucidide la storia è quella viva, del tempo presente: e lo storico è chi ha visto o ha potuto comunque parlare con i diretti interessati. Il racconto del colpo di Stato antidemocratico del 411 è esemplare. Tucidide sa: conosce i nomi dei promotori occulti che si muovevano nell’ombra, di cui invece il popolo era all’oscuro; rievoca le strategie segrete che puntavano a seminare il terrore nella città; addirittura sembra partecipare al processo intentato contro Antifonte (il personaggio forse più affascinante di questa vicenda - fu retore, filosofo, organizzatore del putsch, e tanto ci sarebbe ancora da dire). Dettagli eloquenti, che abbondano anche nel caso della catastrofica spedizione siciliana. Ma come avrebbe potuto raccoglierli Tucidide, se era in esilio? I Greci non andavano tanto per il sottile: un esiliato perdeva qualunque diritto; chiunque, incontrandolo in terra attica, avrebbe potuto ucciderlo. Difficile immaginarsi un Tucidide con barba e baffi finti che si aggira furtivo per le strade di Atene.
Quanto a Senofonte resta da chiarire perché la prima parte del suo libro, che inizia bruscamente proprio dove Tucidide ha interrotto (interrotto, si badi, non terminato), sia così simile al testo del suo predecessore... I dubbi aumentano, e con questi si fa strada l’esigenza di ricostruzioni più plausibili. E se Tucidide in esilio non ci fosse mai andato? E se Senofonte, che in esilio andò di sicuro e pure in modo precipitoso, avesse messo le mani su parte del materiale tucidideo? Ipotesi radicali, che avrebbero almeno il merito di rendere la storia più coerente. Oltreché più avvincente, quando si prova a ricostruire in che modo Senofonte è entrato in possesso di questi testi. Forse glieli diedero Tucidide stesso o la sua famiglia: provenivano pur sempre dallo stesso ambiente sociale. Ma non si può escludere che Senofonte se ne fosse appropriato dolosamente, come alcune fonti sembrano suggerire. Pare poi che Tucidide sia morto di morte violenta. Ci sono relazioni tra questi due fatti? Anni fa Canfora lo aveva suggerito; qui evoca la possibilità senza insistere. Di certo, tra colpi di Stato, omicidi e traffici illegali, l’Atene di Tucidide e Senofonte non ha nulla da invidiare alla Vienna del Terzo uomo.
Del resto, è proprio ad Atene che meglio si attaglia la battuta più celebre del film di Orson Welles. Nell’Italia dei Borgia ci furono guerre, terrore e omicidi: e fiorirono Michelangelo e Leonardo. In Svizzera ci furono cinquecento anni di amore fraterno: e fu prodotto l’orologio a cucù (e pazienza se, come gli svizzeri puntualizzarono prontamente, l’orologio a cucù non lo avevano inventato loro). Lo stesso vale per Atene, la città dei tradimenti, dove intanto operavano Sofocle, Socrate e Fidia. Che non si trattasse di una coincidenza è proprio la conclusione a cui arrivò Tucidide.
Studiare la storia serve per capire chi siamo: un desiderio che ci spinge ad agire per superare i limiti imposti dalla natura; un’inquietudine, un’incapacità di accontentarsi, che ha causato stragi efferate, ma anche la costruzione del Partenone. Le cause della nostra grandezza sono le cause della nostra miseria; bene e male sono inesorabilmente intricati. Leggere i classici, biasimava Thomas Hobbes, ha insegnato solo ribellioni e tumulti. Ma è traducendo la Guerra del Peloponneso che ha poi fondato la filosofia politica moderna. È una lezione su cui conviene meditare quella di Tucidide, lo storico sempre presente.
Quante storie per la Storia
La materia non è una successione di date e nomi ma il racconto del vissuto di donne e uomini
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.2.16
«Le teorie di Martin Lutero ottennero larga diffusione grazie all’invenzione della stampante». «I parlamentari risposero al fascismo con la recessione dell’Avellino». «La fine della Seconda guerra mondiale è stata determinata dallo sbarco in Lombardia». Gli strafalcioni - in questo caso, un florilegio di quelli raccolti all’esame di maturità del 2015 - stanno tutti lì, a portata di clic. E illustrano le dimensioni del problema. Ma non si tratta di ricominciare qui, una volta di più, il vecchio gioco al massacro. Il gioco paternalistico del bestiario, dove adulti che “sanno” registrano sia i vertiginosi abissi di ignoranza degli studenti d’oggidì, sia i picchi vertiginosi della loro fantasia, in una versione aggiornata e liceale dell’Io speriamo che me la cavo.
Piuttosto, si tratta di misurare la difficoltà in cui gli insegnanti si trovano (oggi come ieri, o forse più di ieri) nel veicolare un messaggio. Il messaggio che la Storia non è soltanto quella roba lì: una galleria di nomi più o meno altisonanti, e una successione di date da imparare a memoria. Il messaggio che la Storia è, semplicemente, la derivata di un rapporto: il rapporto fra passato e presente.
E che solo una familiarità con tale rapporto può conferire al vissuto dei ragazzi il suo giusto spessore. Sottraendoli all’esperienza ingannevole di un presente ultrapiatto. Svelando, nel loro presente di individui, le tracce di un passato condiviso. Facendo entrare in risonanza - nella loro testa, ma anche nel loro cuore - gli ultrasuoni della storia e i suoni della memoria.
Perché, nella scuola italiana di oggi, riesce così difficile trasmettere questo semplice messaggio? Perché i ragazzi delle superiori appaiono oggi tanto sordi agli ultrasuoni della Storia? E perché quegli stessi ragazzi risultano invece - non appena usciti dall’aula - consumatori addirittura voraci di Storia e di storie? Perché rigettano tutto del manuale scolastico, mentre al computer guardano e riguardano Troy, alla Playstation si divertono a colpi di Total War? Perché ignorano le fasi della Prima come della Seconda guerra mondiale, ma si passano di mano in mano l’una o l’altra graphic novel, si scaldano con il trisnonno di Gipi o con la nonna di Zerocalcare? Perché fanno circolare sui social la foto di copertina del romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro? Protetto dal suo cappuccio, un ragazzo guarda attraverso il finestrino di un treno e vede, dietro al disegno sul vetro di un emoticon irrisolto, l’ingresso di Auschwitz.
«“Figo, no?” “Figo cosa?” “Andare laggiù.” “Non lo so, Kappa. Sono appena arrivato, poi... vabbe’, non so.” “Oh, ti ricordi alle medie? Sembrava ci fosse solo Anna Frank”». Tratto dal libro di Greppi (un giovane storico che ha organizzato per anni i Treni della Memoria, e ne ha scritto adesso il romanzo di formazione), questo scambio vale a sottolineare i termini del problema. Alle medie, sembrava ci fosse solo Anna Frank. Perfino il documento sulla Shoah più parlante di tutti, e tanto più alle orecchie di lettori adolescenti, perfino quello rischia di rimanere, se letto a scuola, lettera morta. Anzi: soprattutto se letto a scuola. Perché il più delle volte - o sempre, per la maggior parte degli insegnanti - leggere significa studiare. Cioè ragionare e memorizzare, anziché partecipare e sentire. E il più delle volte - o sempre, per la maggior parte dei ragazzi - studiare significa staccare la spina.
Il problema è questo: la difficoltà in cui la scuola si trova nell’offrire ai ragazzi (come ha scritto Enrica Bricchetto, in quel luogo meritorio che è il sito didattico Historia Ludens) «proposte di senso». E anche - si vorrebbe aggiungere - proposte di sensi: una Storia da consumare là fuori con i sensi perennemente all’erta, l’udito e la vista, il tatto e l’olfatto, più che da recitare alla cattedra con voce stentorea, o da ruminare a testa bassa sbirciando i nomi e le date sul libro di testo.
Il problema è saper condividere con i ragazzi l’evidenza per cui il programma di Storia trabocca di «questioni sensibili», che variamente sollecitano, interpellano, lacerano la nostra attualità: dalle Crociate all’11 settembre, passando attraverso i Lumi o la Resistenza, il capitalismo o il comunismo, il crocifisso o il velo, la Controriforma o le foibe. E la vera sfida non consiste nell’evitarle, le questioni sensibili, in uno slalom del didatticamente corretto: la vera sfida consiste nell’esplorarle.
Così, l’insegnante civilmente motivato non avrà ragione di temere quello che un grande studioso francese del Novecento indicava come il peccato mortale dello storico di mestiere: l’anacronismo.
Al contrario, il buon insegnante farà bene a imparare da altri grandi storici del Novecento la pratica di un “anacronismo controllato”. Secondo il ragionevole principio per cui il passato può parlarci soprattutto se raggiunto attraverso un percorso a ritroso, se interrogato a partire dalle domande del presente. Qualunque cosa vogliano dirne - un giorno sì e l’altro pure - i sussiegosi cultori di un’archeologia del sapere, o gli immarcescibili l audatores temporis acti.
Adusi a criticare sempre e com unque le riforme scolastiche di biechi «pedagogisti», e le indicazioni ministeriali di famigerati «burocrati», i laudatori del buon tempo antico hanno elevato a bersaglio una didattica per «competenze» anziché per «conoscenze»: ne hanno fatto la ragione di tutti i mali, o di quasi tutti. Senonché, almeno per la didattica della Storia, una simile eziologia spiega poco o nulla. Come ha notato il gran maestro di Historia Ludens, Antonio Brusa, in Italia - a differenza che in altri sistemi educativi - i programmi di Storia sono rimasti incentrati (fortunatamente) sulle «conoscenze generali».
Senza lasciarsi confondere dalla falsa dialettica competenze vs conoscenze, il buon insegnante potrà scommettere
piuttosto - per coinvolgere i ragazzi - su un sostantivo plurale anziché singolare, e su una lettera minuscola anziché maiuscola. Potrà scegliere di muovere dalle storie per spiegare la Storia.
Cioè di muovere dagli uomini e dalle donne in carne e ossa, dalle persone prima ancora che dai personaggi. E dalle situazioni di vita, dai passati ignari del futuro, prima ancora che dalle svolte periodizzanti. Potrà cercare di raccontare Francesco, quando ancora non era diventato san Francesco. Di raccontare madame Curie, quando ancora si chiamava Maria Sk?odowska. Di raccontare Eichmann, quando ancora non era altro che Adolf Eichmann.
La storia scritta solo dai maschi
“Guerra e potere roba da uomini”
In Inghilterra sui 50 saggi più venduti appena quattro sono firmati da autrici donne. Le ricercatrici: “Lettori machisti, basta pregiudizi”
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 08.02.2016)
LONDRA LA STORIA, afferma un vecchio detto, è raccontata dai vincitori. Ma è altrettanto vero, sostiene qualcuno, che a scriverla sono più spesso gli uomini delle donne. Tra i cinquanta titoli di storia più venduti pubblicati l’anno scorso in Gran Bretagna, solo quattro hanno un autore di sesso femminile. È un caso, una tendenza, o una discriminazione? La questione riguarda la Gran Bretagna, ma non solo. E investe il ruolo che le donne hanno nella ricerca storica, un ruolo crescente negli ultimi decenni, come attestano pubblicazioni scientifiche e contributi accademici.
Tornando alla Gran Bretagna, il Guardian riassume la questione con una battuta: «Big books by blokes about battles». Alla lettera vuol dire: grossi libri di maschi su battaglie. Il senso è chiaro: la storia è fatta in buona parte di guerre, le guerre sono state combattute per millenni dagli uomini, dunque è inevitabile che siano gli uomini a narrarle, ricordarle, interpretarle.
Un po’ come dire che il calcio è uno sport per maschi e i giornalisti sportivi, guarda caso, sono maschi. Senonché il calcio non è più giocato soltanto dai maschi, e nemmeno le guerre sono una loro esclusiva: se oggi ci sono tante donne che scrivono di sport e tante che scrivono di guerra come reporter, perché non dovrebbero esserci più autrici di libri di storia?
Il quesito tocca un tasto dolente, come si ricava dal dibattito che ha suscitato nel Regno Unito. Mary Beard, docente di storia a Oxford, nota per i programmi tv che conduce sulla Bbc, il cui ultimo libro, Spqr, è stato per l’appunto uno dei best- seller del 2015, lamenta il machismo non solo e non tanto del mondo dell’editoria quanto dei lettori. «L’acquirente medio di libri si aspetta che le donne scrivano di problemi femminili, di questioni legate all’infanzia o alla sanità», dice al quotidiano. «Se non è un lettore informato, se non conosce l’autore o l’autrice, per istinto si rivolgerebbe a un maschio per un libro sulle guerre napoleoniche». Beard aggiunge che, quando riceve critiche alla sua ultima opera, gli uomini le rimproverano di avere dedicato troppo spazio all’ostetricia dell’antica Roma («non è vero», replica) e non abbastanza alle guerre puniche.
Insomma, sono gli stereotipi che danneggiano le donne come narratrici di storia. Antonia Fraser, autrice di quattro tomi sulla storia dell’Inghilterra, si è sentita criticare nella recensione di un collega (storico maschio) in questi termini: come poteva una donna comprendere i tormenti di uomo come Cromwell? Interrogativo in base al quale nessun uomo potrebbe comprendere i tormenti di Maria Antonietta. «Per conto mio non c’entra il sesso di chi scrive, c’entrano solo la qualità della ricerca e della scrittura», afferma Fraser. Lo storico della seconda guerra mondiale Antony Beevor (l’ultimo libro è sulla battaglie delle Ardenne) concorda: c’è un pregiudizio contro le donne che scrivono di storia, particolarmente la storia militare, sebbene alcune abbiamo dimostrato di saperlo fare meglio degli uomini, e cita in proposito Ivan’s war, il libro Caterine Merrydale sull’Armata Rossa. E lo storico Simon Schama ( La storia degli ebrei il suo ultimo titolo pubblicato in Italia) risponde con un lungo elenco di scrittrici di storia che comprende fra le altre Germaine Greer, Naomi Klein e Lisa Appignanesi: i libri di storia saranno anche “big books”, sottintende, ma ce ne sono tanti non scritti da “blokes” e che non trattano di “battles”.
BERTOLT BRECHT
Lode del dubbio *
Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola.
Leggete la storia e guardate
in fuga furiosa invincibili eserciti.
In ogni luogo
fortezze indistruttibili rovinano e
anche se innumerabile era l’armata salpando,
le navi che tornarono
le si poté contare.
Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta
e giunse una nave alla fine
dell’infinito mare.
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili!
Oh il coraggioso medico che cura
l’ammalato senza speranza!
Ma d’ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!
Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!
Quante vittime costò!
Com’era difficile accorgersi
che fosse così e non diverso!
Con un respiro di sollievo un giorno un uomo nel libro del sapere lo scrisse.
Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
ne vivranno e in quello vedranno un’eterna sapienza
e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce.
Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
gravemente cancella quella tesi.
Intronato dagli ordini, passato alla visita
d’idoneità da barbuti medici, ispezionato
da esseri raggianti di fregi d’oro, edificato
da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie un libro redatto da Iddio in persona,
erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
Veramente gli è difficile
dubitare di questo mondo.
Madido di sudore si curva l’uomo che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.
Ma sgobba madido di sudore anche l’uomo che la propria casa si costruisce.
Sono coloro che non riflettono, a non
dubitare mai. Splendida è la loro digestione,
infallibile il loro giudizio.
Non credono ai fatti, credono solo a se stessi.
Se occorre, tanto peggio per i fatti.
La pazienza che han con se stessi
è sconfinata. Gli argomenti
li odono con gli orecchi della spia.
Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. Con aria grave
mettono in guardia dall’acqua i passeggeri dl navi che affondano.
Sotto l’ascia dell’assassino
si chiedono se anch’egli non sia un uomo.
Dopo aver rilevato, mormorando,
che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto.
La loro attività consiste nell’oscillare.
Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliare ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta!
ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.
Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perché hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!
*
Bertolt Brecht->, Poesie e canzoni, Antologia dell’opera poetica di Bertolt Brecht, con una scelta di poesie postume. Versione di Ruth Leiser, e Franco Fortini. Prefazione di Franco Fortini, Torino 1961, pp.57-59 (corsivo finale, fls).
Bertolt Brecht: contro l’approvazione del mondo, poesie da leggere ad Atene
Una nuova antologia delle liriche, a cura di Alberto Asor Rosa, da Einaudi. Di nuovo, oggi, «quelli che stanno in alto si sono riuniti in una stanza»: questa semplice realtà restituisce Bertolt Brecht al tempo presente
di Marco Bascetta *
Del povero Bertolt Brecht ormai da tempo si sente poco parlare. Quasi fosse rimasto sepolto sotto ai calcinacci del muro di Berlino, edificato quattro anni dopo la sua morte, e alle macerie della tragica storia di cui quella cortina era stata tra i più lugubri risultati. Proprio lui che, nel 1953, allorché Walter Ulbricht decise di festeggiare il suo compleanno abbassando i salari operai e spingendo così i lavoratori berlinesi alla rivolta, aveva ironicamente pronosticato che se il governo non avesse sciolto il popolo per eleggerne un altro (La soluzione, pubblicata postuma nel ’64), lo «stato degli operai e dei contadini» sarebbe presto finito in malora.
A pochi anni dalla catastrofe del nazismo e del conflitto mondiale, in un paese ancora devastato e in bilico sulla frontiera della guerra fredda, non era facile indicare un «nemico di classe» che sventolasse falci, martelli e bandiere rosse.
Quando tra il ’36 e il ’37 il poeta di Augusta aveva scritto: «Quelli che stanno in alto / si sono riuniti in una stanza./ Uomo della strada / lascia ogni speranza», un rivoluzionario tedesco alle prese con gli sgherri di Hitler avrebbe faticato a immaginare che quella stanza avrebbe anche potuto essere quella del comitato centrale del Partito.
Fatto sta che nel terzo millennio die Oberen, quelli che stanno in alto, tornano a riunirsi nelle loro stanze, questa volta quelle della Bce, dell’Fmi e della Commissione europea, per togliere speranza e futuro a milioni di persone. Cosicché non ci sarebbe da stupirsi se Brecht dovesse ritrovare nell’Atene affamata dall’austerità nuovi appassionati lettori. Pochi ricordano che il termine Trojka, con cui oggi si designa la governance finanziaria, la sua arroganza e il suo piglio autoritario, fu coniato per indicare il terzetto (Breznev, Kossigin, Podgornj) che prese le redini dell’impero sovietico dopo la caduta di Kruscev. Talvolta la storia delle parole rivela parentele davvero poco presentabili quanto al comune odio per la democrazia.
Dunque il basso e l’alto, la distanza siderale tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra fame e abbondanza, tra sfruttati e sfruttatori, tra privilegio e deprivazione, tra egoismo e solidarietà, queste le opposizioni che attraversano tutta l’opera poetica e teatrale di Brecht, il suo «punto di vista», la sua presa di posizione partigiana, come sottolinea Alberto Asor Rosa nella introduzione a una nuova antologia della poesia brechtiana (Poesie politiche, pp. 294, euro 12,00) che torna in libreria per i tipi di Einaudi dopo un lungo e immeritato periodo di latenza.
Un punto di vista che restituisce senso alle parole e agli accadimenti. Quel «senso» che, scrive Asor Rosa, tra attori sociali e contesti completamente mutati, restituisce Brecht alla «contemporaneità». La scelta di campo tra quelle opposizioni per lungo tempo è stata associata con quanto, su per giù, più o meno e pressapoco abbiamo chiamato comunismo. E cosa questa parola avesse rappresentato dal 1848 fino a buona parte del Novecento per milioni di uomini e di donne, i versi di Brecht, proprio quelli più didascalici e militanti, ce lo spiegano nel modo più vivido e immediato. Nessuna sapiente ricostruzione storiografica ci riuscirebbe altrettanto bene. Di suo, poi, alla «lode del comunismo», Brecht aveva aggiunto quell’«elogio del dubbio», quell’invito a pensare con la propria testa che i regimi socialisti avrebbero provveduto a trasformare in un crimine.
Nel gergo della contemporaneità, dal movimento altermondialista agli indignados e occupy, da Syriza a Podemos, la sequenza di queste opposizioni continua a segnare l’esperienza dei più, ad alimentarne la rabbia e la percezione dell’ingiustizia subita. Ma le parole della rivoluzione comunista non sono più in grado di contenerla. Nemmeno la più generica e strapazzata «sinistra» lo è. Pablo Iglesias sostiene che sotto quelle bandiere non riuscirebbe a interloquire con qualcuno che ha avuto il nonno fucilato dai «rossi» durante la guerra civile e, dunque, se lo si vuole conquistare alla causa della giustizia sociale, bisognerà servirsi di altre parole. E la tendenza sembra dargli ragione. Brecht, tuttavia, avrebbe pensato che se lo era meritato, il nonno. Del resto l’uomo buono e leale (ma verso chi?), suggeriva di fucilarlo con un buon fucile davanti a un buon muro. La parte sbagliata era irrimediabilmente sbagliata. Lo è ancora, qualunque sia il nome che gli si voglia dare e comunque si intenda tutto annegare nelle ipocrite retoriche dell’unità nazionale.
Eppure li aveva descritti con più ironica commiserazione che con odio quelli caduti nell’inganno. Che, per fame, per frustrazione, per paura, per convenienza, dalla parte sbagliata si erano schierati: i vitelli in gioiosa marcia verso il mattatoio. Pochi hanno saputo descrivere l’ascesa del fascismo, il suo seguito popolare, l’opportunismo tacito che lo ha tollerato o blandito, come ha saputo fare Brecht: «Non sono ingiusto, ma nemmeno prode,/ quest’oggi il loro mondo mi han mostrato, / e quando ho visto il sangue sopra il dito, / ho detto, sì, lo trovo di mio gusto». È la prima strofa della Ballata sull’approvazione del mondo, nella quale possiamo leggere uno straordinario catalogo dei motivi di complicità con il fascismo, di meschina, inconsapevole cattiveria, di servile accondiscendenza verso il potere di turno. Catalogo al quale converrebbe prestare orecchio in un tempo in cui xenofobia e nazionalismo, politiche identitarie e nuove pulsioni autoritarie tornano a marciare in tutta Europa, anche se non indossano più la camicia bruna, ma quella verde o il doppiopetto.
In una delle poesie più belle e famose di Brecht, Del povero B.B., vi è un verso di sconfinata amarezza: «Sappiamo di essere effimeri / e dopo di noi verrà: nulla degno di nota». Potrebbe sembrare il testamento di un nichilista assoluto, la dichiarazione perentoria che ogni sforzo è vano, ogni prospettiva illusoria e, certamente, questo rispecchiava l’umore alquanto tetro del giovane poeta. Ma, se pensiamo all’intera umanità, quel cupo epitaffio potrebbe anche essere letto come una messa in guardia dall’autodistruzione, come consapevolezza del limite.
Tanto più che in un’altra stagione, esule in Danimarca mentre Hitler preparava la guerra, Brecht si sarebbe rivolto, invece, direttamente alla posterità, chiedendo indulgenza per i «tempi davvero oscuri» in cui aveva vissuto, quando «discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta il silenzio!» È questo il componimento, rivolto al futuro, che chiude l’antologia, descrivendo quel mondo feroce nel quale per riconquistare umanità anche i migliori con poca umanità erano stati costretti ad agire, quando «anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce».
Ma se decisamente «oscuri» furono quei tempi, dei nostri non può dirsi che siano poi tanto luminosi.
A meno di voler marciare chiassosamente nel terzo millennio con l’illusione che il Male sia rimasto per sempre racchiuso nel «secolo breve» e il migliore dei mondi possibili si riveli senza alternative al nostro sguardo. «La menzogna - scrive Asor Rosa - ha sostituito dalle nostre parti la violenza (dalle nostre parti, s’intende, perché altrove...) ed è diventata la nostra, usuale, quotidiana, forma di violenza».
E allora il povero B.B. e i suoi compagni meriterebbero qualcosa di più che la semplice indulgenza. Meritano attento ascolto. Del Pensiero nelle opere dei classici, scriveva il poeta militante: «Se si fa avanti imperioso così, / pure dimostra che senza chi ascolti esso è nulla / né sarebbe venuto né saprebbe / dove andare o restare / se non l’accogliessero».
In questi precisi termini, sottraendolo a quella venerazione disincarnata che aborrisce qualunque presa di posizione, possiamo senz’altro annoverare Bertholt Brecht tra i grandi classici.
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Come pensa la classe dominante
di Raúl Zibechi (Comune-info, 4 novembre 2014)
La crisi continua a rivelare tutto quello che nei periodi di normalità rimaneva celato. Anche i progetti strategici della classe dominante, il suo modo di vedere il mondo, la scommessa principale che fa per continuare a essere classe dominante. È questo, a grandi linee, il suo obiettivo centrale, quello al quale subordina tutto il resto, comprese le forme capitaliste di riproduzione dell’economia.
Si potrebbe pensare che la crisi sia appena una parentesi dopo la quale tutto continuerebbe, più o meno, come funzionava prima. Non è così. La crisi non è solo un rivelatore, ma il modo con il quale los de arriba, quelli che stanno in alto, stanno rimodellando il mondo. Perché la crisi è, in grande misura, provocata da loro per spostare o far scomparire ciò che limita i loro poteri. In sostanza, nel nostro continente (in senso generale l’América latina, ndt): i settori popolari, gli indigeni, i neri e i meticci.
D’altro canto, una crisi di questa portata (si tratta di un insieme di crisi che comprendono crisi/caos climatico, ambientale, sanitario e, quel che investe tutto, una crisi della civilizzazione occidentale) significa mutazioni più o meno profonde delle società, dei rapporti di forza e dei poli di potere nel mondo, in ogni regione e in ogni paese. Sembra necessario affrontare tre aspetti. Non esauriscono tutte le novità che presenta la crisi ma sono, a mio modo di vedere, quelli che possono maggiormente influenzare le strategie dei movimenti antisistemici.
In primo luogo, ciò che chiamiamo economia ha sofferto cambiamenti di fondo. Un quadro elaborato dall’economista Pavlina Tcherneva, sulla base degli studi sulla disuguaglianza di Thomas Piketty, rivela come sta funzionando il sistema dagli anni Settanta, la situazione si è aggravata con la crisi del 2008.
Il quadro abbraccia sessanta anni dell’economia statunitense, dal 1949 a oggi. Descrive poi di quale parte della crescita delle entrate si impadronisce il 10 per cento più ricco della popolazione, e quanto spetta al 90 per cento restante. Negli anni Cinquanta, per esempio, il 10 per cento ricco si appropriava di una quota tra il 20 e il 25 per cento delle nuove entrate annuali. Così funziona un’economia capitalista “normale”, con un’appropriazione maggiore del frutto del lavoro umano da parte degli imprenditori, quel che Marx chiamò plusvalore. È l’accumulazione di capitale per riproduzione allargata.
A partire dal 1970 si produce un importante cambiamento che diventa ben visibile negli anni Ottanta: il 10 per cento ricco della popolazione comincia a impadronirsi dell’80 per cento della ricchezza e il 90 per cento rimane appena con il 20 per cento di quello che si genera ogni anno. Questo periodo corrisponde all’egemonia del capitale finanziario, quello che David Harvey ha chiamato “accumulazione per espropriazione” o spoliazione.
Qualcosa di straordinario avviene però a partire dal 2001. I ricchi si tengono tutte le nuove entrate e, dal 2008, arraffano anche una parte di quello che aveva il 90 per cento in termini di risparmi o beni. Come chiamiamo questo modo di accumulazione? È un sistema che non è più capace di riprodurre le relazioni capitaliste perché consiste nella rapina. Il capitalismo estrae plusvalore e accumula ricchezza (anche per espropriazione), ma lo fa espandendo le relazioni capitaliste, per questo impiega lavoro salariato e non lavoro schiavistico (devo queste riflessioni a Gustavo Esteva, che le ha formulate nei giorni della scuoletta zapatista e in successivi scambi di opinioni).
È probabile che stiamo entrando in un sistema forse anche peggiore del capitalismo, una sorta di economia della rapina, più simile al modo in cui funzionano le mafie del narcotraffico che ai modelli imprenditoriali che abbiamo conosciuto nella maggior parte del XX secolo. È probabile, inoltre, che questo non sia stato pianificato dalla classe dominante, ma che sia il frutto della smisurata ricerca di profitti avvenuta nel periodo finanziario e dell’accumulazione per espropriazione, (un processo, ndt) che ha fatto nascere una generazione di avvoltoi/lupi incapaci di produrre niente altro che distruzione e morte intorno a sé.
In secondo luogo, il fatto che il sistema funzioni in questo modo fa sì che quelli in alto abbiano deciso di salvarsi a spese dell’intera umanità. In un qualche momento devono aver cancellato ogni sentimento nei confronti degli altri esseri umani e sono disposti a provocare un’ecatombe demografica, come suggerisce il quadro menzionato. Vogliono tutto.
Per questa ragione, la forma in cui sta funzionando il sistema è più appropriato definirla “quarta guerra mondiale” (come ha fatto il subcomandante insurgente Marcos) che “accumulazione per espropriazione”, perché l’obiettivo è l’umanità intera. Sembra che la classe dominante abbia deciso che con l’attuale grado di sviluppo tecnologico possa prescindere dal lavoro salariato che genera ricchezza, e che per i suoi prodotti non dipenda più dai consumatori poveri. Al di là del fatto che questo possa essere un delirio indotto dalla superbia, sembra evidente che quelli in alto non sono intenzionati a mettere ordine nel mondo secondo i loro vecchi interessi, bensì a creare regioni intere (e a volte continenti) dove regna il caos assoluto (come tende ad accadere in Medio Oriente) e altre di assoluta sicurezza (come in alcune zone degli Stati Uniti e dell’Europa, e nei quartieri ricchi di ogni paese).
Insomma, quelli in alto hanno rinunciato all’idea di “una” società, un’idea che viene sostituita dall’immagine del campo di concentramento.
In terzo luogo, questo ha enormi ripercussioni per la politica di quelli in basso. La democrazia è solo un’arma che si può scagliare contro i nemici geopolitici (iniziando da Russia e Cina) e che non si applica ai regimi amici (Arabia Saudita), ma non è più il sistema al quale una volta veniva concessa una qualche credibilità. La stesso vale per lo Stato-nazione, ormai solo un ostacolo da superare, come dimostrano gli attacchi in Siria che violano la sovranità nazionale.
Non ci rimane altra strada che organizzare il nostro mondo, nei nostri spazi/territori, con la nostra salute, la nostra educazione e la nostra autonomia alimentare. Con i nostri poteri per prendere decisioni e farle rispettare. Ossia, con nostre stesse istituzioni di autodifesa. Senza dipendere da quelle statali.
fonte: la Jornada
Traduzione per Comune-info: m.c.
A lezione dalla storia per imparare chi siamo
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 27 gennaio 2013)
Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un’affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l’appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos’è mai la storia?».
Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.
Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un’idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.
Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell’altro ieri.
Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.
Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.
È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l’appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell’Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l’umanità. È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.
Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall’altro lato, il senso dell’individuo e dell’individualità si presenta molto più forte. In tali casi l’esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.
Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell’individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l’esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.
Una domanda nella quale non si è mai spenta l’antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.
Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.
Esce da Elliot «Chi ha cucinato l’ultima cena?».
Le vicende dell’umanità dall’altro punto di vista
Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 03.03.2009)
Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l’ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell’Università di Coventry. Ovvio che risposta non l’ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent’anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l’ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l’autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po’ più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L’autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all’incirca all’età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto - come da sempre illustrano i libri di scuola - chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell’attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui.
Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l’immagine dell’antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è - quasi - mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso - per sempre - le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero - non i singoli ma le intere popolazioni - il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d’un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell’embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l’incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall’una all’altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l’autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant’Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l’uomo soltanto è l’immagine di Dio». Quello musulmano - si sa - fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele». Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.
Dittatura
di Giovanni Sarubbi
Non c’è un vaccino per il fascismo, non c’è un vaccino per la dittatura. E’ quello che stiamo imparando in questi tempi con la riproposizione di leggi e costumi in voga durante il periodo fascista. Ma sbaglia chi pensa che si possa risolvere tutto sconfiggendo il dittatore di turno, comunque si chiami. Non è mai stato così e non lo è neppure ora.
Quando si parla di dittatura si pensa immediatamente al dittatore che quella dittatura ha impersonificato: Mussolini per il fascismo, Hitler per il nazismo, Franco per il franchismo, solo per citare i più noti. Ma una lettura attenta della storia di quei periodi dimostra inequivocabilmente che questi personaggi sono stati solo il punto di raccordo di tutta una serie di forze economiche e sociali che li hanno sostenuti, finanziati, appoggiati in ogni modo possibile. Non sarebbe stato possibile il fascismo in Italia o il nazismo in Germania senza l’appoggio delle grandi imprese capitalistiche dei rispettivi paesi.
Oggi è la stessa cosa. Berlusconi svolge la funzione di colui che attira su di se l’attenzione, con le sue gaffe internazionali, con il gossip sulle sue capacità amatorie o sulla sua “immortalità”, con le barzellette, con le leggi ad personam, con l’aurea di imprenditore di successo. Ma tutto ciò serve a coprire e a sostenere la dittatura di una classe, quella capitalista, sul resto della popolazione.
Nelle dittature ci sono sempre eliminazione della libertà di stampa, repressione violenta delle opposizioni politiche, razzismo e squadracce punitive, persecuzioni religiose. Scriveva Primo Levi che “Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando e distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti sottili modi la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine”.
Ma tutte queste cose non sono che il condimento, il brodo di coltura, di una realtà sociale che vede una classe imporre alle altre il proprio volere innanzitutto economico e per fare questo essa usa il potere politico, quello militare e quasi sempre quello di una religione compiacente e subalterna.
La dittatura in Italia si manifesta principalmente nelle brutali condizioni di lavoro che sono imposte ai lavoratori che nell’arco di un ventennio si sono visti privare di ogni diritto e derubare anche del salario che non è più in grado di garantirgli, come prescrive la nostra Costituzione, una esistenza libera e dignitosa.
La dittatura si manifesta nei licenziamenti di massa che stiamo vivendo in questi mesi, nelle truffe finanziarie diffuse e gestite da chi occupa posti di responsabilità nella finanza internazionale, nell’aiuto che gli Stati stanno concedendo proprio a questi truffatori che continuano ad essere impuniti, nell’inquinamento che le industrie del nord Italia hanno imposto a regioni come la Campania, che è diventata una immensa discarica a cielo aperto, nella messa in discussione delle pensioni o del potere di acquisto dei lavoratori. La violenza squadristica, il razzismo, la persecuzione antireligiosa hanno lo scopo di garantire questo stato di cose. Di questo bisogna prendere coscienza.
Noi, lo diciamo chiaramente, siamo contro la dittatura, e, a scanso di equivoci, diciamo che siamo contro qualsiasi dittatura. Non accettiamo che qualcuno possa imporre al resto della popolazione i propri interessi esclusivi. L’umanità è unica, le persone nascono tutte eguali, tutte hanno diritto a vivere dignitosamente, nessuno singolarmente o a gruppi può appropriarsi delle ricchezze naturali o del lavoro di altri, o distruggere l’unico pianeta sul quale viviamo.
Siamo decisamente contro tutti i sistemi sociali che consentono lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che impediscono alle persone di riconoscersi fratelli e sorelle negando una vita piena e gioiosa per tutti/e.
Siamo decisamente contro l’appropriazione privata delle ricchezze sociali e la socializzazione delle perdite che in questi anni e negli ultimi mesi in particolare è diventata la costante della nostra società, sia a livello nazionale che internazionale. Non è questo quello che è scritto nella nostra Costituzione che non prevede l’oppressione di una classe sulle altre mettendo il lavoro, e non il suo sfruttamento forsennato, a fondamento della nostra Repubblica.
Come sconfiggere la dittatura? Noi pensiamo che ci sia bisogno di denunciare inequivocabilmente il suo essere l’oppressione di una classe sociale precisa, nel nostro caso quella capitalistica, ai danni del resto della società.
Qualcuno ci chiamerà vetero comunisti, ma per noi è solo ciò che è scritto nei Vangeli.
Giovanni Sarubbi