1. Diana Napoli: Marc Bloch, o delle virtù della storia
2. Diana Napoli: Un profilo di Marc Bloch
3. Et coetera *
1. DIANA NAPOLI: MARC BLOCH, O DELLE VIRTU’ DELLA STORIA
Marc Bloch, insigne medievista, scrisse tra il 1941 e il 1943, anno in cui decise di entrare in clandestinita’ affiliandosi al movimento della Resistenza Franc-Tireur, un testo sulla storia dal titolo Apologia della storia o mestiere di storico e il cui senso, al di la’ delle indicazioni metodologiche o delle riflessioni preziosissime sul "laboratorio" dello storico, e’ ben riassunto dall’incipit: "Papa’, spiegami allora a cosa serve la storia".
Questa domanda, apparentemente banale, non e’ solo un modo particolarmente accattivante attraverso cui l’erudito si mette in discussione in presenza del pubblico dei lettori, professionisti come lui o semplici appassionati della materia. Si tratta infatti di una domanda tragica che si pone lo storico Marc Bloch, storico e cittadino francese, ad armistizio firmato, dopo non solo una disastrosa campagna militare (la drole de guerre) e il dissesto della Francia, ma soprattutto dopo un decennio di progressiva disgregazione della societa’ francese e di crisi della democrazia che egli, al pari di tanti altri studiosi, uomini di cultura, intellettuali, non aveva esitato a definire come una crisi di civilta’, e piu’ precisamente della civilta’ europea. E, non da ultimo, dopo due interi decenni in cui egli aveva costantemente ribadito quanto la storia potesse essere strumento efficace per condurre l’azione, grazie a virtu’ che le erano proprie e che, convenientemente insegnate, avrebbero permesso, come lui stesso si esprime, all’incontro tra le realta’ umane di essere fraterno.
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Febvre, aveva fondato nel 1929, dall’universita’ di Strasburgo in cui insegnava, la rivista "Annales d’histoire economique et sociale". Rispetto alla scuola (dato che poi lo e’ diventata) delle "Annales", si e’ molto insistito sulle novita’ metodologiche che hanno consentito un allargamento del campo di indagine della storia, fino ad allora ristretta generalmente al dominio propriamente politico-diplomatico o all’affresco biografico-psicologico.
Bloch inizia ad utilizzare i metodi della sociologia, insieme a Febvre smonta la rigidita’ delle periodizzazioni, rende estremamente fecondo il dialogo con la geografia, difende il metodo comparativo come metodo privilegiato d’indagine e tuttavia non e’ verosimile attribuire solo a queste "invenzioni" in se’ (o alla ripresa di intuizioni di qualche precedente maestro, come Fustel) il successo che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ha arriso alle "Annales".
La fortuna e la fecondita’ dell’insegnamento di Bloch si devono soprattutto a due ordini di idee (invero collegate): il primo riguarda la convinzione, da lui espressa in piu’ sedi, che la storia dovesse indagare la "realta’ umana", perche’ suo principale obiettivo era capire i bisogni dell’uomo, bisogni che non avrebbero potuto certo essere colti osservandolo solo nella contingenza; il secondo afferisce alla capacita’ propria della storia di comprendere, di discernere il vero dal falso, di insegnare lo spirito critico, vera "pulizia dell’intelligenza" e quindi di permettere, finalmente, di orientare l’azione.
Scriveva ad esempio nel 1931, rispetto ad uno dei temi scottanti del periodo, il comunismo: "[tra] i potenti gruppi interessati a combattere il comunismo, ve n’e’ qualcuno che abbia avuto l’idea di studiare anzitutto obiettivamente questo movimento, che, prima di tutto, e’ un fatto? La dottrina o i miti sono semplici e chiari. Ma gli elementi umani, e i bisogno profondi, piu’ o meno inconsci, lo sono meno...
Ora, questo gusto per l’analisi umana, a grandi linee, cosi’ necessario all’azione, da dove attingerlo se non dalla storia - convenientemente compresa e insegnata?" (M. Bloch, Cultura storica e azione economica, "Ahes", 1931, IX, pp. 1-4, articolo ripreso in Storia e storici, testi riuniti a cura di Etienne Bloch, Einaudi, Torino 1997, p. 33).
E le "Annales", organo ne’ di una scuola ne’ di un partito, dirette da un medievista e un modernista, si occupavano infatti principalmente di storia contemporanea, cui fino alla seconda guerra mondiale vennero dedicati piu’ della meta’ degli articoli, trattando tutte le questioni all’ordine del giorno della politica e dell’economia: la grande depressione, il New Deal, i pieni quinquennali sovietici... E’ vero che in questo senso la ragion d’essere della rivista era essenzialmente politica: rivendicare il valore politico della disciplina storica che aveva senso solo se riusciva, al riparo dalle ingerenze delle ideologie, condotta la ricerca da storici di professione (piuttosto somiglianti, anche se mai lo avrebbero detto i due storici in questione, al "clerc" di Benda che ricerca giustizia e verita’ e che l’autore della Trahison aveva ritrovato, per esempio, nella purezza dell’azione di Zola), a contribuire alla coscienza politica della societa’: l’erudizione fine a se stessa, illuminante solo angusti archivi di documenti ammassati secondo l’ordine casuale del tempo, era il contrario della storia, sempre in cerca del "vivente" come, parafrasando le parole dello stesso Bloch, l’orco laddove sente odore di carne umana.
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Tuttavia, proporre un ruolo politico (nel senso etimologico) della storia, considerata in questi termini, non era in se’ una novita’, anzi si trattava di una tendenza tipica della storiografia francese per cui, almeno dai tempi di Bossuet, storia, memoria, politica e Nazione tendevano a coincidere in un tentativo sempre grandioso (basti anche solo pensare ad alcune pagine di Michelet) di delineare, trovare, cercare "la Francia". E, in effetti, nemmeno Bloch si sottrae al compito di spiegare e mostrare l’identita’ della Nazione. Quello che in Bloch, nondimeno, costituisce una piacevole sorpresa e un insegnamento ogni volta da imparare (ogni volta che si pensa alla storia), e’ la capacita’ di ritrovare, dietro le linee degli avvenimenti, la famigerata "realta’ umana", gli uomini con le loro necessita’, dietro le alleanze elettorali le speranze, se si tratta delle "foules" (come scrisse riferendosi al Fronte Popolare), di migliori condizioni di vita, dietro un trattato, un giuramento, una "carta" dell’epoca feudale, addirittura il "germe" della democrazia europea, l’idea di reciprocita’ del potere e il diritto di resistenza da far valere ancora, dopo secoli, nel 1939 (si tratta della conclusione de La societe’ feodale, pubblicata nel 1939-’40, in cui scrive relativamente al diritto di resistenza e alla reciprocita’ del potere: "Con cio’, per quanto duro sia stato tale regime [il feudalesimo] con gli umili, esso ha veramente lasciato in retaggio alle nostre civilta’ qualcosa di cui desideriamo ancora vivere").
Contribuire alla coscienza politica della societa’ significava insegnare e diffondere questo gusto, di cui aveva parlato, dell’analisi umana e non nutrire vanagloriosi sogni anacronistici o rinforzare la causa nazionale con uno sciovinismo a basso costo, come pure negli anni precedenti gli storici avevano fatto, scambiando l’emergenza nazionale per la causa cui la storia avrebbe dovuto, anima e corpo, votarsi: durante la prima guerra mondiale (e questo Bloch lo depreco’ piu’ volte nel corso della sua opera) gli storici avevano ceduto anch’essi alla causa dell’Union Sacree ed avevano baldanzosamente scritto delle "storie" in cui lo sviluppo delle vicende europee si svolgeva, fin dai tempi di Vercingetorige, sulla falsariga dello scontro tra i dispotici e militaristi e aberranti tedeschi e gli illuminati francesi faro dell’umanita’. Lucien Febvre, inaugurando la ripresa del ciclo accademico a Strasburgo, nell’Alsazia riconquistata, aveva dovuto iniziare la sua lezione con le parole: "Jamais l’histoire serve".
Gli storici, per Bloch, dovevano si’ porsi all’interno della societa’, "en signe de guerre", come aveva annotato in un carnet durante il primo conflitto mondiale riportando una frase di Renan ("Ce qu’on dit des paisibles etudes et des temples sereins de la science est un honnete lieu commun. Non, nous sommes poses en signe de guerre, et la paix n’est pas notre sort"; la citazione si trova in un carnet ancora inedito concessomi gentilmente dal professor Massimo Mastrogregori), ma per diffondere le "virtu’" della storia senza mettersi al servizio di una causa politica specifica.
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In verita’ poi lo stesso Bloch, con piu’ o meno successo, cerchera’ delle forme di intervento politico piu’ dirette, non perche’ col tempo venisse meno (questo non accadra’ mai) la sua fiducia verso questa forma cosi’ particolare di intendere il valore politico del mestiere di storico, ma perche’ piu’ volte gli eventi nel corso degli anni Trenta lo indussero quantomeno a pensare un impegno piu’ esplicito e immediato di quello che poteva essere condotto con le armi della storia. Senza addentrarci nelle riflessioni blochiane sulla politica francese (di cui precisa e documentata testimonianza e’ costituita sia dalla corrispondenza con Febvre - M. Bloch et L. Febvre, Correspondance, 3 tomes, Paris, Fayard, 1994-2003 - sia dall’opera La strana disfatta), si puo’ tracciare una linea, non diritta e non senza tentennamenti, che va dalla firma nel 1934 del manifesto che segno’ la nascita del Cvia (benche’ Bloch opponesse numerose e fondate riserve sulle analisi condotte dalla sinistra francese relativamente ai fatti del febbraio 1934 che videro un tentativo, fallito a meta’, di colpo di Stato), al rifiuto di presenziare in Austria, dopo l’Anschluss e proprio a causa della politica nazista, ad una cerimonia in onore di un collega, pur stimato, al numero speciale delle "Annales" dedicato al nazismo nel 1937, alla possibilita’, poi non realizzatasi, di candidarsi nel 1938 alla direzione dell’Ecole Normale Superieure, per accedere ad una posizione da cui indicare delle linee politiche chiare, alla decisione di arruolarsi, pur potendo essere esonerato, allo scoppio della seconda guerra mondiale (tra l’altro Bloch era stato da sempre un partigiano della fermezza nei confronti di Hitler, anche a costo della guerra), alla decisione, infine, di entrare nella Resistenza, nelle fila del movimento Franc-Tireur, dove lo ritroviamo col nome di M. Blanchard, poi Narbonne, per essere poi catturato, imprigionato e alla fine fucilato dai nazisti nel 1944.
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Ma nonostante questi "sconfinamenti", potremmo dire, nella politica piu’ diretta, la storia rimase sempre per Bloch il terreno in cui investire nella speranza che potesse indicare una direzione per l’avvenire; senza falsi anacronismi, come scriveva ne La strana disfatta, "il mondo appartiene a coloro che amano il nuovo". Eppure, nonostante questa professione di fede verso il futuro (e i giovani), affinche’ il futuro non fosse semplicemente atteso (o addirittura ostacolato invano, come pure qualcuno si ostinava a fare), ma anche preparato (come accadeva nel caso della Resistenza), occorreva la capacita’ di osservare gli uomini, di capirli attraverso un fecondo "va-et-vient" tra passato e presente: come si poteva avere la pretesa di capirli, gli uomini, se guardati solo "nelle loro reazioni dinanzi alle circostanze particolari di un momento"?
Al contrario, lo storico, sa che "di cio’ che puo’ contribuire alla conoscenza del passato, niente merita di essere considerato inattuale: poiche’ i tempi trascorso ci offrono la sola esperienza grazie a cui possiamo sperare, un giorno, di conoscere meglio questa umanita’ di cui, in questo momento, vediamo solo l’incapacita’ di comprendersi e, di conseguenza, di condursi da sola...
Quanti errori storici all’origine dello spaventoso marasma in cui viviamo, dalla pace di Versailles, fino al razzismo!" (brano tratto da un testamento che Bloch scrisse nel 1938, in occasione di una mobilitazione parziale indetta a causa della crisi dei Sudeti e riportato in "Cahiers Marc Bloch", 1995, 2).
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Ed e’ cosi’ che ritorniamo all’incipit dell’Apologia della storia. A cosa serve la storia?
Non piu’ nel 1938, ma oramai con la Francia divisa e occupata insieme a gran parte dell’Europa e la Gran Bretagna assediata, Bloch pone la domanda e si risponde con parole che io trovo particolarmente toccanti (che meritano d’esser riportate, nonostante la lunghezza) e che sintetizzano tutta la volonta’ e la passione investite nel suo mestiere, perche’ sono una nuova dichiarazione di fede, appunto una apologie pour l’histoire, disciplina il cui senso viene compendiato da un unico proposito e un’unica parola, carica di speranza: comprendere. "Una parola, per dirla in breve, domina e illumina i nostri studi: comprendere. Non diciamo che il bravo storico e’ estraneo alle passioni: ha almeno quella. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficolta’, ma anche di speranza. Parola, soprattutto, carica di amicizia. Perfino nell’azione, noi giudichiamo troppo. E’ comodo gridare: al patibolo!
Noi non comprendiamo mai abbastanza. Chi e’ diverso da noi - straniero, avversario politico - passa quasi necessariamente per un malvagio. Anche per condurre le lotte inevitabili, un po’ di intelligenza delle anime sarebbe necessaria; a maggior ragione per evitarle, quando si e’ ancora in tempo. La storia, a condizione di rinunciare alle sue false arie da arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. Essa e’ una vasta esperienza delle varieta’ umane, un lungo incontro tra gli uomini. La vita, cosi’ come la scienza, ha tutto da guadagnare dal fatto che questo incontro sia fraterno" (Apologie pour l’histoire ou metier d’historien, in. M. Bloch, L’histoire, la guerre, la Resistance, Paris, Gallimard, 2006, p. 950 - trad. di chi scrive).
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Eppure evidentemente qualcosa, in questo insegnare la storia, non era andato a buon fine, e in effetti sulle responsabilita’ che gli storici, per non aver "comunicato" abbastanza, per non essere stati in grado, non sufficientemente, di sortire impavidamente dall’uscio dei propri archivi, portavano, a piu’ riprese lo stesso Bloch si dilunga, raccontando anche della propria, personale, "cattiva coscienza".
Tuttavia, piu’ che sui sensi di colpa presunti di un’intera generazione, puo’ essere interessante soffermarsi su un altro aspetto.
Paradossalmente, nell’entre-deux-guerres, la storia era stata al centro di numerose polemiche intellettuali in cui la si accusava non, come sosteneva Bloch, di non essere riuscita ad evitare la catastrofe, ma di averla addirittura provocata.
Le citazioni al proposito si potrebbero sprecare; le riflessioni pero’ piu’ conosciute, incisive ed anche acute, per certi versi, si devono a Paul Valery. Gia’ nel 1919 aveva pronunciato l’oracolo: "Nous autres, Civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles", indicando nella memoria troppo carica dell’uomo europeo (ogni Nazione poteva nutrirsi degli eroici sogni del suo Napoleone o Carlo Magno) una delle principali cause dell’incapacita’ di relazionarsi al tempo presente. Queste parole, pronunciate come furono poco dopo la fine della prima guerra, erano state un po’ l’annuncio della nuova era che si stava spalancando per l’Europa, quella di un declino e di un’irrimediabile crisi degli ideali politici elaborati nel lungo corso della tradizione europea. La "crise de l’esprit" non era che una crisi delle categorie politiche, umane, economiche... oramai sorpassate e con cui tuttavia l’uomo si ostinava ad ingabbiare la sua contemporaneita’.
Anche la dittatura era per Valery, in un certo senso, una "crise de l’esprit": ogni uomo incapace di trovarsi nel mondo e di relazionarsi ad esso, privo del pensiero necessario alla comprensione, era "un dictateur a’ l’etat naissante".
Proprio all’inizio degli anni Trenta, Valery era stato piu’ esplicito: causa della crisi e’ la storia che riporta e radica continuamente l’uomo nel suo passato, sottraendolo, nutrito di sogni velleitari, al presente e al futuro in cui pure (suo malgrado o meno) e’ collocato: la storia era niente di meno che "il prodotto piu’ pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia elaborato".
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E tuttavia, e’ proprio sul tono delle riflessioni di Valery, per quanto possa apparire strano, che Bloch si inserisce. Nel senso che, come la si volesse chiamare, crise de l’esprit, crise de civilisation (questa e’ l’espressione che diverse volte Bloch utilizza), restava innegabile (ed evidente soprattutto nella terza decade del secolo) l’inettitudine di tutta una classe politica della Terza Repubblica a gestire le relazioni internazionali, gli effetti della grande depressione, la riforma istituzionale che pure tutti invocavano. Si potrebbero riportare episodi di impasse per tutti i gusti, fallimentari tentativi di riforma, scacchi della politica estera, ma non e’ necessario poiche’ l’attenzione va focalizzata su quello che Valery chiamava esprit, cosi’ come sui valori fondanti la democrazia che avevano cessato di essere condivisi dalla Nazione.
Per dirla con Bloch, le classi dirigenti, i politici, i "borghesi" (parola che peraltro egli utilizza con precisione ma senza alcun afflato marxista, pur se indica in fin dei conti le classi dirigenti) erano non carichi di storia (con una memoria troppo carica di storia, come aveva scritto Valery), ma senza storia. Avevano scordato e cessato di studiare la storia della Francia, incapaci di comprendere la vitalita’ per il futuro della democrazia (e come avevano dimostrato i fatti, per l’esistenza della stessa Francia e dell’Europa) dei valori di solidarieta’ e fraternita’ rivoluzionaria che erano stati, nella storia, l’originale declinazione francese del concetto di liberta’.
Non si trattava di preferenze politiche; non era in discussione la destra o la sinistra, ma la solidarieta’ e la legittimita’ degli urti sociali che la Terza Repubblica aveva sancito anche da un punto di vista legislativo, con le leggi sindacali. L’immagine della Festa della Federazione (insieme alla cerimonia di Reims; e gia’ questo abbinamento meriterebbe una lunga digressione che non e’ il caso qui di affrontare), cosi’ come i richiami alla solidarieta’ come unico possibile collante della comunita’ nazionale, e’ una delle costanti nell’opera di Bloch e si potrebbero citare numerosi passaggi, dalle lettere, i carnets, La strana disfatta...
Ebbene, in Francia era successo qualcosa per cui una parte della Nazione aveva smesso non solo di credere alla solidarieta’, ma anche di riconoscere la legittimita’ delle aspirazioni, per esempio delle masse popolari, a migliori condizioni di vita oppure ad una piu’ piena partecipazione alla vita politica... i borghesi avevano smesso, senza tanti giri di parole, di apprezzare la democrazia: a questo Bloch dava il nome di "grande malinteso dei francesi".
Era accaduto, ad esempio, in occasione del Fronte Popolare, rispetto a cui i "borghesi" avevano tenuto un atteggiamento pregiudizialmente ostile, soprattutto in seguito alle grandi manifestazioni di gioia che attraversarono la Francia in concomitanza della vittoria elettorale e che solo uno sguardo ottuso pote’ scambiare per un tentativo rivoluzionario, piu’ o meno occultamente preparato dai "rossi" per gestire l’esistente.
Nel testo de La strana disfatta Bloch non risparmia, fondatamente e con un’analisi profonda e sferzante, nemmeno la sinistra, in particolare sindacalisti e Pcf, ma il comportamento della "borghesia" e’ da lui ritenuto, sopra di tutto, "inexcusable".
Anche se storicamente questa era stata, in Europa, la promotrice della democrazia, a partire dalla fine della prima guerra mondiale aveva smesso di credere nelle "virtù" di quello che aveva semplicemente interpretato come un sistema di governo tra gli altri (e, nel XIX secolo, quello che le consentiva la partecipazione).
Come aveva gia’ scritto Tocqueville, la democrazia era un cambiamento dello stato sociale impossibile da arrestare, era un "mondo", una nuova "umanita’", e invece la borghesia aveva tentato proprio questo: frenare l’inarrestabile e condannare attraverso le categorie del presente (comunismo/fascismo) un processo che invece andava compreso (compreso magari grazie ad un uso corretto dell’informazione storica) e che era stato il senso ultimo dell’ideologia repubblicana, ovvero la possibilita’ di riconciliazione. Ma la borghesia aveva disimparato a studiare seriamente, a "juger les valeurs" senza irretirsi nel conformismo imperante, ad informarsi e ad analizzare con spirito critico (altra conquista, per Bloch, della storia) le informazioni di cui veniva in possesso e dunque non era stata in grado di compiere nessuno sforzo di analisi umana per comprendere, nel ’36, la gioia delle ’foules au poing leve’" e in mancanza della comprensione le aveva condannate.
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Se abbiamo riportato sommariamente queste considerazioni di Bloch sul Fronte Popolare e la crisi della democrazia, cio’ si deve al fatto che indicano uno dei modi in cui, a suo avviso, la storia poteva essere utile a guidare l’azione politica.
Nessuno dei manifestanti del 1936 aveva in mente di fare la rivoluzione (e anzi era la destra che andava dicendo: "la revolution est a’ refaire", ma per scalzare il Fronte) e le richieste di aumenti salariali o di ferie pagate che furono all’ordine del giorno della politica, rispondevano ad un desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, non solo legittimo, ma che stava anche nelle cose, nel processo storico. Se le classi dirigenti si fossero presa la briga di meditare i famosi "bisogni dell’uomo", se avessero avuto la pazienza e il gusto dell’"analisi umana" (tutte attitudini che Bloch considerava conquiste della storia), avrebbero compreso tutto questo e forse l’incontro tra le aspirazioni contrastanti nel paese, non sarebbe stato un urto, una disfatta della Nazione precedente quella militare, ma una mediazione fraterna o "une rencontre fraternelle".
Non bisogna cedere a particolari utopie per comprendere in questo caso Bloch, a cui il senso della realta’ non mancava di certo. Semplicemente, una comprensione, che solo la storia poteva dare della Francia (la Francia rivoluzionaria, la memoria repubblicana, la storia della Terza Repubblica...) e della democrazia (di cosa effettivamente fosse la democrazia, al di la’ della scheda elettorale messo nelle mani dell’operaio piuttosto che del contadino), avrebbe probabilmente impedito che la nazione si disgregasse fatalmente sotto i primi colpi delle dittature. Non come diceva Valery, il cui uomo era dittatore allo stato nascente perche’ inebriato da troppa storia. Per Bloch era, caso mai, dittatore per assenza della storia e delle sue virtu’, incapace di esercitare lo spirito critico, di giudicare le informazioni di cui veniva in possesso, di sottrarsi al conformismo del giudizio.
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La storia, come sappiamo, non e’ stata a lieto fine. Nel senso, almeno, che Bloch affido’ alla penna queste considerazioni in modo chiaro e compiuto, sistematico, solo dopo il 1940, lasciando alle ultime pagine de La strana disfatta il gia’ citato mea culpa degli storici per non averlo fatto prima e non riuscendo nemmeno a terminare l’Apologie.
Ed egli stesso si decise infine ad entrare nella Resistenza, per cercare altri modi, diversi da quelli dell’erudito, per ricomporre una storia, quella della Francia, che pareva essersi interrotta, anche se l’idea di abbandonare la storia per cercare indicazioni non lo sfiorava affatto. Convenientemente insegnata permetteva la comprensione, ma convenientemente studiata la si ritrovava abitata, perche’ era la storia della Francia e della Rivoluzione, da un progetto d’avvenire. Conclude infatti La strana disfatta con queste parole: "Hitler diceva, un giorno, a Rausching: ’Facciamo bene a speculare piu’ sui vizi che sulle virtu’ degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtu’. Sara’ meglio per noi fare il contrario’. Si perdonera’ a un Francese, cioe’ a un uomo civile - che e’ la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: ’In uno Stato popolare e’ necessaria una forza, che e’ la virtu’’".
2. DIANA NAPOLI: UN PROFILO DI MARC BLOCH
Marc Bloch nasce a Lione nel 1886. Trasferitasi la famiglia, di origini ebraiche, a Parigi per la nomina del padre, Gustave Bloch, storico dell’antichita’, all’Ens, anche Marc Bloch intraprende studi storici.
Conclude il percorso accademico all’Ens, poi ottiene una borsa di studio per trascorrere due semestri in Germania, soggiorno imprescindibile per l’enorme considerazione di cui godeva la scuola tedesca, in seguito un’altra borsa di tre anni della Fondazione Thiers e viene nel frattempo, avendo ottenuto anche l’agregation (potremmo tradurre con abilitazione) nominato professore di storia e geografia prima in un liceo di Montpellier e poi ad Amiens. Mobilitato in occasione della prima guerra mondiale (di cui ci lascera’ un carnet, in parte ancora inedito, e in seguito un prezioso saggio "Sulle false notizie di guerra", considerato da storici come Annette Becker e Stephane Audoin-Rouzeau come un vero anticipatore di tutta l’attuale impostazione storiografica sulla grande guerra - cfr, di questi due autori, La violenza, la crociata, il lutto, Einaudi, Torino 2002, in particolare l’introduzione), potra’ discutere la sua tesi (Re e servi, un capitolo di storia capetingia) di dottorato solo nel 1920. Terminata la guerra, viene anche incaricato del corso di storia medievale all’Universita’ di Strasburgo, nell’Alsazia appena riconquistata.
Gli anni Venti sono anni di intenso lavoro. Egli stesso, ne La strana disfatta, ammettera’ che dopo quattro anni di guerra erano tutti ansiosi di riprendere gli strumenti del mestiere, tralasciando forse (o non attribuendogli la dovuta importanza), l’evolversi della situazione politica. Per esempio, si rimproverera’, in quanto storico, di non aver a sufficienza protestato contro lo sciagurato trattato di Versailles. In ogni modo nel 1924 esce il suo libro (gros enfant, come lui stesso dira’) I re taumaturghi, uno studio sulla regalita’ medievale e in particolare sull’idea della sacralita’ regale, in Francia e in Inghilterra. Collabora a prestigiose riviste di storia e storiografia (la maggior parte dei suoi articoli e delle sue recensioni sono raccolti nei Melanges historiques) e soprattutto stringe amicizia col collega Lucien Febvre, docente di storia moderna, col quale fonda nel 1929 la rivista "Annales d’histoire economique et sociale". Negli anni Trenta oltre che allo studio, le energie di Bloch sono concentrate sullo sforzo di trasferirsi a Parigi, da dove sperava, sempre insieme a Febvre, di poter meglio contribuire al rinnovamento degli studi storici. Sperava di poter lavorare fianco a fianco con l’amico e, nella corrispondenza, non mancano espressioni come il desiderio di far prendere aria agli "ammuffiti ambienti accademici". In effetti Febvre riesce a trasferirsi gia’ nel 1932, ottenendo l’elezione al prestigioso College de France. Invano (anche a causa di pregiudizi antisemiti) Bloch tenta di raggiungere il collega al College gia’ nel 1933; dovra’ attendere il 1936 per ottenere una cattedra di storia economica alla Sorbona.
Gli anni Trenta costringono anche Bloch a confrontarsi in modo diretto con la situazione politica. Nel 1934, in occasione dei tragici avvenimenti del febbraio, Bloch si trova in Gran Bretagna, ma al suo ritorno firma il manifesto che segna la nascita del Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti. Nel 1937 i due storici preparano un numero delle "Annales" interamente dedicato al fascismo e questo causa la rottura del contratto col loro editore, Colin, che pretende almeno un articolo favorevole al regime politico tedesco. Proprio questo conformismo (incapacita’ di "giudicare i valori", come si esprime altrove, insieme all’antisemitismo da "bon ton") e’ una delle ragioni del profondo malessere intellettuale di Bloch. Tuttavia non sono molte le prese di posizione politiche dirette. Nel 1938 si rifiuta di partecipare ad un cerimoniain onore di un collega austriaco,pernon andare nell’Austria dell’Anschluss; pensa di potersi candidarealla direzione dell’Ens. Pero’ il tempo, cosi’ come lo srotolarsi drammatico della situazione europea, scorre. Sempre nel 1938 viene mobilitato in occasione della crisi dei Sudeti e scrive, durante i giorni di allerta, un testamento in cui oltre alle considerazioni sulla storia, esprime la volonta’ di veder pubblicata la sua ultima fatica, La societa’ feudale, libro al quale aveva lavorato per quasi tutto il decennio.
Il testo viene pubblicato, nelle sue due parti, nel 1939-1940 e, nonostante alcuni rilievi critici espressi da alcuni colleghi, Febvre in primis, rimane un affresco di straordinaria chiarezza sulla societa’ feudale (e sulle trasformazioni per cui un semplice elemento giuridico, com’era il contratto vassallatico-beneficiario, combinandosi con le mentalita’, i bisogni, le trasformazioni politiche, diventa una "societa’", appunto), imprescindibile punto di riferimento ancor oggi di tutti i medievisti e appassionati al tema.
Nel 1939 scoppia il secondo conflitto mondiale. Bloch, benche’ potesse essere esonerato, decide di combattere ugualmente e dunque ritorna nell’esercito col grado di capitano, grado che aveva acquisito durante la precedente guerra. L’armistizio lo coglie a Rennes, da dove riesce fortunosamente a sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi per poi rifugiarsi in un paesino della zona sud, dove si trovava la sua famiglia.
Impossibilitato dalle leggi dell’occupante a ritornare a Parigi e in pericolo anche per la pubblicazione dello Statuto degli ebrei (che vietava agli ebrei numerose professioni, compresa l’insegnamento, tranne pochissime eccezioni per meriti particolari resi alla patria), Bloch riesce, pur con molte difficolta’ (e per l’intercessione di un allievo del padre) a continuare l’insegnamento univeritario, prima a Clermont-Ferrand (dov’era stata trasferita l’Universita’ di Strasburgo), poi a Montpellier (dove partecipa all’organizzazione di Combat e collabora al Centre de Montpellier, un gruppo di studio tra quelli che, una volta unificati, daranno vita al Cge incaricato di progettare la Francia del dopoguerra). In un primo momento tenta di trasferirsi negli Stati Uniti, ma non riuscendo ad ottenere i visti per tutti i membri della sua famiglia (moglie, sei figli, piu’ la madre), rimane in Francia.
In questi anni un duro colpo per lui e’ costituito anche dalle vicende della rivista "Annales" che, in base allo statuto degli ebrei, deve cessare le pubblicazioni, a meno che Bloch non rinunci alla sua quota di proprieta’. Bloch finisce per cedere alle pressioni di Febvre e di altri colleghi, che considerano la rivista l’unico loro mezzo di espressione nella Parigi occupata. Bloch invece, al contrario, crede proprio che continuare a pubblicare sottomettendosi alla legislazione antisemita sia un cedimento morale inaccettabile. Ma alla fine concede, a malincuore, la sua parte di rivista (pur continuando a collaborare anonimamente). Anche se con Febvre vengono scambiate parole talvolta dure, l’amicizia tra i due non viene messa in discussione: e infatti proprio all’amico Bloch dedica l’opera che elabora in quegli anni: Apologia della storia o mestiere di storico.
Nel novembre 1942 i tedeschi invadono anche la zona sud. Bloch e’ minacciato da un ordine d’arresto, lascia Montpellier e si rifugia con la famiglia a Fougeres. Nel marzo 1943 entra a far parte del movimento partigiano Franc-Tireur e nel luglio dello stesso anno e’ nominato rappresentante del movimento nel direttivo regionale dei Mur. Partecipa alla redazione de "Les Cahiers politiques", organo del Cge, e infatti gli ultimi due numeri non vedono la luce proprio perche’ Bloch, che ne e’ il responsabile, viene arrestato. Il movimento Franc-Tireur faceva uscire un omonimo giornale clandestino, e due riviste: "Le Pere Duchesne" e "La Revue Libre", quest’ultima diretta proprio da Bloch e Altmann.
Arrestato l’8 marzo 1944 dai tedeschi, imprigionato e torturato a Montluc, e’ fucilato in un campo il 16 giugno a Saint-Didier-de-Formans.
Nel 1946 appare, per le edizioni del movimento della Resistenza Franc Tireur, la prima edizione del testo (rocambolescamente salvatosi) de La strana disfatta, che Bloch aveva composto di getto subito dopo l’armistizio (operando solo dei rintocchi negli anni successivi) e che costituisce una preziosissima testimonianza sul modo in cui venne condotta la campagna militare, un’analisi puntuale delle cause tecniche, morali e intellettuali della disfatta e ancora una riflessione della storia nella societa’, in un affresco della crisi della democrazia nella Francia dell’entre-deux-guerres rimasto a lungo, per profondita’ e acutezza, ineguagliato.
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Una bibliografia essenziale
La bibliografia sarebbe sterminata. Di seguito riportiamo solo l’ultima edizione o ristampa italiana di alcuni dei principali scritti di e su Bloch. Sono citati in lingua originale solo i testi che non sono stati tradotti.
a) Scritti di Marc Bloch: Monografie: I re taumaturghi, Torino, Einaudi, 2005; La societa’ feudale, Torino, Einaudi, 1999. Libri pubblicati dopo la morte: La strana disfatta, Torino, Einaudi, 1995; Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1998. Raccolte di scritti e articoli: Melanges historiques, Paris, Ehess, 1983; Storici e storia, Torino, Einaudi, 1998; Rois et servs, un chapitre d’histoire capetienne et autres ecrits sur le servage, Paris, La Boutique de l’histoire, 2004; La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Donzelli, 2004; I caratteri originali della storia rurale francese, Torino, Einaudi, 2006; Marc Bloch. L’histoire, la guerre, la Resistance, Paris, Gallimard, 2006 (contiene, oltre all’Apologia e La strana disfatta, numerosi articoli e contributi di Bloch relativi alla Grande Guerra, alla storia, alcuni scritti clandestini, testimonianze, foto...). Carteggi: Marc Bloch - Lucien Febvre: corrrespondance, Paris, Fayard, 1994-2003; Marc Bloch a’ Etienne Bloch, lettres de la drole de guerre, Paris, Les Cahiers de l’Ihtp, dec. 1991; Ecrire la societe’ feodale: lettres a’ Henri Berr 1924-1943, Paris, Imec Ed., 1992.
b) Scritti su Marc Bloch. Veramente i contributi sulla figura e l’opera di Bloch sono numerosissimi. Mi limito a proporre solo le principali monografie, di facile reperibilita’, alle quali (soprattutto quelle di
Mastrogregori) si rimanda per la completezza dell’apparato bibliografico:
C. Fink, Marc Bloch. Biografia di un intellettuale, Firenze, La Nuova Italia,
1999 (ed. orig. 1989); U. Raulff, Ein Historiker im 20. Jahrhundert: Marc Bloch, Frankfurt, 1995 (Marc Bloch un historien au XX siecle, Maison de science de l’homme, 2005); O. Dumoulin Marc Bloch, Paris, Presses de Science Po, 2000; M. Mastrogregori, Il manoscritto interrotto di Marc Bloch, Pisa-Roma, 1995; Id, Introduzione a Bloch, Roma-Bari, Laterza, 2001; F.
Touati, Marc Bloch et l’Angleterre, F Touati, Paris, La boutique de l’histoire, 2007.
3. ET COETERA
Diana Napoli, laureata in storia presso l’Universita’ degli studi di Milano, e’ attualmente volontaria presso il Centro per la nonviolenza di Brescia.
*
Marc Bloch, iIllustre storico, nato a Lione nel 1886, docente universitario a Strasburgo e alla Sorbona, fondatore con Lucien Febvre delle "Annales d’histoire economique et sociale" che hanno cosi’ potentemente contribuito al rinnovamento della storiografia. Impegnato nella Resistenza, fu assassinato dai nazisti nel 1944. Opere di Marc Bloch: tra i suoi lavori segnaliamo almeno I re taumaturghi, La societa’ feudale, Apologia della storia, tutti editi da Einaudi. Opere su Marc Bloch: per un avvio cfr. Massimo Mastrogregori, Introduzione a Bloch, Laterza, Roma-Bari 2001.
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA, Numero 94 del 7 agosto 2007
Supplemento settimanale del martedi’
de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E,
01100 Viterbo,
tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
*[Ringraziamo Diana Napoli (per contatti: e-mail: mir.brescia@libero.it, sito: www.storiedellastoria.it) per questo saggio]
Marc BLOCH
L’idea di causa (1940)*
[...] Immaginiamo un uomo che cammini su un sentiero di montagna. Fa un passo falso e cade in un precipizio. Perché quell’incidente accadesse, ci volle il concorso di molti elementi determinanti. Quali, tra gli altri, la legge di gravità, la presenza di un rilievo risultante a sua volta da lunghe vicende geologiche, il tracciato di un sentiero destinato, per esempio, a collegare un villaggio ai suoi pascoli estivi. Sarà, dunque, perfettamente legittimo dire che, se le leggi della meccanica celeste fossero differenti, se l’evoluzione della terra fosse stata un’altra, se l’economia alpina non si fondasse sulla transumanza stagionale, la caduta non sarebbe avvenuta.
Se domandiamo però quale fu la causa, ciascuno risponderà: il passo falso. Non che questo antecedente sia stato più necessario perché l’avvenimento si verificasse. Molti altri lo erano nella stessa misura. Ma tra tutti, esso si distingue per parecchi caratteri che colpiscono: è stato l’ultimo a verificarsi; era il meno permanente, il più eccezionale nell’ordine generale del mondo; infine, in ragione proprio di questa minore generalità, il suo intervento sembra quello che più facilmente si sarebbe potuto evitare. Per queste ragioni, appare legato all’effetto con un vincolo più diretto, e noi non sfuggiamo alla sensazione che esso solo l’abbia veramente prodotto.
Agli occhi del senso comune che, parlando di causa, ha sempre difficoltà a liberarsi da un certo antropomorfismo, questo componente dell’ultimo istante, questo componente particolare e inopinato appare un po’ come l’artista che dà forma a una materia plastica già preparata. Il ragionamento storico, nella sua prassi abituale, non procede altrimenti [...]
Per continuare, cfr. al seguente link
* Marc Bolch, Apologia della storia o mestiere dello storico, Einaudi, Torino 1950.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE
OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
FLS
ANTROPOLOGIA (#KANT2024), FILOSOFIA (KURT H. #WOLFF), E STORIOGRAFIA (PAUL RICOEUR).
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937). UN PROBLEMA DI SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO
"STORIA E VERITÀ" (P. Ricoeur, "Histoire et vérité", 1955 *), IN #SPIRITO DI #CARITÀ:
Un #segnavia antropologico e filologico, per ben #comunicare il "risultato" del "#dialogo", dall’opera di #Victor Hugo (in omaggio a #Michel Foucault):
"Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("#Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III).
NOTE:
*
Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini *
Recensendo un volume dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa.
Per sostenere tale tesi ha offerto una descrizione caricaturale del lavoro degli storici, cui attribuisce il tentativo di «entrare» nella «testa» dei personaggi e la pretesa di «sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione». Fa quindi dipendere in generale gli studi storici (e con essi anche il diritto, e implicitamente la filosofia e le scienze umane in genere) dalle «narrazioni» e dalla «ricerca delle motivazioni di un comportamento», e li destituisce così di credibilità fino a definirli «falsi».
Questa presa di posizione ignora totalmente la rilevanza che la questione della prova, la critica delle narrazioni e delle testimonianze, la distinzione fra storia e memoria hanno avuto e hanno nella riflessione storiografica. Fin dai tempi di Lorenzo Valla gli storici sono impegnati a mettere a punto quegli «approcci controllabili» che Corbellini li accusa di ignorare, e gli ultimi decenni li hanno visti partecipi di una significativa riflessione epistemologica, in sintonia con le altre scienze sociali, tesa a superare rigide dicotomie metodologiche quali, ad esempio, quantitativo/qualitativo o struttura/soggettività. E d’altro canto ipotizzare, come si propone nell’articolo, l’opportunità di dimenticare eventi estremi quali i genocidi sminuisce il significato dell’elaborazione e dell’interpretazione, spesso conflittuale, della memoria per la costruzione dei valori della nostra cultura.
Come studiosi e studiose di discipline storiche e umanistiche del Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale del CNR intendiamo esprimere la nostra preoccupazione per queste affermazioni. Si tratta dichiaratamente di una «provocazione» e come tale, se provenisse semplicemente da un autorevole studioso, ci si potrebbe limitare a trarne spunti di riflessione o a lasciarla cadere. Il professor Corbellini, tuttavia, non è un qualsiasi storico della medicina che si rivolge alla propria comunità scientifica e all’opinione pubblica, ma ha la responsabilità di dirigere il nostro Dipartimento, al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Le sue parole, che implicano una delegittimazione pubblica del lavoro degli storici e non solo, investono quindi in pieno il senso della presenza stessa delle nostre discipline all’interno del maggiore ente di ricerca italiano.
Se oggi in Italia i saperi storici e umanistici appaiono quanto mai marginalizzati, un intervento come questo, tanto più per il ruolo istituzionale di elevata responsabilità del suo autore, sembra essere più il sintomo di un profondo problema culturale e scientifico che non un contributo al suo superamento. Esso offre quindi l’occasione per sollecitare ai vertici del CNR un pronunciamento in merito al ruolo e alle prospettive delle discipline umanistiche all’interno dell’ente e per aprire in proposito un dibattito all’interno della comunità scientifica e della società.
Grazia Biorci (IRCRES-CNR)
Olga Capirci (ISTC-CNR)
Geri Cerchiai (ISPF-CNR)
Gemma Colesanti (ISEM-CNR)
Gabriella Corona (ISSM-CNR)
Roberto Evangelista (ISPF-CNR)
Amedeo Feniello (ISEM-CNR)
Ida Maria Fusco (ISSM-CNR)
Stefano Gallo (ISSM-CNR)
Patrizia Grifoni (IRPPS-CNR)
Paolo Landri (IRPPS-CNR)
Maurizio Lupo (ISSM-CNR)
Daniela Luzi (IRPPS-CNR)
Fabio Marcelli (ISGI-CNR)
Armando Mascolo (ISPF-CNR)
Marina Montacutelli (ISSM-CNR)
Michele Nani (ISSM-CNR)
Anna Maria Oliva (ISEM-CNR)
Walter Palmieri (ISSM-CNR)
Claudia Pennacchiotti (IRPPS-CNR)
Leonardo Pica Ciamarra (ISPF-CNR)
Mariarosaria Rescigno (ISSM-CNR)
Giovanni Rota (ISPF-CNR)
Alessia Scognamiglio (ISPF-CNR)
Luisa Simonutti (ISPF-CNR)
Luisa Spagnoli (ISEM-CNR)
Alessandro Stile (ISPF-CNR)
Antonio Tintori (IRPPS-CNR)
Pina Totaro (ILIESI-CNR)
Mattia Vitiello (IRPPS-CNR)
* ALFABETA-2: Per chi desiderasse mettersi in contatto con gli autori della lettera, l’email di riferimento è storiascienza.cnr@libero.it.
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
COSTITUZIONE E INSEGNAMENTO....
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 25.01.2018)
La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai... insomma... la manovalanza... No! Ma tutti quelli che ordinano... che decidono... che intascano... affaristi, direttori, tutti giudei... completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”.
Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere?
Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza.
La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Quante storie per la Storia
La materia non è una successione di date e nomi ma il racconto del vissuto di donne e uomini
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.2.16
«Le teorie di Martin Lutero ottennero larga diffusione grazie all’invenzione della stampante». «I parlamentari risposero al fascismo con la recessione dell’Avellino». «La fine della Seconda guerra mondiale è stata determinata dallo sbarco in Lombardia». Gli strafalcioni - in questo caso, un florilegio di quelli raccolti all’esame di maturità del 2015 - stanno tutti lì, a portata di clic. E illustrano le dimensioni del problema. Ma non si tratta di ricominciare qui, una volta di più, il vecchio gioco al massacro. Il gioco paternalistico del bestiario, dove adulti che “sanno” registrano sia i vertiginosi abissi di ignoranza degli studenti d’oggidì, sia i picchi vertiginosi della loro fantasia, in una versione aggiornata e liceale dell’Io speriamo che me la cavo.
Piuttosto, si tratta di misurare la difficoltà in cui gli insegnanti si trovano (oggi come ieri, o forse più di ieri) nel veicolare un messaggio. Il messaggio che la Storia non è soltanto quella roba lì: una galleria di nomi più o meno altisonanti, e una successione di date da imparare a memoria. Il messaggio che la Storia è, semplicemente, la derivata di un rapporto: il rapporto fra passato e presente.
E che solo una familiarità con tale rapporto può conferire al vissuto dei ragazzi il suo giusto spessore. Sottraendoli all’esperienza ingannevole di un presente ultrapiatto. Svelando, nel loro presente di individui, le tracce di un passato condiviso. Facendo entrare in risonanza - nella loro testa, ma anche nel loro cuore - gli ultrasuoni della storia e i suoni della memoria.
Perché, nella scuola italiana di oggi, riesce così difficile trasmettere questo semplice messaggio? Perché i ragazzi delle superiori appaiono oggi tanto sordi agli ultrasuoni della Storia? E perché quegli stessi ragazzi risultano invece - non appena usciti dall’aula - consumatori addirittura voraci di Storia e di storie? Perché rigettano tutto del manuale scolastico, mentre al computer guardano e riguardano Troy, alla Playstation si divertono a colpi di Total War? Perché ignorano le fasi della Prima come della Seconda guerra mondiale, ma si passano di mano in mano l’una o l’altra graphic novel, si scaldano con il trisnonno di Gipi o con la nonna di Zerocalcare? Perché fanno circolare sui social la foto di copertina del romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro? Protetto dal suo cappuccio, un ragazzo guarda attraverso il finestrino di un treno e vede, dietro al disegno sul vetro di un emoticon irrisolto, l’ingresso di Auschwitz.
«“Figo, no?” “Figo cosa?” “Andare laggiù.” “Non lo so, Kappa. Sono appena arrivato, poi... vabbe’, non so.” “Oh, ti ricordi alle medie? Sembrava ci fosse solo Anna Frank”». Tratto dal libro di Greppi (un giovane storico che ha organizzato per anni i Treni della Memoria, e ne ha scritto adesso il romanzo di formazione), questo scambio vale a sottolineare i termini del problema. Alle medie, sembrava ci fosse solo Anna Frank. Perfino il documento sulla Shoah più parlante di tutti, e tanto più alle orecchie di lettori adolescenti, perfino quello rischia di rimanere, se letto a scuola, lettera morta. Anzi: soprattutto se letto a scuola. Perché il più delle volte - o sempre, per la maggior parte degli insegnanti - leggere significa studiare. Cioè ragionare e memorizzare, anziché partecipare e sentire. E il più delle volte - o sempre, per la maggior parte dei ragazzi - studiare significa staccare la spina.
Il problema è questo: la difficoltà in cui la scuola si trova nell’offrire ai ragazzi (come ha scritto Enrica Bricchetto, in quel luogo meritorio che è il sito didattico Historia Ludens) «proposte di senso». E anche - si vorrebbe aggiungere - proposte di sensi: una Storia da consumare là fuori con i sensi perennemente all’erta, l’udito e la vista, il tatto e l’olfatto, più che da recitare alla cattedra con voce stentorea, o da ruminare a testa bassa sbirciando i nomi e le date sul libro di testo.
Il problema è saper condividere con i ragazzi l’evidenza per cui il programma di Storia trabocca di «questioni sensibili», che variamente sollecitano, interpellano, lacerano la nostra attualità: dalle Crociate all’11 settembre, passando attraverso i Lumi o la Resistenza, il capitalismo o il comunismo, il crocifisso o il velo, la Controriforma o le foibe. E la vera sfida non consiste nell’evitarle, le questioni sensibili, in uno slalom del didatticamente corretto: la vera sfida consiste nell’esplorarle.
Così, l’insegnante civilmente motivato non avrà ragione di temere quello che un grande studioso francese del Novecento indicava come il peccato mortale dello storico di mestiere: l’anacronismo.
Al contrario, il buon insegnante farà bene a imparare da altri grandi storici del Novecento la pratica di un “anacronismo controllato”. Secondo il ragionevole principio per cui il passato può parlarci soprattutto se raggiunto attraverso un percorso a ritroso, se interrogato a partire dalle domande del presente. Qualunque cosa vogliano dirne - un giorno sì e l’altro pure - i sussiegosi cultori di un’archeologia del sapere, o gli immarcescibili l audatores temporis acti.
Adusi a criticare sempre e com unque le riforme scolastiche di biechi «pedagogisti», e le indicazioni ministeriali di famigerati «burocrati», i laudatori del buon tempo antico hanno elevato a bersaglio una didattica per «competenze» anziché per «conoscenze»: ne hanno fatto la ragione di tutti i mali, o di quasi tutti. Senonché, almeno per la didattica della Storia, una simile eziologia spiega poco o nulla. Come ha notato il gran maestro di Historia Ludens, Antonio Brusa, in Italia - a differenza che in altri sistemi educativi - i programmi di Storia sono rimasti incentrati (fortunatamente) sulle «conoscenze generali».
Senza lasciarsi confondere dalla falsa dialettica competenze vs conoscenze, il buon insegnante potrà scommettere
piuttosto - per coinvolgere i ragazzi - su un sostantivo plurale anziché singolare, e su una lettera minuscola anziché maiuscola. Potrà scegliere di muovere dalle storie per spiegare la Storia.
Cioè di muovere dagli uomini e dalle donne in carne e ossa, dalle persone prima ancora che dai personaggi. E dalle situazioni di vita, dai passati ignari del futuro, prima ancora che dalle svolte periodizzanti. Potrà cercare di raccontare Francesco, quando ancora non era diventato san Francesco. Di raccontare madame Curie, quando ancora si chiamava Maria Sk?odowska. Di raccontare Eichmann, quando ancora non era altro che Adolf Eichmann.
Storia del tempo profondo
In base al racconto biblico nel 1654 si calcolò che la terra fosse nata nel 4004 a.C.
Ecco come si capì che era molto più antica
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.11.2015)
Freud non aveva dubbi. In una prospettiva psicoanalitica, come scrisse in un articolo del 1916, la storia della scienza è una storia di umiliazioni inferte all’uomo e al suo ingenuo amor proprio. E a provocare queste autentiche ferite narcisistiche sono state soprattutto tre grandi rivoluzioni intellettuali: quella di Copernico, che ha privato l’uomo della sua posizione centrale nell’universo; quella di Darwin, che ha inserito l’uomo nel processo evolutivo del regno animale; e quella infine dello stesso Freud, che si attribuiva il merito di aver dimostrato che l’Io non è padrone nemmeno della propria interiorità.
Dal suo elenco tuttavia - come ha osservato Stephen Jay Gould - Freud ometteva una quarta rivoluzione che fu in realtà la seconda in ordine storico e che, pur non essendo associata a un singolo autore, meritava certamente di farne parte: la scoperta del tempo profondo della Terra. Essa si è rivelata tanto dirompente quanto le altre, poiché ci ha costretto a riconoscere non solo che la storia della Terra precede di gran lunga quella dell’uomo, ma anche che la natura stessa ha avuto una storia sua propria.
La complessa vicenda di questa rivoluzione, in parte già ricostruita da Paolo Rossi (I segni del tempo, Feltrinelli, 1979), è ora al centro del libro di Martin J. S. Rudwick, che rappresenta una splendida e accessibile sintesi delle ricerche cui si dedica da oltre quarant’anni. E che ha un ulteriore merito: raccontare una storia, quella appunto della scoperta del tempo profondo, poco nota al grande pubblico e spesso ridotta a una sorta di preludio alla teoria della evoluzione di Darwin. Ma che invece, secondo Rudwick, «è del tutto indipendente da Darwin e da ogni altra teoria evoluzionistica».
Il viaggio nel tempo che siamo invitati a compiere inizia nel 1654, quando James Ussher, arcivescovo anglicano di Armagh, nell’Irlanda del Nord, fissò come data della Creazione il 23 ottobre del 4004 a. C. Ussher non fu l’unico a stabilire una data precisa per la Creazione. Durante il XVII secolo, vennero scritte intere biblioteche sull’argomento, suscitando aspre controversie, cui presero parte personaggi insospettabili come Newton.
Il risultato fu una girandola di cronologie, tutte in competizione tra loro, ma tutte concordi nell’attribuire al mondo una storia di circa seimila anni. Che era però prevalentemente umana, poiché la natura vi faceva da scenario quasi immutabile per il destino degli uomini e l’iniziativa divina.
Le scale temporali elaborate dai cronologisti, sulla base di dati ricavati dalle fonti scritte, erano condivise anche dai filosofi naturali che valorizzavano invece ogni evidenza empirica, come quella fornita dai reperti fossili. Lo dimostra il caso di Robert Hooke, il curatore degli esperimenti della Royal Society, e del naturalista danese Niels Stensen (meglio noto come Stenone), attivo presso la corte dei Medici in Toscana. Per entrambi i fossili non erano sostanze inorganiche, come per lo più si supponeva, bensì resti di corpi una volta realmente vissuti e poi pietrificatisi a causa delle diverse alterazioni subite dalla Terra nel corso della sua storia. Una storia però che s’inseriva ancora nei tempi del racconto biblico.
Dalla seconda metà del XVIII secolo tuttavia, come fa notare Rudwick, le ricerche sul campo dischiusero una nuova prospettiva. Le rocce esplorate e descritte in diverse parti d’Europa mostravano che i vari strati di cui erano composte risalivano a periodi differenti; che i fossili si trovavano soltanto nelle rocce di più recente formazione; e che in esse non si rinveniva alcuna traccia di resti umani. Tutti indizi insomma che suggerivano una cosa ben precisa: la Terra doveva essere molto più antica di quanto si era ritenuto.
Benché fosse ormai evidente che bisognava pensare in termini di centinaia di migliaia di anni, o addirittura di milioni, difficilmente però i naturalisti fornivano una stima quantitativa dell’età della Terra, almeno non pubblicamente. Così, il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nel manoscritto delle sue Epoche della natura (1778) ipotizzava un’età di quasi tre milioni di anni, anche se poi nell’opera a stampa ragioni di cautela lo portassero a ridurla a circa 75.000 anni. Non stupisce quindi che, nell’individuare una successione di sette “epoche” o di momenti significativi nella storia della Terra, egli collocasse la comparsa degli esseri umani soltanto nell’ultima epoca.
Buffon infatti rendeva esplicito ciò che altri naturalisti sospettavano già: il nostro pianeta aveva alle spalle un profondo passato, la maggior parte del quale era stato completamente preumano. Ma fino a che punto la Terra, per un tempo così sterminato, era stata significativamente diversa dallo stato attuale? La vita aveva avuto una vera storia? E soprattutto: sarebbe stato possibile conoscere cosa era accaduto prima dell’arrivo dell’uomo sulla scena del mondo?
Le risposte a tali quesiti, racconta Rudwick, arrivarono da una rinnovata attenzione per i fossili, ed ebbero come protagonista un giovane studioso di provincia approdato a Parigi nel 1795 e destinato a un’inarrestabile ascesa negli ambienti scientifici della capitale: Georges Cuvier.
Applicando le sue straordinarie conoscenze di anatomia comparata allo studio dei fossili, Cuvier sosteneva che appartenessero a specie diverse dagli animali viventi e con ogni probabilità estinte. Erano cioè espèces perdues, come il mammut siberiano e il mastodonte americano, o come il mosasauro, un enorme rettile marino, e lo pterodattilo, un rettile volante. Avevano popolato «un mondo precedente al nostro», finché un’improvvisa e violenta catastrofe non le spazzò via per sempre. La storia della Terra e quella della vita, secondo Cuvier, erano intrecciate e scandite da eventi di questo tipo, che ne spiegavano la direzione e la discontinuità.
La “resurrezione” da parte di Cuvier di uno stravagante zoo di animali estinti fu un evento di grande impatto. E agli inizi dell’Ottocento diede luogo a una vera e propria moda: la caccia agli esemplari fossili. Soprattutto in Inghilterra, dove si distinse una giovane donna di nome Mary Anning, che si conquistò la ribalta con la scoperta del teschio di un ittiosauro su una scogliera calcarea nel Dorset, e poi di un fossile di plesiosauro quasi completo. Ulteriori testimonianze di specie perdute, che si aggiungevano a quelle già identificate da Cuvier, e che trovavano una vivida illustrazione in un acquarello dipinto nel 1830 dal geologo inglese Henry De la Beche: «una scena dal tempo profondo» che, per la prima volta, raffigurava tali specie nel loro presunto habitat.
La storia della Terra delineata da Cuvier ottenne un consenso quasi unanime tra i geologi. Tranne che in un caso: quello di Charles Lyell, che sfidò la sua visione, sostenendo che non esisteva alcuna prova che la superficie terrestre nel passato fosse stata trasformata da improvvise catastrofi. Anzi, come spiegava nei suoi Principles of Geology (1830-1833), era vero piuttosto il contrario: ogni cambiamento geologico era il risultato di processi graduali e uniformi operanti nel corso di tempi immensamente lunghi e tuttora in azione.
Per i sostenitori di queste due teorie, il filosofo di Cambridge William Whewell, che nutriva un forte interesse per la geologia, coniò due neologismi: «catastrofisti» e «uniformisti». Al contrario di quanto spesso si afferma però, tiene a precisare Rudwick, le loro posizioni non furono mai considerate del tutto inconciliabili.
Molti geologi riconoscevano per esempio che processi come la sedimentazione, l’erosione e il vulcanismo fossero dovuti a cause ancora osservabili nel presente. Ma poiché nessuna “causa attuale” sembrava in grado di spiegare i depositi alluvionali di ghiaia e argilla o i cosiddetti massi erratici, essi convenivano che, almeno in questi casi, bisognasse ricorrere all’azione di immani cataclismi.
Così, intorno alla metà del XIX secolo, si arrivò a un compromesso: la Terra aveva avuto una storia davvero movimentata, governata da leggi costanti tuttora attive, ma punteggiata anche di eventi catastrofici globali. Inoltre, erano tutti convinti che il tempo profondo della Terra ammontasse come minimo a diverse centinaia di milioni di anni o forse perfino a miliardi.
Dagli anni sessanta dell’Ottocento, tuttavia, proprio la durata di questo tempo diventò oggetto di disputa, e a scatenarla non fu un geologo, bensì un fisico: William Thomson, futuro Lord Kelvin. Basandosi sulle leggi della termodinamica, all’epoca da poco formulate, e sulle stime correnti del progressivo raffreddamento del Sole, Kelvin affermò che l’età della Terra non poteva superare i cento milioni di anni. Una cifra incompatibile con i tempi lunghi richiesti sia dall’uniformismo di Lyell sia dalla nuova teoria dell’evoluzione di Darwin. E che per quasi quarant’anni ebbe lo stesso effetto paralizzante che la cronologia biblica aveva avuto sulla geologia del Seicento. Dopo il 1903 però, con la scoperta della radioattività, i rigorosi calcoli di Kelvin si sarebbero rivelati privi di significato: lo studio del decadimento radioattivo di alcuni elementi, come per esempio gli isotopi dell’uranio, ha stabilito che l’età della Terra è di circa 4,5 miliardi di anni.
Momigliano, un maestro discusso con rara franchezza, dagli allievi inglesi
Da Aragno un libro sull’eredità di Arnaldo Momigliano. I suoi punti deboli: l’emarginazione della filosofia, il rifiuto di vedere la storia anche come narrazione, la priorità data al cristianesimo nel mondo antico
di Dino Piovan (il manifesto, Alias, Domenica, 15.11.2015)
Una mappa schematica ma fondamentale per chi voglia orientarsi dentro un territorio vasto e ignoto. Un po’ come la tubemap della metropolitana di Londra, secondo l’analogia cui ricorse anni fa Tony Grafton, l’autore di raffinati libri sulla cultura dell’umanesimo. Un’analogia efficace a rendere figurativamente il senso della pionieristica indagine di Arnaldo Momigliano sulla storiografia moderna a partire almeno dai primi anni cinquanta del ventesimo secolo.
Fu Momigliano a scoprire l’importanza di studiosi completamente dimenticati, quali Tillemont, Mabillon o Montfaucon; fu lui a insegnarci che questi giansenisti e monaci benedettini vissuti tra il Sei e il Settecento sono i padri del moderno metodo storico, che invece delle eleganti narrazioni della storiografia classica, modello di quella rinascimentale, si dedicano ad analizzare minuziosamente le fonti, a discutere la loro attendibilità, a citare puntualmente i documenti abbandonando l’antica consuetudine dei discorsi inventati o ricostruiti, che costituivano la smagliante dimostrazione della padronanza retorica degli storici antichi.
L’immagine della mappa si può in realtà applicare anche a tanti altri campi sondati dall’inesauribile ricerca storica di Momigliano, come la storia degli studi classici, un settore tanto rigoglioso negli ultimi decenni quanto inesistente o quasi nel 1955, quando uscì il primo dei suoi memorabili Contributi alla storia degli studi classici, che con i due postumi curati da Riccardo Di Donato hanno raggiunto ora i dieci volumi (ma alcuni sono in due tomi); e si potrebbe guardare anche al problema dell’incontro-scontro di civiltà, greca romana e giudaica, anzitutto con l’Ellenismo tra IV e I secolo a.C. e poi più tardi con il confronto tra Cristianesimo e Impero romano, temi al centro dei suoi saggi già all’inizio degli anni trenta, quando sotto l’influenza dello storicismo di Benedetto Croce il precocissimo Momigliano cercava di leggere le vicende del mondo antico in chiave ideal-universale, secondo cui non esisterebbero periodi di pura negatività e i valori elaborati da un popolo o da un’intera epoca verrebbero dialetticamente ripresi da quella successiva.
Arduo, forse impossibile per un singolo fare un bilancio competente di tutte le mappe stese da Momigliano nel corso di quasi sessanta anni di studi, tra il 1929, quando si laureò all’università di Torino con il maestro Gaetano De Sanctis, e il 1987, l’anno della morte; tant’è che ai non pochi convegni in sua memoria hanno sempre concorso specialisti di molte aree, dalla storia greca a quella romana a quella giudaica, dalla storia delle religioni all’antropologia, dalla storia della storiografia, antica e moderna, alla storia della cultura tout court.
Così anche per questo The Legacy of Arnaldo Momigliano («Warburg Institute Colloquia» 25, Nino Aragno editore, pp. 203, £ 50,00), curato da Tim Cornell e Oswyn Murray, che raccoglie i testi del seminario al Warburg di Londra sull’influenza di Momigliano negli studi storici in occasione del centenario della sua nascita (2008). Gli autori sono ex allievi inglesi e americani, più due italiani, tra cui Di Donato.
Non è casuale la sede del Warburg: lì Momigliano aveva organizzato per anni dei seminari così innovativi su metodi e prospettive di ricerca da entusiasmare tanti studiosi allora in erba, segnandoli in modo duraturo. Pregio innegabile di questo volume è di voler stilare un bilancio davvero critico e non puramente elogiativo, individuando anche i punti di debolezza, accanto a quelli di forza, del pensiero e dell’opera di Momigliano; e in questo si distingue da tanti libri-omaggio in onore di grandi studiosi scomparsi.
Si veda ad esempio l’intervento di Murray, che riflette con franchezza su aspetti che alla coscienza storica contemporanea appaiono problematici, come la centralità data agli individui come motore di cambiamento a scapito di istituzioni o altre forze socio-culturali; o l’emarginazione della filosofia e più in generale, aggiungerei, della teoria, tendenza tipica della sua età matura, piuttosto paradossale se si pensa alla necessità, più volte da lui asserita nei suoi elogi di Gibbon, di unire tradizione filosofica e antiquaria. Emerge anche, in vari contributi (di Murray, di Alan Cameron, dello stesso Grafton), l’impossibilità di accettare il suo rifiuto di considerare gli storici come narratori.
Momigliano non si stancava di ripetere che gli storici, antichi e moderni che siano, vanno valutati per il contributo di verità dei loro studi, e più volte polemizzò anche aspramente contro quello che definiva il tentativo di ridurre la storia a retorica. Non voleva ammettere, insomma, che la storiografia, per quanto guidata dall’intento di cercare la verità dei fatti, è anche, e direi inevitabilmente, scrittura, che già solo nell’esporre ordinatamente una serie qualsivoglia di fatti presuppone una serie di operazioni intellettuali non ingenue quali la selezione e l’instaurazione di relazioni di causa-effetto che dipendono dal punto di vista adottato, che non può mai essere omnicomprensivo. E in quanto scrittura la storiografia mira a convincere il lettore dello statuto di verità di quello che dice e dunque ha, intrinsecamente, un carattere argomentativo e non semplicemente referenziale; per quanto lo si sia spesso negato, e lo si neghi persino oggi, è figlia anch’essa della retorica intesa nel suo senso primo di ‘arte di parlare a un uditorio per persuaderlo’, che è anche l’accezione aristotelica.
Un altro elemento di perplessità che ritorna in vari contributi di questo libro è legato al giudizio sul cristianesimo, che negli anni trenta Momigliano giudicò l’unica entità spirituale capace di appropriarsi dell’eredità sia ellenica sia giudaica e di far convergere pace e libertà; un giudizio legato a una visione idealistico-teleologica della storia come progresso che Momigliano confermò anche a distanza di decenni nonostante la rivisitazione dello storicismo da lui compiuta, meno radicale tuttavia di quanto asserito (il che tra l’altro dimostra come sbagliasse a suo tempo Carlo Ginzburg a sostenere che l’uscita di Momigliano dallo storicismo fosse definitiva, a differenza di Ernesto De Martino). A questo studioso che i problemi della storia non solo antica sapeva affrontare con un’intensità fuori dal comune dobbiamo tutti molto, non solo gli allievi che hanno contribuito a questo volume. È tempo di meditare anche quello che Momigliano non vide.
Storia
L’uso pubblico di una disciplina che resiste al caos della rete
di Giovanni De Luna (la Repubblica, 01.11.2015)
Uno storico che parla in prima persona, che si propone con la consapevolezza che i gesti e le parole sono parte essenziale della sua lezione esattamente come i contenuti che sviluppa, è uno che ha accettato di scendere nella grande arena dell’uso pubblico della storia, raccogliendo una sfida che ha come posta in gioco la capacità di costruire quelle rappresentazioni del passato in grado di diffondere sapere storico. Da questo punto di vista, sembra quasi che restituire una faccia e un corpo agli storici sia una reazione all’impalpabilità del web, a una virtualità che ha progressivamente disincarnato la storia per consegnarla in maniera confusa e dimessa al mondo piatto e grigio della rete.
Riguardo alla televisione, la rottura con i ruoli tradizionali è stata ancora più drastica. Gli inizi erano stati tutt’altro che promettenti, con l’accusa alla Tv di impoverire il senso del tempo e della storia nell’uomo moderno scagliata da chi vide (Mac Luhan) l’epoca del villaggio globale contrassegnata da una marcata contiguità tra luoghi e culture che in precedenza apparivano lontanissime tra loro, avviluppate da un tempo diafano, sottile, appiattito sull’istante, da consumarsi febbrilmente e voracemente.
Questo non impedì ad alcuni storici prestigiosi di transitare direttamente dall’accademia ai palinsesti della Tv: in Francia, alla fine degli anni Settanta, Fernand Braudel e George Duby collaborarono assiduamente a fortunate serie televisive, ispirandosi ai temi della loro produzione scientifica. In quelle esperienze, però, non si avvertiva nessuna consapevolezza delle implicazioni insite nel passaggio dalla scrittura all’audiovisione: trasportare di peso nell’universo televisivo le regole stilistiche e argomentative del racconto scritto non era certamente la soluzione più adatta per alimentare un fecondo interscambio.
I due mondi restarono sostanzialmente separati alimentando, da un lato, l’indifferenza o il disprezzo di quelli che consideravano l’apparire in Tv una gravissima infedeltà nei confronti della propria disciplina, dall’altro, il senso di delusione di quelli che avevano accettato di collaborare e che, abituati a comunicare attraverso la parola scritta, si erano trovati smarriti rispetto ad un altro tipo di linguaggio, fatto di immagini, parole, musica, e di un diverso senso del tempo e del ritmo.
Oggi tutto questo appare superato e tra gli storici si è diffusa la consapevolezza che si possa utilizzare anche la Tv per raccontare la storia in modo efficace e credibile. Consapevolezza confermata dal successo che ha una trasmissione come “Il tempo e la storia” che la Rai ha scelto di trasmettere su una rete generalista in una fascia oraria in precedenza occupata da una soap opera.
La sfida per uno studioso è acquisire familiarità con le specificità del modello narrativo televisivo e confrontarsi con le possibili contaminazioni tra questo e quello del racconto storico tradizionale, in una sintesi che offra allo storico uno strumento originale, in grado di sciogliere le contraddizioni e i dubbi del passato. Il crocevia di questo passaggio sembra essere proprio la personalizzazione del suo ruolo. Perfino nei manuali (roccaforti della tradizione) sono comparse le fotografie degli autori, quasi a volere dare alla parola scritta il tono colloquiale e disteso dello studio televisivo e rendere riconoscibile un’autorialità anche fisicamente palpabile.
Resta una considerazione sul tributo che la storia e gli storici pagano a uno spirito del nostro tempo segnato da una progressiva individualizzazione delle forme in cui la cultura viene prodotta e viene consumata. La storia, uscita dall’accademia, si è imbattuta in questa deriva, ne è stata avvinta, conquistata e ha preteso che gli storici offrissero al pubblico anche i loro vissuti e la loro personalità.
D’altronde lo aveva scritto tanti anni fa Edward Carr: leggendo un libro di storia occorre innanzi tutto prestare attenzione allo storico, per «sentire che cosa frulla» nella sua testa: «Se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in questione non ha nulla da dirci».
L’autore, storico, è consulente scientifico della trasmissione “Il tempo e la storia”
IMPERATORI, RE, DI MARC BLOCH... E LA "MONARCHIA" DI ERNST H. KANTOROWICZ E DANTE ALIGHIERI:
Imperatori e Re: il Bivio di Bloch
di Dino Messina (Corriere La Lettura, 05.04.2015)
Perché, mentre in Inghilterra e Francia si affermava la monarchia, la Germania nel Medioevo, e anche nei secoli successivi, coltivò l’idea imperiale? Attorno a questa domanda ruotano le due lezioni che lo storico Marc Bloch tenne a Strasburgo nel biennio 1927-1928 per i docenti candidati a insegnare tedesco nelle scuole francesi. L’editore Castelvecchi, cui già dobbiamo la traduzione del pamphlet del fondatore delle Annales, Che cosa chiedere alla storia? (2014), propone ora, sotto il titolo La natura imperiale della Germania, quelle due preziose conferenze didattiche, a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores.
Marc Bloch (1886-1944), autore de La società feudale e de I re taumaturghi , non era uno studioso avulso dalle passioni e dall’impegno: già volontario nella Prima guerra mondiale, sarebbe finito fucilato dai nazisti come militante della Resistenza.
La sua analisi, che parte dall’eredità dell’impero carolingio, si concentra sui due grandi Hohenstaufen, Federico Barbarossa e Federico II di Svevia.
L’autore analizza il modello di nomina imperiale, in cui il fattore dinastico contava almeno quanto quello elettivo, ad opera dei principi, duchi, conti, vescovi. Ma per diventare imperatore era infine obbligatorio un passaggio a Roma. Di qui il dualismo con i Papi. «I Re di Francia o d’Inghilterra difendevano la propria autorità contro la Curia... non pensavano affatto di sottomettere il papato stesso. Tra l’Imperatore e il Papa, la posta in gioco era tutt’altra: l’Imperatore credeva di avere diritti sulla sede papale, il Papa sull’impero, e tutti e due su Roma».
La seconda conferenza di Bloch si conclude registrando una polemica che si svolse dal 1859 al 1862 tra due storici, il protestante Heinrich von Sybel, il quale sosteneva che l’ambizione imperiale aveva danneggiato la nazione tedesca, e il cattolico filoaustriaco Julius von Ficker, favorevole all’impero. Benché, nota Bloch, la visione di Sybel avesse vinto, nell’opinione pubblica era stata la Weltpolitik di Ficker a riscuotere un crescente successo.
KANTOROWICZ, UN GRANDE (E IGNORATO) LETTORE DI DANTE.
Una nota *
FEDERICO II, IMPERATORE (1927), "I DUE CORPI DEL RE" (1957). Senza la conoscenza delle opere di Dante, non solo la prima ma neppure la seconda grande opera di Kantorowicz sarebbe stata possibile. Questo è quanto emerso da una mia semplice e recente ricognizione dei suoi due eccezionali lavori. L’orizzonte storiografico di Dante non solo aiuta K. a capire la lezione di Federico II, ma - con l’aiuto di Federico II - a gettare le basi non solo di una straordinaria comprensione dell’opera di Dante, ma anche della sua stessa proposta politicoa e filosofica.
Un accenno in questa direzione è nella conclusione (qui di seguito ripresa) della spelndida e ricca "voce" "Kantorowicz" di Roberto Delle Donne (Federiciana del 2005, non - non dall’Enciclopedia Dantesca del 1970!!!):
"[...] Partendo dalla finzione giuridica del corpo doppio del re, enunciata nell’Inghilterra del XVI sec. allo scopo di porre al riparo i diritti della Corona e dello stato dalle pretese di poteri e istituzioni particolari, K. conduce il lettore attraverso i diversi strati ideologici che si erano coagulati in questa teoria. Affronta, attraverso l’archeologia del concetto di incarnazione monarchica, su un arco cronologico che dall’Alto Medioevo giunge al Rinascimento, il modo in cui il pensiero giuridico e politico tardomedievale giunse a concepire l’immortalità della monarchia di là dalla persona mortale in cui si incarna, fornendo così la genealogia della distinzione tra la funzione pubblica e la persona che l’esercita, cardine su cui avverrà il passaggio da una concezione dell’autorità incarnata nel suo titolare all’idea di un potere impersonale, a cui il titolare accede per temporanea delega collettiva.
Uno degli snodi di questo processo plurisecolare è costituito dall’imperiale "teologia di governo" di Federico II, che per quanto "pervasa dal pensiero ecclesiastico, contaminata dalla terminologia canonistica e infusa d’un linguaggio quasi cristologico per esprimere gli arcani del governo", non dipendeva più dall’idea altomedievale di una regalità "cristocentrica", basata cioè sulla credenza che il re, attraverso la consacrazione, divenisse vicario e "imitatore" del Cristo vivente. Il sovrano svevo e soprattutto i suoi consiglieri giuridici derivavano invece la funzione duale dell’imperatore quale "signore e ministro della giustizia" (Kantorowicz, 1957, pp. 97 ss.; trad. it. pp. 84 ss.) dal diritto romano, dalla tradizione della lex regia, aprendo la strada alla distinzione tra Impero e imperatore, già suggerita da Accursio e poi sostenuta più recisamente da Cino da Pistoia.
È proprio nell’acutezza delle analisi e nell’ampiezza euristica, nella straordinaria capacità di K. di restituire, ricorrendo a fonti straordinariamente disparate, la complessità concettuale del processo storico che segnò il passaggio da un’idea della sovranità secondo cui un individuo rappresenta un essere collettivo a quella secondo cui un essere collettivo rappresenta degli individui, che vanno ricercate le ragioni della sua recente fortuna tra un pubblico non di soli medievisti: nell’opera è possibile cogliere non solo le origini della moderna concezione dello stato occidentale, ma anche individuare a livello embrionale le diverse modalità di evoluzione che essa ha subito nei vari paesi d’Europa.
Il nucleo germinativo dell’opera, la sua ragion d’essere, non va tuttavia cercato nell’interesse per lo stato, ma per gli uomini mortali che elaborarono "la credenza politica nello Stato moderno e nel suo carattere perpetuo" (ibid., passim). K. ha fondato la sua inesausta ricerca della dignitas perpetua, che "non muore mai", in tutte le sue manifestazioni nell’universo mentale del Medioevo, muovendo da un ideale umanistico: il corpo mistico del re, che simboleggia la sovranità dello stato, è congiunto a un ideale di optimus homo, simboleggiante a sua volta la sovranità individuale, l’humanitas, la dignità stessa dell’essere uomo che accompagna, come un corpo mistico perenne, ogni singolo individuo, e che fa del principe, proprio perché appartenente all’humana universitas, un homo instrumentum humanitatis. Questa concezione della politica e della responsabilità di chi detiene un ufficio politico K. la ritrova, in un capitolo di straordinaria ispirazione, come categoria fondante dell’umanesimo medievale di Dante. Agli antipodi di quella "orribile esperienza del nostro tempo in cui intere nazioni, dalle più piccole alle più grandi, caddero preda dei dogmi più irrazionali e in cui i teologismi politici divennero autentiche ossessioni che sfidarono i più elementari principî della ragione umana e politica" (ibid., p. XVIII; trad. it. p. XXX), l’idea dantesca di humanitas potrebbe far risuonare la sua eco anche nel nostro presente. È questo un aspetto non secondario del lascito spirituale di K., ancora valido per tutti coloro che vogliono leggere e pensare, vivere e agire in accordo con il proprio pensiero".
Si tenga presente, per capire bene e meglio, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante"!!! Nel "Federico II, Imperatore" (un’opera che non solo getta luce sulla filosofia degli anni Venti del XX secolo in Europa, ma illumina meglio e tutto il percorso e l’orizzonte storiografico-filosofico dello stesso Kantorowicz, e sollecita a rileggere il suo lavoro del 1927 e del 1957 in modo unitario!), con grande chiarezza, così scrive:
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiarli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988, pp. 212-213).
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Federico La Sala
A lezione dalla storia per imparare chi siamo
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 27 gennaio 2013)
Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un’affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l’appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos’è mai la storia?».
Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.
Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un’idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.
Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell’altro ieri.
Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.
Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.
È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l’appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell’Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l’umanità. È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.
Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall’altro lato, il senso dell’individuo e dell’individualità si presenta molto più forte. In tali casi l’esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.
Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell’individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l’esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.
Una domanda nella quale non si è mai spenta l’antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.
Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.
La storia è una maionese impazzita
Ogni testimonianza oggi è verità rivelata
Il passato è ridotto a un serial televisivo o a un trekking in alta montagna
di Sergio Luzzatto (Il Sole Domenica, 30.11.2014)
Le cose sono andate in fretta. O comunque più in fretta di come io avrei mai immaginato. Nel volgere di una generazione - quella che separa me dai miei figli - la maionese della storia è impazzita. E non perché la mia fosse una generazione chissà quanto presa dal passato, mentre la generazione dei miei figli sarebbe chissà quanto ignorante o indifferente. Non si tratta di questo.
Nelle scuole e nelle università, oggi come allora si incontrano ragazzi appassionati di storia. Ragazzi che vincono la tentazione, così naturale per la loro età, di vivere in un eterno presente o in un futuro anteriore, e che scelgono di guardare anche indietro: ragazzi che per aggiustare la loro visuale sull’oggi cercano una profondità di campo estesa allo ieri o all’altroieri. Sono una piccola minoranza, ovviamente. Ma erano una piccola minoranza anche quelli di trent’anni fa.
La maionese della storia non è impazzita a livello di domanda, è impazzita a livello di offerta. E la responsabilità di questo non può ricadere, evidentemente, sulla generazione dei quindicenni o dei ventenni di oggi. A esserne responsabile, semmai, è la generazione dei loro padri. Cioè la mia. Quella del famoso «riflusso» seguito al famoso «impegno» degli anni Settanta. Quella di adolescenti che dopo avere perso (senza troppi rimpianti) l’ultimo autobus della rivoluzione, scoprivano l’insostenibile leggerezza del compiere vent’anni durante gli anni Ottanta. Nell’Italia spensierata della Milano da bere, ma anche nell’Europa acuminata della Lady di Ferro. E nell’Occidente che si disponeva a prendere per buona, dopo la caduta del muro di Berlino, la bufala all’americana sulla «fine della storia». È stata la mia generazione, quella di chi ha adesso cinquant’anni o giù di lì, la prima del secondo Novecento ad avere sorriso della grave massima di Cicerone, historia magistra vitae. Salvo trovarsi a dover misurare, ora, le estreme ricadute di quel sorriso di condiscendenza.
Per carità, evitiamo di farci incantare dalla retorica ciceroniana del De Oratore, che nella citazione completa del passo suona così: «historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (e nella traduzione di Wikipedia: «La storia è veramente testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità»).
Lasciamo stare Cicerone. Ma teniamo aperta la citazione dal De Oratore, sulla schermata di Google, abbastanza per notare come la maionese della storia sia impazzita, da una ventina d’anni a questa parte, proprio nella misura in cui i diversi elementi della definizione ciceroniana sono stati mischiati e rimischiati senza criterio, come in un cocktail dell’assurdo. Niente Bellini o Rossini, niente Margarita o Bloody Mary: al cinema come in libreria, sui media come sul web, nell’attuale offerta pubblica di historia gli ingredienti e i valori della ricetta di Cicerone - testimonianza e verità, vita e memoria, magistero e messaggio - sembrano usciti dallo shaker di un barista ubriaco.
Che si tratti di un kolossal hollywoodiano o di un documentario di History Channel, di un romanzo storico francese o del saggio di un divulgatore italiano, delle pagine culturali di un quotidiano o del sito di un museo civico, non c’è oggi testimonianza che non venga contrabbandata come verità; non c’è messaggio che non venga spacciato per magistero; non c’è memoria che non venga confusa con la storia.
Il passato bussa spesso alla porta del nostro mercato culturale, che sia sotto la forma di un film sui gladiatori o sotto quella di un serial sui Borgia, che sia come proposta di un trekking lungo le trincee della Prima guerra mondiale o come organizzazione di una gita scolastica ai forni crematori di Auschwitz. Il passato bussa, attira, e perfino fa cassa. Ma è un passato - paradossalmente - dimentico di storia, se per storia si intende qualcosa di più che le quinte di una coreografia o le sorprese di una sceneggiatura, che il brivido di un’emozione o la vertigine di uno spaesamento.
Intellettuali avvertiti avevano segnalato per tempo il rischio di un corto circuito "post-ideologico" fra ricerca e immaginazione, interpretazione e scrittura, non fiction e faction. Fin dal 1979 uno dei maggiori storici inglesi si era interrogato sui possibili effetti distorsivi di un «ritorno alla narrazione», dopo che per decenni la storiografia internazionale si era soprattutto affidata alla modellistica delle scienze sociali.
Nel 1998, una studiosa francese della Shoah ragionava dell’avvento di un’«èra del testimone» in cui l’assunzione del punto di vista di un singolo personaggio della storia - la testimonianza, per l’appunto - aveva ormai assunto il carattere, prima ancora che di una necessità interiore, di un imperativo sociale. Oggi, la contaminazione dei generi intorno all’uso pubblico della storia è talmente diffusa che quasi nessuno, là fuori, sembra più intenzionato a porsi il problema.
Raro, per non dire eccezionale, è il caso del collettivo italiano di scrittura Wu Ming, che ha accompagnato e accompagna la propria attività letteraria - quasi tutti romanzi o racconti storici - con una riflessione insistita quanto acuta sulle forme e sulle implicazioni di una «New Italian Epic».
Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia come all’estero, la maionese della storia impazza senza fare notizia. E senza che i critici letterari provino davvero a distinguere, se non l’olio dall’uovo, il grano dal loglio: l’impressionante cultura storica (oltreché l’invidiabile qualità stilistica) di un Javier Cercas o di un Emmanuel Carrère o di un Jonathan Littell, dalla finta confidenza con la materia dell’uno o dell’altro narratore travestito nei panni di un buono o di un cattivo del passato, partigiano polacco o gerarca nazista, alchimista del Rinascimento o terrorista delle Brigate rosse.
Gli storici di mestiere, per parte loro, esitano fra due strade. I più reagiscono all’invasione di campo di cuochi maldestri e baristi ubriachi trincerandosi nel ridotto dell’accademia. Scrivono libri illeggibili per chiunque non sia un loro collega d’università o un loro studente coatto. E li pubblicano con quanto resta loro a disposizione di fondi pubblici, il libero mercato editoriale non essendo più in grado di assorbire monografie destinate a poche decine di lettori.
Ma così facendo, gli storici di mestiere allargano il fossato tra il sapere e il trasmettere, oltreché il fossato tra lo scrivere e il farsi leggere. Sempre più vengono percepiti dalla nuova generazione - quella dei loro studenti, che può coincidere con quella dei loro figli - come i patetici ufficiali di una Fortezza Bastiani (se soltanto i ragazzi di oggi leggessero Buzzati) arroccati a difendere il deserto dalla minaccia di un nemico inesistente.
Un piccolo numero di storici professionisti, invece, reagiscono all’invasione di campo invadendo a loro volta il campo altrui, le cucine dei cuochi come i banchi dei baristi. Quasi fossero sospinti da un rigurgito marxiano di ostilità verso la divisione sociale del lavoro, abbandonano i luoghi e accantonano i ferri del loro mestiere - sale manoscritti delle biblioteche, buste degli archivi - per impugnare mixer e brandire shaker: si improvvisano artefici di intingoli e cocktails basati sulla contaminazione tra storia e letteratura. Senza rendersi conto che il talento narrativo è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l’ha mica se lo può dare. E senza sospettare che le loro divagazioni extra-storiografiche possono finire per gettare un’ombra, al limite, sul profilo stesso della loro produzione di storici.
È di altro che oggi si avverte il bisogno. Di un sapere storico saldamente ancorato alle regole del mestiere, eppure impaziente di uscire dalle secche di una comunicazione del passato tutta interna alla disciplina, riservata agli addetti. C’è bisogno oggi, da parte degli storici, di una rinnovata assunzione di responsabilità civile. Perché la domanda di historia che variamente emerge dal mondo della scuola, dal mercato dell’intrattenimento, dagli intrecci del web, non merita né di essere stroncata come imperdonabilmente superficiale né di essere vellicata con imperdonabile superficialità. A quella domanda di storia - quand’anche ristretta per vocazioni studentesche, confusa nei criteri culturali, caotica dentro l’orizzontalità della rete - merita di rispondere con un sovrappiù di investimento sulla qualità dell’offerta.
In effetti, l’intero problema dell’uso pubblico della storia rimanda a qualcosa di urgentemente contemporaneo, e di intrinsecamente politico: la grande questione dei common goods. Perché anche la storia - intesa sia quale scienza di un passato condiviso, sia quale tecnica di una memoria collettiva - deve essere oggi ripensata e tutelata quale «bene comune». Ma per valere da bene comune, la storia deve essere sottratta a chi vuole farne un bene indifferenziato: uno story-telling altrettanto spendibile alla fiera della creatività letteraria quanto nell’arena della propaganda politica. La storia è un bene troppo prezioso per essere lasciato in pasto a praticoni più o meno abili nella contaminazione dei generi e a liquidatori più o meno seduttivi di ogni cultura dei «professoroni».