[...] La nazione quindi come trama della storia politica e civile passata e presente - un’occasione per ripensare criticamente a quello che siamo e vogliamo, o non vogliamo, essere. Come ha scritto Adriano Prosperi sulla Repubblica di qualche giorno fa, «è sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e piú coraggiosa integrazione» [...]
Il coraggio di una nazione
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 26.08.2009)
A partire dalla Rivoluzione francese, la nazione è stata concepita come il corpo sovrano rappresentato nell’assemblea costituente e poi nel Parlamento. La nazione, prima ancora di assumere connotazioni etniche o culturali, è stata concepita come l’unità giuridica e politica delle donne e degli uomini che risiedono stabilmente in un paese e sottostanno alle leggi dello Stato (per i rivoluzionari francesi un anno di residenza era sufficiente ad acquisire il diritto di voto). Anche se non tutti i costituenti francesi concepirono l’inclusione nel corpo nazionale come un diritto universalmente distribuito, tuttavia dal momento in cui l’imputazione individuale di responsabilità di fronte alla legge e il consenso espresso con il voto sono diventati i criteri legittimanti, la lotta per il diritto di voto e l’inclusione nella cittadinanza ha segnato la storia della democratizzazione nei paesi moderni.
A questa tradizione appartiene Giuseppe Mazzini, la cui idea di nazione è stata squisitamente politica (egli ha radicalmente distinto la nazionalità, che concepiva come autodeterminazione democratica, da nazionalismo che criticava come un’ideologia non politica e pericolosamente egoistica), ma anche pensatori moderati cattolici come Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo e soprattutto teorici liberali-federalisti come Carlo Cattaneo e Carlo Pisacane. La differenza tra loro riguardava essenzialmente l’interpretazione dei criteri e dell’estensione dell’inclusione: per Mazzini, Cattaneo e Pisacane questi criteri erano idealmente universali e democratici, per Rosmini, Gioberti e Balbo invece, come per molti liberali moderati dell’Ottocento, valeva la capacità censitare come condizione per l’inclusione politica.
Comunque sia, da allora la questione dell’inclusione nel corpo della nazione (e per questa ragione la definizione dei requisiti e dei criteri che denotano la nazione) è diventata oggetto fondamentale delle distinzioni ideologiche e della stessa lettura della storia italiana e ora anche di quella europea. Un tema che è ancora oggi in primo piano. A partire dalle lotte risorgimentali, e soprattutto dall’unità nazionale, le forme di appartenenza alla nazione sono state l’oggetto di conflitti e di trasformazioni. La storia dell’unità italiana può essere interpretata come la storia delle battaglie per l’inclusione nel corpo politico ovvero per l’estensione dei diritti politici oltre che di quelli civili e, poi, sociali: nell’Ottocento furono le classi lavoratrici e contadine a rivendicare l’appartenenza alla nazione politica; nei decenni della democratizzazione che ha vinto sul fascismo, sono state le donne, i giovani e coloro che appartenevano a minoranze linguistiche e religiose; oggi, nell’Italia post-industriale sono gli immigranti che giungono nel nostro paese per vivere e lavorare a chiedere l’inclusione.
Il tema dell’inclusione non riguarda semplicemente il diritto di voto. Esso concerne tanto l’interpretazione dei diritti individuali fondamentali e della tolleranza quanto la stessa riformulazione dell’identità del corpo sovrano e degli individui che chiedono di farne parte. L’inclusione è una rivendicazione di dignità e di responsabilità, ovvero di cittadinanza in senso pieno e non solo giuridico; è una rivendicazione di rispetto e riconoscimento del diritti di ciascuno di praticare la propria religione, vivere la propria scelta sessuale, coltivare la propria tradizione culturale (l’Italia è essa stessa uno straordinario esempio storico di unità nella differenza culturale).
La definizione della cittadinanza, i suoi caratteri e la costellazione di diritti che la qualificano, sono l’oggetto del contendere nelle questioni di inclusione. Per questa ragione, ogni studio sulla nostra storia nazionale dovrebbe diventare anche uno studio sulle trasformazioni di questa identità e delle forme di appartenenza ad essa. La lotta delle minoranze (pensiamo in primo luogo alle minoranze nazionali tedesche e francesi o a quelle sarde e siciliane, ma anche alle minoranze religione, come gli ebrei, gli evangelici o i valdesi, e oggi i mussulmani) ha non solo portato a ridefinire in maniera non intollerante la nazione italiana, ma ha anche contribuito a consolidare quel processo di autonomie regionali che ha cambiato radicalmente l’ordine politico e amministrativo del nostro paese. Egualmente: la lotta dei lavoratori e delle donne per l’inclusione nel corpo politico ha aperto la strada alla rivendicazione e conquista di diritti prima sconosciuti (la terza generazione di diritti, ovvero i diritti sociali e sindacali) e cambiato la stessa identità dello Stato da semplice sistema legal-coercitivo a Stato sociale. Infine, la natura democratica dello Stato nazionale così come è emersa da queste lotte ha inaugurato la sfida che ci è più vicina: quella di una politica democratica delle frontiere e quindi dell’ospitalità e della tolleranza; infine, e soprattutto, dell’inclusione degli immigrati nella nazione italiana.
Non è esagerato dire che la messa in moto con il Risorgimento della politica di autodeterminazione nazionale e democratica ha avuto e ha effetti trasformativi della nostra identità collettiva che vanno ben oltre gli eventi storici ottocenteschi e le stesse intenzioni dei protagonisti che li hanno animati, promossi e guidati. La nazione quindi come trama della storia politica e civile passata e presente - un’occasione per ripensare criticamente a quello che siamo e vogliamo, o non vogliamo, essere. Come ha scritto Adriano Prosperi sulla Repubblica di qualche giorno fa, «è sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e piú coraggiosa integrazione».
La complicità del silenzio
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25.08.2009)
Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni. E’ ricoverata all’ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti, l’incriminazione per il reato di immigrazione clandestina.
I procuratori competenti per territorio non hanno alternative: non possono ignorare l’art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli italiani che vanno per mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l’omertà, la volontà di chiudere gli occhi, la capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di deportati del Terzo Reich e di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani. Dietro la paura c’è il potere. Noi tutti dimentichiamo volentieri quanto l’opera del potere sia efficace nel modellare la pasta morale dell’umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte, cancella le reazioni umanitarie.
Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo, sperare nell’intervento di autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese. Ma per ora, aspettando il processo e l’espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la cercano, lei risponde in uno stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui».
A questa domanda si deve dare una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti. Perché al disopra della legge scritta c’è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema ingiustizia. Chi ha attraversato l’inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli infiniti natanti che lo affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini abortiti poi le loro madri poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se accettassimo in silenzio questo esito saremmo complici di un infame gioco dell’oca. Titi e i quattro sopravvissuti con lei hanno conquistato un diritto.
Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani scopriamo all’improvviso nella sua frase la risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e sul come celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Lo ha capito subito con una dichiarazione che gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far sentire «l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani». Patria è la parola giusta.
Oggi se ne parla guardando solo al passato. Ritengono alcuni che si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che avremmo ereditato perché qui siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di sostituire all’Italia la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di cui vorrebbe chiudere le porte agli altri. Ebbene, in questione non è l’indiscutibile appartenenza di fatto e di diritto della popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre istituzioni di esplorare e commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali dell’esistenza del paese. Tutto questo è doveroso, ma non sufficiente.
Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo conquistarlo perché possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell’eredità ricevuta è moltiplicata dagli abissi di ignoranza di un paese in preda all’analfabetismo di ritorno. Oggi il problema è ancora quello antico: la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni, diceva Ernest Renan. A questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e l’orrore in nome di una speranza e di un desiderio che ha nome Italia.
Quanto a noi italiani, con lei e con tutto il suo popolo abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di un popolo che fu unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre coloniali. Accanto agli eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro, spediti in guerra da una patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore dell’indimenticabile Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia" fascista che li mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con la riconquistata libertà del paese.
La storia della patria italiana è quella dei processi di integrazione che hanno portato le masse a diventare coscienti del loro essere l’Italia. Processi lunghi, difficili, spesso bloccati e rovesciati da scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata l’Italia bisognava creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare hanno attraversato e ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile compito di seminare tra le classi popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.
E si può ben capire che non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l’esercito nel Mezzogiorno a piegare i cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli scioperanti. Come disse Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all’accusa di Crispi ai socialisti di essere "senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla massa dei diseredati, ai braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si affollavano sulle banchine di Genova. L’integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte durissime, passò attraverso lacerazioni profonde, costò l’immane bagno di sangue della prima guerra mondiale.
Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell’agro napoletano e loro eredi non sono costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi di studiare, viaggiare, sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli che sono per ora degli schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come lui dalla ribellione allo sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi italiani.
Davanti a noi c’è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di espulsione, oppure tentare la scommessa dell’integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato, con quei contadini e operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e cancellazione delle patrie borghesi, l’integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha portato un’Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900. È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e più coraggiosa integrazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
La coscienza orfana della legge
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 30/8/2009)
Stando a un sondaggio di SkyTg24, sono molti gli italiani convinti che i cinque eritrei sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo vadano processati per reato di immigrazione clandestina: il 71 per cento. Su quel barcone sono periti 73 fuggiaschi, tra il 18 e il 20 agosto, eppure non sembra esserci emozione di fronte al naufragio ma solo famelica ansia di allontanare gli alieni dalle nostre terre, con ogni mezzo. Erano uomini di troppo i sommersi, e lo sono anche i salvati. I ministri di Berlusconi ne approfittano per ricordare che i respingimenti funzionano, che si fan rari gli intrepidi che tentano le traversate: nessuno porta il lutto per i sommersi né immagina quel che hanno vissuto i salvati. Se ci son colpe, è l’Europa a commetterle. La miseria del mondo non può addensarsi sul Sud del continente. Non siamo buoni al punto da esser fessi: questo fanno capire Maroni, Calderoli, e gli italiani sembrano sostenerli.
Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).
Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.
Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».
Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).
La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.
La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.
È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.
Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».
E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.
Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l’ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo
La Rai rifiuta il trailer di Videocracy
"E’ un film che critica il governo"
di MARIA PIA FUSCO *
ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".
A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.
"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".
A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".
Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D’Addario" e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo".
"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata".
* la Repubblica, 27 agosto 2009
Sul presidente della Camera la parola d’ordine è minimizzare
Il premier: nulla di nuovo, è la sua linea
Berlusconi liquida anche la sortita del Carroccio: chiacchiere estive, hanno chiarito *
ROMA - Quello che è certo, è che Silvio Berlusconi non vuole entrarci, né unire la sua voce al «teatrino» della politica versione estiva. Chiuso nella sua villa di Arcore, dalla quale esce solo per fare sopralluoghi alle sue nuove proprietà, fa sapere che per lui le polemiche che stanno animando l’estate altro non sono che «chiacchiere di Ferragosto », robetta buona solo per «riempire i giornali che non saprebbero altrimenti di che parlare...». Si riferisce allo scontro frontale tra la Lega e il Vaticano, il premier, e il suo portavoce Paolo Bonaiuti ci ride su: «Ma quale scontro, non è che se la Padania scrive una cosa, quella è la voce di Bossi. E la Lega ha già spiegato esattamente come stanno le cose». Insomma, la parola d’ordine, nella giornata in cui anche Gianfranco Fini si ritaglia il suo spazio e sul bio-testamento apre un nuovo fronte con la Chiesa, a palazzo Chigi è minimizzare: «Fini? Non ha detto nulla di nuovo, quella è la sua linea...».
Ma le cose, raccontano, non stanno esattamente così. C’è chi assicura che la retromarcia della Lega sia anche frutto dell’intervento di Gianni Letta, irritatissimo dopo il tanto lavoro speso a ricucire i rapporti tra il premier e le gerarchie vaticane. E c’è chi giura che anche Berlusconi ha preso male l’ultima polemica scatenata dagli uomini di Bossi contro quei vescovi con i quali davvero il dialogo è ripreso, e andrà avanti sia domani all’Aquila alla cena tra il premier e il cardinal Bertone, sia in un futuro non troppo lontano con un incontro con il Papa al quale si sta lavorando. «Tutte bugie - ribattono seccamente da palazzo Chigi - nessuno di noi è intervenuto. E Berlusconi ha rapporti eccellenti con Bossi e non è affatto arrabbiato ».
E certamente è vero che il premier non ha intenzione di litigare con l’alleato del quale più si fida e assieme ha pragmaticamente voglia di riprendere a dialogare tranquillamente con la Chiesa, ma il pericolo che vedono alcuni dei suoi è che - senza una sua «zampata» - il nervosismo nel centrodestra superi il livello di guardia. Sì perché tra i cattolici del Pdl cresce il disagio per le posizioni della Lega e per la concorrenza nelle regioni del Nord, sulle quali si sta per giocare una battaglia campale per gli equilibri di maggioranza; e la stessa Lega segnala insieme baldanza ma anche insicurezza quando attacca a testa bassa su tutto, come se fosse - dice un amico del Cavaliere - infastidita dal «sentire il fiato sul collo dell’Udc...». Per questo tutti aspettano parole chiare da Berlusconi. Che quest’estate, finora, si è speso solo per difendere il suo stile di vita privato e quell’Umberto Bossi che «è un amico vero».
Paola Di Caro
* Corriere della Sera, 27 agosto 2009