L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA (ART. 1),
UNA E INDIVISIBILE (ART. 5).
LA SUA BANDIERA E’ IL TRICOLORE (ART. 12) ...
E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ IL CAPO DELLO STATO E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE (ART. 87)
Federico La Sala (22.02.2011)
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. .. *
Il caso e la necessità. Come la pandemia migliora l’esame di maturità
di Giovanni Pellegrini ("Le parole e le cose", 22 marzo 2021)
La strada è quella giusta, ma chissà se è una strada! Come quasi sempre nelle cose di scuola, il cuore dell’impero promulga editti sensati o addirittura - oso utilizzare il termine - ragionevoli, in maniera quasi-casuale e quasi solo sotto la pressione della necessità.
Sto parlando dell’Ordinanza ministeriale del 3 marzo 2021 sull’esame di Stato del secondo ciclo, a partire dalla quale vorrei sviluppare qualche riflessione.
Intanto chiariamo subito che, nonostante l’apparenza determinata dal fatto che gran parte del testo è l’esatta fotocopia di quello dello scorso anno, l’ordinanza non è identica alla sua precedente e, soprattutto, non disegna affatto un esame dello stesso tipo. Certo non ci sono gli scritti e al centro dell’unica prova orale c’è ancora quella che, inevitabilmente ma molto impropriamente, abbiamo già iniziato a ri-chiamare “tesina”.
Tuttavia il modo in cui viene normato il colloquio e in particolare il modo in cui viene disegnato “l’elaborato” che gli alunni dovranno presentare sono decisamente migliori.
1. L’elaborato deve “concernere le discipline caratterizzanti [...] ed essere integrato, in una prospettiva multidisciplinare, dagli apporti di altre discipline o competenze individuali [...]”. Sono dunque novità (rispetto all’ordinanza dello scorso anno) sia l’esplicito riferimento all’apporto di altre discipline, sia l’assenza dell’assurda possibilità di “assegnare a tutti i candidati uno stesso argomento che si presti a uno svolgimento fortemente personalizzato”. Su questo punto la redazione della vecchia norma aveva lasciato campo libero al consueto esercizio ministeriale sul nulla, visto che è del tutto evidente che due elaborati sullo stesso tema, in quanto frutto di un lavoro di ricerca svolto da alunni diversi, cioè con riferimenti e approcci diversi, sono a tutti gli effetti elaborati diversi. È quindi ovvio che può essere assegnato anche a più di un alunno lo stesso argomento di partenza. Non c’è né da consigliare né da vietare nulla. E, soprattutto, non c’è alcun bisogno di insegnare agli insegnanti come si fa il lavoro dell’insegnante. Precisare serviva solo a favorire il disimpegno dei Consigli di Classe che potevano quindi serenamente assegnare un unico argomento a tutta la classe, e chi s’è visto s’è visto. Quest’anno ci ha poi pensato l’infaticabile Max Bruschi, nella nota di chiarimento all’ordinanza, a ripristinare un adeguato tasso di non senso. Come spesso accade il buon Bruschi ha perso una buona occasione per tacere. Ma - per nostra fortuna - esiste la gerarchia delle fonti e quindi la nota di Bruschi può e deve essere rapidamente consegnata all’irrilevanza che merita.
2. L’argomento dell’elaborato “è assegnato a ciascun candidato dal consiglio di classe, tenendo conto del percorso personale, su indicazione dei docenti delle discipline caratterizzanti” mentre lo scorso anno, del Consiglio non si faceva alcuna menzione e tutto sembrava lasciato alla relazione fra gli alunni e il docente delle materie di indirizzo. Esattamente come lo scorso anno, invece e in teoria, gli alunni potrebbero anche non avere alcuna voce in capitolo nella scelta. Il che è, al tempo stesso, ovvio ed ottimo. È del tutto evidente che è assolutamente sensato che i docenti invitino gli alunni a proporre un tema/argomento/testo da cui partire e su cui lavorare; ma la definizione dell’argomento è una ovvia prerogativa dei docenti.
3. La cosa più seria e più promettente è la questione dei tutoraggi. Certo è “promettente” anche nel senso che promette di costringerci a un lavoro faticoso ed impegnativo; tuttavia lo fa in modo sensato e con equilibrio. Qualunque percorso di ricerca e di approfondimento (ma anche solo la produzione di una riflessione pubblica) esige confronto e discussione con uno o più interlocutori che fanno osservazioni e che quindi orientano la produzione. Nell’editoria si chiama “referaggio” e di questo dialogo non può fare a meno neppure il ricercatore che si muova ai più avanzati livelli scientifici della sua disciplina. L’argomento secondo cui “gli alunni devono fare da soli” e sulla cui base, nei tanti anni dell’esame con “le tesine”, troppo spesso i docenti si sono sottratti al loro compito di maestri, ha costituito una catastrofica latitanza ed è stato l’architrave della costruzione di una parodia ridicola del vero apprendere e del vero ricercare. I non pochi che hanno tentato di opporsi lo hanno fatto al prezzo di enormi sacrifici individuali in termini di carico di lavoro, e con nessun risultato a livello di sistema.
L’ordinanza del ministro Bianchi fa giustizia di questo triste passato mettendo nero su bianco che il compito di tutoraggio è un compito che spetta all’intero Consiglio di Classe o, almeno (e questo secondo me è un limite), ai docenti “designati per far parte delle sottocommissioni”. Ovviamente questa necessaria chiarezza porta con sé una serie di problemi non solo organizzativi. Come scegliere i tutores per ciascun alunno? Alla base della scelta devono esserci esclusivamente le competenze disciplinari oggetto dell’elaborato? Come può un docente di matematica e fisica svolgere un ruolo di tutoraggio per un elaborato che sviluppa il tema del rapporto fra “legge umana e legge divina” a partire da un brano dell’Antigone o, per converso, come può un docente di latino interloquire produttivamente con un suo alunno su un elaborato che sviluppa una riflessione sui modi di risolvere le equazioni differenziali?
Le soluzioni per questi problemi, che non sono affatto meramente organizzativi ma didattici e persino autenticamente teorici, potranno essere trovate percorrendo strade diverse e alcune soluzioni si riveleranno, certo, migliori di altre. Difficile dire una parola univoca prima di essersi messi alla prova. Ma in generale credo si debba partire dal fatto che una produzione scritta, anche quella più tecnica e formalizzata, deve essere scritta - almeno in parte - in lingua italiana. E l’insegnamento dell’uso della lingua non è una competenza esclusiva del titolare dell’insegnante di italiano. La chiarezza espositiva, l’efficacia comunicativa, la correttezza formale della redazione, il rispetto delle consegne relativa a limiti d’ampiezza e struttura di un elaborato, devono essere prese in carico da docenti di ogni disciplina.
Per come la vedo io ciò cui bisogna puntare è un sistematico lavoro di collaborazione fra i docenti del consiglio di classe. Ciascun docente avrà un numero di alunni di cui sarà il tutor formale, ma poi gli alunni si rapporteranno con i docenti delle discipline che sono coinvolte nella loro produzione e che - forse è il caso di ribadirlo - non devono assolutamente essere tutte le discipline presenti nella commissione d’esame, pena la trasformazione dell’elaborato nell’arlecchinata che troppo spesso sono state le vecchie “tesine”. Ma fra il referee e il consulente disciplinare c’è una differenza essenziale. Sono due lavori diversi, ma altrettanto necessari e altrettanto importanti, soprattutto se i docenti in questione collaborano in un vero dialogo fra loro e con l’allievo.
Si poteva fare meglio? Sì, secondo me si poteva fare meglio, ad esempio disegnando il sistema dei tutoraggi su base di Istituto, coinvolgendo più che i Consigli di Classe i Dipartimenti disciplinari. Forse in questo modo almeno alcuni dei problemi legati alla ripartizione del lavoro e alla assegnazione dei tutores si sarebbe potuta risolvere meglio. Ma a parte l’aspetto organizzativo a me sarebbe parso un enorme guadagno in termini formativi il fatto che un alunno, nel produrre un elaborato in vista di una prova d’esame, avesse avuto la possibilità di relazionarsi con docenti diversi da quelli della sua classe.
Anche i tempi assegnati potevano essere pensati meglio. Intraprendere un lavoro del genere richiede, ad alunni e docenti, molto più tempo di quello previsto dall’ordinanza. Qui - probabilmente - l’emergenza e il cambio di governo hanno giocato a sfavore della ragionevolezza che suggerirebbe di fissare come data limite per la scelta di un argomento su cui iniziare un lavoro di serio approfondimento, il 15 Gennaio e non il 30 Aprile. Per rimediare sarebbe necessario anticipare il più possibile la definizione degli argomenti assegnati e la scelta dei tutores. A questo punto si dovrebbe pensare a compensare questa eccessiva restrizione dei tempi disponendo formalmente che almeno i docenti presenti in commissione, e almeno nell’ultimo mese di lezioni, non effettuino alcuna verifica formale nella loro disciplina; magari prendendo in considerazione la possibilità di valutare disciplinarmente lo stato di avanzamento del lavoro.
Su questo, anche per chi è animato come me da incrollabile ottimismo della volontà, le speranze sono davvero poche. Me lo ha fatto notare una alunna che, mentre ragionavamo in classe di queste cose, mi ha detto sul muso “prof., lei davvero è più idealista di Hegel”! Il vecchio prof., che si sente hegeliano dentro, è stato lusingato ma l’osservazione è dannatamente seria.
In conclusione una parola a tutti coloro per cui “l’esame è una finzione inutile e va abolito”. Un colloquio d’esame di questo tipo, anzi ancora più radicalmente centrato sulla discussione di un elaborato prodotto dal candidato, costituisce un’ottima prova d’esame perché lega il momento della verifica finale alla valutazione della autonomia di lavoro del candidato e alla sua determinazione nello svolgere un serio percorso di approfondimento. E lo è molto di più senza la pletorica presenza degli scritti disciplinari, che restano certo uno strumento essenziale per la valutazione di conoscenze e competenze ma che sono uno strumento a disposizione dei docenti per tutto il curricolo. È sulla base di quelle prove scritte che viene formulata la valutazione annuale. Non c’è alcuna ragione perché essi diventino il centro dell’esame finale. Un colloquio d’esame di questo tipo dovrebbe semmai essere moltiplicato e costituire, a differenti livelli di complessità, una prova d’esame per l’ammissione al successivo anno di corso, magari abbinato alla introduzione di quelle ripetenze disciplinari che consentirebbero ai docenti di segnalare le gravi insufficienze senza bocciare in tutte le discipline e agli alunni di non drammatizzare un esito negativo che non deve essere vissuto come un fallimento.
Chissà se la strada giusta sarà una strada e non solo la casuale risposta a una necessità dettata dalla pandemia. Solo nel caso in cui si tratti dell’inizio di un cammino destinato a durare avremo tempo per sperimentare e trovare soluzioni ancora più coerenti con il nostro compito di maestri.
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NOTA:
LA PANDEMIA, L’ESAME DI MATURITÀ, E LO STATO DI COSE PRESENTE. LA CRITICA DI UN’ALUNNA AD UN “VECCHIO PROF, CHE SI SENTE HEGELIANO DENTRO” ... *
CHIARISSIMO PROF. PELLEGRINI, A LIVELLO FILOSOFICO E , INSIEME, ALLA LUCE DELLA DICHIARAZIONE STRATEGICA DEL GOVERNO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, MARIO DRAGHI, RELATIVA ALLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONALE ( “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge”), NON LASCEREI “CADERE” QUESTA OSSERVAZIONE “DANNATAMENTE SERIA” .
Perché ciò non avvenga, forse, potrebbe essere utile accogliere le riflessioni fatte da Francesca Rigotti nel suo recente intervento dedicato proprio al tema “Donne al futuro” (Doppiozero, 20 marzo 2021: https://www.doppiozero.com/materiali/donne-al-futuro), portarsi fuori dal letargo istituzionale di una antropologia ancora zoppa e cieca (hegeliana) e rendere possibile alle alunne e agli alunni una *reale* uscita (come chiaramente indica l’ art. 3 della *Costituzione*) dallo “stato di minorità”. Avere il coraggio di dire ai nostri giovani e alle nostre giovani che sono tutti *sovrani* e tutte *sovrane* non è che l’altro lato dell’avere il coraggio di servirsi della propria personale intelligenza.... O no?!
Istruzione
I 150 anni della Montessori ci ricordano che è ora di un dibattito serio sulla scuola
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra un agghiacciante silenzio, e l’emergenza coronavirus non c’entra
di Lucio d’Alessandro *
Ricorrono il 31 agosto i 150 anni dalla nascita di una delle donne italiane di maggior fama internazionale. Scuole ispirate al metodo di Maria Montessori (1870-1952) sono, ancora oggi, presenti in molti Paesi del mondo, così come molti furono gli Stati che, dopo la sua rottura con il fascismo con il quale inizialmente aveva collaborato, l’accolsero trionfalmente, dagli Usa all’India ai Paesi Bassi, fino al Ghana che, appena dopo l’approvazione della sua Costituzione (1951) e in vista della definitiva indipendenza, le chiese di organizzare la Scuola della nascente Repubblica: ormai ultraottantenne ma indomita, la Montessori accettò. La morte la colse poco dopo a Noordwijk, in Olanda, dove visse gli ultimi anni.
L’anniversario coincide con l’anno nel quale il tema della scuola domina il dibattito pubblico come mai prima nell’intera storia repubblicana, fino al punto che un Governo rivelatosi finora immarcescibile sembra sospeso alle sorti della riapertura, in condizioni di migliore o peggiore agibilità, dell’anno scolastico ormai alle porte. Tuttavia, nessuno si inganni: si tratta di una mera coincidenza. Non solo perché, notoriamente, la pedagogia montessoriana si basava sulla libertà di “movimento” anche in aula degli studenti, mentre sotto le attuali lune pandemiche i vari comitati consigliano piuttosto di tenerli legati ai banchi, sia pure, in qualche caso, con comodo di rotelle.
Invero, l’ispirazione post-risorgimentale e sociale della Montessori, come quella di De Amicis o quella risorgimentale e femminile di Adelaide Pignatelli, fondatrice dell’Università Suor Orsola in Napoli e, ancora, l’azione ministeriale di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Giovanni Gentile erano ben consapevoli che solo una bildung che mettesse assieme educazione e istruzione, privilegiando in definitiva i valori della cultura, avrebbe potuto dare all’Italia quei cittadini e quella classe dirigente di cui quella fase di costituzione del Paese mostrava la necessità.
Credo che si possa dire, in parziale consonanza con le tesi di un libro (urticante e bello) di Galli della Loggia dal titolo rivelatosi, a distanza di un anno, singolarmente profetico (“L’aula vuota”), che la triade scuola-istruzione-cultura abbia giocato un ruolo strategico nella storia d’Italia dall’unificazione fino ad oltre la metà del ’900, consentendo a uno “Stato misero” di divenire una delle prime dieci economie del mondo. Ritengo sia anche vero che l’azione dei docenti italiani, in quella temperie culturale, sia stata decisiva e che una triade di ministri meridionali (De Sanctis, Croce e Gentile) di grande cultura ed ispirazione idealistica o neo-idealistica abbia dato all’Italia una scuola capace di consentire un’istruzione generalizzata dei suoi cittadini e una classe dirigente all’altezza di un grande Paese europeo.
Solo l’avidità mussoliniana di ascrivere a sé tutto ciò che vi era di buono in Italia, e poi la miopia della sinistra marxista di considerare negativamente tutto ciò che sapesse di merito e selezione, hanno fatto sì che la riforma Gentile che felicemente concluse quel processo culturale ed istituzionale passasse per la “più fascista delle riforme”. Come se proprio i fautori del fronte marxista della pedagogia italiana, concentrati nella redazione della bellissima rivista “La Riforma della scuola”, non fossero anch’essi figli di quella cultura classica voluta da Gentile, a cominciare dallo stesso direttore e fondatore Lucio Lombardo Radice, figlio di quel Giuseppe che era stato il maggiore collaboratore di Gentile negli anni ministeriali. La verità è che quella, pur con i suoi difetti era davvero una “buona scuola” e, perciò, anche una forma di educazione alla libertà ed alla elaborazione dello spirito critico.
Di quella scuola neo-idealista, così criticata nei contenuti e nei metodi, non vi è quasi più traccia nella scuola italiana di oggi e, specie in questi momenti, non è un buon segno, se è vero che essa fu capace di far progredire il Paese. Neppure un buon segno è il fatto che lo spazio del pensiero sulla scuola sia circoscritto alla riflessione didattico-pedagogica degli addetti ai lavori, senza uno sforzo di inclusione nel più generale dibattito sul Paese e sul concetto di cittadinanza.
Il campo lasciato vuoto dagli intellettuali è occupato piuttosto da un pensiero sindacale che, per sua stessa natura, si colloca in una sfera meramente quantitativa.
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra dunque un agghiacciante silenzio, e sembra che neppure le famiglie, a cominciare da quelle che potrebbero permettersi significativi investimenti, se ne mostrino consapevoli. Il rarefarsi, in molte città quasi lo scomparire, delle scuole non statali di qualità ne è un segno evidente. A ciò si è aggiunto il più recente fenomeno per cui ai diplomifici a pagamento, già presenti nell’arco formativo scolastico, si sono aggiunte realtà non dissimili perfino nel campo universitario. -Non meraviglia dunque se l’attuale dibattito risulta tutto concentrato sulla scuola come spazio nel quale tenere, o detenere, il tempo dei giovani per consentire alle famiglie e al Paese di riprendere, in condizione di relativa sicurezza, le proprie attività.
Di questa miseria culturale ormai antica non si può certo dare colpa all’attuale ministra, né invero appare generosa la critica verso di lei di una ex ministra, peraltro appartenente all’attuale maggioranza, che non ha lasciato in Viale Trastevere particolare memoria di sé, se si prescinde dal colore fiammeggiante delle sue chiome.
La situazione sul terreno è davvero difficile e credo sia giusto considerare con qualche generosità gli sforzi, certo un po’ errabondi, di un ministero che si trova, nella sostanziale incertezza dell’andamento della pandemia, ad affrontare il problema forse più difficile che la scuola italiana si sia trovato di fronte. In ogni caso il possibile viene fatto e molto, moltissimo, dovranno fare, come sempre i docenti e i dirigenti, nelle trincee delle singole scuole.
A quando dunque una seria ripresa del dibattito sul senso della scuola in Italia? Qualche settimana fa uno degli italiani attualmente più conosciuti e stimati sul piano internazionale, Mario Draghi, ha sottolineato l’importanza della scuola e dell’istruzione per gestire il futuro, invocando un forte investimento a favore dei giovani. È appena il caso di dire che tutti gli hanno dato ragione: cattivo segno, per il momento non se ne farà niente.Ma tra poco più di un anno occorrerà scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, e nelle piazze e nelle case d’Italia, molto più che nelle cosiddette segrete stanze, il nome di Mario Draghi circola fortemente... -Nel frattempo, il 14 settembre una nuova leva di studentesse e studenti entrerà nella scuola italiana, mentre appena qualche giorno dopo nelle aule universitarie verrà selezionata una nuova leva di maestre e maestri. Credo si debba dir loro che affronteranno probabilmente un anno difficile ma anche che il percorso degli studi è una delle fasi più belle e costruttive della vita che conserveranno nel tempo come straordinario ricordo e formidabile patrimonio di vita: forza ragazze, forza ragazzi!
* Rettore Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
* Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 agosto 2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA SCUOLA PUBBLICA COME ORGANO COSTITUZIONALE DELLA DEMOCRAZIA. Una nuova edizione del libro di Piero Calamandrei, "Per la scuola".
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora !) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Dibattito.
Tutti alla ricerca di veri maestri
In un’epoca di influencer e massificazione, due saggi di Gorini e Zagrebelsky delineano le prospettive per pensare a una scuola autorevole e capace di formare alla vita e alla libertà intellettuale
di Roberto Carnero (Avvenire, sabato 28 settembre 2019)
C’è una poesia di Vittorio Sereni, intitolata Il grande amico, che recita così: «Un grande amico che sorga alto su di me / e tutto porti me nella sua luce / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi». Più che di “amico”, questa è la definizione di “maestro”. Non a caso Gustavo Zagrebelsky parte proprio da questi versi del poeta di Luino per svolgere un’approfondita riflessione sull’essenza, sul ruolo e sulla presenza dei “maestri” nella società di oggi. Lo fa in un saggio pubblicato dal Mulino, Mai più senza maestri (pagine 160, euro 14,00).
L’autore, già presidente della Corte costituzionale e docente di Diritto all’Università di Torino, parte dal significato letterale del vocabolo, per riflettere su come il concetto si sia sminuito nel tempo, e specialmente in questi nostri tempi travagliati: « Magister (con i derivati: maestro, mastro, master, maître) è generato da magnus e da magis, dalla radice magh, comune nelle lingue indeuropee. Indica qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago, maggio (il mese di Maia, la dea dell’abbondanza)».
E se i contestatori del ’68 avevano come slogan “Mai più maestri!”, i giovani di oggi sembrano non farsi troppi problemi a seguire e a idolatrare i “nuovi maestri” della comunità digitale, vale a dire i cosiddetti influencer. Così dal “maestro di vita” si è passati al trend setter, a chi impone mode e tendenze, soprattutto sui social, con migliaia o milioni di follower. Dobbiamo rassegnarci a questa situazione? Zagrebelsky è convinto di no, ritiene anzi doveroso, per il futuro del mondo in cui viviamo, porre al centro del dibattito «l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e di scuotere la routine che ci avvolge». Ciò significa far capire ai ragazzi che la cultura è ancora una linfa spirituale insostituibile, è ciò che collega tra loro le generazioni, consentendo la sopravvivenza del pensiero oltre i limiti della vita biologica: come i tratti somatici si trasmettono geneticamente, così quelli spirituali si trasmettono culturalmente.
Si crede nella cultura quando si ha fiducia nel futuro; invece la cultura muore quando si dispera del futuro. L’educazione (che è il compito precipuo dei maestri) si basa su una delicata combinazione tra autorità (parola la cui etimologia va ricollegata al verbo latino augere, aumentare) e coinvolgimento emotivo.
Zagrebelsky presuppone al limite anche una componente di coercizione (sarebbe ingenuo pensare che questa dimensione possa essere del tutto assente, per esempio, nel contesto scolastico), certamente equilibrata e temperata da regole condivise e da buon senso, ma bisogna sempre ricordarsi che se gli studenti non sono emotivamente coinvolti ogni sforzo risulterà alla fine vano, perché così il sapere non “passa”.
Nella scuola odierna pare invece prevalere una visione sempre più “tecnica” del sapere, che finisce per trascurare la soggettività dei discenti. Aggiunge l’autore: «I tecnici fanno parte dell’establishment, i maestri no o, quantomeno, cercano di difendersene. Per questo, indubbiamente, i primi sono valorizzati, protetti, coccolati, mentre i secondi non sono ben visti e, per lo più, sono ignorati e resi innocui».
Forse a questa categoria dei maestri negletti e marginalizzati dall’attuale sistema di istruzione ascriverebbe se stesso Tiziano Gorini, docente livornese che ha composto per Armando Editore un volume intitolato Il professore riluttante (pagine 128, euro 12,00), a metà tra racconto autobiografico e riflessione saggistica. Gorini spiega come oggi la scuola italiana sembri pensata (dalle varie riforme e riformine che si sono susseguite a ritmo vorticoso negli ultimi anni) per combattere ogni “pensiero divergente”, e, invece, per appiattire e omologare il più possibile gli stili didattici dei singoli insegnanti e, dunque, i profili in uscita degli studenti.
Scrive l’autore: «Il pensiero divergente è un comportamento cognitivo affascinante per la creatività che esibisce, utile per la ricerca di soluzione di problemi e per l’innovazione che consente quando quelle soluzioni si dimostrino valide. Lo individuò lo psicologo Guildford negli anni Cinquanta del secolo scorso, indicandone le caratteristiche di fluidità (il numero delle idee prodotte), flessibilità (la capacità di pensare seguendo strategie inusuali) ed originalità (la formulazione di idee non conformiste); è un pensiero stravagante, che non si lascia incastrare nelle routines cognitive e nella banalità dei preconcetti, che naviga tra differenti prospettive intellettuali ed esplora lo spazio della possibilità». Gorini dà qui una definizione di che cosa significhi essere davvero maestri: non dogmatici, non settari, autorevoli ma non autoritari (con quella giusta dose di autorità di cui parlavamo prima, che si basi sull’autorevolezza e non sull’autoritarismo).
Ecco perché è giusto essere “riluttanti” rispetto a un modo di concepire la scuola (e di farla) che non aiuta né gli insegnanti né, a maggior ragione, i ragazzi. All’idea di un’istruzione non basata su un arido e sterile approccio tecnicistico, bensì fondata su solidi valori esistenziali (la cui trasmissione non può che giocarsi in uno spazio di libertà) fa riferimento il celebre filosofo, psicologo, sociologo e pedagogo tedesco Georg Simmel (1858-1918), del quale Mimesis Edizioni manda in libreria il saggio L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola (a cura di Alessandra Peluso, pagine 210, euro 16,00). Il volume raccoglie le lezioni tenute da Simmel all’Università di Strasburgo nel semestre invernale 1915-1916, che, nonostante sia passato più di un secolo, contengono intuizioni ancora validissime, quando non addirittura profetiche per quei tempi, e persino per i nostri. Simmel identifica molto chiaramente la necessità di un giusto contemperarsi di libertà e orientamento che il maestro deve offrire ai suoi allievi: «Prima di potersi creare un sentiero, occore imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace».
Scendendo sul piano più concreto delle specifiche strategie didattiche, queste pagine presentano alcune indicazioni che potrebbero essere utilmente meditate nella nostra scuola, dove, per esempio nell’insegnamento dell’Italiano (ma non solo), c’è la tendenza a sottoporre gli studenti a prove sempre più strutturate e in qualche modo “ingabbiate”. Andrebbero evitate - scriveva Simmel - «temi con tracce rigorosamente determinate » e «l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro». Queste tendenze didattiche, oggi più forti che mai, sono la conseguenza (affermava ancora Simmel) «del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare». Ma se il compito della scuola fosse il primo, e non il secondo, i maestri non servirebbero più: basterebbero dei buoni computer e, per il resto, ci si potrebbe accontentare degli influencer.
LA SCUOLA E’ POLITICA
di Simone Giusti, Federico Batini, Giusti Marchetta, Vanessa Roghi
Adulti
di Simone Giusti
Gli adulti fanno e disfanno la scuola ogni giorno, seduti in Parlamento o nelle loro auto, mentre accompagnano i figli alla prima ora di lezione. Agli adulti appartiene ogni discorso sulla scuola - compreso quello che facciamo in questo libro - e da loro discende ogni decisione. Gli adulti stanno in cattedra, poi scendono e tornano a casa, mentre altri adulti rimettono in ordine le aule, oppure le ristrutturano, ne progettano di nuove, producono l’energia necessaria alla loro illuminazione.
Politici, cittadini (contribuenti ed elettori), lavoratori, nonni, zii e genitori: la scuola è roba loro, e gli altri, i minori - i bambini e gli adolescenti - si limitano ad abitarla, e, quindi, a trasformarla dall’interno, con discrezione, quel tanto che basta per renderla più vivibile e sopportabile. Ma non c’è un dubbio al mondo: quella scuola così criticata e messa sotto accusa è proprio quella che hanno voluto - e vogliono ancora - gli adulti, i quali, a volte, tendono a dimenticarsi il proprio ruolo.
Adulto, dal latino adultus, participio passato di adolescĕre, che significa crescere. L’adulto è colui che non è più adolescente, ha terminato il suo sviluppo ed è finalmente cresciuto. Da cosa si vede se uno è sufficientemente cresciuto da poter prendere decisioni sulla scuola? È sufficiente aver raggiunto la maggiore età - a diciotto anni si può votare la propria amministrazione locale (il consiglio comunale e il sindaco, il consiglio regionale e il presidente della Regione), il rappresentante alla Camera dei deputati o al Parlamento europeo (per il Senato occorre attendere il compimento dei 25 anni: una soglia altissima, che di fatto impedisce il pieno accesso al voto a oltre quattro milioni di maggiorenni). A diciotto anni ci si può candidare a una carica politica. A diciott’anni in molti sono ancora a scuola, viene da pensare, e avrebbero moltissimo da dire e da fare, per la scuola.
In realtà sappiamo che l’età media dei deputati è di circa 44 anni, 52 per i senatori: ultramaggiorenni che sono usciti dalla scuola già da 24-25 anni.
Considerando che gli italiani fanno figli in media a 32 anni, gli adulti hanno 38 anni quando il figlio inizia la scuola primaria, 45 durante l’esame di scuola secondaria di primo grado, quando è necessario scegliere la scuola superiore.
In Italia il 61,7% degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha finito gli studi superiori e ha conseguito un diploma (dati Istat 2018). La media europea è pari al 78,1 %. I laureati italiani sono 2 su dieci, il 19,3%, contro il 32,3% degli europei.
Adulti in maggioranza illetterati: un termine tecnico adoperato per descrivere le persone che, pur avendo compiuto un percorso di studi, a un certo punto della loro vita non sono in grado di usare ciò che hanno imparato per gestire la loro vita quotidiana. Adulti che non comprendono la differenza tra una notizia inventata e una documentata, che non sono in grado di orientarsi su un sito internet, che non sanno far tornare i conti del bilancio familiare.
Adulti che non leggono libri. Nel 2017, dice l’Istat, le persone che hanno letto almeno un libro per motivi non professionali sono state, in Italia, circa 23 milioni e mezzo, corrispondente al 41% della popolazione (il 47,1% delle donne, contro il 34,5% degli uomini). La quota più alta di lettori si riscontra durante l’adolescenza, tra gli 11 e i 14 anni [▶ Lettura].
Adulti che quando parlano di scuola, o, anche, quando ne leggono sulle pagine dei giornali o nei libri, pensano a un’esperienza lontana, attraverso la quale sono passati, in modo più o meno consapevole, qualche decennio prima.
Eppure, a esclusione di coloro che hanno paura di crescere - quelli affetti da sindrome di Peter Pan, una sorta di adolescenza protratta, che impedisce di assumersi responsabilità e di prendere decisioni in grado di incidere sulla realtà -, sono questi gli adulti che devono fare la scuola. Adulti poco preparati, occorre ammetterlo, i quali hanno tuttavia un ruolo decisivo nel futuro della scuola. Perché purtroppo - in assenza di una vera ▶ Partecipazione degli studenti ai processi decisionali - tocca agli adulti il compito difficilissimo di fare la scuola. La scuola di tutti, non quella del proprio figlio, della propria figlia.
Cominciamo da qui, dunque. Assumiamoci la responsabilità della scuola che abbiamo voluto e che ancora stiamo contribuendo a far esistere, ogni giorno, per i bambini e gli adolescenti che sono costretti ad abitarla. Smettiamo di lamentarci e guardiamola, questa scuola, analizziamola con gli strumenti a nostra disposizione - che possono e devono essere costantemente arricchiti - indipendentemente dal nostro livello di istruzione, dalle nostre capacità critiche o dalla nostra conoscenza specifica dell’argomento. Dobbiamo occuparcene perché siamo adulti responsabili e interessati.
Iniziamo da un piccolo esercizio di rispecchiamento. Guardiamo gli edifici, e domandiamoci: che adulti sono - che adulti siamo - quelli che li hanno progettati, finanziati e costruiti? E che adulti sono quelli che stanno finanziando proprio quel tipo di lavoro, quell’insegnamento, di quelle materie, in quegli orari, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, un anno di seguito all’altro? Siamo noi? Sono io? Sei proprio tu.
Siediti, mettiti davanti allo specchio e guarda. Cosa vedi? Ti piace? Credi di poter fare di meglio? Fallo!
* Le parole e le cose, 19 settembre 2019 - ripresa parziale.
Concorsi truccati, sospeso il rettore dell’Università di Catania
Indagine della procura: coinvolti 40 docenti degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona
di Fabio Albanese (La Stampa, 28/06/2019)
catania
Il rettore dell’Università di Catania, ma anche il pro rettore, l’ex rettore e i capi dipartimento di matematica, economia, scienze biomediche, scienze biologiche, giurisprudenza, l’ex capo dipartimento di scienze politiche, il presidente del coordinamento della facoltà di medicina. Tutti sospesi dalle funzioni perché indagati per associazione per delinquere e, a vario titolo, per corruzione, induzione a dare e promettere utilità, falsità ideologica e materiale, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, abuso d’ufficio e truffa aggravata. Per il rettore, l’ex rettore e altri indagati, la procura aveva pure chiesto l’arresto ma il gip ha deciso solo per la sospensione dall’attività.
È una specie di terremoto quello che la procura di Catania e la Digos hanno scatenato stamattina con l’inchiesta “Università bandita”, secondo la quale i concorsi dell’ateneo per posti di docente, di associato e perfino di ricercatore erano truccati. Ventisette sono i concorsi finiti sotto la lente degli investigatori: 17 riguardano posti di professore ordinario, quattro di associato e sei di ricercatore. Ma lo scandalo promette di avere proporzioni ben maggiori di quelle che hanno portato ai provvedimenti di oggi: i dieci docenti di Catania sospesi ma anche altri quaranta di università di tutta Italia, indagati e attualmente sotto perquisizione appartenenti agli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia, Verona.
L’indagine di Catania, cominciata a giugno del 2016 e conclusa a marzo dello scorso anno, travolge i vertici dell’ateneo. Sospesi dalle funzioni il rettore Francesco Basile, 64 anni, il pro rettore Giancarlo Magnano San Lio, 56, l’ex rettore Giacomo Pignataro, 56, e altri sette docenti, i vertici dei dipartimenti. Per i pm, l’associazione per delinquere aveva a capo l’attuale rettore Basile ma il promotore sarebbe stato suo predecessore, Pignataro e si muoveva sulla base di un vero e proprio «codice di comportamento sommerso», come lo definisce la procura, al quale tutti dovevano uniformarsi. Il gruppo decideva il conferimento di assegni e borse di studio, i dottorati di ricerca, l’assunzione del personale tecnico-amministrativo, la composizione degli organi statutari (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina), l’assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari.
È proprio su questo ultimo aspetto che l’inchiesta si è allargata alle altre università italiane perché, spiega la procura, «i docenti, nel momento in cui sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici, si sono sempre preoccupati di non interferire sulla scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente, favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei casi in cui non fosse meritevole». Un sistema, dunque, che riporta alle baronie universitarie e che non lascia spazio alla meritocrazia. Chi non si adeguava, spiegano i pm di Catania, subiva ritardi nella carriera e curriculum non valutati.
«L’indagine ha consentito di svelare un sistema di nefandezze che purtroppo macchia in maniera veramente pesante il nostro Ateneo perché coinvolge tutti i personaggi di maggiore responsabilità al suo interno - ha detto il procuratore della Repubblica a Catania, Carmelo Zuccaro -. Abbiamo accertato che questo sistema ha inquinato il sistema di votazione all’interno dell’Ateneo per la nomina del rettore e per la nomina degli organi più importanti. A cascata questo sistema si é perpetuato per condizionare numerosi concorsi di tutti i dipartimenti. Un sistema che non esito a definire squallido perché le persone che vengono proposte non sono le più meritevoli per aggiudicarsi il titolo. Quando qualcuno ha il coraggio di proporsi come candidato per questo posto nonostante il capo del dipartimento abbia deciso che non sia venuto il suo momento, queste persone vengono fatte oggetto di critiche pesanti, addirittura di ritorsioni da parte del capo del dipartimento».
MATURITA’ - A.S. 2018/2019: PRIMA PROVA SCRITTA.
PROVA DI ITALIANO - TRACCE
Cultura
Maturità 2019, impariamo a insegnare la Storia
di David Bidussa (Il Sole-24 ore, 28 febbraio 2019)
A proposito della ipotizzata soppressione della traccia di storia alla prossima maturità non si può non sottolineare il paradosso: da una parte le istituzioni possono decidere che la storia si può anche mandare in soffitta perché è un genere che non ha successo (la traccia di storia è stata scelta all’ultima maturità dal 3% dei candidati); dall’altra sta una domanda di storia che è in crescita e attrae (per esempio ne parla Marta Stella nell’ ultimo numero di “Marie Claire” in un articolo dal titolo Perché abbiamo sempre più bisogno di ritrovare le nostre origini?).
Dove sta la verità? Qui e là e, contemporaneamente, né qui e né là. Dunque la storia è una disciplina in riserva: destinata a un pubblico sempre più ristretto, secondo le opinioni di chi ci governa; disciplina lontana, e non coltivata, comunque scarsamente attraente (nel 2018 solo 20 classi a Roma hanno scelto come una delle mete di gita scolastica l’archivio di Stato).
Disciplina che non gode di investimenti, o in cui si investe sempre meno (secondo alcuni dati nel giro di 15 anni gran parte dei corsi di laurea in storia presso gli atenei italiani andranno a chiudere, o comunque saranno destinati ad essere assorbiti all’interno di strutture disciplinari più generali).
Contemporaneamente aumenta in misura considerevole la domanda di sapere il passato (più spesso di sapere il passato della propria famiglia è in crescita, basta guardare i numeri della consultazione on-line del portale Antenati, il portale dedicato alle storie di famiglia, segno evidente che pur in maniera molto complicata la storia ha ancora un volto, un fine per le persone.
Ma appunto si potrebbe osservare che quel fine ha una fisionomia «privata», personale, non implica una funzione pubblica, collettiva della storia. Allora proviamo a precisare la domanda: perché la storia è percepita come una risorsa privata, volta a soddisfare la propria ansia di sapere passato, di avere un radicamento nella storia, ma questa ansia non si traduce in dimensione pubblica, ovvero nella percezione e nella convinzione che la storia sia un bene pubblico? Che cos’è dunque che non va?
L’opinione comune più ricorrente è che prima di tutto ci sia un difetto di didattica della storia, ovvero che la causa principale sia da cercare in chi insegna la storia, e principalmente tra gli insegnanti delle scuole, soprattutto della fascia tra 14 e 19 anni, per non dire della capacità didattica della gran parte del corpo docente accademico. Dunque un tema è la formazione verso la didattica del corpo docente.
Un’altra opinione molto comune è la convinzione che l’insegnamento della storia in gran parte segua programmi che non sono capaci di sollevare l’interesse di un pubblico, perché difficilmente si immergono nel presente, o nel passato immediato, e dunque parlino di temi, di scene, di questioni lontane, incapace di coinvolgere. In breve una narrazione che non susciterebbe passione, emozione, coinvolgimento.
Per quanto sia convinto che in queste due spiegazioni ci sia del vero, tuttavia a me sembra che la crisi alluda ad altro, o almeno che per superarla occorra impegnarsi a trovare risposte su altre questioni che non sono solo la senescenza dei programmi (e dunque un dato burocratico, percui sarebbe sufficiente svecchiarli o renderli più agili) oppure produrre un corso di aggiornamento alla didattica per i docenti.
Il primo dato importante è che noi in Italia difettiamo di una capacità di saper narrare storia. Riguarda come pensiamo, progettiamo e costruiamo musei di storia, per esempio. Ma non solo. La misura su cui valutare questa incapacità è nella dimensione ridotta che dedichiamo ai percorsi e alle problematiche della Public History.
Public History non è né solo, né prevalentemente la divulgazione della storia, ma è quell’ambito disciplinare che si occupa di come rendere fruibile, interessante, motivante e soprattutto ricco di suggestioni l’insegnamento della storia. E contemporaneamente, è quella disciplina che si pone anche il problema di costruire format per la didattica della storia (pensando per esempio alla drammaturgia, alla rappresentazione scenografica, alla produzione di podcast, alla costruzione di kit didattici;...).
Si analizzi, tanto per fare un esempio, la produzione di materiali relativi al centenario della Prima guerra mondiale, che in questi anni, a partire dal 2014, ha coinvolto istituti, centri di ricerca, associazioni di giovani storici che si dedicano alla didattica alternativa, alla didattica “a distanza”, e si vedrà che il complesso delle attività, prime fra tutte le diverse modalità della comunicazione social con cui in realtà come Francia, Regno Unito, Germania, Spagna hanno sollevato e coinvolto docenti, studenti, segmenti non irrilevanti di società civile, “università della terza età”, realtà di formazione volte alla cura educativa di adolescenti di prima immigrazione, ovvero i nuovi e i futuri cittadini di domani, in Italia ha avuto scarso seguito.
La storia trasportata sul web è stata spesso lo stesso pacchetto di contenuti che veniva proposto nella didattica tradizionale. Comunque scarsamente lavorato. Il risultato è stato, prima ancora della noia, l’inutilità. Spesso una quantità di risorse investite nella costruzione di progetti la cui ricaduta è stata scarsa, comunque di scarso effetto.
E’ un ambito enorme che non riguarda solo la storia attuale, ma riguarda forse la storia che ha più successo (sia nei giochi on line che nella fiction) che è la storia medievale, da molti ritenuta anni fa un a storia “finita” di scarso interesse, ma che ha una sua stagione rinnovata ormai da tempo, ma su cui in Italia soffriamo, eccetto alcuni poli di eccellenza, di una scarsa diffusione di competenze, spesso perché la storia medievale è assorbita o assimilata a un’immagine, malintesa, di storia locale, di esaltazione del proprio territorio, di ricerca della propria tradizione folclorica, perché ossessionata dall’ansia di rimarcare e ribadire una identità, con scarsa propensione a pensarla come un modi diverso di raccontarla e di affrontarla come “storia mondo” con cui dobbiamo prendere la misura.
C’è un secondo aspetto della storia e della marginalizzazione della storia nella scuola che riguarda la riduzione delle ore dedicate alla storia nella ripartizione dei programmi e delle ore di insegnamento. Una questione che riguarda soprattutto gli istituti tecnici e professionali. L’effetto nel tempo medio-lungo (ma in questo caso parliamo di pochi anni) è quello di dare luogo a una conoscenza della storia rigidamente separata riproponendo la vecchia ripartizione tra scuole volte alla formazione per un mestiere e scuole destinate a definire un profilo culturale per le libere professioni. In un qualche modo la riproposizione del sistema scolastico proprio della prima metà del’900.
Come si risponde a questa scelta? Difficilmente si darà uno spazio ampliata o allargato alla storia negli istituti professionali, ma le ore di letteratura. Non si tratta di abbandonare la studio della letteratura, ma di proporre lo studio della letteratura come occasione di scavo nella storia.
Mi limito ad indicare alcuni testi del Novecento che di fatto hanno svolto questa funzione e che la possono svolgere anche in relazione ai vuoti di programma. Una questione privata di Beppe Fenoglio o L’orologio di Carlo Levi sono nei fatti due testi con cui poter discutere, raccontare, analizzare la Resistenza o l’inizio dell’Italia repubblicana. Ma lo stesso di potrebbe dire per Caro Michele di Natalia Ginzburg, se qualcuno avesse per davvero interesse a parlare di ’68 e di generazione ’68; di Buio a Mezzogiorno di Arthur Koestler se il tema fosse lo scavo negli anni bui dello stalinismo e di cosa sia stato il socialismo reale, di Niente di nuovo sul fronte occidentale di E. M. Remarque o di Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per parlare di Prima guerra mondiale. Senza dimenticare i film.
Di nuovo non per sostituire l’approfondimento di storia, ma per renderlo un momento di formazione in cui contano le risorse culturali, documentarie, che si propongono. Ma soprattutto per proporre un’idea di storia dove essenziali sono le domande e non tanto le risposte definitive che si danno. Perché lo studio della storia, che piaccia o no, non è trovare la risposta definitiva, avere l’ultima parola. Ma proporre domande, fare questioni, sapendo che dopo, arriveranno altri a proporre altri percorsi, altre questioni, spesso modificando strutturalmente l’ordine del racconto.
Il bravo storico è insomma uno che ha, al massimo la possibilità di proporre la penultima parola e di insegnare che appunto la avere la penultima parola non è un difetto, o una mancanza, ma è la consapevolezza che il dossier non è chiuso. Perché uno storico non è un giudice. E nemmeno un ideologo. Anche questo è, a suo modo, una funzione civile dell’insegnamento della storia. Forse non solo della storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DOMANDE AGLI STORICI... NON E’ IL CASO DI SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO E RISPONDERE "SENZA FARE LE SPALLUCCE"?!
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI...
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Un omaggio critico (8 dicembre 2004).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Italia
L’io sovrano del Censis
di Ida Dominijanni, giornalista *
Di anno in anno, con il suo rapporto annuale, il Censis non solo fornisce un’ottima radiografia dello stato dell’Italia, ma produce uno slogan destinato a scuotere un dibattito mediatico sempre più politicista, autoreferenziale e ripetitivo. Fu così qualche anno fa, quando De Rita prese pari pari dalle analisi lacaniane la diagnosi dell’eclissi del desiderio e la scaraventò su un’Italia ancora avvolta nel regime del godimento berlusconiano. Ed è così quest’anno, con il cinquantaduesimo rapporto che fa perno sul “sovranismo psichico” e mette di nuovo a fuoco il legame che nelle fasi di cambiamento stringe assieme la dimensione politica, quella sociale e quella psichica, individuale e collettiva.
Nel sovranismo, dice in sostanza il Censis, non ne va solo della nostalgia della sovranità nazionale “usurpata” dall’Unione europea e dell’invocazione della sovranità popolare “usurpata” dalle élite. Ne va di una certa mentalità, di certi sentimenti e comportamenti, di una certa configurazione degli individui. Lo si potrebbe dire - è stato detto: anche stavolta il Censis attinge a un’ampia ancorché non dichiarata letteratura - in altri termini: il discorso sovranista ha generato il suo soggetto, fatto a immagine e somiglianza dello stato sovrano perduto che evoca. L’uno e l’altro, lo stato e il soggetto, si sentono assediati da invasori alieni e minacciosi, l’uno e l’altro erigono muri a difesa dei propri confini, l’uno e l’altro nascondono dietro maschere fortificate e irrigidite la loro vulnerabilità e la loro dipendenza da altro e da altri. La forza - e la trappola - del sovranismo sta precisamente qui: nel creare un’illusione di forza e di autonomia, dello stato, del popolo e dell’individuo, a copertura della loro fragilità.
La ripresa inesistente
Il Censis però rovescia il cono: non vede nel soggetto sovranista un effetto del discorso politico, ma nel discorso politico un effetto della crisi sociale. In Italia il tempo s’è fermato: siamo fermi, e più spesso procediamo all’indietro come i gamberi. La ripresa economica intravista nel 2017 non s’è realizzata: “È sopraggiunto un intralcio, un rabbuiarsi dell’orizzonte”. Rallentano gli indicatori macroeconomici, cresce la sfiducia verso le istituzioni e il rancore di tutti contro tutti. Nell’assenza di progetto politico e di intervento statuale, peggiora in ogni campo la vita quotidiana, salvo che per una fascia di pochi privilegiati: la natalità diminuisce, l’ascensore sociale è bloccato, il lavoro manca, le disuguaglianze crescono, i soldi sono pochi (siamo il paese dell’Unione europea dove mediamente si guadagna di meno) e quei pochi stanno fermi in banca, i consumi non sono mai tornati ai livelli pre-crisi. Ma soprattutto, ogni cosa è sulle spalle dei singoli (aumentati del 50 per cento in dieci anni, mentre i matrimoni e le convivenze crollano) e delle famiglie: l’assistenza ai non autosufficienti, la sopravvivenza in un territorio a rischio perpetuo di crolli e frane, lo slalom nella giungla burocratica, la formazione culturale in un paese che non investe nulla sulla scuola e l’università. E per giunta, questo defatigante lavoro di adattamento alla crisi non viene riconosciuto né ripagato in gratitudine da nessuna istituzione.
Sono le radici profonde della delusione, della sfiducia e di un rancore pervasivo ormai convertitosi, scrive il Censis, in una cattiveria diffusa e in una conflittualità latente, “pulviscolare e individualizzata”. Da qui la soluzione del “sovranismo psichico”: un si salvi chi può che si regge sulla caccia paranoica del capro espiatorio, identificato nei migranti e più in generale in qualunque differenza o alterità perturbante. La maschera arcigna dell’io sovrano che presidia digrignando i denti un’identità immaginaria, in realtà destabilizzata dall’incertezza e dall’assenza di prospettive. Un’identità nazionale - “prima gli italiani”- bianca, proprietaria (e, dimentica di dire il Censis, maschile, come dimostra la misoginia imperante che il rapporto stranamente non contabilizza). Che “guarda al sovrano autoritario” come garanzia di contenimento dell’angoscia e di stabilità.
L’illusione traballante del sovranismo
La soluzione del governo sovranista sarebbe dunque l’effetto coerente di questa trasformazione psichica e sociale. “La delusione per il non-cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani e li ha resi disponibili a un salto rischioso e incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora aveva visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. Quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite”. C’è da chiedersi tuttavia, rovesciando di nuovo il cono, se la soluzione politica sarebbe stata necessariamente quella populista-sovranista in presenza di un discorso politico diverso. Se qualcuno avesse dato ascolto all’incertezza invece di rimuoverla nella narrativa trionfale della ripresa e alla precarietà invece di annegarla nella retorica delle start up. Se qualcuno, nella crisi, avesse fatto appello alla solidarietà invece che all’autoimprenditorialità e alla competitività. Se le responsabilità del debito accumulato fossero ricadute su chi di dovere invece che su un senso di colpa collettivo deprimente e mortifero. Eccetera eccetera: a incattivirci, prima del sovranismo psichico e politico, è stato il neoliberalismo, di cui il sovranismo è solo l’effetto perverso. E del resto, già pericolante. La grottesca vicenda della manovra economica ha già dimostrato che il ritorno alla sovranità dello stato-nazione è una beata illusione. Il crollo dell’illusione psichica dell’io sovrano seguirà immancabilmente.
* Internazionale, 8 dicembre 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
I frutti avvelenati del marketing scolastico
di Alberto Baccini (Il Mulino, 12 febbraio 2018)
“Non posso dunque che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, e riportato dalla stampa nella compilazione del Rapporto di autovalutazione (Rav), uno strumento di trasparenza che viene pubblicato [...] sul portale ‘Scuola in chiaro’ per fornire alle famiglie e a chi si iscrive elementi di conoscenza [...] Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono [...] frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola. Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione”. Con queste parole la ministra del Miur Valeria Fedeli ha commentato la pubblicazione su “la Repubblica” di frasi tratte dai Rav di alcuni licei romani e di altre città italiane. Tutte le scuole italiane sono tenute a compilare i Rav seguendo le indicazioni dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione che li ha anche messi a punto. I Rav sono uno dei tasselli dei processi di assicurazione della qualità della didattica che sono stati adottati in Italia come risultato di politiche scolastiche ampiamente bipartisan perseguite da oltre dieci anni nel nostro Paese.
Se il lettore avrà la pazienza di seguire un paio di passaggi tecnici, mostrerò che le frasi riportate dalla stampa e stigmatizzate dalla ministra rispondono a espliciti quesiti posti da Miur-Invalsi alle scuole.
Per cominciare. I Rav sono pubblicati sul portale del Miur: Scuole in chiaro. Questo presenta il portale come “uno strumento utile, soprattutto per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi nella scelta della scuola e del percorso di studi dei propri figli”. Per ogni scuola vengono pubblicati dati relativi al contesto ambientale e sociale, alle performance degli alunni e agli esiti occupazionali e universitari degli allievi. Sulla base di questi dati la Fondazione Agnelli produce classifiche che dovrebbero aiutare le famiglie a scegliere le scuole migliori.
Le frasi incriminate contenute nei Rav sono riferite ai commenti obbligatori che le scuole devono fornire in riferimento al contesto in cui operano. Le dimensioni di questo definite da Invalsi sono due:
1. “Status socio economico e culturale delle famiglie degli studenti”. Da alcuni documenti disponibili in rete (si veda per esempio qui), si ricava che Invalsi usa una classificazione sintetica di tale status in “Alto, Medio-alto, Medio-basso, Basso”.
2. “Composizione della popolazione studentesca”. Il primo indicatore numerico fornito a ciascuna scuola da Invalsi-Miur è la “quota di studenti con cittadinanza non italiana” per il quale sono indicati come benchmark i dati provinciali, regionali e nazionali nella stessa tipologia di scuola.
Invalsi-Miur non si limita a fornire alle scuole gli indicatori, ma ha predisposto anche le domande guida per i commenti dei dirigenti scolastici. Se vediamo insieme domande guida Invalsi e risposte dei dirigenti pubblicate dalla stampa, scopriamo che queste ultime non sono poi così fuori dalle righe.
Domanda guida Invalsi: “Qual è il contesto socio-economico di provenienza degli studenti? Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “Il contesto socio-economico e culturale complessivamente [è] di medio-alto livello [la classificazione vista sopra]”. “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi”; “la percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente”.
Domanda guida Invalsi: “Quali caratteristiche presenta la popolazione studentesca (situazioni di disabilità, disturbi evolutivi ecc.)?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “nessuno è diversamente abile”; “si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa”.
Domanda guida Invalsi: “Ci sono studenti con cittadinanza non italiana? Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza socio-economica e culturale (es. studenti nomadi, studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate ecc.)?”. Risposte riportate dalla stampa: “Tutti, tranne un paio di studenti, sono di nazionalità italiana”; “Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”; si rileva “l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate)”.
Verrebbe da dire: a domande esplicite, risposte esplicite. Ma fermarsi a questa considerazione sarebbe un modo per togliere rilevanza a una vicenda che dovrebbe invece interessare tutti coloro che hanno a cuore il destino della scuola pubblica di questo Paese.
A mio parere le domande di Invalsi e le risposte dei dirigenti scolastici stigmatizzate dalla ministra Fedeli sono il frutto avvelenato di un decennio di politiche scolastiche, largamente condivise, basate sull’idea che le famiglie dovrebbero "votare con i piedi", indirizzando i loro figli (e le quote di finanziamento loro spettanti) verso le scuole preferite/migliori.
Per oltre un decennio si è detto che le scuole devono farsi concorrenza tra loro per attirare studenti, che il sistema deve essere organizzato come un quasi mercato: un’ampia autonomia delle scuole, accompagnata da un sistema centralizzato di valutazione che ruota attorno ai test Invalsi e ai processi di autovalutazione (Rav). Il portale del Miur "Scuola in chiaro" è il luogo dove le famiglie trovano tutte le informazioni per poter esercitare le loro scelte.
Come fanno le scuole a competere tra loro e attirare gli studenti “migliori”? Devono fornire informazioni alle famiglie sulle loro performance. Accade così che i rapporti di autovalutazione, resi pubblici per decisione di Invalsi-Miur, si trasformino strumenti di marketing per le scuole.
Non c’è quindi da meravigliarsi se qualche dirigente scolastico, nella foga di attrarre studenti, scrive che la sua scuola è frequentata da una clientela selezionata con pochi stranieri e disabili. D’altra parte è ben noto, visto che lo scrive anche il “Corriere della Sera”, che le scuole con “clientela selezionata” hanno indicatori di performance più elevati: i risultati nei test Invalsi degli alunni stranieri sono peggiori rispetto a quelli degli italiani.
Quale famiglia preferirebbe mandare i propri figli in una scuola piena di stranieri e persone a basso reddito, con molti studenti disabili e performance scolastiche peggiori? Ecco allora l’informazione che un dirigente scolastico ha deciso di pubblicare per rassicurare i propri clienti potenziali: “Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”.
Per la ministra è facile mostrarsi indignata e inviare gli ispettori. Molto più facile che ripensare criticamente alle politiche scolastiche del suo partito.
Le frasi ignobili scritte da qualche dirigente sono l’esito non voluto, ma prevedibile, di politiche che hanno dimenticato l’articolo 3 della Costituzione in nome della fede nelle virtù taumaturgiche del mercato e della concorrenza.
“1° Gennaio 1948, da sudditi a cittadini: sovranità popolare, partecipazione, solidarietà”: il concorso nazionale ANPI-MIUR
Pubblicato il bando del concorso per le scuole ideato nell’ambito del protocollo d’intesa ANPI-MIUR
Scarica il bando:
Ius soli, parlamentari e insegnanti iniziano sciopero fame: "Per non doverci rammaricare"
Ampia la risposta all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma. Digiuno a partire da oggi
di VLADIMIRO POLCHI (la Repubblica, 03 ottobre 2017)
ROMA - Uno sciopero della fame tra i parlamentari "per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza". Deputati e senatori rispondono all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma dello ius soli. E dichiarano di essere pronti a digiunare a partire da oggi, assieme a 800 insegnanti a sostegno della legge sulla cittadinanza.
"Cara collega, caro collega - si legge nell’appello a cui aderiscono anche i Radicali italiani, il segretario Riccardo Magi e la presidente Antonella Soldo - vi scriviamo perché siete tra coloro che, dal primo momento e con maggiore determinazione, hanno sostenuto le buone ragioni della legge sullo ius soli. Ogni giorno lo spiraglio - pur esile, esilissimo - che sembra aprirsi sulle possibilità di una approvazione del testo, tende a chiudersi.
Qualcosa si deve pur fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza. Se, come tutto sembra indicare - e come segnalano anche le ripetute dichiarazioni del ministro Del Rio - questi sono giorni decisivi, proviamo a muoverci".
"Oggi, 3 ottobre - giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - oltre 800 insegnanti attueranno uno sciopero della fame a sostegno della legge e informeranno i loro studenti del significato della propria azione. Potrebbe essere l’occasione, questa, per collegarsi a tale iniziativa rilanciandola nella nostra qualità di parlamentari. Si tratta di prendere una decisione immediatamente.
L’ipotesi è quella di un digiuno a staffetta a sostegno della richiesta della presentazione in Aula prima possibile del disegno di legge. Dunque, per tenere aperto questo spiraglio e provare a inserirci in esso in maniera attiva ed efficace, coinvolgendo il maggior numero di persone affinché il governo decida di porre la fiducia".
"I tempi potrebbero essere i seguenti: mercoledì 4 ottobre ci sarà il voto a maggioranza assoluta sulla nota di variazione di bilancio DEF. Dopo di ché si apre una sorta di finestra. Infatti la legge di stabilità arriverà in Senato (alle Commissioni) nell’ultima settimana di ottobre. Il calendario dei lavori dell’Aula si ferma a giovedì 19 ottobre. Occorrerà dunque una nuova Conferenza dei capigruppo. Ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo allo ius soli.
Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della legge Bossi-Fini. I due obiettivi potrebbero sostenersi e incentivarsi a vicenda. Pensiamo, in ogni caso, che si tratti di una prova difficile ma che vale la pena affrontare".
"Le modalità del digiuno a staffetta, a sostegno di questo percorso, verranno precisate puntualmente nelle prossime ore. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione alla quale sarebbe opportuno che tutti noi partecipassimo, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza".
Ti chiedo la tua adesione all’iniziativa nel più breve tempo possibile. Già una trentina di deputati si sono dichiarati disponibili a condividere con noi l’atto del digiuno. Aspettiamo la vostra adesione". Firmato: Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini.
Hanno aderito finora: Loredana De Petris, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Fasiolo, Francesco Palermo, Sergio Lo Giudice, Stefano Vaccari, Claudio Micheloni, Monica Cirinnà, Daniela Valentini, Laura Puppato, Luis Alberto Orellana, Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro, Alessia Petraglia, Deputati Michele Piras, Sandra Zampa, Mario Marazziti, Franco Monaco, Luisa Bossa, Eleonora Cimbro, Florian Kronbichler, Paolo Fontanelli, Nello Formisano, Gianni Melilla, Lara Ricciatti, Pippo Zappulla, Marisa Nicchi, Michele Ragosta, Luigi Laquaniti, Giovanna Martelli, Donatella Duranti, Toni Matarrelli, Filiberto Zaratti, Franco Bordo, Filippo Fossati, Tea Albini, Delia Murer.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
Ringraziaundocente: prof promossi in preparazione, bocciati in creatività
Li promuove il 44% dei 3 mila studenti di medie e superiori sono i risultati di una web survey di Skuola.net
di Redazione ANSA *
La Settimana Italiana dell’Insegnante, quest’anno dal 2 maggio all’8 maggio 2016, si sta svolgendo a suon di hashtag. Sui social si twitta e si posta con #ringraziaundocente, menzionando quei professori che, oltre a confermarsi bravi con lezioni e voti, si sono dimostrati anche maestri di vita. In questa occasione Skuola.net ha intervistato circa 3mila studenti di scuole medie e superiori dando loro l’opportunità, per una volta, di promuovere, bocciare o rimandare a settembre i propri insegnanti. Ne sono usciti preparati, aggiornati, ma carenti in creatività, in competenze digitali, in obiettività di giudizio. Anche per quanto riguarda la simpatia, si può fare di meglio. Ecco la pagella dei docenti italiani, risultato di questi speciali scrutini tra studenti.
Preparazione a aggiornamento: PROMOSSI
Nulla da ridire in quanto a preparazione. La parte più numerosa degli intervistati è quella che li promuove: secondo il 44% sono sempre aggiornati e ferrati sugli argomenti che insegnano. Eppure, un 36% trova delle lacune, e li avrebbe rimandati a settembre. Secondo questi studenti, il problema è che sono rimasti troppo indietro: il mondo va avanti e dovrebbero spendere più tempo ad aggiornarsi. Addirittura la minoranza, che comunque è un buon 20%, li boccerebbe senza remore. Questo perché a volte i prof avrebbero dimostrato incertezze sulle proprie materie.
Simpatia e disponibilità: RIMANDATI A SETTEMBRE
Promossi con debito i nostri docenti per quanto riguarda il rapporto umano instaurato nel quotidiano con i propri studenti. La maggioranza dei ragazzi infatti, il 46%, ha optato per questa soluzione e la loro opinione ha decretato il giudizio finale. A loro parere, infatti, i prof dovrebbero impegnarsi di più a comunicare con i propri alunni. Agli insegnanti italiani, quindi, si consigliano corsi di recupero in empatia e comprensione, se vorranno superare l’esame del back to school. Tuttavia, 1 su 3 circa li promuove a pieni voti, considerandoli in gran parte simpatici e pronti a un aiuto extra. Cattivissimo il 22% che non dà loro alcuna possibilità: il motivo? Sono antipatici e non aiutano.
Innovazione e creatività nella didattica: BOCCIATI
Da qui inizia la sfilza di bocciature. Iniziamo con la capacità di inventare nuove soluzioni nella didattica e stimolare gli studenti, coinvolgendoli con creatività nello studio della materia. Non ci siamo proprio, a quanto pare. Più della metà degli studenti, il 51%, vuole bocciare i propri prof perché da anni svolgono lezioni sempre uguali, e la maggioranza vince. Un più mite 32%, tuttavia, sceglie di rimandarli a settembre perché coglie un certo impegno in questo senso, seppure non sia soddisfatto dei risultati. Pochi coloro che definiscono i propri prof sempre coinvolgenti e pieni di idee, e per questo li promuovono: sono il 17%.
Competenze digitali e tecnologiche: BOCCIATI
La tecnologia non è il punto forte dei nostri prof, nonostante gli sforzi del Miur nel rendere le nostre scuole sempre più al passo con i tempi dal punto di vista digitale. Il 43% li boccia, il 35% li rimanda a settembre. Per la maggioranza degli intervistati, infatti, i loro docenti dovrebbero ripetere l’anno perché sono ancora troppo legati ai vecchi strumenti: nell’era degli ebook e dei tabletsono rimasti a lavagna, gessetti e libro cartaceo. Chi assegna la sospensione di giudizio, invece, pensa che ciò che è stato fatto non sia ancora del tutto sufficiente. Superano l’esame i prof di quel 22% di ragazzi che si dicono contenti dell’uso frequente di strumenti digitali e tecnologici nell’insegnamento.
Obiettività e capacità di giudizio: BOCCIATI
La figura dell’insegnante ingiusto, o che aiuta solo i suoi alunni preferiti, è dura a morire. Che sia solo perché gli studenti non conoscono a pieno le motivazioni che spingono i docenti a premiare o a punire? Quel che è certo è che i ragazzi si sono dimostrati compatti: la maggior parte, il 46%, boccia i propri prof per i loro pregiudizi e simpatie nei confronti degli studenti, mentre il 37% li rimanda perché a volte hanno lasciato intravedere mancanza di obiettività. Solo il 17% li definisce giusti e imparziali nei giudizi. Per questo, li promuove.
La scuola è aperta (ma non troppo)
Settant’anni dopo, l’articolo 38 della Costituzione non ha esaurito la sua carica programmatica: molto resta da fare per garantire la piena inclusività
di Tullio De Mauro (La Stampa, 28.01.2016)
«La scuola è aperta a tutti»: così dice la Costituzione italiana al primo comma dell’articolo 38 e parla qui con tutta la sua caratteristica concisione e chiarezza. Negli anni in cui il testo fu concepito, questa norma non descriveva una realtà, ma fissava e stabiliva un programma. [...]
Nel 1948 la norma era assai lontana dal sancire una realtà effettiva. Dal fascismo e dallo Stato monarchico l’Italia democratica e repubblicana aveva ereditato una scuola in verità ben chiusa. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento il 60% di adulti e adulte era privo di ogni titolo di studio. Quelli in tale condizione o non erano nemmeno mai entrati in un’aula scolastica, come poteva accadere ai nati prima del periodo giolittiano (solo allora cessò il fenomeno dell’elusione completa della scolarità), oppure erano stati espulsi dalle aule prima di arrivare alla licenza elementare. Il traguardo di questa licenza, per quanto da decenni fissato in leggi, con il censimento del 1951 risultò che era stato raggiunto solo dal 40% di adulte e adulti. Il 30% era fermo a esso, mentre il 10% si era spinto oltre e l’1% aveva raggiunto la laurea.
Grandi passi avanti
Vale la pena di aprire una breve parentesi aritmetica. Sommando tutti gli anni di scuola fatti in una certa epoca dai singoli individui di un Paese e dividendo la somma per il numero degli individui si ottiene il numero di anni mediamente fatti dalle persone a una certa data, ossia si ottiene ciò che si chiama indice di scolarità di un Paese. Nel 1948 l’indice di scolarità italiano era di circa tre anni. Questo dato aiuta a capir meglio la realtà di fatto dell’epoca se lo si mette a confronto con i dati di altri Paesi. Allora, più esattamente nel 1950, l’indice di scolarità complessivo dei Paesi sviluppati era di circa sei, sette anni, mentre l’indice dei Paesi sottosviluppati era di due, massimo tre anni. L’Italia, perlomeno l’Italia scolastica, apparteneva dunque alla vasta schiera dei Paesi sottosviluppati. [...]
Sono passati ormai quasi settant’anni dalla redazione della Costituzione e si può e deve constatare che la popolazione e le scuole hanno camminato sulla via della realizzazione di ciò che v’era di programmatico nell’articolo 38. È stato un cammino faticoso, a strappi, poco o niente progettato dai gruppi dirigenti, ma piuttosto subìto se non osteggiato. Molto si deve alla spinta popolare per raggiungere livelli più alti di istruzione e all’impegno delle famiglie, in molte parti della società e del Paese un vero oneroso sacrificio.
I senza scuola, gli analfabeti confessi, i quasi due terzi di adulti e adulte senza licenza elementare e naturalmente anche gli altri scolasticamente più dotati hanno mandato a scuola i loro figli e finalmente anche le figlie. E figli e figlie di decennio in decennio hanno affollato le aule, hanno preso la licenza elementare, poi, con gli anni Ottanta del Novecento, hanno cominciato a prendere quasi tutti la licenza media. E con gli anni Duemila i e le nipoti dei senza scuola si sono spinti oltre, fino a conquistare il diploma mediosuperiore in percentuali cresciute ormai oltre il 75% delle classi anagrafiche.
Scolasticamente sviluppati
Il progresso della scolarizzazione tra le classi giovani ha mutato un po’ alla volta la fisionomia scolastica della intera società. I non scolarizzati sono ormai pochi punti percentuali. L’indice di scolarità è cresciuto in tutto il mondo. Rispetto al 1950 l’indice di scolarità dei Paesi sottosviluppati è salito da due o tre anni a sei anni, nei Paesi sviluppati è salito da sei o sette a dodici, tredici anni. In Italia nel primo decennio del nuovo millennio l’indice di scolarità ha raggiunto i 12 anni. L’Italia ha fatto dunque più di altri Paesi: è uscita dalla fascia dei Paesi sottosviluppati ed è saltata nel gruppo dei Paesi scolasticamente sviluppati.
La scuola ha saputo raccogliere la spinta popolare, ha saputo accogliere figli e nipoti dei senza scuola cercando di portarli alla conquista di saperi intellettualmente complessi. Insomma la scuola si è mossa secondo il dettato costituzionale. Possiamo dunque dire che ormai l’articolo 38 ha esaurito la sua carica programmatica e propositiva? Cerchiamo di capire se ci sono chiusure che occorre rimuovere perché la scuola, come la Costituzione chiede, sia davvero aperta a tutti e risulti quindi all’altezza dei compiti e delle richieste che promanano dalla vita e dai problemi della società di oggi.
Chiusure e disattenzioni
Non sono poche le strozzature e le gravi disattenzioni che impediscono alla scuola di essere pienamente, effettivamente aperta anzitutto a tutti i suoi principali destinatari tradizionali: bambini e bambine, adolescenti, giovani. Vediamo alcuni casi salienti.
(1) I disabili, nonostante l’impegno encomiabile che il Paese ha avuto rispetto ad altri europei, non hanno ancora i necessari supporti didattici e edilizi.
(2) Mancano i necessari supporti didattici anche agli alunni di aree di antica e misconosciuta alloglossia e
(3) mancano soprattutto ai figli di famiglie di origine straniera segnati anch’essi dall’alloglossia dell’ambiente.
(4) Difetta o manca del tutto il tempo pieno generalizzato che è una necessità sociale nella scuola di base per figli di famiglie monoparentali o con madri che lavorano ed è una impellente necessità anche culturale in tutte le aree e fasce sociali depresse per cattive condizioni economiche o bassi livelli di istruzione di famiglie e ambiente.
(5) Manca nella scuola media superiore, la secondaria di secondo grado, quel ripensamento radicale di metodi e programmi da gran tempo inutilmente richiesto: l’impianto, anche edilizio, ma soprattutto didattico e culturale resta quello della scuola riservata a percentuali minoritarie di un Paese contadino concepita a inizio Novecento dai progressisti di allora, avviata a realizzazione da Giovanni Gentile, variamente manomessa nel periodo fascista, ma mai riorganizzata per riuscire a salvare la qualità portando le intere coorti anagrafiche al diploma superiore.
È un obiettivo, quello della unione di massima inclusività degli allievi e massima qualità delle loro competenze, che altri Paesi raggiungono con successo, dal Giappone alla Corea e alla Finlandia: richiede solo investimenti e attenzione alla qualità degli insegnamenti. Purtroppo la scuola media superiore italiana soffre di un’ancora alta percentuale di abbandoni e di un livello penosamente basso delle competenze dei diplomati italiani messi a confronto con i coetanei degli altri Paesi e perfino con le competenze dei fratelli minori, i licenziati della media inferiore: i cinque anni di superiore girano a vuoto. Quella della media superiore per una gran parte dei giovani (si può stimare almeno la metà) è una falsa apertura. Occorre ripensarla radicalmente se si vuole rispettare nella sostanza la Costituzione.
Un sistema chiuso
A tutti i livelli scolastici, ma specialmente nelle superiori e nell’università, nei mediocri livelli di alunni che vengono da famiglie con bassi livelli di istruzione e di cultura si tocca con mano il prezzo che ha la mancanza di una seria organizzazione dell’istruzione degli adulti, che sottragga il più possibile la popolazione adulta a quella lontananza dal tenersi attivi intellettualmente registrata da indagini nazionali e da tre recenti indagini comparative internazionali. Sette adulti italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di comprensione di testi scritti e di uso di nozioni matematiche e scientifiche elementari. Una iattura per la scuola e per l’intera vita sociale. Una iattura anche per l’efficienza della produzione e, quando ci sono, degli stessi investimenti produttivi, come qualche governante ha mostrato di ignorare e come invece diversi economisti hanno spiegato a partire dagli anni Novanta. [...]
L’istruzione degli adulti, se si svilupperà, potrà portare a vincere un’altra strozzatura, un’altra mancata apertura. A tutti i livelli, ma specie al livello mediosuperiore, la scuola, intesa anche come edificio scolastico, soffre di scarsi o assenti rapporti con il territorio circostante, il Paese, il quartiere, la loro gente. Esperienze internazionali nelle Americhe, da New York alla Colombia, e nei Paesi sottosviluppati, ma anche esperienze dei maestri di strada a Napoli, dicono quanto è importante per la scuola, per i risultati misurabili del suo impegno, che la scuola si apra e diventi un’accessibile, attraente e frequentata «fabbrica della cultura» per tutti, ragazze e ragazzi, le loro famiglie, la popolazione intorno. Non un corpo estraneo, ma una realtà propria, amica, aperta come ancora chiede la Costituzione.
MARINA BOSCAINO - Dall’ANP un vergognoso attacco alla democrazia scolastica *
In un paese normale ci si sarebbe aspettati delle scuse accalorate ed il tentativo di allontanare in tutti i modi accuse e sospetti. Ma il nostro - il paese di Mussolini, Tambroni, Scelba, Pomicino, De Michelis, Craxi, Berlusconi, Scilipoti, Renzi - non è un paese normale. È accaduto che l’ANP (Assoziazione Nazionale Dirigenti Scolastici e Alte professionalità) abbia pubblicato delle slides per la formazione, che nei giorni scorsi hanno suscitato un grande e ragionevole scandalo.
Veniva infatti in esse segnalato un identikit di “docente contrastivo” (leggi pensante, divergente, critico, dialettico, incapace di ossequio e di acquiescenza) indesiderabile nella “Buona Scuola”. Non solo. Il materiale per la formazione passava dalla compiaciuta considerazione che gli insegnanti “non avranno la certezza di una scuola vita natural durante, come adesso”, all’ossimorica celebrazione del dirigente “specialista del generale”.
Il deprecato regime della collegialità e dell’elettività - per ANP fortunatamente superato dall’attuale centralità del DS, normata dalla “Buona Scuola” - avrebbe consentito agli insegnanti di approvare nei Collegi e nei Consigli di istituto atti di indirizzo viziati addirittura da “conflitto di interessi”. Occorre dunque spazzare via le prerogative degli organi collegiali, sembra indicare il vademecum e liberarsi di tutta la residuale democrazia scolastica.
Come intervenire? Semplice. È tutto descritto nelle slides: il Ptof va portato in Collegio Docenti "quando vi siano le condizioni per raccogliere il consenso" per "una discussione da contenere quanto più possibile" ed "evitando mozioni di tipo ostruzionistico e comunque illegittime"; e poi in Consiglio di Istituto cui spetta, secondo la 107, "approvare" il testo. E qui l’ANP si preoccupa perché "potrebbe significare che può modificarlo": "si tratta di un evento da evitare con ogni cura" e allora "il Dirigente avrà preparato accuratamente la delibera" "che sostanzialmente dovrà essere una ratifica". Ecco, in un’unica, sapiente mossa, spazzato via il diritto di rappresentanza di docenti, genitori, studenti, personale Ata, casomai anche tra questi ci fosse qualche “contrastivo”.
Un altro punto qualificante è la citazione relativa ai Marines - Don’t ask, don’t tell (“non chiedere, non dire”) - utile per invitare a non sollecitare proposte: concezione post renziana di dibattito, confronto, dialettica (sintetizzati - nello strano mondo di Anp - nel concetto di “ostruzionismo”).
Una serie di gaffes a dir poco imbarazzante, che inficia decisamente l’immagine dell’Anp, il senso della scuola come organo dello Stato e dell’esercizio della democrazia; e non come potentato di qualche modesto burocratino, arrogante e asfittico che gioca a fare il dittatore di provincia, vanificando decenni di battaglie per la democrazia scolastica e per la scuola della Repubblica.
Sorprendemente la risposta alle critiche, come si diceva, non sono state scuse; ma un ulteriore, incredibile rigurgito di arrogante autoritarismo. Infatti, in una riunione al Miur di qualche giorno fa, l’Anp si è difesa, etichettando l’intera questione come “strumentale” e opponendo alcune domande, che - qualora ce ne fosse bisogno - non fanno che aggravare la situazione e rendere ancora più esplicita l’assoluta incapacità di questa associazione di assumere una posizione differente da una volontaria esasperazione della conflittualità, quella tra dirigenti scolastici e docenti, indotta dalla legge 107.
“Basterà solo il richiamo ad uno dei più noti e sperimentati strumenti logici per vagliare la validità di un’affermazione: quello che va sotto il nome di “prova ex adverso”. Cosa accadrebbe se la categoria concettuale e comportamentale della “contrastività”, cui con orgoglio si richiamano non pochi dei nostri più accesi contestatori, fosse assunta a criterio regolatore della vita delle scuole, e delle comunità in genere? O, più banalmente, degli studenti nei confronti di quegli stessi docenti?”
Sono domande che minano alla base non solo i principi della democrazia scolastica e della libertà di insegnamento. Ma l’intero concetto di democrazia e partecipazione. Sono il segno scellerato di questo tempo triste ed angusto, quello degli omuncoli che - protetti evidentemente da chi percepiscono come più forte e più potente - alzano la testa. Finalmente senza censure e freni inibitori, legittimati da esempi più illustri e da una norma che serve da abbrivio per consentire interpretazioni di autorità arbitraria e liberticida, spacciati per efficienza ed ammantati di tecnicismi in salsa di modernità.
Siete davvero disponibili a lasciare i vostri figli, nipoti, le future generazioni in mano ad un manipolo sconsiderato, all’autoritarismo più becero? Noi no, perché consideriamo la libertà dell’insegnamento e la libera circolazione delle idee, la manifestazione delle opinioni e il pensiero divergente non una garanzia per i docenti. Ma una tutela per chiunque voglia iscrivere uno studente alla scuola pubblica con la convinzione di poter esigere da quella istituzione dello Stato il rispetto di qualsiasi identità, individualità, precipuità quello studente incarni, senza differenza di sesso, razza, convinzioni politiche, condizioni economiche e sociali, credo religioso.
Anche per quella scuola - la scuola della Costituzione, pubblica, laica, pluralista, democratica, inclusiva - hanno peraltro sacrificato la propria vita alcuni “contrastivi” d’eccellenza: Gramsci, Pertini, Gobetti, a cui sono intitolate alcune istituzioni scolastiche repubblicane; e non per caso. Senza la cui capacità di fare della propria “contrastività” esattamente il proprio “criterio regolatore”, il senso del proprio essere al mondo, il nostro Paese non avrebbe conosciuto quella democrazia che sta ignobilmente dilapidando.
Insomma: vergogna! L’ANP deve chiedere scusa. I dirigenti scolastici in servizio - quelli che non hanno partecipato ad una sola dei grandi momenti di mobilitazione degli ultimi anni contro lo scempio della scuola della Repubblica - si devono dissociare apertamente da dichiarazioni e intenzioni che sono - quelle sì - apertamente in contrasto con qualcosa con cui non si può entrare in conflitto legittimamente: la Costituzione, e non solo negli artt. 33 e 34.
E il ministro Giannini deve uscire dal suo offensivo silenzio e dire in modo esplicito cosa pensa di una vicenda che vilipende non solo la dignità professionale di docenti incapaci di ossequiare il capo di turno con acritica osservanza delle regole del quieto vivere; ma la democrazia intera in un Paese che ha perduto, assieme alla capacità di vigilare, anche quella di individuare limiti oltre i quali non è possibile andare. L’epica dell’uomo solo al comando, incarnata dal presidente del Consiglio segretario di partito, rischia di essere esportata definitivamente nel luogo in cui più che in ogni altro la libertà di espressione ha una funzione sacra, nel senso più laico della parola.
Marina Boscaino
Caro Marco Lodoli, tu e Matteo Renzi voi non siete i “maestri della nazione” e noi non siamo i vostri alunni
di Elisabetta Amalfitano (Left, maggio 22nd, 2015)
_*** Caro Marco,
Ebbene sì, anch’io quel 5 maggio ero a scioperare e ho contribuito a costruire quel profondo senso di solitudine di cui parli sulle pagine di Repubblica.
Nel leggerti mi è venuto in mente l’immagine di un giocatore che si lamenta di non trovare i propri compagni negli spogliatoi, mentre loro sono già sul campo a giocare la finale...
Caro Marco il tempo stringe... e non si può stare mani in mano a vagare per i corridoi. Ne va della nostra professione, ne va dei nostri ragazzi, ne va del nostro sistema scolastico. Stanno attaccando la scuola pubblica!
Tu, che ti sei sforzato così tanto di fare bella figura e noi, stupidi e arrabbiati, non abbiamo compreso le vostre intenzioni, le vostre serie e buone intenzioni. Lo sai qual è il problema? È proprio quest’aria buonista che nasconde invece l’arroganza di chi erge un muro e una distanza siderale fra voi della scuola “buona” e noi, della scuola “normale”.
Voi della scuola buona avete capito tutto e tutti, sapete come fare, animati dal sano ottimismo e dall’energia del fare. Noi della scuola normale invece siamo duri a capire, disfattisti e pessimisti sappiamo solo lamentarci e non vediamo la grandezza di una riforma epocale come la vostra. Siamo troppo arrabbiati e delusi, abbiamo le menti offuscate da anni di malaffare e di mal governo e prendiamo lucciole per lanterne additando voi, proprio voi, che vi siete rimboccati le maniche per risolvere gli annosi problemi della scuola italiana!
Non voglio e non posso credere che uno come te, che insegna da anni, che scrive libri, che ha partecipato alla ideazione di questa riforma, possa davvero credere che i veri e i grandi punti di forza del Ddl siano i 500 euro annui da spendere per la propria formazione culturale e l’assunzione dei precari. Nessuna parola che entri nel merito della riforma: e i soldi dati alle scuole private? E le modalità di assunzione dei precari storici? E le modalità dell’alternanza scuola-lavoro? E l’autonomia delle scuole gestita dal preside, “primus inter pares”? Nessuna parola inoltre sulle materie da insegnare, sul monte ore da distribuire, sulla relazione insegnante - allievo.
È inutile nascondersi dietro le semplificazioni e gli stereotipi della “professoressa tacco 12″ o del “professore marxista leninista”. Queste possono andare bene per una sceneggiatura dell’ennesimo film scadente sulla scuola, ma non per convincerci che vi siete spiegati male. Non è un problema di come dite le cose, ma delle cose che dite.
Chi ti scrive “festeggia” quest’anno il suo undicesimo anno di precariato: ho attraversato tutti i ministri, tutte le riforme che si sono susseguite nel nostro paese in quest’ultimo decennio, ho visto ogni anno una scuola diversa, conosciuto centinaia di studenti e decine e decine di insegnanti, ma raramente ho incontrato questa semplificazione, questa fatuità disarmante con cui presentate il vostro progetto. Dietro un’idea di scuola, c’è un’idea di essere umano, di società, di politica. E la vostra idea di essere umano, di società, di politica non ci piace per niente. Voi dividete gli esseri umani in “chi è fatto per studiare” e “chi per lavorare”, la vostra è la società del merito di avere i soldi. Acuite le disuguaglianze, elargite fior di euro alle scuole cattoliche.
Eppure basterebbe fare classi di venti alunni al massimo, rendere le scuole private senza oneri per lo stato e investire in quelle pubbliche. Tu che insegni non puoi negare di quanto possa migliorare una lezione in un’aula ben attrezzata con un massimo di 20 alunni.
dal tuo pezzo, così come dalla lettera che Matteo Renzi ha inviato a tutti noi docenti, emerge una freddezza e una presunzione che nascondono soltanto il disprezzo per coloro che quella scuola la vivono davvero. Senza i 500 euro i professori non si formerebbero! Ahimè caro Marco io quest’anno ne spendo “solo” 2500 ( pari a poco meno di due mensilità) per prendere un’altra abilitazione e non ti aggiungo quelli che spendo per i libri, per il cinema, il teatro, i convegni e le mostre che vado a vedere nella mia e in altre città italiane. I 500 euro sono la solita ovvietà elargita come se fosse una grazia scesa dal cielo. Ma come?!? Mi lamento proprio io che forse il prossimo anno verrò assunta? Vogliamo innanzitutto sapere i numeri precisi di queste assunzioni, ma soprattutto come e dove saremo assunti. Nessuno, ad oggi, è ancora in grado di spiegarcelo!
Inoltre quella cosa che si chiama Contratto nazionale avrà ancora una sua validità o sarà scavalcato dalle decisioni del governo?
Qui si tratta di difendere un’idea di scuola pubblica, di stato sociale, di laicità e di uguaglianza!
Qui si tratta di interesse vero per gli altri esseri umani, in particolare per quelle nuove generazioni che saranno i cittadini di domani.
Qui si tratta di difendere una professione dalle basse logiche del mercato e della competizione.
Qui si tratta di formare i giovani nel pensiero critico, nella propria autonomia.
Qui si tratta di fare bene e amare la propria professione.
Qui si tratta di difendere uno dei pochi luoghi di lavoro e di formazione in cui vigono l’onesta e la trasparenza.
Non potete farlo voi che girate da soli per i corridoi e guardate dall’alto in basso.
Tu e Matteo Renzi vi lamentate di non essere stati capiti. Come farebbe un bravo insegnante quando la maggior parte dei suoi alunni non arriva alla sufficienza. Il buon insegnante è quello che ammette di non essersi spiegato bene.
C’è una piccola differenza: che voi non siete i “maestri della nazione” e noi non siamo i vostri alunni.
Riforma della scuola: rottamare la libertà?
di Anna Angelucci *
Sono ore convulse e disperate. I docenti sono in piazza, a Montecitorio, davanti al palazzo dove si gioca il destino della scuola e, insieme, il destino del nostro Paese. Parlare di scuola in questi giorni non è più questione da ‘addetti ai lavori’. Non è più solo materia sindacale, o attività giornalistica, o passatempo da intellettuali.
Siamo tutti coinvolti, tutti parte in causa, non come insegnanti, non come presidi, non come studenti né come genitori, non come politici. Ma come cittadini. E tutti, come cittadini, dobbiamo assumerci le responsabilità di una scelta: nel disegno di legge del Governo non ci sono solo articoli che rideterminano, peggiorandolo, il governo della scuola.
Nel disegno di legge di questo Governo scellerato è scritta la morte della scuola pubblica, la morte della libertà di insegnamento e di apprendimento, la morte della scuola della Costituzione della Repubblica italiana.
Non aderire al progetto del Governo-Partito [-Nazione, fls], che spaccia per riforma l’esasperazione in chiave padronale dell’autonomia scolastica, non significa essere ostinatamente passatisti. Dissentire dalla retorica stucchevole con cui questo Governo-Partito mente sull’ascolto, mente sulla discussione critica, mente sui dati della mobilitazione non significa essere “squadristi”. Gli squadristi uccidevano gli antifascisti; noi, semplicemente - mentre insegniamo - parliamo, scriviamo, argomentiamo, proponiamo alternative. Dissentire sulle modalità di una valutazione delle scuole basata sull’imposizione coatta di test standardizzati che in tutto il mondo sono ampiamente e autorevolmente criticati per i loro limiti scientifici e per le implicazioni negative sull’attività didattica non significa essere ignobili “sabotatori” che vogliano a tutti i costi mantenersi nella certezza della loro autoreferenzialità. Significa esercitare il pensiero critico di cui disponiamo, significa mobilitare tutte le nostre conoscenze, le nostre competenze e le nostre esperienze per rifiutare l’applicazione di uno strumento semplicemente sbagliato. A scuola si chiama ‘saper fare’ ed è quello che chiediamo ogni giorno ai nostri studenti.
In piazza ci sono insegnanti che credono nella scuola pubblica come strumento di emancipazione culturale e sociale, che non hanno mai smesso di approfondire, di aggiornarsi, di interrogarsi su come garantire la qualità della scuola ai propri studenti a dispetto del discredito che ci ha sommerso nell’ultimo ventennio, a dispetto dei tagli che ci hanno soffocato, dei soffitti che ci sono crollati sulla testa, delle classi sempre più affollate in cui ci hanno stipato insieme ai nostri studenti.
Siamo quelli che hanno continuato a insegnare storia nonostante la diminuzione delle ore di storia; quelli che hanno continuato a insegnare la geografia nonostante la cancellazione di questa disciplina; quelli che insegnano “Cittadinanza e Costituzione” nonostante la riduzione del monte ore delle materie umanistiche nelle scuole di ogni ordine e grado. E nonostante la Costituzione venga calpestata ogni giorno dai rappresentanti delle istituzioni.
In piazza ci sono gli insegnanti che sanno che le peggiori leggi sulla scuola e sull’Università nell’ultimo ventennio le ha fatte il Partito Democratico: la legge sull’autonomia scolastica, che - con l’aggravio della modifica del titolo V della Costituzione che ha ‘regionalizzato’ l’istruzione - ha frantumato l’unitarietà del sistema scolastico, trasformando le scuole in ‘progettifici’ e deterministicamente accentuando quelle differenze territoriali e culturali che, al contrario, la Costituzione chiede proprio alla scuola di livellare, per garantire le pari opportunità; la legge sulla parità scolastica, che ha dissennatamente assimilato le scuole private al sistema d’istruzione pubblico implicandone il finanziamento economico da parte dello Stato in spregio al dettato costituzionale, per arrivare all’aberrazione attuale che vede le scuole private paritarie finanziate ogni anno con centinaia di milioni di euro di denaro pubblico mentre quelle statali sopravvivono oramai solo grazie al contributo volontario, privato, delle famiglie; il 3 + 2 all’Università che, volendo stoltamente semplificare i percorsi, ha raggiunto il duplice, paradossale obiettivo di allungare e, nel contempo, imbarbarire i livelli della formazione superiore.
Basterebbe questo piccolo esercizio di memoria per capire che questo partito, ora al Governo, non è capace. Che andrebbe diffidato per sempre dall’occuparsi di istruzione. Ma il nostro - con buona pace di Roger Abravanel e dei suoi adepti, che sembrano non averlo ancora capito - è il Paese della meritocrazia. Ovvero il paese in cui il ‘governo’ (politico) del merito fa sì che vengano cooptati ogni volta i meno meritevoli.
Che so, un sottosegretario all’Istruzione che non è neppure laureato. Una responsabile dell’Istruzione del partito di Governo che in televisione vagheggia la “rottamazione delle discipline” senza alcuna consapevolezza, non dico epistemologica, ma almeno logica delle proprie affermazioni. Una ministra dell’Istruzione che, da docente, firmava documenti contro i sistemi di valutazione quantitativi e da responsabile del dicastero deplora aspramente chi li critica. Un Presidente del Consiglio impulsivo e compulsivo, che preferisce cimentarsi in un corpo a corpo muscolare con centinaia di migliaia di lavoratori, portando scuola e Parlamento a livelli di scontro parossistici piuttosto che fare semplicemente, e ben più intelligentemente, il suo dovere: assumere tutti gli insegnanti come impone la sentenza della Corte europea e abbandonare l’idea che in una scuola comandata dai presidi i suoi figli incontrerebbero insegnanti migliori. Perché al contrario, imparerebbero la servitù, il conformismo, la piaggeria, l’utilitarismo, l’omologazione, l’irresponsabilità, la miseria culturale e morale.
Che Governo e Parlamento si fermino. Che i cittadini italiani capiscano: riformare la scuola non può significare rottamare la libertà.
Anna Angelucci
Agorà pedagogica
di Alain Goussot ("comune-info", 26 aprile 2015)
di Alain Goussot*
In questo momento sta crescendo il movimento di protesta degli insegnanti contro il progetto del governo Renzi-Giannini, un progetto che, nei fatti trasforma la scuola in una azienda e legittima le diseguaglianze sociali contraddicendo in questo modo la carta costituzionale. È molto probabile che il governo e il ministero rimangano completamente sordi alla protesta e che facciano passare il disegno di legge, tenuto conto delle tredici deleghe in bianco che ha a disposizione si capisce che farà quello che vuole. Ma non ascoltare quello che sale dalla società e in particolare dal mondo degli insegnanti che sono a contatto quotidiano con gli alunni è un atteggiamento miope e che denota una concezione profondamente antidemocratica del governo.
Tuttavia, dal movimento di protesta nelle scuole contro il disegno di legge la Buona scuola potrebbe nascere un nuovo progetto democratico per la scuola italiana, un progetto pedagogico serio che affronti le questioni dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ai sapere e alle conoscenze, all’istruzione per tutti, della formazione culturale generale e solida di un cittadino consapevole e in grado di pensare con la propria testa, di una integrazione tra un recupero dell’identità umanistica della cultura italiana e una serie formazione scientifica, di una scuola accogliente e davvero inclusiva, di una scuola ormai multiculturale e meticcia.
Un grande progetto di rinnovamento della scuola che sappia mettere al centro la pedagogia e una didattica ricca e viva, che sappia preparare gli insegnanti sia per entrare nella professione docente che per continuare ad aggiornarsi durante la carriera, una scuola che sappia dialogare con la comunità e le famiglie in una prospettiva co-educativa costruendo una grande alleanza pedagogica per un futuro di democrazia e di sviluppo umano basato sulla solidarietà, la giustizia, l’eguaglianza , il riconoscimento delle differenze e la libertà responsabile.
Per aiutarsi la scuola, gli insegnanti possono ispirare dal grande e ricco patrimonio d’idee prodotte dalla storia dell’educazione attiva, basta pensare a Maria Montessori, Mario Lodi, Gianni Rodari, Bruno Ciari, Dina Bertone Jovine, Aldo Visalberghi, Lamberto Borghi, Don Lorenzo Milani, Antonio Banfi, Piero Bertolini, Giovanni Maria Bertin ma anche John Dewey, Ovide Decroly, Adolphe Ferrière, Edouard Claparède, Roger Cousinet, Célestin Freinet, Lev Vygotskij, Anton Makarenko, Paulo Freire ecc. Insomma l’esperienza ricca e diretta di migliaia di insegnanti nelle loro scuole e nell’attività quotidiana combinata con le fonti storiche delle pedagogie attive e critiche (per arrivare fino ad oggi) può favorire un Rinascimento pedagogico che sappia rilanciare e ridare vitalità alla scuola democratica, meticcia e pluralista della Repubblica! La protesta radicale diventerà in questo modo progetto collettivo che interpella tutta la società e farà della scuola l’epicentro del rinnovamento culturale e sociale autentico del paese.
Credo che gli insegnanti debbano trasformare le loro scuole in bastioni della difese della democrazia e del diritto per tutti di accedere all’istruzione, devono fare delle loro scuole un Agorà pedagogica che sappia diventare spazio di discussione e dialogo educativo progettuale tra insegnanti, insegnanti alunni e genitori.
Anton Makarenko, il grande pedagogista ed educatore sovietico dopo la rivoluzione del 1917, parlava di collettivi pedagogici cioè di spazi organizzati dove educatori, insegnanti, genitori e anche ragazzi si confrontavano sulle grandi questioni della formazione dei futuri cittadini e dell’accesso di tutti ai sapere e alle conoscenze necessarie per essere delle donne e degli uomini effettivamente autonomie liberi. Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano, parlava di circoli culturali e pedagogici aperti a tutti come spazi di partecipazione democratica alla riflessione sui grandi temi dell’istruzione, dell’educazione, della giustizia, dell’ambiente, della democrazia partendo dalla formazione scolastica.
I collettivi pedagogici nelle scuole possono essere dei luoghi di elaborazione progettuale e anche di presa di coscienza collettiva e di sensibilizzazione di tutta la comunità sull’importanza della scuola come bene comune. I collettivi pedagogici possono essere composti da insegnanti, educatori, cittadini interessati e anche alunni. Luoghi aperti in cui si riflette e si costruisce assieme il futuro della scuola e questo in ogni territorio. Credo che sia la migliore risposta da dare, accompagnando le proteste, le manifestazioni e il movimento in atto nella direzione della costruzione partecipata dal basso di quel intellettuale collettivo di cui parlava Antonio Gramsci.
Collettivi pedagogici di diverse scuole possono collegarsi tra di loro e condividere argomenti di discussione e proposte questo sia nella medesima comunità che tra comunità territoriali diverse. In questo modo la protesta diventa un attore riflessivo e davvero rivoluzionario.
*Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia).
Ha pubblicato: La scuola nella vita. Il pensiero pedagogico di Ovide Decroly (Erickson); Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale (Aracneeditrice); L’approccio transculturale di Georges Devereux (Aracneeditrice); Bambini «stranieri» con bisogni speciali (Aracneeditrice); Pedagogie dell’uguaglianza (Edizioni del Rosone). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
Terza edizione dell’iniziativa del Sole 24 Ore
Presenti i ministri Franceschini e Giannini
Cultura, Stati generali a Roma
Un ecosistema da rilanciare
di Pier Luigi Sacco (Il Sole-24 Ore, 19.06.2014)
Si tengono oggi a Roma, al l’Auditorium Conciliazione, gli Stati generali della cultura organizzati dal Sole 24 Ore. L’iniziativa, nata dalla pubblicazione sulla Domenica del Manifesto per la cultura, è alla III edizione. I lavori iniziano alle 9,45. Partecipano il ministro della Cultura Franceschini e quello del l’Istruzione e dell’Università Giannini.
Solo cinque anni fa, il giornalista francese Frédéric Martel pubblicava un libro molto influente, Mainstream, nel quale passava in rassegna il panorama mondiale della produzione culturale e creativa. La sua conclusione era netta: per quanto si stesse assistendo a un’impressionante moltiplicazione dei centri geografici di produzione di contenuti culturali anche in paesi economicamente emergenti, il predominio statunitense sulla scala globale appariva sostanzialmente indiscusso.
Lo scenario di oggi è alquanto diverso. Paesi come la Corea del Sud sono rapidamente diventati giganti della produzione culturale, capaci di penetrare non più soltanto nei mercati asiatici ma in quelli del Medio Oriente (e in prospettiva probabilmente in Europa). La Cina sta aprendo un numero impressionante di nuovi musei e centri di produzione multimediale. Alcuni paesi del Golfo aspirano a diventare i nuovi attrattori del grande turismo culturale con investimenti senza precedenti in strutture museali di ultima generazione. E questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti di un movimento tettonico. La centralità degli Stati Uniti in un simile contesto è sempre più in discussione, e a maggior ragione ciò vale per l’Europa, e quindi per l’Italia.
Siamo di fronte a una fase di cambiamento di straordinaria portata, le cui conseguenze possono essere previste solo in parte, ma per la quale almeno una certezza l’abbiamo: per essere competitivi in paesi come il nostro bisognerà saper innovare, produrre e attrarre talenti e competenze, sviluppare nuovi modelli di business e al tempo stesso salvaguardare l’autenticità e il valore di ricerca della sperimentazione culturale contemporanea così come del patrimonio culturale e paesistico.
Ma non è più solo una questione di policentrismo geo-culturale. È anche, sempre più, una questione di senso individuale e sociale dell’esperienza culturale. Per accedere ai contenuti culturali non è più indispensabile (per quanto consigliabile) recarsi negli spazi deputati. L’esperienza culturale può oggi accadere in qualsiasi ambiente e in qualsiasi situazione, con il semplice ausilio di uno smartphone o di un tablet, e presto di tecnologie indossabili.
Inoltre, la produzione stessa dei contenuti culturali è oggi sempre più diffusa e generalizzata: tutti noi produciamo continuamente contenuti, più o meno interessanti, più o meno originali, ma in ogni caso questa nuova situazione produce un fondamentale mutamento di prospettiva, nel quale il pubblico «passivo» diventa invece sempre più attivo, consapevole, partecipe, e sempre più co-creatore dell’esperienza piuttosto che semplice utilizzatore.
Non sono scenari futuribili, è quello che accade oggi, sotto i nostri occhi, se soltanto vogliamo vederlo. E le conseguenze sono importanti e profonde: occorrerà sempre più pensare alla cultura non più come un settore specifico dell’economia e della società, per quanto importante, ma piuttosto come un vero e proprio ecosistema che si connette con tutte le principali dimensioni della vita sociale ed economica: dalla salute all’innovazione, dalla sostenibilità ambientale alla coesione sociale, ovvero con tutte quelle dimensioni che hanno un rapporto diretto con la qualità della vita e con le determinanti fondamentali dei comportamenti individuali e collettivi.
In Italia, per quanti sforzi si stiano oggettivamente facendo per dare impulso a un sistema da troppo tempo trascurato nelle priorità delle scelte politiche e mortificato nei suoi ancora grandi talenti e competenze, siamo decisamente indietro, e se davvero vogliamo dare seguito alle nostre ambiziose affermazioni circa un futuro modello nazionale di sviluppo fondato sulla cultura, dobbiamo andare molto al di là di un volonteroso potenziamento di un modello di valorizzazione turistico-culturale del patrimonio che si fonda su una logica di produzione e disseminazione culturale sostanzialmente vecchia di decenni.
In particolare, non è sufficiente lavorare su un salto di qualità dei canali digitali di promozione del nostro turismo culturale (che è necessario e che sta fortunatamente avvenendo), ma bisogna appunto lavorare sulla natura stessa dell’esperienza culturale e del suo rapporto con l’intera società e con l’intera economia del nostro paese.
Le nuove priorità sono, ad esempio, l’aumento delle competenze culturali e dei livelli di partecipazione attiva dei nostri cittadini, oggi ben sotto la media europea, il raggiungimento di standard di connettività digitale adeguati ai nostri obiettivi di posizionamento competitivo (e anche questi ben sotto la media europea), la digitalizzazione del patrimonio (che è molto, molto di più della semplice scansione digitale dei contenuti, e per capirlo basta una semplice visita al sito di Europeana, la biblioteca digitale europea), lo sviluppo di modelli di business che tengano conto della fisiologica evoluzione (leggi, in prospettiva: dissoluzione) dell’attuale regime della proprietà intellettuale, e in ultima analisi l’elaborazione di una chiara strategia di sviluppo del sistema della produzione culturale e creativa, possibilmente supportata, come accade oggi in tutti i paesi europei più competitivi nel settore, da un’agenzia di sviluppo nazionale che impieghi le migliori competenze disponibili (come ad esempio Nesta nel Regno Unito o Kultur Styrelsen in Danimarca).
Vaste programme, osserverà qualcuno. E magari è vero. Ma se è così, sarà allora il caso di rinunciare anche ai nostri vasti proclami su cultura e futuro, e puntare su opzioni di sviluppo diverse, più realistiche e modeste. Se invece crediamo davvero che la cultura sia uno dei settori chiave per ricostruire la nostra economia, sarà bene rendersi conto che l’asticella è molto, molto in alto, e che sarà bene iniziare ad allenarsi sul serio e prendere una rincorsa bella lunga. C’è chi lo sta facendo da tempo, e non aspetta certamente noi.
Ma l’esame dovremmo farlo allo stato della nostra scuola
di Mila Spicola (l’Unità, 18.06.2014)
Quattro le tipologie che il ministero metterà sul tavolo dei maturandi per la prima prova scritta, quella di italiano: analisi del testo, saggio breve/articolo di giornale, tema storico e tema di carattere generale. Tra i 465mila studenti alcuni miei ex alunni. «Prof, secondo lei cosa è più facile?». «Valeria, quel che sai far meglio, no? Leggi tutte e quattro le tracce, fatti uno schemino per ciascuna, se l’argomento lo conosci e lo governi, vai e scrivi. Rifletti, bevi, respira, non ti far prendere dall’ansia..». «Pare facile prof! Lei non si fece prendere dall’ansia?». «Nel tema no, nella versione sì». «Ogge su santo, prof! La versione!».
Negli ultimi giorni i miei ingressi su Facebook sono stati costellati dalle domande e dai dubbi dei miei primi ex alunni alle prese con l’esame di Stato nella Secondaria di Secondo Grado. Quelli almeno che ci sono arrivati. I miei ex pulcini da mesi mi chiedono, mi interrogano, mi raccontano e mi fan ricordare e ritenere come i giorni e i tempi prima degli esami siano sempre identici. Tanto da cadere nell’inevitabile incubo degli esami da rifare anche io. On line i siti, ma anche i quotidiani, in rete o cartacei, sono pieni di consigli, sempre gli stessi, su come affrontare le prove: cosa mangiare, quanto dormire, come studiare. Oppure di dati sui numeri, su quanti sono gli scrutinati, gli ammessi, i sommersi e i salvati.
Non so, io mi ritrovo a riflettere su altro. Cosa faranno e dove andranno i miei ex pulcini, quali competenze stiamo dando loro, quale conoscenza porteranno nel loro percorso di vita? Esame di maturità. Maturità di chi? Che adulti hanno intorno a loro rispetto ai quali misurare l’indicatore della maturità, della competenza, della conoscenza? Cosa stiamo certificando?
Osservo e rifletto sulle competenze di un liceale e su quelle richieste a uno studente di istituto tecnico professionale e so perfettamente che il massimo nella valutazione del primo non corrisponde in Italia al massimo della valutazione del secondo. E nemmeno la certificazione delle loro competenze di base. Non è disuguaglianza questa? Dovrei raccontarlo a questi ragazzi? O a noi adulti? O ai miei colleghi docenti? O al «Sistema», così stiamo tutti a posto e va tutto bene madama la marchesa?
La presente e viva e le morte stagioni vo comparando e non so se nella mia stagione le cose andavano allo stesso modo, certo non ci riflettevo allora. Vo comparando ancora le competenze acquisite e da valutare di uno studente siciliano, a cui il «Sistema» ha offerto circa due anni in meno di scuola rispetto al coetaneo trentino, per assenza di tempo pieno nella scuola elementare, a cui si sommano gli anni in meno all’asilo, e tali competenze verranno valutate tali e quali da un esame di Stato Nazionale.
Non è disuguaglianza questa? Non è anticostituzionale una tale differenza di offerta d’istruzione, innanzitutto di tempo, di strutture, di occasioni? E mi sovvien l’eterno «fondamentale» problema dell’andar a scuola un anno prima, per uscire un anno prima e «affrontare il mondo del lavoro alla stessa età di altri paesi europei» e mi chiedo: è questa l’emergenza maggiore adesso?
Non sarebbe il caso di interrogarci su altro? Un anno prima ma con quali profili? Sempre gli stessi? Con quali programmi? Con quali contenuti? Con quali direzioni di sviluppo professionale certo tracciate? Siano esse immediate o posticipate da un percorso universitario? Cosa stiamo dando e a cosa stiamo preparando questi novelli esaminandi?
L’esame di maturità forse dovremmo farcelo noi nel predisporre un cambiamento necessario del percorso della scuola superiore, o sbaglio? Una riqualificazione delle scuole tecnico professionali, che tornino ad essere la fucina qualificata e qualificante del ceto medio e della piccola imprenditoria italiana, aggiornando programmi, percorsi e sbocchi, non il girone infernale dove mandare chi «non ha voglia di studiare».
Lo stesso per i licei: interrogarsi sui contenuti ma anche sui metodi. E per entrambi non cedere mai di una virgola su una pari e uniforme offerta di qualità culturale, sia che si tratti del tecnico informatico di Canicattì o del liceo Nazareno di Roma. Che si torni a parlare di attitudini dei ragazzi e non di separazioni di file di destini segnati per altro: per origine, per ceto, per luogo. «Prof, secondo lei cosa è più facile?»
Cosa volete rispondere ai nostri ex pulcini? Dirgli di bere, di respirare profondamente, di riflettere, di farsi uno schema chiaro prima di scrivere e di riprendere le fila del loro futuro, in modo più pressante e vivo. Magari col nostro aiuto, non con le nostre resistenze e le nostre gabbie mentali. Cambiare noi intanto, se ne siamo capaci.
Confessioni politiche. Corrotti e contenti
Io rubo, ma lo faccio per far del bene al Paese
di Pino Corrias (il Fatto, 07.06.2014)
Io rubo. Pago tangenti, sigillo buste, movimento contante. Lo faccio ovunque, dove serve: nelle aree di servizio, per strada, in discoteca, al ristorante. Mi tengo la mia cresta, diciamo il 10 per cento più le spese per il disturbo, abbastanza per tirarci fuori una casa, un attico al mare, una seconda moglie, la governante, due auto, una barca, una ragazza di prima classe per le serate che mi sento solo, un po’ di bambagia esentasse in Lussemburgo per la vecchiaia e un cane. Il cane è l’unico che mi vuole bene.
IO RUBO E HO LA COSCIENZA A POSTO. Muovo l’economia. Compro terreni che non valgono un cazzo, do la sveglia agli uffici tecnici, ai geometri indolenti, agli assessori in fregola. Ingaggio due imprese di malavita per semplificare i permessi e un’azienda buona che fa il lavoro in nero, al ribasso, ed ecco che saltano fuori cento villini vista pioppi e autostrada. E se poi nessuno li compra prendetevela con i dilettanti delle agenzie e con questa maledetta recessione. Io cosa c’entro?
Scavo dighe in fondo al mare, un portento di ingegneria che il mondo ci invidia, lubrifico in dollari, euro, cene, escort, cocaina, vacanze, fondi pensione. Combatto le maree e finanzio il Carnevale, salvo Venezia da tutti i metalli pesanti che scarica in laguna quell’altro capolavoro di Petrolchimico che astuti ingegneri hanno costruito nel posto più bello del mondo, piantando ciminiere d’altiforni sulla schiena delle sogliole e sulle rime di Lord Byron. È colpa mia se poi ai cristiani e alle vongole gli viene il cancro?
Io rubo e innalzo pale eoliche in cima a delle stupide colline d’Appennino dove volano stupidi uccelli e mosche. Le pale fanno schifo, lo so, ma un architetto scemo che dice che invece sono belle si trova sempre. E anche un artista controcorrente. Muoiono le api? Chissenefrega, apriamo il dibattito, facciamo sei convegni pieni di hostess bionde sulle energie rinnovabili, foraggiamo il ministro e la sua corrente di arrapati, adottiamo una coppia di lontre sul Trebbia, due ecologisti in Amazzonia e vedrete che prima o poi il vento arriva.
Io rubo e fabbrico corsie d’ospedali in linoleum ad aria condizionata, sale operatorie in acciaio inox, non è colpa mia se poi l’energia elettrica non arriva, piove dal tetto, gli zingari si fregano il rame e il polmone per la ventilazione meccanica va in malora. Nella Sanità bisogna stare attenti, c’è così tanta malavita che neanche nell’infermeria ad alta sicurezza di Poggioreale: sottosegretari che allattano primari, primari che si scopano le infermiere, infermiere che si vendono i letti, tutto sovrinteso dalla politica, benedetto dal vescovo, ci mancherebbe, purché le infermiere, i primari e i sottosegretari siano dei buoni obiettori di coscienza.
Io rubo e faccio pil. Dicono 60 miliardi di euro l’anno, che poi sarebbe la metà della corruzione di tutta l’Unione europea messa insieme, una bella soddisfazione per il Made in Italy, la professionalità paga. La creatività pure. Se poi la cifra sia vera o falsa non lo so. Se è tutto nero, tutto sommerso, come si fa a vedere? Con le cimici dentro i piatti di astice e spigola da Assunta Madre? Pedinando i commercialisti? Perquisendo le fondazioni bancarie? Oppure mettendoci a contare le mignotte su via del Babbuino?
Io rubo e non capisco tutto questo scandalo. Scandalo a orologeria, dico io. Uso politico dello scandalo, dico io. Gogna mediatica. Che a essere dei veri garantisti ogni scandalo andrebbe considerato innocente fino al terzo grado di giudizio di un giusto processo, diminuito di ogni attenuante. E per quel che ne so con Ilva, Malagrotta, Montepaschi, Expo, Carige, Mose, non siamo neanche ai preliminari. Quindi calma e gesso.
CHE POI DOVREMMO avere un po’ più di orgoglio patriottico, visto che gli scandali li abbiamo pure esportati - come l’olio, la pasta, il concentrato di salsa - specie ai tempi d’oro del socialismo riformista e altruista, con le bananiere dirette in Somalia, le autostrade dirette a Tripoli, gli ospedali nel deserto. Io rubo e la chiamo economia reale, condivisione, socialità. La chiamo adrenalina, dinamismo, gioia di vivere. Guarda la faccia triste di un sindaco finlandese senza tangente e quella allegra di uno dei nostri che incassa mozzarelle e cozze pelose a ogni ordinanza. Guarda le pance e le mandibole dei nostri consiglieri regionali, che sposano figlie, festeggiano amanti, volano in business, visitano Padre Pio e i Caraibi. Ascolta le risate. Lasciati andare, ce n’è per tutti. Io rubo e ruberò fino alla morte. Pensa che noia senza.
Ma quando dichiariamo guerra alle mazzette?
Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 05.06.2014)
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta.
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.
C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Renzi grida al ladro, ma sui corrotti ferma tutto
Il suo governo rinvia il decreto con i poteri a Cantone
e fa slittare la discussione sulla nuova legge per contrastare le tangenti
di Wanda Marra (il Fatto, 06.06.2014)
"Il problema della corruzione non sono le regole che non ci sono, sono quelle che non si rispettano. Un politico che viene indagato per corruzione io lo indagherei per alto tradimento. Uno che prende tangenti tradisce la fiducia, l’onore su cui aveva giurato”. Matteo Renzi, dopo l’ennesima retata di arresti, quella sul Mose, usa parole forti, nella conferenza stampa dopo il G7 di Bruxelles. Però mentre annuncia “per le prossime ore, i prossimi giorni” nuove norme sull’anticorruzione chiarisce: “Non possiamo dire sempre che il problema sono le regole, sono i ladri”.
Una notazione quasi antropologica, che però tradisce le difficoltà di mettere mano a una situazione deflagrante. Prima l’Expo, adesso il Mose. Tant’è vero che il decreto previsto per oggi, quello che doveva dare i “super poteri” a Raffaele Cantone, non entrerà nel Cdm. La situazione è troppo complessa. E una cosa è fare annunci in campagna elettorale, una prendere di petto un problema endemico in Italia come la corruzione.
RENZI in questi giorni si è definito arrabbiato. Eppure sembra piuttosto preso alla sprovvista. Quello che poteva andare bene per l’Expo non va bene per tutto. Spiega Cantone: “Se il Mose finisce con due anni di ritardo, non succede niente. Ma l’Expo ha una scadenza ben precisa”. E questo mette l’accento su uno dei punti in discussione: alle società colpevoli si possono togliere gli appalti, o almeno si possono commissariare? O in nome dell’urgenza è il caso di far arrivare i lavori in fondo? Il testo a Palazzo Chigi sarebbe quasi pronto a livello tecnico, ma politicamente i nodi sono da sciogliere. E il premier domenica parte per la Cina e per quando torna ha già pronto il decreto Pa, che dovrebbe andare in Cdm il 13 giugno.
Cantone ieri si è affrettato a dichiarare che non ci sono conflitti tra lui e il premier. Eppure l’impressione è che voglia garanzie difficili da ottenere. Intanto, slitta anche la legge anti corruzione, che era calendarizzata per la prossima settimana. Ieri il sottosegretario Cosimo Ferri ha annunciato in Commissione Giustizia al Senato che il governo presenterà un suo ddl. Questo - a norma di regolamento - basta a far slittare tutto di un mese. L’intento - ufficialmente - sarebbe migliorativo. Per ora quel che si vede è solo un allungamento dei tempi. E i rumors a Palazzo Madama raccontano di uno scambio: Forza Italia otterrebbe che nel falso in bilancio non venga prevista la possibilità di procedere in automatico, in cambio del sì alla riforma del Senato.
Ieri intanto è arrivata anche la posizione ufficiale del governo (e del Pd) sul sindaco di Venezia arrestato, Giovanni Orsoni. Affidata al sottosegretario, Luca Lotti, fidatissimo del premier-segretario: “Orsoni, non è iscritto al Pd, non ha tessera, è un sindaco indipendente". Per Lotti "le responsabilità sono individuali, non hanno un colore di partito, ma questo non significa scaricare nessuno". Una dichiarazione che arriva non a caso con 24 ore di ritardo, visto che Orsoni sì non è iscritto, ma dal Pd era sostenuto. La Boschi si spinge più in là: “Se le accuse saranno provate, ne trarremo le conseguenze, come fatto col caso Genovese”.
A BOTTA CALDA molti Democratici erano pronti se non proprio a difendere Orsoni (come ha fatto Fassino) quanto meno a concedergli il beneficio del dubbio. Malumore tra i renziani per le molte “mele marce” del Pd, un partito che in buona parte hanno trovato, ma del quale oggi fanno parte. Spiega il segretario del Veneto, Roger De Menech: “Serve trasparenza per i finanziamenti dei privati alla politica, che significa da una parte tracciabilità, dall’altra renderli tutti pubblici”. Mentre ci tiene a mettere l’accento sul fatto che i vertici del Pd veneto sono stati tutti rinnovati. Per restare in tema di Veneto, da notare che c’è il ballottaggio di Padova: il leghista Bitonci contro il Democratico, Rossi. Renzi non andrà a iniziative elettorali: era molto difficile prima, figuriamoci adesso.
Dai diamanti non nasce niente...
di Renato Sacco
in “www.mosaicodipace.it” del 18 giugno 2012
“Guerra istituzionale contro il governo, difesa del popolo del Nord, Padania Libera, Secessione.” E’ normale limitarci a sentire queste cose gridate dal palco della Lega domenica scorsa? E’ normale essere spettatori silenti di fronte a chi inneggia alla difesa non di tutti i cittadini, ma solo di quelli del Nord? E’ normale sentire queste cose da chi fino a pochi mesi fa era Ministro di questo Stato? E’ normale che l’ex Ministro dell’Interno fomenti i sindaci della Lega a riconsegnare al Prefetto la fascia tricolore? In nome non di un alto valore morale che riguarda tutto il popolo, ma solo il popolo del Nord? E perché i sindaci riconsegnando la fascia non danno anche le dimissioni?
Se uno studente agli esami di maturità dovesse scrivere le stesse cose dette dal palco della Lega, anche contro Napolitano, come verrebbe valutato? Se un cittadino comune, ancor peggio se straniero, venisse intercettato a dire certe affermazioni, cosa gli succederebbe? Se a violare la legge è un cittadino straniero senza permesso di soggiorno, scatta la reclusione fino a 18 messi nei CIE. Invece se sono i sindaci della Lega, con Maroni, Bossi e compagnia, niente. Si sorride, si da poco peso... le solite battute della Lega. Certo ci sono problemi più gravi, in Italia e nel mondo. Ma queste frasi - al di là di una valutazione politica o partitica sul governo Monti, le tasse, le pensioni ecc. - creano una cultura, un modo di pensare che porta a dire, ad esempio: ‘Perché il terremoto è venuto qui al Nord e non da Roma in giù?’
Forse mi sbaglio, ma credo non sia giusto stare semplicemente a guardare, come peraltro abbiamo fatto in Bosnia e i altre zone dove dalle parole si è passati ai fatti. Mi chiedo se anche la Chiesa, a partire dai laici nelle varie parrocchie fino a chi ha ruoli istituzionali e di responsabilità, debba limitarsi a guardare e tacere. Perché si interviene, anche pesantemente, su temi come le coppie di fatto, la scuola, o altro e si tace su affermazioni e scelte, con chiari segnali anche di razzismo, che vanno a ledere il principio fondamentale di una comunità che è il ‘bene comune’?
Forse per paura che Bossi, come ha già fatto in passato, minacci di toccare l’8xmille? Forse per paura di fare emergere una base leghista, che vorrebbe un’Italia divisa in due, anche in alcune comunità cristiane? Forse sono paure infondate. Forse ci si può consolare con le parole della canzone di De André ‘dai diamanti non nasce niente...’. Ma mi sembra davvero troppo poco
ESAME DI MATURITA’ 2011 - SECONDA PROVA SCRITTA: LATINO, AL CLASSICO:
L’UNICO BENE E’ LA VIRTU’ *
Se uno vuole essere felice, si convinca che l’unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono insignificanti e di breve durata, se paragonati all’età dell’universo.
11 Conseguenza di questi lamenti è che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano scarsi, incerti e caduchi. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: odiamo la vita, temiamo la morte. Ogni nostro disegno è incerto e non siamo mai pienamente felici. Il motivo? Non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove la nostra volontà necessariamente si arresta: oltre la vetta non c’è niente.
12 Chiedi perché la virtù non provi nessun bisogno? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà: chi vuole mantenere l’uno e l’altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali, rinunciare a molte cose di cui si compiace come se fossero beni.
13 Scompare la forza d’animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo al meglio
*
LUCIO ANNEO SENECA,
Lettere a Lucilio
Traduzione da
Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanas
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiPDF/Seneca/LETTERE.PDF
Premessa sul tema. Note:
Il paradosso dell’identità
Manifesto per vivere in una società aperta
Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l’egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie
di Remo Bodei (la Repubblica, 22.06.2011)
Da termine filosofico e matematico per designare l’eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l’"eredità di sangue" o l’autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell’acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili.
Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l’espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un’ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l’identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell’alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l’alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità.
La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l’italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l’alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l’identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l’Italia ancora da unire: "Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l’Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l’intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano".
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell’esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale.
Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall’egoismo, con la rinascita di piccole patrie.
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
L’analisi di Gramsci (già contro le derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
ANTONIO GRAMSCI (1924). "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo".
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 12 giugno 2011)
Si è concluso domenica scorsa il Festival dell’Economia di Trento. Già alla sua sesta edizione non ha perso in attrazione e interesse che per la presenza dei relatori, ma anche di uditori e testimoni può ben vantare un raggio internazionale. Il tema di questa edizione “I confini della libertà economica” era già in se stesso una provocazione, perché è forte ancora il mantra della libertà dell’attività economica come condizione sine qua non perché l’economia possa svilupparsi. Principio con accenti anche morali. Non è forse vero che uno dei “peccati” più gravi che oggi si addita è la turbativa di mercato? Eppure anche l’economia ha i suoi limiti.
Il primo è già nella sua concezione dominante. Si dà per scontato infatti anche negli ambienti accademici che l’economia è per il profitto. Ma allora il solidarismo cristiano e socialista non sono più economia? Dico di più: quella familiare e quella municipale, che non inseguono il profitto ma l’apprestamento di servizi alle persone non sono a loro volta economie? C’è un altro segnalatore quantomeno ambiguo se non ingiusto ed è il metro con il quale si misura la prosperità economica. Quello che va di moda già dai tempi di Truman è il Pil, che sta per “prodotto interno lordo” e si ottiene sommando tutta la ricchezza prodotta da un paese. Questa massa viene poi divisa per il numero dei cittadini e dà il prodotto “pro capite”. Bersagliato di satira già dal poeta romanesco Trilussa che scrive: secondo il prodotto pro capite, gli italiani mangiano due polli a testa ogni settimana. Ma a ben osservare, c’è chi di polli ne mangia tre, chi due, ma la massa non ne mangia nemmeno uno. Diverso sarebbe il calcolo se usassimo il metro del bene comune, che non è una sommatoria, ma una moltiplicatoria con una serie di fattori. Se in questa serie si incontrano il 2 o il 3, il prodotto si raddoppia o si triplica. Ma se si incontra l’1, il prodotto non aumenta. Se poi si incontra lo 0, cioè la povertà assoluta, il prodotto si annulla. E’ chiaro che in questo calcolo il criterio sono le persone.
E siamo nella dottrina sociale della Chiesa così plasticamente rappresentata dal sillogismo dell’enciclica “Laborem exercens” di Papa Wojtyla: “Non è l’uomo per il lavoro, ma il lavoro per l’uomo. Non è il lavoro per il capitale, ma il capitale per il lavoro”. Conclusione: lavoro e capitale sono per l’uomo. Un limite quindi e un confine invalicabile l’economia lo trova nell’uomo, nel senso che l’uomo deve essere sempre il fine dell’economia e non deve diventare mai un mezzo da sfruttare e magari anche sacrificare sull’altare del profitto.
Un altro limite enorme è stato messo in evidenza da Zygmunt Bauman a conclusione del Festival. Diceva Bauman: se il tenore di vita ed economico deve essere il nostro esteso a tutti gli uomini, non basterebbero tre mondi a soddisfarlo. Si impongono quindi rinunce o, come dice Serge Latouche, si impone addirittura la decrescita.
A proposito di rinunce, i referendum che siamo chiamati a votare domenica 12 e lunedì 13 giugno - due sull’acqua, uno sul nucleare e uno sul legittimo impedimento - sono a loro modo delle rinunce. Se il criterio è l’uomo, l’acqua è di tutti. Non si può quindi privatizzare nemmeno nella sua distribuzione facendone un business in cui pochi privati possono decidere a chi darla e a chi non darla e a quale prezzo. Sul nucleare anche si tratta di una rinuncia. Prendendo a criterio l’uomo, non è ammissibile il rischio di migliaia di morti e di contaminazione di interi territori per decenni, come è avvenuto a Chernobyl e a Fukushima. Già la Germania, che di centrali nucleari ne ha diciassette, ha deciso di rinunciarvi. E noi vogliamo adottarle?
Pure il referendum sul legittimo impedimento vuole che il capo del governo e i ministri rinuncino al privilegio di non presentarsi davanti ai giudici in eventuali processi che li riguardano. Perché tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge.
Sono quattro referendum abrogativi di norme già esistenti. Pertanto si impongono quattro sì, se il criterio è l’uomo.
Lo dicevano già gli antichi greci: “L’uomo è la misura di tutte le cose”. E il Vangelo: “Che gioverà all’uomo guadagnare anche il mondo intero, se poi perde l’anima?”. Perde cioè lo stesso senso della vita.
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano
dei “ragazzi di Barbiana”
dell’11 aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".
Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.
Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.
Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.
Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.
Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.
Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini
Scuola pubblica e Costituzione Due valori sacri
di Marco Rossi Doria (l’Unità, 11 marzo 2011)
Andiamo nelle piazze per difendere la Costituzione e la scuola pubblica. Perché pensiamo che l’Italia, che noi tutti, non ne possiamo fare proprio a meno. E non ne possiamo fare a meno perché sono due cose che hanno la rara qualità di essere, ad un tempo, vitali e sacre. Vitali perché consentono a un organismo complessissimo - quale è la società - di regolarsi e di continuare a vivere nel tempo, generazione dopo generazione. Sacre perché contengono le qualità simboliche che permettono di tenere insieme una comunità fatta di milioni di persone diverse secondo un diritto che è uguale.
La nostra Carta sa mettere insieme, in modo chiaro, non solo i diritti e i doveri ma «quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi» - come scriveva Piero Calamandrei. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo un tempo Grave non perché si è pensato o si pensi di cambiare questa o quella parte della Costituzione, cosa del tutto prevista dalla Carta stessa. E normale col passare del tempo. Se fatta per concorde adesione. Il tempo grave che viviamo è dato dal fatto che si stanno continuamente attaccando proprio “quegli organi” - e il delicato equilibrio tra di essi - «attraverso i quali la politica si trasforma in diritto». Questo non deve accadere. E siamo qui per impedirlo. Perciò: non si tratta di una battaglia di parte né di conservazione. È una battaglia per tutti, anche per quelli che oggi non lo vogliono capire. Ed è una battaglia che permette di continuare a cambiare. Perché c’è la certezza del come farlo, delle condizioni entro le quali le trasformazioni non diventano distruzioni, non minacciano la casa comune.
La nostra scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. È in questa doppia funzione - mettere insieme persone diverse e apprendere - che vi è vitalità e sacralità.
La scuola è chiamata ad assolvere a questo suo compito in modi nuovi. E deve trasformarsi proprio perché sono mutate e stanno mutando sia le condizioni dello stare insieme tra diversi sia il mondo sia gli strumenti attraverso i quali lo si guarda e lo si può capire, salvaguardare e cambiare. Il tempo grave che stiamo vivendo è dato dal fatto che si metta in discussione la scuola nel suo carattere pubblico e protetto - e, dunque, altro da casa - nel quale ci si confronta tra diversi ed uguali mentre si sta crescendo e si sta imparando a stare al mondo e a conoscerlo. Anche per la scuola questa non è una battaglia di parte né di conservazione. È per tutti e per ciascuno. Ed è per consentire che la scuola, salvaguardata, possa cambiare.
«I maturandi portati al Divino Amore»
Cinquemila ragazzi del quinto anno delle superiori romane «ad orientarsi» sul futuro in un Santuario. Paga Gelmini
di Gioia Salvatori (l’Unità, 15.03.2011)
Chissà che ne penserebbe Socrate di un ministro dell’Istruzione che nell’anno domini 2011 manda i giovani delle superiori in un santuario per una giornata di orientamento universitario.
Coi soldi pubblici (l’ufficio scolastico regionale del Lazio ha organizzato i trasporti) e per conoscere una vasta gamma di atenei pubblici e, ovviamente, privati. Eh già, infatti l’ecumenico orientamento dell’era Gelmini nasce da una collaborazione dell’ufficio ministeriale regionale con la conferenza dei rettori delle università del Lazio (CRUL) e la Conferenza dei Rettori delle Università Pontificie Romane (CRUPR) che magari si sentono più a casa al santuario del Divino Amore, luogo di pellegrinaggi in mezzo ai campi di Roma Sud. D’altronde si sa, la scelta dell’università è cosa seria, si ripercuote «sul lavoro e sulla vita, richiede consapevolezza e serenità indispensabili per ridurre il rischio dell’errore e decidere con responsabilità», quindi meglio proporre ai giovani un’ampia scelta di atenei e corsi, tante brochure, tanti, depliant, workshop e una giornata di “festa dell’orientamento”. Animata anche da un musical: “Oggi scelgo io”, interpretato dalla Star Rose Academy fondata dalle suore orsoline della sacra famiglia e diretta da Claudia Koll.
Cosa può volere di più, a cento giorni dalla maturità, uno studente? Altro che pranzi dei cento giorni... Così ieri dopo aver ricevuto l’invito coi virgolettati qui riportati, i ragazzi sono stati in Chiesa a conoscere le università pubbliche e private del Lazio. A firmare l’invito inoltrato alle scuole qualche giorno fa è il direttore generale dell’ufficio scolastico regionale Lazio, Maria Maddalena Novelli. Nomen omen, la dirigente così giustifica la non casuale scelta del luogo: «il Santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte. Oggi come ieri, il Santuario si offre a tutti cattolici e di altra religione, credenti e non credenti, italiani e stranieri, tutti cittadini e pellegrini di Roma - come il traguardo di un viaggio notturno, passaggio umano denso di difficoltà ma che si conclude nella luce del mattino». Che il pellegrinaggio serva è certificato: si narra, infatti, che il candidato sindaco Gianni Alemanno lo fece a piedi nella notte elettorale...
di Caterina Perniconi (il Fatto, 15.03.2011)
Un prato sterminato, un mare di fango, 5000 ragazzi. No, non è Woodstock, ma il santuario del Divino Amore, a Roma. Le note che accompagnano la giornata non sono quelle di Jimi Hendrix, ma del musical della Star Rose Accademy, fondata dalle suore orsoline e guidata da Claudia Koll, ormai lontanissima dalla versione “Tinto Brass”. Il tutto sotto l’occhio vigile di monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore della pastorale e universitaria e neo cappellano di Montecitorio. Anche lui infangato fino ai polpacci. E no, non è nemmeno la giornata mondiale della gioventù promossa dal Vaticano, ma un appuntamento organizzato dall’ufficio scolastico regionale col vicariato di Roma per orientare i maturandi di tutte le scuole del Lazio (pubbliche e private) alla scelta universitaria.
IL LUOGO, aveva comunicato il ministero a tutti i dirigenti scolastici, non è scelto a caso, ma “sottolinea l’intento” del convegno. Perché “il santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte (...). Il pellegrinaggio, lungo cammino attraverso la notte, è evocativo di un messaggio simbolico per i nostri giovani: la vita che viviamo e che costruiamo incontra momenti di buio e sforzo, soprattutto quando si affrontano scelte importanti”. La circolare si concludeva prevedendo addirittura che “le istituzioni scolastiche, nella loro autonomia, valutino l’opportunità di riconoscere la partecipazione degli studenti come credito formativo”.
Ieri, sul prato del santuario, i ragazzi più che a un pellegrinaggio sembravano in gita. Gli stand allestiti erano sei. Il primo, riservato all’accoglienza, dove i presenti potevano ritirare il loro pacco “dono”: borsa, maglietta e cuscino. Infatti la struttura più grande, quella sotto la quale si sono rifugiati appena ha cominciato a piovigginare, non aveva sedie. Poi quattro gazebo, divisi per settore, dove gli studenti trovavano informazioni sull’ambito scientifico-tecnologico, artistico-letterario, giuridico-economico e bio-antropologico. Insieme alle università pubbliche (anche se i cartoni di depliant della Sapienza erano quasi tutti chiusi) quelle private. In prima fila, naturalmente, la Luiss. Poi l’università lateranense, la Cattolica, la pontificia salesiana, la pontificia auxilium, il campus bio-medico. Private battevano pubbliche almeno 6 a 3. Vicino un’altra sola struttura, per la pastorale universitaria. Nessuna informazione sull’ente per il diritto allo studio o su altre associazioni studentesche.
GLI ARTISTI dell’accademia della Koll si sono esibiti nel pomeriggio, ed erano ormai solo poche centinaia di ragazzi attenti allo spettacolo. Gli altri, sparsi nelle poche parti asciutte del prato. “La mia vita ha senso? - cantava una ragazza dal palco - credo che Dio abbia un progetto sulla mia vita”. Qualche gruppo si è allontanato. Subito dopo la celebrazione della messa, presieduta dal rettore dell’università lateranense, monsignor dal Covolo. Del resto, per romaset te.it , giornale on-line della diocesi di Roma, l’evento è promosso “dall’Ufficio scuola cattolica, pastorale scolastica, pastorale universitaria e pastorale giovanile del Vicariato di Roma”. Il ministero non è mai citato.
Impossibile, tramite l’ufficio scolastico regionale, ricevere una risposta per capire a quanto ammonta la spesa per un evento di queste proporzioni e in che parte lo Stato lo abbia finanziato. Quindi ci siamo rivolti a una società di organizzazione eventi, la Goodlink, per capire quale può essere la cifra in ballo. “Considerando che organizza lo Stato e non un privato, quindi ipotizzando numerose convenzioni - spiegano - possiamo stimare una spesa sicuramente superiore ai centomila euro. Ma se non ci fossero accordi, crescerebbe ancora”.
ECCO CHE, senza vedere con i propri occhi lo sviluppo dell’evento, molti genitori dopo aver letto le informazioni sulla giornata si sono opposti all’obbligo di far seguire ai propri figli l’orientamento. E in molti licei, come il Plauto per esempio, chi non è andato al Divino Amore oggi dovrà giustificare l’assenza. “A mia figlia - spiega la madre di un’alunna - hanno negato anche il diritto allo studio, perché è dovuta restare a casa. E ora avrà solo altre due ore per l’orientamento in una unica facoltà. É incerta ma non potrà vederne due”.
Un nutrito gruppo di genitori del liceo Tasso ha definito l’iniziativa “una vergogna”. “Ma vi rendete conto di quello che hanno avuto il coraggio di fare? - dice un genitore - si tratta di un evento con una forte impronta confessionale pagata con soldi pubblici. Esclude chi appartiene ad altre confessioni religiose o chi religioso non lo è. E vale anche come credito formativo. Uno scandalo”.
La regione Lazio, con l’assessore alla Formazione e Lavoro, Mariella Zezza, ha messo il cappello all’iniziativa spiegando che “l’orientamento per noi è un aspetto fondamentale del sistema dell’istruzione che forma per il mondo del lavoro”. A rispondergli la consigliera Idv, Giulia Rodano: “C’è sicuramente da chiedersi perché la Regione Lazio e il ministero abbiano promosso una giornata di orientamento scolastico con un taglio quasi confessionale o senz’altro non caratterizzato dalla laicità che dobbiamo esigere dall’istruzione pubblica. Chiederemo spiegazioni ufficiali agli assessori regionali competenti”.
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo,
sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia?
Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano.
1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);
2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici;
3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia;
4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito;
5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici;
6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?;
7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti;
8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti;
9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura;
10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
intervista a Gustavo Zagrebelsky
a cura di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 marzo 2011)
Professor Zagrebelsky, lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi».
Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto».
Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato?
«Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica?
«Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica».
Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre lasperanza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante».
La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini».
Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l’appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E’ passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa»
L’avanzata dei responsabili tra paradosso e spudoratezza
di Ermanno Rea (la Repubblica, 7 marzo 2011)
Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota: me lo insegnò già al ginnasio un originale professore di storia che mi diede da leggere una sintesi delle famose tesi di Lutero: impara, ragazzo, impara. Siamo uno strano paese, sempre in bilico tra paradosso e spudoratezza. Oggi si autodefiniscono «responsabili» quei parlamentari, transfughi da varie formazioni politiche, che sono corsi a puntellare il traballante baraccone governativo. Naturalmente, dicono, in maniera del tutto disinteressata, animati da genuino amore per il premier calunniato, insomma senza alcuna ricompensa, in cambio di nulla.
Siamo sinceri: che gli onorevoli in questione affermino amenità simili, e si costituiscano ufficialmente in «gruppo dei responsabili», ci può anche stare: chi dirà mai che si è lasciato sedurre da qualche succosa promessa politica (per esempio dalla riconferma sicura del mandato parlamentare in caso di elezioni) o addirittura da un bel gruzzolo di contanti (mai lasciare tracce bancarie)? Allarmante invece è il fatto che il titolo di «responsabili», sempre meno velato d’ironia, sia riuscito ad affermarsi nel comune gergo televisivo e giornalistico, per cui Tizio e Caio, come che sia, sono dei «responsabili»; piaccia o no, incarnano una delle massime virtù civili e politiche e perciò sono esempi da imitare. Prendiamo Scilipoti. Nei telegiornali è decisamente un «responsabile». Lo stesso accade a Razzi e a Galearo: fanno parte dell’«area dei responsabili», insomma sono la quintessenza della «responsabilità», senza scherzi. La gente ascolta: qualcuno se la ride ma altri ci credono.
Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più.
Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale. Accade anche fuori d’Italia? Forse. Non però in maniera così incisiva, così spudorata. Chi altri sa mentire come noi? Chi altri sa negare l’evidenza con altrettanto trasporto? Prendiamo Berlusconi. È un autentico maestro in questo campo. Alla maniera di un famoso personaggio femminile di Stendhal che, scoperta dall’amante attraverso il buco della serratura tra le braccia di un altro uomo, smentisce l’adulterio con delirante fatuità (ma come, voi credete più ai vostri occhi che alle mie parole?) egli pretende un credito assoluto, anzi cieco, quale che sia la balla che propina.
Si dirà: ma da dove saltano fuori simili personaggi? Possibile che siano soltanto frutti di stagione senza progeniture culturali? Senza precedenti storici? Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità». E scoprendo anche che la propria coscienza - perfino quella di un politico corrotto - vale forse qualcosa di più di centocinquantamila euro che, a ben pensarci, è cifra alquanto modesta, soprattutto per chi, in quanto parlamentare, gode di un reddito più che rispettabile. Dio, che paese di straccioni perfino nella corruzione! Ma siamo caduti veramente così in basso?
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company. Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
Il 12 in piazza per il futuro di tutti
Vogliamo un Paese migliore, dove i diritti non siano privilegi e l’istruzione pubblica la base da cui costruire
di Sofia Sabatino (l’Unità, 01.03.2011)
Siamo studenti e studentesse che vivono in un paese in cui le regole democratiche vengono continuamente messe in discussione proprio da chi invece dovrebbe difenderle. Abbiamo difficoltà a riconoscere l’Italia che ogni giorno viene narrata dai tg come qualcosa che ci appartiene, sentiamo forte il peso di un Paese che non ci considera soggetti attivi e pensanti,che si fa beffa del nostro profondo disagio e della nostra condizione di precarietà. Siamo studenti e studentesse che credono però che esista un Paese migliore, che l’Italia non sia fatta soltanto da politici corrotti, imprenditori senza scrupoli, mafia e favoritismi. Ogni giorno ci impegniamo per cambiare questo Paese, partendo dalle scuole, dalle università e dai luoghi della formazione ed è per questo che per noi 150 anni di unità non sono una questione da poter liquidare con dibattiti sterili, sulla chiusura o apertura delle scuole e dei luoghi di lavoro il 17 marzo, su populiste questioni sulle differenze economiche e culturali tra Nord e Sud.
Crediamo che 150 anni di unità vogliano dire 150 anni di diritti e di democrazia. Siamo quegli studenti che leggono, discutono e conoscono la Costituzione Italiana, che si emozionano quando sentono parlare i padri costituenti e i partigiani che hanno liberato e costruito un paese democratico. Gli stessi studenti che rabbrividiscono quando la Costituzione viene vista dai partiti e dalle forze politiche come qualcosa da osannare o calpestare a seconda dello schieramento. Crediamo che la Costituzione sia ciò che dovrebbe garantire le nostre libertà, i nostri diritti, la nostra democrazia.
Assistiamo invece ad un Paese che va alla deriva, guidato da chi vede le leggi come uno strumento per garantire se stessi. Vogliamo scendere in piazza il 12 marzo come studenti, come giovani, ma soprattutto come cittadini di questo Paese per difendere i diritti, i doveri, i principi e i valori che la nostra Costituzione sancisce e che vorremmo vedere realizzati e non attaccati, smantellati, aggirati.
Scendiamo in piazza perché crediamo e vogliamo difendere la scuola e l’università pubblica, come valore fondante della nostra democrazia, come garanzia di libertà e parità per tutti. Scendiamo in piazza perché troppi ad oggi sono i diritti negati, i princìpi non rispettati. L’Italia è un Paese che dovrebbe garantire l’accesso ai saperi e il diritto allo studio per tutti e tutte, come sancito dall’articolo 34 della Costituzione. Invece viviamo un’Italia abbandonata sé stessa, dove i giovani non hanno un futuro e dove la formazione è considerata una spesa e non una risorsa.
Credere, obbedire, inculcare
di Marco Simoni (l’Unità, 1.03.2011)
Quando ho letto le dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla scuola pubblica «ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli» mi sono chiesto: ma che principi voglio “inculcare” io ai miei figli? Faccio già abbastanza fatica a spiegare che non si può guardare la Tv per più di venti minuti, e ho dalla mia la possibilità di impormi fisicamente spegnendo l’apparecchio, l’idea di poter quindi inculcare “inculcare”, non “spiegare”, “raccontare”, “suggerire” dei principi addirittura, mi sembra un impresa improba, impossibile.
In effetti, come tutti i genitori ho il desiderio che i miei figli mi seguano per alcune cose, per altre meno, e sarei gratificato nel testimoniare scelte che assomiglino alle mie; credo che il narcisismo abbia in questo un ruolo almeno pari alla convinzione che i principi che cerco di seguire siano giusti. Tuttavia, penso anche che alla fine faranno quello che vogliono. Le scelte che compiono i figli dicono qualcosa dei loro genitori e della loro scuola, ma dicono molto soprattutto di loro stessi. Non credo dunque di poter scegliere una scuola che “inculchi” alcunché, ma posso cercare di esporre i miei figli a conoscenze ed esperienze che li aiutino a dare significato alle scelte che compiranno.
Proprio in queste settimane ho conosciuto meglio i caratteri profondamente classisti della scuola pubblica inglese, in particolare nelle città come Londra, in cui le opportunità di una vita possono dipendere dalla scuola elementare che si frequenta. Le riforme del New Labour nel quindicennio passato hanno fatto molto, affrontando una situazione eccezionalmente grave, ma non sembra abbastanza. Tuttavia, così come è difficile migliorare una grande istituzione in difficoltà, è difficile affossare una istituzione forte, che dipende soprattutto dalla cultura, e dal lavoro di chi la scuola la fa.
Per questo, nonostante la mancanza delle attenzioni che meriterebbe, la scuola italiana rimane una straordinaria fonte di riflessioni sul Paese (basti pensare ai recenti libri di Paola Mastrocola e Silvia Dai Prà) e uno degli assi fondamentali su cui poter ragionevolmente basare il nostro futuro. Non si tratta di ignorare le sue sofferenze, che non dipendono come al solito solo dalla destra, ma di una considerazione fredda sulle forze dell’Italia, una delle quali secondo me è la sua scuola, pubblica, diffusa, di buona qualità e spesso eccellente. Ieri sul Sole24Ore Andrea Ichino ha spiegato il lavoro prezioso che sta compiendo l’Invalsi per capire quali scuole funzionano meglio e quali peggio: primo passo necessario per migliorare le seconde e assicurarsi che le prime continuino così.
Quanto vale una scuola
di Giancarlo De Cataldo (l’Unità, 1 marzo 2011)
In Italia, l’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento. In Italia, la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi. In Italia, anche enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, purché senza spese per lo Stato. La legge fissa i diritti e gli obblighi delle scuole non statali e ha l’obbligo di assicurare la loro piena libertà e di garantire agli alunni lo stesso trattamento delle scuole statali. Sul piano operativo, in Italia la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Per questo motivo la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altri contributi assicurati per concorso.
Tutto quello che avete letto sinora proviene dagli articoli 33 e 34 della Costituzione. Era necessario, per i padri costituenti, stabilire la libertà d’insegnamento perché si usciva da una dittatura che aveva esercitato un controllo capillare sulla formazione dei giovani, vietando ogni forma di conoscenza non aderente ai canoni del regime. Se il quadro di riferimento è così chiaro, le recenti polemiche sulla scuola pubblica investono direttamente il disegno costituzionale. Un paio d’anni fa, d’altronde, autorevoli pensatori “liberali” si pronunciarono contro l’insegnamento della Costituzione nelle scuole, sostenendo che un testo “storico”, e dunque soggetto a modifiche nel tempo, non doveva diventare, attraverso l’insegnamento, oggetto di culto. C’è, insomma, una certa insofferenza per questa nostra Costituzione che è pensata per evitare, o almeno contenere al massimo, il rischio che un nuovo “pensiero unico”, imposto dall’alto, si impossessi delle coscienze, forgiandole a propria immagine e somiglianza.
2001*
PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriarno gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA.
***
CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...
E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA
CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA
DI CITTADINI
SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI
E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo
di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua
AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di
tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE,
STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE
STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO
ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani
che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere
ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere
un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi
non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere,
in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede
una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di
[...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli
occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe
Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO
CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione
e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione
dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e
deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un
ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista
(cfr. il documento Dominus Jesus di Ratzinger, le dichiarazioni anti-
islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il
3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita
politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto I’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund Freud),
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA,
e
PROPONGO
di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione
e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i
nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato
vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’
invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani
ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più
una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte
conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria
dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a
noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano
personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE deila SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
P.S.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente,
si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine
di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,
allora, al termine della catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. I 3-14.
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva, coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della
"Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson
Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva
solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo
di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi,
i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale
della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già
nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore,
1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà
democratica coincide con la massina metamorfosí verso un
più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i
popoli del mondo".
* * Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
Ecco “Indignatevi”
“93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è troppo lontana. Che fortuna poterne approfittare per ricordare ciò che ha fatto da fondamento al mio impegno politico”. Comincia così “Indignatevi!”, scritto dal partigiano Stephane Hessel, diventato un caso editoriale in Francia, e adesso proposto in Italia da Add Editore
Pubblichiamo l’appendice: l’appello dei Resistenti alle giovani generazioni, firmato dallo stesso Hessel nel 2004.
di Stephane Hessel (il Fatto, 22.02.2011)
Dal momento che vediamo rimesso in discussione il fondamento delle conquiste sociali della Liberazione, noi, veterani dei movimenti di Resistenza e delle forze combattenti della Francia libera (1940-1945) ci appelliamo alle giovani generazioni perché mantengano in vita e tramandino l’eredità della Resistenza e i suoi ideali sempre attuali di democrazia ed economia, sociale e culturale. Sessant’anni più tardi il nazismo è sconfitto, grazie al sacrificio dei nostri fratelli e sorelle della Resistenza e delle Nazioni Unite contro la barbarie fascista. Ma questa minaccia non è del tutto scomparsa, e la nostra rabbia contro l’ingiustizia è rimasta intatta.
IN COSCIENZA, noi invitiamo a celebrare l’attualità della Resistenza non già beneficio di cause partigiane o strumentalizzate da qualche posta in gioco politica, bensì per proporre alle generazioni che ci succederanno di compiere tre gesti umanitari e profondamente politici nel vero senso del termine, perché la fiamma della Resistenza non si spenga mai:
Ci appelliamo innanzitutto agli educatori, ai movimenti sociali, alle collettività pubbliche, ai creatori, agli sfruttati, agli umiliati, affinché celebrino insieme a noi l’anniversario del programma del Consiglio Nazionale della Resistenza (Cnr) adottato in clandestinità il 15 marzo 1944: Sécurité sociale e pensioni generalizzate, controllo dei “gruppi di potere economico”, diritto alla cultura e all’educazione per tutti, stampa affrancata dal denaro e dalla corruzione, leggi sociali operaie e agricole ecc. Come può oggi mancare il denaro per salvaguardare e garantire nel tempo conquiste sociali, quando dalla Liberazione, periodo che ha visto l’Europa in ginocchio, la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? I responsabili politici, economici, intellettuali e la società nel suo complesso non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.
Ci appelliamo quindi ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché superino le poste in gioco settoriali, e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali, e non soltanto sulle loro conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali.
CI APPELLIAMO infine ai ragazzi, ai giovani, ai genitori, agli anziani e ai nonni, agli educatori, alle autorità pubbliche perché vi sia una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti. Non accettiamo che i principali media siano ormai nella morsa degli interessi privati, contrariamente a quanto stabilito dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza e dalle ordinanze sulla stampa del 1944. A quelli e quelle che faranno il secolo che inizia, diciamo con affetto: Creare è resistere. Resistere è creare.
Elogio della disobbedienza
di Elisabetta Ambrosi (Europa, 25 febbraio 2011)
Critica del potere. Protesta. Rivolta. Sono queste le parole che rimbalzano da quei paesi del mediterraneo da troppo tempo ridotti al silenzio e alla povertà. Ma anche in Europa, e soprattutto nel nostro paese, riprende vigore il dissenso e, dopo un quindicennio di conformismo berlusconiano, si irrobustiscono le voci critiche. La trasgressione del senso comune sembra finalmente tornare un valore. Più che di rivoluzione però, nel nostro caso si assiste soprattutto al ritorno del Soggetto con la maiuscola, quello che sceglie secondo coscienza. E magari arriva a decidere che ciò che è ovvio per tutti (e insieme quello che i politici che dovrebbe rappresentarlo vanno dicendo), non fa per lui. Peggio, non corrisponde al vero, è falso.
Non si tratta però, con l’eccezione di Saviano, di un ritorno degli intellettuali, spariti da tempo dalla scena pubblica; ma di individui singoli che scelgono strade di radicale diversità: è il caso di Simone Perotti, di cui è appena uscito, per Chiare Lettere, Avanti tutta. Manifesto per una rivolta individuale, seguito del fortunato volume con cui l’autore quarantenne raccontava la sua decisione di lasciare il lavoro e vivere una vita sotto il segno della libertà. «Si può vivere con poco, e soprattutto si può vivere bene», continua a sostenere oggi Perotti, in pagine dove racconta dell’insensatezza di una vita breve, mortale e tuttavia spesa quasi interamente per lavorare in aziende brutte, disorganizzate, dove i talenti vengono sprecati. Luoghi dove si spreca contraddittoriamente quel denaro che appare al tempo stesso come l’unica divinità in circolazione.
Smettere di piangere su stessi, avere coraggio, fare scelte di libertà che vadano contro quello che appare socialmente ben visto, suggerisce invece Perotti. Una scelta difficile, perché se è vero che «il Sistema ci fa consumare, abitare, muovere in modo spesso insensato e disumano», al tempo stesso ci protegge dalla responsabilità: «Mettendoci al riparo dalle scelte, quel mondo ci assolve! Qualunque cosa capiti non è affar nostro, non è colpa nostra».
Il rapporto tra obbedienza al sistema, e insieme alla legge, e la loro violazione è al centro anche di un colto pamphlet dello studioso di politica Raffaele Laudani, Disobbedienza (Il Mulino), da ieri nelle librerie. Si tratta, secondo l’autore, di una relazione tormentata, perché se da un lato i miti fondativi della cultura occidentale - da Adamo ed Eva ad Antigone - fanno della rottura della norma il «punto di partenza del Soggetto moderno, l’atto che consente all’individuo di uscire dallo stato di minorità»; dall’altro, « dal punto di vista politico la disobbedienza resta un tabù, attività proibita e scabrosa».
Ma soprattutto - è un tema centrale di tutta la filosofia politica - se la legge si fonda sulla verità, la verità può non coincidere con l’opinione della maggioranza. In questa non coincidenza del vero con ciò che è creduto dai più, ma che spesso è politicamente e socialmente vincolante, sta il tormento del cittadino, diviso tra ascolto delle proprie intime convinzioni e la loro dissonanza con ciò che sembra giusto a tutti gli altri. Non è un caso che Simone Perotti racconti che il sentimento più diffuso di tutti i lettori che gli hanno scritto è il sollievo scaturito dalla scoperta di non essere pazzi, di non essere gli unici a vivere con dolore il contrasto tra ciò che si avverte come autentico e ciò che appare. Si tratta di un contrasto che ha sempre caratterizzato, scrive a sua volta Laudani, anche il pensiero cristiano, spesso combattuto, nonostante il principio del «dare a Cesare ciò che è di Cesare», tra l’obbedienza alla volontà di Dio e quella all’autorità statale. E che forse comincia ad essere oggi più avvertito, anche se la voce dei cattolici non allineati resta ancora flebile. Due sono le strade praticate per sottrarsi alla condizione di dipendenza da una tirannia (che può essere politica ma anche economico-sociale) e per riaffermare la propria condizione di esseri razionali e liberi.
La contestazione aperta al sistema, come hanno fatto nella storia, tra gli altri, il femminismo, il marxismo, il sessantotto fino ai contemporanei hacker; o la fuga da quel sistema, il ritiro in unazona remota e privata dove non sono in vigore norme che costringono all’inautenticità. Si tratta in entrambi i casi di scelte difficili, perché «la libertà non è a costo zero. E non è per tutti», sostiene Perotti. «Ogni giornata impone scelte, rimanda a noi la responsabilità di cosa fare, quando, a che costo, perché, come. Siamo individualmente e socialmente più esposti, non veniamo protetti da alcuno scudo condiviso» (anzi, aggiunge l’autore di Avanti tutta, «abbiamo perfino la responsabilità della felicità»).
Eppure, anche se non rivoluzionarie, le scelte dell’aperto dissenso, o della dissociazione silenziosa, sono capaci di cambiare la società e persino la storia. La disobbedienza, scrive Laudani, non è «soltanto una modalità di praticare il conflitto sociale (“Il progetto dell’esodo e della liberazione”) ma anche e soprattutto un modo d’essere della democrazia radicale». A differenza della rivoluzione violenta, è il «motore di un lungo processo di trasformazione che non mira alla presa del potere politico, quanto piuttosto alla crescita della nuova società nel guscio della vecchia». «Per capire quanto possa essere efficace un’arma come questa», ha scritto Hannah Arendt, una delle filosofe che più ha analizzato il tema della disobbedienza civile, «dobbiamo solo immaginare per un istante che cosa sarebbe accaduto a questi regimi se abbastanza gente avesse agito “irresponsabilmente”. Negando cioè il proprio sostegno, anche senza scatenare una ribellione o una resistenza attiva »
Soggetti alla legge ma non al capo
di Roberta De Monticelli (Saturno, 25 febbraio 2011)
MENTRE UN VENTO di rivolta soffia a sud della Penisola, incendiando i paesi islamici dal Nord Africa all’Iran, ci si può chiedere se la millenaria riflessione occidentale sul potere, la legge e la disobbedienza potrà ancora aiutarci a decifrare il futuro di questa che già la nostra speranza chiama “la caduta dei tiranni”. Ma se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ancora più forte ci assale. Ovvero se le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, «terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate». In questo nostro Paese che «attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere»; «che ha inventato il fascismo»; dove «la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio». Parole vigorose.
Parole di uno scrittore, Ermanno Rea, che si fa leggere d’un fiato dalla prima all’ultima pagina nel suo La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli). Questa fabbrica è l’Italia. Rea attraversa la questione morale passando per i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di «un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo».
UN CORREDO DI SUDDITANZA E MENZOGNA
MA QUESTO libro pone una domanda, semplice e per così dire spettacolare. La stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, che proprio dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile con l’Umanesimo e il Rinascimento. Com’è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo, che ritroviamo tanto ben descritte nelle pagine dei nostri classici da Guicciardini a Leopardi?
Com’è potuto accadere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose, accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire col fascismo, e la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischia di fare. Ecco, sarebbe molto miope chi vedesse nella risposta di Rea una semplice riedizione di quella di Spaventa: colpa della Controriforma! Ciò che conta non è di chi o di cosa sia la colpa, ma l’analisi spietata di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente - che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza delle leggi, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego” - come già aveva notato don Milani nel suo L’obbedienza non è più una virtù.
A differenza della legge, il potere è «alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere... una responsabilità totale, prolungata nel tempo». Che sia ottenuta con la dipendenza spirituale, con la tecnica della confessione e del perdono, oppure con la dipendenza materiale, il favore e il ricatto: la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale. Cioè la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio - in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono.
Ci aiuta a vederlo Raffaele Laudani con il suo Disobbedienza (Il Mulino): un testo che, come ogni prima lezione di filosofia del diritto, si apre nel duplice segno del Socrate platonico e dell’Antigone sofoclea. «E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?».
SIAMO UNA FABBRICA DI SERVI VOLONTARI
QUESTO DICONO le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza.
Eppure è proprio dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. È questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge,è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche. Come la divisione e la relativa autonomia dei poteri. Oggi respiriamo l’onda maleodorante fatta di abusi condoni favori tangenti impunità soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso.
Chiamiamola pure “democrazia bloccata”: Ermanno Rea ci insegna che l’impunità assurta a stile di vita non è che l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo cui ha condotto l’intimo matrimonio delle coscienze e della Controriforma. Solo una parola cambieremmo, al titolo. Non la fabbrica dell’obbedienza, ma della servitù - questo abbiamo fatto e continuiamo a fare dell’Italia. Allora sarà più chiaro che non abbiamo scusanti: perché non c’è servitù se non volontaria.
Dietro il disastro della scuola
di Goffredo Fofi (l’Unità, 27 febbraio 2011)
La scuola è uno di quegli argomenti del quale non ci si stancherà mai di discutere. Anche se troppi lo fanno e molto spesso a vanvera: ministri pedagogisti giornalisti insegnanti genitori, ma anche per fortuna, da poco, i soli autorizzati davvero a lamentarsi, gli studenti. Ahinoi tutti gli adulti, signori e signore (tante le signore, probabilmente perché la maggior parte degli insegnanti è ancora oggi di sesso femminile) non si accontentano di discuterne, e di immaginare soluzioni più o meno sagge o deliranti alla sua crisi, di scuola scrivono anche, tanto, troppo.
È una constatazione ormai diffusa che i giornali parlano poco e male delle cose veramente importanti per un possibile (e ancora lontano) riscatto del paese Italia, della sua cultura e della sua sinistra. E’ una constatazione ormai comune che l’editoria libraria è molto più disponibile al genere inchiesta o denuncia (o sfogo) di quanto non lo siano i giornali, e per di più con una libertà che a quelli difetta, anche quando serve da invito allo sproloquio.
Quando parlano di scuola, i giornali lo fanno con molta superficialità, privi di esperti e competenti e affidandosi semmai per le “opinioni” ai soliti vecchioni, a persone che se ne tengono lontane, agli psicologi selvaggi (una piaga, non solo nella scuola!), e alle solite damine benpensanti di buona famiglia. Una di queste, Paola Mastrocola, è tornata sul tema anche in questi giorni con un nuovo libro. I giornali la considerano chissà perché una super-esperta autorizzata a trattarne all’infinito, e non è che un’insegnante (se lo è ancora) tra mille e mille, anche se rappresenta bene la media. Lo leggerò, o comincerò a leggerlo ma, forte di letture passate, non me ne aspetto molto, anche se si dice che “ha moderato i toni” delle sue prediche di buon senso e di buona vendita.
Ho letto invece con interesse e partecipazione il “diario” di un anno scolastico di Silvia Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso, nella diseguale collana laterziana Contromano. L’ambientazione non è diversa da quella di altri libri e film sulla scuola in area romana (scrittori sceneggiatori registi produttori critici romani o romanizzati sono un’altra vistosa piaga della nostra cultura!) e lì per lì il taglio disinvolto della scrittura potrebbe far pensare a un altro Starnone (quello delle cronache scolastiche e delle sceneggiature) o un altro Piccolo eccetera.
Invece no, il suo libro ha uno spessore insolito, è risentito e doloroso e inaccettante, e guarda al mondo con spaventata ma non moralistica capacità di vedere negli allievi il buono che si nasconde dietro la loro volgarità e beceraggine. Oltre il disastro della scuola, oltre le ipocrisie giustificazioniste o rivendicative degli adulti comunque “accettanti”, il disagio dei più giovani non può che commuoverci, spingerci a reagire. Nella scuola c’è una minoranza di insegnati come la Dai Pra’? Se sì, c’è da esserne felici.
Se ci si chiede come mai la Dai Pra’ vede meglio e più a fondo, viene da pensare che sia questione di età, di generazione (si parla, sia chiaro, di minoranze). La Dai Pra’ ha trent’anni e ha affrontato il degrado scolastico o romano molto dopo altri insegnanti-scrittori e sa tenere a bada l’istinto del lamento così come quello un po’ ridanciano o che vede del bello dappertutto, e per quanto cresciuta tutta dentro il trentennio craxi-berlusconiano (e, diciamocelo, veltroniano) riesce però a distinguersene, e la minore età le permette un minor grado di tolleranza verso il mondo così com’è - lo sguardo sconsolato alla Starnone, o quello divertito alla Piccolo.
La scena chiave del diario è la visita che quest’insegnante delle serali a Ostia che si sentiva promessa a miglior carriera ma è stata obbligata a scendere a patti con la realtà per andare avanti, interessata più ai ragazzi del recupero che agli adulti della frustrazione, è la visita che fa con i suoi allievi a Montecitorio. Anche se proprio in quelle pagine ella dice che “le scene troppo emblematiche” non le piacciono, questa è una di esse, una scena da manuale. Un’allieva le dice, alla fine: “Prof, ma li pagano per fare questo?”
Il diario di Silvia Dai Pra’ è fitto di situazioni e personaggi significativi, è a volte ripetitivo ma ripetitiva è per definizione la scuola. Anche se un anno è un anno le trasformazioni sono lente, e quel che può fare una brava insegnate è relativamente poco. Una brava insegnante vuol dire una minoranza assoluta di insegnanti che prendono molto sul serio la propria responsabilità nei confronti degli allievi, che partono anzi da quella. Può far poco, ma può stabilire una relazione vivae vera, utile e produttiva con gli allievi - e assai meno (o niente!) con un mucchio di colleghi vili e rinunciatari - se per gli allievi ha rispetto e attenzione, a qualsiasi grado di “barbarie” abbia potuto trovarli.
L’indignazione dei prof corre sul web
e anche i sindacati insorgono
Indignazione, ma anche una rassegnata insofferenza, di fronte alle parole del premier sulla istruzione pubblica. "Un insulta alla nostra dignità". "E’ il posto in cui si può riuscire a trasformare i sudditi in cittadini, è quello che non vogliono"
di SALVO INTRAVAIA *
Insegnanti, sindacati e dirigenti scolastici contro il premier per le offese al mondo della scuola rivolte ieri durante il convegno dei Cristiano-Riformisti. Ma soprattutto la protesta e l’indignazione del mondo della scuola: nei blog dei siti dedicati all’istruzione da ieri pomeriggio monta ora dopo ora. "Sono insegnante e contesto Berlusconi da molto prima di questa uscita - scrive F. R. - Ne dice tante. Non mi offendo neanche più. Vi prego soltanto di non farvi trascinare nelle polemiche senza senso che lui apre". "Evviva le idee politiche differenti, ma da anni non si discute più di quelle. La difesa del premier operata dai parlamentari e dagli opinionisti di destra non riguarda più la politica da non so quanto tempo - aggiunge Gabriele - I limiti si sono sorpassati da tempo, la dignità vorrebbe la presentazione di dimissioni, ma già questa richiesta presuppone buone intenzioni che palesemente non esistono più". Per Barbara Calamandrei "aveva già tutto chiaro: trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere. Ecco perché Berlusconi attacca la scuola statale".
Anche i blog meno noti sono stati presi d’assalto da coloro che volevano farsi sentire. "E’ una vergogna", è il commento più ricorrente. Ma ci sono anche quelli ponderati e colti. Il sito salvalascuolapubblica si apre questa mattina con una osservazione. Berlusconi, "come presidente (la minuscola è necessaria), ha giurato sulla Costituzione. Ma l’avrà letta? Rinfreschiamogli la memoria". E giù tutti gli articoli che si occupano della scuola, della libertà di insegnamento e di pensiero. Ma in rete è una valanga inarrestabile. Il popolo della scuola, come l’ha definito un lettore è fatto da milioni di persone. Oltre 800 mila insegnanti e 300 mila non docenti, quasi 8 milioni di alunni e 16 milioni di genitori, più dirigenti scolastici e quanti altri abbiano contati diretti o indiretti con le istituzioni scolastiche.
Anche un moderato come il presidente della più importante associazione di capi d’istituto italiana, Giorgio Rembado, si è espresso in maniera netta. "Mi pare un errore macroscopico quello che vuole accreditare una scuola statale orientata da una sola parte politica e per di più contro le famiglie", dichiara a Repubblica. "Non si può certo escludere che singoli insegnanti possano avere la tentazione di indottrinare piuttosto che educare - prosegue - ma non mi risulta che avvenga in maniera generalizzata. E’ fuori dalla mia esperienza personale. Io piuttosto mi preoccuperei di non fomentare un conflitto già esistente fra scuola e famiglia".
E neppure i sindacati, che il governo definisce moderati, sono riusciti a tollerare le parole del premier. Il segretario generale della Cisl scuola Francesco Scrima, richiama il premier al "rispetto per il lavoro degli insegnanti che lavorano sodo, con dedizione e passione pur non essendo il loro impegno riconosciuto". "L’educazione e i valori - prosegue - devono essere trasmessi innanzitutto dalla famiglia e dalle società. Alla scuola non si può delegare tutto: non si può invocare la responsabilità della scuola che vive di valori in una società dove questi valori sono andati persi".
Anche Massimo Di Menna, della Uil scuola, "le considerazioni del premier sono superficiali e preoccupanti perché la scuola pubblica italiana è frequentata dal 93 per cento degli studenti, di tutte le classi sociali, di ogni fascia economica e di ogni religione: è la sede del pluralismo e del rispetto reciproco. E fare una critica così sommaria alla scuola pubblica equivale a farla all’intero paese".
"Parole gravi e preoccupanti quelle pronunciate dal presidente del Consiglio, che attaccano la sede del pluralismo del sapere e del rispetto reciproco", secondo Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, va anche oltre: "Il premier non ha né l’autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica", dice senza mezzi termini, "è evidente che dietro alle sue parole c’è l’idea di distruggere l’apprendimento garantito a tutti in favore di una scuola privata in cui diffondere il suo credo autoritario e regressivo di una società svuotata di ogni valore". E polemizza: "Chi fa bunga bunga non può parlare di scuola pubblica".
* la Repubblica, 27 febbraio 2011
E ora giù le mani dal sapere:
la scuola è di tutti, è per tutti
Silvio Berlusconi parla di principi (da che pulpito!) e insulta la scuola pubblica e gli insegnanti. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini invece di chiedergli conto e/o dimettersi, difende il premier andando ad infoltire la già nutrita pattuglia degli avvocati del premier.
Ma sono sono in tanti a indignarsi e a chiedere, non comizi, ma politiche a favore della scuola pubblica, cioè della scuola per tutti. Dal nostro giornale parte un appello e una raccolta di firme a difesa della scuola pubblica, e per dire che è inaccettabile oltre che paradossale che il capo di un governo attacchi frontalmente uno dei perni del Paese che rappresenta e che dovrebbe governare. Allo stesso tempo non si può stare zitti di fronte all’offesa portata a migliaia di insegnanti che, grazie a questo governo, hanno subito tagli alle retribuzioni e ai diritti e ogni giorno vedono deperire le loro scuole vinte dalla scarsità di risorse e avvilite da riforme inutili oltre che dannose.
L’appello (il testo è nella pagina a fianco) è stato raccolto da personalità della cultura, del sindacato, della politica. Aderiscono, tra gli altri, Don Luigi Ciotti , Marco Rossi Doria, Nicla Vassallo, Luca Formenton, Raffaele Cantone, Vittorio Lingiardi, Evelina Christillin, Chiara Valerio, Mila Spicola, Goffredo Fofi, Luigi Manconi, Fabrizio Gifuni, Moni Ovadia, Sonia Bergamasco, Pippo Del Bono, Vincenzo Consolo, Lirio Abbate, Emma Dante, Giancarlo De Cataldo, Roberta Torre, Mimmo Pantaleo, Benedetto Vertecchi, Beppe Sebaste. A questi primi firmatari (l’elenco completo su www.unita.it) si sono aggiunte in poche ore le firme di circa cinquemila lettori dell’Unità on line.
* l’Unità, 28.02.2011 --- FIRMA ANCHE TU: http://www.unita.it/scuolapubblica/
Sconfiggere le menzogne
di Mila Spicola (l’Unità, 28.02.2011)
Dopo le accuse di corporativismo, di strumentalizzazione politica, di “fannullonismo” contro i docenti italiani, adesso è uscito allo scoperto: l’oggetto dell’odio del premier è la scuola statale come istituzione. Una rivoluzione ci sta tutta: è giunta l’ora di difenderci sul serio. Dobbiamo, tutti, difendere la scuola statale italiana dalle menzogne che la stanno sommergendo.
Abbiamo bisogno di tutti voi.
Abbiamo bisogno di un Benigni che davanti a venti milioni di italiani reciti con il suo splendido carisma: «Art. 33 L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»; «art. 34 La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita».
Abbiamo bisogno di un’opposizione che, unita, metta la scuola in cima all’agenda politica e usi tutti gli strumenti parlamentari perché il premier ritiri (e parte le consuete smentite e i “fraintendimenti”) tutto quello che ha detto.
Abbiamo bisogno di testimonial che difendano la scuola statale, che possano rompere il muro dei media: scrittori, attori, cantanti, registi, che ci raccontino il brivido di quel giorno, a scuola, nel capire con che dolcezza si può naufragare nell’infinito del pensiero e della libertà umana. Questo giornale dà lo spazio e l’opportunità per farlo.
Abbiamo bisogno di tutti voi perché noi, gli insegnanti, in questi anni troppo spesso non siamo stati ascoltati.
Abbiamo bisogno di donne e uomini consapevoli e informati, capaci di raccontare per intero la verità della scuola statale italiana tagliata e oltraggiata. C’è il perpetuo allarme del docente precario, ma ci sono anche masse di genitori preoccupati ai quali nessuno ha saputo dare voce.
Il nodo centrale è l’attacco alla democrazia e al libero pensiero attraverso l’attacco alla scuola pubblica. Attacco proseguito negli anni inesorabile, con troppi complici. Etiam si omnes ego non. In quanti, rispetto all’indifferenza verso la scuola, hanno saputo dire: «Io no»?
«La scuola italiana non educa», dice il premier (e detto da lui suona grottesco, surreale). Ma cosa vuol dire educare? La scuola fascista aveva come obiettivo principe l’«educazione dei giovani». La scuola statale italiana repubblicana, gioiello di una civiltà avanzatissima, la nostra, istruisce, forma e prepara i cittadini di domani attraverso la trasmissione di un bagaglio di conoscenze, di cultura, il più ampio, corretto, plurale, libero (persino di criticare i maledetti comunisti). Istruisce alla conoscenza delle regole e dei pensieri.
Tutti e per tutti. Al plurale, mai al singolare. E lo fa meglio delle private. (Dati Invalsi: senza i funesti risultati delle competenze degli studenti delle scuole private la scuola italiana sarebbe più in alto nella graduatoria europea). Metteteci nelle condizioni di farlo al meglio, non al peggio. Il ministro Gelmini ha approntato una riforma che riflette l’odio e non l’amore per la scuola. Su ufficiale ammissione del suo premier, è fallita miseramente. Si dimetta, allora, e cerchiamo di realizzare una vera riforma che vada incontro alle esigenze del paese intero e dei suoi ragazzi.
L’offensiva contro la scuola pubblica
di Francesca Puglisi (l’Unità, 28.02.2011)
Ora Berlusconi punta a distruggere il luogo dove si formano le coscienze, dove le menti imparano a ragionare liberamente e si sviluppa lo spirito critico. Ecco perché infanga gli insegnanti e taglia risorse e personale alle scuole dello Stato, dirottando soldi verso istituti elitari. È un regime autoritario che, anziché prendere il potere con le armi, lo afferra occupando le istituzioni. Difendere la scuola pubblica, il valore delle donne, la legalità, l’informazione libera e la Costituzione, è in realtà la medesima battaglia. È il diritto di “ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità”, come disse Calamandrei.
La pervicace e instancabile guerra di Berlusconi e dei suoi sudditi ministeriali Gelmini e Tremonti alla scuola pubblica, è la volontà precisa di chiudere il cerchio della sua azione politica: dopo aver preso possesso del 90% dei mezzi di informazione, dopo aver delegittimato in ogni modo la magistratura, dopo aver istituito un federalismo zoppo che favorirà le mafie internazionali, come già ricordava Raffaele Cantone qualche giorno fa a Napoli, ora quel che gli manca è debellare l’avversario più pericoloso: la scuola pubblica. Perché è lì che nasce il nemico di ogni dittatura, di ogni integralismo, di ogni illiberalità: il pensiero. Di recente, il presidente Oscar Luigi Scalfaro ci ha messo in guardia dal tentativo di sovversione dell’ordine democratico in atto, un tentativo che non viene fatto con i carri armati, ma con le televisioni e le leggi, entrambe asservite al potere di uno solo, mentre i cittadini sono lasciati soli, sempre più spesso in situazioni di forte disagio economico e sociale che ci riportano indietro di decenni.
Pensare dà fastidio al potere, perché, come cantava Lucio Dalla, il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare... e questo non lo possono sopportare i Gheddafi, i Putin, i Mubarak e i Berlusconi d’ogni sorta e colore. La scuola fornisce non solo nozioni, ma soprattutto gli strumenti di analisi per crescere cittadini consapevoli. La scuola fa crescere insieme, valorizza le differenze, tiene uniti i bambini nella convinzione che saranno loro i mattoni per costruire il futuro. La scuola è l’oceano dove nuota il libero pensiero.
Oggi quest’Italia, geograficamente e simbolicamente al confine fra l’Europa e l’Africa, è a un bivio: se sarà capace di difendere la scuola pubblica, sarà capace di avere un futuro, altrimenti sarà condannata a un eterno passato, quello dove non ci sono presidenti ma dittatori, non diritti ma concessioni, non cittadini ma sudditi. Torniamo in piazza, in un’alleanza di popolo, come abbiamo fatto il 13 febbraio. Se saremo uniti, anche la nostra opposizione politica nelle istituzioni sarà più forte. Salviamo la scuola pubblica, mandiamoli a casa.
I vertici dello Stato sapevano
“Paolo aveva capito tutto”
Agnese Borsellino. “Alcuni potenti non hanno salvato neppure la dignità”
intervista di Sandra Amurri (il Fatto, 17.06.2012)
Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? ”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”.
A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi?
Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere.
Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone?
Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto.
Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati?
Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse.
Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi.
Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava.
Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”?
Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro.
Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra?
Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione.
Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale?
Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono.
Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire?
Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.
Il Colle definisce “risibili” e “irresponsabili illazioni” le rivelazioni del Fatto sulle pressioni di Mancino contro i pm di Palermo Ma poi tira fuori la lettera della Presidenza della Repubblica al Pg della Cassazione: la prova dell’interferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 17.06.2012)
Palermo E alla fine la lettera è saltata fuori. È firmata da Donato Marra, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ed è datata 4 aprile 2012. Destinatario: il Procuratore generale della Cassazione, nella fase di passaggio di consegne tra Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani. La rende pubblica il Quirinale in una nota emessa poco prima delle 19 di ieri: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal capo dello Stato a delle telefonate e a una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono”. A nome di Napolitano, Marra “gira” al pg della Suprema Corte le lamentele di Mancino, indagato a Palermo per la trattativa che “si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa”.
Ma il Quirinale non si limita a una semplice trasmissione: Marra informa il pg che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato e tuttora rispettabile cittadino italiano, sono condivise da Napolitano. “Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nell’Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il capo dello Stato - scrive Marra - auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione”. Spiega Marra alla fine della missiva che l’intervento del capo dello Stato è finalizzato a “dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”.
NAPOLITANO in prima persona, dunque, scavalca il capo della Dna Pietro Grasso cui compete il coordinamento tra le procure e su una materia delicata e scottante come l’indagine sulla trattativa Stato-mafia investe, in modo irrituale e insolito, direttamente il pg della Cassazione. Che non ha poteri di coordinamento tra procure, ma solo quello di decidere sui conflitti di competenza eventualmente sollevati sulle inchieste in corso. Le preoccupazioni di Mancino e Napolitano sono legate alle indagini parallele delle Procure di Caltanissetta e Firenze che, fino a questo momento, hanno ritenuto “penalmente non rilevanti” le condotte dei protagonisti di quella stagione di dialogo dello Stato con Cosa Nostra. E convergono nel senso di indirizzarle verso un unico sbocco: quello “minimalista” che salvi i politici da ogni coinvolgimento penale. La lettera di Marra si conclude con il capo dello Stato che resta in attesa di informazioni (“il presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”) dal Pg della Cassazione, per - spiega la nota del Quirinale - “pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato’’.
E se l’inchiesta di Palermo genera fibrillazioni sul Colle più alto, isolando di fatto i pm palermitani, lo stato maggiore di Magistratura democratica giura “a scatola chiusa” sull’innocenza dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, spaccando la corrente: il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi si dice “incredulo e profondamente preoccupato”. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini esterna il suo “sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. Giovanni Palombarini, tra i fondatori della corrente, “senza bisogno di conoscere il fascicolo” è pronto a giurare sulla sua innocenza. Come fa a saperlo? “Lo so”. Parole che scatenano il dibattito nella mailing list della corrente, con una stragrande maggioranza di interventi di segno opposto: cioè a favore dei pm di palermo.
Lo Stato, diceva Leonardo Sciascia, non può processare se stesso. Ma se proprio è costretto a farlo, perché i suoi più autorevoli esponenti sono accusati di avere dialogato con i boss stragisti Riina e Provenzano, il corto circuito istituzionale è assicurato.
Se a parole tutti condannarono Pietro Lunardi per il suo “con la mafia si deve convivere”, ora che un’inchiesta prospetta una vera trattativa con Cosa Nostra, tutti si chiedono: è legittimo considerare personalità come Mannino, Mancino, Conso, alla stregua di criminali comuni? Ma anche: è legittimo un comportamento sanzionato dal codice penale solo perché giustificato dalla ragion di Stato? “Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia - ha sempre sostenuto il pm Ingroia - ma spesso non lo sono. In caso di divorzio tra le due succede che la ragion di Stato può costituire movente di un reato’’. La levata di scudi che determina l’isolamento politico, giuridico e interno alle toghe di un pugno di pm illusi di poter scandagliare con un’indagine giudiziaria la cattiva coscienza della politica italiana ripropone la domanda centrale, scomoda e imbarazzante: la magistratura ha il diritto-dovere di far salire sul banco degli imputati la scelta politica di unoopiùgoverni, quandoquesta è suggerita dalla gravità del momento?
È LECITO, insomma, trattare sottotraccia con la mafia se l’intento è quello di salvare la vita di esponenti politici minacciati anche a costo di sacrificare Borsellino e la sua scorta, e poi tanti innocenti a Firenze e Milano)? Dal mondo accademico arrivano le prime soluzioni: il docente Giovanni Fiandaca, già capo della commissione di riforma del codice antimafia, è scettico sull’efficacia dell’azione penale. E propone un’exit strategyextra-giudiziale, ricordando le commissioni di verità istituite in Sudafrica per riconciliare le parti e chiudere i conti con il passato al di fuori delle aule giudiziarie: “I protagonisti direbbero la verità in un clima più sereno, non punitivo”. Ma Cosa Nostra può esser trattata alla stregua dell’apartheid? “Fino a che - è il parere di Ingroia - ciascuno non farà di tutto perché la verità venga a galla, la democrazia non potrà mai diventare matura perché resterà ostaggio dei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia”.
il Fatto 17.6.12
L’omicidio del magistrato antimafia Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, sarebbe partita la trattativa tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra per far cessare la “strategia stragista”, in cambio di un’attenuazione dell’articolo 41 bis, che prevedeva misure carcerarie durissime contro i mafiosi. Due giorni dopo la strage, il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica al sedicesimo scrutinio. Un’elezione a sorpresa, visto che prima di Capaci la partita al Quirinale era giocata da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. E la conferma che la strage aveva mutato per sempre anche la politica italiana. A portare avanti il dialogo segreto fra Stato e mafia sarebbero stati i carabinieri del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Secondo il figlio di questi, Massimo, al padre fu consegnato un “papello”, ovvero il documento in cui venivano espresse le dodici “volontà” di Cosa Nostra, con una lunga serie di richieste allo Stato. La prima era appunto l’attenuazione del 41 bis, rafforzato l’8 giugno 1992 con un decreto dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e dal Guardasigilli, Claudio Martelli.
A inizio luglio, proprio Scotti viene “dirottato” alla Farnesina. Al suo posto viene nominato Nicola Mancino. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, a Palermo. Una 126 imbottita di esplosivo salta per aria, uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Pochi giorni prima, Borsellino aveva interrogato Mutolo, poi aveva incontrato Nicola Mancino. La trattativa segreta, intanto, sarebbe proseguita.
Dopo il ‘93 i boss avrebbero avuto un altro referente nelle istituzioni, l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. La trattativa avrebbe avuto il suo culmine nel 1994: lo sostengono il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Fu proprio allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, secondo gli inquirenti, “prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite del suo stalliere Vittorio Mangano e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura”.