CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?
Una dichiarazione di indipendenza e un appello *
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA. *
***
CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITÀ DI CITTADINI SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE, STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITÀ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di [...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITÀ e deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista (cfr. il documento Dominus Jesus di J. Ratzinger, le dichiarazioni anti- islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il 3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto l’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri umani sovrani, un uomo: ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund Freud)),
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETÀ a tutti i cittadini e a tutte le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA,
e
PROPONGO di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’ invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani ci sollecitava nella sua Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALORIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLO e LA FUNZIONE deila SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
***
N.B.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente, si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*, allora, al termine della catena, sta il lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. 13-14.
***
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nostra, personale e collettiva, coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? [CHI COME DIO?] Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della "Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi, i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore, 1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà democratica coincide con la massima metamorfosi verso un più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i popoli del mondo".
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
MESSAGGIO EVANGELICO E TRADIMENTO TRUTTURALE DELLA FIDUCIA...
LA CHIESA E IL VERGOGNOSO SILENZIO SULLA PEDOFILIA DELLA GERARCHIA VATICANA. Il tradimento strutturale della fiducia. Una nota sul numero 3 (2004) della rivista "CONCILIUM"
COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA...
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ARTE, E STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA SULLA PRESENZA DEI PROFETI E DELLE SIBILLE NELLA STORIA DELLA CULTURA EUROPEA.
NELLA UDIENZA DEL MERCOLEDI’ (16 ottobre 2024), il papa, portando avanti il suo "Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza" e, in particolare, sul tema del «“Credo nello Spirito Santo”. Lo Spirito Santo nella fede della Chiesa», ha detto che lo Spirito Santo "ha parlato per mezzo dei profeti": "[...] Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo. Per esempio, nel più antico Credo della Chiesa, il cosiddetto Simbolo apostolico, dopo aver proclamato: “Credo in Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, nato, morto, disceso agli inferi, risorto e asceso al cielo”, si aggiunge: “[credo] nello Spirito Santo” e niente di più, senza alcuna specificazione.
Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede. Quando questo processo iniziò - con Sant’Atanasio nel quarto secolo - fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo. Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [...]"(cit.).
I "VEGGENTI" DI MICHELANGELO E LA "CAPPELLA SISTINA". RICORDANDO IL FALLIMENTARE DISCORSO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO DEL FILOSOFO (E CARDINALE) NICOLA CUSANO, LEGATO ALLA SUA OPERA FONDAMENTALE, LA "DOTTA IGNORANZA" (1440), E ALLA SUA PROPOSTA SULLA "PACE DELLA FEDE" ("DE PACE FIDEI", 1453), NONCHE’ LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), E, AL CONTEMPO, IL LAVORO CRITICO DI FILOLOGIA REALIZZATO DA LORENZO VALLA SULLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" ("De falso credita et ementita Constantini donatione", 1440), FORSE, E’ OPPORTUNO RICHIAMARE ALLA MEMORIA LA LUNGA ONDA DELLA SOLLECITAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE E RIAPRIRE GLI OCCHI SUL FILO DELLA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL DISCORSO "PROFETICO" NON SOLO DELLA TRADIZIONE CULTURALE DEL POPOLO EBRAICO MA ANCHE DELLE TRADIZIONI CULTURALI DEGLI ALTRI POPOLI.
Nella intera Europa, è un caso che, a partire dalla costruzione della Cappella Sistina, "tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome", fino alla beatificazione di Teresa d’Avila da papa Paolo V nel 1614 e, ancora, alla santificazione da papa Gregorio XV nel 1622, i Profeti e le Sibille camminano insieme non solo nella Volta della stessa Cappella Sistina dipinta da Michelangelo Buonarroti (1508-1512)?
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’#UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO:
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! INSEGNAMENTO E #COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
L’ALGORITMO DELLA TRAGEDIA (SOCRATE-PLATONE-PAOLO DI TARSO-HEGEL) E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA POSTA DA KANT ("LOGICA", 1800). L’autonomia dello apprendimento e l’#apprendimento dell’autonomia, concepito l’una e l’altro, secondo le indicazioni dell’#illuminismo kantiano (1784), a mio parere, riposa sul #coraggio ("aude") del servirsi della propria intelligenza, sulla propria #capacità e sulla propria #volontà di "mangiare" e "bere" ("#sàpere") da parte dell’alunno e dell’alunna, e non sulla #maieutica di un Socrate che gioca a "sapere di non sapere" con l’alunno-schiavo ("#Menone") a dargli lezioni sul "non sapere di sapere"!
"SAPERE AUDE!" Il "problema Socrate", posto da #Nietzsche e nonostante Nietzsche, è del tutto ignorato e la sollecitazione di Michel Foucault a ripensare il rapporto "illuminismo e critica" (1984) è ancora fuori dall’agenda dei lavori del mondo della "platonica" Accademia e dell’"aristotelico" Liceo: che il trecentesimo anniversario della nascita di Kant (1724-2024) possa essere una buona occasione per cominciare!
LA SCUOLA DI UNA "ITALIA" CON LA SUA AUTONOMIA "AZIENDALE" , UNA "TRAPPOLA PER TOPI"?
DATO E ACCERTATO, DA ANNI, CHE NELLA SOCIETA’ "LIQUEFATTA" CI SONO MOLTI PIFFERAI CHE VANNO IN GIRO A VENDERE #GRATIS "FORMAGGI" PER I "TOPOLINI" E LE "TOPOLINE" DI TUTTA L’ITALIA, una piccola proposta: in tutte le scuole di ogni ordine e grado dello "stato di Danimarca", perché non preparare con alunni e alunne una bella azione teatrale, rappresentando proprio lo spettacolo dentro lo spettacolo del ’magico’ "Amleto" (III.2) di Shakespeare, "LA TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP")?
***
TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA): UNA QUESTIONE "ANTROPOLOGICA" DI GATTI DI TOPI E UNA CARTINA AL TORNASOLE PER IL "PIFFERAIO MAGICO".
A SCUOLA DA SHAKESPEARE, PER DIVENTARE UN GATTO, UNA GATTA...
"THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI"). SE PER AMLETO (figlio della regina Gertrude e del re defunto Amleto, e nipote del nuovo re, lo zio Claudio, diventato il nuovo sposo della regina-madre), tutto il "mondo" è diventato una immensa trappola, "una gran bella galera con tante celle e bracci e segrete. E la Danimarca è una delle peggiori" (II.2. 245-246), i nodi da sciogliere sono molti, tutti vitali e importanti: "O Dio, potrei venir chiuso in un guscio di noce e considerarmi re dello spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni" (II.2.254-256). E tutti questi "brutti sogni" toccano la radice stessa dell’essere (e del non-essere): la "testa" e tutto il "corpo" della stessa società! Detto in breve, è la questione del "Re del Mondo" - e del suo "corpo mistico"; un problema che tocca ogni cittadino e ogni cittadina e la vita della intera "Danimarca", e così, in quanto tale, del "principe" e del "giovane" Amleto. Come si suol dire: chi ha orecchie per intendere, intenda, e, "abbia il coraggio di servirsi della propria intelligenza" (Kant).
SOCIETA’, EDUCAZIONE, ED INSEGNAMENTO: IL PROBLEMA DELLA NASCITA E "LA CRISI DELLA ISTRUZIONE"
Hannah Arendt, nel suo "Tra passato e futuro" (1961), in riferimento alla "crisi dell’istruzione", forse, è utile #ricordare che, dinanzi a chi non sa, «l’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di #istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità». Di fronte a chi non sa, all’allievo e all’allieva, «è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro #mondo».
CIO’ CHE INTERESSA TUTTI «noi - ella prosegue - e non va quindi delegato alla scienza specialistica, è il rapporto tra adulti e bambini in genere. Si tratta (in termini più generali e corretti) della nostra posizione nei confronti della #nascita degli uomini: del fatto fondamentale che tutti siamo stati "messi al mondo" e che le nuove nascite rinnovano di continuo il mondo stesso. L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
fls
FILOLOGIA, FILOSOFIA, E PEDAGOGIA:
UN "INVITO" A USCIRE DAL LETARGO (Par. XXXIII, 94) E A RILEGGERE IL "CRATILO" DI #PLATONE, A RIASCOLTARE "LA VOCE DELLA SPOLA NEL #TEREO DI #SOFOCLE" (#ARISTOTELE), A INSEGNARE E IMPARARE A COME MEGLIO "FARE LA SPOLA", E, ANTROPOLOGICAMENTE, A CONCEPIRE UN ALTRO MODO DI #TESSERE IL RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE, IN GENERALE:
"[...]
SOCRATE: Se io ora domandassi: «Che strumento è la spola?». Non quello con cui tessiamo?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E, tessendo, che cosa facciamo? Non distinguiamo forse la trama e gli stami confusi insieme?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E non avrai modo di dire così anche del trapano e degli altri strumenti?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: E hai modo di dire lo stesso anche del nome? Quando diamo denominazioni con il nome, che è uno strumento, che cosa facciamo?
ERMOGENE: Non so cosa rispondere.
SOCRATE: Non insegniamo qualcosa gli uni agli altri e distinguiamo le cose come stanno?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: Il nome dunque è un mezzo suscettibile di insegnare e di farci cogliere l’essenza come la spola a proposito del tessuto?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: La spola è un mezzo per tessere?
ERMOGENE: Come no?
SOCRATE: Il tessitore si servirà bene della spola: e bene vuol dire da tessitore, così chi è atto a insegnare si servirà bene del nome e bene vuol dire da insegnante.
ERMOGENE: Sì . [...]"
("Cratilo", 388 b-c)
CONTRO "LA MISURA" DELL’#ANTROPOLOGIA (DI #ERACLITO E #PROTAGORA), L’#ALIBI DEL DEMIURGICO "SO-CRATILO" #DIALETTICO DI ESSERE #ALTROVE, NEL MONDO DELL’#IDEE, DOPO OLTRE "#VENTICINQUESECOLI" (#DANTEALIGHIERI), NON E’ ANCORA CHIARO CHE E’ UNA "STORICA" #APOLOGIA DELL’ #ANDROCENTRISMO PROPRIO DELLA #TRAGEDIA"?:
"SOCRATE: Ascolta dunque, [...] dopo la #giustizia di che cosa ci resta da #parlare? Il #coraggio, "andreia", non l’abbiamo ancora esaminato, io credo. è chiaro infatti che l’ingiustizia, "adikia", è di impedimento per l’ente ’che passa attraverso’, "diaion"; "andreia", invece, ’il coraggio’, significa come se questo nome di coraggio gli fosse stato attribuito in battaglia; e battaglia è nell’ente, se questo scorre, niente altro se non la ’corrente contraria’, "enantia rhoe"). Se dunque si elimina il "delta" dal nome di "andreia", il nome "anreia" significa proprio questa opera. E pur sempre chiaro che non la corrente contraria a ogni corrente è coraggio, ma quella che contrasta alla corrente che si oppone al giusto: diversamente infatti non verrebbe lodato il coraggio. E così "arren" (’#virilità’) e #aner (’#uomo’) si riferiscono a un qualcosa simile a questo, "ano rhoe" (’corrente verso l’alto’). #Gyne (’#donna’), poi, pare a me voglia significare ’#generazione’, "gone", e "thely" (’femminile’) pare che sia chiamato così da "thele" (’mammella’). E la "thele", Ermogene, non ritieni che sia detta così perché ’fa fiorire’, "tethelenai",) come tutto quello che viene annaffiato?
ERMOGENE: Mi pare di sì , o Socrate.
SOCRATE: E anche lo stesso thallein (’fiorire’) mi sembra che rapresenti la crescita dei giovani perché è rapida e
improvvisa. Ed è proprio quello che il legislatore ha imitato con il nome componendolo con il thein (’correre’) e
hallesthai (’saltare’). Ma tu non ti rendi conto che io mi lascio trascinare fuori dal seminato non appena imbocco un
tratto liscio. E sì che restano ancora molte questioni di quelle che sembrano impegnative.
ERMOGENE: Dici il vero.
SOCRATE: E una di queste è vedere anche #techne (’#arte’) che cosa mai vuol dire.
ERMOGENE: Ma certo.
SOCRATE: E non significa dunque techne "hexis nou" (’condizione della mente’), per chi toglie il tau e vi aggiunge
ou tra il ch e il n e tra il n e l’eta?
ERMOGENE: Sì , ma in modo molto cavilloso, o Socrate. [...]" ("Cratilo", 413 d-e/414 a-b).
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA #LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del corpomistico della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, RICERCA § INSEGNAMENTO: UNA QUESTIONE #HAMLETICA (DI SALUTE E SALVEZZA) EPOCALE.
Che cosa significa orientarsi nel pensiero...
«In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione». [...]" (I. KANT).
"SÀPERE AUDE!" (Immanuel Kant, Koenigsberg 1784).
Una nota per un "nuovo" #orientamento nel pensiero e nella realtà.
SENSIBILITÀ E INTELLETTO, OGGI. Per dirla diversamente (generalizzando e utilizzando una "vecchia" idea di #Kant: "I concetti senza le intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche"), "la ricerca ha bisogno per ampliare e trovare nuove soluzioni e per non esaurirsi, altrettanto, di un #insegnamento che sappia mantenere aperto il rapporto e il legame tra il sapere acquisito (i risultati delle ricerche compiute) e quello da acquisire proprio in rapporto alla ricerca relativa ai nuovi problemi e alle situazioni inedite. Senza un insegnamento vivo la ricerca muore, così come l’insegnamento senza ricerca viva: solo un circolo virtuoso rende possibile la vita all’uno e all’altra e, al contempo, permette di uscire dall’inferno epistemologico, impedisce di ri-cadere in un claustrofilico circolo vizioso, e, infine, apre la via alla nascita di un insegnamento e di una ricerca all’altezza dell’intera umanità e dell’intero Pianta Terra.
UNA "MONARCHIA" DI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E "IL SILENZIO DEI TEOLOGI" (PAOLO PRODI). PER NON PERDERE LA BUSSOLA DEFINITIVAMENTE, FORSE, DATA LA PORTATA DECISIVA DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA SU TUTTE LE ALTRE PROBLEMATICHE DELLA INTERA SOCIETÀ, IN ANALOGIA, VALE LA PENA TENER CONTO DI UNA RIFLESSIONE DI PAOLO PRODI SUL RAPPORTO TEOLOGIA E POLITICA: "una politica laica ha bisogno per vivere anche di una teologia che faccia il suo mestiere". (cfr. P. Prodi, "Il silenzio dei teologi", l’Unità, 07.01.2007).
Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr.:
KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE
fls
IDEOLOGIA E LINGUAGGIO: "ULISSE-POLIFEMO" E IL "PARADOSSO" DEL "MENTITORE" ("FATA MORGANA") *
I DUE VERSI DI EMILY DICKINSON
di Beniamino Placido ( la Repubblica, 10 aprile 1994).
Sempre per loro. Perché non si disperino. Cosa non si fa per loro, per quelli che verranno dopo di noi: fra cinquanta, cento, cinquecento anni. Poveretti, cercheranno di capire la nostra storia di oggi e si metterranno le mani nei capelli, ci sembra già di vederli. Come mai vinse quel Berlusconi: che non era un politico, che tre mesi prima non era ancora entrato in politica?
Non siamo egoisti. Diamogli una mano. Aiutiamoli a sgrovigliare nella loro Biblioteca i nostri giornali ingialliti, dove si naviga fra quattro, cinque ipotesi concorrenti. Berlusconi ha vinto perché era (o si presentava) come "nuovo". Il vecchio non andava più di moda. Berlusconi ha vinto perché era o si presentava come uomo "non politico". La politica non andava più di moda. Oppure: perché si presentava come l’ uomo dei "fatti", contrapposto agli uomini delle chiacchiere.
Le chiacchiere circolavano molto ma erano molto chiacchierate, in Italia. O ancora: Berlusconi ha vinto perché si presentava (e certamente era anche) un "vincente". Ce l’ ha fatta? Si è fatto da sé? Ebbene, farà in modo che ce la facciamo anche noi.
Altra ipotesi ancora: ha vinto perché aveva a disposizione tante televisioni, e le usava. Si può fare una previsione sicura, eccola. Sarà questa alla fine l’ ipotesi vincente. Perché la più comoda, la più pittoresca. Ma non necessariamente la più fondata. Se li avessi davanti, questi studiosi di domani (o dopodomani), impegnati a capire le nostre vicende di oggi, farei loro questo discorso. Non date retta. La televisione è potente, ma non onnipotente. Negli Anni Settanta la Democrazia Cristiana - al governo da sempre - aveva a disposizione tutta la Televisione che c’ era (tutta) e tuttavia non riuscì ad impedire che l’ aborrita legge sul divorzio passasse. Negli Anni Ottanta Umberto Bossi riuscì a creare la sua Lega, dal nulla, infischiandosene della Televisione.
Forse c’ entra qualche altra cosa. Forse c’ entra anche quel che si dice in televisione.
Se li avessi davanti, quegli storici di domani (o dopodomani) li costringerei a metter l’occhio su una cronaca da Torino (Massimo Gramellini, La Stampa, venerdì 1 aprile). Siamo a Mirafiori. Ecco un vecchio operaio che spiega come mai ci siano stati tanti voti per la destra. Anche a Mirafiori.
"Alza un braccio e lo punta su un condominio con tante finestre tutte uguali. Poi dice: io abito là. Tremila famiglie; di media in ogni alloggio c’ è un disoccupato e una tv: hanno votato Berlusconi perché lui ha fatto delle promesse, e noi nemmeno quelle".
E’ chiaro: non basta la televisione; ci vuole anche un disoccupato in casa (e c’è per spiegare il risultato elettorale del 27 marzo. A quel disoccupato Berlusconi ha promesso un milione di posti di lavoro. Ce ne sarà qualcuno (forse due) anche per lui, perbacco.
Supponete che quel disoccupato abbia venticinque anni e magari un diploma, o una laurea, in tasca. Segue la pubblicazione dei bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale. Poi accende il televisore (ecco dove la televisione conta) e vede che per una manciata di posti ci sono centinaia, migliaia di concorrenti. Famelici. E’ un incubo. Sarà sciocco, ma volete che non presti l’ orecchio alla prima promessa che gli viene fatta? Sarà imprudente, ma volete che non ceda al primo sogno che gli viene prospettato ("un nuovo miracolo economico")?
Su questo tema - della Fata Morgana, delle illusorie promesse, delle artificiose illusioni elettorali - si è molto discusso in questi giorni in Italia. C’ è stato anche chi ne ha negato ogni importanza. I sogni ad occhi aperti: ma figuriamoci. Lo ha negato anche Rossana Rossanda (il manifesto, venerdì 8 aprile).
Mi pare strano. Rossana Rossanda non può non saperlo: ci sono due versi della poetessa americana Emily Dickinson che le danno torto. Meglio un sogno che niente. E la Dickinson è una poetessa dura, aspra, essenziale. Fatta di pietra e di quarzo. Non si fa illusioni. Non ne autorizza. Non crede nel paradiso in terra, non le piace ("I don’ t like Paradise").
Eppure è lei l’ autrice di quei due versi dove è detto che quando si è al buio persino un fuoco fatuo è meglio di niente. Meglio della totale assenza di luce "Better an ignis fatuus / Than no illume at all"é. Dove quel latino di "ignis fatuus", dove l’ arcaico di quell’ "illume" vogliono dire che è così, fatalmente. E’ una vecchia storia. Possiamo (dobbiamo anzi) contrastarlo. Non possiamo negarlo.
Mi pare strano che la Rossanda non se ne ricordi. C’ è un vecchio volumetto della Savelli, dove quella poesia (tradotta da Barbara Lanati) figura. La prefazione al volumetto - e che prefazione: acutissima, splendida - era di Rossana Rossanda.
I’m Nobody! Who are you?
Are you - Nobody - too?
Then there’s a pair of us!
Don’t tell! they’d advertise - you know!
How dreary - to be - Somebody!
How public - like a Frog -
To tell one’s name - the livelong June -
To an admiring Bog!
***
Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare - come una rana
che gracida il tuo nome - tutto giugno -
ad un pantano in estasi di lei!
Emily Dickinson ("Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1997).
Ideologia, linguaggio, e psicoanalisi (in memoria di Edoardo Sanguineti).
NESSUNO (NOBODY)?
Cum grano salis: il nome di moltissimi "Nessuno" è solo l’altro nome di "nani sulle spalle di giganti" (E. Jeauneau, 1969): "Polifemo"... Perciò il naufragio e l’inferno di "Ulisse" (Dante, Inf. XXVI).
Federico La Sala
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
Ius scholae: cosa prevede e perché è un’opportunità di uguaglianza
La legge sulla cittadinanza attualmente in vigore risale al 1992. In trent’anni il mondo è cambiato (più volte) ed è cambiato anche il nostro Paese. La normativa per diventare cittadini italiani è invece rimasta ferma al palo ed è una delle più restrittive in Europa.
di Redazione La Fedeltà - 10 Luglio 2022
La legge sulla cittadinanza attualmente in vigore risale al 1992. In trent’anni il mondo è cambiato (più volte) ed è cambiato anche il nostro Paese. La normativa per diventare cittadini italiani è invece rimasta ferma al palo ed è una delle più restrittive in Europa, per non parlare del confronto con molti Stati americani, laddove quasi ovunque (dagli Usa al Canada, al Brasile) la cittadinanza è collegata direttamente alla nascita sul territorio dello Stato. Ius soli, come sintetizza efficacemente la formula latina.
In Italia, a meno di non avere almeno un genitore italiano (e si parla allora di ius sanguinis), gli stranieri possono chiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo dieci anni di permanenza continuativa e i loro figli devono comunque attendere il compimento della maggiore età e dimostrare di aver vissuto in Italia ininterrottamente dalla nascita. È una normativa così lontana dalla realtà maturata in questi tre decenni da produrre spesso risultati paradossali.
I casi che emergono dalle cronache riguardano per lo più il mondo dello sport, con giovani campioni nati e cresciuti in Italia impossibilitati a competere con i colori azzurri, ma ancor più straniante è la situazione di coloro (si stimano in circa un milione i ragazzi costretti in una sorta di limbo giuridico) che a scuola e fuori vivono quotidianamente accanto ai loro coetanei italiani, che magari parlano italiano con le colorite cadenze dei nostri territori, ma per la legge sono a tutti gli effetti degli stranieri.
La proposta di legge in discussione alla Camera intende porre rimedio a questa profonda contraddizione collegando l’acquisizione della cittadinanza a un percorso formativo. Per questo è stato coniato il termine ius scholae.
L’art. 1 del testo all’esame dell’Aula di Montecitorio afferma che acquista la cittadinanza italiana “il minore straniero nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che risieda legalmente in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale”. Il testo precisa che “nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva del corso medesimo”. Un apposito decreto interministeriale, previa intesa nell’ambito della conferenza Stato-Regioni, fisserà i requisiti essenziali che devono avere i percorsi formativi “ai fini dell’idoneità a costituire titolo per l’acquisto della cittadinanza”.
Sempre l’art. 1 stabilisce che, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, per acquisire la cittadinanza è necessario che “un genitore legalmente residente in Italia” o “chi esercita la responsabilità genitoriale” esprima una “dichiarazione di volontà” all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore. Dopo di che “entro due anni dal raggiungimento della maggiore età l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza”. Nello stesso termine temporale l’interessato, essendo diventato maggiorenne, può richiedere direttamente la cittadinanza se gli altri titolati non hanno provveduto a farlo precedentemente. Nei sei mesi precedenti il compimento dei diciotto anni, gli ufficiali dell’anagrafe sono tenuti a informare i residenti stranieri della facoltà e dei requisiti per richiedere la cittadinanza italiana. L’inadempimento di tale obbligo sospende i termini di decadenza per la richiesta.
Lo jus scholae non è il primo tentativo di modifica, ce ne sono stati altri negli ultimi dieci anni, dallo jus soli allo jus culturae. Tutti hanno finito per cadere nel dimenticatoio. Però in questo modo alcune persone rischiano di rimanere in una posizione ambigua. Non pienamente inserite, non totalmente incluse.
C’è un rapporto diretto tra mancata inclusione e sfruttamento. Ci sono molte persone che si trovano a vivere lungo un margine. Sono inserite nella società. Affrontano il loro percorso di studi, entrano nel mondo lavorativo, possono essere curati dal sistema sanitario. Tuttavia, non sono completamente inseriti. Ognuno finisce per abitare uno spazio intermedio e subisce le conseguenze di questo suo stato. In quello spazio intermedio attecchisce lo sfruttamento. Lo sanno i migranti che barattano il loro sogno di futuro per un permesso di soggiorno lavorativo ottenuto per cogliere pomodori e vivere in fatiscenti strutture di lamiera. Lo sanno i giovani lavoratori che fanno finta di non conoscere alcuni dei loro diritti per cercare di mantenere l’occupazione per cui hanno studiato. Lo imparano presto i ragazzi e le ragazze di seconda generazione che sono in Italia, conoscono l’italiano e il dialetto della città dove vivono, hanno stili di vita identici ai loro amici e tifano le loro stesse squadre di calcio, ma a loro è impedito di sentirsi completamente accettati e inseriti.
Mary Poppins.
Perturbante e familiare.
Recensione di Anna Cordioli e Valentina Morabito *
Chi non conosce la incantevole Mary Poppins interpretata da Julie Andrews per Walt Disney nel 1964? Potremmo quasi considerarla una acquisizione da cultura generale di base. Eppure quanti poi hanno dato un’occhiata allo splendido libro scritto nel 1934 da Pamela Lyndon Travers? Certamente troppo pochi.
Vale la pena invece riscoprire questo testo (il primo di una serie) per ammirarne la profondità e la capacità di leggere ed interagire con l’infanzia.
Una piccola nota biografica sull’autrice ce lo rende ancora più caro.
Come è noto P.L. Travers ebbe un’infanzia segnata da gravi difficoltà: con una madre gravemente depressa ed un padre malato e alcolista. In questa situazione fece capolino una zia arrivata per aiutare quel nucleo familiare così fragile. Pamela rimase molto affascinata da questo terzo che viene in aiuto, apparentemente dei bambini, ma soprattutto dei genitori. È l’adulto che soccorre l’adulto, il contenitore del contenitore (Winnicott, 1965).
La ancora giovane autrice, colse la centralità di questa figura e cominciò ad inventare storie su di lei per intrattenere i propri fratellini.
Alla fine, i libri dedicati a Mary saranno sei e sono tutti una fucina di quadri interni, significati possibili e spunti di riflessione. Anche chi non lavora con l’infanzia, apprezzerà la versione cartacea di Mary, poiché, in fondo ci impone una profonda esplorazione di cosa sia un adulto.
Rimarremo qui, però, solo sul primo libro e su alcune scene che abbiamo trovato di estremo interesse e che nel film mancano o si intravedono appena.
Strangely familiar
Mary Poppins giunge portata dal vento in Viale dei ciliegi, a Londra, e assume, anche se sarebbe più corretto dire si prende, il ruolo di bambinaia dei figli dei signori Banks.
È irriverente, vanitosa e secca nei modi. A suo modo è espressione lei stessa dell’Infantile[1]: non si lascia catturare e non si trattiene; è in grado di dialogare con il mondo dell’infanzia e con tutto ciò che ad esso è legato.
Pamela Lyndon Travers, nel 1943, descrive Mary come “Strangely familiar” (Travers 1943, p.19), qualcosa di inattendibile, oscuro, nascosto ma allo stesso tempo stranamente familiare.
Questa sua caratteristica centrale è un rimando diretto al perturbante, quel tanto di inconscio, inelaborato ed infantile che, rimosso ed espulso, riappare nella nostra vita causandoci una quota di stupore appena percepibile. Il perturbante è allo stesso tempo estraneo e molto personale. È proprio l’incontro con lo strangely familiar che permetterà nel libro la bonifica sia dell’estraneo che del familiare.
“Quanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda e tanto meno facilmente riceverà un’impressione di turbamento [Unheimlichkeit] da cose o eventi.” (Freud Opere 9 1919, p. 83)
Proprio per questa capacità di Mary, di essere un oggetto misto, a cavallo tra inconscio e estraneità, la sua presenza diviene fondamentale per i quattro bambini Banks. Li aiuterà infatti a trovare il coraggio per sentire che l’esistenza è sopportabile e anche piacevole, necessario approdo per uscire dall’infanzia e avviarsi verso l’età adulta.
—
Andrew e Miss Lark
Prima di entrare al numero 17 di viale dei ciliegi, indugiate con noi sul cancello di qualche numero civico precedente, la casa di Miss Lark e del suo cagnolino Andrew.
Miss Lark è una signora molto curata e che tiene particolarmente alla immagine di sé. Vive con i domestici ed il suo cagnolino, che adora. Lo ricopre di attenzioni e lo cura scrupolosamente affinché non sia mai in disordine, mal curato o non nutrito con la dovuta ricercatezza. Andrew non deve riposarsi per terra come fanno i cani, ha un cuscino di seta per questo, quindi, certamente, non potrà mescolarsi con i quattrozampe del quartiere.
Andrew, però, si ribella fieramente alle stucchevoli attenzioni della sua padrona ed è un sollievo per il lettore. Si è stancato, si è sentito umiliato e tenuto lontano dai suoi simili. In particolare vede un gruppo di altri cani che, per quanto imperfetti e non altolocati, sente amichevoli.
Andrew coglie al volo l’occasione che, non a caso, Mary Poppins crea con la sua capacità di attirare gli sguardi su di sé. Mary rappresenta il “terzo” che per un momento riesce a liberare Andrew dallo sguardo narcisisticamente cieco e modellante di Miss Lark. Gli dà qualche ora di vantaggio per poter correre a sporcarsi con il suo amico Willoughby, un cane comune, disprezzabile, vivo.
Questo tipo di rapporto genitoriale ci ricorda una situazione clinica, meno fortunata, riportata da Semi nel testo “ Il Narcicismo” (2007), dove “ la figura di una madre opprimente preveniva ogni desiderio del figlio ma che, sopratutto, sapeva sempre cosa potesse essere bene per lui [...] la rabbia narcisistica del paziente, la rabbia di non poter mai esprimere il proprio desiderio, pena il rischio di perdere la relazione - vitale - con la madre, esprimeva anche una drammatica incertezza, una sensazione di incapacità, di incompletezza che veniva proiettata sugli altri.” (Semi, 2007, p.81).
Barbara e John
Varchiamo la soglia del numero 17 e, per chi non li conoscesse, vi presentiamo i due gemelli Barbara e John, fratelli minori di Jane e Michael. I bambini hanno alcuni mesi, non hanno ancora messo i denti, di conseguenza la conversazione a cui Mary Poppins assiste distrattamente è sorprendente, tenera, del tutto comprensibile. I gemelli chiacchierano con lo stornello, il sole ed il vento, di come sanno far divertire i grandi con i loro gesti buffi e di come sanno consolare la mamma quando si preoccupa. È proprio lo stornello a svelar loro che la loro capacità di comunicare con lui, il vento ed il sole, di lì a poco sarà dimenticata, come accadde ai loro fratelli e a tutti gli esseri umani che crescono e a cui spuntano i denti.
Ecco che la Travers ci accompagna a ritrovare il senso oceanico di comprensione del mondo e di fusione e confusione con esso. Quel luogo pre-edipico, luogo di appartenenza ad un tutto, che lascia dietro di sé, in alcuni di noi, la sensazione di un tempo dove era possibile capire perfettamente il linguaggio dell’intera natura, “...un sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenenza al mondo esterno nel suo insieme” (Freud, 1929, p. 558).
I bambini si ribellano a questa notizia, non vorrebbero perdere questa facoltà per doversi assoggettare al linguaggio verbale dei grandi e gridano: “non voglio i denti se mi faranno dimenticare tutte le cose che mi piacciono di più”. (Travers, 1934. 153)
Lo stornello, seccamente, risponde che toccherà. I denti spuntano, i bimbi crescono e dimenticano, ma non disperiamo: “Tutto ciò che viene perduto è da qualche parte.” (Travers,1982, p. 67).
John non può trattenere il disappunto singhiozzando. In quello entra la Sig.ra Banks che, com’è naturale, dà la colpa ai denti che stanno per spuntare. John comprende e smette di piangere: “d’altronde non era colpa sua, povera donna, se diceva sempre la cosa sbagliata!” (Travers, 1934. 156) E, per consolare la madre, si infila un piede in bocca ed inizia a strofinare.
Giorno Libero
Il capitolo intitolato “Giorno libero”, racconta l’incontro tra Mary Poppins ed il fiammiferaio. Ebbene, mentre nel film Mary Poppins accompagna Jane e Michael a passeggiare nel parco e, nell’occasione, incontra il vecchio amico Bert intento a disegnare dei magnifici paesaggi con i gessetti sui marciapiedi, nel libro la situazione è ben diversa.
Mary Poppins, dopo aver specificato le sue condizioni per quanto riguarda i suoi giorni liberi durante la sua permanenza in casa Banks, lascia i bambini a casa e si affretta ad incontrare Bert.
Si incontrano da soli, dopo aver lungamente atteso quell’incontro. La bambinaia è una donna che, nel suo giorno libero, incontra un uomo. Il lettore li vede entrare in un quadro apparentemente semplice ma che nasconde dolci crostatine ai lamponi e cavalcate insieme fino agli alberi dietro ai quali “entrambi sapevano cosa si nascondesse”.
La Travers racconta, così, un mondo sensuale, colorato e saporito, accessibile ai bambini solo in fantasia, e per questo ancor più delizioso e desiderabile. È il mondo della coppia degli adulti, del quale solo Bert e Mary Poppins conoscono i segreti.
Mary Poppins gode dunque delle dolcezze e dei piaceri che può avere nel suo giorno libero.
Al suo rientro a casa, Mary è costretta a rispondere alle domande dei bambini che le chiedono dove fosse stata.
Risponde di essere stata nel paese delle fiabe e, all’insistenza di Jane, la zittisce con superiorità dicendo che ognuno ha il suo paese delle fiabe.
Ebbene, quale curiosità e seduzione per un bambino sapere che esiste un paese delle fiabe a cui hanno accesso solo gli adulti!
Questa piccola scena ci ha fatto pensare al concetto di “Spazio Triangolare” di Britton (2004). Secondo l’autore inglese lo sviluppo psichico fin dalle prime fasi può essere visto all’interno di una cornice triangolare.
Il bambino si trova precocemente posto in una posizione terza, rispetto alla coppia, dalla quale osservare le relazioni oggettuali. Per Britton (che sviluppa questo concetto a partire da Freud, Klein, Bion ma anche Segal, Rosenfeld e Chasseguet-Smirgel[1]) affinché il bambino acceda a questo Spazio psichico dovrà poter accettare un legame che lo esclude, quello tra i genitori. Questo legame gli appare misterioso, perché fondato sull’appartenenza ad una generazione adulta, differente dalla sua, e su una relazione sessuale di cui egli può aver solo un’idea vaga. L’apparizione di questo spazio triangolare porterà l’individuo a potersi permettere anche un pensiero tridimensionale (Britton, 2004)
Nella lettura di Mary Poppins, ci colpisce la naturalezza, l’assenza di ambiguità, con cui la donna offre ai bambini la possibilità di essere esclusi dal legame, senza che questo appaia come un irreparabile insulto narcisistico ai piccoli. Vi è, anzi, una lucida comprensione dei confini, un impiego saggio del divieto a partecipare e un altrettanto misurato uso del pensiero magico.
—
Chiusura
Alla fine del primo libro Mary Poppins se ne va. Fin dall’inizio aveva precisato che sarebbe rimasta finché non sarebbe cambiato il vento, e così è stato.
Il vento è cambiato, è vento da Ovest, il vento del tramonto e del saluto, il vento che accompagna verso nuovi giorni, differenti da quelli di prima, quelli portati dal vento dall’Est.
Mary Poppins si diverte col vento che la incita e strattona mettendole fretta per ripartire insieme; lui la solleva e lei, ben contenta, si lascia sollevare aprendo il suo ombrello.
A noi non è dato sapere cosa si dicano quei due in quella conversazione concitata e allegra: noi abbiamo i denti e non possiamo più capire, però possiamo immaginare.
È il linguaggio segreto di due che si conoscono da una vita, e noi saremmo di troppo a volerne sapere di più. In fondo la possibilità di separarsi si basa proprio sulla capacità di essere fuori da qualcosa, senza per questo sentirsi perduti. Mary ha lavorato molto perché i bambini potessero permettersi di crescere e anche di salutarla.
Separarsi significa anche confrontarsi con l’immagine che dell’altro e del legame, resta in noi.
Ed infatti Mary Poppins, nell’accomiatarsi, lascia di nascosto un suo ritratto a Jane.
Anche su questo dettaglio del libro ci sarebbe molto da dire ma speriamo che qualcuno abbia la curiosità di andare a leggere da sé come andò nel libro.
Ci accomiatiamo anche noi con una frase della Travers: “Un libro, per esempio, non è affatto un libro a meno che, quando giungiamo all’ultima pagina, non continui dentro di noi.” (Travers 1989, p. 208).
E questo vale per tutti i legami che fanno crescere.
Bibliografia:
Andrè J., (2018) L’enfant de la psychanalyse, Retour sur l’angoisse. Association Psychanalytique de France. Paris. PUF
Britton R., (2004) Subjectivity, Objectivity, and Triangular Space, The Psychoanalytic quarterly 73(1):47-61
Cantone D., Pascale Langer F., Introduzione, riv. Richard&Piggle 2019;27(1):12-17
Freud S., (1919), Il perturbante, OSF 9 Bollati Boringhieri
Freud S., (1929), Il disagio della civiltà, OSF 10 Bollati Boringhieri
Semi A.A. ( 2007) Il Narcisismo, Edizioni Il Mulino
Travers P.L. (1934) Mary Poppins. [ Trad. It. Mary Poppins 2018 Rizzoli Mondadori]
Travers P.L. (1943) Mary Poppins opens the door.
Travers P.L. (1982) Mary Poppins in Cherry Tree Lane.
Travers P.L. (1989). Mary Poppins and the House Next Door.
Travers P.L. (1989). What the Bee knows. Reflections of Mith, Symbol and Story.
Winnicott D. (1965) Sviluppo affettivo e ambiente, Armando
--
Per chi fosse interessato ad approfondire la visione pedagogica della Travers, suggeriamo il testo “In volo, dietro la porta” Grilli G., (2002). Ed. Il ponte vecchio
* Fonte: Centro Veneto di Psicoanalisi (ripresa parziale, senza immagini).
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
Messaggio di fine anno del Presidente Mattarella *
Care concittadine, cari concittadini,
ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po’ di emozione.
Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni,come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente.
L’augurio che sento di rivolgervi si fa, quindi, più intenso perché,alla necessità di guardare insieme con fiducia e speranza al nuovo anno, si aggiunge il bisogno di esprimere il mio grazie a ciascuno di voi per aver mostrato, a più riprese, il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale.
Sono stati sette anni impegnativi, complessi, densi di emozioni: mi tornano in mente i momenti più felici ma anche i giorni drammatici, quelli in cui sembravano prevalere le difficoltà e le sofferenze.
Ho percepito accanto a me l’aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi.
In questi giorni ho ripercorso nel pensiero quello che insieme abbiamo vissuto in questi ultimi due anni: il tempo della pandemia che ha sconvolto il mondo e le nostre vite.
Ci stringiamo ancora una volta attorno alle famiglie delle tante vittime: il loro lutto è stato, ed è, il lutto di tutta Italia.
Dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità,l’abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compitinonostante il pericolo.
I meriti di chi, fidandosi della scienza e delle istituzioni, ha adottato le precauzioni raccomandate e ha scelto di vaccinarsi: la quasi totalitàdegli italiani, che voglio, ancora una volta, ringraziare per la maturità e per il senso di responsabilità dimostrati.
In queste ore in cui i contagi tornano a preoccupare e i livelli di guardia si alzano a causa delle varianti del virus - imprevedibili nelle mutevoli configurazioni - si avverte talvolta un senso di frustrazione.
Non dobbiamo scoraggiarci. Si è fatto molto.
I vaccini sono stati, e sono, uno strumento prezioso, non perché garantiscano l’invulnerabilità ma perché rappresentano la difesa checonsente di ridurre in misura decisiva danni e rischi, per sé e per gli altri.
Ricordo la sensazione di impotenza e di disperazione che respiravamo nei primi mesi della pandemia di fronte alle scene drammatiche delle vittime del virus. Alle bare trasportate dai mezzi militari. Al lungo, necessario confinamento di tutti in casa. Alle scuole, agli uffici, ai negozi chiusi. Agli ospedali al collasso.
Cosa avremmo dato, in quei giorni, per avere il vaccino?
La ricerca e la scienza ci hanno consegnato, molto prima di quanto si potesse sperare, questa opportunità. Sprecarla è anche un’offesa a chi non l’ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla.
I vaccini hanno salvato tante migliaia di vite, hanno ridotto di molto- ripeto - la pericolosità della malattia.
Basta pensare a come l’anno passato abbiamo trascorso le festività natalizie e come invece è stato possibile farlo in questi giorni, sia pure con prudenza e limitazioni.
La pandemia ha inferto ferite profonde: sociali, economiche, morali. Ha provocato disagi per i giovani, solitudine per gli anziani, sofferenze per le persone con disabilità. La crisi su scala globale ha causato povertà,esclusioni e perdite di lavoro. Sovente chi già era svantaggiato è stato costretto a patire ulteriori duri contraccolpi.
Eppure ci siamo rialzati. Grazie al comportamento responsabile degli italiani - anche se tra perduranti difficoltà che richiedono di mantenere adeguati livelli di sicurezza - ci siamo avviati sulla strada della ripartenza;con politiche di sostegno a chi era stato colpito dalla frenata dell’economia e della società e grazie al quadro di fiducia suscitato dai nuovi strumenti europei.
Una risposta solidale, all’altezza della gravità della situazione, che l’Europa è stata capace di dare e a cui l’Italia ha fornito un contributo decisivo.
Abbiamo anche trovato dentro di noi le risorse per reagire, per ricostruire. Questo cammino è iniziato. Sarà ancora lungo e non privo di difficoltà. Ma le condizioni economiche del Paese hanno visto un recupero oltre le aspettative e le speranze di un anno addietro. Un recupero che è stato accompagnato da una ripresa della vita sociale.
Nel corso di questi anni la nostra Italia ha vissuto e subito altre gravi sofferenze. La minaccia del terrorismo internazionale di matrice islamista, che ha dolorosamente mietuto molte vittime tra i nostri connazionali all’estero. I gravi disastri per responsabilità umane, i terremoti, le alluvioni. I caduti, militari e civili, per il dovere. I tanti morti sul lavoro.Le donne vittime di violenza.
Anche nei momenti più bui, non mi sono mai sentito solo e ho cercato di trasmettere un sentimento di fiducia e di gratitudine a chi era in prima linea. Ai sindaci e alle loro comunità. Ai presidenti di Regione, a quanti hanno incessantemente lavorato nei territori, accanto alle persone.
Il volto reale di una Repubblica unita e solidale.
È il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica.
La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l’unità nazionale.
Questo compito - che ho cercato di assolvere con impegno - è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale.
Questo legame va continuamente rinsaldato dall’azione responsabile,dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli. Ma non potrebbe resistere senza il sostegno proveniente dai cittadini.
Spesso le cronache si incentrano sui punti di tensione e sulle fratture. Che esistono e non vanno nascoste. Ma soprattutto nei momenti di grave difficoltà nazionale emerge l’attitudine del nostro popolo a preservare la coesione del Paese, a sentirsi partecipe del medesimo destino.
Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica.
Credo che ciascun Presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo,poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che - esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato - deve trasmettere integri al suo successore.
Non tocca a me dire se e quanto sia riuscito ad adempiere a questo dovere. Quel che desidero dirvi è che mi sono adoperato, in ogni circostanza, per svolgere il mio compito nel rispetto rigoroso del dettato costituzionale.
È la Costituzione il fondamento, saldo e vigoroso, della unità nazionale. Lo sono i suoi principi e i suoi valori che vanno vissuti dagli attori politici e sociali e da tutti i cittadini.
E a questo riguardo, anche in questa occasione, sento di dover esprimere riconoscenza per la leale collaborazione con le altre istituzioni della Repubblica.
Innanzitutto con il Parlamento, che esprime la sovranità popolare.
Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai Presidenti del Consiglio e ai Governi che si sono succeduti in questi anni.
La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare hapermesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio.
Ci troviamo dentro processi di cambiamento che si fanno sempre più accelerati.
Occorre naturalmente il coraggio di guardare la realtà senza filtri di comodo. Alle antiche diseguaglianze la stagione della pandemia ne ha aggiunte di nuove. Le dinamiche spontanee dei mercati talvolta produconosquilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico. Una ancora troppo diffusa precarietà sta scoraggiando i giovani nel costruire famiglia e futuro. La forte diminuzione delle nascite rappresenta oggi uno degli aspetti più preoccupanti della nostra società.
Le transizioni ecologica e digitale sono necessità ineludibili, e possono diventare anche un’occasione per migliorare il nostro modello sociale.
L’Italia dispone delle risorse necessarie per affrontare le sfide dei tempi nuovi.
Pensando al futuro della nostra società, mi torna alla mente lo sguardo di tanti giovani che ho incontrato in questi anni. Giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro, giovani che - come è necessario - si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che vogliono apprendere e conoscere, giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova.
I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani.
Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società.
Vorrei ricordare la commovente lettera del professor Pietro Carmina, vittima del recente, drammatico crollo di Ravanusa. Professore di filosofia e storia, andando in pensione due anni fa, aveva scritto ai suoi studenti: “Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi. Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa. Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare...”.
Faccio mie - con rispetto - queste parole di esortazione così efficaci, che manifestano anche la dedizione dei nostri docenti al loro compito educativo.
Desidero rivolgere un augurio affettuoso e un ringraziamento sincero a Papa Francesco per la forza del suo magistero, e per l’amore che esprime all’Italia e all’Europa, sottolineando come questo Continente possa svolgere un’importante funzione di pace, di equilibrio, di difesa dei diritti umani nel mondo che cambia.
Care concittadine e cari concittadini, siamo pronti ad accogliere il nuovo anno, ed è un momento di speranza. Guardiamo avanti, sapendo che il destino dell’Italia dipende anche da ciascuno di noi.
Tante volte abbiamo parlato di una nuova stagione dei doveri. Tante volte, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo sottolineato che dalle difficoltà si esce soltanto se ognuno accetta di fare fino in fondo la parte propria.
Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia.
L’Italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei.
Buon anno a tutti voi!
E alla nostra Italia!
Roma, 31/12/2021
*
Fonte: Presidenza della Repubblica.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Manifesto per la nuova Scuola
“La scuola deve tornare a essere principalmente un luogo di conoscenza e relazione umana”. Pubblichiamo un documento redatto da un gruppo di docenti per sostenere una nuova idea di scuola. Tra i firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Luciano Canfora, Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Alessandro Barbero, Tomaso Montanari.
di Autori vari (MicroMega, 16 Giugno 2021)
1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale
La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano - intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea - tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.
L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.
2) Per una scuola della conoscenza
Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione - a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione - gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.
3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini
Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni - al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica - e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.
In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale - che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi - sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici, fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.
4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni
Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva - insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori - e non con i rappresentanti di associazioni private - Fondazione Agnelli, Treelle, Anp - che rappresentano e perseguono appunto interessi privati.
5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti
La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari, - solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline - la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.
6) Restituire centralità all’ora di lezione
Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento - e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” - sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale. Se davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento:
via gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe;
via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità;
via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;
via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla;
via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia, della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica...non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre;
via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:
7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”
L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, - “organo costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei - in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.
8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti
Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata - richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo - e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.
C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.
***
Hanno sottoscritto il manifesto anche:
Alessandro Barbero
Mauro Biani
Riccardo Bocca
Luciano Canfora
Chiara Frugoni
Carlo Ginzburg
Vito Mancuso
Dacia Maraini
Donata Meneghelli
Ana Maria Millan Gasca
Tomaso Montanari
Filippomaria Pontani
Adriano Prosperi
Massimo Recalcati
Maria Michela Sassi
Salvatore Settis
Gustavo Zagrebelsky
Educazione civica urgente ma attenti a non tradirla ancora
di Goffredo Fofi (Avvenire, venerdì 28 maggio 2021)
Si ritorna a parlare, dopo molti anni di disattenzione e di un silenzio quasi totale, di educazione civica, una specie di disciplina trasversale e generale che fu una delle conquiste della scuola del dopoguerra, o meglio degli anni sessanta. Fior di manuali, anche scritti da personaggi esemplari del meglio della nostra storia recente, ricordavano a insegnanti e allievi l’importanza di saper bene in che Paese vivevano, quali erano le sue istituzioni, quali erano i diritti dei cittadini ma anche, finalmente, i loro doveri. Addirittura in anni in cui tutti, i sindacati per primi, parlavano di diritti e accampavano diritti mentre la parola doveri, nei confronti del prossimo e dell’ambiente e della collettività e magari dei propri dipendenti e soggetti, sembrava una specie di bestemmia.
Tutti accampavano diritti mentre tanti fingevano di ignorare di avere dei doveri. È da quella disattenzione per i doveri in un’epoca economicamente euforica perché "affluente", che si potrebbe anche datare l’inizio del progressivo disfacimento della nostra storia sociale e culturale, con le sue conseguenze in fatto di morale pubblica e privata.
Non è qui il caso di parlare dei disastri del nostro sistema scolastico, a partire da quello universitario («il pesce puzza dalla testa» si diceva una volta) e della necessità di una generale riforma degli studi: ma a chi affidare il compito fondamentale di pensarla e di scriverla? Certamente non ai pacificati e pedanti e superflui pedagogisti delle ultime generazioni.
Chi dunque fa davvero "educazione civica" oggi in Italia? Gli opinion makers dei giornali e del digitale, certamente, e malamente. Anche non sapendo di farla. Dei tanti successi della privatizzazione di quasi tutto (imposta dai "padroni" e propagandata dai loro servi e compari, in testa i grandi giornali) uno di quelli che ho potuto seguire anche controvoglia, essendo un accanito viaggiatore di treni, è stato, si dice, Trenitalia, che è peraltro una delle rarissime agenzie che praticano una perversa "educazione civica", se si tiene conto del paradosso di certi ossessivi e reiterati messaggi sonori (su un’alta-velocità ne ho contati uno ogni sette/dieci minuti) auto-pubblicitari o "educativi" che impediscono al viaggiatore ogni concentrazione (lettura, sonno, pensiero), e di cui il più assurdo di tutti è quello che invita sbraitando ad abbassare la suoneria dei cellulari e a parlare a bassa voce per non disturbare gli altri viaggiatori!
CULTURA
Chiara Valerio: "C’è bisogno di una riforma che mostri che la matematica, la fisica e la chimica sono ’umane’"
La scrittrice e matematica all’HuffPost: "Concentrarsi sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze"
di Adalgisa Marrocco (HuffingtonPost, 27.04.2021)
Raccontare la storia delle scienze, delle loro imprese, delle loro donne e dei loro uomini: da qui si potrebbe partire per far riscoprire l’amore verso lo studio delle discipline scientifiche, di cui spesso si narra la disaffezione da parte degli studenti. Soprattutto in Italia. E riformare la scuola, andando oltre i vecchi retaggi, per mostrare ai ragazzi quanto la matematica, la fisica e la chimica siano “umane” e figlie dei loro tempi. A parlarne all’HuffPost è Chiara Valerio, scrittrice e matematica, autrice di La matematica è politica (Einaudi).
Trova che in Italia lo studio delle discipline scientifiche sia poco incentivato?
L’idea che lo studio, qualsiasi tipo di studio debba essere incentivato, non mi ha mai convinto. Ma capisco la domanda. Diciamo che l’idea che per la matematica - così come per le lingue - sia necessario esserci portati è una idea scoraggiante emotivamente e deresponsabilizzante culturalmente. La comprensione ha una piccola percentuale di illuminazione e una grande percentuale di prassi e intenzione. Credo che sottolineare l’importanza dello studio sia importante, altrimenti in un attimo ci si sente vasi da riempire con poca o molta acqua. Per le ragazze è ancora più difficile, perché le grandi scienziate vengono poco e quasi mai raccontate. Non avrei voluto diventare Batman o Lady Oscar se non me li avessero raccontati, per esempio. Senza arrivare ai supereroi, raccontare che qualcosa è stato fatto a un livello eccellente, da donne e uomini, è una cosa che incentiva chi sta imparando a studiare e pensare di poter giungere a quello stesso livello e anche oltre. Ma capire non è una cosa da X-Men, è una cosa da esseri umani.
Ci sono delle ragioni storiche che determinano questa carenza?
Come ho scritto altrove (“ho poche idee, ma in compenso fisse”, diceva De Andrè e io mi accodo) si potrebbe far risalire la poca affezione allo studio delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr), come si chiamano oggi, allo scontro in due parti tra Croce e Gentile, da un lato, e Federigo Enriques, dall’altro. Tra chi, Croce, aveva un’idea della filosofia e chi come Enriques ne aveva un’altra. Sembrerebbe questa una discussione d’accademia ma non lo è perché, cominciata negli anni Dieci del Novecento, si è conclusa alla fine degli anni Venti del Novecento. Quando una guerra mondiale era finita, il fascismo aveva attecchito in Italia e Gentile era diventato ministro dell’Istruzione. In ballo c’era la riforma del sistema scolastico e universitario. Mentre Gentile e Croce tendevano a limitare la portata culturale della matematica e ad accorpare l’insegnamento di matematica e fisica, Enriques sosteneva la centralità delle scienze esatte per lo sviluppo tecnologico e più ampiamente culturale dell’Italia, centro del conflitto politico alla fine della guerra. La riforma della scuola la firma Gentile, non Enriques. Ma questo è l’inizio.
Poi cosa accadde?
Si potrebbe anche parlare della riforma Falcucci, nel 1985, con il Piano Nazionale Informatica - io l’ho fatto, per esempio - nel quale erano previsti, tra le altre cose, lo studio e la pratica dei linguaggi di programmazione. E ancora la riforma Moratti, dove l’informatica era diventata una delle tre famose “I” (insieme a Inglese e Impresa) ed era poi stata ridotta al conseguimento dell’ECDL e, dunque, al pacchetto Office.
Da dove partire per provare a colmare questo vuoto? Anche considerando che, nel frattempo, il Recovery Plan ha stanziato fondi per incentivare lo studio delle discipline STEM nella futura “Scuola 4.0”.
Da una nuova riforma scolastica e da una riforma dei testi scolastici, che si concentrino sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze, sulla risoluzione dei problemi e non si risolvano in un samsara di formule. Una riforma che preveda lo studio della storia della scienza, così come esiste lo studio della storia della filosofia e della storia dell’arte. Una riforma che mostri come la matematica, la fisica e la chimica siano figlie dei loro tempi e non esistano in assoluto, nel vuoto, da sempre e per sempre. Ma siano “umane” come tutto il resto.
Lei è matematica di formazione e lavora nell’industria culturale: ha senso mantenere uno steccato tra materie scientifiche e quelle umanistiche e sociali? Oppure bisogna andare oltre?
Non ho mai creduto o pensato ci fossero steccati. L’intelligenza viene presentata come la capacità di analisi - siamo cartesiani senza coscienza, per abitudine, forse per istinto, - ma di questa capacità di analisi ci entusiasmiamo e raccontiamo solo la pars destruens: la capacità di separare (”è una lama” si dice a Roma di una persona molto intelligente), ma nel racconto di questa intelligenza manca la ricomposizione - che pure Cartesio elenca nei suoi passi sul Metodo. Ecco, l’intelligenza unisce, non separa, connette. Io mi fido delle e confido nelle connessioni e relazioni, anche di cose lontane. È anche più divertente, no?
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: BASTA CON LA "MEZZA-FORMAZIONE" ("HALB-BILDUNG")! PER UN NUOVO CNR (E PER UN NUOVO "POLITECNICO": “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”.... *
La cultura politecnica che forma “ingegneri filosofi”.
Università, le sfide del Piano Draghi
di Antonio Calabrò (HuffingtonPost, 26.04.2021)
Giornalista, scrittore e vicepresidente di Assolombarda
“Ripartire dalla conoscenza”, sostiene Ferruccio Resta, per passare “dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università”. Resta è rettore del Politecnico di Milano e attuale presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. È un ingegnere, professore di Meccanica applicata alle Macchine (l’espressione “civiltà delle macchine” gli si adatta bene). E nelle pagine del nuovo libro, costruito attraverso un dialogo con Ferruccio de Bortoli e pubblicato da Bollati Boringhieri, ragiona non solo sulla necessità di investire massicciamente sulla formazione, per rendere l’Italia più competitiva, nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, ma anche sui contenuti della formazione, tenendo insieme, in modo originale, tecnologia e bellezza, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, matematica e letteratura, ingegneria e filosofia, come peraltro proprio la migliore storia culturale ed economica italiana ci insegna.
Serve una “cultura politecnica”, con la straordinaria attualità di un “umanesimo industriale” che oggi, in tempi di digital economy e di Intelligenza Artificiale, va declinato anche come “umanesimo digitale” (tutti temi, peraltro, più volte affrontati in questo blog). Il Pnrr (la sigla difficilmente pronunciabile che sta per “Piano nazionale di ripresa e resilienza”) e cioè la versione italiana del Recovery Plan della Ue, stanzia 31,9 miliardi per Istruzione e Ricerca, per rafforzare, cioè, “il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico”, come spiega Palazzo Chigi in un comunicato. In dettaglio, “il Piano investe negli asili nido, nelle scuole materne, nei servizi di educazione e cura per l’infanzia; crea 152.000 posti per i bambini fino a 3 anni e 76.000 per i bambini tra i 3 e i 6 anni”.
Si investe nel risanamento strutturale degli edifici scolastici, con l’obiettivo di ristrutturare una superficie complessiva di 2.400.000 metri quadri. E, per quel che riguarda i contenuti, si prevede una riforma dell’orientamento, dei programmi di dottorato e dei corsi di laurea, per esempio con l’aggiornamento della disciplina dei dottorati e un loro aumento di circa 3.000 unità.
Sempre un comunicato di Palazzo Chigi spiega che “si sviluppa l’istruzione professionalizzante e si rafforza la filiera della ricerca e del trasferimento tecnologico”. Con un’attenzione particolare per gli Its, gli Istituti tecnici superiori, per incrementare gli studenti iscritti, rafforzare i laboratori con tecnologie 4.0, formare i docenti e adattare i programmi formativi secondo le esigenze delle imprese in cerca di capitale umano qualificato, sviluppare una piattaforma nazionale per fare incontrare offerta e domanda di lavoro.
Siamo insomma di fronte a risorse di un certo livello, progetti ambiziosi, da realizzare in tempi brevi (il 2026, come scadenza massima). Il governo Draghi, insomma, s’è mosso. La Ue ritrova anche in questo capitolo il senso di fondo della sua strategia del Recovery Plan, in coerenza con l’orientamento di fondo indicato fin dal nome, “Next Generation”. L’impegno, adesso, è passare tempestivamente dalle pagine del Piano ai cantieri delle opere, alle scelte dei programmi didattici e alle realizzazioni.
Il libro di Resta e de Bortoli offre indicazioni preziose, su come usare bene i soldi finalmente a disposizione e dunque fare funzionare meglio università e ricerca, su come rafforzare il dialogo tra università, comunità sui territori e imprese. E su come progettare una formazione superiore che tenga conto del rapido sviluppo delle nuove conoscenze e dunque sull’usura altrettanto intensa di quello che oggi si sa.
Bisogna insegnare a imparare. E tenere testa a una seconda sfida, proprio di fronte all’impetuoso cambiamento delle tecnologie: quella di capire il senso delle cose che si fanno, indagare sui valori di riferimento, sulle conseguenze umane ed etiche dei progressi tecnologici. Non solo, dunque, saper scrivere efficacemente gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, ma comprenderne, controllarne e governarne gli effetti. Per evitare manipolazioni occulte (il monito etico di Luciano Floridi, professore a Oxford di Filosofia dell’Informazione) e cercare di conciliare sviluppo hi tech, libertà, responsabilità. Come devono saper fare degli ingegneri filosofi, dei tecnologi poeti, appunto.
Le discipline universitarie, suggerisce Resta, non vanno più inquadrate in “gabbie rigide”. E, proprio pensando ai Politecnici, insiste: “Un ingegnere oggi non è più il tecnico che deve rispondere al singolo problema, ma deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie”. Proprio le indicazioni di fondo del Recovery Plan della Ue, ambiente e innovazione, sostenibilità ed economia digitale, hanno bisogno di persone, di figure professionali formate in modo multi-disciplinare, adatta a fare sintesi originali di saperi in continua mutazione.
Il nostro Paese, insomma, ha urgente bisogno di investire su conoscenza e formazione, ricerca e innovazione. Risorse finanziarie e riforme del Recovery Plan ne sono finalmente strumento adeguato. Per costruire cultura del futuro, competenze, produttività e competitività. Abbiamo la necessità di superare il gap dei 13 milioni di persone che hanno solo un titolo di studio di scuola media inferiore formazione e il limite del basso numero di laureati, soprattutto nelle materie scientifiche. E dobbiamo dunque costruire una formazione migliore, non solo nei cicli scolastici, ma nelle relazioni lunghe tra scuola e lavoro, quella che tecnicamente si chiama long life learning, un’attitudine a imparare che ci accompagni per tutta la vita. Anche da questo punto di vista le università colte, aperte, efficaci nei processi formativi sono, come dice Resta, “centrali”. La conoscenza è il nostro migliore futuro.
*Sul tema, in rete, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! --- 8 MARZO 2021. Draghi: c’è tanto da fare per parità di genere a livelli Ue
PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES
Federico La Sala
Il mondo dell’infanzia /
A scuola da Walter Benjamin
di Giulio Schiavoni (Doppiozero, 19 Novembre 2020)
È nota la sensibilità di Benjamin per il mondo dell’infanzia e per la Kinderliteratur, aspetti ai quali peraltro non sempre si è dedicata opportuna attenzione. In un momento come l’attuale, sotto l’impatto delle restrizioni imposte dal coronavirus, è parsa venir meno per i bambini e i ragazzi post lockdown la gioia di divertirsi con mezzi di fortuna, in un giardino, in un cortile, su un marciapiede, in un’aula scolastica, e il gusto di stare insieme. Essi sono stati costretti a limitare a ritmi e abitudini quotidiane (o addirittura a rinunciarvi) e a veder modificati i rapporti scolastici che ne scandivano l’esistenza e che erano parte essenziale della loro identità. Perché non chiedersi allora se Benjamin non abbia ‘qualcosa da dire’ anche sul piano formativo e pedagogico, offrendo preziose indicazioni persino a qualche incuriosito maestro di scuola?
Theodor Adorno ha osservato nel suo Profilo di Walter Benjamin (1972): «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. (...) Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorgesse attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di Natale». Con tali parole egli metteva in luce un’importante componente del pensiero benjaminiano: il lasciar baluginare uno spiraglio che appariva rimandare a uno spazio utopico (che per Benjamin è poi la «tensione verso il messianico»), ben espresso nell’immagine delle luci dell’albero natalizio.
E il suo amico Gershom Scholem scrisse addirittura che il mondo dell’infanzia «faceva parte degli obiettivi su cui più durevoli e pertinaci indugiavano le sue riflessioni, e tutto ciò ch’egli ha scritto in proposito appartiene alle sue cose più perfette». Benjamin stesso del resto osservò: «Ci sono poche altre espressioni del mondo librario verso le quali io sia legato da un vincolo così stretto».
Per tanti anni, queste riflessioni specifiche sono state considerate marginali, forse perché andavano controcorrente rispetto alle leggi del mercato. (Anche se va detto che ci sono però state delle eccezioni al riguardo: in particolare, durante gli anni della rivolta studentesca a Berlino Ovest si ebbe un interessamento alle riflessioni pedagogiche di Benjamin da parte del «Consiglio centrale degli Asili socialisti», che nel 1969 stampò un’edizione pirata del suo Programma di un teatro proletario di bambini, tradotto in italiano e commentato quello stesso anno dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in una provocatoria Nota a Benjamin pubblicata su un numero della rivista “quaderni piacentini”).
L’attenzione per l’infanzia e le tematiche del mondo infantile si configura, nel pensiero di Walter Benjamin, come una specie di “terra d’approdo”. Negli anni intorno alla Prima Guerra mondiale, infatti, egli aveva idealizzato la gioventù (descritta come una Bella addormentata che occorreva far ridestare) e aveva militato nella Jugedbewegung, nel ‘movimento della gioventù’, ricalcando un po’ la retorica idealistica del suo maestro Gustav Wyneken, una figura carismatica di impostazione liberale. Ma poi si era ricreduto e s’era distaccato da Wyneken, rimproverandogli di aver reso cieca la «teoria», al punto da lasciare che la gioventù andasse ad arruolarsi, verso un’inutile immolazione.
È ipotizzabile che Benjamin abbia sviluppato l’interesse per le problematiche pedagogiche e per il mondo non ancora deformato dell’infanzia e l’abbia recuperato in chiave anti-idealistica e materialistica dopo questa delusione nei confronti della Jugendbewegung.
In tal senso si potrebbe idealmente ravvisare nel percorso benjaminiano uno spostamento d’interesse dalla «Jugend» alla «Kindheit», ossia dalle potenzialità della Gioventù a quelle dell’Infanzia. Complice di questo spostamento d’interesse fu probabilmente anche l’incontro con Asja Lacis, Georg Lukács, Ernst Bloch e successivamente Bert Brecht, che favorirono in lui l’apertura verso il pensiero marxista.
Nella ricca produzione di Benjamin sulla “letteratura per l’infanzia” rientra in particolare una serie di brevi articoli a carattere “pedagogico”, pubblicati fra il 1924 e il 1932 sulla «Frankfurter Zeitung» e in altre riviste dell’epoca weimariana. Essi sono reperibili in italiano nell’edizione einaudiana delle Opere complete di Benjamin nei volumi II-V (Torino 2001-2003) e sono stati ora riproposti in parte significativa anche nella raccolta Orbis pictus, Giometti & Antonello (Macerata 2020). A queste cosiddette «recensioni pedagogiche» vanno poi aggiunti i numerosi interventi benjaminiani alla radio tra il 1929 e il 1932 oggi noti come Racconti radiofonici per i ragazzi, alcune sezioni del libro di aforismi Strada a senso unico (1928) e dell’Infanzia berlinese (1932-1933) e la predilezione per l’opera di Proust, in cui il mondo dell’infanzia e quello degli adulti gli apparivano singolarmente intrecciati.
In parallelo Benjamin parve accostarsi al mondo infantile e accedere ad esso (“sbirciarvi”, secondo le sue stesse parole) anche attraverso l’uscio secondario e magico della sua passione collezionistica. Egli fu infatti anche un raffinato e ostinato collezionista di libri per l’infanzia, un genere che a suo giudizio si trattava di riabilitare e di «restituire alla vita».
Era una letteratura che il suo contemporaneo Karl Hobrecker aveva cominciato a togliere dall’oblio pur senza riuscire a spingersi oltre lo spirito di uno zuccheroso archivismo. L’intenzione di Benjamin era invece piuttosto quella di ricongiungersi - tramite il libro d’infanzia abbandonato e logoro - a un’esperienza della «felicità» a cui i bambini, a differenza di tanti adulti, gli apparivano ancora aperti. In tal senso tornava a riaccendersi in lui (come già nei surrealisti a lui contemporanei che condivisero un progetto di critica radicale della borghesia) l’esperienza suscitata in Baudelaire dalla contemplazione di giocattoli, ben espressa nella sua Morale del giocattolo.
Era una passione per i relitti di un passato ormai privo di contesto, per quelli che egli chiamava «avanzi di un mondo di sogno», rovine per le quali non c’era più spazio nella storia dei moderni, verso le quali - da Rimbaud e Baudelaire al Dada e ai surrealisti - il pensiero europeo si stava volgendo, alle quali egli tendeva per una «testarda protesta sovversiva contro il tipico e il classificabile» e che egli «salvava» per coinvolgerle nella strategia di distruzione della continuità storico-culturale. Ciò che è anacronistico conservò per Benjamin il carattere di ricettacolo dell’autentico emarginato dalla storia dei grandi eventi e, di conseguenza, la capacità «anarchica» di testimoniare contro la piattezza di chi sa soltanto proporre l’apologia dell’esistente e la logica del profitto. «Il collezionista d’arte» - si legge in un passo del suo saggio Parigi. La capitale del XIX secolo (1935) - «non si limita a sognare di essere in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili».
Capaci di restare refrattari alle leggi del mercato che non risparmiano la cultura e il libro, i collezionisti autentici orientano cioè - secondo Benjamin - il proprio sguardo verso il testo ormai introvabile intendendolo non già come un ennesimo articolo di scambio (come una merce) ma come il luogo in cui è assopito il «ricordo» di un’originaria «felicità» e «innocenza» che nel mondo adulto parrebbero rimosse. L’affermazione di Benjamin annuncia non soltanto la sua totale incompatibilità con la storiografia di impronta storicistica e idealistica che glorifica l’accadere come unilinearità di eventi irreversibili in cammino verso un indubitabile «progresso», ma anche la sua inclinazione e sensibilità per il lato rivoluzionario inerente all’arcaico e all’emarginato, la sua fiducia nel collezionismo come passione anarchica per la realtà, giacché ogni recupero del singolo oggetto proveniente dalla «lontananza» si tramuta, tra le sue mani, in un atto di «distruzione»: «La vera, disconosciutissima passione del collezionista» - soggiunge in Elogio della bambola - «è sempre anarchica, distruttiva». Il mondo dell’infanzia si delinea, sotto questo profilo, come il regno in cui la «maledizione di essere utili» potrebbe essere sospesa, data la marginalità - se non la totale irrilevanza - che l’infanzia riveste nel sistema produttivo degli adulti.
Tale passione è comprensibile a partire dalla biblioteca materna e dai libri da lui letti da bambino. Egli ebbe infatti la fortuna di trovare in casa tutta una serie di pregiati libri per l’infanzia, dato che sua madre disponeva di una ricca biblioteca di famiglia e che sua moglie Dora era appassionata di libri per bambini. E quindi poté nutrirsi di letture di tutto rispetto, che solo un bambino della buona borghesia come lui poteva permettersi. -Questa passione è documentata dalla folta “Collezione di libri per bambini” (Kinderbuchsammlung) benjaminiana, che vanta oggi 204 titoli e il cui Indice completo si può trovare nel già ricordato volume antologico di suoi testi Orbis pictus. Scritti sulla letteratura infantile (2020). Non molti anni fa tale Collezione, che andò incontro a varie traversie, è stata acquisita dall’Università di Francoforte e accolta presso l’«Istituto per la ricerca sul libro per la gioventù» di quest’ultima, dove tuttora è conservata.
Tra gli aspetti più significativi che emergono dalle riflessioni benjaminiane sulla letteratura infantile spicca anzitutto l’idea che chi legge è sovrano, che egli non può avere modelli pedagogici che lo terrorizzino o lo imbriglino. Quando legge, il bambino s’immerge interamente nella vicenda, fa un tutt’uno con i personaggi descritti e anche con le illustrazioni, lasciando scomparire tutto il resto. Nell’indicare questa modalità di lettura propria dei bambini Benjamin si discosta nettamente dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco e anche da buona parte dei pedagogisti suoi contemporanei. Egli intravede negli spauracchi inventati - nei secoli - dagli educatori per imbrigliare la fantasia infantile l’implicito venir meno di un’«autorità» autenticamente capace di mantenere il bambino aperto sull’orizzonte della «felicità».
A ciò si abbina un altro grande tema benjaminiano, connesso con l’amore per i libri «vecchi e dimenticati»: quello dell’elogio della fantasia, che deve restare libera dalla responsabilità e che si alimenta di materiali informi, di residui, di scarti che i bambini salvano dalla distruzione e riutilizzano in un’operazione di montaggio. In questo contesto è decisiva per Benjamin l’importanza del colore e del linguaggio delle antiche immagini colorate presenti nei libri illustrati, che invitano il bambino a un’immersione onirica in se stesso e nel regno della fantasia, ad abbandonarsi ai propri sogni.
«Solo i bambini» - egli scrive già in gioventù, nel dialogo L’arcobaleno (1915) - «dimorano interamente nell’innocenza, e quando arrossiscono ritornano nell’essenza del colore. In loro la fantasia è così pura, che ci riescono». A suo parere, è come se alimentando la propria fantasia a confronto con il libro illustrato il bambino viva una sorta di anamnesi in senso platonico. In un frammento relativo all’apprezzato illustratore ottocentesco Johann Peter Lyser, ragionando della «bellezza delle immagini a colori nei libri per bambini» (testo che a detta di Scholem rappresenta il punto di partenza dello splendido scritto Sbirciando nel libro per bambini, 1926), egli fa infatti un rimando esplicito proprio a Platone, annotando: «Se esiste qualcosa di simile all’anamnesi platonica, allora si attua nei bambini, per i quali il libro illustrato è il Paradiso. Essi apprendono mediante il ricordo».
Applicando tale suggestione anche agli oggetti di scarto, ai materiali desueti e alla letteratura dimenticata (in un certo senso finiti - o posti - ‘fuori della storia’) si potrebbe dunque ipotizzare che a tali materiali inerisca una particolare prossimità all’Idea platonica. Benjamin era convinto che, salvando libri negligentemente votati alla distruzione o alla scomparsa (ad esempio i libri di malati di mente, o di un ribelle e antimilitarista berlinese come Paul Scheerbart), egli restasse in sintonia con una «tradizione vivente», con voci che avevano da dire sulla loro epoca «cose assai più notevoli di molti degli autori affermati», assurti a «classici», divenuti ormai «canonici e perciò inefficaci» (aggiungeva ironicamente). In qualche modo era come se quegli ‘scarti’ librari, proprio perché messi fuori circolo, dimenticati e rifiutati, fossero più vicini di altre espressioni culturali al platonico Mondo delle Idee che non a quello della Storia.
In generale emerge nella riflessione benjaminiana la costante distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola nei confronti dell’infanzia. In questo senso il saggista berlinese si pone al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per «additare mete» o «sciorinare un sapere prefissato». È irrisoria, a suo giudizio, la preoccupazione di produrre «oggetti adatti ai bambini», in quanto i bambini giocano con oggetti di uso comune, che essi trasformano e tra cui scoprono nessi inediti. Essi mettono in rapporto tra loro questi materiali di scarto, ricomponendoli in modi nuovi e imprevedibili. Si tratta di una serie di prodotti che si potrebbero circoscrivere con l’espressione «avanzi di un mondo di sogno». Con tale espressione, da lui coniata nello stile dei surrealisti, Benjamin designa ciò che - come i vecchi libri per bambini - è finito fuori del circuito commerciale, proprio quegli ‘scarti’ che fanno la gioia del bibliofilo e del collezionista. L’espressione può però valere anche per i materiali residui dei lavori del muratore, del giardiniere, del falegname, del sarto e così via, che i bambini manipolano e trasformano, ponendoli in un «rapporto reciproco nuovo e discontinuo» mediante il gioco e l’immaginazione, e in cui essi «riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge soltanto a loro».
Analogo è, a giudizio di Benjamin, il comportamento del bambino nell’uso delle fiabe: nel suo scritto Vecchi libri per l’infanzia (1924) egli afferma non a caso che il bambino «può lavorare in modo naturale e sovrano con il materiale fiabesco, allo stesso modo con cui dispone pezzi di stoffa o mattoncini delle costruzioni». Riflessioni - queste - che andrebbero rimeditate anche in un momento come quello odierno in cui anche i bambini sono in libertà vigilata, assediati dal clima di paura nei confronti del contatto ravvicinato e della vicinanza sociale, forse impediti - a scuola - di manipolare o trasformare qualunque cosa capiti loro tra le mani.
Uno dei grandi modelli o riferimenti cari a Benjamin è stato l’Orbis Sensualium Pictus, (Universo dipinto delle cose sensibili) di Jan Amos Comenio, un educatore boemo considerato come uno dei pionieri della pedagogia moderna. Questo celebre testo illustrato fu pubblicato a Norimberga nel 1658. Esso si prefiggeva di insegnare ai bambini l’uso dei vocaboli associando una parola (o meglio il suono che vi corrispondeva) a un’immagine. Gli oggetti delle illustrazioni erano numerati e i numeri corrispondevano alle parole poste al fondo del testo: in latino, seguìto dal tedesco (perlomeno nella seconda edizione).
Benjamin fu colpito dal modo di insegnare auspicato da Comenio e dalla sua utilizzazione pedagogica delle immagini, in particolare dall’idea che l’insegnante, più che riempire di nozioni precostituite la mente del bambino, doveva destarne l’interesse, accenderne l’intelligenza e aiutarlo ad acquisire una conoscenza essenziale del mondo riflettendo da solo. A questo dovevano servire le immagini dell’Orbis sensualium Pictus e i vocaboli ad esse abbinati. Ogni illustrazione ritraeva un aspetto del mondo naturale o della vita umana in un linguaggio semplice, adeguato a chi era agli inizi della formazione. Comenio sconsigliava vivamente il ricorso alle punizioni corporali. Nella sua visione era importante anche il gioco, soprattutto il gioco di gruppo: nulla era così bello come imparare divertendosi; l’insegnante doveva incoraggiare la partecipazione degli allievi. Benjamin naturalmente conosceva bene tale testo, che figura nella sua “Collezione di libri per bambini”.
La passione per l’universo figurale dei vecchi libri illustrati fa un tutt’uno in Benjamin con la sua sensibilità per l’emblematica, per le associazioni di immagini, una tematica alla quale egli si appassionò trattandone diffusamente nell’Origine del dramma barocco tedesco, edito nel 1928, il libro con cui sperava di ottenere l’abilitazione presso l’Università di Francoforte. Comunque ad essa fa riferimento qua e là anche nei suoi interventi sui libri per bambini.
Com’è noto, l’emblematica è un genere letterario caratterizzato dal ricorso a immagini allegoriche contenenti solitamente un motto o una scritta collocati al di sopra della figura e un epigramma o una spiegazione in prosa o in poesia posti sotto alla figura stessa. È cioè una forma di comunicazione che combina materiale visuale e materiale verbale e che ebbe fortuna a partire dal Rinascimento e fu molto in voga nel Seicento.
Nel teatro barocco tedesco gli emblemi rivelavano un significato che riguardava la condizione creaturale e storico-sociale del mondo. Ad esempio un emblema particolarmente pregnante per l’epoca era quello del corpo senza vita, che rimandava alla caducità e fragilità, elementi che a giudizio di Benjamin contraddistinguevano un periodo storico segnato da eventi come la Guerra dei Trent’anni.
Altra caratteristica è la sensibilità di Benjamin per gli Abbecedari, per il fascino delle lettere. A suo giudizio, le lettere alfabetiche dei vecchi abbecedari (arricchite «con cura ornamentale» dapprima da ghirlande e arabeschi, successivamente da oggetti) apparivano invitanti e inducevano i bambini a inoltrarsi nel mondo che esse rappresentavano, e davano all’apprendimento il carattere di un’avventura. Con esse i bambini vivevano una gioiosa e giocosa identificazione mimetica, sperimentavano un momento di liberazione dalla paura. Erano il primo momento dell’ingresso in un mondo avventuroso, erano come «gli stipiti di una porta» che occorreva attraversare. Giacché, per Benjamin (in ciò davvero lungimirante), ai libri scolastici deve inerire un aspetto ludico, atto a incrementare la fiducia in sé del bambino.
Benjamin è stato tra i primi a individuare i rischi di una pedagogia invasiva della psiche infantile, una pedagogia che si prefigge tutt’altro che il fine di risvegliare nei bambini e nei ragazzi il giudizio autonomo e che mira invece a tessere un’apologia dell’esistente. Con le sue riflessioni sull’opportuna distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola, egli si poneva - così - al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per finalità precostituite.
In proposito val la pena menzionare la sua acuta recensione intitolata Kolonialpädagogik (Pedagogia coloniale), in cui stigmatizza i comportamenti di quanti considerano disinvoltamente l’educazione «in un’ottica coloniale volta allo smercio di beni culturali» e tendono a trasformare la «delicata e riservata fantasia del bambino» in una sorta di serbatoio da riempire.
A una simile impostazione Benjamin aveva già opposto - nel suo Programma di un teatro proletario di bambini, redatto nel 1928-29 su invito di Asja Lacis (l’importante pioniera del teatro sovietico per l’infanzia che subito dopo la Rivoluzione del ’17 aveva fondato a Orel un teatro di besprisorniki - ragazzi sbandati corrispondenti all’incirca ai nostri sciuscià - e che egli aveva incontrato a Capri nel 1924 invaghendosene perdutamente) una sorta di pedagogia alternativa, immaginata al di là delle modalità drammaturgiche di tipo ‘borghese’. In tale Programma da realizzare a Berlino, su proposta di Richard Becher e Gerhard Eisler, egli aveva prospettato un teatro in antitesi a quello borghese, un luogo (un luogo-teatro) inteso come spazio di un collettivo in cui il bambino poteva esprimere se stesso e si trovava a proprio agio perché improvvisava senza essere gestito dall’esterno, e in cui l’adulto aveva l’opportunità di imparare dal bambino: poteva ascoltare e osservare quanto il bambino stesso faceva, perdendo così la sua posizione di vantaggio (un po’ come avviene nello psicodramma, il teatro della spontaneità che negli stessi anni Jacopo Levy Moreno ideava a Vienna).
Non si può del resto non ricordare il giudizio sprezzante che Benjamin esprime nei confronti di certa pesantezza moralistica riscontrabile in non pochi pedagogisti della sua epoca, nei confronti delle «aberrazioni» perpetrate allora «grazie alla pretesa immedesimazione nella natura infantile» mediante «i racconti in rima e i ghignanti ceffi infantili che squallidi amici dei bambini dipingono per illustrarli».
Recensendo nel 1924 il libro Alte vergessene Kinderbücher [Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati] del collezionista berlinese Karl Hobrecker egli taglia corto scrivendo in proposito: «Il bambino chiede all’adulto una rappresentazione chiara e comprensibile, ma non infantile. Meno che mai ciò che l’adulto è solito considerare tale».
Invita così a prendere le distanze da metodi pedagogici moralistici (edificanti o terrorizzanti), e da forme di catechesi che si erano sviluppate a partire dall’Illuminismo e che venivano riproposte - sotto altra forma e veste - nel presente. Il suo è un richiamo a rispettare cioè l’autonomia e la spontaneità del bambino, a non voler mettere il cappello su ogni gesto del bambino immaginando figure e forme a sua misura, ideali per lui. Sarebbe già sufficiente - osserva Benjamin - prendere le mosse da ciò che offre la terra, con la sua pienezza di «materie pure, non adulterate», da cui i bambini sono tanto attratti...
Analogo interesse meritano i vari interventi da Benjamin dedicati al giocattolo, davvero istruttivi. In vari testi egli affronta in particolare la problematica dell’uso dei giocattoli, di cui peraltro sottolinea il carattere ambivalente. Essi infatti - sostiene - in quanto opera degli adulti sono pensati per indurre modelli di comportamento nel bambino. Al medesimo tempo, però, permettono al bambino stesso di riscattarsi proprio nel gioco, perché giocando egli può usarli in modo personale, fuori dagli schemi.
Nel ribadire le distanze dalle modalità di una pedagogia dai tratti «coloniali» Benjamin si rivela originale anche nell’approccio al mondo della fiaba. A tale riguardo nello scritto Fertili rudimenti degli inizi (del 1931), recensendo due volumi dell’illustratrice di libri per bambini Tom (alias Martha Gertud) Seidmann-Freud, nipote di Sigmund Freud, dedicati alle valenze dei sillabari, in maniera assai stimolante egli sottolinea la refrattarietà all’ideologia borghese dominante attraverso in particolare i meccanismi dell’esagerazione e della ripetizione, tipici delle fiabe. Nella lettura, i bambini gli appaiono dunque animati e guidati proprio da queste due costanti della letteratura fiabesca.
E il bello è che si tratta - a giudizio del saggista berlinese - di meccanismi che finiscono per coinvolgere in positivo anche gli adulti. Quali effetti produce nel bambino l’esagerazione? Essa lo rende capace di sfuggire in qualche modo alle violenze di adulti che gli propinano o gli destinano storie atroci come quelle narrate nel celebre Pierino Porcospino (1844) di Heinrich Hoffmann, e di discostarsi così dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco del «Sii educato, ordinato e pio!» Quanto poi alla ripetizione che si lega al raccontare fiabe e all’invito che solitamente il bambino rivolge agli adulti a «raccontare di nuovo», nel suo scritto Giocattolo e gioco (1928) Benjamin ritiene che grazie alla ripetizione sia il bambino che l’adulto che narra vengano messi in condizione di superare il terrore istillato da certi racconti. Insomma: un provare paura, ma per liberarsene.
Si direbbe che - riletti oggi - gli interventi benjaminiani sulla Kinderliteratur non abbiano perso nulla dell’attualità vera di cui il saggista berlinese è parso unicamente curarsi: l’attualità di ciò che contribuisce a schiudere la porta dei sogni e il libro della felicità, anziché a mettervi i sigilli forse definitivamente.
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. .. *
Il caso e la necessità. Come la pandemia migliora l’esame di maturità
di Giovanni Pellegrini ("Le parole e le cose", 22 marzo 2021)
La strada è quella giusta, ma chissà se è una strada! Come quasi sempre nelle cose di scuola, il cuore dell’impero promulga editti sensati o addirittura - oso utilizzare il termine - ragionevoli, in maniera quasi-casuale e quasi solo sotto la pressione della necessità.
Sto parlando dell’Ordinanza ministeriale del 3 marzo 2021 sull’esame di Stato del secondo ciclo, a partire dalla quale vorrei sviluppare qualche riflessione.
Intanto chiariamo subito che, nonostante l’apparenza determinata dal fatto che gran parte del testo è l’esatta fotocopia di quello dello scorso anno, l’ordinanza non è identica alla sua precedente e, soprattutto, non disegna affatto un esame dello stesso tipo. Certo non ci sono gli scritti e al centro dell’unica prova orale c’è ancora quella che, inevitabilmente ma molto impropriamente, abbiamo già iniziato a ri-chiamare “tesina”.
Tuttavia il modo in cui viene normato il colloquio e in particolare il modo in cui viene disegnato “l’elaborato” che gli alunni dovranno presentare sono decisamente migliori.
1. L’elaborato deve “concernere le discipline caratterizzanti [...] ed essere integrato, in una prospettiva multidisciplinare, dagli apporti di altre discipline o competenze individuali [...]”. Sono dunque novità (rispetto all’ordinanza dello scorso anno) sia l’esplicito riferimento all’apporto di altre discipline, sia l’assenza dell’assurda possibilità di “assegnare a tutti i candidati uno stesso argomento che si presti a uno svolgimento fortemente personalizzato”. Su questo punto la redazione della vecchia norma aveva lasciato campo libero al consueto esercizio ministeriale sul nulla, visto che è del tutto evidente che due elaborati sullo stesso tema, in quanto frutto di un lavoro di ricerca svolto da alunni diversi, cioè con riferimenti e approcci diversi, sono a tutti gli effetti elaborati diversi. È quindi ovvio che può essere assegnato anche a più di un alunno lo stesso argomento di partenza. Non c’è né da consigliare né da vietare nulla. E, soprattutto, non c’è alcun bisogno di insegnare agli insegnanti come si fa il lavoro dell’insegnante. Precisare serviva solo a favorire il disimpegno dei Consigli di Classe che potevano quindi serenamente assegnare un unico argomento a tutta la classe, e chi s’è visto s’è visto. Quest’anno ci ha poi pensato l’infaticabile Max Bruschi, nella nota di chiarimento all’ordinanza, a ripristinare un adeguato tasso di non senso. Come spesso accade il buon Bruschi ha perso una buona occasione per tacere. Ma - per nostra fortuna - esiste la gerarchia delle fonti e quindi la nota di Bruschi può e deve essere rapidamente consegnata all’irrilevanza che merita.
2. L’argomento dell’elaborato “è assegnato a ciascun candidato dal consiglio di classe, tenendo conto del percorso personale, su indicazione dei docenti delle discipline caratterizzanti” mentre lo scorso anno, del Consiglio non si faceva alcuna menzione e tutto sembrava lasciato alla relazione fra gli alunni e il docente delle materie di indirizzo. Esattamente come lo scorso anno, invece e in teoria, gli alunni potrebbero anche non avere alcuna voce in capitolo nella scelta. Il che è, al tempo stesso, ovvio ed ottimo. È del tutto evidente che è assolutamente sensato che i docenti invitino gli alunni a proporre un tema/argomento/testo da cui partire e su cui lavorare; ma la definizione dell’argomento è una ovvia prerogativa dei docenti.
3. La cosa più seria e più promettente è la questione dei tutoraggi. Certo è “promettente” anche nel senso che promette di costringerci a un lavoro faticoso ed impegnativo; tuttavia lo fa in modo sensato e con equilibrio. Qualunque percorso di ricerca e di approfondimento (ma anche solo la produzione di una riflessione pubblica) esige confronto e discussione con uno o più interlocutori che fanno osservazioni e che quindi orientano la produzione. Nell’editoria si chiama “referaggio” e di questo dialogo non può fare a meno neppure il ricercatore che si muova ai più avanzati livelli scientifici della sua disciplina. L’argomento secondo cui “gli alunni devono fare da soli” e sulla cui base, nei tanti anni dell’esame con “le tesine”, troppo spesso i docenti si sono sottratti al loro compito di maestri, ha costituito una catastrofica latitanza ed è stato l’architrave della costruzione di una parodia ridicola del vero apprendere e del vero ricercare. I non pochi che hanno tentato di opporsi lo hanno fatto al prezzo di enormi sacrifici individuali in termini di carico di lavoro, e con nessun risultato a livello di sistema.
L’ordinanza del ministro Bianchi fa giustizia di questo triste passato mettendo nero su bianco che il compito di tutoraggio è un compito che spetta all’intero Consiglio di Classe o, almeno (e questo secondo me è un limite), ai docenti “designati per far parte delle sottocommissioni”. Ovviamente questa necessaria chiarezza porta con sé una serie di problemi non solo organizzativi. Come scegliere i tutores per ciascun alunno? Alla base della scelta devono esserci esclusivamente le competenze disciplinari oggetto dell’elaborato? Come può un docente di matematica e fisica svolgere un ruolo di tutoraggio per un elaborato che sviluppa il tema del rapporto fra “legge umana e legge divina” a partire da un brano dell’Antigone o, per converso, come può un docente di latino interloquire produttivamente con un suo alunno su un elaborato che sviluppa una riflessione sui modi di risolvere le equazioni differenziali?
Le soluzioni per questi problemi, che non sono affatto meramente organizzativi ma didattici e persino autenticamente teorici, potranno essere trovate percorrendo strade diverse e alcune soluzioni si riveleranno, certo, migliori di altre. Difficile dire una parola univoca prima di essersi messi alla prova. Ma in generale credo si debba partire dal fatto che una produzione scritta, anche quella più tecnica e formalizzata, deve essere scritta - almeno in parte - in lingua italiana. E l’insegnamento dell’uso della lingua non è una competenza esclusiva del titolare dell’insegnante di italiano. La chiarezza espositiva, l’efficacia comunicativa, la correttezza formale della redazione, il rispetto delle consegne relativa a limiti d’ampiezza e struttura di un elaborato, devono essere prese in carico da docenti di ogni disciplina.
Per come la vedo io ciò cui bisogna puntare è un sistematico lavoro di collaborazione fra i docenti del consiglio di classe. Ciascun docente avrà un numero di alunni di cui sarà il tutor formale, ma poi gli alunni si rapporteranno con i docenti delle discipline che sono coinvolte nella loro produzione e che - forse è il caso di ribadirlo - non devono assolutamente essere tutte le discipline presenti nella commissione d’esame, pena la trasformazione dell’elaborato nell’arlecchinata che troppo spesso sono state le vecchie “tesine”. Ma fra il referee e il consulente disciplinare c’è una differenza essenziale. Sono due lavori diversi, ma altrettanto necessari e altrettanto importanti, soprattutto se i docenti in questione collaborano in un vero dialogo fra loro e con l’allievo.
Si poteva fare meglio? Sì, secondo me si poteva fare meglio, ad esempio disegnando il sistema dei tutoraggi su base di Istituto, coinvolgendo più che i Consigli di Classe i Dipartimenti disciplinari. Forse in questo modo almeno alcuni dei problemi legati alla ripartizione del lavoro e alla assegnazione dei tutores si sarebbe potuta risolvere meglio. Ma a parte l’aspetto organizzativo a me sarebbe parso un enorme guadagno in termini formativi il fatto che un alunno, nel produrre un elaborato in vista di una prova d’esame, avesse avuto la possibilità di relazionarsi con docenti diversi da quelli della sua classe.
Anche i tempi assegnati potevano essere pensati meglio. Intraprendere un lavoro del genere richiede, ad alunni e docenti, molto più tempo di quello previsto dall’ordinanza. Qui - probabilmente - l’emergenza e il cambio di governo hanno giocato a sfavore della ragionevolezza che suggerirebbe di fissare come data limite per la scelta di un argomento su cui iniziare un lavoro di serio approfondimento, il 15 Gennaio e non il 30 Aprile. Per rimediare sarebbe necessario anticipare il più possibile la definizione degli argomenti assegnati e la scelta dei tutores. A questo punto si dovrebbe pensare a compensare questa eccessiva restrizione dei tempi disponendo formalmente che almeno i docenti presenti in commissione, e almeno nell’ultimo mese di lezioni, non effettuino alcuna verifica formale nella loro disciplina; magari prendendo in considerazione la possibilità di valutare disciplinarmente lo stato di avanzamento del lavoro.
Su questo, anche per chi è animato come me da incrollabile ottimismo della volontà, le speranze sono davvero poche. Me lo ha fatto notare una alunna che, mentre ragionavamo in classe di queste cose, mi ha detto sul muso “prof., lei davvero è più idealista di Hegel”! Il vecchio prof., che si sente hegeliano dentro, è stato lusingato ma l’osservazione è dannatamente seria.
In conclusione una parola a tutti coloro per cui “l’esame è una finzione inutile e va abolito”. Un colloquio d’esame di questo tipo, anzi ancora più radicalmente centrato sulla discussione di un elaborato prodotto dal candidato, costituisce un’ottima prova d’esame perché lega il momento della verifica finale alla valutazione della autonomia di lavoro del candidato e alla sua determinazione nello svolgere un serio percorso di approfondimento. E lo è molto di più senza la pletorica presenza degli scritti disciplinari, che restano certo uno strumento essenziale per la valutazione di conoscenze e competenze ma che sono uno strumento a disposizione dei docenti per tutto il curricolo. È sulla base di quelle prove scritte che viene formulata la valutazione annuale. Non c’è alcuna ragione perché essi diventino il centro dell’esame finale. Un colloquio d’esame di questo tipo dovrebbe semmai essere moltiplicato e costituire, a differenti livelli di complessità, una prova d’esame per l’ammissione al successivo anno di corso, magari abbinato alla introduzione di quelle ripetenze disciplinari che consentirebbero ai docenti di segnalare le gravi insufficienze senza bocciare in tutte le discipline e agli alunni di non drammatizzare un esito negativo che non deve essere vissuto come un fallimento.
Chissà se la strada giusta sarà una strada e non solo la casuale risposta a una necessità dettata dalla pandemia. Solo nel caso in cui si tratti dell’inizio di un cammino destinato a durare avremo tempo per sperimentare e trovare soluzioni ancora più coerenti con il nostro compito di maestri.
*
NOTA:
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. LA CRITICA DI UN’ALUNNA AD UN “VECCHIO PROF, CHE SI SENTE HEGELIANO DENTRO” ... *
CHIARISSIMO PROF. PELLEGRINI, A LIVELLO FILOSOFICO E , INSIEME, ALLA LUCE DELLA DICHIARAZIONE STRATEGICA DEL GOVERNO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, MARIO DRAGHI, RELATIVA ALLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONALE ( “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge”), NON LASCEREI “CADERE” QUESTA OSSERVAZIONE “DANNATAMENTE SERIA” .
Perché ciò non avvenga, forse, potrebbe essere utile accogliere le riflessioni fatte da Francesca Rigotti nel suo recente intervento dedicato proprio al tema “Donne al futuro” (Doppiozero, 20 marzo 2021: https://www.doppiozero.com/materiali/donne-al-futuro), portarsi fuori dal letargo istituzionale di una antropologia ancora zoppa e cieca (hegeliana) e rendere possibile alle alunne e agli alunni una *reale* uscita (come chiaramente indica l’ art. 3 della *Costituzione*) dallo “stato di minorità”. Avere il coraggio di dire ai nostri giovani e alle nostre giovani che sono tutti *sovrani* e tutte *sovrane* non è che l’altro lato dell’avere il coraggio di servirsi della propria personale intelligenza.... O no?!
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
La Convezione di Faro sul patrimonio culturale
Il FAI auspica che il Parlamento ratifichi presto la Convenzione di Faro - sottoscritta dall’Italia nel 2013 - perché è un testo davvero rivoluzionario sulla tutela del patrimonio culturale, e in linea con lo spirito dell’articolo 9 della nostra Costituzione.
di Redazione (FAI, 25 novembre 2019)
Nell’ormai lontano 27 ottobre 2005 nella città portoghese di Faro fu presentata la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”. Dopo otto anni, l’Italia l’ha sottoscritta nel 2013. Ora il Parlamento italiano sta finalmente per ratificarla, al termine di un percorso alquanto accidentato anche in questa legislatura, dopo i tentativi fatti già nella precedente.
Il testo è stato approvato di recente a larga maggioranza nell’Aula di Palazzo Madama con 147 voti favorevoli, 46 contrari e 42 astenuti (a favore M5S, Pd, Iv, Leu, contraria la Lega, astenuta Forza Italia).
Il testo, pertanto, è stato trasmesso alla Camera per la seconda lettura.
Nel frattempo la Convenzione è stata sottoscritta da 24 paesi membri del Consiglio d’Europa ed è stata ratificata da 18 Paesi: Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Finlandia, Georgia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Moldova, Serbia, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia, Ucraina e Ungheria. Si attende ancora la ratifica di Albania, Belgio, Spagna, Bulgaria e San Marino, oltre all’Italia. Tra i paesi che non hanno né firmato né ratificato ci sono, fra gli altri, alcuni paesi importanti come la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Federazione Russa.
La Convenzione di Faro presenta notevoli caratteri di novità, a partire dalla stessa concezione del patrimonio culturale, che nella legislazione italiana, erede delle norme definite nel corso del Novecento e in particolare nella Legge 1089 del 1939, è ancora oggi legata alla centralità delle “cose”. Si introduce, infatti, una visione estremamente più ampia di patrimonio culturale, inteso come «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» e soprattutto affida uno specifico ruolo, una grande responsabilità e un protagonismo prima impensabile alle “comunità patrimonio”, cioè a
È un testo davvero rivoluzionario perché ribalta il punto di vista tradizionale: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini, dalla museificazione alla valorizzazione, come ha efficacemente sottolineato un grande economista della cultura recentemente scomparso, Massimo Montella.
Si segna, in tal modo, il passaggio dal “diritto del patrimonio culturale” (nel quale il nostro Paese ha una lunga e gloriosa tradizione) al “diritto al patrimonio culturale” (nel nostro Paese ancora tutto da affermare). Non sono più, cioè, solo gli specialisti, i professori e i funzionari della tutela a doversi ritenere gli esclusivi responsabili (a volte addirittura proprietari) del patrimonio culturale, ma sono tutti i cittadini, le comunità locali, i visitatori ad assumere un nuovo ruolo nelle attività di conoscenza, tutela, valorizzazione e fruizione. Non si escludono - sia ben chiaro - gli specialisti e i professionisti, come affermano alcuni oppositori. Ma si affida loro un nuovo e più impegnativo ruolo nella società contemporanea, nel rapporto con le “comunità di patrimonio”, con l’associazionismo, con la cittadinanza attiva. Si sottolinea, infatti, che
Si ribadisce in più modi la necessità della partecipazione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale», si attribuisce a tutti un ruolo attivo, riconoscendo il diritto (e il dovere) di partecipare alla conoscenza, alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio. Si invitano i Paesi sottoscrittori a
Si afferma il diritto, individuale e collettivo, «a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento» (art. 4) ed evidenzia la necessità che il patrimonio culturale sia finalizzato all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...» (art. 8).
La Convenzione di Faro allarga il concetto di patrimonio culturale anche a «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi» e impone che il patrimonio culturale vada tutelato e protetto non tanto per il suo valore intrinseco ma in quanto risorsa per la crescita culturale e socio-economica.
Purtroppo la Convenzione di Faro arriva tardi alla ratifica in Italia, come anche in altri paesi europei. Eppure, i principi illustrati a Faro quindici anni fa sono oggi ancor più attuali ed è ancor più urgente che essi ispirino le politiche di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, che necessitano di una maggiore partecipazione attiva dal basso.
Per questi motivi, il FAI, che fin dalla sua fondazione considera la partecipazione attiva della cittadinanza un elemento caratterizzante del suo DNA, auspica che il Parlamento ratifichi presto questa Convenzione e soprattutto che essa non corra il rischio di essere poi riposta in un cassetto ma che ispiri una profonda revisione delle nostre norme e delle procedure e soprattutto delle mentalità nel campo della tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, capaci di affrontare i problemi e le sfide del terzo Millennio.
Un’ultima considerazione: la Convenzione di Faro appare perfettamente in linea con lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa, lungimirante e ampia concezione di tutela del “paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione” affidata alla Repubblica (cioè, non solo allo Stato, ma a tutte le istituzioni pubbliche, Regioni, Città metropolitane, Province Comuni, e soprattutto all’intera comunità dei cittadini che formano la res publica) e lo stretto legame tra tutela e promozione dello “sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”.
NOTA BENE:
Camera, l’Italia ratifica la Convenzione di Faro sul patrimonio culturale
237 voti favorevoli, 119 contrari e 57 astenuti ("Ag/Cult", 23.09.2020).
FLS
Barbiana e la scuola 2020
di Dimitris Argiropoulos (Comune-info, 14 Settembre 2020) *
La pedagogia di Barbiana
Lorenzo Milani ha dedicato la vita alla formazione dei giovani delle classi popolari. La sua azione educativa era ispirata al Vangelo e partiva dalla valutazione dell’inferiorità sociale e culturale dei giovani montanari, con l’obiettivo di emanciparli dalla timidezza1, e aiutarli nello sviluppo di personalità libere e autonome.
La sua concezione pedagogica emerge dagli scritti e dalle Lettere collettive, tuttavia è nella strutturazione della scuola di Barbiana che trova la sua più chiara espressione. La sua idea di educazione non è concettualizzata in modo rigoroso e inflessibile, il priore non era un improvvisatore: la sua azione educativa restò sempre sottesa da pensiero costante, studio, attenzione e cura. Nonostante fosse isolato sul monte Giovi, leggeva2 molto, si confrontava con amici e intellettuali, contribuendo al dibattito europeo del suo tempo, intuendo verità che anni più tardi avrebbero trovato conferma e riconoscimento scientifico.
Con il suo operato don Milani ha incarnato il proprium della pedagogia, cioè «quello di essere disciplina prassica che deve continuamente porre le teorie al vaglio della prassi, autoregolando il “pensare su... con l’agire per...»3. Il pensiero pedagogico del priore si sviluppa in due direzioni.
1. Critica del sistema scolastico: a partire dall’esperienza di San Donato don Milani comprende il legame tra origine sociale ed esito scolastico, rapporto che diventa palese nelle sue drammatiche conseguenze con l’avvio della scuola media unica.
Don Lorenzo è convinto che per adempiere al dettato costituzionale l’uguaglianza non vada calcolata sulla libertà di accesso ma sulle opportunità di riuscita (uguaglianza sostanziale). Sviluppando queste riflessioni il priore, lettore accanito di saggistica francese4, si trova in linea con le idee su cui dibattevano in quegli anni i cosiddetti sociologi della “riproduzione sociale”: Louis Althusser, Pierre Bourdieu, Raymond Boudon e Claude Passeron. In particolare Bourdieu e Passeron con i concetti di capitale culturale ed ethos di classe dimostravano che la scuola non riconosce le disuguaglianze di base degli allievi, riproducendo in questo modo le classi sociali esistenti e perpetuando le disuguaglianze5.
2. Manifesto di istruzione alternativa a quella istituzionale ufficiale e pubblica, espressione di un modo inconsueto di guardare al sapere e alla formazione, che mette al centro la persona e la varietà di competenze e culture6. Don Milani è portatore di istanze egualitarie: lotta alla dispersione scolastica, valorizzazione della dimensione educativa comunitaria e promozione di una coscienza critica e autonoma. Dona tutto il suo tempo alla scuola perché è convinto di poter migliorare l’esistente: crede nell’istanza trasformativa dell’educazione, che richiede impegno, personale e seducente7. Per questo costruisce una scuola a pieno tempo basata sulla cura e sulla responsabilità reciproca, dove nessuno è “negato per gli studi”8 e dove ognuno è allievo e contemporaneamente maestro9. Un’educazione appropriata a fornire i mezzi per l’emancipazione sociale. Questa impresa si trova in linea con le idee dei teorici dell’attivismo pedagogico e del movimento delle “scuole nuove”: Dewey10, Claparède (e la scuola di Ginevra), Decroly, Montessori, Freinet11e il gruppo dei pedagogisti fiorentini12.
Don Milani è conscio dell’immenso valore della persona, di ogni persona. Concepisce l’educazione come emancipazione, un processo che non è conformazione, cioè adattamento acritico alla società, che è, invece, l’opposto dell’indottrinamento13.
Per don Lorenzo l’educazione è liberazione - di pensieri e identità - dai soprusi, dall’ignoranza, dalle ingiustizie. Pur considerando le differenze di contesto, la sua era un’idea di paideia, cioè di formazione all’interezza, all’integrità dell’uomo. Una formazione vista come processo educativo, come personalizzazione della cultura che sviluppa l’io e gli dà una forma personale, dura tutta la vita e si sviluppa attraverso la cura di sé. Formare significa “dare forma” (in greco Morphepoiesis - μορφοποίηση): la formazione per divenire tale richiede attivazione, il soggetto è parte attiva del processo: è formato e contemporaneamente si dà forma15. Per questo il fine della sua opera educativa era quello di formare cittadini sovrani16, in grado di analizzare la realtà a mente aperta e prendere coscienza della propria condizione, per uscire dai condizionamenti e autodeterminarsi.
Don Lorenzo è convinto che la scuola e la politica non debbano riprodurre le gerarchie esistenti ma essere comunità aperte che interagiscono con la società civile per la crescita di tutta la popolazione17. Ha fiducia nella cittadinanza democratica e nel progresso come elementi di cambiamento qualitativo dell’esistente. Le ingiustizie sociali restano tali a causa del consenso che il potere riceve dal basso, da parte di chi non ha gli strumenti per capire e prendere una posizione. Il sapere consente invece la presa di coscienza dei meccanismi dell’ingiustizia e deve essere usato dalle persone per liberarsi insieme dalla sopraffazione, essendo strumento di forza per organizzarsi, rivendicare i propri diritti, correggere l’esistente18. È questa la concezione di rivoluzione non violenta di don Milani, «per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue»19.
La scuola è concepita dal priore come un ponte tra passato e futuro: «deve formare al senso di legalità (rispetto delle leggi) e formare al senso politico (volere leggi migliori)»20. Fino a quando le classi popolari continueranno a restare in posizione di subalternità rispetto alla classe dirigente, non avranno un ruolo nella decisione politica:
L’insegnamento fondamentale che lascia ai ragazzi di Barbiana coincide con la motivazione per strutturare il loro impegno.
Per formare cittadini sovrani non basta trasmettere una serie predefinita di saperi: serve che i ragazzi abbiano gli strumenti critici per analizzare la realtà.
La scuola dovrebbe essere come una palestra, che allena i suoi alunni all’esercizio della democrazia, alla discussione, a far valere i propri diritti nel confronto con gli altri, in una prospettiva creativa e dagli esiti non definiti24. Per questo Lorenzo Milani scrive all’amico Meucci:
Si tratta dell’esigenza di formare nei ragazzi una coscienza critica, in grado di valutare la realtà rendendosi conto delle contraddizioni, sviluppando un pensiero autonomo che può arrivare a mutare l’esistente.26
1 «Due anni fa, in prima magistrale lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere visto». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa,cit., p. 9.
2 In una lettera del 1962 all’amico Giorgio Pecorini don Lorenzo richiede libri di pedagogia per i ragazzi, con riferimenti a testi di Dewey e Makarenko. Cfr. E. Butturini, Lorenzo e Adriano Milani: un’identica passione educativa, in Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit.
3 Cfr. Riccardo Pagano, La pedagogia generale. Fondamenti ontologici e orizzonti ermeneutici, in R. Pagano La pedagogia generale,Monduzzi, Milano, 2011.
4 Cfr. Peter Mayo, I contributi di Don Lorenzo Milani e Paulo Freire per una pedagogia critica, in Don Lorenzo Milani e la Scuola della parola, cit., p. 250.
5 Cfr. Elena Besozzi, Società, cultura, educazione,Carocci, Roma 2006, p.173.
6 Crf. Roberto Sani e Domenico Simeone (a cura di), Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit., p. 8.
7 Cfr. Antonio Michelin Salomon, In difesa della pedagogia, attualità di don Milani, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di De cit., p. 39.
8 Ivi, p.11.
9 «Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p.12.
10 Col grande pedagogista americano il priore di Barbiana condivide l’idea che l’insegnamento democratico debba partire dall’esperienza della vita quotidiana e debba essere incentrato sull’attività (learning by doing), sull’interesse e sulla cooperazione sociale. Cfr. C. Laneve, I modelli didattici del XX secolo, in R. Pagano, La pedagogia generale,cit., p.128.
11 Cfr. Franco Cambi, Manuale di storia della pedagogia, Laterza, Bari 2011, pp. 274-291. Il pensiero di Celéstin Freinet e il suo modello didattico basato sulla cooperazione e sulla Stamperie à l’ecole, fu diffuso in Italia dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), che annoverava Lodi tra i suoi seguaci. Col maestro di Piadena don Milani ebbe una fitta corrispondenza e grazie a lui introdusse a Barbiana il metodo della scrittura collettiva.
12 Cfr. Ivi, p.290. Ernesto Codignola, Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta svilupparono la lezione deweiana, in particolare il collegamento tra educazione e democrazia.
13 L’indottrinamento è «la perversione dell’educazione, capace di presentarsi come educazione ma di seguire [...] modalità e procedimenti razionali che non tengono conto degli effettivi bisogni dei soggetti, ma solo di questioni di principio: presentando, ad esempio, in veste di conoscenza, ciò che altro non è che un credo o, peggio, legittimando l’odio e conseguentemente la violenza». In Alessia Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, in «Quaderni di Intercultura», a. III, 2011, numero monografico L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di Dario De Salvo, p. 26.
14 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p. 96.
15 Cfr. F. Cambi, Pedagogia generale, cit., p. 35.
16 Art.1 della Costituzione italiana: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
17 Cfr. Maria Quartarone, Don Milani tra pedagogia e impegno sociale, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di D. De Salvo, cit., p. 56.
18 Cfr. Patrizia Panarello, Il consumo critico viene da Barbiana, Ivi, p. 45.
19 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.79.
20 L. Milani, L’obbedienza non è più una virtù, cit., p. 46.
21 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 93.
22 Ivi, p. 92.
23 Ivi, p. 94.
24 Cfr. A. Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, cit. p. 28.
25 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.54.
26 Cfr. M. Quartarone, Don Milani, tra pedagogia e impegno sociale, cit., p. 56.
27 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p. 200.
*
Dimitris Argiropoulos è docente di Pedagogia speciale e Educazione interculturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Parma. Autore di diversi saggi, è tra i redattori del Manifesto dell’educazione diffusa. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
Istruzione
I 150 anni della Montessori ci ricordano che è ora di un dibattito serio sulla scuola
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra un agghiacciante silenzio, e l’emergenza coronavirus non c’entra
di Lucio d’Alessandro *
Ricorrono il 31 agosto i 150 anni dalla nascita di una delle donne italiane di maggior fama internazionale. Scuole ispirate al metodo di Maria Montessori (1870-1952) sono, ancora oggi, presenti in molti Paesi del mondo, così come molti furono gli Stati che, dopo la sua rottura con il fascismo con il quale inizialmente aveva collaborato, l’accolsero trionfalmente, dagli Usa all’India ai Paesi Bassi, fino al Ghana che, appena dopo l’approvazione della sua Costituzione (1951) e in vista della definitiva indipendenza, le chiese di organizzare la Scuola della nascente Repubblica: ormai ultraottantenne ma indomita, la Montessori accettò. La morte la colse poco dopo a Noordwijk, in Olanda, dove visse gli ultimi anni.
L’anniversario coincide con l’anno nel quale il tema della scuola domina il dibattito pubblico come mai prima nell’intera storia repubblicana, fino al punto che un Governo rivelatosi finora immarcescibile sembra sospeso alle sorti della riapertura, in condizioni di migliore o peggiore agibilità, dell’anno scolastico ormai alle porte. Tuttavia, nessuno si inganni: si tratta di una mera coincidenza. Non solo perché, notoriamente, la pedagogia montessoriana si basava sulla libertà di “movimento” anche in aula degli studenti, mentre sotto le attuali lune pandemiche i vari comitati consigliano piuttosto di tenerli legati ai banchi, sia pure, in qualche caso, con comodo di rotelle.
Invero, l’ispirazione post-risorgimentale e sociale della Montessori, come quella di De Amicis o quella risorgimentale e femminile di Adelaide Pignatelli, fondatrice dell’Università Suor Orsola in Napoli e, ancora, l’azione ministeriale di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Giovanni Gentile erano ben consapevoli che solo una bildung che mettesse assieme educazione e istruzione, privilegiando in definitiva i valori della cultura, avrebbe potuto dare all’Italia quei cittadini e quella classe dirigente di cui quella fase di costituzione del Paese mostrava la necessità.
Credo che si possa dire, in parziale consonanza con le tesi di un libro (urticante e bello) di Galli della Loggia dal titolo rivelatosi, a distanza di un anno, singolarmente profetico (“L’aula vuota”), che la triade scuola-istruzione-cultura abbia giocato un ruolo strategico nella storia d’Italia dall’unificazione fino ad oltre la metà del ’900, consentendo a uno “Stato misero” di divenire una delle prime dieci economie del mondo. Ritengo sia anche vero che l’azione dei docenti italiani, in quella temperie culturale, sia stata decisiva e che una triade di ministri meridionali (De Sanctis, Croce e Gentile) di grande cultura ed ispirazione idealistica o neo-idealistica abbia dato all’Italia una scuola capace di consentire un’istruzione generalizzata dei suoi cittadini e una classe dirigente all’altezza di un grande Paese europeo.
Solo l’avidità mussoliniana di ascrivere a sé tutto ciò che vi era di buono in Italia, e poi la miopia della sinistra marxista di considerare negativamente tutto ciò che sapesse di merito e selezione, hanno fatto sì che la riforma Gentile che felicemente concluse quel processo culturale ed istituzionale passasse per la “più fascista delle riforme”. Come se proprio i fautori del fronte marxista della pedagogia italiana, concentrati nella redazione della bellissima rivista “La Riforma della scuola”, non fossero anch’essi figli di quella cultura classica voluta da Gentile, a cominciare dallo stesso direttore e fondatore Lucio Lombardo Radice, figlio di quel Giuseppe che era stato il maggiore collaboratore di Gentile negli anni ministeriali. La verità è che quella, pur con i suoi difetti era davvero una “buona scuola” e, perciò, anche una forma di educazione alla libertà ed alla elaborazione dello spirito critico.
Di quella scuola neo-idealista, così criticata nei contenuti e nei metodi, non vi è quasi più traccia nella scuola italiana di oggi e, specie in questi momenti, non è un buon segno, se è vero che essa fu capace di far progredire il Paese. Neppure un buon segno è il fatto che lo spazio del pensiero sulla scuola sia circoscritto alla riflessione didattico-pedagogica degli addetti ai lavori, senza uno sforzo di inclusione nel più generale dibattito sul Paese e sul concetto di cittadinanza.
Il campo lasciato vuoto dagli intellettuali è occupato piuttosto da un pensiero sindacale che, per sua stessa natura, si colloca in una sfera meramente quantitativa.
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra dunque un agghiacciante silenzio, e sembra che neppure le famiglie, a cominciare da quelle che potrebbero permettersi significativi investimenti, se ne mostrino consapevoli. Il rarefarsi, in molte città quasi lo scomparire, delle scuole non statali di qualità ne è un segno evidente. A ciò si è aggiunto il più recente fenomeno per cui ai diplomifici a pagamento, già presenti nell’arco formativo scolastico, si sono aggiunte realtà non dissimili perfino nel campo universitario. -Non meraviglia dunque se l’attuale dibattito risulta tutto concentrato sulla scuola come spazio nel quale tenere, o detenere, il tempo dei giovani per consentire alle famiglie e al Paese di riprendere, in condizione di relativa sicurezza, le proprie attività.
Di questa miseria culturale ormai antica non si può certo dare colpa all’attuale ministra, né invero appare generosa la critica verso di lei di una ex ministra, peraltro appartenente all’attuale maggioranza, che non ha lasciato in Viale Trastevere particolare memoria di sé, se si prescinde dal colore fiammeggiante delle sue chiome.
La situazione sul terreno è davvero difficile e credo sia giusto considerare con qualche generosità gli sforzi, certo un po’ errabondi, di un ministero che si trova, nella sostanziale incertezza dell’andamento della pandemia, ad affrontare il problema forse più difficile che la scuola italiana si sia trovato di fronte. In ogni caso il possibile viene fatto e molto, moltissimo, dovranno fare, come sempre i docenti e i dirigenti, nelle trincee delle singole scuole.
A quando dunque una seria ripresa del dibattito sul senso della scuola in Italia? Qualche settimana fa uno degli italiani attualmente più conosciuti e stimati sul piano internazionale, Mario Draghi, ha sottolineato l’importanza della scuola e dell’istruzione per gestire il futuro, invocando un forte investimento a favore dei giovani. È appena il caso di dire che tutti gli hanno dato ragione: cattivo segno, per il momento non se ne farà niente.Ma tra poco più di un anno occorrerà scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, e nelle piazze e nelle case d’Italia, molto più che nelle cosiddette segrete stanze, il nome di Mario Draghi circola fortemente... -Nel frattempo, il 14 settembre una nuova leva di studentesse e studenti entrerà nella scuola italiana, mentre appena qualche giorno dopo nelle aule universitarie verrà selezionata una nuova leva di maestre e maestri. Credo si debba dir loro che affronteranno probabilmente un anno difficile ma anche che il percorso degli studi è una delle fasi più belle e costruttive della vita che conserveranno nel tempo come straordinario ricordo e formidabile patrimonio di vita: forza ragazze, forza ragazzi!
* Rettore Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
* Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 agosto 2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA SCUOLA PUBBLICA COME ORGANO COSTITUZIONALE DELLA DEMOCRAZIA. Una nuova edizione del libro di Piero Calamandrei, "Per la scuola".
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora !) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Il discorso di inaugurazione
Meeting 2020, l’intervento integrale
di Mario Draghi (Corriere della Sera/Economia, 18 ago 2020)
Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò. Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti. In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.
Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile. Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada. Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, / Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, / E la saggezza di capire la differenza.
Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa. Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.
Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale. I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace. Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’’ Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione. Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre.
Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire. Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato. Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L’erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, che attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale; e in Europa, alle voci critiche della stessa costruzione europea, si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute essenziali per il suo funzionamento, concernenti: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato; regole successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia. L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente. Questa incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti, è stata poi amplificata dalla pandemia.
Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni. Tutto ciò è profondamente destabilizzante. Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale. Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che porterebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione, ma il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. Occorre pensarci subito.
Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale ed europeo che abbiamo conosciuto. È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito. Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo. La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi. Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall’esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.
L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo. Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento nei desideri delle nostre società; a cominciare da un sistema sanitario dove l’efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa. La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che può essere considerato il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati.
Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani. Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento. Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l’incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all’educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio. Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza. Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell’Università Cattolica a Milano.
Lo scopo della mia esposizione in quell’occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato. Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato. La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili. Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire. Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo. La pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.
Da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura (Next Generation EU) arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo. Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione. In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia. Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà. Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato. È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane. Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune. La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca. Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.
L’ATTENZIONE SECONDO SIMONE WEIL *
L’attenzione è il mezzo per trasformarci.
Da Attesa di Dio (Adelphi):
Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi: “Ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli.
Negli studi vi è spesso dispendio di un simile sforzo muscolare. E poiché alla fine ci si sente stanchi, si ha l’impressione di aver lavorato. Ma è un’illusione. La fatica non ha alcun rapporto con il lavoro. Il lavoro è lo sforzo utile, sia o non sia faticoso. Quando si studia, uno sforzo muscolare del genere, anche se compiuto con buona intenzione, è del tutto sterile.
La volontà, quella che, se occorre fa stringere i denti e sopportare la sofferenza, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale. Ma contrariamente all’opinione comune, nello studio è quasi irrilevante. L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio, devono esserci piacere e gioia. L’intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di apprendere è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Dove è assente non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che al termine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere.
L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma è uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, l’attenzione non è quasi più possibile, a meno che non si sia già molto esercitati; allora è meglio lasciarsi andare, provare a rilassarsi e cominciare daccapo dopo qualche tempo. L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si inspira e si espira.
Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: “Ho lavorato sodo”.
Ma, al di là delle apparenze, è molto piu’ difficile. Nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male di quanto non lo sia la carne. Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se’ stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone.
L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto.
Gli anziani come foglie
di Rosaria Gasparro (Comune-info, 15 Aprile 2020)
Oggi ho chiamato Nzina, la mia vicina di casa di un tempo, vive da sola nel nostro vecchio angolo dove ci sedevano al sole a “la pantagne”. Ha più di ottant’anni, almeno credo. Come stai? Non c’è male. Oggi sono andata alle Poste con la mascherina. In chiesa non ci vado più da tempo. Non sto uscendo. Quando c’è il sole mi siedo fuori. Non c’è nessuno. Solo io.
Ho poi chiamato zia Lina, novantenne, che dice di non lamentarsi, che non le manca niente, che ringrazia Dio per come sta. E poi zia Vituccia, novantotto anni a maggio, ha una voce serena e allegra. Anche lei sta bene, solo che vede con “la muruscene”, per dire l’ombra. Faremo una festa per i suoi cento anni. No, meglio prima, dice mio cugino, che pattuglia le strade. Di notte non c’è nessuno, e di giorno sono medici e infermieri quelli che fermiamo. Non vedo la zia da tempo, gli dico di mandarmi una foto. Ha la faccia come la voce, mette di buonumore vederla.
Ieri la zia di cui mi prendo cura compiva gli anni, novantasei. Le ho preparato la torta con le fragole, non sapeva che fosse il suo compleanno. Na, sto pense... Si n’one sciuti li carabinieri (è convinta che siano loro a impedirmi di andarle a trovare ogni giorno)? ma ce stè succede? m’à scì a llu cimitere? E questa finale è la sua fissa, quella di andare a trovare i suoi cari. E vicina mia madre, novantacinque anni a giugno, che si sfinisce di preghiere. Povere Criste, lu sto mette a’n crosce.
Come foglie. Penso ai versi di Giorgio Caproni. Per dire degli anziani deceduti, una generazione scomparsa senza far rumore. Qualcuno darà conto di questa strage.
Quanti se ne sono andati...
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.
Ci vorrà una Spoon River della Val Seriana, del Pio Albergo Trivulzio e di tutte le Rsa d’Italia in cui sono morti migliaia di anziani soli. Ci vorrà la giustizia per la verità su quanto accaduto e la letteratura che racconti la piccola gente.
*
Rosaria Gasparro, maestra, vive in Puglia ed è una delle animatrici dell’associazione Attacco poetico. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune “Ricominciamo da tre“. Altri suoi articoli sono qui.
Colin Ward, manifesto per un’educazione felicemente anarchica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 24 GIUGNO 2018)
Se la famiglia e la scuola sono da sempre considerati come gli ambienti dove in maniera più naturale e compiuta i bambini possono ricevere un’educazione e crescere positivamente, da tempo certi indirizzi pedagogici sembrano tendere verso un’altra strada, quella che vede nell’educazione diffusa in tutti gli spazi, soprattutto quelli della città, un’occasione irripetibile di confronto e crescita.
Si tratta di quello che viene chiamato solitamente un sistema formativo integrato e di cui, seppur senza dargli questo nome, parla anche Gianni Rodari nella sua Scuola della fantasia, quando scrive che «quello che i bambini imparano a scuola rappresenta la centesima parte di quello che imparano dai genitori, dai parenti, dagli amici, dall’ambiente fisico e sociale in cui crescono, dalle strade, dalla televisione, dai giochi, dagli oggetti, da tutto e da tutti» e insiste sul necessario abbandono degli schemi precostituiti perché «un bambino, ogni bambino bisognerebbe accettarlo come un fatto nuovo, con il quale il mondo ricomincia ogni volta da capo».
Colin Ward, nei saggi che compongono il nuovo volume edito da Eleuthera, L’educazione incidentale, prosegue con grande forza teorica e pratica in questa direzione, analizzando come gli spazi altri custodiscano luoghi di relazioni vitali e di sperimentazioni uniche, in quanto, come scrive Francesco Codello nella sua ricca e approfondita Introduzione, «per Ward ogni angolo della città è un’aula scolastica, ogni occasione è propizia a stimolare l’autonomia e la partecipazione diretta alla vita sociale». Quest’ultimo aspetto, relativo all’educazione come partecipazione alla vita sociale, risulta fondamentale: in un libro molto prezioso, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, edito da Baskerville, il sociologo Dennis De Kerckhove, scrive di come la crescita e l’educazione si arricchiscano con la partecipazione alla vita della città, perché essa «richiede tra i suoi appartenenti l’accordo sui tempi, sui valori, sulle norme di comportamento pubblico», costruendo solo così una «repubblica-città» basata sulla sintonia e la socialità.
L’educazione incidentale mette insieme dunque alcuni tra i momenti di riflessioni più importanti di Ward sull’educazione; ogni parte del libro è arricchita da una preziosa appendice di Codello che permette di situare il testo all’interno dell’opera di Ward, dà l’opportunità di approfondire gli argomenti trattati e riflette amaramente sulla situazione attuale.
L’aggettivo «incidentale» specifica il carattere più profondo di questi saggi - un’idea debitrice di quella formulata da Paul Goodman, altro grande educatore, sociologo e scrittore, tra i massimi e più onesti conoscitori della Gioventù assurda - che vedono Ward ribaltare la prospettiva comune che individua nella scuola e nella famiglia gli unici luoghi deputati all’educazione: «La scuola è diventata uno degli strumenti con cui gli adolescenti vengono esclusi dalle responsabilità e dalle attività reali nella vita come nella società» scrive Ward. I luoghi dove è possibile dunque imparare e crescere in comunità sono, secondo le parole dell’introduzione di Codello, «le strade della città, i prati e i boschi della campagna, gli spazi deputati al gioco (più o meno strutturato), gli scuolabus e i bagni delle scuole, i negozi e le botteghe artigiane, [che] non solo offrono opportunità straordinarie per un’educazione informale, ma sono luoghi vivi che si rivelano vitali per imparare».
I contributi raccolti sono, come si sarà inteso, variegati e toccano molte problematiche legate al mondo dell’educazione nonché molti luoghi della città. È sufficiente anche solo scorrere i titoli di alcuni di questi saggi per notare la molteplicità delle questioni, per esempio Un programma scolastico più rurale, dove viene posto un interrogativo ineludibile: «la scuola è una sorta di apprendistato obbligatorio alla vita, ma a che tipo di vita?», La libertà della strada, in cui invece Ward denuncia una società basata sulla mania per la sicurezza, sulle paure del diverso e dello sconosciuto (nell’Appendice Codello confronta questi ragionamenti con i divieti odierni dei bambini di tornare a casa da soli dopo scuola, mettendo in luce una continua privazione di autonomia) o La città come risorsa, saggio in cui sono racchiusi molti motivi ricorrenti della visione della città di Ward, come l’esplorazione dei luoghi urbani, la socialità e gli spazi di esperienza democratica. Uno dei testi è dedicato persino allo scuolabus come luogo di cultura, analizzando il tempo che i bambini passano sul mezzo per raggiungere la scuola, importante perché si tratta di un momento dove la vigilanza degli adulti è assente, e quindi possono sorgere in maniera spontanea questioni e atteggiamenti che da una parte replicano quelli che vedono a casa dai loro genitori e dall’altra invece vivono di una naturalezza e originalità altrimenti difficile.
In un’epoca dominata dai meccanismi gonfi e scricchiolanti dell’unificazione del pensiero e dell’individualismo sfrenato, il pensiero anarchico di Colin Ward brilla come una stella isolata e necessaria: non si tratta di evocare momenti di manifestazioni aggressive o proteste violente, non è questo l’anarchismo per Ward (e prova ne è l’essenziale e indispensabile L’anarchia. Un approccio essenziale, sempre edito da Eleuthera), quanto provare a rifondare il proprio pensiero su ideali libertari, egualitari e solidali, che ritrovano solo in un ideale generoso ed utopico la loro natura più intima, con la ferma e inequivocabile convinzione che, come scriveva pure don Milani, «uscirne da soli è egoismo, uscirne tutti insieme è la politica». Lo scenario in cui l’uomo deve ritrovare il suo movimento è per Ward quello della città, con l’abitazione di tutti i suoi spazi e la spinta alla costruzione di una onesta comunità.
Blended learning, con i nativi digitali la scuola sposa la tecnologia
I benefici del metodo misto come nuova forma di apprendimento scolastico
di Redazione ANSA *
Il panorama educativo dei nativi digitali è piuttosto diverso rispetto alle generazioni immediatamente precedenti: la tecnologia ha cambiato in maniera radicale il sistema. Basti pensare che, secondo una recente indagine dell’American Health Association pubblicata sul portale della CNN, il 42% dei bambini al di sotto dei nove anni trascorre in media tre ore al giorno davanti allo schermo. Dato che si ripercuote sullo scarso tasso di attenzione in aula dal momento che, secondo una ricerca pubblicata su USA Today, il 67% dei bambini di fascia di età compresa tra i 6 e i 10 anni fa fatica a concentrarsi.
Cosa bisognerebbe fare per renderli più partecipi durante le lezioni in classe? Gli esperti consigliano di utilizzare la tecnica del “blended learning”, apprendimento ibrido con un mix di ambienti diversi: combina il metodo tradizionale frontale in aula con attività mediata dal computer (ad esempio e-learning, uso di DVD, ecc.) e/o da sistemi mobili (come smartphone e tablet). Come riporta Forbes, rappresenta il principale trend educativo del 2020.
Ma quali sono i benefici del blended learning per i più piccoli? Aumenta l’interazione con i docenti, rende l’istruzione più accessibile, stimola la loro creatività e li prepara a un futuro digitale. “La giusta sinergia tra lezioni frontali e l’impiego di dispositivi tecnologici aiuta i bambini a essere più attivi e partecipi in classe - spiega Eva Balducchi, co-fondatrice di Baby e Junior College - Per questa ragione nella nostra scuola adoperiamo lavagne interattive touchscreen, tablet, microscopi digitali e computer come strumenti per stimolare la curiosità dei più piccoli, avvicinandoli non solo ad un approccio ludico, ma di utilizzo funzionale alle attività didattiche, cercando di sviluppare in loro anche uno spirito critico dello strumento così che ne limitino l’uso passivo. La tecnologia mette a disposizione strumenti utili per studiare e promuovere apprendimenti significativi attraverso l’attenta guida dei nostri docenti, esperti in campo pedagogico”.
Ma non è tutto, secondo una ricerca pubblicata su Psychology Today l’utilizzo di dispositivi tecnologici in classe migliora il rendimento scolastico degli studenti e li aiuta a essere più responsabili. E ancora, un’indagine della University of Michigan, pubblicata sulla CBS, afferma che il 62% dei docenti ritiene che il blended learning possa aiutare a colmare il gap digitale e a migliorare le lezioni. Mettere in pratica questa nuova forma di apprendimento, dunque, comporta un’evoluzione radicale del modo in cui docenti e partecipanti affrontano l’esperienza formativa.
Pensiero condiviso da Mariarosa Porro, pedagogista: “L’utilizzo di nuove tecnologie in aula permette di realizzare simulazioni, reperire informazioni da fonti diverse e confrontarle tra loro, scrivere testi a più mani in modo cooperativo, guardare video tutorial e svolgere esercizi interattivi. Sono tutte esperienze formative che prevedono un coinvolgimento attivo da parte degli alunni, utilizzando strumenti a loro familiari, e stimola la loro creatività. In questo modo la tecnologia diventa una risorsa aggiuntiva che integra nel progetto educativo e formativo quanto una volta era rappresentato dal semplice spazio e dai materiali utilizzati nel gioco scolastico”.
Ecco infine i benefici del “Blended Learning” come nuova forma di apprendimento scolastico:
Aumenta l’interazione tra docenti e studenti: l’utilizzo di strumenti tecnologici permette a entrambe le parti di comunicare in maniera più immediata ed efficace.
Migliora il tasso di concentrazione dei ragazzi: gli studenti riescono a immergersi totalmente nella lezione, partecipando in maniera attiva.
Rende l’istruzione più accessibile: i materiali didattici sono accessibili in qualunque momento anche da casa.
Stimola la creatività e rende gli studenti più responsabili: gli strumenti tecnologici permettono di tener conto del percorso formativo, gestendolo in maniera personalizzata.
Migliora il rendimento scolastico: gli studenti sono più invogliati allo studio delle materie e alla scoperta di novità da imparare.
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
LA SCUOLA E’ POLITICA
di Simone Giusti, Federico Batini, Giusti Marchetta, Vanessa Roghi
Adulti
di Simone Giusti
Gli adulti fanno e disfanno la scuola ogni giorno, seduti in Parlamento o nelle loro auto, mentre accompagnano i figli alla prima ora di lezione. Agli adulti appartiene ogni discorso sulla scuola - compreso quello che facciamo in questo libro - e da loro discende ogni decisione. Gli adulti stanno in cattedra, poi scendono e tornano a casa, mentre altri adulti rimettono in ordine le aule, oppure le ristrutturano, ne progettano di nuove, producono l’energia necessaria alla loro illuminazione.
Politici, cittadini (contribuenti ed elettori), lavoratori, nonni, zii e genitori: la scuola è roba loro, e gli altri, i minori - i bambini e gli adolescenti - si limitano ad abitarla, e, quindi, a trasformarla dall’interno, con discrezione, quel tanto che basta per renderla più vivibile e sopportabile. Ma non c’è un dubbio al mondo: quella scuola così criticata e messa sotto accusa è proprio quella che hanno voluto - e vogliono ancora - gli adulti, i quali, a volte, tendono a dimenticarsi il proprio ruolo.
Adulto, dal latino adultus, participio passato di adolescĕre, che significa crescere. L’adulto è colui che non è più adolescente, ha terminato il suo sviluppo ed è finalmente cresciuto. Da cosa si vede se uno è sufficientemente cresciuto da poter prendere decisioni sulla scuola? È sufficiente aver raggiunto la maggiore età - a diciotto anni si può votare la propria amministrazione locale (il consiglio comunale e il sindaco, il consiglio regionale e il presidente della Regione), il rappresentante alla Camera dei deputati o al Parlamento europeo (per il Senato occorre attendere il compimento dei 25 anni: una soglia altissima, che di fatto impedisce il pieno accesso al voto a oltre quattro milioni di maggiorenni). A diciotto anni ci si può candidare a una carica politica. A diciott’anni in molti sono ancora a scuola, viene da pensare, e avrebbero moltissimo da dire e da fare, per la scuola.
In realtà sappiamo che l’età media dei deputati è di circa 44 anni, 52 per i senatori: ultramaggiorenni che sono usciti dalla scuola già da 24-25 anni.
Considerando che gli italiani fanno figli in media a 32 anni, gli adulti hanno 38 anni quando il figlio inizia la scuola primaria, 45 durante l’esame di scuola secondaria di primo grado, quando è necessario scegliere la scuola superiore.
In Italia il 61,7% degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha finito gli studi superiori e ha conseguito un diploma (dati Istat 2018). La media europea è pari al 78,1 %. I laureati italiani sono 2 su dieci, il 19,3%, contro il 32,3% degli europei.
Adulti in maggioranza illetterati: un termine tecnico adoperato per descrivere le persone che, pur avendo compiuto un percorso di studi, a un certo punto della loro vita non sono in grado di usare ciò che hanno imparato per gestire la loro vita quotidiana. Adulti che non comprendono la differenza tra una notizia inventata e una documentata, che non sono in grado di orientarsi su un sito internet, che non sanno far tornare i conti del bilancio familiare.
Adulti che non leggono libri. Nel 2017, dice l’Istat, le persone che hanno letto almeno un libro per motivi non professionali sono state, in Italia, circa 23 milioni e mezzo, corrispondente al 41% della popolazione (il 47,1% delle donne, contro il 34,5% degli uomini). La quota più alta di lettori si riscontra durante l’adolescenza, tra gli 11 e i 14 anni [▶ Lettura].
Adulti che quando parlano di scuola, o, anche, quando ne leggono sulle pagine dei giornali o nei libri, pensano a un’esperienza lontana, attraverso la quale sono passati, in modo più o meno consapevole, qualche decennio prima.
Eppure, a esclusione di coloro che hanno paura di crescere - quelli affetti da sindrome di Peter Pan, una sorta di adolescenza protratta, che impedisce di assumersi responsabilità e di prendere decisioni in grado di incidere sulla realtà -, sono questi gli adulti che devono fare la scuola. Adulti poco preparati, occorre ammetterlo, i quali hanno tuttavia un ruolo decisivo nel futuro della scuola. Perché purtroppo - in assenza di una vera ▶ Partecipazione degli studenti ai processi decisionali - tocca agli adulti il compito difficilissimo di fare la scuola. La scuola di tutti, non quella del proprio figlio, della propria figlia.
Cominciamo da qui, dunque. Assumiamoci la responsabilità della scuola che abbiamo voluto e che ancora stiamo contribuendo a far esistere, ogni giorno, per i bambini e gli adolescenti che sono costretti ad abitarla. Smettiamo di lamentarci e guardiamola, questa scuola, analizziamola con gli strumenti a nostra disposizione - che possono e devono essere costantemente arricchiti - indipendentemente dal nostro livello di istruzione, dalle nostre capacità critiche o dalla nostra conoscenza specifica dell’argomento. Dobbiamo occuparcene perché siamo adulti responsabili e interessati.
Iniziamo da un piccolo esercizio di rispecchiamento. Guardiamo gli edifici, e domandiamoci: che adulti sono - che adulti siamo - quelli che li hanno progettati, finanziati e costruiti? E che adulti sono quelli che stanno finanziando proprio quel tipo di lavoro, quell’insegnamento, di quelle materie, in quegli orari, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, un anno di seguito all’altro? Siamo noi? Sono io? Sei proprio tu.
Siediti, mettiti davanti allo specchio e guarda. Cosa vedi? Ti piace? Credi di poter fare di meglio? Fallo!
* Le parole e le cose, 19 settembre 2019 - ripresa parziale.
L’attualità di Manzi, maestro di oggi
di Andrea Fagioli (Avvenire, mercoledì 18 settembre 2019)
Quando si parla di scuola e televisione, ai meno giovani viene automatico pensare al maestro Alberto Manzi e al suo Non è mai troppo tardi, il programma degli anni Sessanta che ha segnato la storia della tv. Il sottotitolo lo definiva "Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta". Ma era tutt’altro che un prodotto per vecchi. La capacità comunicativa del conduttore, l’uso dei disegni e persino della lavagna luminosa, oltre al fascino insito nel nuovo mezzo, rendevano Non è mai troppo tardi attraente e moderno.
E se in questi decenni le immagini sono invecchiate, non è invecchiato il messaggio del maestro e del programma, al punto che Rai Scuola (canale 146 del digitale terrestre, 806 di Sky, disponibile anche su Raiplay) ha pensato bene, in avvio di anno scolastico, di proporre da lunedì alle 19,30 un ciclo di sei puntate su Alberto Manzi. L’attualità di un maestro, realizzate nel Centro emiliano di documentazione e archivio intitolato a Manzi stesso, con la collaborazione del Ministero dell’istruzione, della Rai e del dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna.
A condurre il programma è la responsabile del Centro, Alessandra Falconi, con il contributo dell’illustratore Alessandro Sanna e di esperti come la biologa Maria Arcà, che ha lavorato una quindicina d’anni con Manzi per il quale alfabetizzare significava emancipare.
L’obiettivo della serie è di riproporre alle scuole italiane quel tipo di approccio pedagogico e didattico. C’è ancora la lavagna luminosa e ci sono i fogli mobili come quelli che usava Manzi, ma adesso c’è anche il tablet. Gli argomenti spaziano dalle nuvole (di cui è possibile misurare il perimetro) alla biodiversità. Ai docenti della scuola primaria vengono dati suggerimenti operativi e teorici, proposte di discussione in classe con i propri alunni e idee per la progettazione didattica.
Ad arricchire il programma, le immagini di Alberto Manzi al lavoro tratte dal repertorio delle Teche Rai. La qualità televisiva del programma è quella che è, ma in questo caso più che il modo conta il cosa viene raccontato. E parlare del maestro Manzi significa parlare di una delle figure più autorevoli del Novecento in ambito educativo.
A scuola
L’”obbligo di crocifisso” nasconde l’incapacità di lavorare per una scuola inclusiva e solidale
Oltre quel crocifisso di plastica
di Ilaria Valenzi (Il Mulino, 16 settembre 2019)
In un clima apparentemente rasserenato dalla svolta politico istituzionale delle ultime settimane, prende avvio l’anno scolastico 2019/2020. L’estate appena trascorsa verrà ricordata per i numerosi episodi di intolleranza a sfondo razzista e xenofobo, generalmente motivati da una visione distorta dell’identità nazionale e dalla difesa di confini fisici e culturali dal rischio invasione. A marcare il territorio un uso spasmodico dei simboli religiosi di matrice cristiano cattolica, per primo il crocifisso, divenuto strumento di rivendicazione identitaria di civiltà, quando non sovraccaricato di significati superstiziosi. Nell’epoca delle teorie sovraniste, l’esposizione del crocifisso torna ad essere terreno di scontro politico, connotandosi di accezioni che offrono una visione prospettica nuova al tema dei diritti di libertà e all’attuazione dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
Pochi luoghi come la scuola pubblica implicano l’incontro tra culture e obbligano a una condivisione dinamica di spazi di convivenza. In una scuola sempre più plurale, la generazione più interculturale e interreligiosa che la storia di questo Paese abbia conosciuto è chiamata ad abitare aule scolastiche, che lo si voglia o meno, religiosamente orientate.
La questione dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche non si limita ai conflitti derivanti dalla decisione di qualche sindaco di acquistarne di nuovi e quella di qualche docente di opporsi alla loro affissione in classe. In essa risiedono tematiche ben più complesse, che attengono alla garanzia dell’attuazione del principio di uguaglianza tra persone senza distinzione di religione (art. 3 Cost.) e del principio di eguale libertà delle confessioni religiose (art. 8 Cost.), così come del diritto di libertà di coscienza e di religione (art. 19 Cost.), che comprende anche il diritto di ognuno di mutare la propria religione o credenza e quello di non averne alcuna.
In generale si tratta dell’applicazione del principio supremo di laicità delle Stato che, esattamente trent’anni fa, con sentenza n. 203/1989 la Corte costituzionale definì in termini di “non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Una posizione pionieristica quella del giudice delle leggi, che tuttavia non ha comportato il retrocedere di disposizioni di rango regolamentare di spirito confessionista relative all’obbligo di affissione del crocifisso, emanante vigente l’articolo 1 dello Statuto Albertino (con cui la religione cattolica romana fu dichiarata religione di Stato) incompatibili con l’impianto costituzionale, né impedito l’affermarsi di una giurisprudenza nazionale ed europea a sostegno del valore culturale del simbolo religioso, acquisito al patrimonio storico e spirituale di un popolo, come tale legittimamente esposto nei luoghi pubblici.
Si ricorderà come con il Caso Lautsi la questione del crocifisso nelle scuole pubbliche approdò alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Al di là del caso di specie, che pure verteva sul riconoscimento del diritto a un’educazione e a un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori e, in ultima analisi, sul riconoscimento della scuola pubblica come luogo di formazione e di educazione alla cittadinanza plurale, nel 2011 la sentenza della Grand Chambre chiuse la questione in favore della legittima esposizione del crocifisso sulla base di un’interpretazione del cd. margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato nell’osservanza della Convenzione Edu. Il controllo sull’ammissibilità della soluzione in concreto adottata dallo Stato per la salvaguardia delle tradizioni e dell’identità del popolo italiano sotto il profilo dell’incidenza sulla libertà religiosa del singolo fu l’occasione per affermare la valenza del crocifisso quale simbolo passivo, come tale non in grado di orientare la formazione degli alunni al pari di veri e propri atti confessionali, come il recitare preghiere o mandare a memoria i comandamenti. Nonostante nuovi equilibri in fatto di neutralità e libertà religiosa, la Corte europea fu univoca su un punto: seppur passivo, il crocifisso è un simbolo che afferisce al cristianesimo e il margine di apprezzamento si pone a salvaguardia delle tradizioni legate all’esperienza religiosa maggioritaria di un Paese e al relativo universo simbolico che ad essa fa capo.
A distanza di pochi anni dalla pronuncia richiamata lo scenario politico e sociale è mutato e le spinte identitarie che già si intravedevano con il richiamo alle radici cristiane d’Italia e d’Europa si sono consolidate in una ostilità palpabile. Con il patrimonio religioso confessionale divenuto strumento della retorica anti immigrazione e anti islamica è pertanto lecito chiedersi quanto le posizioni a difesa del valore culturale del crocifisso siano ancora sostenibili e opportune. La questione attiene alla soggezione del simbolo religioso alle necessità della propaganda politica e all’affermazione di forza di un universo simbolico che si vuole dominante su un altro. Ma a quale sistema di principi e valori ci si riferisce quando si utilizza il crocifisso a fini divisivi e come strumento del linguaggio di odio? Annunciando il suo voto favorevole al secondo governo Conte, pochi giorni fa Liliana Segre stigmatizzava il recente utilizzo di simboli religiosi “in modo farsesco e pericoloso, un revival del ‘Gott mit uns’”.
A fronte di tutto ciò la scuola pubblica assume un ruolo determinante quale laboratorio di socialità e integrazione. La scuola pubblica è il luogo per eccellenza dell’affermazione del principio di uguaglianza e, occorre sottolineare, dell’autodeterminazione dell’individuo, coltivata ai valori democratici e plurali propri del nostro patrimonio costituzionale - questo sì - condiviso. In tale contesto l’obbligo dell’esposizione del crocifisso appare non solo desueto, ma anche a rischio di ambiguità. Nessun dubbio, invece sulla realtà delle nostre classi, naturalmente plurali, spontaneamente interculturali, cui vanno gli auguri di un buon inizio scevro da paure. Con l’auspicio che il nuovo anno scolastico sappia ispirare la costruzione di un universo simbolico inclusivo e solidale, in cui nessuno sia lasciato indietro.
IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA. RIFLESSIONI ATTRAVERSO DE ANGELIS E ZANZOTTO
di Alberto Russo Previtali (Le parole e le cose, 16 settembre 2019)
Per gli studenti e gli insegnanti il calendario scolastico ritaglia all’interno del calendario annuale una seconda e più vera partizione del tempo. Il vero inizio e la vera fine dell’anno non avvengono tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, ma in settembre e in giugno: nel primo e nell’ultimo giorno di scuola. Questi due giorni, separati dal tempo sospeso delle vacanze estive, segnano l’apertura e la conclusione della breve lunghissima storia di un anno di scuola.
Così, se l’ultimo giorno porta con sé la malinconia o la gioia per la separazione da un’esperienza e da un modo di essere sé stessi con gli altri che non si ripeteranno mai più, il primo giorno è portatore di un groviglio di sentimenti legati all’attesa e all’incertezza sul proprio destino prossimo. È il momento in cui avviene il rimescolamento dei rapporti all’interno delle mura impassibili degli istituti, in cui ognuno torna ad assumere la sua parte, mai la stessa, persino per coloro che sono considerati da tutti i “pilastri” o le “colonne” dell’istituto, i “predestinati” o gli “incorreggibili” della classe. Un altro anno inizia a scriversi.
Il primo giorno di scuola non è però solo un momento significativo nella storia di ogni discente e di ogni insegnante, è anche il momento in cui si rivela la vocazione profonda della scuola come istituzione, momento in cui l’insegnante può entrare in contatto con il senso ultimo del suo essere di fronte ai ragazzi. Tutte le contraddizioni su cui la scuola è costruita e da cui è attraversata precipitano nel momento decisivo dell’inizio.
I giovani vengono chiamati di nuovo a sedersi dietro ai banchi, a sottomettersi alle regole e alla disciplina, nel nome della missione educativa che la comunità si impone. Vi è dunque, nel ritorno nelle aule, il rinnovamento di tutte le attese positive, talvolta utopiche, che la comunità tacitamente riversa sulla scuola: progresso sociale ed economico, rapporto di eredità tra le generazioni, preparazione del futuro e di un mondo più civile. Ma il primo giorno rende anche più percepibile il rovescio delle attese positive: il vuoto angosciante, l’assenza di fondamento e di certezze su cui la scuola è costruita, presa nella stretta invincibile dei discorsi e degli interessi dominanti, e annichilita dagli orrori della storia in atto.
Per l’insegnante che non vuole chiudere gli occhi sulla menzogna fondante dell’insegnamento, che non vuole rifugiarsi nel ventre caldo e mistificante dell’abitudine e della routine istituzionale, il primo giorno è quello che lo rimette di fronte alla sua scelta; non è l’eccezione rispetto ai giorni di scuola “normali”, ma è il modello di ogni giorno di scuola: riprendere di nuovo la posizione di chi tenta di educare e far apprendere, di fronte e in mezzo agli alunni (ma anche contro, oltre gli alunni), nel vuoto di valori e di certezze; riscoprire di nuovo i discenti nella loro essenza di giovani, ovvero di individui in cerca di un destino e di un’identità. Avere una speranza disincantata nel futuro che essi incarnano qui e ora, una speranza spesso cinica e amara.
In uno dei momenti più alti del suo percorso poetico, l’Ecloga IX., intitolata Scolastica, Andrea Zanzotto è riuscito a dare parola in modo insuperabile a questo gorgo di sentimenti discordanti che si apre nel tempo pedagogico dell’inizio: “È questa, in tanto ingiusta posizione, / l’ora, l’inizio?”[1]. Il momento inaugurale mette a nudo l’arbitrarietà della posizione del docente, che non è sostenuta da nessuna norma, da nessuna garanzia di giustezza o verità, delle quali è però paradossalmente chiamata a farsi portatrice, costringendo chi la occupa a tenere sulle proprie spalle il fardello della menzogna: “Vengono i bimbi, ma nessuna parola / troveranno, nessun segno del vero. / Mentiremo. Mentirà il mondo in noi”[2].
Il docente, ambasciatore ufficiale della collettività presso i giovani, non ha nessuna parola vera da offrire loro, ma deve fingere di possederla, deve fingersi padrone e custode di essa: “Necessità e finzione: / ché nulla, nulla dal profondo autunno, / dall’alto cielo verrà, nessun maestro. Nessun giusto rito / comincerà domani sulla terra”[3]. Eppure, è proprio al fondo della laicità, della terrestrità immodificabile del vivere insieme scolastico, che il docente può cercare le ragioni della propria ricerca di una possibilità di insegnamento. Egli deve non solo assumere l’inconsistenza del proprio ruolo, ma cercare di far esistere la relazione pedagogica a partire dal proprio riconoscersi come umile creatura pensante:
io sia colui che ‘io’
‘io’ dire, almeno, può, nel vuoto,
può, nell’immenso scotoma,
‘io’, più che la pietra, la foglia, il cielo, ‘io’:
e, in questo, essere indizio, dono,
dono tuo, agli altri donato.[4]
È proprio nella prospettiva del dono di sé che l’insegnante deve iniziare a porsi nell’imminenza del primo giorno di scuola. Egli deve uscire da sé stesso, in due direzioni divergenti. Innanzitutto, egli è chiamato a incarnare la funzione educativa, a porsi come adulto mosso dal desiderio di fare avanzare il discente nel suo percorso di crescita. Ciò significa far tacere e controllare le emozioni e le pulsioni del proprio sé infantile e adolescente, non prendere parte al richiamo del gruppo, al gioco della trasgressione e della seduzione; significa vedere senza guardare la sensualità dei giovani corpi. D’altro lato però, dalla faticosa posizione di personificazione del limite che conferma la sua età adulta, il docente non può che ritornare in contatto con i tempi fondanti della sua storia. Nei comportamenti, nelle parole, nei corpi degli alunni, egli rivede sé stesso e i suoi compagni, ricorda situazioni, interessi, ossessioni del suo passato, e si reimmerge nella rivisitazione di quei momenti che, accaduti in un tempo aperto su ogni possibile, non hanno mai smesso di pulsare, di aprire il dialogo interiore, chiedendo interpretazione, senso, scrittura.
Milo De Angelis è stato un infaticabile esploratore di questi momenti, attorno ai quali è riuscito ad apporre parole preziose. Egli è ossessionato dall’“attimo destinale”, quello che “raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in sé stesso il tempo che precede e quello che segue”[5]. Il primo giorno di scuola è sempre, per l’insegnante che si assume ancora il rischio di osservare i ragazzi, di esporsi alla loro alterità, un momento dominato dal sentimento del kairòs: “questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo”[6].
Questo sentimento è ancora più intenso per l’insegnante a cui sono affidati alunni adolescenti. Attraverso i ragazzi, egli accarezza di nuovo quel tempo assoluto “che rifiuta la misura, si nutre di sfide, coraggio [...] pathos della banda e pathos della solitudine”[7] e il cui luogo per eccellenza è il cortile, quello spazio “intermedio tra la casa e il mondo dove si eleggono i propri compagni di avventura, alleati di un patto che rimane incomprensibile al buon senso dello sguardo adulto”[8]. Questo buon senso è precluso all’insegnante proprio perché egli è chiamato, come da un esilio, a volgersi indietro verso i suoi tempi fondanti, verso le sue età di transizione: “all’improvviso una voce / rimasta sola ci invoca, noi l’udiamo: / oh deus absconditus, custodisci / la gemella, l’assente, la bravissima / del liceo, custodisci quel tumore / che diventò poesia”.[9]
In quanto personificazione del limite, il docente deve essere il più separato da quei tempi, ma al tempo stesso deve essere il più esposto ad essi, in quanto guida e accompagnatore dei ragazzi. Esporsi a quell’alterità che sfugge al buon senso è infatti l’unica via per poter dare un senso davvero pedagogico alla propria parola e al proprio agire.
Così quest’anno mi sono preparato al mio decimo ritorno a scuola da docente: ripetendo, da uomo novecentesco, il rituale della lettura dei testi più amati di due grandi autori, cercando in loro, poeti e insegnanti, dei maestri, ovvero “dei padri adottivi ma anche padri adottati... adottati per insegnarci a essere padri... per insegnarci a insegnare...”[10].
Note
[1] Andrea Zanzotto, Ecloga IX. Scolastica, in IX Ecloghe, in Id., Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano, 1999, p. 254.
[2] op. cit., p. 255.
[3] Ibidem.
[4] op. cit., p. 257.
[5] Milo De Angelis, La parola data. Interviste 2008-2016, Mimeis, Milano, 2017, p. 78.
[6] op. cit., pp. 78-79.
[7] op cit., p. 124.
[8] Ibid.
[9] Milo De Angelis, L’oceano intorno a Milano X, in Biografia sommaria, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2017, p. 253.
[10] Milo De Angelis, La parola data, op. cit., p. 29.
Il tramonto dei Maestri
L’articolo 34 della Costituzione garantisce ai meritevoli l’accesso ai gradi più alti degli studi. Ma in un Paese ormai privo di guide autorevoli anche questo diritto è violato
di Michele Ainis (la Repubblica, 22.06.2019)
Il maestro è nell’anima», cantava nel 1990 Paolo Conte. Trent’anni dopo, forse ci è rimasta l’anima, ma non abbiamo più maestri. Non possiamo più ascoltare la voce di Margherita Hack che ci parla delle stelle, né leggere una nuova poesia di Alda Merini. Ci hanno lasciato Bobbio, Eco, Montanelli, Veronesi, Levi Montalcini.
Chi li ha sostituiti, chi? Se ti guardi attorno, incroci un paesaggio vuoto. O al più abitato da mezzibusti e da mezzeculture, come li chiamava Adorno. Uomini senza la genialità dei grandi pensatori, ma senza neanche la grazia selvatica dell’analfabeta. E in genere senza una tempra morale che li elevi dalla mediocritas che segna il nostro tempo.
È infatti questo il principale attributo dei maestri: l’altezza. Fin dall’epoca romana il magister è magis, è un uomo che vale più degli altri, che li surclassa per senno e per sapienza. Però il maestro non comanda, dirige. Potremmo definirlo il dirigente delle classi dirigenti. E la sua autorità è morale, piuttosto che giuridica. Sarà forse per questo che i maestri - almeno in Italia - formano una razza in estinzione. Perché alle nostre latitudini è in crisi l’etica pubblica, sono in crisi le classi dirigenti. Manca l’orchestra, insomma, e dunque manca chi sia in grado di dirigerla.
Ne è prova il livello d’istruzione dei nostri governanti. Il gabinetto Conte ha tra le più basse percentuali di laureati dal 1946: 22,7%. Non hanno un diploma di laurea in tasca né Di Maio né Salvini, i due motori politici dell’esecutivo. E quest’ultimo è il primo ministro dell’Interno non laureato nella storia dell’Italia repubblicana. Certo, nessuna laurea garantisce la qualità delle persone. Benedetto Croce, per esempio, non fu mai dottore. Però dai numeri nasce una domanda. Nel 1909, in seno all’ultima Camera eletta a suffragio ristretto, i laureati erano il 79%; quarant’anni dopo, fra i banchi dell’Assemblea costituente eletta viceversa a suffragio universale, quella percentuale s’attestava comunque al 74,2%; adesso invece vola rasoterra. Ecco, perché?
Eppure negli ultimi decenni il numero di italiani con una laurea in tasca è divenuto sempre più elevato. Se il livello d’istruzione dei politici ha seguito la traiettoria opposta, significa che la politica oggi riflette il peggio della società italiana, o comunque la sua componente culturalmente più arretrata. E come la politica altresì l’economia, le banche, i sindacati, l’università, il sistema dei media. Nei luoghi in cui s’esprime la nostra classe dirigente di rado prevalgono i migliori. Contano i parenti piuttosto che i talenti. E infatti la mobilità intergenerazionale - che misura la probabilità di schiodarsi dalla classe di reddito dei propri genitori - in Italia è 3 volte più bassa rispetto agli Stati Uniti. Di conseguenza il 60% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine (Ocse 2018).
Questo stato di cose offende la Costituzione, oltre che il comune sentimento di giustizia. Dice l’articolo 34: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». È forse la norma più alta della nostra Carta, la più eloquente. Perché vi si riflette un’idea di società fondata sulle capacità degli individui, anziché sul certificato anagrafico che ciascuno di noi riceve in sorte.
Come già prometteva la Déclaration del 1789: eguaglianza significa che tutti i cittadini possono ricoprire un ruolo pubblico, «senz’altra distinzione che quella della loro virtù e del loro ingegno».
Si dirà che è un’utopia, un modello irrealizzabile. Vero, la società perfetta non esiste. Tuttavia le norme costituzionali servono a indicare una direzione verso cui procedere, come accadeva agli antichi naviganti osservando gli astri.
Noi invece, a quanto pare, procediamo in direzione opposta. E l’eclissi dei grandi maestri ne è forse la prova più evidente. Scriveva nel De magistro San Tommaso che il sapere, come la virtù, sussiste in potenza dentro ciascun uomo. C’è bisogno però d’un maestro che faccia da levatrice, e che al contempo sia fonte di trasmissione della conoscenza fra le generazioni. Senza maestri, dunque, si spezza la catena d’esperienze e di saperi che proietta il passato sul futuro, la società di ieri verso quella di domani.
Sicché risuona, di nuovo, la domanda: perché? Per quale ragione siamo rimasti orfani di qualunque guida? Non perché in Italia manchino le intelligenze, né le competenze. Manca piuttosto un ambiente che sappia allevarle, e che sia in grado poi di riconoscerle.
Se il successo dipende da fattori effimeri, superficiali. Se la carriera premia le relazioni, anziché gli sforzi individuali. Se le classi dirigenti non prendono in mano un libro nemmeno per leggiucchiarne il titolo. Se ogni ateneo promuove i cuccioli di casa, sbarrando la porta agli studiosi che bussano da fuori. Se tutto questo accade - e accade - allora c’è un problema che riguarda non tanto la cultura, quanto piuttosto l’istruzione. (Ri)cominciamo da lì.
Non si chiude solo un anno c’è una scuola che è alla fine
di Davide Rondoni (Avvenire, martedì 11 giugno 2019)
Sta finendo la scuola. Nel senso che finisce l’anno. Ma anche che questa scuola sta finendo. Sta terminando il suo ciclo, sta franando - in questo cambio d’epoca che riguarda tante cose - sotto la sua impotenza. Sì questa scuola, inchiavardata a una idea di cultura come enciclopedia, come passaggio di competenze da parte di funzionari di Stato a cittadini, garantita nella sua esistenza da processi burocratici sempre più surreali e pesanti, sta trascinando via, insieme alle buone intenzioni di tanta brava gente che vi lavora, la testa e l’anima dei nostri ragazzi.
Giratele, le scuole italiane, come faccio io, ovunque. E accanto allo splendore di persone (insegnanti, dirigenti, ragazzi) impegnate ben oltre il dovuto, creative, resistenti, simpatiche, troverete i segni fatali di una rovina, magari ammantata di sigle burocratiche. Rovina di una idea, che diventa rovina di processi, rovina di luoghi - spesso algidi o di carceraria, ospedaliera bruttezza - e rovina di anime che non son più educate, ma istruite, e perciò male istruite. La scuola di Stato ce l’ha fatta: ha eliminato dai nostri ragazzi quasi ogni elemento di educazione estetica e spirituale.
Con l’assunzione del modello enciclopedico per pensare e trasmettere cultura, come fosse l’unico modello possibile, le scuole hanno rifilato piccole e sbilenche enciclopedie di nozioni ai nostri giovani, hanno di fatto abdicato al compito educativo, e hanno lasciato incolto il terreno della crescita estetica e spirituale. Lo hanno fatto senza violenze, con una specie di delicatezza, ammantando questa amputazione delle anime con parole suasive di metodologie e buone intenzioni: ad esempio riducendo arte e letteratura a ’storia’ delle medesime, ed escludendo una gran parte di ragazzi dall’incontro con l’arte. Lo hanno fatto con la delicatezza, diciamo così, di prevedere surreali presenze dell’ora di ’religione’ ai limiti di ogni orario quotidiano, come se fosse un’ora di ginnastica invece che una dimensione dello sguardo verso tutta la realtà.
Lo hanno fatto creando progetti dai nomi fascinosi, e vezzeggiando i docenti con nomi paraccademici tipo ’dipartimento’ mentre vengono trattati da piccoli burocrati. Questa scuola sta finendo, sta avvitandosi, sta esplodendo e non per colpa della società o delle famiglie come dicono irresponsabilmente coloro che tengono i nostri ragazzi in aula sei-sette ore al giorno per circa 200 giorni all’anno. Sta finendo la scuola perché il suo modello di fondo è sbagliato, e questo cambio d’epoca lo sta dimostrando in molti modi. Nessuna cura dei talenti individuali, come invece insegna il Vangelo, in quella eversiva parabola dei talenti che nessuno racconta tra i banchi e che i creatori dei ’talent’ hanno pervertito a loro tornaconto con show che i ragazzi guardano con la fame di chi vorrebbe che qualcuno del loro talento si curasse adeguatamente, senza scorciatoie e banalizzazioni.
E invece: formazione media e spesso inutile a tutti, ossessione del lavoro invece che cura della personalità per trovare le proprie strade, ’scuolizzazione’ di troppi argomenti invece che favorire l’incontro tra ragazzi e maestri o battistrada adulti nella società. E conseguente crescita di nevrosi e insofferenze. Occorre passare dalla scuola delle enciclopedie alla scuola della educazione e del talento. Ci sono molti che lo chiedono e lo vorrebbero, molti che ci provano, nelle maglie strette e totalitarie del Sistema. Ci sono molti ragazzi che si perdono. Ci sono molti insegnanti che non ne possono più. Sta finendo, finiamola. Cominciamone un’altra.
I sommersi e i salvati. Una nuova edizione per le scuole
di Martina Mengoni - Roberta Mori (Il Mulino, 06 giugno 2019)
Nel 1973 Primo Levi pubblicò un’edizione scolastica di Se questo è un uomo all’interno della collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Si inseriva in una serie di edizioni commentate per le scuole che Levi curava personalmente: La tregua (1965), Il sistema periodico (1979), La chiave a stella (nel 1983, con commento di Gian Luigi Beccaria supervisionato dallo stesso Levi). Per Se questo è un uomo lo scrittore aveva progettato, oltre alle note, una serie di strumenti allo scopo di fornire ai giovani lettori informazioni sui Lager nazisti e sulla geografia e la storia europee tra il 1918 e il 1945: una prefazione, due carte geografiche dei campi di concentramento e sterminio europei, una bibliografia essenziale e un apparato di esercizi di comprensione e analisi.
Nel proporre agli studenti delle scuole superiori la prima edizione scolastica de I sommersi e i salvati, a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione (1986), abbiamo provato a fare tesoro delle indicazioni provenienti dal lavoro di autocommento e curatela svolto da Levi, cercando di adattarle alla didattica e alla scuola odierna.
L’introduzione offre un resoconto, sintetico ma non semplificato, delle ultime ricerche sulla genesi, la struttura, gli stili e l’impianto retorico de I sommersi e i salvati. Il volume è ricondotto innanzitutto alla sua prima gestazione, negli anni Sessanta, quando Levi aveva uno scambio vivo e diretto con i suoi lettori tedeschi. Al contempo il libro non avrebbe visto la luce senza il dialogo ininterrotto con gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, di cui la prefazione dà conto. “Sono stato in più di centotrenta scuole”, scrive l’autore nel 1979.
Gli studenti sono dunque il destinatario ideale de I sommersi e i salvati; è per loro l’ultimo e forse il più importante lascito analitico di Primo Levi, ed è questa la chiave per comprendere le scelte retoriche e argomentative del libro: un testo che fonde l’impianto saggistico con l’andamento narrativo, ricco di “figure” memorabili e insieme inesauribili, che rilanciano gli interrogativi filosofici, morali e storici posti dall’autore; un libro dal carattere socratico, concepito come un tentativo di ripristinare la complessità di una vicenda storica, sociale, culturale. “Una segnaletica di problemi”, come lo ha definito la storica Anna Bravo.
Nella progettazione e nella messa a punto dell’apparato di note si è cercato di trovare una sintesi tra due esigenze di segno opposto: da un lato l’aspirazione a trasmettere informazioni esaustive, dall’altro la necessità di non appesantire la pagina con note troppo lunghe e impegnative. Abbiamo optato per una notazione di servizio, agile e poco invadente, il cui scopo è quello di chiarire ogni riferimento non immediatamente presente nel bagaglio di conoscenze degli studenti delle scuole medie e superiori: traduzione di termini stranieri e spiegazione di termini specialistici, di derivazione colta e letteraria, di uso raro; note storiche e storico-biografiche, che coprono un arco cronologico che si estende dalla Prima guerra mondiale fino agli anni Ottanta del Novecento; spiegazione delle citazioni esplicite, dei riferimenti culturali, letterari, artistici.
Del tutto assenti in questa edizione sono invece le note di tipo critico-interpretativo. Il senso di questa scelta è alla base dell’intera operazione editoriale: proporre agli studenti un testo di cui fare un uso attivo, in classe, con il docente, nei lavori di gruppo, evitando di sovrapporre la nostra voce di curatrici a quella dell’autore. Non ci interessava intervenire nel dialogo fra autore e lettore suggerendo un’interpretazione preconfezionata (e, visto lo spazio a disposizione, per forza incompleta); abbiamo preferito lasciare alle note il compito di sciogliere eventuali ambiguità e di mettere a disposizione informazioni essenziali alla comprensione del testo.
Ciò non significa rinunciare alla funzione critica, che è piuttosto affidata agli esercizi presenti nel volume. Ci siamo chieste se fosse possibile costruire un eserciziario che accompagnasse gli studenti stessi, in autonomia, a individuare i maggiori nodi critici e argomentativi della pagina leviana, a esplorare l’uso della lingua e le ibridazioni che Levi sperimenta, la tendenza all’ossimoro e al paradosso che attraversa il libro. Chiedendo ai giovani lettori di misurarsi con l’analisi sintattica e con le etimologie del lessico leviano, giustapponendo di fronte a loro la pagina dei Sommersi con alcuni testi della tradizione letteraria e filosofica che Levi stesso chiama, esplicitamente o implicitamente, in causa, costruendo piccoli percorsi di ricerca bibliografica guidata: in tutti questi modi ci è sembrato di mettere i destinatari di questo lavoro nelle condizioni non soltanto di orientarsi nel testo, ma di coglierne le unicità e le tensioni interne, la potenza, le fonti, le aporie.
Al volume annotato de I sommersi e i salvati, che chiunque può trovare in libreria, si accompagna un fascicolo omaggio riservato agli insegnanti. Il fascicolo si compone di tre sezioni: 1) una serie di percorsi di apprendimento cooperativo, cinque in tutto, su alcuni temi chiave del libro; 2) undici percorsi di analisi guidata di testi di Primo Levi, sul modello delle prove di tipologia A e B dell’Esame di Stato; 3) una ricognizione bibliografica e sitografica sulla figura di Primo Levi, sulla storia della Resistenza e della deportazione e sulla didattica della Shoah.
Sono in particolare le prime due sezioni a costituire una novità a tutti gli effetti, un aggiornamento e un potenziamento rispetto agli apparati didattici delle edizioni einaudiane per le scuole medie che hanno ispirato questo progetto.
I sommersi e i salvati è il libro dello scrittore maturo Levi, che per tutta la vita si è interrogato sull’esperienza concentrazionaria, e al contempo ha sperimentato differenti forme di scrittura, frequentando generi e destinatari diversi. -Una guida per gli insegnanti doveva innanzitutto, a nostro avviso, rilanciare la poliedricità dello scrittore Levi, proponendo testi normalmente meno letti e frequentati dagli studenti delle scuole superiori; e in secondo luogo esplorare le possibili diramazioni culturali, scientifiche, filosofiche di alcuni temi cardine dei Sommersi come la memoria, la zona grigia, gli stereotipi della prigionia.
Alla prima esigenza rispondono le proposte di analisi del testo: undici brani tratti dal Sistema periodico, da La chiave a stella, da Racconti e saggi e dall’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo sfatano il mito monolitico di Levi testimone e allargano lo sguardo sul ben più sfaccettato e complesso universo del Levi scrittore, che si muove tra la chimica, con le sue vittorie e sconfitte, il lavoro manuale, la giovinezza, la formazione intellettuale e quella morale, la Resistenza, il rapporto con i tedeschi, le radici dell’intolleranza razziale e la manipolazione dell’informazione durante il Terzo Reich. Nella selezione di testi che proponiamo, questi temi sono spesso affrontati con lo sguardo di un Levi-personaggio liceale e poco più che ventenne, nel tentativo di stimolare un dialogo e un confronto generazionale.
I sommersi e i salvati è anche un libro che combina otto saggi tematici; ciascuno di questi temi (memoria, zona grigia, vergogna, comunicazione, violenza inutile, essere un intellettuale ad Auschwitz, dialogo con i tedeschi) si dirama in molte ed eterogenee direzioni. Uno dei modi possibili per far confluire le ricerche leviane degli ultimi anni in un apparato adatto agli studenti di scuola superiore era quello di costruire percorsi di apprendimento cooperativo interdisciplinari che, a partire dai temi discussi da Levi, toccassero altri testi letterari (Montale, Borges, Shakespeare, Dostoevskij), filosofici (Platone, Cicerone, Agostino, Bergson, Freud, Arendt), scientifici (Alexander Lurija) e storico-memorialistici (Massimo Mila, Luciana Nissim) con incursioni nel fumetto (Maus di Art Spiegelman, ma anche le vignette di prigionia di Ernesto Rossi), nelle arti figurative (il memoriale di Berlino, le Stolpersteine), nelle serie tv (Prison Break, Black Mirror). I percorsi sono pensati come attività di apprendimento di gruppo. Tre di essi sono incentrati sulla memoria, in tre differenti accezioni (memoria biologica, memoria collettiva, metafore della memoria); uno è dedicato alla zona grigia; l’altro allo stereotipo del prigioniero.
Prendiamo come esempio quest’ultimo: il percorso è costruito a partire dalle considerazioni del capitolo Stereotipi. Levi riflette sul progressivo sfaldamento dell’immaginazione storica degli studenti, non solo per quanto riguarda i grandi eventi, ma anche e soprattutto per quel che concerne la condizione di chi veniva fatto prigioniero nei campi: un progressivo sfaldamento psicologico e morale, un annientamento del corpo che andava di pari passo con quello del soggetto pensante. Niente di più lontano dal mito del prigioniero che “spezza le catene”, coltivato dalla letteratura e dal cinema.
Per il nostro percorso di apprendimento cooperativo, abbiamo affiancato a un testo tratto da Il sistema periodico (Oro) in cui Levi racconta la sua prigionia in Valle d’Aosta, un brano tratto da Memorie dalla casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano sulla “morte interiore” dei prigionieri; insieme ad essi, abbiamo proposto un estratto da Le loro prigioni di Massimo Mila (in “Il Ponte”, n. 3, marzo 1949), in cui l’intellettuale antifascista racconta - con una certa disincantata ironia - il periodo di prigionia a Regina Coeli, la difficoltà nello scrivere lettere che eludessero la censura, la noia, la lettura, le conversazioni, l’avidità di notizie sul presente. Il testo è accompagnato da una vignetta di Ernesto Rossi, che con Mila condivideva la cella in quegli anni.
A questi testi si aggiunge una proposta eterodossa: quella di analizzare e commentare un film che Levi cita nel capitolo, Io sono un evaso (1932), accostandolo a un altro film sullo stesso filone, uscito negli anni Settanta, Fuga da Alcatraz (1979), e a una serie tv recente, Prison Break (2005-2017). Tutti e tre insistono in modi diversi - ma con un’iconografia simile, già individuabile nelle locandine - sullo stereotipo del prigioniero forte e padrone di sé, che riesce a liberarsi e a fuggire, spezzando i propri vincoli con lucidità pianificata e senza l’aiuto esterno. Far reagire i testi di Levi, Nissim, Mila e i disegni di Rossi con film che rappresentano il loro contraltare narrativo ci è sembrato utile per illuminare, attraverso un’attività didattica concreta, costruita sul lavoro a gruppi, il contenuto del capitolo dei Sommersi.
È improbabile che uno studente nato negli anni Duemila conosca Io sono un evaso o abbia letto a scuola gli Scritti civili di Massimo Mila; ma è possibile che abbia visto almeno una puntata di Prison Break, ed è quasi certo che sia familiare con la sua estetica e con la sua simbologia.
Un percorso di apprendimento cooperativo che colleghi questi contenuti potrebbe avere il merito di allenare lo sguardo degli studenti a riconoscere non solo gli stereotipi storici, ma anche i tic narrativi più frequenti; un esercizio di analisi e straniamento utile alla lettura e all’interpretazione delle costruzioni simboliche e dei miti letterari che popolano l’immaginario e la mitologia contemporanea.
Levi ha costruito I sommersi e i salvati esattamente con questo spirito: una galleria di esercizi mentali sul passato e sul presente, estremi e necessari. Noi proviamo a rilanciarli.
La storia.
Il professore da Nobel che vuole solo studenti felici
Giuseppe Paschetto insegna a Mosso, vicino Biella ed è l’unico italiano candidato al Global Teacher Prize, il Premio Nobel degli insegnanti, che sarà assegnato sabato a Dubai.
di Paolo Ferrario (Avvenire, giovedì 21 marzo 2019)
Siccome a scuola si annoiava, ora che sta dall’altra parte della cattedra (e ci sta da più di 35 anni), fa di tutto perché i propri allievi possano imparare divertendosi. Anzi, entrino in classe, tutte le mattine, felici di farlo. È una piccola, grande rivoluzione, quella in atto alla scuola media “Alberto Garbaccio” di Mosso, paese di 1.500 abitanti in provincia di Biella, dove insegna Giuseppe Paschetto, unico candidato italiano al Global Teacher Prize, una sorta di Premio Nobel degli insegnanti, che sarà assegnato sabato a Dubai dalla Varkey Foundation.
Il docente italiano di Matematica e Scienze non vincerà il milione di dollari messo in palio, perché non è entrato tra i dieci finalisti, ma già il fatto di essere tra i 50 migliori insegnanti del mondo, selezionati tra oltre 10mila candidati, è il segno che il suo “metodo” sta facendo breccia anche tra i superesperti mondiali di scuola. «Io parto dagli stimoli e non dalle regole », spiega il docente che, dall’83, insegna Matematica senza usare i libri.
Il suo metodo si chiama Mathemotion e punta a «coniugare emozioni e interessi» dei giovani allievi, privilegiando le attività all’aria aperta alla lezione frontale in classe. «Invito i ragazzi a fare esperienze», aggiunge il prof, che spiega il teorema di Euclide invitando i ragazzi a misurare l’altezza degli edifici, partendo dalla lunghezza della loro ombra proiettata sul terreno. Convinto ambientalista (anni fa ha promosso con un gruppo di studenti una campagna di crownfunding per salvare l’isola sarda di Budelli dalla vendita all’asta), Paschetto è anche un appassionato di montagna e ha dato vita al Gruppo alpinistico scolastico, regolarmente affiliato al Club alpino italiano, con cui, dal 2012, organizza escursioni e attività di educazione alla montagna, con gli allievi e i loro genitori. Guidati dal prof e dagli esperti del Cai, i ragazzi hanno percorso l’Alta via della Valle d’Aosta e un gruppo è arrivato fino in Ladakh, una regione montuosa e poverissima del Tibet, al confine tra Cina, Pakistan e India.
«Con quattordici studenti, uno per ciascuna montagna della Terra superiore agli Ottomila metri - ricorda Paschetto - abbiamo effettuato un trekking di quindici giorni, superando anche i 5mila metri, fino ad arrivare al villaggio di Sumdo-Puga, per gemellarci con la scuola locale, a cui abbiamo donato materiale didattico introvabile a quelle latitudini».
Esperienze “forti” che hanno cementato il gruppo classe facendo della scuola davvero la «seconda casa» degli studenti. Tanto che, sorride il docente, «ci sono giornate in cui dobbiamo quasi buttarli fuori, perché altrimenti si fermerebbero anche a dormire ».
A Mosso, infatti, la scuola non finisce con l’ultima campanella, ma va avanti con iniziative anche di pomeriggio e alla sera. Un progetto che ora vuole fare un ulteriore salto di qualità, arrivando a misurare il grado di felicità che è capace di produrre nei ragazzi. Da qui l’idea di un vero e proprio “feliciometro” che, attraverso l’utilizzo di un questionario, dà agli allievi la possibilità di attribuire un “voto” alle lezioni, a partire appunto dal livello di felicità raggiunto durante il lavoro in classe.
«Noi non vogliamo che siano soltanto interessati o coinvolti - spiega Paschetto -. Noi vogliamo che i nostri alunni siano proprio felici di venire a scuola». Ma quello di Mosso è un modello replicabile o può funzionare soltanto lì? «Tantissimi colleghi mi hanno scritto chiedendomi consigli - risponde Paschetto -. A tutti io dico che la nostra esperienza è esportabile anche in altri territori. A una condizione: che gli insegnanti, per primi, abbiano voglia di lavorare, di mettersi in gioco, di percorrere strade nuove e di impegnarsi senza guardare le ore di lavoro e, diciamolo, anche lo stipendio. Che di certo non è adeguato per un impegno simile. Inoltre - conclude il prof più bravo d’Italia - questo tipo di progettualità si può portare avanti soltanto con numeri piccoli. Con classi di 20-22 alunni al massimo. E qui tocca alla politica. Deve scegliere se risparmiare sugli stipendi degli insegnanti, affollando le aule di studenti, o investire sulla qualità della scuola e, in definitiva, sulla felicità dei nostri ragazzi».
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
Memoria
Massimo Castoldi, il libro
Il coraggio dei maestri antifascisti
La storia di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura. Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
di CORRADO STAJANO *
Com’è importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza: Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti. Un libro amaro, doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella vita socio-culturale del Paese: era impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di se stessi e degli altri. Sono gli anni delle leghe contadine, delle Società di Mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali, del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la vita come Carlo Cammeo trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della «Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944. Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922, l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa, licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni, arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra antifascista sarda - 90 alunni - angariata perché si era rifiutata di fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta, socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio, Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre, nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.
COSTITUZIONE E SCUOLA, SCUOLA E COSTITUZIONE...
In attesa di quella notizia da Lodi: "Mi sono chiesta per settimane intere a cosa serva la scuola se non sa essere un presidio di democrazia, di diritti e di giustizia. Anche andando contro leggi ingiuste. A cosa serve se non alza la voce a difesa di tutti i bambini che le vengono affidati e, di più, a difesa di un’idea di comunità di uomini e donne con pari diritti, se non riesce ad essere un luogo di memoria e di cultura perché l’inferno non ritorni?" (Sonia Coluccelli, "Comune-Info", 05-11-2018)
FLS
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
Mattarella mette in guardia dal razzismo
“Veleno che penetra ancora nella società”
Il Capo dello Stato: anche i rom e i sinti tra le vittime delle Leggi Razziali del fascismo. Salvini: basta parassiti
di Francesco Grignetti (La Stampa, 26.07.2018)
Era il 26 luglio 1938, ottanta anni fa: il Duce riceveva in pompa magna a palazzo Venezia alcuni tra gli scienziati più illustri d’Italia per la consegna del Manifesto della razza. A rileggerlo, c’è da rabbrividire: «La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana... Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Fu la premessa delle leggi razziali. E ieri Sergio Mattarella ha voluto ricordare quel passaggio orribile della nostra storia. «Questa presa di posizione - afferma il Capo dello Stato - rimane la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità».
Parla del passato, Mattarella, ma in tutta evidenza parla anche dell’oggi perché il virus del razzismo è sempre più forte anche oggi. Non è un caso che Mattarella rievochi la crudeltà verso le popolazioni africane nelle nostre colonie, la persecuzione dei cittadini di religione israelita e la caccia spietata a rom e sinti. «Quelle mostruose discriminazioni sfociarono nello sterminio, il porrajmos, degli zingari», dice il Presidente sulla scorta di un dossier che La Stampa ha potuto consultare negli archivi del Quirinale. Guai allora a dimenticare le scelte che gli italiani compirono nel 1938. «Il veleno del razzismo - conclude Mattarella - continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri».
E se non sfugge la coincidenza tra questa ricorrenza e l’animosità della maggioranza giallo-verde nei confronti di stranieri e zingari, il ministro Matteo Salvini svicola con eleganza. «Il Presidente Mattarella - dice - con le sue parole ricorda un passato che non dovrà mai più tornare. È folle e fuori del mondo ritenere una razza superiore a un’altra». Ma intanto, a proposito dei Rom, usa toni brutali: «In Italia ci sono 150 mila persone rom ma i problemi sono limitati a 30 mila che si ostinano a vivere nell’illegalità. Il problema è questa sacca parassitaria».
Fanfani e padre Gemelli firmarono contro gli ebrei
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
A firmare il Manifesto della razza furono 10 scienziati, alcuni notissimi come Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Roma, o Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia alla stessa Università. I loro nomi sono noti, anche se poi alcuni cercarono di sottrarsi alla responsabilità, e qualche storico ha ritenuto che le loro firme fossero state in qualche modo «sollecitate» dal regime, visto che era stato Mussolini stesso a ispirarne parole e concetti.
Grave fu però la corsa di tanti intellettuali, ben 330, ad aggiungere la propria firma a quello che chiaramente era un passaggio ispirato dal Duce. Uno fu padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un altro, il giovane professore di Storia economica Amintore Fanfani. Oppure il poeta Ardengo Soffici, lo scrittore Giovanni Papini, il giornalista Mario Missiroli, il critico cinematografico Luigi Chiarini.
A dare spazio alle teorie del razzismo italiano nacque una rivista specifica, La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi, giornalista distintosi per le campagne antisemite promosse sulle pagine del giornale Tevere e per un libro dal titolo Contra Judeos. Caporedattore era Giorgio Almirante.
Fin dal 1926 respingimenti e allontanamenti forzati
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
È una pagina semi-ignorata della storia italiana, la persecuzione degli zingari che il regime portò avanti fin dal 1926 con respingimenti e allontanamenti forzati di Rom e Sinti stranieri. Il Viminale diramò circolari per «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica per le caratteristiche abitudini di vita».
Furono coinvolte le forze di polizia e le prefetture dell’Istria e del Friuli, in particolare, nel tentativo di sbarrare la strada ai gitani dei Balcani che nel loro nomadismo tentavano di entrare in Italia. E siccome a loro volta la polizia del confinante Regno di Jugoslavia si rifiutava di accettarli, sono accertati i respingimenti clandestini a opera della Guardia di Finanza presso certi valichi di frontiera incustoditi.
Con il 1938, Mussolini si convinse che occorreva la pulizia etnica degli zingari nelle regioni di confine, in quanto tutti potenziali spie del nemico. Furono fatti rastrellamenti e deportazioni. Dall’Istria e dal Trentino gli zingari furono portati al confino in Sardegna. Il 20 ottobre 1942 il nuovo prefetto istriano Berti poteva dichiarare che con le ultime deportazioni in Istria non c’era più un solo Rom. I confinati si poterono allontanare dall’isola soltanto dopo il 1945.
Un richiamo necessario per un Paese smemorato
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa, 26.07.2018)
Sono parole molto forti quelle che vengono dal Presidente della Repubblica, una delle poche autorità morali ancora riconosciute dalla stragrande maggioranza della società italiana. E forse era ora. Non esiste nessun mito più radicato nella nostra opinione pubblica di quello degli «italiani brava gente»; sebbene sia stato sfatato dagli storici, il concetto che gli italiani siano stati, anche durante il fascismo, fondamentalmente «buoni» è duro a morire.
Se anche si dice che il fascismo «sbagliò» nell’emanare le leggi antiebraiche, è opinione comune che queste furono applicate «all’acqua di rose», e che in fondo gli ebrei «non se la passavano tanto male». Nulla di più falso. La persecuzione fu durissima, e colpì ogni aspetto della vita degli ebrei italiani, rendendo loro impossibile lavorare, avere amici non ebrei, accedere a una istruzione superiore. La persecuzione, anche se non sfociò in un massacro operato direttamente dagli italiani, fu estremamente dura, e dopo l’occupazione tedesca fu la necessaria premessa al collaborazionismo fascista, e alla deportazione e allo sterminio di oltre 7000 cittadini italiani di fede ebraica.
Ma il Presidente richiama l’attenzione anche sulla sorte di sinti e rom. Chi ricorda che anche loro sono stati vittime del razzismo fascista? Chi conosce i campi di concentramento di Boiano e Agnone, dove centinaia di «zingari» furono rinchiusi durante la guerra, considerati come soggetti pericolosi per la patria italiana? Chi sa che le condizioni in quei campi erano difficilissime?
Tutto questo ha voluto ricordare Mattarella. È un richiamo duro, amaro da mandare giù, ma necessario. Necessario per un Paese che, oltre a essere smemorato, sembra continuare negli errori del passato.
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado».
Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
L’ultima trappola della «Buona scuola»
Appello al Miur. L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero
Il Decreto legislativo 62/2017 stravolge tacitamente le disposizioni contenute nell’art. 185 comma 3 del Decreto 297 1994. Si tratta della sostituzione dell’elenco relativo alle materie all’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria di I°grado con la dicitura riferita a «tutti i docenti del Consiglio di Classe». Tra le materie indicate nel Decreto del 1994 non figurava l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc). È questa un’ultima trappola della legge denominata «Buona Scuola».
L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo - iniziato con il rinnovo del sistema concordatario - per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero. Solo con difficoltà sono state introdotte norme e istituti per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative fra cui la frequenza di una reale materia alternativa.
Nessuna promozione è stata fatta per informare le famiglie su tali alternative sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate, in particolare nella scuola primaria, ben poche opzioni. (...).
Le sottoscritte associazioni che si battono da anni per il rispetto della laicità della Scuola e dello Stato, si oppongono con forza a tale stravolgimento della Legge 121/1985, attuativa del Nuovo Concordato. Rivolgono pertanto al Miur la richiesta urgente di chiarimenti indispensabili per insegnanti e famiglie di alunni e alunne in procinto di affrontare la prova del citato Esame:
l’Irc sarà materia d’esame? Se non lo sarà, a qual fine la presenza del docente? L’eventuale presenza di un docente di a. a. non si configura come discriminante nei confronti di coloro che hanno scelto attività di studio o di ricerca individuali o la non presenza a scuola durante l’Irc?
nella prova d’esame, a differenza di quanto avviene nelle operazioni di scrutinio, i voti sono soltanto numerici: è quindi prevedibile una valutazione numerica dell’Irc?
il docente di Rc nella votazione per promozione o bocciatura si comporta come previsto nel DPR 202/1990, ossia non vota se il suo voto fosse determinante?
Queste sono solo alcune delle ambiguità da chiarire.
*** Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, Comitato bolognese Scuola e Costituzione, Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, Manifesto dei 500, Ass.Naz. Sostegno Attivo, Cogedeliguria, Ass.Naz. del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), Comitato Genovese Scuola e Costituzione, Crides (Centro di iniziativa per la difesa dei diritti nella scuola), Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), Uaar, Fnism, Cidi, Osservatorio diritti scuola, Fcei (Fed.Chiese Evangeliche It.), Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, Comitato Democrazia Costituzionale -Roma
Scuola
Fermiamo la trasformazione della scuola in impresa
Appello. La scuola ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni. Forze politiche, cittadini e intellettuali dicano un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono la scuola come un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro
La scuola italiana ha bisogno di maggiori risorse per rendere sicuri gli edifici che ospitano i nostri ragazzi, servizi più avanzati, per recuperare l’evasione che consegna tanti giovani alla marginalità, talora alla criminalità. La scuola italiana ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni, nuove modalità di insegnamento, in grado di trasformare la classe in una comunità di studio e dialogo.
LA SCUOLA ITALIANA ha bisogno di formare ragazze e ragazzi emotivamente e psicologicamente equilibrati, culturalmente ricchi, consapevoli dei problemi del Pianeta, muniti di sguardo critico sulla società oggi inghiottita entro una bolla pubblicitaria. Ma chi decide il destino della nostra scuola è sordo a questi bisogni irrinunciabili del presente e del futuro. Impone ai nostri ragazzi- ad esempio con l’alternanza scuola-lavoro - un apprendistato per un lavoro che non troveranno, competenze per mansioni che saranno rese obsolete dall’innovazione tecnologica incessante.
EBBENE, dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione. Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata a 8 «competenze europee» redatta dai loro insegnanti e una parte a cura dell’INVALSI.
Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione riferita alle otto competenze europee, riguarda anche quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del Paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» in grado di «assumersi rischi», «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.
Si stenta a credere, ma è proprio così: le istituzioni europee chiedono agli insegnanti di fare violenza ai nostri bambini, di plasmarli in una fase delicatissima della loro formazione emotiva e spirituale, incitandoli alla competizione, alla realizzazione di cose, all’intraprendenza «rischiosa».
Verrebbe da ridere di fronte all’enormità di tale pretesa. Ma essa fa parte ormai di una gabbia fittissima di imperativi a cui è sottoposta la scuola, diventata luogo di ubbidienza di comandi ministeriali.
DOPO ANNI di ciarle sull’autonomia, sulle libertà di scelta, su tutte le chimere della letteratura neoliberistica, appare evidente che la scuola è assoggettata a un progetto di centralismo neototalitario. Una pianificazione dall’alto mirata a sottrarre libertà agli insegnanti, obbligandoli a compiti subordinati ai miopi interessi del capitalismo attuale. Passo dopo passo, la scuola cessa di essere il progetto educativo di una comunità nazionale per diventare il luogo dove si riproduce un solo tipo di individuo, l’uomo economico ossessionato da finalità produttive. Chiediamo a tutte le forze politiche, agli intellettuali, ai cittadini italiani ed europei di dire un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono trasformare la scuola in un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro.
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli *
di Gianluca Gabrielli*
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare - ad esempio - gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o - chissà - addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.
Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo - scosse elettriche di intensità crescente - ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori - che interpretano gli scienziati - sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo.
L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento - piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza - il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollo cui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.
Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che - sole - permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui.
Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’”.
Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva...”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché [...] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni [...] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e - in fin dei conti - etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi.
Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?
Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.
Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.
Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?
Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui
* Comune-info, 2 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini)
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua. Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
IDEOLOGIA “SILLABICA”: MANZONI E UNA STORIA DI LUNGA DURATA ...
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”!
Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio» di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
I frutti avvelenati del marketing scolastico
di Alberto Baccini (Il Mulino, 12 febbraio 2018)
“Non posso dunque che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, e riportato dalla stampa nella compilazione del Rapporto di autovalutazione (Rav), uno strumento di trasparenza che viene pubblicato [...] sul portale ‘Scuola in chiaro’ per fornire alle famiglie e a chi si iscrive elementi di conoscenza [...] Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono [...] frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola. Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione”. Con queste parole la ministra del Miur Valeria Fedeli ha commentato la pubblicazione su “la Repubblica” di frasi tratte dai Rav di alcuni licei romani e di altre città italiane. Tutte le scuole italiane sono tenute a compilare i Rav seguendo le indicazioni dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione che li ha anche messi a punto. I Rav sono uno dei tasselli dei processi di assicurazione della qualità della didattica che sono stati adottati in Italia come risultato di politiche scolastiche ampiamente bipartisan perseguite da oltre dieci anni nel nostro Paese.
Se il lettore avrà la pazienza di seguire un paio di passaggi tecnici, mostrerò che le frasi riportate dalla stampa e stigmatizzate dalla ministra rispondono a espliciti quesiti posti da Miur-Invalsi alle scuole.
Per cominciare. I Rav sono pubblicati sul portale del Miur: Scuole in chiaro. Questo presenta il portale come “uno strumento utile, soprattutto per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi nella scelta della scuola e del percorso di studi dei propri figli”. Per ogni scuola vengono pubblicati dati relativi al contesto ambientale e sociale, alle performance degli alunni e agli esiti occupazionali e universitari degli allievi. Sulla base di questi dati la Fondazione Agnelli produce classifiche che dovrebbero aiutare le famiglie a scegliere le scuole migliori.
Le frasi incriminate contenute nei Rav sono riferite ai commenti obbligatori che le scuole devono fornire in riferimento al contesto in cui operano. Le dimensioni di questo definite da Invalsi sono due:
1. “Status socio economico e culturale delle famiglie degli studenti”. Da alcuni documenti disponibili in rete (si veda per esempio qui), si ricava che Invalsi usa una classificazione sintetica di tale status in “Alto, Medio-alto, Medio-basso, Basso”.
2. “Composizione della popolazione studentesca”. Il primo indicatore numerico fornito a ciascuna scuola da Invalsi-Miur è la “quota di studenti con cittadinanza non italiana” per il quale sono indicati come benchmark i dati provinciali, regionali e nazionali nella stessa tipologia di scuola.
Invalsi-Miur non si limita a fornire alle scuole gli indicatori, ma ha predisposto anche le domande guida per i commenti dei dirigenti scolastici. Se vediamo insieme domande guida Invalsi e risposte dei dirigenti pubblicate dalla stampa, scopriamo che queste ultime non sono poi così fuori dalle righe.
Domanda guida Invalsi: “Qual è il contesto socio-economico di provenienza degli studenti? Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “Il contesto socio-economico e culturale complessivamente [è] di medio-alto livello [la classificazione vista sopra]”. “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi”; “la percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente”.
Domanda guida Invalsi: “Quali caratteristiche presenta la popolazione studentesca (situazioni di disabilità, disturbi evolutivi ecc.)?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “nessuno è diversamente abile”; “si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa”.
Domanda guida Invalsi: “Ci sono studenti con cittadinanza non italiana? Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza socio-economica e culturale (es. studenti nomadi, studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate ecc.)?”. Risposte riportate dalla stampa: “Tutti, tranne un paio di studenti, sono di nazionalità italiana”; “Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”; si rileva “l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate)”.
Verrebbe da dire: a domande esplicite, risposte esplicite. Ma fermarsi a questa considerazione sarebbe un modo per togliere rilevanza a una vicenda che dovrebbe invece interessare tutti coloro che hanno a cuore il destino della scuola pubblica di questo Paese.
A mio parere le domande di Invalsi e le risposte dei dirigenti scolastici stigmatizzate dalla ministra Fedeli sono il frutto avvelenato di un decennio di politiche scolastiche, largamente condivise, basate sull’idea che le famiglie dovrebbero "votare con i piedi", indirizzando i loro figli (e le quote di finanziamento loro spettanti) verso le scuole preferite/migliori.
Per oltre un decennio si è detto che le scuole devono farsi concorrenza tra loro per attirare studenti, che il sistema deve essere organizzato come un quasi mercato: un’ampia autonomia delle scuole, accompagnata da un sistema centralizzato di valutazione che ruota attorno ai test Invalsi e ai processi di autovalutazione (Rav). Il portale del Miur "Scuola in chiaro" è il luogo dove le famiglie trovano tutte le informazioni per poter esercitare le loro scelte.
Come fanno le scuole a competere tra loro e attirare gli studenti “migliori”? Devono fornire informazioni alle famiglie sulle loro performance. Accade così che i rapporti di autovalutazione, resi pubblici per decisione di Invalsi-Miur, si trasformino strumenti di marketing per le scuole.
Non c’è quindi da meravigliarsi se qualche dirigente scolastico, nella foga di attrarre studenti, scrive che la sua scuola è frequentata da una clientela selezionata con pochi stranieri e disabili. D’altra parte è ben noto, visto che lo scrive anche il “Corriere della Sera”, che le scuole con “clientela selezionata” hanno indicatori di performance più elevati: i risultati nei test Invalsi degli alunni stranieri sono peggiori rispetto a quelli degli italiani.
Quale famiglia preferirebbe mandare i propri figli in una scuola piena di stranieri e persone a basso reddito, con molti studenti disabili e performance scolastiche peggiori? Ecco allora l’informazione che un dirigente scolastico ha deciso di pubblicare per rassicurare i propri clienti potenziali: “Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”.
Per la ministra è facile mostrarsi indignata e inviare gli ispettori. Molto più facile che ripensare criticamente alle politiche scolastiche del suo partito.
Le frasi ignobili scritte da qualche dirigente sono l’esito non voluto, ma prevedibile, di politiche che hanno dimenticato l’articolo 3 della Costituzione in nome della fede nelle virtù taumaturgiche del mercato e della concorrenza.
"PIGMALIONE", UNA "FIGURA" NARCISISTICA ED EDIPICA, ANCORA MODELLO DI ESSERE UMANO E DI MAESTRO?!
Diffido dell’istruzione
di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 05.02.2018)
«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido - quindi - dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani».
Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita , ma solo in diretta.
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il Nobel Canetti nella sua autobiografia: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo».
Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore.
Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati.
Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore - il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera - è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi.
L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.
I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’ esser bene. Il contrario del «siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò».
La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Non è facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato.
Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Shoah, i nodi tra passato e presente
Tempi presenti. Riflessioni intorno al senso della Giornata della Memoria, tra ritualizzazione mediatica e il baratro dell’oblio alle porte
di Lia Tagliacozzo (il manifesto, 25.01.2018)
È il diciassettesimo anno di celebrazione del giorno della memoria: giornata deputata al ricordo di quando, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz. La strage degli ebrei e degli altri rinchiusi in quei campi non si fermò quel giorno: per porre fine alla strage bisognò arrivare alla primavera. E qualche mese dopo, solo ad estate inoltrata, arrivò anche la fine del secondo conflitto mondiale.
Se quel 27 gennaio del 1945 sul territorio italiano non accadde una vicenda assurta a data pubblica il 27 gennaio è comunque il giorno scelto dal Parlamento per ricordare «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
UN VENTAGLIO AMPIO di eventi e di soggetti da ricordare ma così recita la legge istitutiva. Delle leggi razziali ricorre quest’anno l’ottantesimo dalla promulgazione: volute dal fascismo e controfirmate da Vittorio Emanuele di Savoia la cui salma è di recente tornata in Italia accompagnata da accese polemiche. Eppure quest’anno, più che i precedenti, sembra che passato e presente si intreccino in un’ignoranza immemore e arrogante. Il discorso pubblico sembra, sempre più spesso, abdicare a valori che si presumevano condivisi. È proprio l’intreccio tra parole del passato e nodi del presente che inquieta: come se un argine sia venuto meno e il razzismo sia diventato moneta corrente e legittima che tracima dagli stadi alla politica, dai social al linguaggio corrente. C’è da aver paura.
Una posizione molto ferma viene però dalla neo senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbrueck: «Chi mi ha nominato si aspetta che io prosegua la mia missione di testimone - ha affermato nelle sue prime dichiarazioni - in un tempo, questo, in cui il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono ignote, senza un nome, così come sono stati quelli che ho visto io andare al gas».
Questo non significa, ovviamente, che il Mediterraneo dei barconi e dei migranti si sia trasformato in una nuova Auschwitz, ma che quelle morti di sconosciuti anonimi ci riguardano come negli anni del nazismo e del fascismo al potere avrebbero dovuto riguardare i concittadini di allora le morti degli ebrei, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, dei portatori di handicap, degli oppositori politici. E il nodo tra passato e presente si stringe ancora perché, come un’ eco alle parole di Liliana Segre, a Milano è stata vandalizzata un’altra pietra della memoria: uno di quei piccoli sanpietrini dorati posti dall’artista tedesco Günter Demnig di fronte alla casa da cui le persone sono state deportate e che ne reca inciso il nome, la data di nascita e, quasi sempre, quella di morte.
Una «pietra di inciampo», in cui ciò che inciampa è, dovrebbe essere, l’attenzione di una cittadinanza consapevole. Invece anche le parole pubbliche perdono la memoria: Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla Regione Lombardia, non si è vergognato mentre inneggiava alla «razza bianca». Lo stesso candidato, dopo aver azzardato scuse poco sostenibili, ha aggiunto: «La razza bianca? Mi ha portato fama e consensi». Un’enormità a cui pure è possibile credere. E con la quale sarà necessario misurarsi ad elezioni avvenute.
L’articolo 2 della Legge istitutiva prosegue: «In occasione del Giorno della Memoria sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado».
L’INTERO MONDO della scuola, non sempre ma spesso appassionato e partecipe, ha in questi anni letto, recitato, riflettuto anche quando, paradossalmente, le ore di studio della storia sono diminuite. Proprio le scuole sono forse il luogo dove il giorno della memoria appare meno «ritualizzato»: ogni studente e ogni classe impone ogni volta di ricominciare da capo, di leggere nuovi libri, di inventare nuovi lavori. E ogni bambino o studente formula nuove domande.
L’elenco delle questioni che pone la celebrazione oggi del giorno della memoria è infinito, quelle che seguono sono solo alcune: la relazione tra storia e memoria, il ruolo dell’arte accanto a quello della testimonianza, la scomparsa degli ultimi testimoni, la formazione degli insegnanti, la necessità di inserire la Shoah dentro la storia dell’Occidente e non farne un mausoleo a parte, decontestualizzato dalla vicenda del Novecento, l’esigenza di non lasciare il dovere della memoria del nazifascismo alle sue vittime, la riflessione sull’unicità della Shoah e sugli altri stermini che l’umanità non ha risparmiato a se stessa. E poi la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra la ritualizzazione delle istituzioni e l’esposizione mediatica.
SEMBRA ANCHE sempre più urgente interrogarsi se la memoria porti davvero con sé qualcosa di buono o se piuttosto non rischi di diventare una pianta velenosa a fronte però di una certezza: senza il giorno della memoria la consapevolezza della Shoah in questo paese sarebbe minore. Così è stato, infatti, nella riflessione collettiva fino al momento della sua istituzione. Eppure caricarsi di una memoria tanto dolorosa ha senso solo se si riesce ad integrare nel suo racconto che è esistita perfino allora, durante la guerra e sotto il dominio totalitario, la possibilità di scegliere: se stare dalla parte dei perseguitati o dei persecutori, degli ignavi o degli amici, dei soccorritori o dei delatori. Proprio per questo, si impone una riflessione attenta, in grado di definire gli odi di ieri e quelli di oggi. Si tratta da un lato di rifiutare equiparazioni impossibili dall’altro di ricordare quello che scriveva, con tragica lucidità, Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere che ’ogni straniero sia nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Memoria. "Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
AUSCHWITZ, QUEL GIORNO
Primo Levi, La tregua: "La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...)"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
“1° Gennaio 1948, da sudditi a cittadini: sovranità popolare, partecipazione, solidarietà”: il concorso nazionale ANPI-MIUR
Pubblicato il bando del concorso per le scuole ideato nell’ambito del protocollo d’intesa ANPI-MIUR
Scarica il bando:
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
Al liceo.
Chat con studentesse
Dove e come si perde il ruolo del professore
di Ferdinando Camon (Avvenire, venerdì 5 gennaio 2018)
Non illudiamoci: noi parliamo raramente, con reticenza e malvolentieri delle simpatie (per usare un termine neutro) che nascono nelle classi tra professori e studentesse, ovviamente delle superiori, tendiamo a minimizzare, ma loro, le studentesse, ne parlano sempre, e le commentano, con tendenza ad esagerare. La conseguenza è che per loro la loro versione è quella vera, e resterà nel loro cervello per tutta la vita. E se c’è una relazione immaginaria tra un prof e una studentessa, che per loro diventa una relazione vera, corredata di chissà quali e quanti incontri di cui nessuno sa niente, quella storia sarà per loro il marchio che contrassegnerà per sempre quella scuola e quegli anni, e per tutta la vita, a ogni rimpatriata, ne riparleranno. Quella storia, quelle storie, saranno più importanti di Hegel e Kant, che pure le hanno tanto impressionate.
Più importanti di Nietzsche, che oggi va per la maggiore. Quando qualcuna di queste storie trapela sui giornali, diventa subito la notizia più letta dalle ragazze in tutta Italia. In questo momento la notizia più letta dalle ragazze in tutta Italia è certamente l’accusa di rapporti inopportuni del prof di filosofia di un liceo romano con alcune studentesse, quattro delle quali hanno presentato denuncia. Due sono minorenni. Ci sarà una causa. Il prof sarà interrogato e sapremo le sue risposte. Finora non c’è una sentenza, e quindi non parliamo di un reato e di una condanna. Parliamo del fenomeno carsico, sempre negato e tuttavia presente in tutte le scuole, dei legami sentimentali che nascono tra insegnanti e allievi.
Anticipo subito, qui ad apertura, una mia vecchia tesi, ma non obbligo nessuno ad accettarla: il professore, di cui le studentesse non s’innamorano, è un cattivo professore; il professore, che s’innamora delle studentesse, è un cattivo professore. Perciò qui, nel caso del liceo romano, per quel che ne sappiamo finora, il problema non è che le studentesse si scambiavano tra loro email sospirose (o anche esplicite) sul professore, il problema è che email sospirose, anzi esplicite e audaci (parole degli studenti) le scambiava il prof con loro.
La difesa del prof sostiene che i messaggi del prof non sono molestie o violenze, perché hanno sempre ottenuto risposta. Da parte delle ragazze (nel caso delle minorenni, potremmo parlare di bambine) c’è insomma il consenso. Ma, a parte il fatto che il consenso delle minorenni non è valido (per questo son dichiarate minorenni), se la relazione vien corrisposta, vuol dire che è andata molto avanti e che è diventata stabile. Per la ragazza, e per la bambina, innamorarsi del prof è un fenomeno di crescita: si sente più grande, diventa più grande.
Per il prof, innamorarsi di una ragazza o una bambina è un fenomeno di de-crescita, e nel caso della bambina di rimbambimento. Il rapporto del prof con i suoi studenti e studentesse non è diverso dal rapporto dell’analista con i suoi e le sue pazienti. In questo caso, come insegna Freud, è inevitabile, utile, necessario che nasca un trasporto affettivo, che Freud chiama transfert. Il transfert è un grosso problema analitico. Per anni Freud lo intese come un ostacolo all’analisi, il paziente s’innamora del suo analista e va in transfert perché vuole uscire dall’analisi, il transfert va dunque combattuto e ignorato, affinché l’analisi prosegua.
Ma alla fine Freud si convinse che il transfert è un nuovo terreno sul quale il paziente replica i suoi problemi e i suoi bisogni, e che dando importanza al transfert e analizzandolo si favorisce l’analisi, e la si porta a compimento. Posso sbagliare (sono uno scrittore, non uno psicanalista), ma ho sempre guardato con sospetto lo psicanalista che si mette con una sua paziente, e la sposa. Mi sembra un rapporto analitico interrotto e deviato. Per la stessa ragione guardo con sospetto il prof che scambia email erotiche con le sue alunne, ancora minorenni o appena maggiorenni: mi sembra un rapporto didattico perduto e non più recuperabile.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
Cultura. Sessualità, etica, psicoanalisi ...
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: "CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?"!
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Appello per la Scuola Pubblica
di Redazione ROARS *
Un documento sulla Scuola e sull’Istruzione. Da leggere, pensare e sottoscrivere.
Art. 3: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”
Art. 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”
Al Presidente della Repubblica
Ai Presidenti delle Camere
Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca.
Giovanni Carosotti, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Rossella Latempa, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Verona.
Renata Puleo, già dirigente scolastico, Roma.
Andrea Cerroni, professore associato, Università degli Studi Milano-Bicocca.
Giovanni Vacchelli, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Ivan Cervesato, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Lucia R. Capuana, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Conegliano Veneto (TV).
Vittorio Perego, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Melzo (MI).
La premessa
L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.
La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.
È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.
Come? In tre modi almeno:
a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
b) ricostituendo un fronte comune di Insegnanti, Dirigenti Scolastici, Studenti, Genitori e Società civile tutta; e, soprattutto,
c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa.
Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?
7 temi per un’idea di Scuola
da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino
Conoscenze vs competenze
Innovazione didattica e tecnologie digitali
Lezione vs attività laboratoriale
Scuola e lavoro
Metrica dell’educazione e della ricerca
Valutazione del singolo, valutazione di sistema
Inclusione e dispersione
Il documento
Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.
Crediamo che:
i) Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”.
ii) La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”.
iii) Non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.
Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.
Crediamo che:
i) Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa.
ii) L’inflazione di innovazioni didattiche e gli sperimentalismi digitali offrono spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongono procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale.
iii) Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passa, però, per altre strade: quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione.
Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante - nella comunità della classe - rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso.
Crediamo che:
i) L’insegnante, come educatore, sia responsabile e garante di quell’ “incontro” che dà senso e valore ai fatti culturali della propria disciplina. La relazione di pari dignità ma asimmetrica tra maestro e studente, nel microcosmo della collettività di classe, permette agli allievi di imbattersi nel non conosciuto, di praticare l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità, di aprire un orizzonte culturale diverso da quello familiare o sociale.
ii) Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo.
Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici. Non imposti ex lege dal combinato Jobs Act e Buona Scuola. Pratiche calibrate in base ai contesti e alle finalità educative, che in nessun modo gravino sulle famiglie o sugli allievi in termini di sostenibilità e gestione.
Crediamo che:
i) L’alternanza scuola lavoro non rappresenti affatto un’opportunità formativa per i ragazzi, quanto piuttosto una surrettizia sperimentazione del “lavoro reale” che entra fin dentro i curricula scolastici, sottraendone tempo e qualità e distorcendone le finalità.
ii) Oltre ad approfondire il solco tra sapere teorico e pratico, alternanza è sinonimo di disuguaglianza. Percorsi ineguali in base a contesti, tessuti sociali e reti familiari, che peggiorano in proporzione alla fragilità delle condizioni economiche e delle opportunità culturali di luoghi e famiglie.
iii) Bisogna recuperare l’idea di Scuola come luogo della vita dotato di un tempo e spazio propri, non corridoio di passaggio tra infanzia e adolescenza - considerate età “minori” - e occupazione adulta.
iv) Sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. Logiche, dinamiche e problematiche dell’occupazione entrino nel dialogo educativo, per aiutare i giovani ad orientarsi, attrezzarsi a comprenderle e intervenire per modificarle.
Educazione e ricerca accademica sono oggi terreno di confronto tra tutti i soggetti sociali, politici, economici ad esse interessati. Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca lo testimoniano e innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.
Crediamo che:
i) Scuola e Ricerca universitaria siano oggetto di vera e propria “ossessione quantitativa”, da parte di organismi internazionali e nazionali.
ii) La logica dell’adempimento e della competizione azzerino il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erodano progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi).
iii) Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modifichino profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole e nelle Università, generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.
La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell’educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline.
Crediamo che:
i) Accostare una valutazione di agenzie esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
ii) Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità.
iii) La presenza di agenzie esterne nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa, raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità di ogni insegnante: la valutazione dei propri studenti;
La dispersione scolastica, l’inclusione autentica e la riduzione delle disuguaglianze necessitano di interventi politici sistematici, di fondi strutturali, impegni comunitari, di monitoraggio costante, conoscenza e capitalizzazione delle pratiche esistenti. A partire da investimenti e piani territoriali: infrastrutture, associazioni, biblioteche; fino ad arrivare a Scuola, con risorse costanti per costruire una fitta ed efficiente rete di recupero dei disagi, delle solitudini e delle difficoltà degli allievi più fragili. Se è vero che la Scuola e i buoni insegnanti fanno la differenza, è ancor più vero che la dispersione ha una sua mappa che si sovrappone a quella geografica ed economica dei tessuti degradati e delle periferie impoverite, di situazioni e storie difficili da ribaltare e su cui incidere. Dare alle Scuole risorse e spazi adeguati alla costruzione di didattiche di recupero e opportunità di accoglienza non è sperpero di denaro pubblico, ma progettazione politica di inclusione autentica, unica vera prospettiva di crescita e ricchezza del paese.
Crediamo che:
i) I temi in gioco siano cruciali e non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi;
ii) La Scuola abbia un valore politico. Dunque ha il diritto di chiedere di indirizzare risorse pubbliche su questioni di importanza sociale e morale che ritiene prioritarie. Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.
1) Chiediamo un’azione di moratoria su:
obbligo dei percorsi di alternanza-scuola lavoro e del requisito di effettuazione per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del II ciclo
obbligo di impiego metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera)
uso dei dispositivi INVALSI a test censuario per la valutazione degli esiti scolastici, obbligatorietà della somministrazione funzionale all’ammissione agli esami di licenza del primo e secondo ciclo
modifiche relative all’esame di Stato, che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare.
2) Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza sulle questioni di cui al punto precedente e su tutto l’impianto della Legge 107/2015.
Per aderire: compila il modulo google cliccando il link seguente.
https://docs.google.com/forms/d/1HySgRVSDznuQ1fB2rKQqLnQuOLeq9vNZqQdYum8c-08/edit
contatti: appelloscuolapubblica@gmail.com
* ROARS, 23 dicembre 2017 (ripresa parziale).
Il dibatttito delle idee
LA SCUOLA DEVE USARE IL CERVELLO
Lettera aperta di Guido Tonelli, scienziato del Cern di Ginevra, fisico delle particelle che ha partecipato alla scoperta del bosone di Higgs, alla responsabile dell’Istruzione Valeria Fedeli.
L’appello di Tonelli sulla scuola
nel nuovo numero de «la Lettura»
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: "CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?"!
FRANCESCO TARTAGLIONE, nato nel 1921, docente di Storia e Filosofia nei Licei, ha insegnato nel Liceo di S. Maria C.V., nei licei classico e scientifico di Taranto e a lungo, da titolare, nel Liceo Classico “Costa”di La Spezia; in un Annuario ha pubblicato un ampio lavoro Sul terzo libro del saggio sull’intelletto umano di Locke. I suoi interessi principali riguardano la storia e la psicologia. Ha scritto: L’infezione nazista, sui postumi del nazismo nel mondo; Le forme vuote, sugli equivoci del linguaggio; Ad majorem Dei gloriam, sull’anticristianesimo della chiesa cattolica; La questione socratica, un breve scritto sulla personalità di Socrate;Citazioni e riflessioni, un’ampia silloge di pensieri vari; L’agonia della libertà: genesi delle guerre mondiali e dei totalitarismi e Domande, un breve lavoro polemico. Inoltre ha pubblicato vari articoli su giornali e riviste, partecipando vivamente alla polemica ambientalista.
* LA SPEZIA OGGI, 06.10.2015 (ripresa parziale).
“Per un’educazione portata alle radici dell’umano”
Per scrivere bisogna andare «fuori tema»
di Maria Nadotti (Doppiozero, 04.12.2017)
Alfabeto d’origine. È il titolo che la teorica femminista Lea Melandri ha voluto per un piccolo e prezioso libro (Neri Pozza, 2017) in cui ha raccolto le sue riflessioni sul tema della «scrittura d’esperienza», uno dei punti nodali di una ricerca condotta con tenacia su testi propri e altrui. E uno dei vertici del pensiero politico che ha costruito nel tempo, agendo insieme ad altre donne, leggendo, insegnando (dai corsi delle 150 ore negli anni settanta e ottanta, alla scuola di Affori, alla Libera Università delle Donne di Milano), creando riviste (A Zig Zag, Lapis) e luoghi d’incontro dove scambiare pensieri, esperienze, ricordi, desideri e ripensare collettivamente le idee ricevute che bloccano il pensiero e dunque ogni ipotesi di espressione autentica.
Coesa come una monografia e tuttavia variegatissima, l’antologia di Melandri copre un arco temporale che va dal 1983 al 2017 e si articola in una serie diversificata di interventi liberi o d’occasione. I primi svariano da alcuni appunti estrapolati da un diario poetico tenuto con la fedeltà ossessiva di un cercatore d’oro a esegesi testuali che somigliano a dei veri corpo a corpo con gli scrittori e le scrittrici che Melandri sente più affini. «I fanciulli, poeti, sognatori» che, come lei, non hanno saputo, potuto, voluto scostarsi dalla materia d’origine sublimandola in ragionamento astratto o semplicemente negandola.
A partire, tra gli altri, dagli scritti di Sibilla Aleramo, Franco Matacotta, Franco Rella, Alberto Asor Rosa, ma anche dalle pagine di autrici ‘non professioniste’ che affidano alla pagina scritta il grumo della loro esperienza di vita (si pensi a Smarrirsi in pensieri lunari della fisica Agnese Seranis o a Pensieri vagabondi di Amelia Molinelli, un diario brut dall’impianto e dallo stile originalissimi), Melandri mette a fuoco una strategia critica e espressiva che si fonda sul rimosso o, se preferite, sull’abietto, su ciò che nella ‘cultura alta’ non ha cittadinanza e dunque è condannato a rimanere in ombra, anzi in una sorta di «sostrato fangoso».
Le pagine di diario, collocate non per caso a chiusura del volume, come ad esemplificare concretamente la forma assunta nel lessico dell’autrice dalla scrittura d’esperienza, sono una selezione distillatissima di pensieri-verso limpidi e penetranti, privati e al contempo universali. Vivere, ammalarsi, sentirsi soli, innamorarsi, sconfinare nell’altro, imparare a rimanere in sé riconoscendo all’altro il suo destino inevitabilmente individuale, godere del cielo, del mare, del dono provvisorio del proprio tempo di vita. Sono i temi che affiorano in queste pagine che invitano a praticare quella «mineralogia del pensiero» messa a tema da Asor Rosa, a ripercorrere non solo la propria storia sociale e di genere, ma la preistoria che la precede, quella penombra che tutte e tutti abbiamo attraversato e che spesso non lascia in noi che mute, indecifrabili e tuttavia indelebili tracce.
In una delle pagine introduttive del volume, ancorando la propria autorialità a una duplice, scomoda, identità di genere e classe - donna e figlia di contadini -, Lea Melandri ragiona sul «margine che trattiene le donne alla frontiera della ragione sociale..., sulla fantasia che ha costruito le differenze di genere..., sulla segreta volontà delle donne, reazionarie e ribelli, disobbedienti come Antigone, di appartenere a una preistoria mai raccontata».
E, più avanti, interrogandosi sulle «radici della scrittura» all’interno di un ordine ‘scolastico’ che non prevede il corpo e le sue vicissitudini e tantomeno il colore e la temperatura reali delle emozioni e dei sentimenti, postula con disadorna schiettezza un teorema inconfutabile: per scrivere bisogna «uscire da sé o uscire dal mondo».
La sola alternativa a questa scelta dolorosa, contrabbandata da secoli come la sola possibile, è saper costruire il «ponte di una trama immaginaria», «restituire alle pagine scritte l’odore di terra e di erba tagliata dopo un temporale», dire di sé per dire del mondo.
Quel «si può» liberatorio, che permette di «dare corso a pensieri più aderenti al pensiero di ognuno», si esprime in una scrittura che si inventa senza tuttavia partire da zero, che nasce da uno spostamento del baricentro, da un atto di consapevole posizionamento all’interno delle dualità conosciute, perché «è da lì che bisogna districarla per renderla a noi più propria, vicina, somigliante».
«Quando tento di descrivere il farsi della mia scrittura», afferma Melandri, «penso a una traiettoria che partecipa della chiarezza logica, di un lungo lavoro di concettualizzazione, ma che nel momento di divenire scrittura si lascia distrarre, affondare, intrigare da un altrove» (il corsivo è mio). Poiché quell’altrove sepolto in ognuna/o di noi rischia, se tacitato, di rendere esangue o totalmente asservito il pensiero e dunque la lingua, perché non dedurne che è proprio l’atto di distrazione o di affondamento a generare la parola che vale la pena di dire?
Concludo con uno dei punti più folgoranti dell’intero libro. In una lezione tenuta all’Università di Bologna il 27 settembre 2014 e qui raccolta sotto il titolo “Per un’educazione portata alle radici dell’umano”, l’autrice, consapevole della ‘femminilizzazione’ e della conseguente ‘devalorizzazione’ del sistema scolastico italiano, rivolge alle donne che insegnano una domanda cruciale: «come vivono questo ruolo di madri-maestre, di donne chiamate a trasmettere una cultura che le ha cancellate, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili»?
Al di là della querelle ideologica che da noi insiste a inchiodare gli individui a una presunta normalità di genere fondata su binarismi friabili quanto indimostrabili, bisognerebbe infatti chiedersi quanto pesi per «un bambino, un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo».
Ius soli, parlamentari e insegnanti iniziano sciopero fame: "Per non doverci rammaricare"
Ampia la risposta all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma. Digiuno a partire da oggi
di VLADIMIRO POLCHI (la Repubblica, 03 ottobre 2017)
ROMA - Uno sciopero della fame tra i parlamentari "per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza". Deputati e senatori rispondono all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma dello ius soli. E dichiarano di essere pronti a digiunare a partire da oggi, assieme a 800 insegnanti a sostegno della legge sulla cittadinanza.
"Cara collega, caro collega - si legge nell’appello a cui aderiscono anche i Radicali italiani, il segretario Riccardo Magi e la presidente Antonella Soldo - vi scriviamo perché siete tra coloro che, dal primo momento e con maggiore determinazione, hanno sostenuto le buone ragioni della legge sullo ius soli. Ogni giorno lo spiraglio - pur esile, esilissimo - che sembra aprirsi sulle possibilità di una approvazione del testo, tende a chiudersi.
Qualcosa si deve pur fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza. Se, come tutto sembra indicare - e come segnalano anche le ripetute dichiarazioni del ministro Del Rio - questi sono giorni decisivi, proviamo a muoverci".
"Oggi, 3 ottobre - giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - oltre 800 insegnanti attueranno uno sciopero della fame a sostegno della legge e informeranno i loro studenti del significato della propria azione. Potrebbe essere l’occasione, questa, per collegarsi a tale iniziativa rilanciandola nella nostra qualità di parlamentari. Si tratta di prendere una decisione immediatamente.
L’ipotesi è quella di un digiuno a staffetta a sostegno della richiesta della presentazione in Aula prima possibile del disegno di legge. Dunque, per tenere aperto questo spiraglio e provare a inserirci in esso in maniera attiva ed efficace, coinvolgendo il maggior numero di persone affinché il governo decida di porre la fiducia".
"I tempi potrebbero essere i seguenti: mercoledì 4 ottobre ci sarà il voto a maggioranza assoluta sulla nota di variazione di bilancio DEF. Dopo di ché si apre una sorta di finestra. Infatti la legge di stabilità arriverà in Senato (alle Commissioni) nell’ultima settimana di ottobre. Il calendario dei lavori dell’Aula si ferma a giovedì 19 ottobre. Occorrerà dunque una nuova Conferenza dei capigruppo. Ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo allo ius soli.
Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della legge Bossi-Fini. I due obiettivi potrebbero sostenersi e incentivarsi a vicenda. Pensiamo, in ogni caso, che si tratti di una prova difficile ma che vale la pena affrontare".
"Le modalità del digiuno a staffetta, a sostegno di questo percorso, verranno precisate puntualmente nelle prossime ore. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione alla quale sarebbe opportuno che tutti noi partecipassimo, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza".
Ti chiedo la tua adesione all’iniziativa nel più breve tempo possibile. Già una trentina di deputati si sono dichiarati disponibili a condividere con noi l’atto del digiuno. Aspettiamo la vostra adesione". Firmato: Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini.
Hanno aderito finora: Loredana De Petris, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Fasiolo, Francesco Palermo, Sergio Lo Giudice, Stefano Vaccari, Claudio Micheloni, Monica Cirinnà, Daniela Valentini, Laura Puppato, Luis Alberto Orellana, Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro, Alessia Petraglia, Deputati Michele Piras, Sandra Zampa, Mario Marazziti, Franco Monaco, Luisa Bossa, Eleonora Cimbro, Florian Kronbichler, Paolo Fontanelli, Nello Formisano, Gianni Melilla, Lara Ricciatti, Pippo Zappulla, Marisa Nicchi, Michele Ragosta, Luigi Laquaniti, Giovanna Martelli, Donatella Duranti, Toni Matarrelli, Filiberto Zaratti, Franco Bordo, Filippo Fossati, Tea Albini, Delia Murer.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
FILOSOFIA E PEDAGOGIA.
PER UNA SCUOLA CHE INSEGNI A VOLARE. Una nota a margine di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?" ... *
*
Pur condividendo con l’Autore di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?", la linea strategica della sua riflessione ("della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa"), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è "nascosto", vale a dire su "CHI" educa "CHI" - a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( "ex-DUX-azione"), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ "Emilio"), sull’uomo virtuoso, sul diventare "padrone di se stesso", e sul comandare al proprio "cuore", e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: "L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri" ("Il contratto sociale"); e, insieme, sul tema del "CAPO" (preziosa al riguardo la "lezione" di Gramsci del 1924).
La questione è "eterna" ed è ... intrecciata con la questione delle Sibille (e dei Profeti) di Copertino (cfr. Pierpaolo Tarsi: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: "Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una "Cappella Sistina" carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica", Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: "Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della "società civile". J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà" (pp. 101-110).
PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della "Critica della Ragion Pura", occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo "stato di minorità", non si può non tenerne conto!
Federico La Sala
* Cfr. "EDUCAZIONE? CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare... "
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA... *
La riforma della scuola è avere buoni professori
di Nuccio Ordine (Corriere Sera, 03.09.2017
Ora che le scuole riaprono dopo la pausa estiva, per capire la vera essenza dell’insegnamento bisognerebbe rileggere con attenzione la commovente lettera che Albert Camus - poche settimane dopo la vittoria del Nobel (19 novembre 1957) - scrisse al suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».
Adesso che i riflettori rimarranno accesi ancora per qualche giorno sull’inizio del nuovo anno scolastico, sarebbe importante concentrare il dibattito su due figure essenziali: gli studenti e i professori. Eppure - dopo i numerosi «terremoti» che hanno scosso le fondamenta del nostro sistema educativo - sembra che la relazione maestro-allievo non occupi più quella centralità che dovrebbe avere. Ai professori, infatti, non si chiede di studiare e di preparare lezioni. Si chiede, al contrario, di svolgere funzioni burocratiche che finiscono per assorbire gran parte del loro tempo e del loro entusiasmo. Le ore dedicate a riempire carte su carte potrebbero essere invece investite per leggere classici, per approfondire le proprie conoscenze e per cercare di insegnare con passione.
Dopo decenni di devastanti tagli all’istruzione, l’unico importante investimento economico (un miliardo di euro) degli ultimi anni è stato destinato alla cosiddetta «scuola digitale», con l’illusione che le nuove tecnologie possano garantire un salto di qualità. Ma ne siamo veramente sicuri, in un momento in cui mancano le risorse destinate a riqualificare la qualità dell’insegnamento? A cosa serve un computer senza un buon docente? Il caos di ogni inizio anno e le incertezze del reclutamento dei professori stanno sotto gli occhi di tutti.
La «buona scuola» non la fanno né le lavagne connesse, né i tablet su ogni banco, né un’organizzazione manageriale degli istituti e ancor meno leggi che rendano l’istruzione ancella del mercato: la «buona scuola» la fanno solo e soltanto i buoni professori. Basterebbe leggere le dichiarazioni del presidente Macron per capire l’orientamento della Francia: non più di 12 alunni per classe nelle aree considerate a rischio «economicamente» e «socialmente», proprio per dare, attraverso uno straordinario potenziamento dei docenti, più centralità al rapporto diretto con gli studenti.
Dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli? La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. Non ha bisogno dell’alternanza scuola-lavoro così come viene applicata (le ore non sarebbe meglio investirle in conoscenze di base?). Non ha bisogno di commissioni che studiano la riammissione degli smartphone in classe (perché, al contrario, non aiutare gli studenti, che li usano tutto il giorno, a «disintossicarsi» e a vincere la «dipendenza»?) o che propongono la riduzione di un anno della scuola secondaria (la fretta non aiuta a formare alunni migliori: la frutta maturata con ritmi veloci non ha lo stesso sapore di quella che cresce sull’albero). La peggiore delle riforme con buoni professori darà buoni risultati. E, al contrario, la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati. C’è bisogno di un sistema di reclutamento che possa garantire un percorso chiaro e sicuro: ogni anno, a prescindere dal colore dei governi, un concorso nazionale (come si fa in molti Paesi). E non l’alea dei concorsoni decennali e dei percorsi improvvisati che hanno prodotto infinite tipologie di precari: una matassa talmente ingarbugliata che nessun miracoloso algoritmo arriverà a sbrogliare.
Decine e decine di migliaia di precari (con ormai un’età media veramente preoccupante) potranno entrare in classe con entusiasmo? Potranno insegnare con passione? Selezionare i buoni professori (eliminando completamente il precariato) e ridare dignità al lavoro di insegnante (anche sul piano economico, visto che gli stipendi italiani sono molto bassi rispetto alla media europea) è ormai una necessità. Solo così potremo riportare la scuola alla sua vera essenza, alla centralità del rapporto docente-allievo.
In alcune scuole del Nord e del Sud, ogni giorno, questo miracolo già accade. Riposa sulle spalle di singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti. Che cercano di far capire ai ragazzi che a scuola ci si iscrive soprattutto per diventare migliori e che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o per esercitare solo una professione, ma perché ci aiutano a vivere. Per fortuna, nonostante leggi e circolari assurde, non mancano fino ad oggi allievi che hanno visto cambiare la loro vita grazie all’incontro con un professore. Proprio come il maestro Germain, in Algeria, era riuscito a cambiare il destino di uno scolaro, orfano di padre e molto povero, come Albert Camus. Ma, se non si frena il declino, per quanti anni ancora la scuola potrà contare su quei docenti (ormai sempre più rari) in grado di compiere miracoli?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa. Perché ancora oggi "non è mai troppo tardi". SULLA SCUOLA, OGGI, BISOGNA ESSERE DI PARTE. "BUONI MAESTRI".
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! Ripensare, ancora una volta, la relazione. Mai come oggi l’autorità e l’autorevolezza stessa degli insegnanti e di chi in genere fa educazione sono stati messi in discussione...
SCUOLA E ISTRUZIONE BENI COMUNI
Senza Educazione Aperta non c’è educazione democratica
Di Paolo Fasce Antonio Vigilante Paolo Vittoria *
Nel primo volume di Educazione Aperta (La Nuova Italia, 1967) Aldo Capitini notava la diffusione dell’aggettivo “aperto” in più campi: tra gli altri, registrava “scuola aperta” (è il titolo di un libro di Visalberghi del ’60), “metodo aperto”, “Europa aperta”, “politica aperta”, “mondo aperto”, “marxismo aperto”, “romanzo aperto”, “opera aperta”, e così via. Era la vigilia del movimento ’68, cui Capitini non avrebbe assistito (morì appunto in quell’anno): e certamente l’apertura è tra i concetti chiave per comprendere quella stagione culturale, sociale e politica. Una stagione che ha riguardato in modo profondo anche il mondo dell’educazione e della scuola, con la denuncia delle dinamiche classiste (la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana è anch’essa del ’67) e autoritarie e la ricerca sperimentale di nuove vie.
A distanza di quasi cinquant’anni, di quelle aperture sembra rimasto ben poco, al punto tale che il concetto di chiusura potrebbe efficacemente caratterizzare gli anni che stiamo vivendo. Travolta dalla crisi economica, dal fondamentalismo e dal terrorismo, da una paura incontrollabile e diffusa a tutti i livelli, la società si sta sempre più chiudendo in se stessa. L’Europa aperta, di cui si parlava nel ’67, diventa un continente chiuso, anche fisicamente, che erige steccati e filo spinato per respingere i profughi che tentano di raggiungerlo, spesso annegando in mare. Fioriscono i movimenti identitari, nazionalisti, xenofobi. Mentre le comunicazioni diventano facili a livello mondiale, grazie a Internet (uno strumento che ai tempi di Capitini sarebbe stato difficile anche solo immaginare), lo scambio effettivo, il dialogo, la comprensione tra popoli e culture diversi diventano sempre più difficili. La globalizzazione è imposizione a livello mondiale del modello di sviluppo occidentale, con il suo portato di violenza e sfruttamento, più che effettivo scambio e dialogo.
Anche il mondo della scuola e dell’educazione appare ripiegato su se stesso, incapace di essere l’avanguardia della società: e sempre più spesso si accusa il ’68 di essere all’origine di una degenerazione dell’istituzione scolastica. È una scuola priva di una identità forte, che non riesce a orientare una società in rapidissimo cambiamento, di fronte alla quale appare stordita. È significativo che il cambiamento prenda la forma dell’innovazione tecnologica: uno pseudo-cambiamento che include formalmente nuovi strumenti, che non sono tuttavia occasione di rinnovamento nel senso della realizzazione di una filosofia dell’insegnamento basata sulla relazione e sulla circolarità, e che ripropongono spesso le vecchie dinamiche trasmissive incarnate nelle Lavagne Interattive Multimediali, che mantengono saldo il centro della lezione in un quadro di tradizione rassicurante quanto utopico rilanciato ora dalle Mastrocola, ora dai Recalcati, mentre la scuola abbisogna di muoversi entro una nuova consapevolezza professionale nel senso della cultura, del sapere, dell’educazione, come peraltro si è immaginato nelle migliori Facoltà di Scienze della Formazione e nelle migliori Scuole di Specializzazione (oggi TFA) del Paese.
Il ricorso al concetto di apertura non era, per Capitini, l’ossequio a una moda. Nei suoi scritti esso compare fin dalla prima opera, del ’37: ed era una delle leve concettuali - filosofiche, etiche, esistenziali - adoperate per combattere il fascismo con le sue numerose, terribili chiusure. Cosa intendeva per apertura? Scriveva:
«apertura è la disposizione a stabilire rapporti con altri e con altro, a non porre condizioni assolute, a non presentare esclusivamente il proprio io, a facilitare il più largo movimento, il più vario incontro, la dialettica tra diversi, l’aggiunta del nuovo, l’intersoggettività». E aggiungeva:
Alla base di tutte queste aperture c’è l’apertura al tu, l’incontro profondo, senza difese, con l’altro, la rinuncia alla posizione dell’ego che riduce l’altro a cosa, la ricerca di qualcosa di più radicale del dialogo stesso: la relazione forte, priva di violenza e di dominio. Roba vecchia, si dirà. Roba inattuale. Difficile contestarlo. Roba vecchia e inattuale: ma necessaria. E necessaria proprio perché inattuale. Perché essere attuali, oggi, significa usare le parole d’ordine del neoliberismo, fare l’educazione che serve al mercato, convincersi di essere nel migliore dei mondi possibili e rinunciare a pensare una società diversa. Riprendiamo, avviando una nuova rivista, la proposta di un’educazione aperta e critica perché riteniamo che essa possa e debba oggi indicare una direzione, segnare un impegno.
Il campo della pedagogia critica si va estendendo notevolmente, dal momento che gli effetti delle politiche neoliberali sono sempre più distruttivi e appare evidente l’urgenza di creare delle alternative. Crediamo che lavorare per alternative e costruire un’educazione aperta e critica significhi:
Ripensare, ancora una volta, la relazione. Mai come oggi l’autorità e l’autorevolezza stessa degli insegnanti e di chi in genere fa educazione sono stati messi in discussione. Per molti è una ragione per rimpiangere le vecchie strutture, rivendicando l’autorità perduta. Noi riteniamo invece che vi sia in questa crisi la possibilità di riscoprire la relazione educativa come relazione umana piena, liberata dall’ipocrisia e dalla sottomissione, dalla paura e dalla minaccia. La domanda centrale di una educazione aperta è: in che modo è possibile che degli esseri umani si incontrino e comunichino in modo profondo? Perché l’educazione accade dove c’è questa profondità.
Considerare la società come un cerchio che sempre torna ad aprirsi per accogliere chi resta ai margini. Una educazione aperta protesta contro ogni forma di esclusione, di marginalizzazione, di diminuzione; essa si muove costantemente verso le periferie, i margini, le zone oscure. Poiché il sistema neoliberista è, per sua essenza, un sistema che favorisce il benessere di pochi al costo del malessere dei molti, l’educazione aperta è una educazione critica, che combatte in particolar modo l’introduzione, spesso subdola, di pratiche e logiche neoliberiste nel mondo della scuola e dell’educazione.
Mettere al centro della riflessione educativa e politica i problemi della violenza, del potere e del dominio. Cercare una società in cui il potere sia distribuito e combattere la cultura della violenza, della sopraffazione, delle armi, della morte.
Porsi in una prospettiva interculturale, cercando un dialogo con le culture altre che non può che fondarsi sulla conoscenza attenta e non superficiale. Educazione aperta è anche considerare i modelli educativi e le concezioni etiche e culturali che li sostengono nella cultura africana, in quella sudamericana, nelle straordinarie civiltà indiana, cinese e giapponese.
Avere un atteggiamento non dogmatico, critico nei confronti delle concezioni mainstream, ma critico anche nei confronti delle posizioni critiche: sempre disponibile a riconoscere l’errore, a cambiare idea, a ripensare.
Essere aperti alle sperimentazioni in campo educativo e sociale, in particolare a quelle che favoriscono giustizia e cambiamento.
Tentare di pensare la possibilità di un rapporto diverso, non fondato solo sullo sfruttamento, con il mondo degli esseri viventi non umani.
* Fonte: il lavoro culturale, 26/07/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR. I MATERIALI RACCOLTI IN QUESTI LINK:
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
ESAME DI MATURITÀ, PER POLITICI, INTELLETTUALI, FILOSOFI, E ISTITUZIONI. Una traccia proposta dagli studenti e dalle studentesse, dai e dalle "prof", di tutta l’Italia
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994), con approfondimenti.
Premio Boccaccio 2017, la palma a Craveri, Pennac, Altan e Rumiz
La cerimonia di premiazione si terrà sabato 9 settembre a Certaldo Alto *
Adele Benedetta Craveri, Daniel Pennac, Francesco Tullio Altan e Paolo Rumiz sono i vincitori della XXXVI edizione del Premio Letterario Giovanni Boccaccio 2017, rispettivamente per la letteratura italiana, la letteratura internazionale e il giornalismo fra satira e reportage con un ex aequo.
La giuria - presieduta da Sergio Zavoli e rappresentata da Francesco Carrassi, Paolo Ermini, Stefano Folli, Antonella Cilento (da quest’anno in giuria in sostituzione di Margaret Mazzantini), Marta Morazzoni, Luigi Testaferrata) - si è pronunciata all’unanimità sulla rosa degli autori individuati per l’assegnazione del prestigioso Premio Boccaccio. La cerimonia di premiazione si terrà sabato 9 settembre, nel pomeriggio (ore 16.30) a Certaldo Alto, nei locali di Palazzo Pretorio.
Gli eventi culturali del Premio Boccaccio 2017 (promossi e organizzati dall’Associazione Letteraria Giovanni Boccaccio, presieduta da Simona Dei) prevedono anche quest’anno una serie di intrattenimenti sia venerdì 8 che domenica 10 settembre, il cui programma sarà reso noto nel dettaglio a breve.
Chi volesse partecipare alla cerimonia di premiazione può prenotarsi andando sul sito dell’associazione www.premioletterarioboccaccio.it.
Si ringraziano il comune di Certaldo e i numerosi sponsor che ogni anno rendono possibile tale evento e in particolare: Banca di Cambiano, Cabel, Banca C. R. Firenze, Mediolanum, Confindustria di Firenze e il Rotary Club Valdelsa-Distretto 2071. Un ringraziamento speciale va anche ai componenti dell’Associazione letteraria e ai numerosi Amici del Boccaccio per l’impegno e la passione puntualmente garantiti a sostegno della riuscita del Premio.
I vincitori del Premio Letterario Giovanni Boccaccio 2017
ADELE BENEDETTA CRAVERI (Roma, 23 settembre 1942) è critica letteraria e scrittrice. Figlia di Raimondo Craveri ed Elena Croce (e quindi nipote di Benedetto Croce), allieva di Giovanni Macchia, si laurea in lettere (1969) all’università di Roma, divenendo una delle massime studiose italiane di lingua e letteratura francese, materia che insegnerà prima presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e successivamente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli).
Acquista notorietà internazionale come autrice di saggi e monografie sulla vita intellettuale dei salotti francesi che, in età moderna, hanno ruotato attorno alla corte di Versailles (Madame du Deffand e il suo mondo e La civiltà della conversazione). Il successo e la diffusione anche all’estero delle sue opere, in cui spiccano sempre i ruoli femminili, poggia sull’abile connubio di un’esposizione brillante con il rigore della trattazione storica. -Profonda conoscitrice del neoclassicismo transalpino del Settecento e dei primi anni dell’Ottocento, ha curato l’edizione italiana dell’opera di André Chénier. Membro dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, integra l’attività accademica con la partecipazione a programmi radiofonici e televisivi e con la collaborazione alle pagine culturali di quotidiani e periodici internazionali, fra cui La Repubblica, The New York Review of Books e la Revue d’histoire littéraire de la France. Vive fra Napoli, Roma e Parigi. In quest’ultima città è stata insignita di un riconoscimento prestigioso, quello di “ufficiale” dell’Ordre des Arts et des Lettres e ha collaborato, in qualità di professoressa invitata, con l’Università della Sorbona (2007).
DANIEL PENNAC, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, primo dicembre 1944), è uno scrittore francese. Romanziere francese. Figlio di un ufficiale dell’esercito francese, dopo un’infanzia in giro per il sia, efinitivamente a Parigi. ofessore di lettere in un liceo parigino, dopo aver esordito con alcuni romanzi per ragazzi tra cui DANIEL PENNAC, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, primo dicembre 1944), è uno scrittore francese. Già autore di libri per ragazzi, nel 1985, comincia - in seguito ad una scommessa fatta durante un soggiorno in Brasile - una serie di romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, capro espiatorio di “professione”, alla sua inverosimile e multietnica famiglia, composta di fratellastri e sorellastre molto particolari e di una madre sempre innamorata e incinta, e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992, pubblica il saggio Come un romanzo a favore della lettura.
Nato nel 1944 in una famiglia di militari di origini corse e provenzali, passa la sua infanzia in Africa, nel Sud-Est asiatico, in Europa e nella Francia meridionale. Ottiene la laurea in lettere all’Università di Nizza nel 1968, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per ventotto anni, a partire dal 1970, gli servirà inizialmente per avere più tempo per scrivere, durante le lunghe vacanze estive. Pennac, però, si appassiona subito a questo suo ruolo.
Inizia l’attività di scrittore con un pamphlet e con una grande passione contro l’esercito (Le service militaire au service de qui?, 1973), in cui descrive la caserma come un luogo tribale, che poggia su tre grandi falsi miti: la maturità, l’uguaglianza e la virilità. In tale occasione, assume lo pseudonimo Pennac, contrazione del suo cognome anagrafico Pennacchioni.
Abbandona la saggistica in seguito all’incontro con Tudor Eliad, con il quale scrive due libri di fantascienza (Les enfants de Yalta, 1977, e Père Noël, 1979). Successivamente, decide di scrivere racconti per bambini. -Nel 1985 pubblica Il paradiso degli orchi (Au bonheur des ogres), primo libro del ciclo di Malaussène. Nel 1997 scrive Signori bambini (Messieurs les enfants), da cui verrà tratto un film di Pierre Boutron. Il 26 marzo 2013 è stato insignito della Laurea ad Honorem per il suo impegno nella pedagogia presso l’Università di Bologna.
Nella Lectio magistralis in occasione della Laurea honoris causa, Pennac si sofferma a lungo nella spiegazione della parola passeur (letteralmente: facilitatore) per poi nella parte finale definire il passeur supremo colui che non fa domande su cosa si pensa del libro appena finito di leggere perché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità. La rivista statunitense Watch and Listen, importante rivista di critica letteraria, che pubblica, ogni dieci anni, la sua classifica dei 50 migliori libri di tutti i tempi, nella classifica 2013 pone la saga Malaussène di Pennac al primo posto con il 45% dei voti, davanti ai I tre moschettieri di Alexandre Dumas con il 31% e ad Harry Potter con il 12%. Ha vinto numerosi premi.
FRANCESCO TULLIO ALTAN (Treviso, 30 settembre 1942) è fumettista, disegnatore, sceneggiatore e autore satirico pluripremiato. Figlio dell’antropologo friulano Carlo Tullio-Altan, inizia gli studi all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia che non porta a termine per dedicarsi al cinema e alla televisione nel ruolo di scenografo e sceneggiatore. Nel 1970 si trasferisce a Rio de Janeiro, dove crea il suo primo fumetto per bambini pubblicato da un quotidiano locale. Nel 1974 Altan inizia a collaborare come fumettista per alcuni giornali italiani. Sulle pagine di Linus prende vita il personaggio di Trino, un dio impreparato che si affanna nella creazione del mondo.
Nel 1975, in coincidenza con il suo ritorno in Italia, crea la cagnolina Pimpa, uno dei suoi personaggi più riusciti e famosi, che sarà pubblicato inizialmente sul Corriere dei Piccoli. La Pimpa, la cagnolina a pois rossi dalle lunghe orecchie nata dalla penna di Francesco Tullio Altan nella prima metà degli anni ’70 del XX secolo, arriva come cartone animato in TV per la prima volta nel 1983 con la regia di Osvaldo Cavandoli e vi torna con una seconda serie nel 1997 con la regia del napoletano Enzo D’Alò. Il cartoon è stato trasmesso sulle reti Rai ed in diversi paesi, non solo in Europa, e ha vinto anche il Premio Internazionale “Cartoons on the Bay” per poi essere raccolta e messa in vendita in diversi DVD. Altan stesso ha diretto una terza serie che la Rai ha trasmesso nel marzo 2013 su Rai YoYo, il canale dedicato ai bambini.
La Pimpa non è il solo personaggio per bambini creato da Altan. Oltre alla Pimpa infatti, ci sono Kika e Kamillo Kromo. Anche Kamillo Kromo, pubblicato da Fonit Cetra vinse, come la Pimpa, premi internazionali, e diventò cartoon sempre con regia di Enzo D’Alò e con musiche di Beppe Crovella. Altan ha creato anche storie a fumetti per un pubblico adulto come le storie dell’operaio metalmeccanico comunista Cipputi e celebri biografie in chiave semi-parodica di personaggi famosi, come Cristoforo Colombo, Casanova e Franz (parodia della vita di San Francesco d’Assisi). Inoltre, ha realizzato le vignette di alcuni libri scritti da Gianni Rodari. Decennale è la sua collaborazione con riviste come L’Espresso, Panorama e ultimamente con il quotidiano La Repubblica per il quale disegna vignette di satira politica.
PAOLO RUMIZ (Trieste, 20 dicembre 1947) è giornalista e scrittore pluripremiato. Inviato speciale del Piccolo di Trieste e in seguito editorialista di la Repubblica, segue dal 1986 gli eventi dell’area balcanica e danubiana. Durante la dissoluzione della Jugoslavia segue in prima linea il conflitto prima in Croazia e successivamente in Bosnia ed Erzegovina. Nel novembre 2001 è stato inviato ad Islamabad e successivamente a Kabul, per documentare l’attacco statunitense all’Afghanistan. Molti suoi reportage narrano i viaggi compiuti, sia per lavoro che per diletto, attraverso l’Italia e l’Europa:
• nell’Estate del 1998 pedala in bicicletta da Trieste a Vienna in compagnia del figlio Michele (Dove andiamo stando?, pubblicato poi su Diario nell’autunno 1998);
• nella Primavera del 1999 esplora le regioni della costa adriatica italiana in automobile, da Gorizia al Salento (Capolinea Bisanzio, pubblicato su Repubblica nel gennaio del 1999);
• nell’Inverno del 1999 percorre in treno la tratta Trieste-Kiev (L’uomo davanti a me è un ruteno, pubblicato sul Piccolo nello stesso anno);
• nella Primavera 2000 si imbarca sul Danubio a Budapest per arrivare al confine tra Serbia e Romania (Ljubo è un battelliere, inserito in È oriente del 2003)
• nell’Inverno del 2000 va, ancora in treno, da Berlino a Istanbul (Chiamiamolo Oriente, pubblicato su Repubblica nel gennaio del 2000)
• nella Primavera 2001 girovaga per il nord-est in bicicletta, da Trieste al Gavia (Il frico e la jota, inserito in È oriente del 2003) Da qualche anno a questa parte compie il canonico viaggio ogni Estate, in agosto, raccontandolo di giorno in giorno su Repubblica:
• nel 2001 percorre in bicicletta, insieme al vignettista Francesco Tullio Altan ed a Emilio Rigatti, i quasi 2000 km che separano Istanbul da Trieste;
• nel 2002 gira l’Italia in treno per 7480 km, come la Ferrovia Transiberiana dagli Urali a Vladivostok, in compagnia delle vignette di Altan e di un compagno misterioso (rivelato verso la fine del viaggio). È stato pubblicato sia come rubrica su La Repubblica, che come libro, L’Italia in seconda classe, da Feltrinelli;
• nel 2003 attraversa 6 nazioni a piedi andando da Fiume (Croazia) fino in Liguria lungo i 3000 km delle Alpi;
• nel 2004 in barca a vela, sulle rotte della Serenissima, da Venezia a Lepanto;
• nel 2005, assieme a Moni Ovadia e Monika Bulaj, parte da Torino per raggiungere il sepolcro di Cristo, a Gerusalemme;
• nel 2006, a bordo di una Fiat 500 “Topolino” del ’53, attraversa le strade secondarie dalle Alpi e agli Appennini andando dall’inizio delle Alpi in alta Dalmazia fino all’estrema punta degli Appennini, in Calabria (viaggio raccontato nel libro La leggenda dei monti naviganti);
• nel 2007 segue le tracce del condottiero cartaginese Annibale fino all’imbarco in Calabria, terra abitata anche dal fiero popolo dei Bruzi. Nell’Autunno dello stesso anno pubblica su Il Piccolo Diario minimo, resoconto di un viaggio in Cina.
• Nel 2008, assieme a Monika Bulaj, con bus, treni, traghetti e autostop percorre 7000 chilometri, da Nord a Sud, lungo la frontiera orientale dell’Unione Europea dall’Artico al Mediterraneo;
• nel 2009 con svariati mezzi di trasporto scrive a puntate di un viaggio da sud verso nord, lungo le linee geologiche della penisola, per conto del quotidiano la Repubblica dal titolo L’Italia sottosopra
• nel 2010, sempre per La Repubblica, attraversa i luoghi del Risorgimento per raccontare l’epopea garibaldina;
• nel 2011 viaggia attraverso l’Italia cercando città morte, fabbriche dismesse e miniere ed è stato realizzato il film Le dimore del vento;
• nel 2012 compie un viaggio completo sul Po giungendo, dopo peripezie varie, al delta nel mare Adriatico, per poi toccare anche la Croazia. Il viaggio è stato raccontato da Paolo Rumiz a puntate su La Repubblica ed è stato creato il film Il risveglio del fiume segreto, che ne ripercorre le tappe principali e che è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia;
• nel 2013 ripercorre tutto il fronte italo-austriaco alla vigilia del centenario della Prima guerra mondiale ed è stato realizzato il film L’albero tra le trincee;
• nel 2014 ha viaggiato per tutti i fronti della Prima guerra mondiale, realizzando insieme al regista Alessandro Scillitani un’opera di 10 documentari che mette in relazione l’Europa di oggi con quella di cento anni fa. Per questo lavoro su iniziativa del Presidente della Repubblica ha ricevuto l’onorificenza di Commendatore;
• nel 2014 ha trascorso un intero mese in un faro ed è stato realizzato il film L’Ultimo faro;
• nel 2015 attraversa l’Italia da Roma a Brindisi riscoprendo il tracciato della antica Via Appia.
Fonte: Associazione Boccaccio
*
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2017/07/07/premio-boccaccio-2017-craveri-pennac-altan-e-rumiz/ Copyright © gonews.it
"La freccia ferma" (Elvio Fachinelli) e "La banalità del male" (Hannah Arendt). A "Regime leggero", verso la catastrofe...
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. ---- IL TRENINO DEL BUNGA-BUNGA PEDAGOGICO (di Giorgio Pecorini - Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?).
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
MESSAGGIO EVANGELICO E COSTITUZIONE. L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!:
Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»
Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché
di Elisa Chiari *
«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.
Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».
Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.
Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».
Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».
Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».
Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».
E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».
Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.
L’importanza di perdersi nel bosco
di Giovanna Zoboli *
Dopo l’attentato di Manchester, nel quale al termine di un concerto di Ariana Grande sono rimasti uccisi numerosi ragazzi la maggior parte dei quali ancora minorenni, come dopo ogni atto di terrorismo su media e social network è circolata la domanda “Come spiegare gli attentati ai bambini”. Famiglia Punto Zero, social di promozione culturale della genitorialità e approfondimenti tematici sulla famiglia, ha girato la domanda a Nadia Terranova, scrittrice per adulti e ragazzi, che tiene una bella pagina dedicata alla letteratura per l’infanzia sull’inserto Robinson.
«Il problema - ha risposto Terranova - non è svegliarsi ogni volta e chiedersi come spiegare gli attentati ai bambini, il problema è che bambini a cui le favole sono state edulcorate, a cui non si può più leggere niente perché “è troppo difficile”, che non hanno più un’elaborazione simbolica della paura perché i grandi hanno paura della loro paura, sono infinitamente più fragili. E il problema non è la cronaca o una soluzione-medicina all’indomani di ogni fatto di cronaca, ma un immaginario indebolito da rifortificare.»
Centra il punto Terranova. Dietro la fragilità dei bambini c’è quella di un mondo incapace di offrire una sponda al problema del Male: l’infinita fragilità di adulti, voraci consumatori di falsi miti di massa e di ogni genere di impostura, oggi, in aggiornata versione fake news, ma, si direbbe, incapaci di sguardo sulla realtà, come testimoniano continui episodi, ultimo dei quali la vicenda del bambino morto di otite. La questione non è nuova.
L’ambientalista Ed Ayres spiega che «un modello generale di comportamento tra le società umane è quello di diventare, via via che s’indeboliscono, più cieche alla crisi, anziché più attente.» E tuttavia, nel tempo, questa difficoltà a incontrare il reale, evidente in tutti gli ambiti delle nostre vite e della nostra società, paradossalmente si manifesta in campo educativo, a scuola, in famiglia, e ovunque vi siano bambini, in una calcificata resistenza nei confronti della finzione letteraria e del suo potere catartico, ove la letteratura non si configuri esclusivamente come attività di intrattenimento, ma diventi pratica di ricerca di senso.
Sono le fiabe, in particolare, a essere le prime vittime di questa lugubre e ostile diffidenza. Dopo qualche migliaio di anni, la più perfetta fra le finzioni, il più celebre degli incipit, C’era una volta, garanzia di distanza, e quindi di elaborazione simbolica, fra realtà del presente e passato della fiaba, non convince più.
Una ipotesi potrebbe essere che essendo gli adulti sempre più incapaci di distinguere fra realtà e finzione, individuino nella finzione letteraria, che obbliga il lettore a sospendere temporaneamente la propria incredulità, un potenziale innesco a traumi e comportamenti devianti, temendo che la fiaba funzioni da miccia a paure incontrollate e dannose alla crescita, come se i bambini apprendessero dell’esistenza della paura dalle fiabe e non la sperimentassero in prima persona nella propria esperienza quotidiana.
Già i Fratelli Grimm, a stare ai loro carteggi, si lamentavano del problema, osservando che il perbenismo dei lettori li costringeva a sistematiche ripuliture dei testi orali raccolti durante il loro lavoro di ricerca. E in effetti le loro Fiabe o Märchen, come le leggiamo oggi, sono il risultato di ben sei edizioni nelle quali si procedette a successive riscritture per adeguarle al gusto del pubblico borghese, disturbato dal perturbante delle narrazioni popolari.
Oggi, il grande interesse per le fiabe e il fiabesco di certa parte della cultura attraverso le ricerche di studiosi che negli ultimi anni hanno lavorato a divulgare la conoscenza delle fiabe e la loro importanza in ambito letterario ed educativo, permette di accedere a raccolte di fiabe di grande interesse, come la prima bellissima edizione dei Grimm, quella redatta fra il 1812-1815, che in Italia, intitolata Principessa Pel di Topo, curata da Jack Zipes e illustrata da Fabian Negrin, è stata edita da Donzelli nel 2012 (a questa è seguita quella integrale, Tutte le fiabe, del 2015).
Raccolte importanti a cui si dovrebbe attingere per letture ai bambini, prima ancora che ad adulti, senza timori e incertezze, poiché, come spiegano psicologi, antropologi, evoluzionisti, pediatri, educatori, la razza umana, adulti e bambini, da sempre hanno bisogno di sperimentare la paura, e la narrazione è uno dei sistemi più antichi ed efficaci perché questo avvenga, a livello simbolico, senza incorrere in pericoli reali.
In L’istinto di narrare, Jonathan Gotschal, nel terzo capitolo, L’inferno è amico delle storie, scrive: «Nel suo straordinario Come funziona la mente Pinker (teorico dell’evoluzione umana, ndr) sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. Così come i giocatori di scacchi memorizzano risposte ottimali a un’ampia gamma di attacchi e difese, noi ci attrezziamo per la vita reale, assorbendo schemi di gioco funzionali».
E più avanti: «La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e ridefinisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell’esistenza. In questo senso siamo attratti dalla finzione narrativa non a causa di un’anomalia dell’evoluzione, ma perché la finzione è, nell’insieme, vantaggiosa per noi. Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie». La tesi di Gotschall in L’istinto di narrare è, infatti, che l’attitudine alla narrazione abbia determinato il successo della specie umana.
Molto prima dei moderni studi antropologici, peraltro, nell’antica Grecia, filosofi e pensatori, a proposito di Poesia e Tragedia, interpretavano lo straordinario potere della finzione letteraria come catarsi. -Ciò che avveniva durante la lettura di versi o sul palcoscenico induceva il pubblico a purificarsi, elaborando in profondità dilemmi etici, e vivendo intensamente come spettatori vicende che a tutt’oggi, nei teatri antichi di Siracusa, Taormina, Segesta, Epidauro, muovono le nostre coscienze e ci educano alla necessità della ricerca di senso.
Da alcuni anni Chiara Guidi, insieme alla compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio, si è fatta interprete di spettacoli che mettono al centro della scena le fiabe e i bambini, attraverso quello che ha definito “metodo errante”. Per innescare questo metodo, spiega «bisogna preparare un posto inerte, come le pagine di un libro. Il teatro è un’apparecchiatura spaziale e temporale che permette di far sorgere la figura. Sono i bambini a metterlo in moto con la loro presenza.»
Grazie a questa presenza e azione infantile si entra nella fiaba, nel racconto mitico, arrivando a toccarli, generando un atto di creazione, un’esperienza d’arte. Da questo metodo sono nate le esperienze teatrali delle Favole di Esopo (1992), di Hänsel e Gretel (1993), Buchettino (1995), Pelle d’asino (1996), Jack e il fagiolo magico (2013).
Fra i suoi spettacoli più noti, c’è Buchettino che Guidi in un’intervista del 2012 racconta così:
«è una favola raccontata da una attrice messa dentro a una stanza di legno che diventa una grande cassa di risonanza dove, all’esterno, dei tecnici rumoristi fanno i rumori della favola: suonano la favola. I bambini sono a letto coperti con delle coperte: cinquanta bambini, cinquanta coperte, cinquanta lenzuoli, cinquanta cuscini, e il letto diventa una barca, e diventa anche il luogo della protezione, perché se ho paura mi copro con la coperta, consapevole che quella coperta diventa una corazza che mi protegge. Non c’è nulla da vedere: però, ascoltando, è possibile vedere.
I bambini oggi ascoltano poche favole, le favole non sono più favole della tradizione perché queste sono favole che fanno paura e non possono essere raccontate ai bambini. Si può far vedere il male attraverso la società dello spettacolo ed escludere invece la catarsi della favola che sempre porta il lieto fine.
Sarebbe necessario un ritorno dei bambini a favole che sono l’espressione di un’esperienza che conduce attraverso la vita della favola alla vita possibile futura di un bambino che diventerà adulto.»
La grande intuizione di questa rappresentazione, in un momento storico in cui i bambini sono accuratamente tenuti lontani dalle fiabe, è mettere al centro dell’azione scenica i bambini come ascoltatori di fiabe, spettatori, ma dentro il corpo stesso della fiaba, nel suo pericolo, attivamente impegnati a ricrearla con l’immaginazione, seguendo la narrazione orale e l’andamento sonoro della vicenda.
La storia di Buchettino, che poi è quella di Pollicino ovvero Le petit poucet di Charles Perrault (Buchettino è il titolo della versione toscana) come è stata portata in scena da Chiara Guidi, con l’adattamento di Claudia Castellucci, è stata pubblicata da Orecchio Acerbo nel 2015 in una bella edizione con le illustrazioni di Simone Massi.
Per origine, storia e natura le fiabe si prestano più di ogni altro genere letterario a rielaborazioni, metamorfosi, riscritture attraverso i medium più diversi: dal teatro al cinema, al fumetto, alla poesia, all’illustrazione, alla danza, alla musica.
Questa estrema duttilità è una grande risorsa dal punto di vista educativo, poiché permette di proporre ai bambini una quantità di varianti e di linguaggi che diventano ottimi strumenti di ri-narrazione e indagine. Il linguaggio in cui si sceglie di raccontare una fiaba, infatti, determina la forma stessa della narrazione portando, ogni volta, a galla delle vicende aspetti che in altre versioni rimangono impliciti, nascosti.
Nella raccolta poetica In mezzo alla fiaba, edita da Topipittori nel 2015 con illustrazioni di Arianna Vairo, Silvia Vecchini decostruisce venti fiabe della tradizione per ricostruirle attraverso venti composizioni poetiche. La prima volte che le lessi, rimasi folgorata dal testo che dedicò a Pollicino, poiché non avevo mai realizzato consapevolmente, ma solo inconsciamente, quale fosse il suo centro tensionale:
Se tuo padre è un orco
non ti basterà dormire
indossando una corona
la violenza è cieca
il coltello non ragiona.
Al cuore di questa vicenda, Vecchini mette, anziché l’abbandono dei figli nel bosco da parte dei genitori afflitti da una miseria senza scampo, l’eccidio delle orchessine uccise dal padre-orco al posto di Pollicino e dei suo fratelli che scambiano i loro cappelli con le corone delle bambine, condannandole a morte e ingannando l’orco.
Nell’illustrazione che Gustave Doré dedicò a questo momento della fiaba vediamo le orchessine che dormono tutte insieme in un grande letto cosparso di ossa. Accanto a questo, specularmente, il lettore immagina il letto in cui dormono Pollicino e i suoi fratelli. È certo che in questa fiaba lo stare a letto di bambini e bambine è fortemente implicato con il tessuto stesso della storia, ed è certamente anche questo che rende la messa in scena di Chiara Guidi così potente e liberatoria.
La fiaba di Pollicino di Perrault ha numerosi punti di contatto con quella di Hänsel e Gretel dei Grimm, in particolare nella parte iniziale che procede identica: la decisione dei genitori di abbandonare i figli a causa della miseria, l’abbandono nel bosco, lo stratagemma dei sassolini bianchi per ritrovare la strada di casa, e poi quello, fallimentare delle briciole mangiate dagli uccelli, che decreta lo smarrimento dei bambini e il pericolo di essere mangiati nel primo caso dalla strega, nel secondo dall’orco. Silvia Vecchini nella poesia in cui riscrive Hänsel e Gretel mette al centro della scena il vincolo di salvezza che stringe fratello e sorella:
A tutti servirebbe un fratello
che nel momento più scuro
esca di nascosto e si riempia le tasche,
che nel bosco resti al tuo fianco
e lasci cadere a ogni passo
un sassolino bianco.
Se in Pollicino, infatti, sono le doti straordinarie del più piccolo dei fratelli e apparentemente incapace, a salvare gli altri, inetti, qui il lieto fine è sancito dalla collaborazione dei due bambini, ugualmente impegnati nel salvarsi reciprocamente la vita. Sottolinea questo significato anche Bruno Bettelheim che in Il mondo incantato dà una lettura di grande interesse di Hänsel e Gretel, in cui l’accento è posto sulla necessità dei bambini di affrontare il bosco per crescere, conquistare l’autonomia, liberandosi, attraverso il pericolo corso e superato, dalla tendenza regressiva a rifugiarsi nella casa e nel supporto dei genitori.
Uscita nel 2009 per Gallimard Jeunesse e in Italia edita da Orecchio Acerbo, Hänsel e Gretel, attraverso le insuperabili illustrazioni di Lorenzo Mattotti, che tocca qui uno dei suoi punti più alti, è davvero “la fiaba per eccellenza” come l’ha definita Chiara Guidi: un percorso attraverso il buio e la luce che segna la crescita come capacità di riconoscere e opporsi al Male e superare il pericolo con le proprie forze. Dev’essere questa eccellenza la ragione per cui questa fiaba non smette di esercitare il suo fascino su disegnatori e illustratori.
L’ultima versione edita in Italia è uscita per Canicola che inaugura con questo Hänsel e Gretel, della tedesca Sophia Martineck, la collana di fumetti “Dino Buzzati” dedicata ai bambini. Fedele alla versione dei Grimm, Martineck nelle illustrazioni attualizza interni e abiti dei protagonisti: la casa dei genitori ha una moderna cucina a gas, un lavello di acciaio e i bambini indossano giacca a vento ed eskimo. Fiabesco rimane il bosco, antico e senza tempo, intrico di ombre e tronchi, dove la casa della strega si manifesta come un’allucinazione.
Il modo di narrazione del fumetto che racconta in forma dialogica, porta in primo piano la crudezza della vicenda attraverso le parole che si scambiano genitori e figli. La sbrigativa menzogna con cui vengono lasciati soli nel bosco urta contro la drammatica consapevolezza dei bambini, e del lettore, che sanno bene che la promessa di tornarli a prenderli dopo il taglio della legna è destinata a non compiersi. Ugualmente interessanti sono i dialoghi dei bambini, le loro parole sempre affettuose, fiduciose, speranzose anche nello spavento: fiabesche, insomma, quanto il bosco atemporale, analogia che sottolinea quanto l’infanzia appartenga a una dimensione profondamente radicata nella natura e nei suoi simboli.
Del Pollicino di Perrault, invece, nella versione dei Grimm non rimane niente, se non il titolo e il tema del bambino piccolissimo che riesce a superare ogni sorta di avventure con grande scaltrezza. È una fiaba allegra, scanzonata questa, da poco pubblicata in Italia da Quodlibet/Ottimomassimo nel volume Fiabe a fumetti, scritte e disegnate da Rotraut Susanne Berner, vincitrice lo scorso anno dell’Hans Christian Andersen Award.
Fiabe a fumetti raccoglie otto fiabe dei Grimm, trasposte nel segno limpido, aggraziato e umoristico caratteristico della grande autrice tedesca. È infatti la bellezza visiva del fiabesco a fare la parte del leone in questo libro, in cui le storie sono rese in massima sintesi, una sorta di morfologia della fiaba alla maniera di Propp, in cui i bambini più piccoli, aiutati dallo stampatello, potranno familiarizzare con le trame delle storie e i loro protagonisti, osservando e divertendosi a osservare analogie e differenze delle trame.
Benché i contenuti paurosi delle vicende qui non siano censurati, come invece spesso avviene in numerose mortificanti riduzioni in commercio, è straordinario osservare come il fascinoso immaginario nordico a tinte cupe dei Grimm subisca una metamorfosi che lo porta ad avvicinarsi alla luminosa e ludica allegria delle Fiabe italiane curate da Italo Calvino. Come se in questa autrice nata in Germania, come in tanti suoi conterranei prima di lei, covi una segreta passione per la luce mediterranea, e la disposizione al comico del suo folklore.
Fra il 1970 e il 1972, uno fra i più grandi illustratori del Novecento, Maurice Sendak realizzò una serie di illustrazioni per una selezione delle fiabe dei Grimm, edite poi nel 1973 da Farrar, Straus and Giroux con il titolo The JuniperTree. Per avvicinarsi alle storie e al loro immaginario, Sendak fece un lungo viaggio in Europa e in Germania, e un’accurata ricerca sugli stilemi della pittura tedesca, in particolare su Dürer. -Quando il libro uscì, ci furono parecchie critiche riguardo al modo che aveva scelto per rappresentarle. Piuttosto contrariato, l’autore spiegò che più che “rappresentare” la storia, aveva voluto puntare al suo lato oscuro, sotterraneo: a quello, cioè, che la storia non dice, o meglio, dice nascostamente. Di queste fiabe gli interessava «cogliere il momento in cui la tensione fra storia ed emozione è perfetta, così che il lettore leggendo, possa sorprendersi, pensando che si tratta ’semplicemente’ di una favola.»
Ai molti che giudicarono queste immagini claustrofobiche, cupe, poche adatte ai bambini (che peraltro hanno sempre amato follemente il lavoro di Sendak come dimostra la fortuna dei suoi libri in tutto il mondo) affermò: «Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini. Loro sanno cosa c’è in queste storie. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»
Sendak aveva ragione, naturalmente. Oggi sappiamo che l’ingresso della matrigna nella fiaba di Hänsel e Gretel, si dovette ai malumori del pubblico ottocentesco che nella madre della fiaba, attiva promotrice nell’abbandono dei figli, videro compromessa e infangata la figura materna, che invece si pretendeva intatta, nella sua tradizionale funzione di accudente angelo del focolare. Per questo le parole di Sendak risultano tanto più veritiere, lucide.
Non mentire ai bambini significa anzitutto per gli adulti non mentire a se stessi, recuperare la possibilità di confrontarsi con la realtà, saperla leggere, incontrarla. Magari proprio a cominciare dalla finzione letteraria, dalle fiabe che come scrive Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta, «sono vere».
* DoppioZero, 08.06.2017 (ripresa parziale, senza immagini).
TEOLOGIE E PEDAGOGIE SENZA GRAZIA ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv., 4.8). Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.
L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa
L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza
di Francesca Paci (La Stampa, 01/06/2017)
Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. «Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore» racconta la ragazzina che non c’è più.
Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children «Infanzia rubata» pubblicato proprio in queste ore.
Senza istruzione, sfruttati, uccisi
Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da «Infanzia rubata», che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno).
Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali
Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda.
“Protezione ed educazione per tutti entro il 2030”
«È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro» dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: «Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano».
Le spose bambine
Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: «Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta». Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole.
Le parole terribili che si dicono ai bambini
di Gianni Agostinelli (DoppioZero, 04.06.2017)
Giorni fa ero con mia figlia al supermercato e tra le file di scaffali abbiamo incontrato dei conoscenti. Marito e moglie sui sessantacinque anni. La signora si è chinata sorridente verso la bambina e le ha domandato: “Ti vende il babbo? Ti vuole vendere? Ti lascia qui?”. Senza ottenere risposta ha continuato a sorriderle, fissandola, per alcuni secondi. Poi si è tirata su, ha guardato me e ha detto “bellina che è”. Un attimo dopo non c’erano già più.
A quel punto ho guardato la piccola e l’ho vista immobile, gli occhi spalancati sulla schiena di quei due e muta. Ha aperto bocca solo per infilarci il dito. Ha ricambiato il mio sguardo per capire se fosse tutto a posto. Le ho detto qualcosa per tranquillizzarla, poi abbiamo ripreso velocemente il giro.
Ancora prima di arrivare alla cassa mi sono messo a pensare a tutte le cose orribili che si dicono ai bambini senza avere alcuna intenzione di farli soffrire, solo “per gioco”.
Come sempre, tutto si riduce alla scelte delle parole.
Credere che i bambini non ascoltino è stupido, e credere che non capiscano lo è ancora di più.
Lo scoprii per la prima volta qualche anno fa, quando non ero padre ed ero a fine turno, in libreria. Avevo un foglio arricciato sotto la mano sinistra, la destra sulla tastiera del computer e gli occhi sul monitor. Mi si avvicinò un bambino chiedendomi: “Cosa fai?”
Risposi stancamente “Carico le bolle”.
“Bello, allora sei un caricatore”.
Sorrisi. Fu molto istruttivo.
Ma, almeno in quello che vedo, le parole, e molte volte anche i gesti, nel pensare comune valgono zero quando si ha a che fare con loro. Perché, credo sia questo il ragionamento che ci nascondiamo, i bambini, appunto, sono bambini: non capiscono. E poi, che male possono fare le parole a un bambino? Stavamo solo scherzando. Più o meno ci si giustifica come fanno loro con noi quando sanno di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il bambino lo si percepisce come un essere imperfetto, come qualcosa di incompiuto e col quale crediamo di poterci permettere tutto.
Mr. Brainwash.
Non che ci si debba mettere a fare l’analisi di ogni frase con cui gli si rivolgono gli adulti, ma ad ascoltarle per quel che sono, cioè parole con un significato preciso, alcune fanno proprio paura.
Limitandomi a parlare dell’esperienza diretta ho cercato di ricordare cose che erano state dette da conoscenti o estranei a mia figlia negli ultimi tempi.
Lei ha 3 anni, quindi è ancora piccola per riconoscere lo “scherzo” degli adulti.
E soprattutto per dubitare della loro parola.
Mi è tornata in mente così quella volte che l’hanno presa in braccio senza il suo volere. Si tratta di un’operazione accessibile agli anziani, come in quel caso, e se il bambino non supera i 15-20 chilogrammi l’anziano può permettersi di imbrigliarlo a sé senza particolare sforzo, per poi cullarlo e oscillarne il corpo mentre gli sussurra: “Ti butto di sotto, ora ti butto di sotto. Vuoi che ti lasci cadere? Ti lascio cadere? No, non ti lascio cadere.
Se fai la brava”.
Ho scoperto in seguito che certe frasi le utilizzano tutti, non soltanto gli anziani, come pensavo all’inizio. Dimestichezza con i bambini la si acquisisce soltanto frequentandoli. Il fatto che non sia obbligatorio farlo non implica però che qualsiasi metodo scelto vada bene. Vale così anche per i cani, se può essere d’aiuto.
Però, sembra strano, sono tutte parole volte a “proteggere” la creatura, a tenerla a sé. Con la conseguenza di farle conoscere la paura e il pericolo nel modo più traumatico possibile.
O così, o morte.
Spesso sono parole che si usano anche per accontentare le comodità dell’adulto che deve badare al bambino. Quindi è frequente sentir dire: “Lo vedi quello?” (solitamente l’identikit è di un adulto, sesso maschile, dall’aspetto poco rassicurante, agli occhi di chi parla). “Quello lì, se ti alzi dalla sedia, ti porta via. Quindi non ti muovere, hai capito?”
E l’estraneo indicato che vede gli occhi del bambino incrociare i suoi, ma senza aver colto l’ammonimento dell’adulto, non fa altro che scoprire i denti verso la creatura.
Per sorridere.
“Eccolo eh, ti ha vista. Fai la brava.”
Ci rivolgiamo ai bambini pensandoli come esseri “anormali”. Però siamo noi ad avere il controllo, finché restano bambini non ci sembrano pericolosi e quando non sono più innocui si possono regolare con maniere più decise. Specie quando non riescono in qualcosa per noi semplice. Mai capitato di sentirli apostrofati con un “vedi che non capisci?”.
Forse, mi sono detto, dipende dalla nostra percezione da adulti. E la percezione che possiamo avere di un estraneo che vediamo la prima volta è legata all’aspetto fisico. Sono trattamenti che democraticamente si riservano a tutti, figurarsi ai bambini di cui siamo certi di essere superiori in ogni aspetto. Non arrivano al metro, sono più bassi. Si rovesciano l’aranciata addosso, piangono in pubblico. Impossibile prenderli sul serio.
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA.
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....
Leggere con l’orecchio
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
DON RODRIGO, DON ABBONDIO, E QUEL "RAMO D’ORO" DEL LAGO DI COMO! Liberare gli studenti dalla "boria" dei "sapientissimi" proff. e dalle sapientissime proff.!!!
“Liberiamo gli studenti dai Promessi sposi”
La noia di leggere Manzoni a quindici anni
I "Promessi sposi" sono testo obbligatorio dal 1870. Ora docenti come Giunta e Gardini, e scrittori come Camilleri, Terranova e Trevi chiedono di cambiare. Per salvare le prossime generazioni di lettori
di Marco Filoni ("pagina 99", 19 maggio 2017)
Facciamo un esperimento. Provate a immaginare una sensazione, un’immagine che vi torna alla mente dei Promessi sposi. D’accordo, a tutti più o meno risuona il famoso incipit Quel ramo del Lago di Como... Ma provate a far emergere dai vostri ricordi qualcosa che più che a mezzogiorno “volge” alle vostre emozioni. -Siate sinceri: pensate a un misto di noia e fastidio? Bene, la cosa non deve preoccuparvi. Fatti salvi gli studiosi, rientrate nella quasi totalità della popolazione italiana che, a scuola, ha letto le pagine dei Promessi sposi. Lo chiamano “effetto-Manzoni” e, secondo molti, sarebbe alla base di una successiva ripulsa verso la letteratura di molti giovani.
C’è però una considerazione che forse è arrivato il momento di fare. Ovvero: quanto questo romanzo ottocentesco (la prima versione è del 1827, la sua edizione definitiva uscì fra il 1840 e il 1842) è davvero costitutivo del carattere nazionale dell’Italia?
La domanda non suoni peregrina. Se la sono posta allo scoccar d’ogni decennio funzionari ministeriali, scrittori e insegnanti dal 1870 in poi - alternando elogi delle pagine manzoniane a severi giudizi sulla loro utilità, proponendo alternative (le Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo nel 1922, fra gli altri) e netti rifiuti (come Giosuè Carducci «perché dalla lingua dei Promessi sposi a certa broda di fagioli non c’è traghetto e dall’ammagliamento logico dello stile e discorso manzoniani alle sfilacciature di calza sfatta di cotesti piccoli bracaloni c’è di mezzo un abisso di ridicolo»).
Sul nuovo numero di pagina99, in edicola e in versione digitale, pubblichiamo una lista dei libri che sono le letture obbligatorie in differenti Paesi del mondo (compilata da Daryl Chen e Laura McClure per il sito dei Ted Talks). Perché sapere cosa un Paese fa leggere ai suoi giovani ci dice qualcosa di quel Paese. Prendiamo la Germania, dove si legge Il diario di Anna Frank (scritto in olandese, non in tedesco). Per non dire dei molti Paesi che fanno leggere romanzi scritti negli ultimi decenni: per esempio il Pakistan che propone Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007).
Verrebbe da chiedersi, con Italo Calvino, cos’è oggi un classico... E nel rispondere a questa domanda ci vorrebbe forse un po’ di coraggio per superare un certo familismo culturale che investe la nostra società: i nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi. Una sorta di immobilismo che ritroviamo esplicitato nelle così dette riforme della scuola italiana, alla cui crisi si accompagna una mancanza di coraggio (ricordate don Abbondio?) forse insita nel nostro patrimonio culturale...
Per le professioni del futuro bisogna studiare filosofia
di Antonella Bonavoglia (Il Sole-24 Ore, 27 Aprile 2017)
Ci sono domande a cui Google non può rispondere. Ma la capacità di saper ragionare adeguatamente e rispondere a quelle domande potrebbe essere una delle chiavi per preparare i ragazzi di oggi alle professioni di domani. Perché se molte delle professioni attuali saranno sostituite dalla tecnologia e dalla robotica (secondo la previsione che nel 2013 è stata effettuata da un gruppo di economisti della Oxford University più della metà dei lavori nei prossimi 20 anni), quello che distingue l’uomo dai computer sarà il vero valore aggiunto, anche nelle professioni del futuro. Per questo, ai lavori di domani, sarà richiesto di spaziare su più campi, di riuscire a mettere insieme più competenze e saperi. E, a sorpresa, un aiuto potrebbe arrivare, già nelle scuole, dalla filosofia. Come hanno deciso di fare in Irlanda.
La domanda da porsi è quindi come deve cambiare l’istruzione in previsione futura e cosa serve davvero ai ragazzi e alle ragazze di oggi, per diventare gli uomini e le donne di domani. In Irlanda il presidente della Repubblica, Michael Higgins, ha risposto decidendo di introdurre la filosofia come materia di studio già dai dodici anni d’età. Pare che l’iniziativa sia nata dopo un dibattito sul tema della perdita di posti di lavoro e dei cambiamenti in atto nella società irlandese. Così, dallo scorso settembre, la filosofia, in Irlanda, entra a far parte dell’elenco delle materie “irrinunciabili”. E già è in discussione la sua introduzione nelle scuole elementari. Dunque, la filosofia può fornire agli studenti gli strumenti utili al ragionamento e alla risoluzione dei problemi?
“Cosa sono i sogni?” “Chi sono io?” “Cosa è il destino?”: non è mai troppo presto per porsi domande importanti e con lo studio della filosofia i bambini possono essere invitati a riflettere e a confrontarsi, in maniera diretta, su questioni tipiche della discussione filosofica. Concetti come la vita, la gioia, l’amore, la tristezza, la diversità, la pace, la speranza, il tempo, lo spazio, il futuro possono diventare tema di dibattito e confronto e, grazie alla mediazione dell’esperto, diverranno parte del bagaglio di esperienza di ciascun alunno. Insomma, la filosofia, per anni considerata materia “inutile” o relegata esclusivamente nei licei a indirizzo umanistico, riacquista uno spazio importante, diventando una disciplina indispensabile per l’acquisizione del probelm solving, alla stessa stregua della matematica.
In Italia dal 2015 è nata un’associazione culturale “FilosofiaCoiBambini”, che si occupa di diffondere e custodire il metodo educativo originale di approccio “filosofico” all’istruzione, sin dalla scuola dell’infanzia. L’idea arriva da Pesaro da Carlo Maria Cirino e Cecilia Giampaoli, che hanno creato dei laboratori esperienziali, dapprima privati, poi aperti al pubblico. “FilosofiaCoiBambini” è oggi una realtà nazionale che vanta un numero crescente di scuole dell’infanzia e primaria che già adottano la sperimentazione (più di 30 Istituti Scolastici in Italia ed Europa solo alla fine del 2015).
L’immaginazione è alla base del metodo. Senza immaginazione, non andremmo lontano. E’ l’immaginazione che ci spinge a creare le cose, a capirne le funzioni, ad approfondire la curiosità innata, a sperimentare. Immaginare è la base del fare e del saper creare e allenare i bambini all’immaginazione, significa potenziare la loro area cognitiva ed emotiva. Il metodo filosofico è, dunque, entrato in molte scuole italiane, attraverso progetti sviluppati da docenti “filosofi”, formati attraverso training, corsi e laboratori. La filosofia, secondo gli sviluppatori di questo metodo, insegna ai bambini ad utilizzare il controfattuale, allenando così, la loro capacità di immaginare mondi possibili e di trovare soluzioni a problemi concreti e astratti.
La scuola buona, a cinquant’anni da Lettera a una professoressa
Vanessa Roghi, storica (Internazionale, 16.04.2017)
Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa. L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.
Eppure in pochi anni, grazie a questo prete, Barbiana diventa un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia. Nasce lì, nel 1958, Esperienze pastorali, visto da molti come concreto e profetico contributo al Concilio Vaticano II, immediatamente messo all’indice dalla curia romana che, pur non vietandolo ufficialmente, ne impedisce la pubblicazione. Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai parroci militari. Un testo, pubblicato dal periodico comunista Rinascita e ricordato come L’obbedienza non è più una virtù, che porterà in tribunale don Milani e gli causerà addirittura una condanna dopo la morte.
E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, autentico livre de chevet di una generazione. “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni. Visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta. Ma visto, anche, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”.
“Noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni”, ha scritto Paola Mastrocola. E in un articolo di Sebastiano Vassalli si può leggere: “La mitica scuola di Barbiana (...) era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.
Un invito a organizzarsi
Lettera a una professoressa è dunque diventato un libro manifesto, ma non nel modo auspicato dai suoi autori. Eppure il libro è cristallino: non è, né vuole essere, un testo scritto per i ragazzi che vanno all’università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai. La lettera è un invito a organizzarsi. Perché la scuola pubblica, così come l’hanno conosciuta i ragazzi di Barbiana e non solo, è una scuola per ricchi, per i “Pierini d’Italia”. La riforma delle scuole medie del 1963 non aveva modificato questa situazione. La scuola di don Milani è una denuncia nei confronti di governi cattolici che per tutto il dopoguerra hanno occupato il ministero della pubblica istruzione (6 ministri laici su 34).
Don Milani sa bene che il suo non è un progetto di riforma ma una testimonianza, scritta in prima persona plurale, con un noi che ha nomi e cognomi. “So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, scrive alla giovane Nadia Neri in una delle sue lettere più belle, “che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. E ancora:
Il suo, dunque, non è neppure un modello da imitare, come in molti ancora oggi pensano. Eppure, nella sua esemplare essenzialità, questo piccolo esperimento pedagogico che si traduce in una scuoletta di montagna e nella pubblicazione di un libro, poco più di un opuscolo, diventa la scintilla di una rivoluzione. E ancora oggi mobilita il ricordo, innesca passioni, divide e fa litigare, si fissa nella memoria collettiva come un punto di passaggio epocale quando si parla di scuola ma anche di giovani, generazioni, movimenti.
Questo perché fin da pochi mesi dopo la sua pubblicazione il libro acquista una vita completamente autonoma, Lettera a una professoressa è, infatti, il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e per questo è un libro degli anni sessanta, ma si pone anche l’obiettivo di dire basta con questo ritardo nell’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti. Per questo viene subito adottato dal movimento studentesco.
Su Lettera a una professoressa si fanno seminari in tutte le università occupate; alla Biennale di Venezia del 1968 diventa uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Gli insegnanti lo usano per sperimentare nuove forme di didattica; a Roma, all’acquedotto Claudio, don Sardelli fonda una scuola popolare ispirata all’esperienza di Barbiana. Viene definito un libro maoista. Gianni Rodari e il Movimento di cooperazione educativa gli dedicano scritti e riflessioni. Tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’educazione si confrontano con Lettera a una professoressa.
Il ruolo di maestre e maestri
In molti dimenticano che il libro riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università. La questione dell’obbligo scolastico è più di ogni altra la cartina di tornasole di ogni sistema che voglia dirsi democratico. A fine anni sessanta è ampiamente disattesa, dalle famiglie ma anche dallo stato che consente un doppio binario scolastico, per chi ha tutte le parole a casa, può fare ripetizioni, e chi non può. Lettera a una professoressa diventa il vademecum dei primi, ma per fortuna ha ricadute importantissime anche sulla vita dei secondi.
Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e stati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo.
Lettera a una professoressa va oltre tutto questo perché coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale nella quale un analfabeta, come dice un vecchio contadino alla Rai degli anni sessanta, “è cieco”. “La scuola siede tra il passato e il futuro”, scrive don Lorenzo Milani, “e deve averli presenti entrambi”.
Scrive Oronzo Parlangeli, filologo, nel lontano 1969:
Eppure i ragazzi della scuola di Barbiana hanno scritto:
Amen. Bastano queste poche righe per raccontare l’impatto del libro, i suoi fraintendimenti, lo svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, la strumentale sovrapposizione delle sue tesi con quelle di una parte del movimento studentesco. Oggi la sua rilettura viene fatta in nome dell’antisessantottismo e assume una funzione antidemocratica. I primi a mettere in discussione l’utilità della lettera sono stati proprio i professori “democratici” che l’hanno letta e usata per anni: letta, usata e non capita. Nel 1978 un articolo sul Manifesto pone il problema: come comportarsi con i ragazzi del 1977? Bisogna bocciarli. Quindi don Milani aveva torto...
Consapevole di queste strumentalizzazioni, nel 1982 padre Ernesto Balducci si chiede: “Ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. E ancora: “Il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello stato di diritto, la scuola di stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori”.
Ma, aggiunge, la contrapposizione fittizia creatasi tra l’umanità della scuola di Barbiana e la disumanità della scuola istituzionale è una balla, la riforma del 1974 risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica: “Ecco perché la scuola di Barbiana, se vezzeggiata come un modello ideale, può favorire inerzie utopistiche o fughe nel privato. Essa non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni”.
Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto:
Appiattirne l’immagine, semplificarne i contorni per ridurlo a fenomeno comprensibile, catalogabile, replicabile. Come poi, puntualmente, è stato fatto, e continua ad essere fatto.
Viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo quando scrive Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.
Lui, invece, sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento. Al fine di sentirsi ognuno responsabile di tutto, come è scritto nella Lettera ai giudici:
Viene in mente, pensando a Lorenzo Milani, quello che scrive Alex Langer di Ivan Illich: “Qualcuno ne rimane deluso e lo trova ‘poco organico’, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo”. E allora il tentativo di renderlo sistematico, comprensibile, di decifrarlo, e farlo diventare di volta in volta un marxista in nuce, un proto sessantottino, la voce profetica della rivolta, ma anche appunto l’istigatore di risentimento sociale, l’invidioso, lo sciatto. L’icona, il martire, il folle, il presuntuoso, il più grande intellettuale italiano del novecento. Che fatica.
A don Milani invece dobbiamo molto, moltissimo, in termini di categorie analitiche, negli anni della “buona scuola”, del ritorno alla bocciatura, della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti (oggi si chiama meritocrazia), in termini di contributo alla riflessione, di contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili.
Nessuna nostalgia
Tornare a don Milani, a Lettera a una professoressa e ai ragazzi di Barbiana ha un senso niente affatto nostalgico. Ben poco di affascinante c’è nella figura di un prete, burbero e autoritario, borghese e anti intellettuale, profondamente critico nei confronti della scuola pubblica. Ma non si tratta di questo. Nessuno oggi vuole fare l’errore di chi salì a Barbiana nel 1967 con la Lettera ai giudici in una mano e Herbert Marcuse nell’altra, sperando di trovare un guru, inventandosi di averlo trovato. Scoprendo in Lettera a una professoressa il viatico per la rivoluzione.
Bisogna rileggere Lettera a una professoressa a partire dalle proprie domande e dalle proprie esperienze, inserendola però all’interno di un contesto troppo spesso messo in ombra, da una lettura miope della figura di don Milani, essendo la sua eredità assolutamente non mediata dalla sua voce, ma solo da quella dei suoi eredi. Don Milani è morto infatti a 44 anni nel giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia.
Si tratta, come suggerisce don Luis Corzo, di riprendere in mano Lettera a una professoressa e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.
Crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO: *
La vera emergenza non è la grammatica, ma il classismo dei 600 docenti universitari
C’è qualcosa di insopportabile nella lettera che i 600 docenti hanno sottoscritto per mettere alla berlina le competenze grammaticali degli studenti italiani, in primis il classismo e la mancanza di autocritica di un sistema che è causa del problema.
di Massimiliano Virgilio *
La vera emergenza non è la grammatica, ma il classismo dei 600 docenti universitari
Per chi oggi ha tra i venti e i quarant’anni nel nostro Paese, cioè per chi sta crescendo o è cresciuto sul ciglio del disastro, c’è qualcosa di insopportabile nella ormai già famigerata lettera che il Gruppo di Firenze dei seicento docenti universitari ha inviato alle autorità italiane. Obiettivo: puntare l’indice sulle mediocri competenze grammaticali degli studenti. La scoperta dell’acqua calda, verrebbe da dire. Perciò sembra assurdo che una simile denuncia arrivi solo oggi, quando è evidente a tutti che la battaglia è stata persa tempo addietro. Come ha scritto ieri Annamaria Testa su Internazionale, riportando le dichiarazioni di Gianni Peresson, responsabile dell’ufficio studi di Aie (Associazione Italiana Editori) per commentare gli ultimi dati sulla lettura nel 2016:
Ma a chi importerebbe il clamoroso ritardo con cui arriva questa denuncia se ci fosse, nel sopracitato appello, una visione in grado di orientare i governi a operare scelte future sensate nel settore dell’istruzione e della formazione? E invece niente di tutto ciò è rintracciabile nelle raccomandazioni degli accademici al "governo della scuola". Mentre c’è, e molto, di insopportabile. Come il fatto che gli estensori di questo documento siano, fondamentalmente, un gruppo di uomini e donne che ha trascorso al calduccio quasi o tutta l’esistenza da illustri docenti, al centro di quel sistema universitario di stampo medievale così ramificato nel nostro Paese, zeppo di baronati, nepotismi, valvassori e satrapi di ogni genere, che ha inciso non poco sul disastro italiano attuale.
Eppure l’aspetto più intollerabile, nella lettera, è il retropensiero, lo spirito classista insito nel richiamo alla valutazione, alla riproposizione poliziesca di una pedagogia stantia, in nome di una formazione che sia, innanzitutto, selettiva. Altro che don Milani! C’è invece, leggendo con attenzione l’appello, una voglia di repressione nei confronti di quest’incresciosa situazione della grammatica tra la plebaglia studentesca e, più in generale, nei confronti dei giovani, come non si vedeva da tempo.
Non uno straccio di analisi delle ragioni che ci hanno condotto nel baratro, non uno straccio di autocritica sulle condizioni dell’università (dove oggi gli studenti non scrivono più e in cui, al massimo, sono tenuti ad apporre segni grafici sui quiz) o mea culpa rispetto all’appoggio indiscriminato fornito da molti di questi prestigiosi intellettuali ai governi che hanno massacrato la scuola pubblica, che hanno fatto della cultura un colabrodo istituzionale in cui distribuire prebende, che hanno tagliato i fondi alle biblioteche, che hanno assistito inermi mentre le librerie chiudevano in nome del libero mercato, che non hanno alzato un dito mentre il settore editoriale andava allo sfascio, che hanno parlato di meritocrazia senza praticarla, che hanno affossato i giovani del nostro Paese in ogni modo possibile...
Infine, un’ultima annotazione che spero possa esser colta al di là dell’aspetto estetico: la lettera dei 600 prof è stata pubblicata su un blog di rara bruttezza, un luogo dell’internet dal template scialbo e con un’impaginazione degna dei primi scarabocchi alla scuola dell’infanzia. A dimostrazione ulteriore che questi signori non hanno capito nulla del mondo che li circonda e che loro vorrebbero emendare.
*
http://www.fanpage.it/la-vera-emergenza-non-e-la-grammatica-ma-il-classismo-dei-600-docenti-universitari/ http://www.fanpage.it/ 7 febbraio 2017.
*
NOTA SUL TEMA - SCUOLA E MICROFISICA, MACRO-FISICA, E METAFISICA::
https://www.alfabeta2.it/2017/02/03/microfisica-dellalternanza-scuola-lavoro/#comment-625056
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
PLAUDO PIENAMENTE (E CON GIOIA) AL LAVORO (E ALLA BRAVURA) DELLA PROFESSORESSA, è da dire però che "nella discussione bisogna poi tener conto della linea generale, che va certo" in ben altra direzione: si veda "La lettera dei 600 docenti universitari al governo" (http://firenze.repubblica.it/cronaca/2017/02/04/news/firenze_la_lettera_dei_600_docenti_universitari_al_governo_molti_studenti_scrivono_male_intervenite_-157581214/?ref=HREC1-12).
QUANTO SIA IMPORTANTE LA PORTATA della "microfisica" e, insieme e allo stesso tempo, della "MACROFISICA" SULLA "MICROFISICA", questo è il nodo da pensare (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5143)! L’intervento di Giorgio Mascitelli ha toccato il "nervo" giusto, egli ha perfettamente ragione: sia come cittadini e cittadine sia come docenti, professoresse e professori, noi tutti e tutte ancora non abbiamo piena consapevolezza di cosa significa avere la carta d’Identità della Repubblica Italiana in tasca e di cosa significa (andare ogni mattina all’interno di "certi" edifici a) insegnare nella Scuola della Repubblica italiana.
La cosiddetta AUTONOMIA della SCUOLA (e l’eliminazione di "PUBBLICA") CON TUTTI I SUOI "PROGETTI",compreso questo ultimo dell’ALTERNANZA SCUOLA LAVORO (in queste larghissime modalità), è solo il penultimo gradino dell’irruzione del MERCATO nel mondo della SCUOLA PUBBLICA e della realizzazione di una "BUONA SCUOLA" per il mondo del MERCATO "pubblico"!!! MANCA POCO e leggeremo su tutte le Scuole dello Stato dell’alternanza scuola lavoro la "pubblicitaria" scritta: "IL LAVORO RENDE LIBERI"!
“La colpa non è né degli insegnanti, né degli studenti, ma di chi ha smantellato la scuola", dice Massimo Cacciari - e ha ragione.
"L’impronta gentiliana è stata contestata e superata, ma nel momento in cui è stata sostituita non si è lavorato in modo logico. L’impianto dei vecchi licei è stato smontato senza riflettere su quali competenze siano comunque basilari per qualsiasi corso di studi. Prima c’era il nucleo forte di materie come italiano, latino, storia e filosofia al classico, lo scientifico cambiava di poco con l’aggiunta di matematica. Adesso si taglia il latino, si taglia la filosofia, pilasti per un apprendimento logico. Sembra che l’unica cosa indispensabile sia professionalizzare, ma non si vuole capire che alla base di ogni apprendimento ci sono le competenze linguistiche” - dice Massimo Cacciari (su "la Repubblica, 05.02.2017) - e ha ragione.
CONCORDO! "L’impronta gentiliana è stata contestata e superata, ma nel momento in cui è stata sostituita non si è lavorato in modo logico"!
MA, FINORA, MASSIMO CACCIARI, dove è stato e dov’è ora - in "clinica"(si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)?! E questo non è un problema di "sana e robusta" COSTITUZIONE E META-FISICA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5418), di METAFISICA E COSTITUZIONE?!
BUON LAVORO
Federico La Sala
UNA SCUOLA GRANDE COME IL MONDO. In memoria di Gianni Rodari ...
CONDIVIDENDO A PIENO L’ARTICOLATA E CHIARA ANALISI E RIFLESSIONE DI GIORGIO MASCITELLI Microfisica dell’alternanza scuola lavoro ("Alfabeta2"), spero che possa essere utile e gradita la seguente nota, che allarga il campo sino ai confini della MACROFISICA (e se si vuole alla META-FISICA):
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5143
BUON LAVORO!
Federico La Sala
A scuola con il kit, come educare l’Italia in una generazione
Librì - Progetti Educativi , dall’integrazione all’ecologia laboratori e valigette a tema
(di Paola Mentuccia) *
Cambiare la cultura italiana in una generazione attraverso l’educazione. È la sfida di Librì - Progetti Educativi (diffuso e distribuito da Giunti Scuola), che per portare tematiche quali la sostenibilità ambientale, l’integrazione, le buone maniere, l’elaborazione del lutto e la gentilezza ai più piccoli, ha ideato una serie di kit educativi destinati al mondo della scuola. "Crediamo fermamente che l’educazione sia il motore del mondo, - ha detto all’ANSA Maria Cristina Zannoner, amministratore delegato dell’impresa editoriale - è per questo che ci siamo impegnati nella diffusione di un’educazione attiva, attenta ai problemi del momento, con argomenti trasversali alle discipline didattiche".
I progetti di Librì sono partiti con la formazione di una community di 20 mila insegnanti "fidelizzati", che stanno già lavorando nelle proprie classi con i kit educativi che gli sono stati consegnati. Si tratta di valigette di carta, ognuna su un tema specifico, che contengono un libro per ogni bambino, una guida per l’insegnante e un poster illustrato con delle finestrelle che si possono aprire per scoprire i "consigli" da seguire nella vita quotidiana per il risparmio energetico, la gestione dei rifiuti, la cultura della salute e del benessere, per la condivisione e la collaborazione tra le persone; una web app per tablet e smartphone completa il materiale di supporto ai piccoli.
"L’obiettivo di quest’anno - ha detto Zannoner - è raggiungere 500 mila bambini". Una volta che i kit vengono richiesti dagli insegnanti sul sito di Librì e distribuiti gratuitamente, le classi lavorano attivamente sulla tematica scelta e partecipano ai concorsi indetti dalla casa editrice. E per gli adolescenti, l’editore ha pensato a progetti da veicolare sul web in collaborazione con la piattaforma Blasteem, con la quale ha appena chiuso un accordo.
Per Maria Cristina Zannoner, l’educazione "è un atto politico, un credo assoluto". "Gli insegnanti fanno molto - ha detto - ma spesso sono abbandonati a loro stessi". Ecco quindi l’idea di un supporto editoriale che si aggiunge ai libri scolastici e che fonda la comunicazione educativa sulle potenzialità dell’illustrazione. "Io dico sempre - ha spiegato l’ad - che un libro deve entrare in un rapporto sensuale con il bambino, come fosse un gioco: c’è la scrittura, c’è l’immaginazione e c’è l’illustrazione che resta con lui e lo fa sognare per lungo tempo". "I bambini sono stupendi perché sono molto diretti - ha detto Maria Cristina Zannoner - se si parla loro direttamente, possono ascoltare qualunque argomento e se il concetto viene amplificato dall’illustrazione, si riempiono del messaggio che gli si sta passando. È un potere immenso: questa è l’educazione".
Alternanza scuola-lavoro, medaglia all’inutilità, allo sfruttamento, all’inganno e all’idiozia!
Lettera
di redazione *
Una nota esplicativa del Miur spiega che “l’alternanza scuola lavoro è un’esperienza educativa, coprogettata dalla scuola con altri soggetti e istituzioni, finalizzata ad offrire agli studenti occasioni formative di alto e qualificato profilo.” Be’, permettetemi di dire che vista con gli occhi di chi insegna, questo istituto dell’alternanza, uno degli elementi di maggior spicco all’interno della legge 107, meriterebbe un ricco medagliere: una medaglia al valor dell’inutilità, un’altra al valor dello spreco del tempo, un’altra ancora al valor dello sfruttamento, un’altra ancora al valor dell’inganno, e infine una bella coppa al valor dell’idiozia.
Dato che quando si conferiscono delle medaglie si danno anche delle motivazioni, vado a spiegare la ragione della mia generosità.
L’alternanza è inutile perché fare i galoppini, rispondere al telefono, fare fotocopie o altre banalità del genere non vedo quali competenze lavorative possano fornire. L’unico elemento significativo che forse lo studente può acquisire è la consapevolezza che quello che sta facendo presso quello studio o quell’azienda, non può essere il suo lavoro, dato che lo fa sentire un emerito idiota, e proprio non riesce a capire perché l’Istituzione scolastica lo stia punendo in quel modo, avvilendolo. Almeno quelle parole: “occasioni formative di alto e qualificato profilo”, ce le potevano risparmiare, tanto per manifestare un po’ di rispetto nei confronti dell’intelligenza altrui. Io leggo sempre una profonda delusione negli occhi degli studenti, al rientro dal loro impegno “lavorativo”, e molti mi domandano quale sia il senso della cosa.
La medaglia allo spreco del tempo va assegnata d’ufficio, direi, e la motivazione è pleonastica, almeno per noi insegnanti, perché interrompere la scuola per un paio di settimane significa, in termini pratici, spezzare un ritmo scolastico e didattico che necessitano di altro tempo per poter essere ripresi, e chi insegna sa quanto possa essere fondamentale, a volte, anche una singola ora di lezione.
La medaglia al valor di sfruttamento gliela farei consegnare direttamente dalle mani del Presidente di Confindustria, che costringerei a salire su una sedia e spiegare agli studenti di turno per quale ragione quelle prestazioni lavorative non debbano essere retribuite, e persino con una doverosa maggiorazione, dato che sono assolutamente stupide e incomprensibili, altro che ponte tra Scuola e mondo del lavoro!
L’unico messaggio che gli studenti possono recepire è che, una volta terminati gli studi, essi dovranno accettare l’idea di lavorare gratis, magari perché secondo l’ottica del datore di lavoro, viene data loro l’opportunità di apprendere, di formarsi, e poi magari si vedrà. D’altra parte sappiamo tutti che nel mondo del lavoro c’è anche questo, perché ci sono giovani che sono costretti a lavorare rimettendoci persino in termini economici, nella speranza di arricchire il curriculum, ovvero avere una buona lettera di presentazione, magari con su scritto: “Ve lo raccomando, tanto questo stupido lavora persino gratis”.
La medaglia al valor d’inganno ha la motivazione appena espressa, ma la voglio assegnare comunque, dato che ormai l’inganno è imprescindibile ai tempi nostri, vuoi in politica, vuoi anche in ogni altro settore, basti pensare all’Europa, ad esempio, che tanto prometteva, ma che ha solo tolto, ad iniziare dalla libertà e dai diritti. Quello che ha dato è solo ricchezza ai ricchi. Noi insegnanti di inganni ce ne intendiamo, e potremmo scrivere un trattato intero, cominciando dall’autonomia scolastica, che è servita solo a farci mancare i fondi persino per far funzionare le scuole in modo almeno decente, stavo per dire dignitoso, ma temo che molti non capiscano il termine, anche tra i colleghi.
Non sono forse ingannevoli le Associazioni Sindacali, che per decenni venivano a timbrare il cartellino alle Assemblee, a dirci come eravamo ridotti, come se non lo sapessimo da soli, e subito dopo firmavano di tutto, cercando di convincerci che avevano ottenuto il massimo, avendo ricevuto un’elemosina di aumento, barattata puntualmente con leggi che ci mortificavano ulteriormente? Non è forse un inganno la competizione tra scuole, per reperire studenti trasformati in clienti, nella logica perversa della Scuola-azienda e della truffaldina autonomia scolastica?
Non sono stati ingannevoli tutti i Ministri che si sono susseguiti, almeno da Berlinguer in poi, pronti a dire, scandalizzati, al momento dell’insediamento, che meritavamo di essere trattati diversamente, a cominciare dalla retribuzione, ma che poi puntualmente, nessuno escluso, hanno solo dato il personale contributo all’opera di demolizione della Scuola pubblica, con perizia scientifica?
Non è un enorme inganno, il più grande, la legge 107, beffardamente battezzata Buona, la definitiva pietra tombale? Non è forse un inganno vergognoso l’istituzione del Comitato di Valutazione, che, convincendo chi è al di fuori della Scuola, ma non solo, prometteva di premiare i “meritevoli”, ma che è servito solo a dare retribuzioni aggiuntive a chi collabora col DS per perseguire l’aziendalizzazione della Scuola, ma anche per sopperire alla miserevolezza del Fondo d’Istituto, con una trattativa delle RSU? Ormai tutto nella Scuola italiana è un inganno: assunzioni per categorie, concorsi beffa, eccetera eccetera.
E infine la coppa all’idiozia, la cui motivazione, oltre che rappresentare la summa, vuole premiare la stoltezza di chi obbedisce alla logica del mercato e del Potere, piegandosi all’imbroglio di chi finge di convincerci che le aziende non funzionano perché glielo impedisce lo scollamento delle Scuole dal mondo del lavoro. Se il mondo del lavoro non funziona è solo colpa degli imprenditori, ma anche delle politiche economiche errate, del liberismo e del miope e/o truffaldino rigore impostoci di un’Europa al servizio della Germania. Se in Italia il 40% dei giovani è disoccupato non lo si deve di certo a colpe della Scuola, come forse vorrebbero farci intendere, e chi non trova lavoro non lo trova sicuramente per sue incapacità, ma solo perché mancano i posti di lavoro.
L’alternanza Scuola-lavoro è insensata, inutile e deleteria. La Scuola non deve sottostare al mondo del lavoro, né accogliere alcuna direttiva o suggerimento da esso. La Scuola non deve formare dei lavoratori, perché a questo ci devono pensare le imprese. Ci sono specifiche scuole professionali che preparano a questo: per diventare elettricisti, idraulici, falegnami e quant’altro, ma non la Scuola, perché il suo compito è quello di dare cultura in senso lato, formare le menti, fornire strumenti critici, rendere gli studenti consapevoli di avere coscienza civica, arricchirli umanamente, anche alfabetizzarli emotivamente, abituarli alla collaborazione, al dialogo, al rapporto sociale. Questo deve essere la Scuola, non un apparato di Confindustria.
La ragione vera dello scientifico smantellamento della Scuola Pubblica è la volontà perversa di rendere il popolo ignorante, privo di capacità critica, incapace di capire e valutare l’operato di Governi e Parlamenti al servizio del Potere, essere suddito, e non cittadino libero, consapevole, intelligente.
Giuseppe Firinu
A chi serve la scuola dell’ignoranza?
di Matteo Saudino *
Che in Italia, i continui appelli alla meritocrazia non fossero altro che un ideologico feticcio usato per smantellare i diritti dei lavoratori e degli studenti avrebbe dovuto essere chiaro quasi a tutti sin da subito, ma si sa che non vi è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere. Inoltre, indicare il dito per non guardare la luna è una tecnica di distrazione di massa sempre attuale e sempre efficace. Pertanto, per anni, il mantra del merito come panacea di tutti i mali italici è stato ripetuto, con vigore misto ad arroganza, dagli esponenti del governo, dai giornalisti e dagli intellettuali che contano perché lavorano e scrivono per testate che contano, o così almeno si dice.
Insegnanti vecchi, migliaia di docenti precari, salari bassi, edifici pericolanti, dispersione scolastica in aumento, classi pollaio, laboratori obsoleti, palestre inagibili: niente... secondo i presidenti del consiglio, i ministri dell’istruzione, le maggioranze di governo e gli opinionisti di grido, tali aspetti erano e sono secondari, se non addirittura irrilevanti (almeno sino a quando non crolla un soffitto o una parete che uccide “accidentalmente” qualche studente e a cui seguono le rituali lacrime di coccodrillo). Il vero, grande e irrisolto problema della scuola italiana sembrava essere, in modo inequivocabile, la scarsa meritocrazia che regnava tra gli insegnanti e gli studenti (nonostante studi internazionali collocassero le nostre elementari e i licei ai primi posti al mondo come percorso formativo). Il male oscuro del sistema dell’istruzione italiana non erano gli scarsi investimenti infrastrutturali e i continui tagli alle risorse umane, bensì la zavorra era data dall’impianto egualitario e troppo democratico figlio del dannoso Sessantotto.
Ed è così che le riforme Gelmini e Giannini sono state presentate come le svolte politiche innovative e necessarie, in grado di proiettare la scuola verso il futuro proprio perché centrate sul merito e sulla qualità, due concetti cardine per una scuola che potesse stare finalmente al passo con le sfide quotidiane della globalizzazione liberista, unico paradigma politico ed economico accettato dalle classi dirigenti italiane ed europee negli ultimi trent’anni. Ebbene, a otto anni dalla riforma berlusconiana e a due dalla buona scuola renziana, e alla luce delle recenti novità sui criteri di promozione e sul nuovo esame di stato, non è forse giunta l’ora di fare, con onestà intellettuale, un bilancio di questi cambiamenti educativi epocali, imposti come sempre rigorosamente dall’alto e contro il parere della quasi totalità di chi lavora e vive nel mondo della scuola, perché si sa che gli insegnanti sono pigri, corporativi e conservatori e dunque sempre pronti a difendere i loro privilegi?
Proviamo a ripercorrere alcune tappe di questo mutamento.
Come prima cosa, la nuova scuola italiana è stata progressivamente privata di molte ore disciplinari, a partire dall’idea che gli studenti trascorrevano troppe ore a scuola e non avevano più un adeguato tempo libero personale per stare a casa il pomeriggio con la famiglia e per coltivare i propri hobby privati, tra cui ricordiamo spiccano, a parte quella minoranza di giovani sportivi, giocare ai videogames, chattare, guardare “Uomini e Donne”, navigare su youtube per guardare video sulle morti bizzarre o tutorial su come farsi le unghie o depilarsi. E così via alla soft school: meno ore di matematica (tanto è difficile), di latino (tanto è inutile), di storia (tanto è noiosa), di arte (tanto è morta), di filosofia (tanto è masturbazione mentale), di geografia (tanto c’è google maps), di italiano (tanto serve l’inglese), di inglese (tanto lo impari andando all’estero). Meno scuola per tutti per rilanciare la vita privata, minacciata dall’invadenza dello stato, e per stimolare i consumi nei grandi centri commerciali: un’idea che ben si concilia con una scuola democratica, meritocratica e di qualità. La nuova scuola snellita ha, infatti, il merito di dire come stanno le cose: a cosa servono Shakespeare e Calvino se i giovani leggono Moccia e Volo? A cosa serve conoscere la pittura di Picasso o il pensiero di Kant se tanto i giovani in tv guardano il Grande Fratello e al cinema i film di Checco Zelone? Meno scuola significa costruire un orizzonte culturale al passo con i tempi della mercificazione totale e del disimpegno civile.
Poi è stata la volta dell’alternanza scuola lavoro. Perché, infatti, in piena crisi economica e occupazionale non rendere obbligatorio, per la scuola secondaria di II grado, svolgere 400 ore (nei tecnici e professionali) e 200 ore (nei licei) di lavoro gratuito in aziende ed enti convenzionati con il Miur? Meglio conoscere il mondo del lavoro, anziché perdere ore sui banchi di scuola a fare problemi di geometria o a leggere l’Apologia di Socrate o il De rerum natura di Lucrezio.
Meglio cuocere patatine fritte al Mc Donald o rilevare i numeri dei contatori per l’Enel che studiare fisica o le operette morali di Leopardi. Basta con la scuola teorica e astratta, gli studenti devono imparare fare, conoscere il mondo reale in cui si produce (sempre meno, ma è un dettaglio) e si lavora (anche qui sempre meno, ma è sempre un dettaglio) e poi chissà che magari, forse, un domani, chissà, qualche studente non sia addirittura assunto in quei luoghi.
Ed è così che l’alternanza è diventata nel triennio delle superiori la seconda materia per numero di ore a disposizione (dietro ad italiano, ma probabilmente ancora per poco). Per svolgere questo elevato monte orario di lavoro, la maggior parte delle scuole ha attivato progetti che si svolgono non in orario extrascolastico o festivo, anche per non turbare i progetti privati delle singole famiglie, ma in orario scolastico mattutino. Dunque dopo aver ridotto con la Gelmini il numero di ore curriculari, ecco che con la buona scuola si è addirittura giunti a sostituire ore disciplinari con ore di lavoro gratuito, ma formative per una speranza di lavoro precario futuro.
Contemporaneamente, si è iniziato a sostenere che il nuovo apprendimento doveva avvenire per competenze e non più attraverso le vetuste e obsolete conoscenze, in quanto quest’ultime nel nuovo mondo digitale sono nelle mani di ogni ragazzo e alla portata di un click. Con un’enciclopedia virtuale in un accessorio attraente e sexy di 15 centimetri, perché perdere tempo a insegnare i contenuti disciplinari? Gli studenti del nuovo millennio devono sviluppare competenze linguistiche, logiche e informatiche. Pazienza se poi non sanno la differenza tra la Roma repubblicana e quella imperiale, se pensano che Crizia sia la marca di un profumo e Malcom X un giocatore del Lakers, se non conoscono Canova o Juvarra, se non distinguono la poetica di Foscolo da quella di D’Annunzio, se ignorano le leggi di Keplero o i principi di termodinamica, o non conoscono la Costituzione e i suoi valori.
L’importante è saper fare, magri sul nulla e probabilmente nel vuoto, ma fare. Chiedere ad uno studente di memorizzare dei contenuti equivale a torturarlo, ad umiliarlo. La scuola che insegna a studiare a memoria e a ragionare sui contenuti è più noiosa di un romanzo di Verga. Suvvia a cosa serve la memoria e la storicizzazione. Al di là di alcune giornate ed iniziative ormai retoriche, la nuova scuola italiana all’epoca della globalizzazione deve essere un luogo di eterno presente, cioè una sorta di negozio h24 proiettato verso il futuro, cioè verso il consumo e l’utilizzo di nuova tecnologia, nuove applicazioni che oggi soppiantano quelle di ieri e domani quelle di oggi, in una dialettica nuovo-vecchio che rende impossibile la crescita coscienziale e critica di soggettività singole e collettive.
Infine, arriviamo alle ultimissime novità, alle nuove modalità di scrutino per le scuole medie e per l’accesso all’esame di stato per le superiori. Per quanto riguarda le medie per essere promosso basta avere la media del 6. Pertanto uno studente con 9 in condotta, 8 in Educazione Fisica, 8 in Arte e Immagine e 7 in Musica e al contempo 4 in Matematica, 4 in Italiano, 5 in Storia e 4 in Inglese sarebbe promosso. Alla faccia della democrazia e della merito. Il consiglio di classe perde ogni ruolo educativo, il giudizio del professore su cosa potrebbe essere meglio per il ragazzo è annullato dalla nuda media dei voti. La media matematica diventa l’unica legge che regola l’andamento scolastico e il percorso formativo, trasformando ancor di più la professione docente da educativa a burocratica.
La situazione alle superiori, che non sono più scuola dell’obbligo diventa ancora più paradossale. Per essere ammessi all’esame di stato basta avere, anche in questo caso, la semplice media del 6. Dunque un 4 di matematica è pareggiato da un 8 di Ginnastica, un quattro di scienze da un 9 di condotta e un 4 di fisica da un 8 di storia, un 5 di scienze da un 7 di inglese. E così un ipotetico studente del liceo scientifico sarebbe ammesso all’esame di stato. Lo stesso dicasi per un liceo linguistico, in cui con tre lingue straniere insufficienti bilanciate da due 7 in storia e italiano e un 9 di comportamento, lo studente sarebbe ammesso comunque all’esame. Ecco il volto della buona scuola, ecco la nuova scuola dell’ignoranza 2.0.
Ma la riforma non si ferma qui: via anche la terza prova, volutamente chiamata quizzone per denigrarla, in modo che i ragazzi non debbano più faticare a studiare 4 materie al fine di saper rispondere a fastidiose domande aperte di tipo contenutistico (ORRORE). E già che ci siamo via anche l’approfondimento multidisciplinare personale; il colloquio con la maturità inizierà raccontando l’esperienza di alternanza scuola lavoro presso le aziende o gli enti in cui si è lavorato. Come sarebbe bello se uno studente, seduto davanti alla commissione, si alzasse e fantozzianamente dicesse “l’alternanza scuola-lavoro è.... una cagata pazzesca”. 82 minuti di applausi. Ma gli studenti riusciranno a contrastare nel breve periodo una scuola così ammiccante e volgarmente sexy, una scuola che chiede loro di leggere e studiare sempre meno e che promuove anche con numerose insufficienze?
Ecco lo stato dell’arte della nuova scuola italiana. E poiché io credo poco all’incapacità e alla stupidità assoluta di chi governa, mi sorge spontanea la seguente domanda: a chi giova questa suola dell’ignoranza? Chi trae vantaggio dalla trasformazione della scuola italiana in un supermercato in cui parcheggiare i ragazzi? In un Luna park in cui bisogna fare tutto male e velocemente, per imparare nulla nel lungo periodo? Proviamo a rispondere con ordine.
La scuola dell’ignoranza, innanzitutto, serve al potere politico, in quanto è più facile governare un popolo ignorante, con poche conoscenze e con competenze acritiche I cittadini e i lavoratori ignoranti si trasformano più facilmente in sudditi obbedienti, educati ad un vuoto che favorisce l’asservimento volontario e la ricerca di leader autoritari a cui affidare le proprie vite. L’assenza di una cassetta degli attrezzi culturale adeguata alla complessità del presente trasforma gli uomini e le donne in analfabeti sociali e politici, sempre bisognosi di tutor. E’ il ritorno dell’umanità ad una condizione di minorità, da cui traggono forza e potere le élite nazionali e globali.
La scuola dell’ignoranza serve al potere economico, in quanto cittadini poco istruiti non hanno mezzi critici per rivendicare diritti e per contrastare i processi di precarizzazione del lavoro e di speculazione finanziaria che sottraggono risorse e beni pubblici a favore dell’arricchimento privato. La scuola dell’ignoranza è funzionale al mantenimento del dominio di quella decina di uomini che detengono una quantità di ricchezza pari a quella del 40% del popolo italiano. Lo svuotamento dell’istruzione trasforma i cittadini in consumatori bulimici di applicazioni, di tecnologia, di vacui eventi mondani e crea lavoratori disillusi e rassegnati alle condizioni di precarietà e sfruttamento, privi di quegli strumenti intellettuali indispensabili per rovesciare l’ordine costituito delle cose.
La scuola dell’ignoranza serve al potere culturale mainstream, in quanto giovani poco istruiti e poco colti diventano immediatamente le perfette cavie dell’industria culturale mondiale, la quale costruisce intrattenimento passionale di basso livello ad uso e consumo delle masse. La scuola dell’ignoranza svuota i musei, i cinema, le librerie, i locali di musica live e riempie i non luoghi in cui consumare arte-evento-spettacolo innocua e banale, compatibile con la società del mercato e della mercificazione totale. Anche la cultura alternativa proposta deve rispondere alle logiche del consumo e della standarizzazione acritica. La scuola dell’ignoranza ti porta a leggere i libri di chi è già famoso, di chi ha vinto un talent, di chi conduce trasmissioni di successo o ha un canale Youtube con milioni di iscritti.
La scuola dell’ignoranza diventa, dunque, un formidabile strumento a favore del potere e di chi ha in mente un paese sempre più diviso tra ricchi e poveri, tra i pochi benestanti e i molti precari costretti a sbarcare il lunario e ad abbassare le loro speranze di vita dignitosa.
La scuola dell’ignoranza pubblica e di massa sarà la scuola del popolino, del ceto medio impoverito, dei tanti nuovi proletariati. A fianco di questa distesa di scuole impoverite, svuotate e omologate, sorgeranno sempre più enclave scolastici pubblici e privati di alto livello, destinati ai figli dell’alta borghesia, in cui si ridurrà al minimo l’impatto dell’alternanza scuola lavoro, facendola svolgere in orario extrascolastico, in cui le materie di indirizzo saranno potenziate con laboratori, in cui le didattiche tecnologiche saranno comunque limitate (come già oggi accade nelle scuole dove vanno i figli dei manager della Silicon Valley) e in cui si studieranno bene sia le lingue vive sia quelle morte, l’arte, la filosofia, le scienze e la matematica. Saranno le scuole in cui si formeranno le classi dirigenti del futuro, le quali una volta al potere continueranno ad impoverire la scuola pubblica di massa per perpetuare la loro posizione di forza.
Perché la scuola dell’ignoranza è innanzitutto una scuola contro le classi sociali più povere, in quanto colpisce al cuore la mobilità sociale e la possibilità di emanciparsi e di costruirsi un futuro di libertà e dignità. Per questo chi vuole una società che si muova nella direzione della democrazia e della giustizia, non può che non rigettare al mittente la scuola dell’ignoranza, che ogni giorno rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, attraverso l’inganno del rendere l’istruzione meno impegnativa, meno faticosa e più divertente.
La libertà ha un prezzo, e in politica chi fa i saldi, chi propone sconti e divertimenti, ci sta vendendo, con il sorriso sulle labbra, le catene con cui incatenarci.
* Comune-info, 22 gennaio 2017 (ri presa parziale).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
La scuola capovolta
di Andrea Balzola (alfapiù,10 gennaio 2017)
Che la scuola debba essere non solo più “buona”, non solo migliore, ma radicalmente diversa da quella attuale, alla luce degli enormi cambiamenti, nel bene e nel male, realizzati nelle società cosidette avanzate dall’ultimo scorcio del Novecento a oggi, non è una novità. La rivoluzione tecnologica informatica, la precarizzazione e la mobilità del lavoro, la globalizzazione e l’evoluzione degli studi in ambito cognitivo hanno definitivamente messo in crisi i modelli educativi che dominano la pubblica (e anche privata) istruzione, dalla scuola materna e primaria fino e oltre l’università.
Eppure l’insieme del bradipesco pachiderma burocratico dei ministeri, dei legislatori, della maggioranza dei direttori didattici, di un’ampia parte del corpo insegnante nonché degli adulti genitori, coadiuvati e confortati dalla disattenzione dei media, sembra non averlo percepito. Se ne sono invece accorte, eccome, le nuove generazioni, quelle dei “nativi digitali”, che subiscono in gran quantità ore di trasfusione standard di saperi, una mole soffocante di compiti a casa, un sollevamento pesi quotidiano di libri scolastici cartacei per lo più obsoleti nella forma e nel contenuto, uno stress emotivo dovuto alla competitività e alle difficoltà relazionali che spesso sfociano nel bullismo, un’anacronistica inadeguatezza tecnologica degli strumenti e degli ambienti educativi.
Molto spesso l’esperienza scolastica, invece di incentivare quell’istinto naturale all’apprendimento che è stato confermato dalle più recenti ricerche, invece di valorizzare le potenzialità soggettive e le facoltà creative guidando una crescita integrata che unisca coscienza mentale, emotiva e corporea, spegne le motivazioni formative conformandole a un unico modello astratto e razionale di “rendimento” e di “valutazione”, da testare con discutibilissimi “invalsi” (da più parti è stato segnalato come i test invalsi siano funzionali più a interessi economici che educativi, secondo un modello di valutazione che premia esclusivamente il pensiero razionale-analitico a scapito di tutte le altre abilità).
Se però si va a spulciare la produzione editoriale e multimediale di questi ultimi anni nel settore educativo, tanto in ambito internazionale quanto a livello nazionale, ci si sorprende per la quantità e la qualità dei contributi innovativi che molti autori di differenti discipline hanno offerto al dibattito sulla realtà e sulle prospettive del mondo dell’istruzione. Diventa quindi ancor più inquietante ed esasperante la sordità del sistema scuola, con virtuose e coraggiose eccezioni che cercano di aggiornarsi e agire dall’interno, tra mille ostacoli burocratici, politici e culturali.
Un’analisi critica radicale dei modelli didattici in atto accomuna con sfumature e approcci diversi tutti gli autori di questa new wave: dai filosofi della levatura di Edgar Morin, che ha dedicato l’ultima parte della sua produzione proprio al tema del cambiamento dei paradigmi educativi (Imparare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina 2014), o di Michel Serres (Non è un mondo per vecchi. Perché i giovani rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri 2014), agli esperti dell’educazione come Ken Robinson, teorico del “pensiero divergente” (Creative School. Revolutionizing Education from the Ground Up, Penguin Books 2015, purtroppo non ancora tradotto in italiano; da vedere anche i suoi video su Youtube e il canale Learning World), o Salman Khan, che ha costruito da zero la più grande rete e-learning internazionale di videolezioni interattive gratuite, la Khan Academy (La scuola in Rete. Reinventare l’istruzione nella società globale, Corbaccio 2013), psicologi come Peter Gray (Lasciateli giocare, Einaudi 2015) e Howard Gardner, teorico delle “intelligenze multiple” (Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale, Feltrinelli 2014), o psicanalisti come Massimo Recalcati (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi 2014), che ha insistito su un recupero maieutico della figura del docente.
Freschi di stampa sono i volumi di Giacomo Stella, educatore esperto di problemi di apprendimento: Tutta un’altra scuola, Giunti 2016, e di Stefano Cianciotta e Pietro Paganini, Allenarsi per il futuro, Rubbettino 2016. Mentre nel primo libro si analizzano le gravi mancanze della scuola attuale e si spiega come la didattica non debba limitarsi a “imprimere nella mente” ma debba creare spazi di ricerca e di elaborazione attiva, integrando tutte le forme di disabilità, il secondo volume rivela come il mondo del lavoro contemporaneo richieda una formazione molto diversa dall’offerta attuale.
Scrivono gli autori: “A nostro giudizio in questi ultimi 30 anni si è abbandonato quell’equilibrio tra preparazione umanistica e competenza scientifica che di fatto aiutava il sistema italiano ad emergere. E alla fine tutto il sistema della formazione ha fatto dei passi indietro molto evidenti. Una volta aiutava a elaborare un giudizio critico, ora non più. [...] Oggi, 2016, il sistema della formazione in Italia si basa in prevalenza ancora su nozioni, che i giovani però recuperano su Youtube. Continuare a fare così significa creare le condizioni per cui il ragazzo torni dalla scuola molto svogliato”.
Il libro tocca anche un altro tema importante, quello della formazione continua, ormai necessaria in una società complessa e in continua trasformazione. La sfida non è solo riformare, ma trasformare il sistema educativo approfittando delle attuali risorse creative e tecnologiche (vedi Giuseppe Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, il Mulino 2015).
In particolare uno dei metodi alternativi che ha suscitato più interesse e più applicazioni concrete è quello della flipped classroom, la “classe capovolta”, nato negli Stati Uniti nel 2010 e formalizzato dagli autori Jonathan Bergmann e Aaron Sams in una pubblicazione del 2012, Flip your classroom, che ha avuto una diffusione mondiale (in Italia la traduzione è uscita nel 2016 da Giunti).
L’idea di base è quella di rovesciare lo schema classico della lezione frontale in aula e dei compiti a casa, indirizzando gli studenti a seguire durante il tempo extrascolastico video-lezioni, podcast o altri strumenti e-learning che il professore fornisce loro, e poi fare esercitazioni e approfondimenti collaborativi in classe seguiti dal docente, che in questo modo può verificare e personalizzare allievo per allievo livello e modalità di apprendimento.
In Italia, a partire dal 2014, sono stati pubblicati numerosi volumi che riprendono, commentano e divulgano questo metodo, il primo volume di questo filone, intitolato La classe capovolta. Innovare la didattica con il Flipped Classroom, pubblicato da Erickson, è stato scritto dagli insegnanti Maurizio Maglioni e Fabrizio Biscaro, ed è il risultato diretto di sperimentazioni realizzate a scuola, rilanciate in Rete tramite blog e social network.
Sulla stessa linea sono i volumi usciti quest’anno di Leonarda Longo, Insegnare con la flipped classroom. Stili di apprendimento e «classe capovolta», La Scuola 2016, e Graziano Cecchinato, Romina Papa, Flipped classroom. Un nuovo modo di insegnare e apprendere, Utet 2016. Tullio De Mauro, uno degli illustri sostenitori di questo metodo, ha notato al proposito: “uno strumento nuovo e potente per facilitare l’interazione e l’insegnamento personalizzato, evitando grandi perdite di tempo [...] consente di abbattere i totem dell’istruzione, dei veri feticci: il prof in cattedra per la lezione frontale, a raccontare cose che lui o altri hanno scritto in un libro con più esattezza; la verifica orale, in cui uno o due rispondono alle domande e gli altri fanno quello che vogliono; e il manuale, una statua sacra”.
La figura del docente si trasforma, non è più l’unico conduttore - spesso più autoritario che autorevole - di un percorso omologante che segue pedissequamente il programma ministeriale e il testo scolastico, ma diventa la guida di una ricerca impostata in modo laboratoriale, con strumenti tecnologici (pc, tablet, smartphone, lim) e metodologici innovativi, con uno spirito di collaborazione piuttosto che di competizione tra gli allievi, operando come un regista e mentore sulle motivazioni e sulle potenzialità di ciascuno, piuttosto che facendo leva sulla paura dell’errore, del giudizio e sull’ansia di prestazione.
Una modalità su cui si concentra il volume di David W. Johnson, Roger T. Johnson ed Edythe J. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson 2015. La valutazione e il merito non sono aboliti, ma fanno parte di un processo di responsabilizzazione e di consapevolezza, piuttosto che di un’imposizione arbitraria. Lo scopo fondamentale di un’educazione democratica e non burocratica dovrebbe infatti essere la formazione di invidui capaci di un’autonomia di pensiero, eticamente responsabili e collaborativi nella relazione con gli altri e con l’ambiente, consapevoli e fiduciosi delle proprie risorse, con una mentalità il più possibile aperta e creativa (creatività intesa non solo in una prospettiva artistica o espressiva, ma come capacità di dare molteplici e originali risposte ai problemi).
Concetti basilari che non sono neanch’essi nuovi nella storia della pedagogia, già promossi e riproposti nel corso del Novecento, in contesti e con orientamenti diversi, da pionieri come Dewey, Montessori, Steiner, Freinet, Makiguchi, Neill e altri, ma ignorati o marginalizzati dalle isituzioni formative.
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
De Mauro, la lingua batteva dove l’Italia duole ancora
Dalla lotta contro l’analfabetismo negli anni ’60 a quella contro gli anglismi e le volgarità dei politici
di Giuseppe Conte *
Tullio De Mauro è stato un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo, nel campo della ricerca scientifica e universitaria, e poi nel campo della politica e della organizzazione culturale.
Insigne linguista, ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega: una carriera tutta nel cuore del potere, ma gestita con una certa indipendenza di giudizio, una vita costellata di successi, ma non senza drammi, se si pensa alla uccisione del fratello Mauro De Mauro, giornalista all’Ora di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970.
Il giovane De Mauro si laurea in Lettere Classiche e intraprende subito l’attività universitaria, insegna filosofia del linguaggio e glottologia, prima di arrivare alla cattedra di Linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sua opera importante è la curatela completa, introduzione, traduzione e commento, al Trattato di linguistica generale di Ferdinand De Saussure, nel 1967, che contiene i fondamenti essenziali di quello strutturalismo che stava per esplodere negli studi non solo linguistici, ma in tutto il campo della critica letteraria, condizionando una intera stagione molto fervida di novità, anche se presto risolta in niente più che una moda. De Mauro, nonostante questo suo lavoro così importante, non fu uno strutturalista. Non partecipò alla appena successiva ondata semiologica. I suoi interessi di studioso lo portano ad ancorare la linguistica alla società e alla storia. Lo testimonia il suo saggio Storia linguistica dell’Italia unita, uscito nel 1963, ripreso molti anni dopo in Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, pubblicato nel 2014 da Laterza. Oltre a tanti altri saggi, che presto virano dal linguistico al sociologico, bisogna ricordare la sua direzione del Grande dizionario italiano dell’uso, in otto volumi (UTET, 2007).
Tullio De Mauro fu risoluto nel combattere l’analfabetismo di ritorno, in un Paese dove pare che soltanto il 20 per cento delle persone adulte siano in grado di seguire un discorso che presenti anche minime difficoltà semantiche e di compiere operazioni matematiche un po’ al di sopra di quelle elementari. Nonostante la difesa dell’italiano, De Mauro non fu mai contrario ai dialetti, li ritenne una ricchezza e una risorsa. Se nel 1974 il 51 per cento degli italiani parlavano il dialetto, oggi la percentuale è scesa al 5. Ma in compenso sono aumentati quelli che lui chiama gli «alternanti», cioè coloro che usano indifferentemente italiano e dialetto, passando dal 18 per cento del 1955 al 44 del 1995. Questa alternanza può diventare miscela, carburante per nuove forme di espressività. Forse come nel «vigatese», forma ibrida di italiano e siciliano di Andrea Camilleri, con cui non a caso De Mauro firma un volume.
De Mauro interviene anche su fenomeni del linguaggio tipici del nostro tempo. Per esempio, prende in esame il turpiloquio dei politici recenti, o la smania di ostentare frequenti e inappropriati anglismi, e giudica entrambi i fenomeni come prove della scarsa capacità di usare al meglio le risorse di una lingua come l’italiano, complessa sin dai tempi di Dante (che per altro nell’«Inferno» non disdegna il turpiloquio, ma certo con una potenza e necessità espressiva che le parolacce udite in Parlamento non hanno). La storia linguistica diventa per De Mauro storia di una comunità e del suo evolversi. Nella prefazione a Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, di Daniele Gouthier e Elena Ioli, De Mauro scrive: «Per Einstein il richiamo al linguaggio comune a ogni essere umano forniva anzitutto un argomento decisivo per affermare la natura profondamente sociale della conoscenza e della cultura». Così, il genio della fisica offre al linguista italiano una conferma delle proprie posizioni.
Era forse fatale che la piega sociologica presa dagli interessi di De Mauro, oltre la sua disposizione all’impegno, lo portasse non soltanto verso la pubblicistica militante, su organi di stampa come Il Mondo, Paese Sera, L’Espresso, ma anche verso la politica vera e propria. Nel 1975 De Mauro è eletto nel consiglio regionale del Lazio, nelle liste del Pci, nel 1976 diventa assessore alla cultura e lo rimane sino al 1978. Dopo un ventennio, dalla ribalta regionale passa a quella nazionale, diventando ministro dell’Istruzione nel secondo governo Amato, dall’aprile 2000 al giugno 2001. Troppo poco per lasciare un vero segno in un campo come quello della scuola, dove si susseguono i disastri, e dove per la stessa ammissione di De Mauro quelle che il governo Renzi ha chiamato riforme sono niente più che «provvedimenti collaterali».
Ultimo viene lo Strega. L’impressione è che lì De Mauro abbia svolto il proprio ruolo cercando meritoriamente di cambiare qualcosa. Ma senza quella vera passione che cambia le cose davvero.
didattica
Morto Tullio De Mauro
L’impegno dei Lincei per la scuola
Il linguista è morto il 5 gennaio 2017 a 84 anni. Pubblichiamo qui un articolo dell’ex ministro dell’Istruzione su un convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei
di TULLIO DE MAURO *
Una lince si aggira nelle scuole italiane. Niente paura, però: la lince in questione è soltanto la discendente di quella che Adam Elsheimer, un pittore tedesco italianato e romanizzato, dipinse come simbolo dell’Accademia fondata a Roma da Federico Cesi nel 1603. Carica di glorie e tradizioni, da tre anni l’Accademia dei Lincei ha deciso di occuparsi di scuola e di occuparsene attivamente. E dunque gli accademici lincei stanno andando a scuola a fianco di chi insegna.
Il 24 ottobre prossimo a Roma, a Palazzo Corsini, il convegno «I Lincei per una nuova scuola» farà il punto sulle attività svolte e sui progetti futuri. Il convegno, dopo un saluto del presidente Alberto Quadrio Curzio, sarà introdotto da Lamberto Maffei e da una conferenza di Carlo Ossola, «Dall’inaudito al topos». Vi saranno poi interventi su temi di fondo, come le nuove norme sull’aggiornamento degli insegnanti e il contributo innovativo degli enti di cultura, affidati a Sabrina Bono e Massimo Bray, una presentazione d’insieme del progetto linceo, affidata a Francesco Clementi, cui seguiranno rendiconti sul già fatto e su nuovi progetti da realizzare. Una conclusione di Luca Serianni tirerà le somme della giornata.
Assumere la decisione di dedicare attenzione e attività alle scuole non è stato banale. Nella comune opinione ricerca e università stanno da una parte e da un’altra vive il mondo delle scuole. Si può ritenere che l’opinione sia sbagliata, ma è ben radicata ed è condivisa da più d’un socio accademico. Inoltre il secondo articolo dello statuto linceo elenca le attività tipiche dell’Accademia e sono le attività proprie di un’istituzione di alta ricerca di rilievo internazionale. Di scuola non si fa esplicitamente parola. Tuttavia il primo articolo assegna ai Lincei «lo scopo di promuovere, coordinare, integrare e diffondere le conoscenze scientifiche nelle loro più elevate espressioni nel quadro dell’unità e universalità della cultura». Queste parole, prese sul serio, paiono prefigurare un diretto apporto dei Lincei alla vita delle nostre scuole.
La preoccupazione per lo stato complessivo della nostra cultura, rivelato impietosamente da alcune indagini internazionali sul nostro assai modesto possesso delle capacità di capire un testo e usare concetti matematici e scientifici, e la percezione della difficoltà che la scuola ordinaria incontra per correggere durevolmente questo stato di cose, hanno spinto diversi soci lincei, sollecitati da Lamberto Maffei, già presidente e ora vicepresidente dell’Accademia, a occuparsi attivamente di scuola e, per consolidare la loro azione, hanno dato vita alla “Fondazione Lincei per la scuola”. Ma che fare in concreto?
Nel maremagno di indagini internazionali sui processi educativi e sui sistemi scolastici, nella gran massa di dati e correlazioni statistiche c’è una cosa che risulta chiara. Formularla può far sorridere, perché dice quel che mamme sagge e bidelli di lungo corso sanno bene: per avere una scuola buona ci vuole un bravo insegnante, maschio o femmina non importa. E non importano, o importano assai meno, altri fattori: le riforme, anche quelle ben meditate, i programmi, l’edilizia, la numerosità delle classi, il tempo scuola. Attenzione, non è che questi altri fattori vadano ignorati.
Ma il fattore insegnante è statisticamente di gran lunga più rilevante. Esso è tale da sovvertire la presenza di fattori negativi e, però, se l’insegnante è mediocre, è anche tale da vanificare la presenza di fattori positivi, come l’esistenza di un bravo preside e di una buona organizzazione, locali adeguati, classi poco numerose, maggior durata del tempo-scuola, famiglie con buon livello di istruzione. Formate bene chi insegna e avrete una scuola buona.
Ma chi è, che qualità deve avere un bravo insegnante? La discussione internazionale è aperta. Un’importante associazione operante negli Usa, Teach for America, dopo molti anni di esperienza ha lanciato una formula: un bravo insegnante deve essere un leader, un trascinatore. Bello a dirsi, ma che cosa bisogna saper fare o, meglio, «essere» (diceva don Lorenzo Milani) per trascinare? Le risposte in circolazione sono diverse, ma un elemento è comune a tutte: tra le sue doti l’insegnante di valore deve necessariamente avere una preparazione profonda, sicura, aggiornata nella materia che insegna.
La Fondazione lincea ha fatto propria questa indicazione e ha deciso di intervenire per quanto può sui livelli di conoscenza aggiornata degli insegnanti. Una certa penuria di mezzi ha spinto a non dispiegare tutto il potenziale scientifico della comunità lincea e a non investire tutte le materie di insegnamento. Gli interventi si sono concentrati sui tre ambiti che le statistiche dell’Ocse hanno scelto come fondamentali: lingua materna o, meglio, lingua ufficiale del Paese, cioè italiano, matematica e scienze fisiche e naturali. La stessa penuria di mezzi ha portato a una scelta obbligata, ma felice: i lincei non lavorano da soli, ma con impegno cercano la collaborazione di università e istituti scolastici nelle varie città in cui riescono a operare. La collaborazione è resa necessaria anche dal fatto che giustamente si è rifiutato il tradizionale e dominante intervento mordi e fuggi: lo specialista più o meno illustre arriva, fa un nobile discorso a insegnanti che non conosce e sparisce velocemente dalla scena. I lincei cercano invece di avviare attività seminariali e di laboratorio, da seguire e realizzare nel tempo. Quindi uno o più specialisti si succedono in incontri che, partendo da un particolare contenuto e dal colloquio con gli insegnanti, portano alla ideazione di un progetto di attività didattiche concrete, che immettano nel lavoro di classe nuovi stimoli.
Si sono creati così dei «poli» da Milano a Palermo, da Brescia a Potenza e L’Aquila. Sono ormai oltre venti le città coinvolte e sono oltre undicimila gli insegnanti che hanno frequentato a loro spese lezioni frontali, laboratori, seminari, spesso spostandosi da altre città e paesi in prossimità del polo, per ascoltare gli specialisti e interagire con loro. È solo un inizio rispetto alle centinaia di migliaia di docenti. Ma già gli e le insegnanti vedono e sentono che la miglior cultura umanistica e scientifica è organicamente accanto a loro nel difficile compito di far bene scuola.
Appello contro l’ignoranza, madre di tutti i populismi *
Criticare apertamente l’ignoranza è il primo passo e segnale che non si può e non si deve salire sull’aventino. Questa riflessione spera quindi di essere un appello contro l’ignoranza: l’orgoglio di essere ignoranti è il canto del cigno dell’occidente, inteso come cultura fondata sulla democrazia partecipativa.
Promotori e primi firmatari di questa petizione sono la filosofa Nicla Vassallo, docente all’Università di Genova, e il segretario generale della Fondazione Giorgio Pardi, Sabino Maria Frassà.
""Parlare e riflettere contro l’ignoranza pare oggi più che mai la cosa giusta da fare, in quanto la nostra società è permeata da fondamentalismi di matrice ideologica e religiosa, che minano il nostro vivere e il nostro futuro. Una pancia (giustamente) scontenta reclama un cambiamento che colmi un crescente vuoto economico, valoriale, identitario. L’élite culturale sembra rispondere in modo non adeguato con un linguaggio (necessariamente?) settario e spesso poco efficace. A ciò si aggiunga un contesto caratterizzato da risorse scarse per l’istruzione e le politiche sociali, scarsa meritocrazia e alta viscosità nel sistema imprenditoriale. L’ignoranza declinata in diverse forme di populismo gioca e giocherà quindi un ruolo crescente e sempre più determinante.
La premessa ovvia è che siamo tutti ignoranti, la conoscenza non significa onniscienza, ma avere gli strumenti per decodificare il mondo in cui viviamo. Perciò diverso è difendere il socratico so di non sapere, quindi cerco di colmare la mia ignoranza", dal difendere l’ignoranza come forma statica di indolenza, di inconsapevolezza dei propri limiti.
L’"ignoranza indolente" determina una incapacità sostanziale di possedere proprio quegli strumenti necessari per acquisire conoscenza e per prendere conseguenti decisioni consapevoli. Se storicamente l’ignoranza è sempre stata coltivata da e nei regimi totalitari e dittatoriali, oggi serpeggia e dilaga nelle nostre società (pseudo) democratiche. Tali sistemi vedono nell’ignoranza una facile soluzione di controllo sociale e il pericoloso confine tra "coltivare l’ignoranza" e "lasciare che l’ignoranza si diffonda" è sempre più labile. I populismi che ne stanno derivando sono talmente forti e capillari dall’essere il vero nuovo vero paradigma socio-economico, complementare e contraltare al crescente divario tra classi sociali e alla concentrazione della ricchezza.
Da decenni tanta politica, ma anche tanta cultura, sembra legittimare sempre più l’ignoranza. E’ innegabile che politici, intellettuali e ancora di più i personaggi cosiddetti "famosi" siano punti di riferimento, esempi, non solo per i giovani. Ciò è tanto più vero alla luce del progressivo svuotamento della funzione educativa della famiglia, in qualsiasi modo la si voglia contare, considerare e definire. Esser circondati da politici che palesano senza imbarazzo o senso di colpa alcuno la propria ignoranza delle lingua straniere e/o dell’italiano che esempio è? I mezzi di comunicazione che indugiano sulla comunicazione rissosa, che confortano il pubblico elevando la gaffe a dignità di figura retorica che esempio forniscono? Al riguardo liberiamoci dall’equivoco che tutto ciò segnali il sussistere in Italia di un elevato grado di libertà di espressione. Popper spiegava con una efficace metafora il significato di "libertà di espressione": la vera libertà di espressione è il potere e sapere rispondere agli insulti, dare anche pugni, senza mai arrivare al naso dell’altra persona.
Criticare apertamente l’ignoranza è il primo passo e segnale che non si può e non si deve salire sull’aventino. Questa riflessione spera quindi di essere un appello contro l’ignoranza: l’orgoglio di essere ignoranti è il canto del cigno dell’occidente, inteso come cultura fondata sulla democrazia partecipativa. Andare contro l’ignoranza è un elogio della modestia, dell’altruismo, del senso civico, di tutti quei valori che se da un lato richiedono impegno e sacrificio nell’immediato, ripagano con la progettualità e la speranza non fideista nel futuro. L’elogio dell’ignoranza, al contrario, è un invito all’egoismo, all’inerzia e al sopravvivere nell’oggi senza alcuna speranza di un domani migliore.
Aristotele nel primo libro della Metafisica sosteneva che si può definire essere umano solo colui che aspiri alla conoscenza. Dante riprendeva tale idea parlando di un uomo nato non per esser bruto, ma per perseguire la conoscenza. Non possiamo che condividere tale idea e credere che rinunciare alla conoscenza voglia dire sminuire l’idea stessa di essere umano; idea che va ben al di là della definizione tassonomica di homo sapiens. Seguir virtute e canoscenza è senz’altro una strada che richiede impegno, ma che una volta intrapresa non può essere fermata: la conoscenza permette di comprendere la propria finitezza e stimola al superamento dei limiti, siano essi dell’individuo e/o del mondo che si vive. Conoscere in fondo significa dare al futuro strumenti per essere migliore.""
Milano - Genova 28 dicembre 2016
*
PETIZIONE
Appello contro l’ignoranza, madre di tutti i populismi
Questo il link per firmare l’appello:
di Barbara Millucci (Corriere Digital, 4 gennaio 2017)
BERGAMO - «Se un medico può operare il cuore e salvare la vita di un ragazzo, un bravo insegnante può raggiungere il cuore di quel ragazzo ed aiutarlo a vivere e a spiccare il volo». Armando Persico, 50 anni, docente di imprenditorialità - anche se il nome del corso, «Entrepreneurship», è inglese - all’istituto professionale della Fondazione Ikaros (Bergamo), è fra i 50 migliori insegnanti al mondo.
È l’unico italiano ad esser stato selezionato dalla Varkey Foundation che, tramite il Global Teacher Prize (il Nobel dei professori) premia ogni anno il miglior maestro al mondo esaminando 20 mila docenti provenienti da 179 nazioni. E quest’anno il milione di euro in palio potrebbe aggiudicarselo proprio il maestro bergamasco, tre figli, padre muratore e madre camiciaia e un passato da commercialista.
Il docente, tra i 50 finalisti, si è distinto per il contributo eccezionale che ha apportato all’insegnamento di giovani studenti (14-19 anni) in termini d’innovazione, imprenditorialità, creatività e metodologia didattica. In pratica, in classe il professore spiega come creare e sviluppare startup di successo. «Insegno loro la creatività, ad uscire da schemi precostituiti, a lavorare sul pensiero laterale che consente di trovare soluzioni anche quando non se ne intravedono» racconta. «La curiosità ed il pensiero laterale permettono agli studenti di essere avanti con i tempi, costruendo il proprio futuro senza essere dipendenti dagli stereotipi». In questo modo cerca di far ragionare gli alunni da imprenditori.
È il cosiddetto learning by doing, imparare facendo: l’educazione finanziaria tramite l’imprenditorialità. «Oggi ci sono i programmi di alternanza scuola-lavoro, che funzionano benissimo, ma la nostra scuola già adottava questi modelli dal 1996». Come riesce a tirar fuori il talento dai ragazzi? «Parto sempre analizzando un bisogno, chiedendo loro come soddisfarlo, con quali prodotti o servizi. Il talento emerge solo se si danno ai ragazzi tutte le occasioni per scoprirlo. Bisogna osservarli a 360 gradi, non basarsi solo sui risultati scolastici, ma guardare oltre. Per motivare i ragazzi servono esempi concreti, per questo cerco di far loro incontrare imprenditori affermati». Grazie a queste pillole di saggezza e la continua sperimentazione didattica, oggi quasi il 20% dei suoi vecchi studenti gestisce aziende che hanno creato 800 posti di lavoro e depositato diversi brevetti, ottenendo ben 16 premi a livello europeo, di cui 4 competizioni italiane, mentre molti altri suoi ex-alunni lavorano con successo in imprese del Bergamasco.
Tra le genialate inventate in questa scuola lombarda, «c’è Autorainbow, il primo portaombrelli per auto brevettato qui; ma anche una macchina che ricicla le bottiglie di plastica e crea copritelefonini, solventi ecologici per pulire scritte e graffiti». Pensare autonomamente, trasgredire le regole e sottrarre gli studenti all’omologazione, come insegnava il professor Keating (Robin Williams) nel film L’attimo fuggente, è il mantra quotidiano del prof. che il Parlamento Europeo ha invitato a parlare d’imprenditorialità giovanile, e già conta una copertina sulla rivista svedese «Trade and Finance».
A lui però, quello che più interessa è seguire da vicino la crescita umana dei suoi ragazzi, con cui è in perenne contatto sui social network. «Innovare per me significa utilizzare conoscenze, note fino a quel momento, che consentono di trovare nuove soluzioni o prodotti che migliorino la qualità della vita rispetto al precedente stato dell’arte».
Attenzione però: «Non vuole dire inventare qualcosa di totalmente nuovo ma essere semplicemente predisposti a pensare il futuro». È un visionario, Persico, non c’è ombra di dubbio. «Se si vuol insegnare qualcosa agli studenti basta portarli al mare e far loro guardare l’orizzonte» aggiunge.
«Devono provare emozioni. Non va mai guardata una sola cosa in sé ma va valutata sempre nel suo insieme, proprio come quando si sta soli in barca in mezzo al mare». Solo così si comprende l’insieme sterminato di possibilità che la vita offre. E si sente smuovere qualcosa dentro. In quel momento, la mente immagina, sperimenta e crea.
di Roberta De Monticelli (Libertà e Giustizia, 17 dicembre 2016)
E’ vero che “diploma di laurea” non vuole dire “laurea”? E’ vero che scrivere che si possiede un diploma di laurea che non si possiede è soltanto “una leggerezza”? Ed è giusto che proprio una persona che una laurea non ce l’ha sia a capo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, cioè a capo di un’istituzione chiamata a governare e decidere della vita, della fatica, delle speranze e del merito di tutti coloro cui lauree, diplomi, master, dottorati, TFA, abilitazioni e concorsi non bastano a esercitare la professione per cui studiano da decenni?
Ma soprattutto, è giusto che la massima autorità sulla scuola pubblica, sulle regole e le istituzioni che inquadrano la trasmissione e la ricerca del vero, invece di presentare un onesto ancorché modesto curriculum, lo falsifichi? E che nessuno batta ciglio di fronte a un fatto come questo? E’ accettabile che anzi, se qualche isolata voce mormora la sua perplessità, sia lo stesso capo del governo a dichiarare pubblicamente solidarietà al suo ministro, invece di scusarsi con i cittadini e pregare il ministro di dare le dimissioni?
E’ vero, siamo nel Paese europeo che più fatica a restare a livelli di minima decenza quanto al numero di laureati: e allora, è un bene che al vertice del ministero che dovrebbe occuparsi di questa piaga, una delle vere radici del nostro declino, ci sia qualcuno che non solo non supera il livello base delle statistiche, ma pretende di rimediare la verità col trucco, come Lucignolo, come Pinocchio, come un personaggio di Alberto Sordi o di Totò? E’ un buon esempio per i nostri scolari, i nostri studenti, i nostri figli? Saprà rendere ancora più buona la “buona scuola”?
MIUR vale Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. E’ l’acronimo del ministero che, come studiosi, docenti e anche semplicemente genitori, ci riguarda più da vicino. Un acronimo che ritorna negli incubi di quelli di noi che hanno recentemente dovuto collaborare alla modifica dell’offerta formativa della propria Facoltà o all’aggiornamento del proprio cv sulla pagina nazionale, lottando con idiosincrasie elettroniche e burocrazie mentali misteriosamente tenaci nei decenni.
Resta il fatto che questo Ministero governa la vita di una delle grandi “agenzie di verità” che una società democratica ha interesse a mantenere indipendenti dal potere politico. E forse, dal nostro punto di vista almeno, la più importante. Quella che ha come valore di riferimento la conoscenza da trasmettere alle future generazioni e quella da ricercare. L’informazione che circola attraverso l’insieme dei media e delle altre grandi piazze del dibattito pubblico, come i social network, è l’agenzia di verità necessaria al dibattito pubblico, e quindi al secondo pilastro di una democrazia, accanto a quello istituzionale degli organismi di deliberazione e decisione delle politiche. E sappiamo che questa agenzia di verità in Italia non è messa molto bene, secondo certe classifiche il grado di indipendenza dei media relega l’Italia agli ultimi posti fra le nazioni, civili o meno.
I tribunali civili e penali e tutto il macchinario che vi si connette costituiscono l’agenzia di verità che rende possibile l’esercizio della giustizia. E anche qui, coi processi che si trascinano per decenni fino a prescrizione della verità, non siamo messi benissimo. Ma le riforme di quelle due agenzie sono cosa tanto necessaria quanto complicata - non a caso subito caduta dalle agende del governo dimissionario, come di quelli precedenti.
La solidarietà dichiarata a un ministro che non possiede un curriculum onesto e per di più lo difende, invece, è un paradosso gigantesco, almeno quanto quello, moralmente forse ancora più tragico e meno ridicolo, di quel Presidente del CNR recentemente nominato dal precedente ministro, che siccome presiede anche la Commissione per l’Etica della Ricerca, si è per prima cosa scatenato, pur con qualche incertezza grammaticale, contro la Senatrice della Repubblica e scienziata Elena Cattaneo, quando lamentava l’opacità e l’arbitrio nella gestione governativa del progetto Human Technopole: «Guai a chi parla dell’etica superiore di tutti perché questo era Robespierre....il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. - Mah! Senza pensare a .... a principi etici».
Una bella accoppiata, una bella successione, al Ministero che più di ogni altro incide sull’educazione dei “sovrani di domani”, e quindi sulla qualità di una democrazia. Saremo anche nell’epoca della post-verità: ma quando è troppo, è troppo.
Roberta De Monticelli
C’ERA UNA VOLTA...
Ma perché gli antichi inventarono i miti?
di Mario Ricciardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
«Papà, devo fare una ricerca sul mito». Mio figlio più grande ha otto anni e frequenta la terza classe della scuola primaria, che nel secolo scorso chiamavamo elementare. Quest’anno i programmi prevedono l’introduzione di nuove materie, una novità di cui sembra entusiasta. Per esempio, qualche settimana fa mi ha annunciato che avevano fatto la prima lezione di storia. «Non si è ancora parlato degli Egiziani», mi ha detto con l’aria un po’ perplessa, ma poi mi ha spiegato che questa curiosa omissione era dovuta al fatto che c’erano altre cose di cui occuparsi prima di arrivare alle piramidi. Per esempio i miti. «Allora, vediamo, forse potremmo cominciare dal significato della parola “mito”, che viene dal greco mythos. In origine questa parola significava semplicemente “detto”. Poi, col tempo, ha assunto il significato di “storia”, “favola” o “racconto”.
Sin dai tempi più remoti i Greci, come altri popoli dell’antichità, hanno amato ascoltare poeti che recitavano versi in cui si narrava degli dei dell’Olimpo, delle loro avventure, e delle gesta degli eroi. Uno dei più famosi tra questi poeti era Omero, l’autore dell’Iliade e dell’Odissea. Due poemi in cui si racconta la storia della guerra tra i Greci e i Troiani e poi il lungo viaggio di ritorno a Itaca, l’isola di cui era re, dell’eroe greco Ulisse».
Sentendo questo nome gli occhi di mio figlio si illuminano. «Mi ricordo di Ulisse, è quello del cavallo di legno. Ci hai già letto la storia. Ma chi era invece Omero?». Rispondo che di Omero non sappiamo molto, si dice che fosse cieco. «Come cieco? E come faceva a scrivere?», mi interrompe in modo perentorio. «Sai, allora la scrittura non era molto diffusa e i poeti imparavano le storie a memoria. E addirittura prima che la scrittura fosse inventata i racconti esistevano già. Anche se a te può sembrare strano, allora non c’era la televisione. Quindi la sera ci si riuniva davanti al focolare per ascoltare episodi mitologici o fiabe come quelle composte da Esopo».
Mettiamo da parte l’autore di fiabe. Anche il suo non è un nome del tutto nuovo per mio figlio. Ne abbiamo lette alcune nel corso degli anni. «Papà, ma perché ai Greci piacevano i miti?». Rispondo che probabilmente si appassionavano ai racconti mitologici perché si tratta di storie avvincenti. Ancora oggi leggere le avventure di Achille o di Perseo lascia senza fiato. Ci sono pericoli da affrontare, mostri da sconfiggere, tesori da scoprire. «Come Scooby Doo» commenta mio figlio. «Sì» rispondo «o come Tin Tin. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che c’è un’altra spiegazione, oltre all’intrattenimento, della passione dei greci per i miti. Alcuni miti servivano verosimilmente per spiegare eventi che colpivano o spaventavano gli antenati dei Greci perché essi non riuscivano a comprenderne la natura. Così, ad esempio, se vedevano un fulmine che colpiva un albero incenerendolo, essi non riuscivano a trovare altra spiegazione di tale prodigio se non l’azione di qualche essere straordinario. Chi altri se non un dio potentissimo come Zeus potrebbe scatenare tanta energia riversandola sulla terra?».
«Papà, ma i Greci non sapevano che anche Thor può lanciare i fulmini». Mio figlio è un fan degli Avengers e quindi per lui il dio del tuono per eccellenza è quello delle saghe nordiche. «Certo, hai ragione, anche Thor. In effetti, i miti scandinavi hanno diverse cose in comune con quelli greci. C’era un francese che si chiamava Dumézil che ha studiato queste somiglianze. Quando sarai più grande, se vuoi, potrai leggerlo».
Mio figlio è convinto che il lavoro di suo padre consista nel leggere libri, quindi non presta particolare attenzione a questo francese dal nome buffo. Più interessante gli sembra un’altra questione: «Papà, ma quindi, secondo i Greci, Zeus lanciava i fulmini quando era arrabbiato, come Thor?». Rispondo che il tuono era un modo per punire gli uomini che avevano fatto qualcosa di sbagliato, mancando di rispetto al dio. «Ho capito papà, ma tu mi hai già spiegato che i supereroi non esistono, quindi immagino che neanche Zeus esista. Ma come se ne sono accorti i Greci che i miti non erano veri?».
Siamo arrivati al punto più difficile: «Alcuni greci non erano soddisfatti delle spiegazioni mitologiche. Uno di loro, che si chiamava Aristotele, l’ha detto molto bene. Quando c’è qualcosa che ti stupisce, è naturale che tu ti chieda perché. Se non trovi una spiegazione soddisfacente, devi cercare ancora, tentando di individuare le cause di ciò che accade. Così, ad esempio, nel caso del fulmine, devi chiederti cos’è la scarica, da dove viene l’energia, come si accumula, cosa ne provoca il rilascio, perché colpisce la terra». Vorrei dire che inaugurando questa indagine sulle cause i greci hanno inventato la filosofia, ma mio figlio mi previene: «Ho capito papà, potevi dirmelo subito. C’era bisogno degli scienziati!».
IL PIANO NAZIONALE FORMAZIONE DEL MIUR
Educare al pensiero critico
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 Ottobre 2016)
Lunedì 3 ottobre è stato presentato al Miur il Piano nazionale di formazione degli insegnanti. Il Ministro Stefania Giannini lo ha illustrato dopo gli interventi di Andreas Schleicher, Direttore del Directorate of Education dell’Ocse, Jordan Naidoo, Direttore della Divisione Education 2030 Support and Coordination dell’Unesco, Oon Seng Tan, Direttore dell’ Institute of Education di Singapore. Il Piano prevede un investimento di 325 milioni di euro per la formazione in servizio degli insegnanti, che diventa - come previsto dalla legge 170/2016, art. 1, comma 124 - «obbligatoria, permanente e strutturale». Sarà presto adottato con decreto del Ministro e sarà subito operativo. Se a queste risorse si aggiunge il miliardo e 100 milioni della Carta del Docente, si arriva a un totale di 1,4 miliardi stanziati nel triennio 2016/2019 per la formazione del corpo insegnante. Non ci sono precedenti per un impegno di spesa simile del Miur per valorizzare la crescita professionale dei docenti.
Saranno coinvolti nel Piano di formazione tutti i docenti di ruolo, circa 750mila. Nove le priorità tematiche: tre riguardano le competenze di sistema (Autonomia didattica e organizzativa, Valutazione e miglioramento, Didattica per competenze e innovazione metodologica), le altre sei mirano all’innovazione (Lingue straniere, Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento, Scuola e lavoro) e all’inclusione (Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale, Inclusione e disabilità, Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile). La qualità dei percorsi sarà assicurata attraverso nuove procedure di accreditamento a livello nazionale dei soggetti erogatori che consentiranno anche di monitorare gli standard offerti. Sarà fatto un investimento specifico sulla ricerca in questo campo, pari a tre milioni di euro, per favorire il finanziamento, la raccolta e diffusione delle migliori startup formative. Le «buone pratiche» formative, saranno raccolte, a cura dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa), in una «biblioteca delle innovazioni».
I tre prestigiosi relatori internazionali hanno variamente sottolineato limiti e potenzialità del sistema italiano di istruzione. Schleicher, a nome dell’OCSE, ha illustrato un triangolo perfetto della professionalità docente, ai vertici del quale si trovano l’autonomia, ovvero il potere decisionale dei docenti sul proprio lavoro, la base di conoscenze per l’insegnamento, le opportunità di sostegno e confronto necessarie per mantenere elevati standard di qualità. Nel caso italiano il triangolo è squilibrato perché a una dose elevata di autonomia fanno riscontro basse opportunità di confronto tra docenti e una ridotta base di conoscenze specifiche. È evidente che la formazione si gioca in Italia sulle conoscenze funzionali alla didattica e sulla capacità di dialogare e lavorare in gruppo.
Il ministro Stefania Giannini ha dichiarato che «siamo davanti ad un cambio di paradigma culturale: da oggi ciascun docente sarà inserito in un percorso di miglioramento lungo tutto l’arco delle sua vita professionale. Abbiamo immaginato la formazione in servizio come un ambiente di apprendimento permanente, un sistema di opportunità di crescita costante per l’intera comunità scolastica”. Il Ministro ha posto una particolare enfasi sulla centralità della didattica per competenze, che afferisce agli aspetti strategici del sistema.
Non a caso la svolta impressa dal PNF è stata sottolineata da Tan, Direttore dell’Institute of Education di Singapore, Paese all’avanguardia mondiale nei sistemi educativi: «il lancio di questo Piano rappresenta per l’Italia un traguardo importante nelle politiche di miglioramento del sistema scolastico. Il Piano farà crescere la qualità dell’insegnamento e avrà ricadute positive su scuole e studenti». Tan ha sottolineato la cura che a Singapore si dedica all’apprendimento cooperativo dei docenti, che ridiventano di buon grado studenti disposti in classi di apprendimento gestite da maestri riconosciuti. L’insegnamento collaborativo si realizza grazie alla disponibilità dei docenti a seguire un apprendimento collettivo secondo i criteri del life long learning.
Viene da pensare alla convergenza tra il «nuovo paradigma» della formazione degli insegnanti e lo straordinario impegno profuso dal Sole 24 Ore per l’attuazione del «Manifesto della Cultura», nel quale si sostiene tra l’altro che «l’azione pubblica deve contribuire a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università, lo studio dell’arte e della storia, non disgiunto dalla formazione di una mentalità scientifica e antidogmatica, per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro, formando nel contempo i giovani ad una cultura del merito, che deve attraversare tutte le fasi educative». Gli Stati Generali della Cultura, che quest’anno celebrano la loro quinta edizione, sono imbevuti della medesima volontà di cambiare il paradigma dell’istruzione e della cultura, nella convinzione che soltanto su queste nuove basi potrà avvenire la rinascita del Paese.
Su un punto, in particolare, il PNF può convergere con un obiettivo concreto degli Stati Generali della Cultura: l’esercizio del pensiero critico. Il dossier Ocse 2015 su scuola e università (Education at a Glance) segnala che l’Italia registra uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario e il dato si riflette sulle competenze logico-linguistiche degli insegnanti, e degli studenti, ostacolando anche il pieno sviluppo dell’educazione alla cittadinanza. Il potenziamento delle competenze logiche e argomentative permette l’esercizio di pratiche di ragionamento volte alla risoluzione dei problemi e in quanto tale è aspetto formativo strategico. Ne possono derivare significativi risultati metodologici quali l’impegno al dialogo e al lavoro di gruppo, la consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi, il controllo ragionato dei fattori che influenzano le soluzioni, la critica degli automatismi, in una parola, l’esercizio del pensiero critico. Tali azioni formative si iscrivono nel quadro del potenziamento degli apprendimenti di base degli allievi (esiti Invalsi, Ocse-Pisa, Iea-Pirls, ecc.) e della didattica per competenze.
Quella stessa didattica per competenze viene vista dal PNF come la chiave di volta della nuova formazione dei giovani: «la didattica per competenze rappresenta inoltre la risposta a un nuovo bisogno di formazione di giovani che nel futuro saranno chiamati sempre più a reperire, selezionare e organizzare le conoscenze necessarie a risolvere problemi di vita personale e lavorativa. Questa evoluzione concettuale rende evidente il legame che si intende oggi realizzare tra le aule scolastiche e la vita che si svolge al di fuori di esse, richiedendo alla scuola - e soprattutto a ciascun insegnante - una profonda e convinta revisione delle proprie modalità di insegnamento per dare vita a un ambiente di apprendimento sempre più efficace e commisurato alle caratteristiche degli studenti».
Il Piano nazionale di formazione degli insegnanti potrebbe favorire concretamente l’introduzione nell’insegnamento dell’esercizio del pensiero critico, fornendo quegli strumenti logici e metodologici che fanno perdere al docente la sua funzione tradizionale di indottrinamento tramite una lectio, per favorire un ruolo dialogico attivo degli studenti che realizzi, anche con l’apporto consapevole delle tecnologie digitali, una pratica attenta della dialettica come arte del dialogare, analisi critica delle parole e dei discorsi altrui. L’esercizio del pensiero critico potrebbe far diventare un ricordo lontano i bassi risultati dei nostri giovani in lettura e comprensione dei testi, e ridurre il diffuso analfabetismo funzionale.
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
* Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
Rete di cooperazione educativa
VI INCONTRO NAZIONALE
Rete di Cooperazione educativa - C’è speranza se accade@
Sabato 22 - Domenica 23 Ottobre 2016
PROGRAMMA:
Per scaricare il programma completo, con la descrizione di ciascuna attività, clicca qui: Programma Completo
SABATO 22 OTTOBRE @ Teatro "don Mazza", via Chiesa, 19 - San Pietro in Cariano (VR)
SCHEDA EDITORIALE *
Abbiamo ancora bisogno della storia?
Il senso del passato nel mondo globalizzato
di Serge Gruzinski
Come suscitare ancora interesse per la storia, accusata di riportare tutto all’Europa e al suo passato?
titolo Abbiamo ancora bisogno della storia?
sottotitolo Il senso del passato nel mondo globalizzato
autore Serge Gruzinski
argomenti Storia
collana Saggi
editore Raffaello Cortina Editore
formato [Libro] Libro
pagine 166
pubblicazione 09/2016
ISBN 9788860308306
€18,00 €15,30
Come suscitare ancora interesse per la storia, accusata di riportare tutto all’Europa e al suo passato? Le narrazioni nazionali del passato non ci dicono molto in merito alle radici del nostro mondo globalizzato. Lo stesso vale per le produzioni dell’industria dell’intrattenimento: dai videogiochi a sfondo storico alle serie televisive “in costume”, il passato riciclato propone raramente chiavi interpretative per comprendere il presente.
Serge Gruzinski difende nel volume le ragioni di una storia capace di far dialogare criticamente passato e presente e il cui sguardo sia in grado di decentrarsi. Una storia globale, che ci invita a riconsiderare da nuovi punti di vista una tappa fondamentale per l’umanità: il Rinascimento. Con la conquista degli oceani, attraverso la scoperta di altri mondi, l’Europa prende coscienza di se stessa, gli orizzonti si ampliano, le idee cominciano a circolare, mentre iniziano ad articolarsi le prime reti commerciali mondiali. La storia di questo cambiamento illumina, attraverso numerose esperienze concrete, il presente multiforme in cui viviamo.
Biografia dell’autore
Serge Gruzinski insegna Storia dell’America iberica coloniale e Storia globale in Francia, negli Stati Uniti e in Brasile. Nel 2015 ha ricevuto il Premio CISH-Jaeger-LeCoultre, l’International Prize for History.
FONTE: RAFFAELLO CORTINA EDITORE.
La reinvenzione della storia
Per capire il mondo meticcio serve un patto con l’antropologia
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 02.10.2016)
Si chiama Labyrin-thé il sito «patrimoniale» che ho visitato l’estate scorsa, nel sud dell’isola di La Réunion, un dipartimento francese dell’Oceano Indiano, a qualche centinaio di chilometri a est del Madagascar. Situato a oltre mille metri di altitudine, il villaggio di Grand Coude che ospita il sito è disteso su una stretta ed aerea striscia di terra che, da una parte e dall’altra, strapiomba con falesie quasi verticali verso le parti più basse dell’isola. L’attrazione principale è un «labirinto» di sentieri di oltre un ettaro, ricavato in un fittissimo bosco di alberi di tè e boschetti di bambù. Il nome gioca ovviamente sulla presenza, nel termine francese labyrinthe , della parola the . Mentre le mie figlie si perdevano e ritrovavano nel labirinto, una guida ci portava in una vicina piantagione di gerani e in campi di tè ancora produttivi.
I primi esploratori di Grand Coude furono con tutta probabilità, a metà Ottocento, schiavi di origine africana fuggiti dalle sottostanti piantagioni di canna da zucchero - La Réunion ne è tuttora il maggior produttore europeo. A fine secolo alcuni coloni francesi costruirono le prime abitazioni permanenti, per sfruttare l’abbondante legname della foresta circostante.
Furono loro a introdurre, più tardi, la coltivazione del tè, in un periodo in cui la domanda europea era particolarmente forte e i prezzi elevati. Con l’apertura di colture e mercati asiatici, la piccola produzione locale di tè cadde tuttavia in declino e fu sostituita da quella di gerani per la distillazione di essenze base, destinate all’industria dei profumi. Poco dopo la metà del secolo scorso anche la coltivazione di gerani ebbe fine, per la concorrenza di essenze prodotte a minor costo in altre parti di mondo: Grand Coude sopravvisse come luogo di allevamento di bovini, per l’autoconsumo di carni e latte. Oggi, il turismo patrimoniale ed «etnico» offre un’occasione di riscatto e il fittissimo bosco di tè abbandonato e trasformato in labirinto, le residue piante di geranio profumato, gli alambicchi di rame in cui si ricavava la preziosa essenza dal fascino antico, attraggono i turisti di passaggio.
Grand Coude è un sito che piacerebbe a Serge Gruzinski, autore di Abbiamo ancora bisogno della storia? (Raffaello Cortina), perché consente di definire e articolare bene la sua nozione di «storia globale» (global o world history come dicono gli inglesi). A Grand Coude si incontrano perfettamente la storia globale e quella «nuova» antropologia che non teme di tornare in luoghi concepiti a lungo e in modo errato come «esotici» e «altri», e che si rivelano invece oggi profondamente intrecciati con la storia e i destini delle società europee. Luoghi in cui hanno preso forma società scaturite dall’incontro, dalla creatività e dal meticciato; luoghi modellati dalle forze dure e spesso violente del colonialismo e della globalizzazione, ma che hanno saputo a loro volta resistere e ridefinire i flussi e le correnti globali.
«Privilegiare una prospettiva globale significa concentrare l’attenzione sui rapporti che le società intrattengono tra loro, sulle articolazioni e sulle aggregazioni che costruiscono, ma anche sul modo in cui tali organizzazioni umane, economiche, sociali, religiose o politiche omogeneizzano il globo oppure resistono al movimento», scrive Gruzinski nel quinto capitolo, una sorta di manifesto per una storia globale.
Le stratificazioni che lo storico e l’antropologo colgono sull’isola di La Réunion ci riportano alle esplorazioni portoghesi del XVI secolo delle vie marittime per le Indie; all’annessione francese della Réunion nel secolo successivo per farne un’isola in cui rifornirsi di prodotti agricoli freschi nei lunghi viaggi verso l’Oriente; allo schiavismo volto alla lavorazione della canna da zucchero e alla resistenza dei grandi latifondisti locali alla sua abolizione, nel 1848; alle risposte locali alle domande globali del XX secolo (il legname, il tè, il geranio) e oggi, all’epoca in cui il capitalismo prende la forma della «collezione» e dello sfruttamento della memoria e dei siti «patrimoniali», come hanno osservato Luc Boltanski e Arnaud Esquerre su «Les Temps Modernes» nel 2014.
Una storia globale riconnette società che condividono frammenti o parti consistenti di passato (e di presente); inquadra gli eventi in una dimensione internazionale e interculturale; i personaggi, gli accadimenti e i luoghi di cui si interessa sono inevitabilmente locali, ma il locale non è più inteso come «autentico» e «isolato» bensì come crocevia in cui è possibile cogliere i movimenti, i flussi e le correnti della storia.
Grand Coude così è un pezzo di storia europea e non solo perché appartiene a un’isola francese: la storia europea si è forgiata e ha forgiato gli altri continenti, in un labirinto di fili intrecciati e interrotti che storici e antropologi, insieme, possono cercare di dipanare. La globalizzazione, non da oggi, prevede andate e ritorni, espansioni e interruzioni. Inoltrarsi oggi nel labyrinthe de l’histoire in compagnia di Gruzinski, insomma, significa evitare le storie etnocentriche ed eurocentriche che ancora dominano molte accademie del vecchio continente e, allo stesso modo, andare al di là dell’antropologia esotica, affascinata da popoli totalmente altri-da-noi.
L’EUROPA ... E LA "BUONA-SCUOLA": STORIA E STORIOGRAFIA, MAPPA E TERRITORIO. Note (ripresa parziale) dalla discussione a margine dell’articolo di Armando Polito, La Terra d’Otranto in una mappa dell’Europa del secolo XVI
***** L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo... ****
INNANZITUTTO, CARO ARMANDO, UN GRANDE "GRAZIE" PER LA GENEROSA E PUNTUALE RISPOSTA. PUR APPREZZANDO (e proprio per questo) gran parte delle tue argomentazioni, devo dire (partendo - vedi, sopra - dal tuo iniziale lapsus sull’etimologia) che alla fine scopri il fianco e offri alla filologia (e alla filosofia) "la mano esatta" (e, così, senza volerlo, via lavoro di Marziano Capella: "De nuptiis Philologiae et Mercurii", ritorniamo alla figura di ERMETE TRISMEGISTO e le SIBILLE e i PROFETI - da cui siamo partiti) a favore dello spirito "eu-ropeuo"!!!
A QUANTO PARE, il breve testo didattico su "LE DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" di Bertolt Brecht, se pure conosciuto, è ancora un testo tutto da rileggere e rimeditare. E, proprio ripartendo dalla nostra mappa dell’Europa del XVI secolo, chiedersi con lui: "Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta - fu affondata [1588]. Nessun altro pianse?".
CHE COSA VOGLIO DIRE CON QUESTO? VOGLIO DIRE - CON UN PIZZICO DI SALE, OVVIAMENTE - CHE, IN QUESTO "NON SAPERE" (Socrate!) DISTINGUERE TRA Storia ("RES GESTAE") e Storio-grafia ("HISTORIA RERUM GESTARUM"), vanno rintracciate le radici della CATASTROFE (non solo dei GRECI di ieri, ma anche) DELL’EUROPA (di oggi)!!!
CONTRARIAMENTE A QUANTO PENSI, CICERONE non ha sparato (come dici) "la più grande cazzata della storia"!!! Allievo dei GRECI, Cicerone ha ripetuto e ha detto - con parola esattissima (e qui siamo sempre e ancora in "Eu-ropa"!) - la stessa "cosa" detta (al plurale) da ERODOTO, a cominciare dal titolo della sua opera: Le STORIE (in greco antico: Ἱστορίαι, HISTORIAI).
CON LA PAROLA "HISTORIA", Cicerone sapeva benissimo di che cosa stava parlando, a chi, e di che cosa, e ne dichiarava - con questa sola parola! - l’origine, il senso, e il significato: dalla "aut-opsia", dal vedere con i propri occhi e dal pensare con la propria testa!!! E sollecitava a rifletterci su, a porsi DOMANDE, e a non prendere per oro colato e a bocca aperta ciò di cui si parla o si canta o si narra e scrive nelle "Historiai" dei vari "Catilina" - a tutti i livelli! A non confondere - come si dice oggi - la MAPPA con il TERRITORIO. E, per dirla in breve e ancora, a non scambiare il figlio del Profeta e Re Davide (Salomone), con il figlio del Profeta e Re "Salame" ("Salamone")!
CERTAMENTE, L’IDIOZIA non è affatto né di OMERO ("Cantami, o Diva, del Pelide Achile..."), né di ERODOTO ("Historiai"), né di Cicerone ("Historia magistra vitae"): "noialtri scolaretti siamo cerebralmente scarsi" (con tre punti esclamativi), in quanto "la carriera della maestra l’abbiamo costruita noi", senza alcuna capacità di DISTINGUERE, SCEGLIERE, RACCOGLIERE, LEGARE, e di riflettere BENE non solo sul buon-italiano (sulla buona-scuola!) ma anche sul buon-europeo ( "eu-ropeuo")!!! Federico La Sala
CARO ARMANDO - ovviamente!!! - non era assolutamente in dubbio o in discussione la qualità della tua magistralità di studioso, di ricercatore, e di storico "di spirito prof-etico dotato"! Condivido, pienamente! Un buon scolaretto?! Non cè da farsi scolaretto di nessuno! Dietro i cattivi (nel senso e nel significato delle loro ac-"captiv"-anti parole, volte solo ad ammaliare, fare prigionieri, e aggiogare i loro scolaretti) maestri, ancora si celebra e si propone come "modello" la loro "storiografia", quella di un burattino che diventa ragazzino per bene!!! E a dire che fin dall’inizio Collodi invita a fare attenzione e avverte in modo chiaro e tondo: "C’era una volta. - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. - No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno"!!! Vale a dire: non Salomone, ma Salamone!!! Federico La Sala
Breve elogio della ribellione in salsa umanistica
Un’anticipazione dall’intervento di oggi al «Festival della mente» di Sarzana. Che cosa significa utilizzare il proprio cervello critico? Le giovani generazioni si trovano davanti a scelte difficili da decifrare. Occorre scommettere sulla «terapia» della scuola
di Lamberto Maffei (il manifesto, 03.09.2016)
A Sarzana il Festival della mente 2016 apre il programma con alcuni versi di una poetessa che mi è cara, Alda Merini: «voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso/ della divina sapienza». Con desideri simili anche io auspico un piccolo spazio, quello della ribellione, contro la corruzione, la disonestà, le guerre, le ingiustizie sociali, l’uso del linguaggio per ingannare il prossimo, la vendita delle armi, e contro coloro che, come loro fossero superuomini dotati di cervelli e corpi diversi, sfruttano e riducono a servi altri uomini.
La prima riflessione, banale ma necessaria è che gli uomini condividono gli stessi organi, la stessa organizzazione del sistema nervoso, gli stessi recettori: tu ed io siamo uguali a tutti gli altri. Risultano perciò inaccettabili alla logica prima ancora che all’etica i privilegi di chi nasce ricco e ha goduto delle facilitazioni di un ambiente adeguato, ma anche di amicizie, di favori più o meno leciti. La loro condizione di privilegio si mantiene grazie alla esistenza dei molti che invece di privilegi non ne hanno e con la loro opera rendono possibile i loro salari stratosferici e perfino i loro comportamenti offensivi con cui ostentano la loro ricchezza per mostrare il loro potere e diversità, manifestazioni volgari che gridano vendetta davanti a Dio.
Ricordo a proposito alcune parti dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito (...) Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?»
L’onesto è relegato alla posizione di una sottospecie di fessi non degni di salire nella casta dei furbi. Il cervello, il buon senso, la critica, l’onestà sono in rivolta. La mia non è una ribellione violenta, perché la violenza genera violenza, ma è un richiamo all’uso del cervello pensante e critico, è la rivolta della ragione contro quel’1 per cento della popolazione che possiede più ricchezze del restante 99 per cento (rapporto Oxfam 2016). Ho raccolto queste riflessioni in un mio piccolo libro Elogio della ribellione uscito per Il Mulino.
In questo spirito di inquietudine e di rivolta rifletto su alcuni aspetti del mondo moderno, sulla globalizzazione, sul rapido invasivo sviluppo delle tecnologie che hanno procurato vantaggi ma anche problemi.
Le tecnologie della comunicazione hanno creato un nuovo tipo di solitudine, che possiamo chiamare paradossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.
La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.
Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.
La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.
La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.
Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA COSCIENZA A POSTO. Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
Un cervello troppo connesso è solo. Ribellarsi è la salvezza
di Giuseppe Fantasia (L’Huffington Post, 28/05/2016)
Nel mondo d’oggi, così come avviene in Cecità di Saramago, gli uomini sono diventati tutti ciechi o forse non sanno più leggere. Ci sono tante, troppe, persone che hanno poco da dire, ma che, essendo potenti e avendo a disposizione i mezzi di comunicazione, comunicano di continuo creando confusione e rumore (usato per nascondere la banalità del messaggio o la sua falsità), come ce ne sono tante altre (la minoranza) che avrebbero molte cose da dire, ma non hanno la possibilità di farlo perché non hanno i mezzi e il loro silenzio può essere quindi solo un messaggio che si diffonde per le vie di un mo(n)do di sentire comune.
Fatto sta che ognuno di noi - chi più chi meno - comunica e lo fa in qualsiasi modo, che sia uno smartphone o un portatile o entrambi, ma il problema è che alla fine si ha come l’impressione di comunicare nel deserto, dove è vero che la voce si propaga indisturbata, ma la stessa viene anche spazzata via dal vento perdendosi nelle orecchie sorde della sabbia.
Lo scrive Lamberto Maffei in Elogio della ribellione, il suo ultimo saggio pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Secondo l’autorevole scrittore, già professore emerito di Neurobiologia alla Normale di Pisa e attuale vicepresidente dell’Accademia dei Lincei, sono state la tecnologia e la globalizzazione ad aver creato la solitudine, a sua volta causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i ricettori (soprattutto quelli uditivi e visivi) che inducono un’attività frenetica del cervello, togliendo a loro volta spazio alla riflessione fino quasi a impedire la libertà del pensiero. La solitudine che si è venuta a creare è un paradosso della solitudine stessa: "è la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri strumentali informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri".
I giovani, fa notare Maffei -che con Il Mulino ha pubblicato anche altri de saggi, come La libertà di essere diversi ed Elogio della lentezza - hanno un cervello troppo connesso e questo non è sempre un bene, perché è un cervello solo e che rischia di continuo di perder egli stimoli fisiologici dell’ambiente e della vita che li circonda. Quella che si è venuta a creare, poi, è anche un’altra solitudine, in base alla quale i ricettore con l’esterno risultano cronicamente poco stimolati (si pensi agli anziani ridotti a vita solitaria), causando minore attività cerebrale e povertà di funzionamento del cervello.
Le parole, aggiunge l’autore dando ragione a Voltaire, sono state date all’uomo per ingannare se sesso e gli altri e l’ingannare il prossimo "è forse uno dei giochi più impegnativi dell’intelligenza". Più genuina e veritiera può essere solo la lingua dei segni perché i sordomuti non riescono a nascondere le emozioni e le bugie. Anche i mezzi di comunicazione, inventati dall’uomo - da lui definiti "una nuova categoria di prostitute" - possono ingannare il prossimo e più ci sarà il progresso delle comunicazioni, più aumenteranno le possibilità di essere ingannato.
Nel piccolo saggio, ricco di informazioni, citazioni e rimandi a testi e a personaggi dell’antica Grecia, Maffei riflette poi anche sulla rete delle comunicazioni che per lui sono un grande ragno che raggiunge gli uomini nelle varie parti del mondo con la sua tela, divenendo così concausa importante del fenomeno della globalizzazione.
La rete c’è ed "è utilissima", ma solo quando aumenta il comunicare di coloro che hanno pensieri o informazioni utili. A tesserla, è quel ragno (delle comunicazioni) che ha tra le caratteristiche la velocità e la facilità dell’uso del mezzo come la semplificazione del linguaggio. La tecnologia moderna ha i suoi pregi, di questo Maffei non ha dubbi, e apprezza quegli strumenti che ci vengono offerti e che permettono soluzioni o facilitazioni per la nostra vita quotidiana.
Segue poi un intero capitolo dedicato al denaro che non va sempre d’accordo con la felicità, ma quest’ultima, precisa, "è una variabile del censo" e nel ricordare poi il mito della divinità egizia Theuth - che si presentò al re d’Egitto Thamus per presentargli l’invenzione della scrittura, che proprio secondo il sovrano portava conoscenza e non sapienza - ricorda il compito della scuola che è quello della formazione, cioè nell’insegnare ad avere le proprie opinioni e un cervello critico piuttosto che ripetere passivamente le opinioni degli altri.
"La scuola - scrive - deve mirare alla sapienza più che alla conoscenza, alla formazione più che all’informazione". L’obiettivo è quello di creare dei cittadini critici che non ascoltino passivamente i messaggi ingannevoli dei mercanti e dei politici di carriera e che imparino che ubbidire può essere una forma di pigrizia come di vigliaccheria. Avere un cervello critico e la conoscenza, è fondamentale, dunque, per realizzare una società più giusta dove i cittadini possano godere di una libertà di espressione e di comportamento.
La libertà di ognuno di noi finisce dove inizia quella degli altri, questo è vero, ma come ci fa notare Maffei, è necessario anche che la libertà abbia la sua base nella conoscenza di sé stessi e degli altri. Questa seconda regola, assieme alla prima, è alla base dell’etica, perché ognuno di noi è qualcuno, ha la propria identità, il proprio colore della pelle e la propria storia personale, ma da solo non è nessuno. Teniamolo bene a mente.
COMMENTI
A scuola di comando
"Buona Scuola". La scuola è stato uno dei terreni sui quali si è più chiaramente manifestata l’idea renziana che il governo è comando, che si deve sottrarre ai lacci e lacciuoli di una concertazione antitetica rispetto a un decisionismo veloce ed efficiente
di Massimo Villone (il manifesto, 06.08.2016)
E venne il giorno dell’ira. Migliaia di docenti hanno manifestato per protestare contro la «buona» scuola. Abbiamo ascoltato storie di famiglie frantumate o di figli abbandonati alla cura di nonni esausti, angosciosi interrogativi su come far quadrare i conti con un stipendio già magro a fronte delle maggiori spese di una sistemazione lontana. Un disastro annunciato. La risposta del sottosegretario Faraone è stata degna di una caserma: ottimo e abbondante. L’algoritmo non si tocca, gli errori - se ci sono - rimangono marginali, il governo ha tolto dalla precarietà tantissimi docenti, che avranno finalmente un contratto a tempo indeterminato. Quel che accade - inclusa la risposta del sottosegretario - è invece un buon esempio di quanto sia fragile la concezione del governare che circola nelle ovattate stanze di palazzo Chigi, e quanto siano inadeguate le soluzioni legislative che ne derivano.
Al sottosegretario intanto ci permettiamo di consigliare prudenza. Quando si hanno masse di docenti arrabbiati che protestano senza farsi intimidire, la risposta che tutto va bene può solo mostrarsi sorda e arrogante. Di fronte a una transumanza di professori di dimensioni inusitate, un errore da qualche parte deve esserci: o negli algoritmi ministeriali, o nella loro applicazione, o nell’impianto stesso della legge. Possiamo scegliere. E l’argomento della cessazione del precariato non bilancia il fallimento. Tra i manifestanti non mancavano gli ex-precari, e la ragione è semplice. È forse una soluzione dare al precario un contratto a tempo indeterminato, ma ricattandolo con la condizione di uno spostamento di centinaia di chilometri? Perché si trovi poi comunque esposto in prospettiva al potere discrezionale di un preside sceriffo?
Qui troviamo forse il punto di maggiore fragilità ad un tempo dell’impianto legislativo e della concezione del governare che impera a palazzo Chigi. La legge 107/2015 porta nella scuola la concezione dell’uomo solo al comando, tradotta nell’ampiezza del potere discrezionale del dirigente scolastico. Un connotato testardamente difeso anche da ultimo dal ministero, nella definizione dei requisiti e dei titoli valutabili per la chiamata dei docenti. Contro il parere e le proposte dei sindacati, l’elenco è diventato lunghissimo, tanto da lasciare di fatto al dirigente le mani libere nella scelta. Ma, oltre ad essere occasione - come ampiamente detto in passato - di clientele e malcostume, se non di corruzione in senso proprio, questo significa che tutte le tensioni di oggi cadono sulle spalle del dirigente. Qualunque cosa faccia, sbaglierà. E come sarà possibile alla fine garantire il buon andamento e l’efficienza del servizio con una parte non marginale del corpo docente che cercherà in ogni modo di sottrarsi alle difficoltà familiari e di vita derivanti dalla forzata deportazione? Con l’utilizzazione anzitutto di ogni possibile permesso, aspettativa, assenza giustificata per qualsivoglia motivo? E con una guerriglia infinita nelle sedi giudiziarie?
Sono gli esiti perversi di una concezione malata del governare. La scuola è stato uno dei terreni sui quali si è più chiaramente manifestata l’idea che il governo è comando, che si deve sottrarre ai lacci e lacciuoli di una concertazione antitetica rispetto a un decisionismo veloce ed efficiente. A nulla hanno valso proteste e manifestazioni. Il mondo della scuola è stato sostanzialmente messo ai margini nelle decisioni che hanno portato alla legge 107/2015. E lo stesso è accaduto anche nella fase dell’attuazione.
Questo ci dice quanto fosse fondata l’iniziativa referendaria sulla legge 107, e quanto invece sbagliata la timidezza di una parte della scuola e del sindacato che non ne ha colto l’importanza. Quando il parlamento è poco rappresentativo e sordo, e il governo non avverte la necessità di un confronto democratico, la via referendaria può ben essere la sola che rimane. La speranza di una correzione per via contrattuale non poteva che essere largamente illusoria.
Vedremo tra qualche giorno se le firme raccolte sui quesiti abrogativi di punti nodali della legge 107 - a partire dal preside-sceriffo - sono sufficienti, e speriamo vivamente che lo siano. E ci auguriamo che il mondo della scuola capisca come sia ora decisivo anche il No nel voto sul referendum costituzionale. È ben vero che non riguarda direttamente la scuola. Ma è l’unico strumento utile a determinare un clima politico nuovo, più aperto all’ascolto e disponibile alle ragioni di una scuola diversa da quella che il governo ha dimostrato di volere.
Infine, una considerazione. L’istruzione a tutti i livelli ci vede in basso nelle classifiche internazionali, e questo non può dirsi dovuto soltanto al governo in carica. Ma se questa «buona» scuola è davvero la migliore che possiamo oggi aspettarci, prepariamoci a vivere in un paese di analfabeti.
Apprendistato
A lezione dal professor Bassani
che si calava dalla grondaia
A un secolo dalla nascita dell’autore ferrarese, il ricordo appassionato di un allievo che è diventato a sua volta scrittore
di GIORGIO PRESSBURGER *
Nel centenario della nascita del professor Bassani - come lo chiamo io, perché per tre anni è stato mio professore di Storia del Teatro all’Accademia nazionale d’Arte drammatica di Roma - si parla di lui, fortunatamente parecchio. Per anni la sua figura è stata un po’ taciuta se non proprio ignorata, forse a causa della polemica del Gruppo 63 a cui era fortemente e ingiustamente invisa.
Sul finire degli anni ’50 ci vedevamo due volte la settimana nel villino di piazza della Croce Rossa a Roma, sede dell’Accademia, per le lezioni dei cinque sei allievi registi. I corsi duravano tre anni e il professor Bassani li dedicò allo studio di tre grandi autori di Teatro francesi, uno per anno: Corneille, Molière e Racine.
Tra i miei compagni c’erano Mario Missiroli, Giuliana Berlinguer, Paolo Giuranna, Walter Pagliaro, Giuseppe Rocca e altri meno noti. Molte lezioni cominciavano al bar di fronte al villino: il professore ci offriva un caffè e chiacchierava con noi dei fatti quotidiani, dei nostri problemi, e a volte dei suoi.
Mi ricordo che una volta ci intrattenne per tutta l’ora della lezione sul problema degli scrittori che spesso devono fare una scelta su come andare avanti nella loro opera di narrazione. Ci raccontò come il trovarsi di fronte a continue scelte e decisioni fosse un vero tormento per l’autore, tormento che a volte per mesi e mesi lo accompagnava per strada, in casa, in compagnia di amici, a teatro o al cinema. Ma quei tormenti non li ha mai riversati su noi, anzi più era in balia di essi, più ci trattava con giovialità, scherzando, chiedendo i nostri dati per gli oroscopi, cercando di indovinare i nostri caratteri, consigliandoci per la strada da prendere in futuro.
Al primo anno ci tenne una serie di lezioni molto lunga su un dramma di Corneille: L’illusion comique. Ci mostrò come il tema di quell’opera avesse attraversato tutta la drammaturgia occidentale: come dai greci fino ad oggi, il teatro narrasse l’illusione dell’uomo sulla conoscenza della realtà, la sua caduta di inganno in inganno, di errore in errore e come tutta la magia dell’arte non fosse altro che la rappresentazione della inanità (l’inconsistenza) del tutto. Questo tema, in quegli anni, stava per prendere un posto centrale nella cultura mondiale, con l’affermarsi della grande narrativa sudamericana, del barocco rivissuto oggi, della liquidazione del realismo.
Il professor Bassani aveva una grande predilezione per il filosofo-sociologo marxista Lucien Goldmann, romeno trapiantato a Parigi. In ogni lezione spuntava il suo nome, specialmente a proposito di Racine, e del gruppo dei Giansenisti ritirati a Port Royal, per discutere sulla predestinazione, cioè sulla grazia divina che può provenire solo da Dio stesso, non dalle nostre azioni. Il Dio nascosto, Le Dieu cachè, teoria di Goldmann a proposito di Racine e dei suoi compagni, era sempre menzionato, ed è rimasto nella mente degli allievi.
Come sono rimasti nella mente le letture del professore durante ogni lezione, mezz’ora di declamazione in francese con grande patos, una sorta di declamazione. Al termine della nostra ora, Bassani chiudeva il libro con uno schiocco fragoroso, e, tornando a balbettare come accadeva mentre parlava in italiano, esclamava: Fo-ormidabile! Fo-ormidabile! Poi si congedava sorridendo.
Un giorno l’anziana «ispettrice» venne in classe ad annunciare, in stato di choc, che il professor Bassani non poteva fare lezione perché era stato avvelenato. Effettivamente su un volo Milano-Roma di quel giorno, il pranzo (allora previsto da certe compagnie aeree) era stato servito già avariato e alcuni passeggeri ne erano rimaste vittime. Mi pare che uno di loro fosse anche morto. Quell’avvenimento fu spesso ricordato da tutti noi, come lo fu la sua presunta fuga da casa per venire a fare lezione, gravemente febbricitante a causa di un’influenza (forse la famosa «asiatica»). In quell’occasione si sarebbe calato lungo la grondaia, giacché si diceva che l’avessero chiuso in casa.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare di quei tre anni. Ma di lui come professore non ho più sentito parlare nessuno. Quello che posso dire è, che è stato il miglior insegnante che io avessi mai avuto, durante i miei Lehresjahren (Goethe), cioè anni di apprendistato.
* Corriere della Sera, 30.07.2016 (senza foto).
Apriamo gli studenti all’ubuntu
di Luca Maria Scarantino (Il Sole-24 Ore, 05 giugno 2016)
Donna non si nasce, lo si diventa: commentando questa celebre massima di Simone de Beauvoir, due liceali della Corea del Sud hanno vinto le Olimpiadi mondiali di filosofia. La terza medaglia d’oro, ex-aequo, è andata a uno studente turco, autore di un saggio sulla logica di Aristotele. Nessun paese aveva mai ottenuto due primi posti in una stessa edizione.
Leggendo gli elaborati nello splendore fiammingo di Gent, ripensavo alle parole di un collega della giuria. «Stanno vincendo», mi aveva detto il giorno prima, mentre i militari belgi in tenuta di guerra ci perquisivano in prossimità dell’aeroporto di Charleroi: nell’Europa sotto attacco siamo noi le armi che i nostri nemici stanno preparando. Non si tratta solo di abitudini quotidiane sconvolte da questo stato d’assedio strisciante. È la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi in una tradizione, in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme circoscritto, rassicurante, quasi tribale di coordinate culturali. Gli scritti dei liceali venuti a Gent da tutto il mondo per comporre un breve saggio di filosofia dicevano cose molto diverse.
«Ogni volta che devo barrare una casella, la società mi impone di scegliere “femmina”; eppure tutto dentro di me si sente maschio»: inizia all’incirca così uno degli elaborati vincitori. «Sono donna perché da diciassette anni la società mi impone di esserlo... ma ogni donna dovrebbe battersi non solo per il diritto di diventare donna, ma anche per quello di non diventarlo»: parole decise, coraggiose e piene di vita di ragazze e ragazzi coreani, svizzeri, norvegesi, croati che non hanno paura di esplorare i propri sentimenti e la propria identità di genere, servendosi della filosofia per capire meglio se stessi e la società in cui vivono. Oltre metà delle medaglie d’oro e d’argento, compresi due dei tre vincitori, sono andate a saggi dedicati a questi temi. Non è strano che adolescenti cerchino di costruirsi, né che si interroghino sul proprio rapporto con la società che li circonda; ma è evidente che la rilevanza sociale delle questioni di genere sta diventando un fenomeno universale, parecchio sentito da questi ragazzi che si chiedono in modo consapevole quanto siano pertinenti per la loro vita le norme tradizionali che regolano l’identità di genere: e lo fanno con stili, convinzioni, tesi e conclusioni assai diverse.
Alcuni colleghi europei si chiedevano quanto gli studenti giapponesi, indiani, coreani o cinesi conoscano la tradizione filosofica occidentale. I saggi arrivati in finale ci dicono che maneggiano assai bene Aristotele e Putnam, Locke e Wittgenstein, Foucault, Heidegger, Sartre e Derrida, la tradizione analitica e il pensiero femminista... Questa familiarità con altri mondi, unita a sistemi educativi particolarmente efficaci, aiuta a capire i ripetuti successi degli studenti asiatici.
Chiediamoci allora quanto i nostri studenti, liceali o universitari, conoscano delle altre culture e siano esposti al confronto con esse. Cosa sanno i ragazzi italiani (e prima ancora: cosa sappiamo noi) di Nishida, Wonhyo, Dasan, Laozi, dell’ubuntu, di Senghor, Iqbal e di tanti altri autori e autrici di formidabile rilievo teorico e culturale? Qualcosa si muove, certo; le iniziative rivolte ad aprire l’insegnamento della filosofia e delle scienze umane in senso interculturale non si possono più trascurare; e l’Italia non sta peggio di altri paesi europei. Eppure, troppo spesso si continua a identificare la filosofia con la filosofia occidentale.
È tesi corrente, in Italia e non, che molte delle espressioni culturali non occidentali siano forme di spiritualità, di religiosità, di saperi tradizionali - ma non siano filosofia. Può darsi. Ma da sempre il pensiero filosofico trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e pratiche culturali, sino a fondersi con esse: si pensi all’indissolubile rapporto con la religione che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale, o all’importanza dell’astrologia che attraversa l’intero Rinascimento. Certo, proprio questi saperi, una volta esaurito il proprio ruolo storico, sono stati rifiutati, evacuati dalla comprensione storica del pensiero filosofico: al punto che oggi non siamo quasi più in grado di riconoscerli.
Ma a cosa può aspirare oggi una filosofia che si mura entro un’unica tradizione, lasciando fuori e anzi respingendo oltre i propri confini intere tradizioni spirituali e di pensiero? Davvero vogliamo escludere dall’ambito del pensiero filosofico interi secoli di storia della cultura, abbandonare ad altre discipline lo studio del sufismo, del confucianesimo, delle tradizioni dell’India? Aprire invece, viene da pensare, spalancare le porte della propria mente a culture, filosofie, letterature, religioni di tutto il mondo, anche a costo di scardinare alcuni riflessi culturali ben radicati nella tradizione europea: è di questo che hanno bisogno questi ragazzi per competere nel mondo di oggi e di domani.
La Corea raccoglie i frutti di decenni di investimenti in cultura, educazione, scienze; ed è comunque probabile che già l’anno prossimo si abbiano vincitori di paesi diversi. Eppure, da uno dei più suggestivi borghi della vecchia Europa giunge un segnale da non sottovalutare: al netto di facili generalizzazioni, molti ragazzi extra-europei, e asiatici in particolare, sembrano assai meglio preparati a muoversi nella complessità del mondo di oggi. Ne capiscono e ne affrontano di petto i problemi, le esigenze, le difficoltà. Anche con qualche ingenuità, certo. Ma non hanno alcuna paura di mettersi in gioco: sono gay, ci dice la ragazza coreana con inesorabile forza argomentativa, e se la società vuole a tutti i costi fare di me una donna, allora la società va cambiata. Chissà se i risultati delle Olimpiadi di Gent saranno motivo di stimolo e di accresciuta apertura anche per il nostro sistema educativo.
Intervista a Paolo Perticari
LA CATENA INVISIBILE DEL MALE
realizzata da Barbara Bertoncin *
Paolo Perticari insegna Pedagogia generale e Filosofia della formazione all’Università degli Studi di Bergamo. Il libro di cui si parla nell’intervista è Pedagogia Nera. Fonti storiche dell’educazione civile (a cura di Paolo Perticari) , Katharina Rutschky, Mimesis, 2015.
La prima domanda è: che cosa significa "pedagogia nera”?
La pedagogia nera è una realtà piuttosto subdola, vischiosa, di cui non si colgono bene i contorni. Di sicuro non si sta parlando di pedagogia come di solito la si intende, cioè come forma di intervento positivo, costruttivo. Si sta parlando di vita, io credo, e nello specifico di ciò che distrugge la vita, cioè di processi distruttivi e a volte anche autodistruttivi. Si parla di inconscio e di rimosso, di nevrosi e di psicosi, di neuroni e di coazioni a ripetere, atti malvagi. Parliamo di violenza, di un male indecifrabile, di cui si ha però la possibilità di vedere gli effetti. Purtroppo quando si capisce che cos’è, è già molto tardi: c’è infatti il rischio che questo male si sia installato in un organismo sano molto in profondità, che può essere in una persona, ma può anche essere una realtà sociale, come la famiglia o una collettività. Le conseguenze di questo male indecifrabile sono gravi sempre per la vita umana e qualche volta diventano incurabili.
Quando parliamo di pedagogia nera parliamo di bambini, e della violenza loro inferta, che può condizionare pesantemente la loro vita. Non è detto che un bambino che subisce la pedagogia nera diventi una persona con disagio mentale, disturbata; proprio in virtù di questa esperienza, potrebbe essersi fatto la pelle più dura e quindi diventare una persona che ottiene dei successi. E tuttavia, una volta che a un bambino è stata spezzata l’anima, la personalità, il suo sé nel profondo, questo tende a lasciare una traccia che prima o poi si manifesta, magari anche molti anni dopo.
Dunque la pedagogia nera è questa realtà di violenza e di abuso sui bambini che avviene perlopiù nei contesti familiari, inter-parentali, quando le porte di casa si chiudono. Può succedere che questa pedagogia venga esercitata anche fuori, nella scuola, nell’extra-scuola, ma in realtà la zona dell’abuso infantile riguarda la rete parentale. Non stiamo parlando solo di violenza fisica...
No, non stiamo parlando solo di violenza fisica. Quest’ultima però non va sottovalutata, perché si tende a pensare sia tramontata, invece non è così. Una banale sculacciata in fin dei conti può essere il primo passo verso il male.
Il libro di Katharina Rutschky è una summa di citazioni, anche nel senso beniaminiano del termine. Rutschky propone brani tratti da manuali, testi di teoria pedagogica, breviari, libri di esperienza, strumenti educazionali, scritti nell’arco di un periodo che va dal Diciottesimo secolo fino ai primi anni del Ventesimo secolo.
Da tutti questi testi di educazione emerge una forma di male su cui non si è ancora adeguatamente riflettuto dentro la cosiddetta Europa borghese e civile.
Ci sono anche testi progressisti, ma poterli leggere tutti insieme in questa chiave ci consente di intravedere una forma di orrore vero e proprio.
La pedagogia nera è una forma mentale, estetica, civile, politica, teologica. È un tema destinato a non passare facilmente. Esso implica la trasformazione continua del rapporto genitori-figli, ma anche insegnanti-studenti, molto lontana, distante dallo stereotipo dell’infanzia come il periodo più felice, gioioso e spensierato. Fin da subito, anche le relazioni affettivamente meglio strutturate si ammalano di questa cifra del potere sovrano, del comando supremo, dell’obbedienza assoluta. Un’obbedienza da ottenere appunto attraverso la forza, che un corpo più massiccio, più grande impone su un altro corpo decisamente più indifeso, più piccolo, con la violenza sia fisica sia psicologica. Ecco, la pedagogia nera di Katharina Rutschky dà una... [ continua ] **
* Paolo Perticari insegna Pedagogia generale e Filosofia della formazione all’Università di Bergamo
Invalsi, a Nuoro tre insegnanti sospesi: “Non hanno addestrato i ragazzi ai test”
I docenti di un istituto agrario, sostenuti dai Cobas, sono pronti a fare ricorso al tribunale del lavoro. "Abbiamo scelto di non fare alcuna simulazione preferendo svolgere la nostra attività didattica ordinaria"
di Alex Corlazzoli (Il Fatto, 11 maggio 2016)
Stavolta ad essere sospesi non sono degli studenti ma tre insegnati dell’istituto tecnico agrario “Brau” di Nuoro, colpevoli di non aver voluto addestrare i ragazzi ai test dell’Invalsi. Il provvedimento firmato dalla dirigente Innocenza Giannasi, è arrivato lunedì (anche se è datato 6 maggio) a tre professoresse della scuola.
Una sanzione definita una “mostruosità” dal sindacato dei Cobas che ha denunciato quanto avvenuto a Nuoro: “Non solo è assurdo che si voglia imporre la simulazione e l’addestramento alle prove a docenti che non hanno mai “somministrato” i test veri e propri ma tale tentativo confligge clamorosamente con l’orientamento dello stesso Invalsi (e di strutture analoghe a livello internazionale), che ha ripetutamente giudicato “inutile e dannoso allenarsi ai test” e l’addestramento a prove standardizzate”, spiega Piero Bernocchi, il portavoce del sindacato di base.
A spiegare quello che è successo è Rosaria Piroddi, professoressa di matematica sospesa dalla preside: “Nel piano di miglioramento della scuola, approvato dal collegio docenti, è stato inserito l’addestramento alle prove Invalsi. Avremmo dovuto fare almeno due esercitazioni durante l’anno usando i materiali delle prove Invalsi dell’anno precedente. Una volta fatte e corrette le avremmo dovute discutere con la classe. In sede di dipartimento di matematica e lettere abbiamo scelto di non fare alcuna simulazione preferendo svolgere la nostra attività didattica ordinaria”.
Una scelta sostenuta da più ragioni in primis la libertà d’insegnamento e il fatto stesso che il direttore generale dell’Invalsi, Paolo Mazzoli, in un convegno nel giugno 2015, pubblicato sulla rivista scientifica on line “Galileo” il 4 gennaio scorso aveva sostenuto che “l’istituto nazionale di valutazione rileva e misura gli apprendimenti con riferimento ai traguardi e agli obiettivi previsti dalle indicazioni, promuovendo altresì una cultura della valutazione che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento delle prove”.
Lo scontro è arrivato al culmine nei giorni scorsi: “Il 29 marzo scorso- spiega Rosaria Piroddi - è arrivata una contestazione di addebito con convocazione per contradditorio a difesa. Abbiamo risposto con una relazione approfondita specificando che tale decisione può essere presa dalla scuola ma non imposta al singolo. Lunedì è arrivata la sanzione che ha sconvolto tutta la scuola: sei giorni di sospensione che dovremo fare dal 15 di giugno quando l’attività didattica sarà terminata. Questi atteggiamenti da parte del dirigente creano una situazione di malessere. Non abbiamo mai parlato con lei, non c’è mai stato un confronto”.
A parlare sono state le lettere. Nel provvedimento di sospensione la dirigente ricorda che “nel rispetto degli organi collegiali, le delibere vincolano tutti i componenti” e conferma l’addebito “in quanto il comportamento intenzionale della professoressa Piroddi, costituisce atto non conforme alla responsabilità, ai doveri e alla correttezza inerenti alla funzione docente”. Intanto i tre insegnanti accusati dalla dirigente, domani, giorno di somministrazione delle prove nelle classi seconde della secondaria di secondo grado, aderiranno allo sciopero promosso dai Cobas in tutt’Italia.
A scendere in campo a difesa delle docenti sono i Cobas: “Questo grave episodio - spiega Bernocchi - chiama in causa anche la responsabilità dell’amministrazione: il direttore scolastico regionale, Francesco Feliziani, pur sempre informato di abusi analoghi, non muove un dito nei confronti dei presidi che usano i procedimenti disciplinari come una clava per neutralizzare i docenti non “genuflessi” e non assume mai alcun provvedimento nei confronti dei presidi che violano le norme, a fronte di migliaia di procedimenti disciplinari attivati in Sardegna, negli ultimi anni, nei confronti di docenti e Ata”.
Con loro anche Nicola Giua, dei Cobas Sardegna: “Ho seguito la vicenda in prima persona. Presenteremo ricorso al tribunale del lavoro di Nuoro perché questa invereconda sanzione venga subito annullata. La dirigente si è trincerata dietro un silenzio assoluto e lo stesso dirigente regionale ha detto che non ha nulla da dire sulla vicenda. Giovedì sciopererà molta più gente di quella che immaginavamo: la dirigente ha fatto un autogol”.
Ringraziaundocente: prof promossi in preparazione, bocciati in creatività
Li promuove il 44% dei 3 mila studenti di medie e superiori sono i risultati di una web survey di Skuola.net
di Redazione ANSA *
La Settimana Italiana dell’Insegnante, quest’anno dal 2 maggio all’8 maggio 2016, si sta svolgendo a suon di hashtag. Sui social si twitta e si posta con #ringraziaundocente, menzionando quei professori che, oltre a confermarsi bravi con lezioni e voti, si sono dimostrati anche maestri di vita. In questa occasione Skuola.net ha intervistato circa 3mila studenti di scuole medie e superiori dando loro l’opportunità, per una volta, di promuovere, bocciare o rimandare a settembre i propri insegnanti. Ne sono usciti preparati, aggiornati, ma carenti in creatività, in competenze digitali, in obiettività di giudizio. Anche per quanto riguarda la simpatia, si può fare di meglio. Ecco la pagella dei docenti italiani, risultato di questi speciali scrutini tra studenti.
Preparazione a aggiornamento: PROMOSSI
Nulla da ridire in quanto a preparazione. La parte più numerosa degli intervistati è quella che li promuove: secondo il 44% sono sempre aggiornati e ferrati sugli argomenti che insegnano. Eppure, un 36% trova delle lacune, e li avrebbe rimandati a settembre. Secondo questi studenti, il problema è che sono rimasti troppo indietro: il mondo va avanti e dovrebbero spendere più tempo ad aggiornarsi. Addirittura la minoranza, che comunque è un buon 20%, li boccerebbe senza remore. Questo perché a volte i prof avrebbero dimostrato incertezze sulle proprie materie.
Simpatia e disponibilità: RIMANDATI A SETTEMBRE
Promossi con debito i nostri docenti per quanto riguarda il rapporto umano instaurato nel quotidiano con i propri studenti. La maggioranza dei ragazzi infatti, il 46%, ha optato per questa soluzione e la loro opinione ha decretato il giudizio finale. A loro parere, infatti, i prof dovrebbero impegnarsi di più a comunicare con i propri alunni. Agli insegnanti italiani, quindi, si consigliano corsi di recupero in empatia e comprensione, se vorranno superare l’esame del back to school. Tuttavia, 1 su 3 circa li promuove a pieni voti, considerandoli in gran parte simpatici e pronti a un aiuto extra. Cattivissimo il 22% che non dà loro alcuna possibilità: il motivo? Sono antipatici e non aiutano.
Innovazione e creatività nella didattica: BOCCIATI
Da qui inizia la sfilza di bocciature. Iniziamo con la capacità di inventare nuove soluzioni nella didattica e stimolare gli studenti, coinvolgendoli con creatività nello studio della materia. Non ci siamo proprio, a quanto pare. Più della metà degli studenti, il 51%, vuole bocciare i propri prof perché da anni svolgono lezioni sempre uguali, e la maggioranza vince. Un più mite 32%, tuttavia, sceglie di rimandarli a settembre perché coglie un certo impegno in questo senso, seppure non sia soddisfatto dei risultati. Pochi coloro che definiscono i propri prof sempre coinvolgenti e pieni di idee, e per questo li promuovono: sono il 17%.
Competenze digitali e tecnologiche: BOCCIATI
La tecnologia non è il punto forte dei nostri prof, nonostante gli sforzi del Miur nel rendere le nostre scuole sempre più al passo con i tempi dal punto di vista digitale. Il 43% li boccia, il 35% li rimanda a settembre. Per la maggioranza degli intervistati, infatti, i loro docenti dovrebbero ripetere l’anno perché sono ancora troppo legati ai vecchi strumenti: nell’era degli ebook e dei tabletsono rimasti a lavagna, gessetti e libro cartaceo. Chi assegna la sospensione di giudizio, invece, pensa che ciò che è stato fatto non sia ancora del tutto sufficiente. Superano l’esame i prof di quel 22% di ragazzi che si dicono contenti dell’uso frequente di strumenti digitali e tecnologici nell’insegnamento.
Obiettività e capacità di giudizio: BOCCIATI
La figura dell’insegnante ingiusto, o che aiuta solo i suoi alunni preferiti, è dura a morire. Che sia solo perché gli studenti non conoscono a pieno le motivazioni che spingono i docenti a premiare o a punire? Quel che è certo è che i ragazzi si sono dimostrati compatti: la maggior parte, il 46%, boccia i propri prof per i loro pregiudizi e simpatie nei confronti degli studenti, mentre il 37% li rimanda perché a volte hanno lasciato intravedere mancanza di obiettività. Solo il 17% li definisce giusti e imparziali nei giudizi. Per questo, li promuove.
Eurostat, Italia maglia nera per la spesa in scuola e cultura
Nel 2014 educazione cala a 7,9% spesa pubblica, media europea a 10,3%
di Redazione *
L’Italia e’ all’ultimo posto in Ue per percentuale di spesa pubblica destinata all’educazione (7,9% nel 2014 a fronte del 10,2% medio Ue) e al penultimo posto per quella destinata alla cultura (1,4% a fronte del 2,1% medio Ue). E’ quanto emerge da dati Eurostat sulla spesa governativa divisa per funzione secondo i quali è invece più alta della media la percentuale di spesa per la protezione sociale (41,8% a fronte del 40,2% dell’Ue a 28) e per i ’Servizi generali’ (comprensivi degli interessi sul debito). La percentuale di spesa per educazione è scesa di 0,1 punti rispetto al 2013.
Scuola
Pronti i quattro quesiti del referedum contro la «Buona Scuola»
Strategie. Abolizione dello «school bonus», dell’alternanza scuola-lavoro, del preside-manager e della valutazione del merito. Il 13 marzo a Roma un’assemblea lancerà una nuova stagione referendaria: insieme alla scuola, altri quesiti "No Trivelle" e sull’acqua pubblica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 01.03.2016)
ROMA. Dopo mesi di incertezze e studio, i quattro quesiti del referendum contro la «Buona scuola» di Renzi sono pronti. Il comitato promotore ha finalmente sciolto le riserve e ha varato un percorso che si propone di abolire alcune delle parti più pericolose della «legge 107», ribadendo un contrasto «fiero alla visione aziendalistica accolta dalla legge».
La «riforma» ha scatenato, pochi mesi prima della sua approvazione parlamentare imposta a colpi di fiducia dal governo, una vasta opposizione nelle scuole e tra i docenti. L’opposizione si è indebolita dopo l’estate, mentre i sindacati non hanno trovato un modo per proseguire la mobilitazione. Nei mesi estivi, Possibile di Civati ha provato a raccogliere le firme per un referendum, sostenendo la necessità di celebrarlo nel 2016, ma non è riuscito a raccogliere le 500 mila firme necessarie per presentare i suoi quesiti. L’iniziativa ha prodotto alcune polemiche sulla tempistica e le modalità politiche e giuridiche scelte dall’ex deputato del Pd. In un’assemblea tenuta nel settembre 2015 a Bologna il fronte ampio oggi raccolto nel comitato promotore del nuovo referendum ha scelto di individuare con più cura i quesiti all’interno di una mobilitazione referendaria complessiva contro le politiche renziane.
Dopo un’assemblea, tenuta a Napoli lo scorso 7 febbraio e un’altra riunione tenutasi sabato 27, il progetto sembra ormai essere stato delineato. Il referendum contro la «Buona scuola» si inserisce in una «campagna referendaria allargata e plurale» che sarà lanciata a Roma in un’assemblea il prossimo 13 marzo. Previsto un altro referendum per fermare gli incentivi alla privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali; uno per cambiare le politiche ambientali a partire dalle trivellazioni petrolifere in terra e mare. Manca, al momento, il referendum più volte annunciato sul Jobs Act. A questi referendum si affida la speranza di «rafforzare la mobilitazione sociale» portata avanti in autonomia dai movimenti. «Referendum capaci di coinvolgere direttamente le persone e di disegnare un altro modello sociale rispetto a quello delineato da Renzi».
Quello contro la legge 107 sarà sostenuto dai sindacati della scuola (Flc-Cgil, Cobas, Gilda, Unicobas, Sgb e Cub); studenti (Uds, Link) e associazioni (Lip scuola, Retescuole) che, insieme a molti altri, sostengono il lavoro di una pattuglia di costituzionalisti che hanno elaborato i quattro quesiti. Si parte dallo «school bonus» e si chiederà ai cittadini di cancellare «un beneficio di fatto riservato alle scuole private». Secondo i promotori del referendum «le erogazioni liberali non dovranno più essere riservate alle singole scuole ma all’intero sistema scolastico». C’è infatti il rischio che «le scuole private sfruttino tali meccanismi per eludere le tasse su una parte delle rette».
Il referendum mira ad abolire il «preside-manager», una delle principali novità del contestato provvedimento: è stata trovata la formulazione per abrogare la chiamata diretta degli insegnanti da parte del dirigente scolastico sugli ambiti territoriali per incarichi di insegnamento solo triennali. Il terzo quesito riguarda l’alternanza scuola-lavoro: si vuole abrogare l’obbligo delle 200 ore di tirocinio nei licei e delle 400 ore nei tecnici-professionali e si promuove la libertà delle scuole di organizzare le attività, «come sempre hanno fatto» precisano i promotori. Infine c’è la valutazione del merito da parte del dirigente scolastico. I cittadini potranno esprimersi sull’abrogazione dei commi della legge per ripristinare le funzioni precedenti del comitato di valutazione. Il 2016 e il 2017 sarà dunque un biennio referendario. A ottobre si terrà il referendum confermativo sull’Italicum.
DIECI COLTELLATE. MINIMA UNA GUIDA AL REFERENDUM *
Intitolare questi brevi ragionamenti "dieci coltellate" e’ un espediente retorico: a indicare la necessita’ e l’urgenza di squarciare la cortina delle menzogne ed uscire dalla subalternita’ al discorso dominante che e’ il discorso falso e fraudolento della classe dominante che tutte e tutti ci opprime.
Indicheremo qui di seguito tre trappole in cui non cadere (la trappola delle velocita’, la trappola del risparmio, la trappola della governabilita’), formuleremo tre elogi (del perfetto bicameralismo, della rappresentanza proporzionale, del costituzionalismo nemico dell’assolutismo), dichiareremo tre beni irrinunciabili (la repubblica parlamentare; lo stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri; la democrazia, ovvero la sovranita’ popolare) e giungeremo a una conclusione che ci sembra coerente e doverosa: il 4 dicembre votare No al golpe degli apprendisti stregoni; difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana.
E valga il vero.
*
1. La trappola della velocita’
Quando si prendono decisioni importanti non si discute mai abbastanza. Quando si fanno le leggi, piu’ ci si pensa e meglio e’. La democrazia e’ un processo decisionale lento e paziente; come scrisse Guido Calogero si contano tutte le teste invece di romperle. Solo le dittature sono veloci, velocissime, e il frutto di quella velocita’ e’ sempre e solo la schiavitu’ e la morte di innumerevoli esseri umani.
*
2. La trappola del risparmio
Da quando in qua per risparmiare quattro baiocchi occorre massacrare la Costituzione, che e’ la legge a fondamento di tutte le nostre leggi, la base del nostro ordinamento giuridico e quindi della nostra civile convivenza? Da quando in qua per risparmiare quattro baiocchi occorre distruggere la forma istituzionale repubblicana del nostro paese e sostituirla con la dittatura del governo, ovvero con la dittatura del capitale finanziario transnazionale di cui il governo in carica e’ servo sciocco? Per ridurre i costi dell’attivita’ parlamentare basterebbe una legge ordinaria che riduca gli emolumenti a tutti i parlamentari portandoli a retribuzioni ragionevoli.
*
3. La trappola della governabilita’
Cio’ che si nasconde dietro la parola magica - ovvero la cortina fumogena - della "governabilita’" altro non e’ che il potere dei potenti di imporre la loro volonta’ e i loro abusi senza opposizioni e senza controlli. La governabilita’ non e’ ne’ un valore ne’ un bisogno in nome del quale devastare la democrazia, lo stato di diritto, i diritti civili, politici e sociali che ad ogni persona appartengono.
*
4. Elogio del perfetto bicameralismo
In un parlamento due camere sono meglio di una: se nell’una si commette un errore l’altra puo’ correggerlo; se nell’una prevale un’alleanza di malfattori, l’altra puo’ contrastarla. Due camere si controllano reciprocamente. Cosi’ si sbaglia di meno. Benedetto sia il bicameralismo perfetto.
*
5. Elogio della rappresentanza proporzionale
In una democrazia il potere e’ del popolo che lo esercita attraverso i suoi rappresentanti. Il parlamento che fa le leggi in nome del popolo deve essere rappresentativo di esso in modo rigorosamente proporzionale. Se invece una minoranza si appropria della maggioranza dei seggi quel parlamento non e’ piu’ democratico, diventa solo la foglia di fico di un regime oligarchico. E se il governo si sostituisce al parlamento nella sua funzione legislativa non solo quel parlamento diventa una foglia di fico a tentar di occultare l’oscenita’ del potere reale, ma quel potere non e’ piu’ ne’ democratico ne’ repubblicano, e’ diventato un’autocrazia. Benedetta sia la rappresentanza proporzionale.
*
6. Elogio del costituzionalismo, nemico dell’assolutismo
Il fine e il senso di ogni Costituzione e’ impedire o almeno limitare gli abusi dei potenti. Nelle societa’ divise in classi di sfruttatori e sfruttati, di proprietari ed espropriati, di governanti e governati, chi esercita funzioni di governo e’ costantemente esposto alla forza corruttiva del potere. Nessun potere deve essere assoluto, ogni potere deve avere limiti e controlli. Benedetto sia il costituzionalismo, nemico dell’assolutismo.
*
7. Una repubblica parlamentare, non una dittatura
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) mutila ed esautora il parlamento e si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, viene meno la repubblica parlamentare. Ma per noi la repubblica parlamentare e’ un bene irrinunciabile.
*
8. Uno stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, annienta la separazione e il controllo dei poteri, che sono il fondamento dello stato di diritto. Ma per noi lo stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri, e’ un bene irrinunciabile.
*
9. Una democrazia, ovvero la sovranita’ popolare
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) riduce il parlamento a un giocattolo nelle sue mani, si fa un senato non piu’ eletto dal popolo, si fa una camera dei deputati in cui una minoranza rapina la maggioranza assoluta dei seggi, si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, la sovranita’ popolare e’ annichilita e con essa la democrazia. Ma per noi la democrazia, ovvero la sovranita’ popolare, e’ un bene irrinunciabile.
*
10. No al golpe, difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana
Nel referendum del 4 dicembre si vota per dire si’ o no al golpe. Chi vota si’, come vuole il governo degli apprendisti stregoni, accetta il golpe che distrugge il parlamento eletto dal popolo, lo stato di diritto, la democrazia costituzionale. Chi vota no, contro la volonta’ del governo degli apprendisti stregoni, difende il parlamento eletto dal popolo, lo stato di diritto, la democrazia costituzionale, e quindi si oppone al golpe. No al golpe. No al fascismo. No alla barbarie. Al referendum votiamo No. Senza odio, senza violenza, senza paura. Difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana.
*
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 21 ottobre 2016
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, -e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
I Bambini non sono Petalosi geni, neanche se a dirlo è l’Accademia della Crusca
di Deborah Dirani (L’Huffington post, 24/02/2016)
"Il re è morto. Viva il re". Peccato che il re morto fosse un alessandrino genio della parola e il suo designato erede sia un bambino di Copparo che da stamattina viene additato come piccolo e formidabile eroe della lingua italiana poiché ha ottenuto (con la complicità della sua baldanzosa maestra) nientepopòdimenoche un riconoscimento dall’Accademia della Crusca.
Tutto questo baccano intorno a un aggettivo coniato dal piccino (nella fattispecie: petaloso... Che ci tengo a dirlo, Crusca o non Crusca, il correttore di Word non lo riconosce e ho impiegato 3 minuti per farglielo accettare) nasce da un errore che l’inconsapevole neolinguista ha commesso in un compito che trattava gli "aggettivi" derivati dai sostantivi. Va da sé (o meglio, va da lui, il bambino) che se esiste il petalo esiste l’equivalente petaloso. Il ragionamento non fa una grinza, e quanto a logica consequenziale il piccoletto ha ragione da vendere. Meno ne ha chi non è in grado di spiegargli che la lingua italiana è un patrimonio già depredato da irricevibili anglicismi e neologismi al quale non serve anche il suo saccheggio.
Macché, la maestra baldanzosa dopo avergli segnato l’errore (specificando però che trattatasi di errore bello... E al primo che mi cita Montessori e il valore intrinseco dell’errore spedisco una carriola di libri automotivazionali, così poi si diverte) pensa bene di prendere il capolavoro di linguistica e inviarlo ai parrucconi della vecchia Accademia, i bastioni di Orione a tutela della nostra lingua.
Considerato poi che oggi come oggi non si può più dire a un giovane virgulto d’uomo che è un somaro, benché dotato di brillante fantasia, i suddetti bastioni gli hanno concesso l’accondiscendente onore di riconoscere che quella inascoltabile parola (siamo seri: petaloso non si può proprio sentire) sia in realtà bella.
La verità, che a me appare evidente, è che lo schiavismo degli adulti verso gli infanti stia travalicando i limiti della decenza. E i risultati sono piccoli mostri di boria e presunzione che, ai miei tempi (sì l’ho detto, ai miei tempi) sarebbero finiti silenziati da un pattone sul sedere. Non tanto per il petaloso, quanto per il messaggio di liceità, di tutto è possibile, che questa storia contiene e diffonde.
Non si può pensare di far assurgere l’errore a mirabile esempio di eccellenza, non si può infilare un bambino che sta battagliando coi congiuntivi nei vestiti del fine umanista, non si può farne un genio, un eroe, un esempio da emulare. Sennò da domani altro che petali e germogli di umanità: ci troveremo davanti a un manipolo di usurpatori di gloria.
I limiti sono importanti: servono a far capire i confini del sé. Servono a far camminare lungo l’asse della vita, insegnando a mettere un piede dopo l’altro a chi, per natura, vorrebbe correre ma non ha le gambe abbastanza forti per farlo. I limiti sono educativi: se non si conoscono i propri difficilmente si troverà il coraggio per superarli. Perché è vero che piazzare un bambino dietro la lavagna con le orecchie da asino è un’idiozia, ma anche sbatterlo su tutte le pagine dei giornali non è che sia una straordinaria prova di saggezza.
I bambini sono bambini, non piccoli geni in pantaloni corti e scarpe ortopediche. Non hanno, ovviamente, nessuna responsabilità circa quegli abiti non loro che si sentono cuciti addosso da genitori (e a volte insegnanti) pronti a leggere nell’ordinarietà delle loro azioni la straordinarietà del fenomeno. Che di fenomeni ce ne sono pochi, molti meno di quanti ne vengano additati in giro. Nemmeno questo piccolo Matteo, che oggi è diventato trend topic su Twitter grazie al cinguettio del suo omonimo premier, nemmeno lui è un fenomeno, o se lo è, non lo è di certo per quel florilegio di orrore linguistico del suo petaloso.
E comunque forse la maestra di Matteo avrebbe fatto più fatica a spiegargli perché il suo compito non era corretto anziché sdoganarlo con un bagno di notorietà che, se il destino si accanirà contro di noi, ci costerà l’inserimento di petaloso nella prossima edizione dello Zingarelli. Ah, ancora una precisazione: son vecchia e reazionaria e rimpiangerò a lungo (temo per sempre) il re che è morto senza degni eredi.
La scuola non è una gara
di Daniele Novara - Pedagogista, Piacenza *
Gli studi dimostrano che la competizione a scuola è inutile. I compagni non sono avversari da combattere: i bambini apprendono meglio collaborando e imparando dai propri errori. A scuola non si va per vincere, ma per per imparare.
Come funziona l’apprendimento?
A scuola si va per imparare, questo lo sanno tutti. Ciò che ancora ci si chiede è invece quale sia il metodo migliore per farlo. Per poter rispondere a questa domanda è necessario ragionare sulla base degli studi e delle conoscenze scientifiche più recenti.
La lezione frontale, l’ascolto passivo, l’interrogazione utilizzata come strumento di verifica dell’apprendimento e una valutazione considerata assoluta (quindi fatta senza tener conto del contesto, della personalità del bambino, del suo punto di partenza e del suo sviluppo), sono tutti strumenti che per loro natura portano a selezionare e privilegiare un certo tipo di studente, quello che riesce a imparare secondo modalità precise e prestabilite. Tuttavia, questo modello che ancora pervade la cultura didattica italiana è fallito.
Scarica lo speciale “Scuola: da 0 a 6 anni”
La mente dei bambini è come una spugna, Maria Montessori la definì infatti “la mente assorbente”, perché è caratterizzata da una grandissima plasticità neuronale che consente di assorbire ciò che riceve dall’ambiente circostante.
I bambini hanno il vantaggio di non essere ancora in grado di attivare, nei confronti di ciò che imparano, le forme di resistenza tipiche di ciò che Jean Piaget definisce il pensiero logico-razionale che arriva soltanto con la preadolescenza, e che consente a ciascuno di noi di ragionare sui nostri pensieri e quindi, eventualmente, di impedire a certe conoscenze di diventare parte del nostro patrimonio. Quindi, se il primo requisito per l’apprendimento è un ambiente favorevole e stimolante, la seconda è lasciare che il bambino faccia esperienza delle sue nuove conoscenze attraverso l’esplorazione pratica. Per imparare, infatti, ha la necessità fisiologica di sintonizzare le nuove conoscenze con quelle vecchie in suo possesso, e di avvicinarsi all’acquisizione di una competenza mettendo in gioco le proprie risorse.
Il processo di apprendimento è dunque un processo necessariamente lento e diverso per ognuno: può accadere che un alunno provi e riprovi, sbagli e, improvvisamente, capisca. Questi passaggi sono fondamentali ed è inutile, sconveniente, e spesso pericoloso, bloccarli continuamente con verifiche e valutazioni che definiscono ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è corretto o ciò che è scorretto.
Sbagliando si impara
L’efficacia di alcuni strumenti valutativi, come le Prove Invalsi, che ritengono di poter stabilire il livello dell’apprendimento innescando dinamiche competitive, non hanno alcun fondamento scientifico e dimenticano che, sostanzialmente, è proprio sbagliando che si impara.
Scarica lo speciale “Scuola: elementari e medie”
Inoltre, è importante tener presente che i bambini, più che dagli adulti, imparano dai coetanei. È il compagno, specialmente quello con una competenza leggermente superiore, che attiva l’imitazione permettendo ai bambini di riconoscersi in quello che è il loro potenziale di sviluppo: osservo un compagno che è in grado di disegnare un elefante e riconosco nella sua competenza anche un mio potenziale. Ci provo, magari sbagliando, ma alla fine ci riesco. Diversamente, può accadere che le competenze adulte siano troppo distanti dalle capacità cognitive infantili: il bambino cerca di adeguarsi, ma non impara.
Apprendere in gruppo, stimolare e attivare processi di interazione reciproca, anche conflittuale, consente lo sviluppo di dinamiche relazionali e sociali importantissime sul piano motivazionale, che favoriscono il successo didattico. Dunque, la competizione a scuola non soltanto è inutile, ma è anche molto dannosa.
Il compagno non è un avversario da battere
Come hanno dimostrato i più recenti studi neurobiologici e psicologici, alla base di un apprendimento efficace stanno processi che non c’entrano nulla con la competizione. Viceversa, la scuola efficace è quella che sa trasformare la classe in un laboratorio di interazione continua e sistematica fra i bambini, che lavorano, insieme, in funzione di un’esperienza concreta e condivisa. Questo metodo permette, attraverso la problematizzazione, di attraversare gli errori e utilizzarli ai fini dell’apprendimento, piuttosto che della competizione.
Purtroppo l’Italia, in modo particolare con la riforma Gelmini che ha riproposto i voti nella scuola primaria e addirittura la possibilità di essere bocciati sulla base di un’insufficienza numerica, è regredita in maniera significativa. Valutare continuamente con dei punteggi numerici quello che l’alunno sta facendo significa interferire in modo arbitrario con quel flusso mentale, cognitivo, ma anche sensoriale, grazie al quale il bambino acquisisce una competenza. Le valutazioni negative non producono alcun miglioramento nel rendimento scolastico, costituiscono soltanto una modalità punitiva e mortificante.
Se vogliamo una scuola diversa, una scuola dove i bambini innanzitutto stiano bene e collaborino nell’apprendere, dove non si scatenino prepotenza e prevaricazione, è necessario ridurre drasticamente le valutazioni. Per essere efficace, infatti, la valutazione deve essere evolutiva, ossia considerare gli alunni sulla base dei loro progressi graduali e non in maniera assoluta sulla base di test. Quello che importa non è verificare se un bambino conosca o meno un determinato contenuto in un dato momento, ma se il suo apprendimento sta procedendo e crescendo in maniera armonica.
La forza del gruppo
Una classe in grado di sostenere tutti i suoi alunni e di perseguire quello che dovrebbe essere il vero obiettivo della scuola, cioè l’apprendimento di tutti, richiede anche altri accorgimenti.
Non si può pensare di lavorare bene con gruppi superiori ai 25 alunni: le cosiddette “classi pollaio” non sono affatto funzionali all’apprendimento. L’ideale sarebbe lavorare con gruppi classe tra i 20 e i 25 alunni, perché la priorità per ogni insegnante deve essere quella di far funzionare la classe come gruppo. Quindi è importantissimo nei primi giorni di scuola costruire l’appartenenza al gruppo classe attraverso attività di carattere socio-affettivo che permettano agli alunni di riconoscersi tra loro, di costruire una coesione, un senso di appartenenza a una comune esperienza di apprendimento. In tal senso sono particolarmente utili le attività di ritualizzazione: all’inizio della giornata scolastica è importante dedicare un momento per ritrovarsi come gruppo; mantenere uno spazio per la gestione dei conflitti; scandire l’anno scolastico con momenti significativi e comuni (come la gita; lo spettacolo, la festa) in cui i bambini siano coinvolti in prima persona. Esistono poi molti altri accorgimenti, come per esempio disporre i banchi in modo tale che prevalga la possibilità per gli alunni di lavorare insieme, di comunicare, di confrontarsi.
Per concludere, un appello finale: non cercate la scuola dove far vincere i vostri figli. Cercate la scuola dove gli alunni collaborano per imparare assieme.
Il modello scolastico finlandese
Mentre l’Italia si affanna ad emanare il progetto di riforma della Buona Scuola, imperniata sulla triade competizione-valutazione-merito, la Finlandia si affretta a riformare la sua di scuola che, a dire il vero, godeva già di ottima salute. Il modello scolastico finlandese è infatti uno dei modelli scolastici più avanzati e più studiati al mondo. Il nuovo modello pedagogico, già partito da due anni e, secondo le stime, destinato a soppiantare completamente il vecchio entro il 2020, prevede la sostituzione delle classiche “materie” scolastiche con aree tematiche, o “argomenti” all’interno dei quali si affronta in modo trasversale lo studio di tutti gli aspetti che quel determinato tema coinvolge. Per esempio, gli studenti di alcuni licei finlandesi possono studiare “Unione Europea”, una materia che comprende principi basilari di economia, di storia degli stati e delle lingue che si parlano nelle nazioni dell’UE.
Scarica lo speciale “Scuola: da 0 a 6 anni”
La tradizionale lezione frontale, con il professore che spiega e gli alunni che ascoltano, finirà definitivamente nel dimenticatoio: gli studenti finlandesi verranno organizzati in piccoli gruppi che lavorano per affrontare problemi di diversa natura, facendo esperienza dei propri apprendimenti e lavorando insieme. La maggior parte degli insegnanti ha già ricevuto una formazione per poter lavorare secondo il nuovo modello scolastico e il governo finlandese si è impegnato a dare un incentivo economico a tutti gli insegnanti che aderiscono volontariamente a questo nuovo modello.
*
Daniele Novara
Pedagogista, Piacenza
Pedagogista, nato a Piacenza nel 1957, ha fondato e dirige il CPP (Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti). È docente del Master in Formazione Interculturale presso l’Università Cattolica di Milano. È responsabile scientifico della Scuola Genitori. Ogni mercoledì sera gioca a calcetto con gli amici, ama le trattorie, il buon vino e cantare in compagnia. Appassionato di arte e film appena ha un momento libero si intrufola in una mostra o al cinema.
È autore di numerosi libri, fra gli ultimi: Litigare con metodo. Gestire i litigi dei bambini a scuola, con C. Di Chio (Erickson, 2013); Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti per crescerli più sicuri e felici (BUR Rizzoli, 2014); Urlare non serve a nulla. Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita (BUR Rizzoli, 2014); È meglio dirsele. Saper litigare per una vita di coppia felice (BUR Rizzoli) in uscita a settembre 2015.
* Fonte: https://www.uppa.it/educazione/scuola/la-scuola-non-e-una-gara/, 10-2-2016 (ripresa parziale).
Il liceo romano che dice No
Alvaro Belardinelli *
Ancora una volta il Collegio dei docenti del Liceo classico statale “Terenzio Mamiani” di Roma ribadisce la propria opposizione alla legge 107 (la “Buona scuola”), e in particolare ai commi che trasformano il Comitato per la valutazione dei docenti in organo che mira a cancellare l’autonomia professionale del docente. Rifiuta la logica secondo cui, a definire i criteri per la “valorizzazione” dei Docenti, dovrebbe essere un organo in cui la componente docente sarebbe minoritaria, e in cui entrerebbero genitori, docenti e tecnici del Ministero, ossia persone non competenti in materia didattica. Rifiuta una concezione della scuola come un’azienda in competizione con altre aziende, ove il sapere diventa una merce, e in cui i soggetti meno liberi sarebbero proprio i docenti, che devono invece, per dettato costituzionale, insegnare e incarnare libertà di ricerca, di coscienza e di pensiero.
I docenti del Mamiani affermano con risolutezza la propria libertà d’insegnamento, forti anche dei risultati del proprio lavoro: risultati attestati persino da fonte non sospettabile di essere dalla loro parte (come una ricerca della Fondazione Agnelli). Al Mamiani ribadiscono che questi ottimi risultati, di cui vanno fieri, sono stati conseguiti grazie all’indipendenza intellettuale del loro collegio docente. Per questo non hanno accettato la validità di un Comitato di valutazione che un domani potrebbe costringere gli insegnanti a promuovere o bocciare secondo i desiderata del tecnico proveniente dal ministero, o del genitore che finanzi la scuola o di suo figlio. Insomma, la qualità della scuola pubblica non può essere subordinata a interessi estranei alla libertà di ricerca, di insegnamento e di apprendimento.
Inoltre, per il sesto anno consecutivo, il collegio dei docenti del noto liceo romano ha votato una delibera di non collaborazione alle prove Invalsi. In questi anni, il liceo non ha mai corretto i quiz Invalsi, non lo farà neanche quest’anno e auspica che altre scuole ritrovino la propria dignità.
TESTO DELLA DELIBERA SUL COMITATO DI VALUTAZIONE:
Il Collegio dei Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani”, nella seduta del 10/2/2016,
visto che la normativa sugli organi collegiali è tuttora vigente e che spetta comunque al Collegio dei Docenti eleggere eventualmente i membri del Comitato per la valutazione dei Docenti;
visto che per effetto del D.P.R. n. 275/99, e segnatamente degli artt. 3, 4, 5 e 6, tutti gli aspetti dell’attività didattica sono attribuiti all’autonomia delle istituzioni scolastiche e quindi sono di competenza degli organi collegiali della scuola (dove il Collegio dei Docenti costituisce il nostro “parlamento”)
visto che l’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 297/94 non impone alcun obbligo in materia al Collegio dei Docenti, e non lo espropria assolutamente - nel merito - del suo potere di discrezionalità;
considerato che il Collegio dei Docenti di questo Liceo intende proseguire nella propria legittima autodeterminazione anche rispetto all’intera LEGGE 13 luglio 2015, n. 107 (“Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” detto “La Buona Scuola”), nella difesa del valore costituzionale della Scuola Statale contro i pluriennali tentativi di privatizzarla de facto anche attraverso strumentali organi di valutazione per imbrigliare libertà di insegnamento e apprendimento (art. 33 Cost.) influenzando in questo i Docenti affinché non si impegnino a sviluppare quella capacità analitico-critica che è costituzionalmente affidata ai Docenti stessi;
DELIBERA
di non eleggere I PROPRI RAPPRESENTANTI NEL Comitato di Valutazione previsto dalla Legge 107/2015, al fine di invalidarlo, per protestare contro questa legge, distruttiva della libertà di coscienza e d’insegnamento, e contro i suoi ideatori, che mirano alla privatizzazione della Scuola Statale istituita dalla Costituzione. Precisiamo che, qualora il Comitato di Valutazione, in quanto “collegio perfetto”, venga comunque istituito senza la componente docente, esso sarà illegittimo se non ci saranno i membri eletti dal Collegio. Le sue decisioni saranno pertanto nulle, e gli altri suoi membri dovranno assumersi - a tutti i livelli - le responsabilità di queste decisioni.”
TESTO DELLA MOZIONE E DELLA DELIBERA SUI QUIZ INVALSI:
“MOZIONE E DELIBERA DEL COLLEGIO DEI DOCENTI DEL 10/2/2016 SUI TEST DELL’INVALSI
Sottratti dieci miliardi di euro ad un sistema scolastico nazionale già impoverito da decenni di cattiva gestione, continua la cosiddetta “riforma” della Scuola pubblica statale. Prossima tappa: la misurazione “obiettiva” della preparazione degli studenti italiani mediante la somministrazione dei test Invalsi (=quiz) di italiano e matematica nelle classi seconde e quinte delle Scuole Superiori, cercando di spacciare il tutto per “obbligatorio” (mediante la Nota 30 dicembre 2010, Prot. N. 3813). È un metodo di valutazione nel quale la maggioranza degli Insegnanti non ha finora mai creduto. Metodo buono per il conseguimento della patente di guida, non per saperi complessi quali quelli impartiti dai veri esperti della Scuola, che sono (ovviamente) i Docenti.
Per affibbiare ai Professori la responsabilità dei malfunzionamenti (veri o presunti) del sistema scolastico, sembrerebbe sport nazionale accusare i Docenti di trasmettere il proprio sapere in modo “troppo nozionistico”, “difficile”, “classista”, di non sapere interessare gli alunni, di non esser preparati nelle tecniche pedagogiche. Ritornelli per sparare nel mucchio, senza distinguo, accomunando tutti nella medesima condanna. Non stiamo qui a ripetere la nostra ferma critica ad una politica di denigrazione della scuola statale, che nonostante tutto, per la resistenza dei lavoratori della conoscenza che vi operano (in primis i Professori), resiste nella qualità e nella professionalità della formazione per mantenere alto il valore irrinunciabile della cultura in un paese civile e democratico. Pertanto qui ci limitiamo ad esprimere quanto meno il nostro disorientamento di fronte a questa sorta di quiz, i quali, benché considerati negli anni Sessanta e Settanta la panacea della valutazione, in effetti lasciavano cadere l’alto valore del pluralismo delle competenze e delle capacità, e con essi i saperi analitico-critici: saperi che certo non si misurano su pacchetti quantitativi (punteggio quiz). Non sarà piuttosto l’uso ideologico del test a prevalere? Non si profila piuttosto un ingabbiamento all’interno di pacchetti di conoscenze (nozioni) che vanno tutte nell’indirizzo del pensiero unico, del libro unico? Dell’insegnante a una dimensione e dello studente ad una dimensione?
La Scuola dà strumenti concettuali. Dà qualità nell’uso della ragione e nell’autonomia della ragione. Per questo l’articolo 33 della nostra Costituzione pone come non negoziabile libertà d’insegnamento e d’apprendimento. L’insegnamento è un’arte. Una techne, come la chiamavano i Greci, che educa ad essere padroni della propria mente.
Ma si pensa davvero che con test omologanti da Bolzano a Ragusa, da Lecce a Torino (in palese contraddizione, tra l’altro, con la svolta regionalistica che si vuole infliggere alla Scuola) nasca una scuola nuova? O non è piuttosto il tentativo reazionario di mettere le mani sull’ultimo baluardo di apertura mentale e di formazione di coscienza critica che proprio la Scuola dello Stato democratico rappresenta? Una scuola che ha bisogno di forti investimenti economici, mentre proprio in questo segmento nevralgico della democrazia si è deciso di risparmiare.
Adesso dopo i danni la beffa, perché i pochi soldi a disposizione (svariati milioni di euro) serviranno per somministrare le prove INVALSI, sui cui risultati - si faccia bene attenzione - si realizzerà la discriminazione dei docenti. I quiz INVALSI serviranno infatti per pagare di meno quel 25% di Professori i cui studenti “sanno” di meno, e dare una mancia di cento euro al mese in più al 25% di Docenti “più bravi”!
Unico e vero scopo dei test è allora dividere e gerarchizzare gli Insegnanti, limitando de facto la loro libertà d’insegnamento e di pensiero (garantita costituzionalmente de iure, è bene ricordarlo, dall’articolo 33 della Costituzione!).
Non possiamo accettare di essere valutati sull’unico parametro della capacità degli allievi di rispondere a quiz, in un Paese sempre più ignorante, con classi di trenta alunni, con la diminuzione delle ore di insegnamento di italiano nel Ginnasio e del tempo scuola nel suo complesso!
Accettando le prove Invalsi, accetteremmo progetti di “valutazione” di tipo anglosassone. Progetti in via di dismissione nei Paesi d’origine, se non altro perché hanno dimostrato tutta la propria inefficacia (come avevano del resto denunciato, al loro apparire, eminenti psicopedagogisti quale J. Piaget), perché addestrano: quasi si trattasse di ammaestrare un pilota a guidare un cacciabombardiere, anziché di educare a ragionare e ad apprendere.
Perché allora inseguire un modello che si è rivelato così fallimentare?
Siamo stanchi dell’ipocrisia ufficiale e del danno che questa ipocrisia infligge a tutta la società italiana, a cominciare dalla Scuola. Tutti i Colleghi devono aprire gli occhi su quanto sta accadendo. Siamo assolutamente contrari ai test dell’INVALSI, che spacciano per cultura ciò che di cultura neppure ha l’odore.
Non vogliamo, per l’alta concezione della professionalità docente che abbiamo, essere catene di montaggio di una pseudocultura sminuzzata e nozionistica attraverso prove di dis-valutazione. Nostro dovere di educatori è aiutare a sviluppare conoscenze, competenze e capacità nella bellezza della molteplicità degli ingegni umani, e delle possibilità di crescita e sviluppo a cui ogni studente ha diritto. Tutto questo in sintonia con quanto prevede la nostra Costituzione, che in particolare all’articolo 3 chiama lo Stato laico democratico repubblicano a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona.
Pertanto noi sottoscritti Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani” di Roma invitiamo tutti i nostri colleghi a rifiutarsi di somministrare i test INVALSI ed a pronunciarsi negativamente nei Collegi, ricordando che il Collegio dei Docenti ha potere deliberante in materia di program¬mazione didattica, e che esso può pertanto rifiutare l’adesione a tutto questo.
La necessaria delibera, risultato di una votazione, quindi, è la riprova della non obbligatorietà a subire questi quiz.
Di conseguenza il Collegio delibera oggi quanto segue:
Il Collegio dei Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani”, vista la richiesta del Ministero e dell’Invalsi di collaborazione da parte dei Docenti per lo svolgimento delle prossime prove Invalsi, delibera la propria non disponibilità a corrispondere alla collaborazione richiesta in quanto ritiene che le prove in questione siano avulse dalla funzione docente e dalla programmazione pedagogico-didattica dei singoli Docenti e del P.O.F.
Roma, 10/02/2016”
*
Salvatore Settis, la buona scuola non è buona. E le "competenze" non servono a niente
L’archeologo e storico dell’arte contesta l’indirizzo della scuola e dell’università di oggi. E difende gli insegnanti, l’ozio creativo, e la storia come riserva di possibilità per il futuro
di Bruno Giurato (LINKiesta, 7 Febbraio 2016)
Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un’altra storia, di cui abbiamo cercato di parlare nello speciale di questa settimana su Linkiesta).
Ma c’è un ma: siamo sicuri che sia la strada giusta? Sicuri di essere consegnati alle varie specializzazioni e alle tecnicità sia l’unico modello culturale sensato? «Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline si autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”» racconta a Linkiesta.it Salvatore Settis. Archeologo e storico dell’arte, già direttore della Normale di Pisa, dimessosi qualche anno fa dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali in polemica coi tagli alla Cultura del governo Berlusconi, Settis è ora in prima linea nella difesa di paesaggio e monumenti italiani. «Bisogna trovare un equilibrio tra lo specialismo e la visione generale - spiega -. La tendenza che si sta affermando nei sistemi educativi un po’ in tutto il mondo, ma in particolare in Italia è educare a “competenze” piuttosto che a “conoscenze”»
Fatti non fosti a viver come bruti, ma per seguir virtute et competenza?
Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando).
Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?
E poi non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza il dubbio. La scuola ci insegna delle cose, ma dovrebbe soprattutto insegnarci a dubitare di quello che essa stessa ci insegna.
E invece?
Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa.
A proposito di non-specialismi: quanto è stato importante per lei leggere disinteressatamente, senza un fine di studio. Così per piacere, e per avventura?
E’ essenziale per tutti. La curiosità intellettuale è il sale della formazione. Guai se uno dovesse leggere i libri o guardare i film che qualcuno gli ha ordinato di guardare o di leggere. Tutti inseguiamo delle curiosità senza scopo. E lo facciamo anche con gli esseri umani: se a una cena c’è una persona interessante ci parliamo. Così dobbiamo fare anche coi libri o con la formazione.
Cosa ne pensa degli slogan che erano cominciati con Berlusconi (“Inglese, impresa, internet”) e che proseguono con Renzi (“La buona scuola”)? L’uno e l’altro slogan sono stati usati in modo superficiale e cinico per sostituire la sostanza. L’etichetta del brandy di lusso mentre nella bottiglia c’è quello del discount. Stesso discorso per il nostro presidente del Consiglio che ama la “Narrazione”. Narrare (in altri termini: raccontare balle) per persuadere gli ingenui. Basta parlare con qualche professore per accorgersi che la cosiddetta “buona scuola” non è una scuola buona: sono in condizioni di grave difficoltà da tutti i punti di vista.
Ecco, al di là dei problemi di reclutamento e del trattamento economico. I professori ormai sono perennemente ingolfati di carte: schede di valutazione, moduli da riempire, piani formativi. Sembra quasi un controllo burocratico-contenutistico kafkiano sul loro lavoro. Cosa ne pensa?
Questo è un punto vitale, per tutte le categorie di professori: elementari, medie, superiori. E anche quelli universitari. E qui c’è un paradosso...
Ci dica...
La burocratizzazione del mondo avanza mentre gli stessi governanti continuano a dirci che stanno facendo una lotta dura e senza paura contro la burocrazia. Il fatto di dover riempire mille moduli, dover scrivere mille sciocchezze: è come se non ci si fidasse della responsabilità dell’essere umano. Un professore si giudica dai risultati, da come fa lezione agli allievi. Nel caso di un professore universitario c’è la ricerca. Che poi viene spesso valutata male.
Perché?
L’Amvur valuta gli articoli senza leggerli. Se esce in una cosiddetta rivista di serie A viene valutato bene, se no niente. E’ una sciocchezza: molti ottimi articoli specialistici escono in riviste di serie B o di serie C. Questo è un modo di ragionare che può uccidere la ricerca unversitaria
Si dice che gli insegnanti abbiano troppe vacanze, che ne pensa?
Il lavoro intellettuale non si può quantificare o conteggiare. Tra i famosi “otium” e “negotium” non c’è soluzione di continuità. Un insegnante non deve essere valutato in base alle ore che fa di lezioni frontali. Chi le prepara? E il tempo che uno ci mette a prepararle chi lo conteggia?
Eh, chi lo conteggia?
Nessuno lo può conteggiare, appunto. Ma si rende conto che col sistema assurdo dei crediti formativi all’università si pretende di conteggiare il tempo che ci vuole a imparare un certo libro? Magari un libro di cento pagine io lo posso imparare in due ore e lei in mezz’ora. Abbiamo un sistema di valutazione che mortifica la diversità tra gli esseri umani. Valutare in base alle ore presunte è una solenne sciocchezza. Questa è la vera perversione che sta facendo danni enormi, e ne farà sempre di più.
Va per la maggiore un modello culturale, un paradigma tecnico-scientificizzante, 2.0, 3.0, 4.0 secondo cui il passato è qualcosa di evitabile. E’ inutile. Sono “nevi dell’anno scorso” come diceva Francois Villon. Ecco, professor Settis: a cosa serve il passato?
Il passato delle comunità, cioè la Storia, serve esattamente alla stessa cosa a cui serve il passato dell’individuo. A quelli che dicono che il passato non serve a nulla vorrei proporre di essere sottoposti all’espianto del proprio cervello, in modo che non sappiano più chi sono, chi sono i genitori, cosa hanno fatto prima. Il nostro presente, le parole che usiamo anche per fare conversazione, ora, vengono dal nostro passato. Anzi da un passato che non è solo in nostro: noi due in questo momento stiamo parlando in una forma molto modificata di latino. La realtà è costruzione del futuro nel presente usando ingredienti che vengono dal passato. Se ignoriamo questo siamo culturalmente morti.
Il passato non è nostalgia o atteggiamento reazionario, ma è una forza critica per non essere schiacciati dalle ideologie, per non finire come “generazioni di neoprimitivi” di cui cantava Battiato in Shock in my town?
Pierpaolo Pasolini usava una formula bellissima: “La forza rivoluzionaria del passato”. E’ un serbatoio di possibilità, di idee. Capiamo che c’erano in Toscana delle città stato, e a un certo punto Firenze si è imposta ed è diventa la capitale del Granducato. Ma non è impensabile che si imponessero altre famiglie sui Medici, e magari venisse fuori un granducato con capitale Siena, o Pistoia, o Pisa. Dante ha finito la Commedia ma poteva non finirla.
Trovare le possibilità inespresse in quello che è successo, per proporre qualcosa di diverso nel presente?
Il passato ci svela le alternative. E’ la possibilità di vedere il mondo sulla base di una visione laica e generosa della società.
Isadora Duncan ha inventato i suoi passi di danza guardando i dipinti vascolari greci. Lei, che non balla, ma fa l’archeologo e lo studioso, ha allestito una mostra di arte antica alla Fondazione Prada. Più che la conoscenza puntuale di una serie di procedure e strumenti già pronti serve immergersi in quello che la storia ha suggerito senza svelarlo del tutto?
Ho cercato di rispondere all’invito di Miuccia Prada con una mostra di arte antica su un tema contemporaneo: la serialità. Sono arrivati artisti contemporanei convinti che l’arte antica non potesse dire più nulla, ed erano stupiti di come queste statue ancora abbiano da dire. Usiamo in continuazione ingredienti che arrivano dal passato anche se non ce ne accorgiamo. Il passato è libertà.
LA MEMORIA COME ATTO
di David Bidussa *
C’è una crisi dell’Europa.
Dubito che nei ventiquattro anni (era il 7 febbraio 1992, una data che non è entrata nel calendario europeo) che ci separano da Maastricht sia nata l’Europa. A dire la verità all’inizio abbiamo provato a misurarci con l’idea di fondare un’identità continentale e per dire che facevamo sul serio abbiamo persino provato a darci un calendario civile e a sceglierci una data che parlasse per noi al futuro.
Volevamo fortemente il futuro e soprattutto non volevamo che si ripetesse il passato. Per questo la prima e unica data che ci siamo dati è stato il 27 gennaio, il “giorno della memoria”, pensato all’inizio del 2000. Perché è stata scelta quella data? Perché non era una data nazionale, non ricordava nessuna vittoria. Ma funzionava come un canone: diceva che indietro non si tornava. Che il passato stava alle spalle. Era una data metafisica ed era una data che voleva parlare al futuro. Ma non è mai riuscita a parlare la lingua del futuro, perché si è proposta come sguardo al passato.
Molti pensano il 27 gennaio come una data riparatrice, o come una data “di penitenza”. Indubbiamente nell’evento ricordato c’è questo. La scelta di quella data voleva guadare al millennio che si apriva. Non a quello da cui stavamo per congedarci. Il Giorno della memoria - il 27 gennaio - non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza ogni paese ha una sua data nel proprio calendario pubblico (noi abbiamo il 2 novembre). Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato. È l’evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre “potenzialità”.
Il 27 gennaio non è il giorno in cui gli ebrei ricordano la Shoah (quello è il 27 di Nissan la data nel lunario ebraico che segna l’inizio della rivolta del ghetto di Varsavia, che cade in una data variabile del nostro calendario tra la seconda metà di aprile e i primi di maggio) ma riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Per questo proporla come data nel calendario civile europeo significava pensarla come un patto per il futuro.
E chiamare quella data “giorno della memoria” non voleva dire pensare in termini di passato, ma in termini di futuro. Può sembrare contraddittorio affermare che la memoria riguarda il futuro, ma è logico.
La memoria non è un fatto. È un atto. Un atto che si compie tra vivi, volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica. Per questo ha un valore pragmatico. Ossia serve per fare qualcosa (altrimenti è una commemorazione). E’ un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire oggi in relazione a un domani che si intende costruire. Non volere quel passato non significa riscriverlo, ma impegnarsi per un altro futuro.
È ancora così? Oppure come ieri a Varsavia, o a Budapest o a Sarajevo, o a Srebrenica e oggi a Kobane, il nostro sguardo racconta l’indifferenza?
David Bidussa
*
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (25/01/2016).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Quinto Stato
Un altro genere di paese: educare alle differenze nella scuola pubblica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.1.2016)
Storia di un movimento che lavora con le maestre per contrastare la violenza di genere, il bullismo omofobico e vuole un’istruzione universale per tutti. La Cei e il Vaticano lo contrastano e hanno lanciato la crociata contro l’inesistente «teoria del gender»
***
Un altro genere di educazione. È il motto della rete «Educare alle differenze» composta da 250 associazioni che lavorano con le maestre nelle scuole per superare gli stereotipi di genere, contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico tra i bambini. Giunto al terzo anno di vita, «Educare alle differenze» oggi è un network composto da docenti universitari, attivisti/e Lgbtqi, case editrici, educatori e assistenti sociali, associazioni impegnate in programmi che coinvolgono gli enti locali. Insieme cercano di colmare le lacune formative e i vuoti normativi presenti nella scuola italiana quando si parla di sessualità o di parità tra i sessi.
In attesa di organizzare il terzo incontro nazionale a Roma, promosso dalle associazioni Scosse (Roma), Stonewall (Siracusa), Il Progetto Alice (Bologna), la rete intende diventare un’interlocutore del ministero dell’Istruzione nella scrittura delle linee guida sulla prevenzione della violenza di genere e l’educazione alla parità tra i sessi prevista dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013.
La sua storia ricorda da vicino quella dei movimenti che sin dagli anni Sessanta hanno cambiato i costumi e le metodologie di insegnamento della scuola pubblica. A sostegno di questo obiettivo sono stati pubblicati materiali didattici che sono diventati una consuetudine negli istituti, da Nord a Sud. Ne ricordiamo due, che hanno prodotto scandalo, campagne di diffamazione e vere e proprie censure da parte della Cei, di sindaci e di politici nazionali: gli opuscoli contro l’omofobia realizzati dall’istituto A. T. Beck per l’Unar e destinati agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie e i 49 titoli contro il razzismo e la discriminazione sessuale dell’iniziativa «Leggere senza stereotipi» promossa dalla consigliera comunale di Venezia Camilla Seibezzi e censurata dal sindaco Luigi Brugnano.
In un biennio, questo movimento in formazione si è trovato ad affrontare una violentissima campagna politica, orchestrata dalle gerarchie vaticane e agita da movimenti reazionari che continuano a sfregiare il senso dell’educazione alle differenze, contro il sessismo e le violenze di genere inventando un nemico fantomatico: la cosiddetta «teoria del gender».
Il colpo di partenza lo diede papa Ratzinger in un discorso del 21 dicembre 2012 in cui condannò la «nuova filosofia della sessualità» espressa dal «lemma gender». Secondo il fine teologo tale «filosofia» contraddice il racconto biblico della creazione. L’essere umano è creato da Dio «come maschio e come femmina». A questa teoria della «famiglia naturale» e della genitorialità biologica, che nega ogni storicità e cambiamento nelle convivenze e nelle relazioni affettive, sono ispirati vademecum, family day e i whatsapp dei gruppi dei genitori.
Una strategia basata su psicosi mediatica e complottismo - due armi fondamentali all’epoca di internet che vantano illustri antenati nella caccia alle streghe - per la quale la rete «Educare alle differenze» starebbe trasformando la scuola in un «campo di rieducazione» che sforna soldati in difesa della «dittatura del gender», in altre parole un’inesistente educazione all’omosessualità. Non lo ha detto un utente qualsiasi di Facebook, ma il capo dei vescovi italiani della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco il 24 marzo 2014.
A questa diffamazione, basata su un pregiudizio ideologico, il movimento dell’educazione alle differenze risponde così: «Il genere - si legge nel report dell’incontro nazionale della rete del 2015 - è un sistema di pratiche sociali e culturali che assegnano ruoli, potere, funzioni e opportunità diverse agli individui in base al loro sesso di nascita e al loro orientamento sessuale». Il «genere esiste eccome e produce ingiustizie e sofferenze sul piano individuale e sociale». I programmi educativi servono «per decostruire gli stereotipi e offrire strade di libertà agli studenti».
La ragione di fondo della controffensiva omofobica sta nell’attacco all’istruzione pubblica e laica finalizzata alla creazione di un’egemonia. In Italia, la resistenza politico-culturale e l’affermazione di una «cittadinanza democratica» passano anche dall’educazione alle differenze.
Il filo della memoria
di Rosaria Gasparro *
(comune-info, 25 gennaio 2016)
L’alfabeto della Memoria
A come aiuto!
Ad Auschwitz non voglio andare!
Non voglio essere ammazzato
non voglio essere annientato.
Non avranno la mia anima.
ARBEIT MACHT FREI:
non è vero,
il lavoro non rende liberi gli ebrei
ma ci scava l’abisso.
B come basta con questa barbarie,
dov’è finita la bontà?
Partivano dal binario 21
forse non se n’è salvato nessuno.
A Birkenau e a Buchenwald
c’erano belve con la faccia da uomo,
i bambini nelle baracche di notte
avevano le speranze rotte.
C come ciao casa,
chissà se ti rivedrò.
Né cibo né carezze né calore,
nel campo di concentramento
si è perso il cuore.
I miei capelli tagliati per terra
anche questa è la guerra.
Lo so non crescerò
non arriverò a maggio,
mi hanno detto delle camere a gas
ed io prego il Dio del coraggio.
Passerò davvero in un camino
anche se sono un bambino?
D come Dio dov’è?
Perché non è qui con me?
A Dachau sono deportato
e da tutti disprezzato.
Qui è tutto disumano
dolore e distruzione
un’unica disperazione.
Nelle docce
delle donne sono entrate
e non sono più ritornate.
Ogni diritto è cancellato
e il mio diario è bruciato.
Tutto muore ma non il desiderio
di essere liberato.
E come eccomi:
sono ebreo,
mi chiamano anche giudeo.
Un essere umano come te
come puoi fare gli esperimenti
su di me?
F come figlio
alla sua famiglia strappato
e chiuso dietro ad un filo spinato,
nel fango con la fame e il freddo
qualcuno viene fucilato.
Führer chiamano il loro capo
e nel forno crematorio
milioni ne hanno bruciato.
Nel fumo denso che saliva
la gente in silenzio moriva.
G come Giornata della Memoria
per ricordare ciò che è accaduto
nella seconda guerra mondiale
quando grande fu il male.
Per ricordare che nessuno
va chiuso in un ghetto,
nessuno strappato al suo tetto.
Che la Gestapo
tanta gente arrestava
e che un genocidio
la Germania preparava.
Giudei e gitani
ebbero la stessa sorte,
alcuni “giusti”
li salvarono dalla morte.
H come di Hitler ho paura!
Come gli handicappati eliminati
per questa rovina della razza pura.
Help me!
I come chi ha fatto l’indifferente
chi non si interessava di niente,
chi ignorava ciò che accadeva
l’ingiustizia che si commetteva.
Internati e in isolamento
io, tu, lei a cento a cento.
Un incubo tremendo
le nostre identità nel vento.
Indicibile.
Inverno
inferno.
L come le leggi razziali
che mi hanno cancellato
come le lacrime che ho versato
come le lettere che ho scritto.
Chiuso nel lager con i lavori forzati
e poi la liberazione degli alleati.
M come matricola 34796
ma tu mamma dove sei?
Vieni, prendimi per mano
chiamami per nome piano piano.
Hans, Magdala, Amos, Edna, Daniel...
Lot, Marisha, Isaac, Sarah, Rah’el...
La Memoria di chi siamo
chiamateci
e per un po’ viviamo.
N è il mio nome che si presero
il numero che mi lasciarono.
Avevamo un nascondiglio
ci trovarono, non era per gioco.
Qui la notte è nera e lunga
non vedono i nostri occhi tristi
cade la neve e urlano i nazisti.
“Numi numi nim”
Fai la ninna, fai la nanna
canta canta la mia mamma,
prendo forza dalle sue parole
scivola dentro un goccio di sole.
Qualcuno un giorno negherà...
O come orchestra
ma qui non c’è festa.
In ogni campo ce n’è una
copre il suono della sfortuna.
Un’orchestra piccolina
per placare la paura.
Per chi scende dai treni
per coprire i suoni della morte
dolci e amare sono le note.
L’orrore suona più forte
il suo concerto d’odio
e non è ancora esausto
in diretta c’è l’olocausto.
P come prigionieri,
come popolo da perseguitare,
non solo l’ebraico
anche il popolo del vento
volevano eliminare.
Porrajmos, divoramento,
lo diciamo.
P come propaganda
di un popolo superiore
e di un altro inferiore.
Q come Questo è stato,
meditate...
«Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore».
(Primo Levi)
R come rastrellamento
siamo stati catturati in un momento,
requisiti gli oggetti e i beni personali
si sono scordati di essere umani.
La razza è una menzogna
ci mette contro ed è una vergogna.
R come ricordo di quella violenza
a cui si oppose la resistenza.
S come stella a sei punte:
la storia di sei milioni
di stelle rubate al cielo
e spente sul petto
di donne, bambini,
uomini, anziani.
Esclusi dalle scuole
catturati dalle SS
portati nei campi di sterminio
per la selezione
e la soluzione finale.
Un grande silenzio.
Questa è stata la shoah.
S come Shalom aleikem.
T come treni merci
al posto del bestiame
T come Terezin
il campo dei bambin
T come terrore
come tremore
come tatuaggio
sul braccio
T come triangoli colorati
per essere distinti
e comunque maltrattati:
rosso, verde, rosa,
marrone, blu, nero...
E questo è tutto vero.
Quello dei Testimoni di Geova
era del colore delle viole
e non c’erano più parole.
U come uomini...
ma che uomini sono
se umiliano i loro fratelli
se li considerano nemici
se li offendono
se li uccidono?
Che storia è questa qua
che distrugge l’umanità?
V come le valigie che lasciammo
come i vagoni su cui viaggiammo
come i vestiti tolti
come i nostri pallidi volti
come le vittime che diventammo.
Erano ebrei novanta su cento
la loro verità viaggia nel vento.
Un violino suona nel tempo
della vita il valzer lento.
Z come zingari,
rom e sinti,
senza zuppa
con la zappa
senza una zolletta
di zucchero.
In cinquecentomila
li misero in fila
a morire di sicuro
con lo Zyklon B,
gas a base di cianuro.
* maestra
"QUI, QUA, Quo!": "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE. Note su "Quo vado? (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Checco Zalone)->":
La commedia del comico pugliese supera i 52 milioni di euro di incassi. Ripercorriamo alcuni momenti del film
di Simona Santoni *
Checco Zalone supera Checco Zalone. Ad oggi e in soli 12 giorni Quo vado?, di cui il comico pugliese è sceneggiatore e pieno mattatore, diretto da Gennaro Nunziante, ha superato i 52 milioni di euro di incassi, soglia che era stata sfiorata dal suo precedente Sole a catinelle (fino a ieri il secondo maggior incasso italiano di sempre dopo i 67,7 milioni di Avatar).
I motivi del successo di Quo vado? abbiamo cercato di analizzarli qui. Tanto va alla simpatia di Zalone e alla sua cinica capacità (più o meno scontata) di ritrarre i difetti degli italiani. Ai numeri record avranno però contribuito anche l’invasione delle sale cinematografiche (il film è stato distribuito in oltre mille copie, affollando anche i cinema più piccoli di solito riservati a film d’essai) e l’immotivata maggiorazione dei prezzi del biglietto (un esempio? 9 euro anziché 8,20 nella sala Uci Cinema di Jesi).
Ma... "ce ne fossero tanti che incassano come Zalone!", come ha detto Giuseppe Tornatore presentando il suo nuovo film La corrispondenza.
Ripercorrendo Quo vado?, ecco le 10 battute che ci hanno fatto ridere o sorridere di più (con ovvio rischio di spoiler):
1) Checco (ovvero Luca Medici in arte Checco Zalone), di fronte alla riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province e mina il suo fantomatico posto fisso, si reca a Roma al Ministero per ridefinire la sua posizione. Entra in un ufficio dove ci sono due scrivanie, una occupata da un signore, l’altra da una signora, e si avvicina a quella con l’uomo.
L’uomo alla scrivania: "Deve conferire con la dottoressa".
Checco: "Ho visto che era femmina, ho detto ’è la segretaria’".
Dottoressa Sironi: "E invece sono la dirigente".
Checco: "E tu segretario? ’Do caz’ siamo arrivati!".
2) La dottoressa Sironi (Sonia Bergamesco) spedisce Checco a lavorare nei posti più impensati d’Italia, per indurlo a dimettersi, ma lui ha un estremo spirito di adattamento. Dalla Sardegna chiama Fanelli, il suo ex superiore, per raccontargli del nuovo lavoro.
Checco: "Fanelli, sto da Dio! Praticamente i colleghi mi hanno organizzato questo trattamento che se c’è da fare una cosa, anche una fotocopia, ti dicono ’no, tu non sei capace, lo deve fare il tuo collega’. Come si chiama?".
Fanelli: "Il mobbing...".
Checco: "Il mobbing! Fanelli, come mi rilassa".
3) Trasferito al Polo Nord, accanto alla ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), Checco viene aggiornato sullo stato di salute dell’orso polare. Il krill, una delle più grandi fonti alimentari dell’oceano, purtroppo è sempre più inquinato e Valeria e il suo socio Massimo sono preoccupati. Checco non capisce.
Massimo: "Di krill chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di una foca).
Checco: "Le foche".
Massimo: "E di foche chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di un orso polare, sotto cui è affissa la foto del presidente della Repubblica).
Checco: "Mattarella?".
4) Checco è innamorato di Valeria, che lo invita nella sua abitazione norvegese per il weekend. Qui Checco scopre che Valeria è una donna molto aperta. Gli fa vedere un album fotografico: in ogni missione in giro per il mondo ha stretto relazioni con ragazzi autoctoni e da ognuno ha avuto un bambino (ha un figlio di colore, una di origini filippine, uno biondissimo norvegese). Sfogliando l’album gli mostra anche una sua precedente fidanzata. Checco rimane basito e continua a sfogliare da solo l’album, finendo tra tante immagini di cavalli. Valeria intanto da un’altra stanza lo chiama.
Checco: "Sì, finisco il periodo equino e vengo".
5) Prima di mettersi a tavola, a casa di Valeria, è di rito la preghiera. Ogni figlio di origini etniche diverse intona a turno una sua preghiera. Quando tocca al più piccolo, il biondissmo norvegese: