La patria sull’altalena
di ARRIGO LEVI (La Stampa, 17/12/2008)
Ma gli italiani, amano la loro patria? Sono orgogliosi della sua storia e della sua realtà odierna? O sono dominati da una «sensazione di declino» e da un’«insufficienza di identità e di orgoglio nazionali», che rafforzano una loro «naturale predisposizione ad atteggiamenti anti-istituzionali»? Sono domande che oggi, in tempo di crisi, appaiono più che mai attuali e importanti: dalle risposte che si danno potrà anche dipendere come sapremo reagire e uscire dalla crisi.
Ma sono domande che, dall’osservatorio del Quirinale, ci si poneva assai prima del crollo economico. Forse nessuno più di Paolo Peluffo, che era già stato accanto a Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza del Consiglio e al ministero del Tesoro, ha vissuto con tanta passione questi dubbi e timori, durante il settennato di Ciampi, affiancandolo nell’impegno per accrescere nell’animo degli italiani sentimenti di amor di patria e di fiducia in se stessi; non solo con i discorsi presidenziali, ma con le tante visite ai nostri «centri di eccellenza», da Nord a Sud, e con un succedersi di gesti simbolici e solenni: la parata militare nei Fori Imperiali, la riscoperta dell’Inno di Mameli, i pellegrinaggi a luoghi carichi di memorie storiche. Erano sfide a quegli intellettuali che giudicano un male incurabile la «presunta insufficienza di identità e di orgoglio nazionali degli italiani» e la loro sfiducia nelle istituzioni (con l’eccezione, ancora oggi, della Presidenza della Repubblica).
Peluffo voleva capire dove stesse la verità; e non si stancava di ideare approfonditi sondaggi e ricerche. Da un’analisi sistematica del grande volume di dati raccolti Peluffo ha ora tratto il suo secondo volume di storia della presidenza ciampiana, La riscoperta della patria, che fa seguito al primo (C.A. Ciampi, l’uomo e il presidente, Rizzoli). Il responso di tante ricerche non è univoco. Vi sono zone oscure, accanto ad altre luminose, nell’idea che gli italiani si fanno dell’Italia. Siamo molto orgogliosi della nostra antica storia, delle nostre bellezze naturali e artistiche, della parte avuta nella costruzione della civiltà europea, come dei successi sportivi e scientifici. Rimane sempre molto elevato l’apprezzamento di Polizia e Carabinieri, vi è stato uno straordinario rilancio di popolarità delle Forze Armate, grazie all’impegno umanitario e ai sacrifici dei nostri soldati. Anche l’indice di fiducia nel servizio sanitario è più alto di quanto farebbero credere le tante inchieste sulla «malasanità». Rimane, ma di questi tempi non stupisce, un disagio diffuso per il presente e il futuro dell’economia: ma spesso sottovalutiamo i successi in molti settori (Italia non è solo moda, ma anche tanta industria, tanta meccanica e alta tecnologia). Cresce la fiducia nell’Europa. Non ha trovato grande ascolto l’appello a un nuovo rapporto di rispetto e dialogo tra le forze politiche, che faceva parte della lezione di civismo di Ciampi come di quella instancabile di Napolitano. Rimane, nonostante l’impegno del Quirinale, quello sconforto che nasce dalla violenza e talvolta dalla volgarità del discorso politico ai vertici dello Stato. «Stato» rimane parola meno apprezzata di Nazione o di Repubblica. E la stima dei governi locali (questo rimane il Paese delle cento città), supera di gran lunga il rispetto per il nostro «Stato», anche se è proprio la ricchezza delle tradizioni locali che rende grande l’Italia.
Le ricerche di Peluffo, che tengono conto di un più vasto lavoro di istituti specializzati, richiederebbero un’analisi ben più dettagliata. Chi vuole un’ulteriore disamina del settennato ciampiano veda anche i Dialoghi con il Presidente, opera di studenti e studiosi della Normale (vedi l’autodefinizione dell’«orgoglio» ciampiano a pag. 128). La conclusione dello studio di Peluffo è che il «difetto identitario e la carenza di orgoglio sono più immaginarie che reali». Ma, per ridarci fiducia in noi stessi e voglia di fare, occorre che si costruiscano «occasioni fisiologiche e leggibili di espressione di questi sentimenti, potenzialmente ben radicati nell’animo degli italiani»; al di là di quelle che le ultime presidenze hanno già consapevolmente creato. La concorrenza, a tal fine, dell’opera di altri livelli di governo rimane finora incerta.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Contro la distrazione di massa.
Il ritorno di Greta. Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto
di Guido Viale (il manifesto, 10 luglio 2021)
Greta Thunberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice sul mondo austriaco promosso da Arnold Schwarzenegger, che si è svolto il 1° luglio, con, tra gli altri, Angela Merkel, Antonio Guterres. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, Greta ha rimarcato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare l’opposto: la loro lotta per il clima serve a mascherare la continuazione di una politica fondata sui fossili, che altro non è che la ricerca di nuove occasioni di business.
L’accusa coglie in pieno anche il Pnrr italiano, il suo padre, il Recovery Fund della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a fissare l’attenzione intorno a misure inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il Pnrr, bensì con un “fondone” che Draghi ha aggiunto, a debito, ai fondi del Pnrr, anch’essi di fatto tutti a debito, per “non lasciare indietro nessuno”: in questo caso la lobby del cemento). D’altronde, il Senato italiano, anni fa, aveva votato che il cambiamento climatico non esiste.
Tra le parole contraddette dai fatti di cui parla Greta spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ma quella transizione implica un cambiamento radicale: l’abbandono del mito fasullo e letale della “crescita” (termine con cui oggi si indica l’accumulazione del capitale) e non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica dovrebbe essere, quindi, una grande campagna di informazione: sul perché di una svolta così radicale, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un grande confronto (non era certo tale la kermesse del secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” - associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura - sulle alternative che abbiamo di fronte sia a livello planetario che locale. Se si vogliono ottenere dei risultati non si può che procedere che così.
E se il governo non lo fa, di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra. Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà - un po’ per volta - il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto), ecc.
Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il Pnrr, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il Tav Torino-Lione, ricompreso nel Pnrr, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).
E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il Pnrr evita), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma dal basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri, per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord della Sicilia), per portare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra, in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di Co2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la Co2 fittiziamente sottrattale? O queste cose non dobbiamo chiedercele.
E’ morto Arrigo Levi
La notizia data dalla Stampa, giornale di cui è stato anche direttore
di Redazione HuffPost (24.08.2020)
Arrigo Levi, scomparso stamattina a Roma a 94 anni, è stato senza dubbio uno dei giornalisti italiani con lo sguardo più aperto. Prima di morire, nella stanza d’ospedale dove ha passato gli ultimi giorni prima di essere trasferito a casa nella capitale, ha cantato l’inno d’Israele (La speranza) e una filastrocca modenese che probabilmente gli era cara dall’infanzia. Era infatti nato a Modena (dove si terrà il funerale in forma strettamente privata) il 17 luglio del 1926, ed aveva iniziato a lavorare come giornalista a Buenos Aires, città nella quale la famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni razziali e dove lui finisce in carcere giovane studente per aver partecipato alle manifestazioni contro Peron.
Dopo la laurea in Filosofia a Bologna si arruola nell’esercito israeliano, poi lavora alla Bbc, alla Settimana Incom, alla Gazzetta del Popolo per infine approdare al Corriere della Sera nel 1955, prima come corrispondente da Londra, poi da Mosca.
Divenne poi direttore de La Stampa nel 1973 e fino al 1978: “Sarà mio impegno mantenere a La Stampa la sua chiara e forte fisionomia di organo indipendente (...) che con l’ampiezza dell’informazione vuole favorire la crescita di una società italiana illuminata e matura”, dice presentandosi alla redazione. E tra i suoi meriti c’è quello di aver fondato Tuttolibri, testata autonoma dedicata alla cultura assolutamente anomala nel panorama del tempo. A La Stampa tornò poi come editorialista nel 2005 chiamato dall’allora direttore Giulio Anselmi. Fu a lungo editorialista del Times e autore di una rubrica su Newsweek direttamente in inglese. Ma appunto il suo spirito innovativo e poliedrico lo portò presto verso la televisione, e fu conduttore e coordinatore del Tg Rai, dove realizzò memorabili dirette sulla Guerra dei sei giorni combattuta nel 1967 tra arabi e israeliani, sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968. Popolare anche per la caricatura che ne faceva un imitatore ai tempi molto famoso come Alighiero Noschese. Condusse (con Vittorio Citterich) il settimanale Tam tam, dall′82 all′87 fu in Fininvest (Punto sette, Tivù tivù). Tornato in Rai collaborò, tra l’altro, con Mixer. Poi quattordici anni al Quirinale. Dal 1999 al 2006 è stato consulente per la comunicazione della presidenza della Repubblica, con Carlo Azeglio Ciampi, poi consulente personale del presidente Napolitano fino al 2013.
E’ autore di 26 libri, libri, tra cui: Dialoghi sulla fede (2000), America Latina: memorie e ritorni (2004), Cinque discorsi fra due secoli (2004), Un paese non basta (2009), Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano (2010, racconto della vita di Carlo Azeglio Ciampi), tutti per Il Mulino, e Gente, luoghi, vita (Aragno, 2013). Ha ottenuto il Premio Trento per il giornalismo (’87), il Premio Luigi Barzini come miglior corrispondente (’95) e il Premio Ischia Internazionale (2001).
Nel maggio 2008 vinse la seconda edizione del premio letterario Giorgio Calcagno. Nel maggio 2012 il premio giornalistico nazionale ½Novara diventa - La tradizione di innovare». Nel 2013 il premio di cultura politica Giovanni Spadolini. Sposato con Carmela Lenci, una figlia, Donatella.
E’ morto Arrigo Levi
La notizia data dalla Stampa, giornale di cui è stato anche direttore
di Redazione HuffPost, 24.08.2020
Arrigo Levi, scomparso stamattina a Roma a 94 anni, è stato senza dubbio uno dei giornalisti italiani con lo sguardo più aperto. Prima di morire, nella stanza d’ospedale dove ha passato gli ultimi giorni prima di essere trasferito a casa nella capitale, ha cantato l’inno d’Israele (La speranza) e una filastrocca modenese che probabilmente gli era cara dall’infanzia. Era infatti nato a Modena (dove si terrà il funerale in forma strettamente privata) il 17 luglio del 1926, ed aveva iniziato a lavorare come giornalista a Buenos Aires, città nella quale la famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni razziali e dove lui finisce in carcere giovane studente per aver partecipato alle manifestazioni contro Peron.
Dopo la laurea in Filosofia a Bologna si arruola nell’esercito israeliano, poi lavora alla Bbc, alla Settimana Incom, alla Gazzetta del Popolo per infine approdare al Corriere della Sera nel 1955, prima come corrispondente da Londra, poi da Mosca.
Divenne poi direttore de La Stampa nel 1973 e fino al 1978: “Sarà mio impegno mantenere a La Stampa la sua chiara e forte fisionomia di organo indipendente (...) che con l’ampiezza dell’informazione vuole favorire la crescita di una società italiana illuminata e matura”, dice presentandosi alla redazione. E tra i suoi meriti c’è quello di aver fondato Tuttolibri, testata autonoma dedicata alla cultura assolutamente anomala nel panorama del tempo. A La Stampa tornò poi come editorialista nel 2005 chiamato dall’allora direttore Giulio Anselmi. Fu a lungo editorialista del Times e autore di una rubrica su Newsweek direttamente in inglese. Ma appunto il suo spirito innovativo e poliedrico lo portò presto verso la televisione, e fu conduttore e coordinatore del Tg Rai, dove realizzò memorabili dirette sulla Guerra dei sei giorni combattuta nel 1967 tra arabi e israeliani, sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968. Popolare anche per la caricatura che ne faceva un imitatore ai tempi molto famoso come Alighiero Noschese. Condusse (con Vittorio Citterich) il settimanale Tam tam, dall′82 all′87 fu in Fininvest (Punto sette, Tivù tivù). Tornato in Rai collaborò, tra l’altro, con Mixer. Poi quattordici anni al Quirinale. Dal 1999 al 2006 è stato consulente per la comunicazione della presidenza della Repubblica, con Carlo Azeglio Ciampi, poi consulente personale del presidente Napolitano fino al 2013.
E’ autore di 26 libri, libri, tra cui: Dialoghi sulla fede (2000), America Latina: memorie e ritorni (2004), Cinque discorsi fra due secoli (2004), Un paese non basta (2009), Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano (2010, racconto della vita di Carlo Azeglio Ciampi), tutti per Il Mulino, e Gente, luoghi, vita (Aragno, 2013). Ha ottenuto il Premio Trento per il giornalismo (’87), il Premio Luigi Barzini come miglior corrispondente (’95) e il Premio Ischia Internazionale (2001).
Nel maggio 2008 vinse la seconda edizione del premio letterario Giorgio Calcagno. Nel maggio 2012 il premio giornalistico nazionale ½Novara diventa - La tradizione di innovare». Nel 2013 il premio di cultura politica Giovanni Spadolini. Sposato con Carmela Lenci, una figlia, Donatella.
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
POLITICA
Sardine, Prodi: Chiedono toni civili *
"Discutere in politica con toni anche più civili? Certo, ma questo è abbastanza scontato. La gente è perplessa sulle tensioni che ci sono. D’altra parte non avevo mai visto in vita mia una grande manifestazione che inneggia alla civiltà dei toni. Questo quindi vuol dire che la durezza del dibattito, indipendentemente dai contenuto del dibattito, comincia a stancare". Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi parlando delle ’sardine’ con i giornalisti a Firenze al termine del convegno dal titolo "Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e l’adesione all’Euro", organizzato dalla Scuola Normale di Pisa a Palazzo Strozzi.
"Non è mica necessario in politica mangiarsi, azzannarsi l’uno con l’altro. Si può anche dibattere come stamattina. Oggi non sento dibattito su contenuti veri. Noi questa mattina abbiamo dibattuto sui contenuti, sulla sostanza della politica, ed è quello che io vorrei che si ritornasse a fare, perchè abbiamo bisogno di discutere sull’avvenire del Paese e quindi sulle grandi decisioni da prendere. E qui invece si lavora sui puntigli, sulle recriminazioni: è proprio una marcia indietro", ha aggiunto.
All’incontro, che ha visto relazioni sul ruolo di Ciampi nel primo governo Prodi (1996-98), a cui ha assistito il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno partecipato il senatore a vita Mario Monti, l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e gli economisti Alessandro Petretto, Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi.
* ADNKRONOS, 03/12/2019 19:33 (ripresa parziale).
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis (Il Fatto, 17.09.2017)
Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”.
La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale.
Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”.
Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre).
Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale.
Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni.
Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse.
Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA “BIBBIA CIVILE” ...*
Il Vaffa di Grillo ha origini nel situazionismo di Debord e Gallizio
Non tutti sanno che il nucleo fondativo di quel pensiero trovò accoglienza nel 1957 in un paesino dell’entroterra ligure
di Pino Pisicchio *
Nella miseria dei giorni della politica contemporanea si sono dovute ascoltare anche le celebrazioni per il decennale del "Vaffa day". Potrebbe essere una parabola tutta italiana, un segno dei tempi macilenti che ci toccano in dote. Eppure, forse con qualche preterintenzionalità, quelle celebrazioni hanno un senso. Anche dal punto di vista culturale.
Infatti, ciò che la base elettorale, il vertice dei dirigenti, il sinedrio degli eletti dei Cinquestelle ma anche l’universo dei giornalisti laureati e dei maître à penser usi a invadere Tv, testate ed editrici blasonate, non sanno, è che i grillini, contrariamente a quanto si possa immaginare, un pensiero nobile ce l’hanno, eccome.
E quel Vaffa day lo interpreta perfettamente. Il pensiero nobile grillino, però, non è quella minestra- brodo primordiale lanciata col nome di Gaia da Casaleggio senior nella rete qualche anno fa, con sembianze oniriche stile new age. No. O meglio: la storia dell’agorà virtuale è la fissa aziendale che ha mostrato di funzionare egregiamente sulla base del principio: "urla, offendi, cavalca il mostro che si muove nelle viscere della rete e farai tanti adepti".
La vera grande ispirazione culturale discende, invece, dai rami del Situazionismo di Pinot Gallizio e di Debord, rielaborazione dada della filosofia trozkista, nella convinzione che la borghesia crassa e decadente soggiogata dalla società dello spettacolo, sarebbe stata abbattuta con le stesse armi ma rivolte contro.
Insomma un pensiero spiazzante, indecente e arrabbiato. Ora non tutti sanno che il nucleo fondativo di quel pensiero trovò accoglienza nel 1957 in un paesino dell’entroterra ligure, Cosio di Arroscia, in provincia di Imperia, con un grappolo di stralunati pensatori, pittori, artisti a vario titolo, provenienti da mezza Europa, una sorta di comunità beatnik avanti lettera.
In Italia, dunque, anzi, in quella striscia un po’ nordica, un po’ mediterranea che è la Liguria. A Genova e dintorni, infatti, si insediò un nucleo di resistenti, discepoli sulla scia dell’insegnamento di Debord, tutti apprendisti stregoni della tv, sperimentatori, mischiatori di generi, ritagliatori di suggestioni e di irriverenze.
Marco Giusti, Antonio Ricci, Carlo Freccero, Enrico Ghezzi. E Beppe Grillo. Sì, proprio lui. Che ha sublimato l’idea primigenia del situazionismo offrendo il suo corpo e la sua cacofonia alla causa. Con Grillo, infatti, Debord ha visto compiuta la sua utopia dello sberleffo al potere con i voti di quella che una volta si sarebbe chiamata borghesia e che oggi invece somiglia all’informe ventre di un popolo celibe. E nubile (per parità di genere).
Cos’è, allora, il "Vaffa day" se non il gesto situazionista per antonomasia? Cos’è lo stesso Grillo, con la sua faccia, il suo mestiere di comico, la sua perenne coprolalia brandita come arma contundente? Ma è chiaro: è la vittoria politica di Debord nell’unico consorzio umano al mondo dove poteva attecchire il suo pensiero: la società italiana. Non a caso la Bibbia dei Situazionisti fu il suo libro: "La società dello Spettacolo ".
* Il blog Pino Pisicchio, Presidente gruppo Misto Camera Deputati, The Huffingtonpost, 11.09.2017.
*
LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA “BIBBIA CIVILE” ....
L’ITALIA, LA CARTA D’IDENTITA’ TRUCCATA, E GLI SFORZI FALLITI DEL PRESIDENTE CIAMPI DI ROMPERE L’INCANTESIMO DI "FORZA ITALIA"!!! Una nota di Arrigo Levi
Per la Costituzione - e il dialogo, quello vero ...
"ITALIA". AMARE L’ITALIA: RIPRENDIAMOCI LA PAROLA. VAFFA-DAY?! ONORE A BEPPE GRILLO. Contro la vergognosa confusione dell’ "antipolitica" in Parlamento e della "politica" in Piazza, l’invito ad uscire dalla "logica" del "mentitore". Una lettera (2002), con un intervento di Beppe Grillo (la Repubblica, 2004).
Federico La Sala
Questione immorale
di Norma Rangeri
(il manifesto, 05.05.2016)
Almeno il fatto che in Italia c’è una questione morale, che poi, profanamente, potrebbe essere la traduzione del settimo comandamento (non rubare), è una banale constatazione. La diagnosi di una malattia grave sulla quale è difficile non convenire anche se poi si può chiamare in tanti modi.
Buttarsi in politica per fare affari, è, purtroppo un malcostume nazionale. Lo ha spiegato bene Stefano Rodotà scrivendo di «una proterva controetica esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari». Lo ripete il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in un’intervista all’Unità quando sostiene che «va evitata la commistione, specie a livello locale, tra attività economiche e attività politiche». Forse sarà per questo che in Italia non si riesce a fare una legge sul conflitto di interessi mentre si piazzano imprenditori al ministero dello Sviluppo. E dire che abbiamo avuto al governo, per vent’anni, il conflitto di interessi in persona (altra semplice constatazione, difficilmente confutabile). Conflitto di interessi, familismo amorale, cronica carenza di senso civico disegnano un quadro d’insieme disastroso. Specialmente se il politico ricopre un ruolo istituzionale, alla periferia come al centro del potere. Lo stiamo verificando nella vicenda delle recenti nomine del governo, con gli amici del premier candidati a ruoli di governo delicati e importanti.
Una volta diagnosticato il pessimo stato di salute dell’articolo 54 della Costituzione a proposito delle funzioni pubbliche da adempiere con «disciplina e onore», di tutto il resto si può discutere. Si può discutere se finire in galera perché si è un po’ taroccato un appalto per una piscina comunale sia eccessivo. Sicuramente lo sembra, probabilmente anche perché siamo un paese dove su una popolazione carceraria in crescita i detenuti per reati fiscali o finanziari nessuno li ha visti.
Sull’arresto del sindaco di Lodi è anche arrivato puntuale l’autogol del Pd con la richiesta dell’apertura di una pratica contro le magistrate che hanno mandato in carcere il sindaco piddino. Non stupisce che a chiedere un provvedimento disciplinare sia stato un componente del Csm iscritto al Pd, Giuseppe Fanfani, esponente di un blasonato casato politico aretino (salvo poi, scaricato da Renzi, fare marcia indietro). Tutta acqua al mulino dei 5Stelle.
Con un fenomeno di corruzione strutturale che investe la politica come la società, è difficile non arrivare ai ferri corti tra politici e magistrati. Ai rappresentanti del popolo non fa piacere ricevere l’accusa di essere i protagonisti del brutto film sul vasto mondo di corrotti e corruttori. Ed è vero che, fatalmente, i magistrati incontrando sulla loro strada professionale così tanti politici, finanzieri e imprenditori difficilmente riescono ad evitare collisioni di interessi e di poteri.
Il fatto è che tra un mese gli italiani di molte città saranno chiamati alle urne per decidere chi le deve amministrare. E il buon senso consiglia a Renzi di tenersi lontano dagli zelanti alleati del gruppo di Verdini. Che parlano di “complotto dei magistrati” mentre si coprono di ridicolo nel vano tentativo di smentire la loro partecipazione alla riunione di ieri con il ministro Orlando per definire la linea del governo sulla prescrizione. Renzi getta acqua sul fuoco («il complotto? ma de’ che»), ma se il Pd non si cura della qualità della sua classe dirigente (come ha fatto a Roma dopo Mafia-Capitale) rischia l’autocomplotto.
Il presidente-segretario, che già annuncia di schierare diecimila renziani per i porta a porta referendari, sa che ben prima, solo tra qualche settimana, deve affrontare le insidiose urne del 5 giugno. E l’unico boato che si ascolta per strada di questi tempi è l’intenzione di andare al mare.
“Sindacati sale della democrazia. Così è nato l’asse con la Camusso”
Brunetta (Forza Italia): altro che cani e gatti, difendiamo i lavoratori
intervista di Ugo Magri (La Stampa, 05.05.2016)
«I nemici dei miei nemici sono miei amici», mette subito in chiaro Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, «sarà anche banale, ma in politica funziona così».
Quindi è per via del comune nemico a Palazzo Chigi che lei ha accolto a braccia aperte Susanna Camusso, leader Cgil?
«Nella battaglia di opposizione è giusto parlare con tutti, se occorre perfino con il diavolo. E la Camusso non è certo il diavolo. Tanto più quando viene a discutere un’idea intelligente, su come rinnovare lo Statuto dei lavoratori. Ma un laburista come me, che è nato socialista riformista, che è professore ordinario di Economia del lavoro, che considera i sindacati una risorsa collettiva, anzi una ricchezza della vita pubblica, figurarsi se può dire alla Cgil “no, con voi io non parlo”. A voler rottamare i sindacati, semmai, sarà qualcun altro...».
Chi, Renzi?
«Il presidente del Consiglio sta attuando un piano di distruzione del sindacato e di tutti i corpi intermedi che giudico pernicioso, inaccettabile. In quanto vuol azzerare il conflitto fisiologico, la complessità sociale. Perché significa meno democrazia, meno libertà, più autoritarismo e più egemonismo».
Però questi corpi intermedi che lei difende, Brunetta, sono un ostacolo a chi governa, un freno alle decisioni...
«Sono una seccatura, lo so bene io. Pensi che nei tre anni e mezzo in cui fui ministro, la Cgil mi proclamò contro ben 13 scioperi generali del pubblico impiego, tutti falliti perché gli statali davano retta a me anziché a loro. Però i sindacati, anche quando sbagliano, e sbagliano spesso, restano il sale della vita democratica. Discutere con loro è un dovere. Renzi invece vorrebbe interloquire direttamente con i cittadini elettori, cerca il loro voto in cambio di qualche mancia, aumentando il debito. Come faceva a Napoli Achille Lauro, come Peron in Argentina».
O come più di recente Berlusconi, non trova?
«Falso, sbagliatissimo. Berlusconi e i suoi governi hanno seguito come metodo il dialogo sociale, sempre. Cercando soluzioni di compromesso alto ai conflitti, a costo di fare passi indietro come sull’articolo 18 dopo la manifestazione sindacale al Circo Massimo. E sa perché lo facevamo, noi?».
Per debolezza.
«No, perché Forza Italia era in quella fase il più grande partito operaio italiano. Mica penserà che 15-16 milioni di voti fossero tutti dei super-ricchi, delle partite Iva e dei padroni. Non ne esistono così tanti di capitalisti in Italia, purtroppo. Se il Pdl arrivò al 37-38 per cento fu proprio perché inglobava la gran parte dei “colletti blu”. E le pare che Berlusconi non tenesse conto?».
Forza Italia non è più quella di allora.
«Ma la cultura di fondo rimane identica. Per cui non deve stupire se mettiamo in campo un nuovo protagonismo politico e sociale. E se, accanto ai giusti diritti dei cani e dei gatti, difendiamo con ben altra storia e ben altre motivazioni le ragioni dei lavoratori, tutti».
IL PAPA A SANTA MARTA
Siamo figli di Dio nessuno ci può rubare questa carta d’identità
Noi siamo figli di Dio grazie a Gesù, nessuno ci può rubare questa carta d’identità: è quanto ha affermato stamani Papa Francesco durante la Messa a “Casa Santa Marta”. Ha concelebrato con il Papa, il cardinale indiano Telesphore Placidus Toppo, arcivescovo di Ranchi. *
Al centro dell’omelia del Papa il Vangelo della guarigione di un paralitico. Gesù all’inizio gli dice: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”. Forse - afferma Papa Francesco - questa persona è rimasta un po’ “sconcertata“ perché desiderava guarire fisicamente.
Poi, dinanzi alle critiche degli scribi che fra sè lo accusavano di bestemmiare - “perché soltanto Dio può perdonare i peccati“ - Gesù lo guarisce anche nel corpo. In realtà - spiega il Pontefice - le guarigioni, l’insegnamento, le parole forti contro l’ipocrisia, erano “soltanto un segno, un segno di qualcosa di più che Gesù stava facendo“, cioè il perdono dei peccati: in Gesù il mondo viene riconciliato con Dio, questo è il “miracolo più profondo”
“Questa riconciliazione è la ricreazione del mondo: questa è la missione più profonda di Gesù. La redenzione di tutti noi peccatori e Gesù questo lo fa non con parole, non con gesti, non camminando sulla strada, no! Lo fa con la sua carne! E’ proprio Lui, Dio, che diventa uno di noi, uomo, per guarirci da dentro, a noi peccatori“. Gesù ci libera dal peccato facendosi Lui stesso “peccato“, prendendo su di sé “tutto il peccato“ e “questa - ha detto il Papa - è la nuova creazione“. Gesù “scende dalla gloria e si abbassa, fino alla morte, alla morte di Croce“ fino a gridare: “Padre, perché mi hai abbandonato!”. Questa “è la sua gloria e questa è la nostra salvezza“.
“Questo è il miracolo più grande e con questo cosa fa Gesù? Ci fa figli, con la libertà dei figli. Per questo che ha fatto Gesù noi possiamo dire: ’Padre’. Al contrario, mai avremmo potuto dire questo: ’Padre!’. E dire ’Padre’ con un atteggiamento tanto buono e tanto bello, con libertà! Questo è il grande miracolo di Gesù. Noi, schiavi del peccato, ci ha fatto tutti liberi, ci ha guarito proprio nel fondo della nostra esistenza. Ci farà bene pensare a questo e pensare che è tanto bello essere figlio, è tanto bella questa libertà dei figli, perché il figlio è a casa e Gesù ci ha aperto le porte di casa... Noi adesso siamo a casa!“.
Adesso - ha concluso il Papa - si capisce quando Gesù dice: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati!”. “Quella è la radice del nostro coraggio. Sono libero, sono figlio... Mi ama il Padre e io amo il Padre! Chiediamo al Signore la grazia di capire bene questa opera sua, questo che Dio ha fatto in Lui: Dio ha riconciliato con sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione e la grazia di portare avanti con forza, con la libertà dei figli, questa parola di riconciliazione. Noi siamo salvati in Gesù Cristo! E nessuno ci può rubare questa carta di identità. Mi chiamo così: figlio di Dio! Che bella carta di identità! Stato civile: libero! Così sia“.
Sergio Centofanti - Radio Vaticana
* Avvenire, 4 luglio 2013
IL COLLOQUIO
Ciampi: "La notte del ’92
con la paura del golpe"
Parla l’ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi ’dobbiamo reagire’. Grasso dice cose giuste"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - "Non c’è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c’è dietro le stragi del ’92 e ’93? Chi c’è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso, dopo l’appello di Walter Veltroni, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.
L’ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall’ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent’anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell’intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell’apparato statale, anzi dell’anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".
Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull’orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l’ipotesi più inquietante: l’Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l’esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".
Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all’una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?
È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell’entità, quell’aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al ’94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. È uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".
Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l’ex capo dello Stato oggi rilancia l’appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del ’92-’93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell’epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l’ex presidente della Repubblica - non c’è democrazia".
ITALIA. USCIRE DALLA CONFUSIONE
L’amarezza del presidente emerito della Repubblica Ciampi
"Aberrante episodio di torsione del sistema democratico"
"E’ il massacro delle istituzioni
ora proteggiamo il Quirinale"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos’altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l’ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l’ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all’ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.
Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l’invalidazione dell’intero risultato elettorale. Il rischio c’è, purtroppo. C’è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...". Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l’avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell’irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...". Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio". Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po’ a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull’inquilino del Colle dall’Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell’interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l’opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l’aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano". I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all’integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l’Italia".
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? "Vede - osserva Ciampi - proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell’amore per la civiltà, di quell’attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l’esatto opposto". Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l’essenza del berlusconismo - secondo l’ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese". Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l’antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".
Oggi l’ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni". Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull’ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l’Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E’ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d’animo, e soprattutto non deve smettere di lottare". Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent’anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
*
m.giannini@repubblica.it
© la Repubblica, 09 marzo 2010
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
L’Italia unita e voluta nel Risorgimento
di FRANZO GRANDE STEVENS (La Stampa, 2/1/2010)
Si è in tanti al lavoro, soprattutto a Torino, per realizzare l’anno venturo i vasti programmi di celebrazioni dell’Unità d’Italia; ma, imprevedibilmente, si sono levate distinte voci di dissenso. C’è chi sostiene che qui, dal Piemonte, non si volle un’Unità così come realizzata per tutta l’Italia e chi d’altra parte ritiene che alcune Regioni italiane fossero state brutalmente annesse contro la loro volontà ed i loro interessi.
È molto triste che così si dimentichino - o piuttosto si tradiscano - le migliaia e migliaia di patrioti e di intelligenze di tutta la penisola che credettero negli ideali degli illuministi, della rivoluzione francese, di quella napoletana del ’99, nell’unità degli italiani e per restarne fedeli andarono in esilio, nelle carceri o sacrificarono la loro vita.
Proprio qui in Piemonte, si guardò lontano: si dette la Costituzione (lo Statuto), si riconobbero i diritti delle minoranze (ebrei e valdesi), si combatterono con le guerre di indipendenza gli stranieri che occupavano regioni italiane, si stabilì che la giustizia ordinaria, senza distinzioni e privilegi, fosse applicabile anche agli ecclesiastici, si accolsero gli esuli qui venuti d’ogni parte d’Italia.
Intorno al decennio chiamato «di preparazione» (1849-1859), a Torino convennero i migliori da tutta l’Italia.
Via Po dintorni e il Borgo Nuovo (con i caffè Florio e Perla) furono il centro frequentato, ad esempio, da Francesco De Sanctis, Antonio Scialoja, Pasquale Stanislao Mancini, Bertrando Spaventa, Francesco Crispi (anch’egli convertito all’Unità), Carlo Poerio, Raffaele Conforti, Guglielmo Pepe, Enrico Cosenz, Mariano d’Ayala, Giuseppe La Farina, Guglielmo Pepe, Giovanni Nicotera, Giuseppe Pisanelli, Raffaele Piria, Agostino Depretis, Luigi Settembrini, Francesco Ferrara, Filippo Cordova e tanti tanti altri. E quanta solidarietà essi trovarono! A Scialoja il governo sardo assicurò un appannaggio e la cattedra di economia, poi trasmessa a Francesco Ferrara, a De Sanctis (ricordato con una lapide in via San Francesco da Paola) fu consentito l’insegnamento e qui egli tenne il famoso corso di mirabili lezioni dantesche; Francesco Crispi che stentava la vita fra la mansarda di via Vanchiglia ed il locale «Caffè del Progresso» venne aiutato da Don Bosco che incontratolo macilento in corso Valdocco lo invitò a mangiare dai salesiani (dove è ora Maria Ausiliatrice). A Mancini che aprì uno studio in via Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi) che fu anche il luogo di incontro di un cenacolo intellettuale, la professione legale e la cattedra di diritto internazionale - la prima - consentirono di guadagnarsi da vivere. E tanti altri potrebbero ricordarsi.
Tutti si guadagnarono fama e gratitudine (strade e monumenti dedicati, quello di La Farina a piazza Solferino, di Guglielmo Pepe in Piazza Maria Teresa, di Piria nel cortile dell’Università).
Piero Citati che amava «chi imprigionasse nei suoi libri una goccia di passato» ci fece sentire con una vibrazione appassionata la «dolentissima» realtà di affanni dei tanti emigrati politici.
E Benedetto Croce nel 1925 scrisse: «Quando io ripenso a quei calabresi e abruzzesi, balisicatesi e pugliesi, e napoletani di Napoli che agitavano ardenti problemi politici..., che entrarono nelle legioni italiane appena formate... e quando leggo i documenti delle relazioni e amicizie che essi allora legarono con lombardi e piemontesi e liguri e veneti dico tra me: ‘’Ecco la nascita dell’Italia moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra’’».
E in una lettera conservata all’istituto di Studi filosofici di Napoli, Bertrando Spaventa scrisse a Pasquale Villari (il grande allievo di De Sanctis) «di essere giunto alla Mecca a Gerusalemme, la Città Santa degli italiani: Torino» che descriveva così: «Torino, una città seria, silenziosa, gli abitanti non sono oziosi, badano ai loro affari e pare che non sia; pochi gesti, poche parole, proponimento...; hanno creduto e credono che la Costituzione non sia una burla, e la vogliono, ne godono e non sono contenti di perderla. Vita politica attivissima. A me pare una piccola città inglese. Donne... graziose e facilissime, anzi troppo». E così concludeva: «Ma l’anima è ora italiana».
Nel suo ultimo libro Arrigo Levi scrive: «Emancipazione e Risorgimento, nella cultura degli ebrei italiani, furono una cosa sola. Essi diventarono italiani, come lo diventarono veneziani e napoletani, piemontesi e lombardi, esattamente negli stessi anni».
Soltanto chi manchi di letture o abbia spirito fazioso può oggi sostenere che nel Risorgimento - periodo favoloso della nostra Storia - non si volle l’Italia unita, o addirittura che non la si voglia oggi.
Tanto più oggi poi quando la Costituzione definisce l’Italia «una Repubblica...» costituita da «Comuni, Province, Città metropolitane, Regione e Stato», si è costituita l’Unione Europea e si tende ad un’Europa sempre più unita (come ricordano e sollecitano i Presidenti della nostra Repubblica). Al punto che le nostre leggi ordinarie non possono essere in contrasto non soltanto con la nostra Costituzione, ma anche con «l’ordinamento comunitario» o gli «obblighi internazionali».
L’italiano dell’Ottocento e dei migranti *
◆ La lingua italiana prima dell’Unità fino a quella parlata dai « nuovi cittadini » , i migranti nel Belpaese attuale. Si intitola « Bella e perduta » la tre giorni di convegno promossa dalla Società Dante Alighieri che si apre oggi a Roma, nella sede di Palazzo Firenze, con cui si metterà a fuoco il tema « L’Italia del Risorgimento: dall’italiano dello Stato preunitario alla lingua dei migranti » . I lavori si aprono alle ore 17 con la presentazione del libro « Bella e perduta » ( Feltrinelli) dello storico Lucio Villari, con gli interventi di Bruno Bottai, Giorgio La Malfa e Giuseppe Parlato. Venerdì verrà conferito il Premio « Dante Alighieri » al presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ai lavori prenderanno la parola, tra gli altri, Tullio De Mauro, Alessandro Masi, Antonio Maccanico, Walter Mauro.
* Avvenire, 16.12.2009.
Procedura inusuale del capo dello Stato che ha convocato i giornalisti
al termine di una cerimonia al Quirinale: "Sento il bisogno di parlare"
Napolitano: "Le toghe non travalichino"
Anm: "Ma noi vogliamo parlare" *
ROMA - Imporre uno stop, nell’interesse della nazione, alla spirale di polemiche e tensioni sempre più drammaticizzata non solo fra partiti ma addirittura fra istituzioni, tenendo presente che "niente può far cadere un governo se ha la fiducia del Parlamento" e se conta su una maggioranza coesa. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lanciato un vero e proprio appello alla politica italiana. E lo ha fatto dal Quirinale, con una dichiarazione non priva di toni allarmati. Che provoca la reazione dell’Anm. "Non siamo in guerra ma non vogliamo aggressioni" dice il presidente Luca Palamara.
Le parole di Napolitano rispondono punto per punto alle preoccupazioni manifestate da più parti nei rapporti tra politica e giustizia e anche ai timori del premier, Silvio Berlusconi, che ieri, durante l’ufficio di presidenza del Pdl, ha lamentato che la magistratura voglia "abbattere il suo governo ".
La dichiarazione del presidente della Repubblica è avvenuta nella sala di rappresentanza del Colle con una procedura, sinora inedita, che testimonia la preoccupazione del capo dello Stato per lo scontro in atto nel Paese. Al termine dell’udienza con l’Anmil, l’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, i giornalisti vengono raccolti nella sala di rappresentanza. Pochi minuti dopo, anche Napolitano ha raggiunto la sala per leggere la sua dichiarazione. Poche parole per motivarne l’urgenza: "Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento. L’interesse del Paese richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali".
"Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. E’ indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione".
"E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Le reazioni. Di "parole sagge" parla il presidente del Senato Renato Schifani, mentre Gianfranco Fini apprezza il messaggio del capo dello Stato e sottolinea come vada letto e apprezzato "nella sua totalità". Anche Umberto Bossi accoglie l’invito ad abbassare i toni: "Bisogna stare più tranquilli". Chi, invece, si smarca è Antonio Di Pietro: "Non posso però esimermi dal riaffermare che i magistrati, quando lamentano l’impossibilità di potere svolgere il proprio lavoro per colpa di norme criminogene che vengono emanate da questo Parlamento, non possono essere zittiti". Il presidente del Pd Rosy Bindi, invece, chiama in causa chi "continua a lanciare accuse di eversione o a parlare di guerra civile". Ovvero il premier. "Berlusconi dovrebbe verificare che, dopo le parole da lui stesso pronunciate contro esponenti del suo partito, sia ancora così solida" chiude Rosy Bindi. Per il leader dell’Udc Pierferdinando Casini si tratta di "un doppio monito che vale per tutti coloro che in questi giorni ingiustamente hanno fatto polemiche dissennate contro i vertici delle istituzioni, anche contro il Capo dello Stato".
* la Repubblica, 27 novembre 2009
L’ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"
Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"
Ciampi: "Basta leggi ad personam
Berlusconi delegittima le istituzioni"
di MASSIMO GIANNINI *
«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell’azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l’amarezza. Un’amarezza profonda, sul destino dell’Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".
"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".
L’ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare". Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio". "Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".
* © la Repubblica, 23 novembre 2009
Il gruppo di garanti guidato da Ciampi delle celebrazioni dei 150 anni
Riscritto il progetto Bondi, si sottolinea l’identità e la coesione nazionale
La rivincita dell’Unità d’Italia
Il comitato ribalta l’impianto ’leghista’
di SIMONETTA FIORI *
Sono i Garanti dell’Italia unita, al loro compito cercano di rimanere fedeli. Così il nuovo documento proposto da un gruppo di studiosi raccolti intorno al presidente Carlo Azeglio Ciampi ha proprio il sapore di una correzione rispetto alle linee-guida presentate un mese fa dal ministro Bondi. Cominceranno il 17 marzo del 2011 le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. La data di avvio è stata proposta dal Comitato dei Garanti, che ieri ha reso pubblico il suo documento con i "suggerimenti" per il ministro Bondi. La rilevanza politica di questo nuovo atto consiste nel contrapporre alla "disunità" enfatizzata nelle linee guida del ministero, influenzato dai mal di pancia di Bossi (i localismi, la valorizzazione dei dialetti, le ombre del processo risorgimentale), una lettura che invece insiste sul carattere unitario della costruzione nazionale. E questo carattere unitario scaturisce da una tradizione storica che dal Risorgimento arriva alla Carta Costituzionale passando attraverso la stagione fondante della Resistenza.
Quella che è emersa nei giorni scorsi dal Comitato dei Garanti - presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e composto tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky, Walter Barberis, Roberto Pertici, Simona Colarizi, Elena Aga Rossi, Ernesto Galli della Loggia - è una lettura della storia nazionale molto distante dagli umori della Lega o dalle interpretazioni neoguelfe cui pure è sensibile il presidente del Consiglio. Ora spetta al ministro Bondi tradurre in mostre, manifestazioni nelle scuole, musei virtuali e fiction televisive questa lettura dell’identità nazionale. Ci saranno i soldi? E, soprattutto, ci sarà la volontà politica di valorizzare un’interpretazione della storia italiana così estranea alla visione dei governanti?
Vediamolo in dettaglio questo bilanciamento. Intanto nel cappello del documento si specifica che queste celebrazioni devono trasmettere essenzialmente un "significato unitario", ossia il "patrimonio di identità e di coesione nazionale che gli italiani hanno maturato nella loro storia". Questo non significa trascurare "le difficoltà del percorso di formazione nazionale" o "problemi ancora irrisolti come il divario tra Nord e Sud" né significa appiattire "gli elementi di pluralità e diversità" molto esaltati dal ministro Bondi, ma tutti questi aspetti devono essere trattati entro una cornice solidamente unitaria, cementata da un’identità nazionale "che ha le sue radici nella formazione della lingua italiana", scrive Ciampi, "e che negli ultimi due secoli s’è sviluppata in una continuità di ideali e valori dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione Repubblicana".
Un capitolo centrale del documento investe le "istituzioni", questione ignorata nelle precedenti celebrazioni dell’Unità d’Italia. "L’unità di un popolo", vi si legge, "si misura sulla tenuta delle sue istituzioni, sulla capacità di fare di tante terre, distinte e anche lontane, un territorio integrato". Parlare dell’unità d’Italia equivale dunque a parlare delle sue istituzioni unitarie, della loro attuale tenuta. Centocinquant’anni di trasformazioni profonde: "dalla monarchia alla repubblica; dall’oligarchia liberale alla democrazia aperta a tutte le classi; dallo Stato centralizzato alle autonomie territoriali, al federalismo; dalla emarginazione delle donne dalla vita pubblica e sociale alla loro partecipazione; dai diritti di libertà ai diritti sociali, la salute, il lavoro, l’istruzione; dallo Stato-guardiano allo Stato del benessere; dalla separazione società-Stato alla "nazionalizzazione delle masse", allo Stato pluralista; dallo Stato confessionale alla laicità dello Stato". Il "documento riassuntivo" di questo percorso è la Costituzione, che dovrebbe assurgere a simbolo delle celebrazioni unitarie. Da queste considerazioni discende un’altra integrazione suggerita a Bondi dai Garanti: le manifestazioni non dovrebbero essere circoscritte al solo Risorgimento. La ricorrenza del 2011 investe la "vicenda italiana in tutta la sua unitarietà e interezza": non solo dunque la lotta per l’indipendenza, ma anche il successivo consolidarsi dell’identità italiana lungo un secolo e mezzo, con speciale attenzione "al tratto del percorso unitario compreso negli ultimi sessant’anni".
In questo quadro di riferimento - che valorizza anche la crescita di benessere legato al lavoro, il ruolo delle Forze Armate, la storia di genere - si potranno pure affrontare i singoli episodi, personaggi e luoghi geografici indicati dalla precedente bozza di Bondi (viaggi nella storia locale italiana, ritratti di statisti e artisti eminenti, luoghi delle memoria, targhe e monumenti riscoperti e puliti), elementi che tuttavia, sprovvisti della cornice unitaria, non sono più funzionali allo spirito delle celebrazioni. Conseguente a questa impostazione è anche la riflessione sui dialetti. "La valorizzazione delle lingue particolari", si legge nel documento, "è un fatto positivo se serve alla pluralità nell’unità; non ha invece alcuna relazione con le celebrazioni dell’Unità d’Italia, è anzi controproducente, se si riduce alla pura e semplice coltivazione di culture locali chiuse in sé, a vocazione folcloristica". Bondi aveva proposto il "censimento dei dizionari dialettali". Una "priorità dubbia", liquida il Comitato. Al momento Bossi è servito. La palla ora passa al ministero.
© la Repubblica, 7 ottobre 2009
Le intuizioni giuridiche del giovane Carlo Azeglio Ciampi al momento della laurea
C’è libertà per le minoranze religiose?
La «libertà concordataria» è ben lontana sia dalle posizioni dei teologi protestanti riuniti nel 1943 alle Giornate del Ciabas, sia di Piero Calamandrei... e puntuale arrivò il Concordato
di JEAN-JACQUES PEYRONEL (Riforma, n. 33, 04.09.2009)
«PERSONALMENTE mi riconoscevo in pieno nelle posizioni di Piero Calamandrei. Non sentivo contraddizione alcuna tra il sentimento religioso al quale ero stato educato in famiglia e a scuola (...) e la formazione laica vissuta negli anni della “Normale”»: così scrive Carlo Azeglio Ciampi nell’introduzione al libro* che pubblica la sua tesi di laurea in Giurisprudenza, sostenuta il 23 luglio 1946 a Pisa, su «La libertà delle minoranze religiose nel diritto ecclesiastico italiano».
Ora è noto che Calamandrei, costituente del Partito d’Azione, fu uno dei più tenaci oppositori all’art. 7 che costituzionalizzò i Patti Lateranensi. Nelle sue «note» sull’acceso dibattito della Costituente, Calamandrei scriveva tra l’altro: «Tutti gli oppositori (...) si rifiutavano di accettare una formula, la quale, venendo a dare ai Patti Lateranensi il carattere di vere e proprie norme costituzionali, avrebbe accolto nella costituzione repubblicana il principio dello Stato confessionale e della religione di Stato consacrato in quei Patti, in aperto contrasto coi principi della libertà di coscienza e della uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge, proclamati in altri articoli della stessa costituzione».
La tesi di Ciampi, sostenuta otto mesi prima del voto sull’art. 7, parte da questa constatazione: «Mentre la proclamazione della religione dello Stato è solennemente fatta negli articoli 1 dello Statuto e del Trattato, il principio della libertà religiosa non trova nessuna esplicita affermazione del nostro diritto». Libertà religiosa che per lui va intesa come un «concetto giuridico» da distinguere «in due aspetti principali: libertà di coscienza e libertà di culto».
Nell’introduzione al libro, Francesco Margiotta Broglio rievoca il percorso del futuro presidente della Repubblica tra la guerra e gli studi giuridici, concludendo: «Ciampi non poteva sicuramente immaginare, nel luglio del ’46, che i costituenti avrebbero finito per adottare soluzioni pienamente compatibili con le formulazioni assai equilibrate da lui esposte nella dissertazione di laurea in giurisprudenza ».
Gianni Long invece, parlando della situazione degli ebrei e dei protestanti alla vigilia della Costituente in una «città aperta» come Livorno, che diede i natali a Ciampi, ricorda gli atteggiamenti ambivalenti del protestantesimo italiano su questo tema.
La legge sui culti ammessi del 1929, fortemente voluta da Mario Piacentini, ex cattolico sposato con una valdese delle Valli, «fu accolta con entusiasmo da tutti gli evangelici italiani», scrive, ma poi ci fu la «svolta dell’estate del 1943», alle Giornate del Ciabàs, in cui venne rivendicato il «principio della separazione nei rapporti tra chiesa e stato, come il regime nel quale meglio che in ogni altro, essa può svolgere la propria opera con quella libertà che le proviene dalla Parola di Dio», posizione ribadita in un manifesto del Consiglio federale delle chiese evangeliche del 2 giugno 1946, in cui «si enunciavano tre punti: la piena e completa libertà di coscienza e di religione; l’assoluta indipendenza di tutte le chiese dallo Stato; la neutralità religiosa, cioè “l’imparzialità dello Stato, non confessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica” ». Infine, Long ricorda che le «intese» previste all’art. 8 «non erano volute né dagli ebrei (...) né dai protestanti, legati al principio del diritto comune».
In appendice, Francesco Paolo Casavola, ex Presidente della Corte costituzionale, riflettendo su «Lo Stato tra confessione e laicità», afferma che fu «paradossalmente, il richiamo protestantico alla libertà della coscienza» a richiedere «il soccorso e il sostegno dei poteri statali» in quanto «il compromesso di Westfalia» era «ben più crudo di una proclamazione di confessionismo di Stato, perché postulava anche ideologicamente l’annientamento della libertà di coscienza nell’appartenenza territoriale».
Anche il giovane Ciampi insiste sul principio della libertà di coscienza. Ma, dopo aver parlato dei limiti alla libertà religiosa per motivi di ordine pubblico, ricorda i «limiti del tutto diversi (...) posti al concetto di libertà religiosa da parte cattolica» citando la lettera di Pio XI al Cardinale Gasparri del 30 maggio 1929: «Se si vuole dire che coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola in forza di un mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».
Il che fa dire a Ciampi: «Dire che lo Stato (...) riconosce la religione cattolica come la vera, significa l’accettazione completa della dottrina cattolica, che per la sua caratteristica “totalitaria” investe ogni aspetto della vita umana, tendendo necessariamente alla unicità, all’esclusione di qualsiasi altra fede religiosa».
«Se quindi si vuole rispondere alla domanda se in Italia esista un regime di libertà religiosa - conclude Ciampi - la risposta è senz’altro negativa; non si può certo definire “libertà” il trattamento fatto alle minoranze religiose».
Si chiede inoltre: «È ammissibile in un regime di libertà religiosa l’esistenza di un Concordato fra lo Stato e uno dei culti?». La risposta dei costituenti democristiani e comunisti consistette nell’approvazione dell’art. 7 seguito dall’art. 8.
Otto mesi prima, Ciampi scriveva in conclusione della sua tesi: «Se da un lato i sostenitori dello Stato laico hanno ragione quando affermano che non debbano esistere privilegi per nessuna religione, d’altro canto non meno legittima è l’esigenza di valutare l’importanza della tradizione cristiana nella vita della Nazione italiana». Ragion per cui, secondo lui, «lo Stato non può certo disinteressarsi dell’educazione religiosa».
62 anni dopo, non c’è tuttora una legge quadro sulla libertà religiosa, c’è tuttora il Concordato, pur revisionato, e c’è tuttora l’Irc confessionale. E ci sono voluti 37 anni per giungere alla prima firma di un’intesa. A noi pare che questa «laicità concordataria» sia alquanto lontana da quella che chiedevano i giovani barthiani del Ciabàs nel 1943 e anche da quella che avrebbe voluto Piero Calamandrei...
* Carlo Azeglio Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di Francesco Paolo Casavola, Gianni Long, Francesco Margiotta Broglio. Bologna, Il Mulino, 2009, euro 15,00.
Il presidente emerito critica la scelta di Berlusconi di avviare una causa contro Repubblica
"È un passo falso per chi l’ha fatto, il primo danneggiato rischia di essere il denunciante"
Ciampi: "Un errore incredibile
che può diventare un autogol"
"Io parto sempre dall’idea che le cose strampalate chi le compie prima o poi le paga"
di GIORGIO BATTISTINI *
ROMA - "Che errore", dice Carlo Azeglio Ciampi a proposito della querela di Berlusconi a Repubblica. "Ma come si fa? E’ incredibile, davvero inconcepibile".
L’ex capo dello Stato interviene, rispondendo a Repubblica, sull’attacco del presidente del Consiglio alla libera stampa. Un evento inedito e clamoroso, che sembra lasciarlo senza parole. Lui, che ha sempre avuto estremamente a cuore la libertà di stampa. Il presidente che in un messaggio alle Camere difese il pluralismo dell’informazione costringendo l’allora governo Berlusconi (e il suo ministro Gasparri) a un imbarazzante dietro front, correggendo il testo d’una legge sulla tv. Le cose sono arrivate a questo punto, in Italia? E nessuno si oppone, nessuno più reagisce?
Anziché rispondere alle domande di un giornale il capo del governo preferisce dunque trascinare quel giornale in tribunale? "Io parto sempre dall’idea che le cose strampalate chi le compie prima o poi le paga. La gente non è così sciocca. Sa leggere bene il significato vero degli eventi, errori compresi. Oltretutto, si va a un processo sulle cose scritte e pubblicate? Bene. Con quale esito possibile, ridicolo a parte?"
Forse l’unico vero obiettivo (pensato ma non dichiarato) è forzare la libera stampa, almeno quella che non gli è pregiudizialmente favorevole. Colpirne uno per educarne cento, come si dice? Guarda caso il giorno prima di uno scontro col Vaticano ora gli sembra ostile? "A me non pare proprio che la cosa debba finire in sede giudiziaria. Oltretutto mi pare evidente il rischio d’una auto condanna".
Vuol dire che la mossa di Berlusconi profila un evidente rischio di autogol? "Voglio dire che quella querela contiene tutti i segni distintivi d’un passo falso per chi l’ha fatto".
Ritiene che, per come si presenta, la querela abbia scarse possibilità di successo? "Non conosco gli avvenimenti in dettaglio, ma direi che prendere sul serio quella denuncia sarebbe un errore. E il primo danneggiato rischia d’essere lo stesso denunciante".
* la Repubblica, 29 agosto 2009
Spezzatino d’Italia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 29/8/2009)
L’Italia ha le traveggole, verrebbe da pensare. Perché i due temi che campeggiano nel nostro dibattito pubblico, anzi la doppia polemica che ci avvolge come una nuvola di smog reca in sé un ossimoro, una contraddizione. Eppure in entrambi i casi a darle corpo sono i fatti, non una chiacchiera sotto l’ombrellone.
È un fatto, in primo luogo, che il Belpaese è ormai uno spezzatino. Nei suoi simboli identitari, dato che la Costituzione rimane un oggetto misterioso, dato che l’inno nazionale è stato messo in discussione, dato che c’è chi vuol affiancare al tricolore le bandiere regionali, dato infine che persino la lingua ci divide, con l’idea dei dialetti obbligatori nelle scuole. Nei valori della fede, benzina per la guerra in corso tra guelfi e ghibellini, ora per la pillola abortiva Ru486, ora per l’insegnamento della religione, ora per il testamento biologico. Nelle disparità economiche, che il federalismo fiscale promette d’accentuare, mentre nel frattempo incalza la proposta delle gabbie salariali. Nella rappresentanza nazionale in Parlamento, con un partito del Nord che rastrella il 10 per cento dei consensi, sicché l’antico Regno dei Borboni sta per opporgli un partito del Sud. Insomma l’unità d’Italia è diventata un’impostura, o al più un ricordo dell’infanzia. Ovvio che le celebrazioni per i suoi 150 anni di carriera siano ferme al palo, nonostante moniti ed allarmi.
È un fatto, in secondo luogo, che questa marmellata nazionale alimenta tuttavia una politica dura come il ferro, permeata da istinti muscolari, incline a derive autoritarie. Può sembrare l’opinione di qualche intellettuale pallido, magari abbagliato dalle tante ordinanze dei sindaci sceriffi, che per esempio a Sanremo vietano a chiunque di sedersi fuori dalle panchine comunali, a Voghera vietano invece le panchine, quando ci s’accomoda in più di tre persone. Ma le prove sono ben maggiori, e soprattutto è ormai corale la denuncia. Il segretario del Pd, Franceschini, ha appena messo in guardia gli italiani dal pericolo d’un nuovo autoritarismo, e intanto prepara una mobilitazione straordinaria per la libertà d’informazione. Il presidente della Camera, Fini, punta l’indice contro le politiche razziste del governo. I radicali di Pannella presentano un dossier per dimostrare che le patrie galere sono peggiorate anche rispetto ai tempi del fascismo. I valdesi digiunano per solidarietà con gli immigrati. La Chiesa cattolica si schiera senza mezzi termini contro il reato d’immigrazione clandestina, aprendo un incidente con la Lega. Perfino Lippi, ct della Nazionale, protesta dopo il sistema poliziesco deciso da Maroni, ossia la schedatura in massa dei tifosi.
Da qui una contraddizione, un bisticcio logico. Perché se il cemento che ci univa gli uni agli altri si va spappolando, allora significa che siamo rimasti orfani dello Stato, la nostra casa comune. Ma se al contempo va consumandosi una stretta autoritaria, vuol dire che di Stato ce n’è troppo, ed è così potente da prosciugare i diritti individuali. Insomma: almeno all’apparenza, il primo fenomeno suona come la negazione del secondo. A meno che non ne sia la scaturigine, ed è precisamente questa la domanda che reclama oggi una risposta. Quando l’unità d’un popolo viene messa a repentaglio, chi lo governa tende sempre a rinsaldarlo fabbricandogli un nemico. Può trattarsi d’un nemico esterno, come la perfida Albione su cui farneticava Mussolini. Oppure d’un nemico interno: i clandestini, e poi gli zingari, i lavavetri, i clochard sui quali da un mese pende l’obbligo di registrazione, perfino i tifosi. Se c’è davvero un nesso fra l’unità del popolo italiano e il suo patrimonio di diritti, faremmo meglio a darci una regolata. Senza amor di Patria, corriamo il rischio di diventare schiavi.
michele.ainis@uniroma3.it
La bandiera ammainata dell’Unità d’Italia
di Marc Lazar (la Repubblica, 28.07.2009)
A due anni dalla commemorazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, le polemiche sono già incominciate. A denunciare il silenzio del governo su questa ricorrenza sono stati alcuni membri del Comitato per le celebrazioni, e il suo presidente, Carlo Azeglio Ciampi, ha minacciato addirittura di dimettersi. Sul Corriere del 20 luglio, Ernesto Galli della Loggia ha fustigato una classe politica che ha dell’Italia «un’immagine a brandelli, di fatto inesistente», suscitando reazioni molteplici. In verità, si tratta di controversie gravide di significati, a dimostrare - se ancora ve ne fosse bisogno - che come ha detto Giuseppe Galasso, l’Italia è una nazione difficile. Non può dunque sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche.
Nel 1911 gli organizzatori del cinquantenario dell’Unità vollero dimostrare agli italiani, ma anche all’Europa e al resto del mondo, che l’Italia era davvero unita, e si presentava oramai come un grande Paese in pieno sviluppo, con dichiarate ambizioni internazionali. L’anno 1911 segnò una tappa nell’affermazione dell’Unità nazionale intorno alla monarchia, ma registrò al tempo stesso l’affermazione crescente del nazionalismo italiano.
Il centesimo anniversario della Repubblica fu celebrato fin dal 1959, con manifestazioni ripartite su tre anni, per commemorare la seconda guerra d’indipendenza del 1859, la spedizione dei Mille del 1860 e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861. Le iniziative di maggior rilievo ebbero luogo in quest’ultimo anno, in particolare con l’Esposizione internazionale «Italia ‘61», concepita per onorare i padri della Patria e celebrare i successi di un Paese in pieno miracolo economico, il cui tenore di vita progrediva rapidamente, suscitando un indubitabile ottimismo. Ma le iniziative ufficiali venivano recepite solo limitatamente, tranne nei casi in cui si associavano a comme- morazioni della prima guerra mondiale e della Resistenza. Pur non ignorando la nazione, la Repubblica nata nel segno dell’antifascismo stenta a rivendicarla e a darne una definizione precisa, dopo l’uso che ne avevano fatto Mussolini e il suo partito. Inoltre, la costruzione europea è considerata come una priorità. Perciò il 1961 non dà luogo ad eccessi, né in un senso né nell’altro. Poiché si rivela sinonimo di miglioramento delle condizioni di vita, la Nazione è ben vista dagli italiani, ma non riveste un significato politico di grande rilievo. Così, una volta passata la data dell’anniversario, si torna a una forma di indifferenza nei riguardi della nazione, sempre più confinata alla sua dimensione di patrimonio culturale.
Qual è ora il contesto in cui si prepara il 150° anniversario dell’unità d’Italia? Da quasi due decenni questo Paese è scosso da un duplice processo, complementare e antagonistico. Da un lato si ripropongono gli interrogativi sul significato da dare a ciò che l’Italia rappresenta come nazione, mentre dall’altro si sta facendo strada una domanda proteiforme di nazione. Gli interrogativi nascono peraltro da fenomeni che interessano molti Paesi europei. Innanzitutto, la crescente europeizzazione, e la conseguente rinuncia a interi settori della sovranità nazionale. In secondo luogo, la globalizzazione dell’economia, dei rapporti sociali, della cultura e della vita quotidiana, che restringe gli spazi possibili della nazione. Infine, la reazione a questi due elementi porta ad accentuare la ricerca identitaria nell’ambito della prossimità: un fenomeno che spiega le crescenti rivendicazioni locali e regionali quasi ovunque in Europa. In Italia, la questione della nazione è inoltre acutizzata da due fattori specifici: l’ascesa della Lega Nord, che almeno in un primo tempo proclamava una volontà secessionista, provocando reazioni diametralmente opposte di difesa dell’integrità della Penisola; e lo shock migratorio, dovuto all’arrivo massiccio e pressoché improvviso di popolazioni straniere, con tutto il coacervo di problemi che ne derivano. Tutto ciò ha rilanciato un gran numero di interrogativi, in buona parte anche tradizionali. Su cosa si fonda la nazione? Su un passato comune, su valori comuni? E in questo caso quali: della Costituzione, della Chiesa, o altri ancora da ripensare? Un modo di essere? Un insieme di prassi identificabili? Si sono organizzati numerosi colloqui e trasmissioni radiofoniche o televisive, e sono usciti vari libri - ad esempio «Se cessiamo di essere una nazione» di Gian Enrico Rusconi (1993), o «La morte della Patria» di Galli della Loggia (1996) - che hanno suscitato a volte vivaci dibattiti.
D’altra parte, in Italia sta progressivamente emergendo una domanda di nazione, tanto maggiore quanto più aumenta la distanza dall’esperienza storica del fascismo. La modernizzazione accelerata del dopoguerra ha accentuato l’unificazione già intrapresa - in senso sia geografico che materiale, linguistico e culturale - della penisola. Dagli Anni ‘90 in poi, l’Italia non esiste più solo in occasione delle partite di calcio giocate dagli Azzurri. L’identità nazionale si traduce in una sensibilità a fior di pelle nei riguardi degli altri, delle emozioni collettive condivise, e nella coscienza di un «noi» italiano. A quanto emerge dai sondaggi, è in aumento anche la fierezza dell’italianità, identificata innanzitutto con l’«arte di arrangiarsi». E c’è un fatto nuovo, che non si registrava dal 1945: la politica tenta di rispondere a quest’aspirazione. È con chiara intenzione simbolica che Silvio Berlusconi crea Forza Italia, e Gianfranco Fini lancia Alleanza Nazionale. Su un registro diverso, il Presidente Ciampi riafferma con le parole e con gli atti le virtù politiche e civiche della nazione italiana. Ma tutto questo sembra scontrarsi con certi limiti. Come ha dimostrato Ilvo Diamanti (su Repubblica del 26 luglio) si sta nuovamente rafforzando la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud.
La commemorazione del 2011 fa dunque sorgere un interrogativo: l’Italia è in grado di proporre una narrativa comune, la rivendicazione di un passato a un tempo unitario e plurale, contrassegnato da invarianti, ma anche da lacerazioni? Un vivere insieme nel presente, non ripiegato su se stesso ma aperto e capace di integrare, in vista del progetto di un futuro comune? Se non saprà cogliere questa ricorrenza del 2011, l’Italia perderà un’occasione per costruire una nazione non illusoriamente nostalgica, ma adeguata al nostro tempo, capace di arricchire l’Europa e il mondo della sua storia e della sua cultura, certo, ma anche dei suoi valori.