Napolitano: «Unità nazionale come imperativo supremo»
www.unita.it, 04.11.06 alle ore 12.25
«Oggi deve sempre considerarsi bene prezioso e imperativo supremo l’unità nazionale che va preservata, anche in una possibile articolazione federale, dall’insidia di contrapposizioni fuorvianti e di antistorici conati di secessione». Con queste parole il presidente della Repubblica Napolitano celebra al Quirinale la festa delle Forze Armate che è anche giornata dell’unità d’Italia. Ed è proprio su questo secondo punto che il capo dello Stato lancia il suo monito.
«Fu necessario oltre 60 anni fa, uno sforzo straordinario per riscattare l’Italia da una rovinosa impresa bellica sfociata nella disfatta e da una nuova occupazione straniera, riconquistando alla patria indipendenza, dignità e libertà e scongiurando possibili lacerazioni del tessuto unitario». E poi, sottolinea ancora Napolitano con lo sguardo preoccupato: «È solo rafforzando la comune identità e l’effettiva coesione del paese, che l’Italia può mettere a frutto le sue potenzialità e far valere, nel nuovo contesto globale, il suo contributo di nazione indipendente e pienamente partecipe del concerto delle nazioni europee».
Insomma, l’unità e la coesione come valori per rilanciare l’Italia nel mondo: «Di questa visione - precisa quindi Napolitano - e di questo impegno le forze armate costituiscono una delle più importanti e innovative espressioni nel presente».
Il presidente della Repubblica ha quindi ricordato non solo «le conquiste storiche» ma anche «il nuovo ruolo nel mondo» delle Forze Armate italiane. E, in particolare, come ha sottolineato anche in altre occasioni, ricorda la partecipazione alle missioni internazionali «che discendono dalla lungimirante impostazione dell’articolo 11 della Carta costituzionale: oggi, più che mai, la partecipazione, anche con ruoli di leadership, alla cruciale missione in Libano
Infine un passaggio sul capitolo "economico". Il bilancio dello Stato, così come l’assetto complessivo, versano in una «difficile condizione» spiega Napolitano facendo riferimento alla necessità di riformare le Forze Armate: «Sulla base dell’accresciuta e sempre più accentuata professionalità delle Forze Armate, cui è dedicata questa festa, si deve e si può puntare su strutture razionali e al passo con i tempi, anche attraverso verifiche e revisioni di moduli organizzativi e amministrativi e conseguire così il più efficiente impiego delle risorse disponibili, nella difficile condizione del bilancio e dell’assetto complessivo dello Stato».
Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione delle celebrazioni del Giorno dell’Unità Nazionale e Festa delle Forze Armate
Roma, 4 novembre 2006 (www.quirinale.it)
La storia cui oggi ci richiamiamo è una storia di dure prove e di eroici, dolorosi sacrifici, da quelli che segnarono la grande guerra del 1914-1918 a quelli più recenti ben impressi nella nostra memoria, che sollecitano tutti il nostro commosso reverente omaggio.
Celebriamo qui anche quest’anno la triplice ricorrenza del 4 novembre: l’anniversario di una Vittoria che segnò il conclusivo ricongiungimento con l’Italia di ogni sua parte, il giorno dell’Unità nazionale così pienamente conseguita e consolidata, e la Festa delle Forze Armate, che sono state protagoniste del formarsi dell’Italia unita e ne presidiano oggi le conquiste storiche e il nuovo ruolo nel mondo.
Gli obbiettivi e i valori dell’unità nazionale e dell’indipendenza hanno rappresentato il filo conduttore delle fondamentali esperienze vissute dal nostro popolo in un periodo più che secolare: dal Risorgimento alla Grande Guerra, dalla Liberazione alla Ricostruzione. Fu necessario, oltre sessant’anni fa, uno sforzo straordinario per riscattare l’Italia da una rovinosa impresa bellica sfociata nella disfatta e da una nuova occupazione straniera, riconquistando alla patria indipendenza, dignità e libertà e scongiurando possibili lacerazioni del tessuto unitario. Oggi, deve sempre considerarsi bene prezioso e imperativo supremo l’unità nazionale, che va preservata - anche in una possibile articolazione federale - dall’insidia di contrapposizioni fuorvianti e di antistorici conati di secessione.
E’ solo rafforzando la comune identità e l’effettiva coesione del paese, che l’Italia può mettere a frutto le sue potenzialità e far valere - nel nuovo contesto globale - il suo contributo di nazione indipendente e pienamente partecipe del concerto delle nazioni europee.
Di questa visione e di questo impegno le Forze Armate costituiscono una delle più importanti e innovative espressioni nel presente. Sulla base dei compiti loro attribuiti nel seno delle grandi organizzazioni internazionali e in primo luogo dell’Unione Europea, di cui l’Italia è partner consapevole e attivo, esse sono protagoniste di una strategia di sicurezza fattasi sempre più aperta alle esigenze di un mondo investito da profondi mutamenti. Si tratta di una strategia inclusiva, che tende ad allargare l’area di un impegno comune in funzione di obbiettivi di pace, di democrazia e di sviluppo da perseguire ben oltre i confini nazionali e gli stessi confini dell’Europa. Solo così si possono ormai proteggere gli interessi dell’Italia e dell’Europa, e il nostro diritto a vivere nella sicurezza e nella libertà. Ciò richiede anche interventi concertati in situazioni di crisi, che vanno affrontate con strumenti molteplici, compreso, e non da ultimo, quello della presenza militare. Di qui il ruolo nuovo ed essenziale delle nostre Forze Armate, che fin dai primi anni novanta del secolo da poco conclusosi hanno concorso a importanti missioni, sotto l’egida delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e della NATO.
Le linee essenziali della strategia di sicurezza europea sono state per la prima volta elaborate in modo compiuto nel 2003, con una dichiarazione di straordinario valore: e ad essa occorre attenersi, cogliendone tutta la complessità e la ricchezza. Mi piace a questo proposito richiamare le considerazioni e le precise formulazioni espresse nel più recente discorso dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza, signor Javier Solana.
Quel che deve guidarci è il senso di una identità europea formata da un nucleo essenziale - egli ha detto - di "valori, convinzioni ed esperienze". Tra gli elementi principali che ci vengono riconosciuti nel mondo ci sono - ha affermato Solana - "la vicinanza a coloro che soffrono; la pace e la riconciliazione attraverso l’integrazione; un forte attaccamento ai diritti umani, alla democrazia e all’imperio del diritto"; l’attitudine al negoziato e alla ricerca del compromesso, "l’impegno a promuovere con pragmatismo un sistema internazionale basato su regole condivise". E infine, un alto senso del ruolo della storia e della cultura.
A questi concetti e a questi valori - che pienamente corrispondono ai motivi ispiratori della Costituzione repubblicana - può ben ricondursi, io credo, il modo di essere e di operare delle nostre nuove Forze Armate. Vi si può ricondurre in particolare la partecipazione a quelle missioni all’estero che ho già ricordato, e che discendono dalla lungimirante impostazione dell’articolo 11 della Carta costituzionale; oggi, più che mai, la partecipazione, anche con ruoli di leadership, alla cruciale missione in Libano.
Sulla base dell’accresciuta e sempre più accentuata professionalità delle Forze Armate, cui è dedicata questa Festa, si deve e si può puntare su strutture razionali e al passo con i tempi, anche attraverso verifiche e revisioni di moduli organizzativi e amministrativi, e conseguire così il più efficiente impiego delle risorse disponibili, nella difficile condizione del bilancio e dell’assetto complessivo dello Stato.
Mi propongo di chiamare il Consiglio Supremo di Difesa, nella piena valorizzazione del mandato costituzionale e nel rispetto dei suoi limiti, a fare ancor meglio la propria parte nel contesto appena richiamato.
Sono certo che le Forze Armate, in virtù della loro consolidata tradizione e apertura all’innovazione, sapranno concorrere in modo decisivo, in sinergia con le altre componenti funzionali dello Stato, all’esercizio di un ruolo primario dell’Italia nell’ambito del sistema di sicurezza internazionale e nel processo di crescita del nostro paese.
In questo spirito, rivolgo il più alto compiacimento e le più vive felicitazioni ai nuovi decorati dell’Ordine Militare d’Italia, magnificamente distintisi in difficili operazioni anche nei teatri lontani dai confini nazionali. Viva le Forze Armate, viva la Repubblica, viva l’Italia.
* "Restituitemi il mio urlo":
"LUNGA VITA ALL’ITALIA"!!!
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
ROMA, 4 NOVEMBRE 2007
In questa giornata del 4 novembre che sempre dedichiamo all’unità d’Italia e all’impegno delle Forze Armate ieri e oggi al servizio della Nazione, nel rendere poc’anzi omaggio al sacello del Milite Ignoto, ho rivolto il pensiero ai tantissimi italiani che, in armi, hanno perduto la propria vita per la Patria.
Novant’anni orsono, in questi giorni, i soldati italiani, attestandosi sul Piave, si apprestavano a portare a compimento l’unificazione dell’Italia, in quella che fu l’ultima guerra del Risorgimento nazionale. L’ideale di Patria unita, coltivato un secolo prima da pochi italiani illuminati, si stava per materializzare definitivamente, trasformando in realtà storica il grande progetto della comunione di tutti gli italiani su un unico territorio. Al nostro popolo venne poi inflitta la tragica esperienza della seconda guerra mondiale, da cui fu possibile uscire a testa alta grazie a un coraggioso impegno nella guerra di Liberazione, che vide gli italiani combattere, ancora una volta, per l’onore nazionale, per la libertà e per l’edificazione di un nuovo stato democratico.
Quelle vicende appaiono oggi molto lontane. Nel cuore dell’Europa e poi via via in tutto il continente si è costruito un solido assetto di pace ; l’unità territoriale e politica del nostro paese è stata posta al riparo da ogni minaccia diretta, i nostri confini fanno ormai tutt’uno con i confini dell’Unione Europea.
Ma le conquiste di benessere, e di progresso sociale e civile, raggiunte nell’Italia repubblicana sono messe alla prova e vanno consolidate in una società sempre più complessa, aperta e multiculturale, in un mondo segnato dalla competizione globale. E la pace di cui gode l’Europa unita non può farci ignorare o trascurare le tensioni che attraversano la comunità internazionale e che ci stringono da vicino.
Ci si richiede dunque un nuovo sforzo di coesione nazionale e un concreto impegno per garantire la pace anche al di fuori dei confini della stessa Europa, per contribuire alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Garantire la sicurezza internazionale, prevenire e superare crisi e conflitti in aree vicine e lontane, costituisce una responsabilità a cui non possiamo sottrarci, che non possiamo - né come italiani né come europei - delegare ad altri.
E’ in questa luce che dobbiamo vedere il ruolo attuale delle Forze Armate. Esse già da anni fanno fronte alla minaccia del terrorismo internazionale e a molteplici fenomeni di instabilità e di guerra regionale. Lo strumento militare va visto come una componente, solo una componente del ben più ampio e articolato dispositivo multidisciplinare che occorre attivare nelle aree di crisi : ma non può essere in alcun modo sottovalutato nella sua necessaria dimensione e natura specifica. Solo così l’Italia ha potuto e potrà fare la sua parte nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazionali Unite, in stretto rapporto con i partner dell’Unione Europea e della Nato.
In questo momento, oltre 8.000 soldati, marinai, avieri, carabinieri e finanzieri operano al di fuori del territorio nazionale, in teatri di crisi che vanno dai Balcani al Medio Oriente all’Afghanistan. Il loro impegno e quello di tutte le Forze Armate che li sostengono, si caratterizzano per alti livelli di efficienza, preparazione e professionalità, sono espressione vitale dell’unità nazionale su grandi scelte rivolte verso l’esterno e contribuiscono alla costruzione di un futuro di convivenza pacifica e di sviluppo cui lo Stato italiano e i suoi cittadini sono direttamente interessati. Il Paese ha il dovere di sostenere questo impegno e deve percepire come proprio l’obbiettivo di migliorare le capacità delle nostre Forze Armate.
Apprezzo e condivido gli sforzi che il Ministro della Difesa ed i vertici militari stanno producendo per rafforzare e affinare ulteriormente lo strumento militare, affinché possa assolvere al meglio le tante missioni assegnateci, pur nella piena consapevolezza dei condizionamenti imposti dalle limitate risorse a disposizione. Questo è stato l’orientamento chiaramente espressosi nelle recenti riunioni, da me presiedute, del Consiglio Supremo di Difesa. Non possiamo venir meno a quel livello di presenza e operatività militare che è lecito attendersi da un paese che è tra i quattro maggiori dell’Unione Europea.
Gli sforzi in atto sono volti ad accelerare il processo di razionalizzazione e a completare il programma di professionalizzazione delle nostre Forze Armate, con il sostegno dei previsti reclutamenti di giovani per le diverse categorie e qualifiche funzionali e con la rapida riduzione del personale anziano non più impiegabile in operazioni, riduzione da perseguire anche attraverso il transito in altre Amministrazioni pubbliche, che possano giovarsi di capacità professionali sperimentate. Ciò consentirà di incrementare il potenziale di intervento a parità di organici, riducendo nel contempo, a regime, gli oneri relativi alla retribuzione del personale. Si sta procedendo in pari tempo alla verifica dell’attualità dei programmi di investimento, per finalizzare più direttamente il rinnovamento delle capacità dello strumento militare ai compiti da assolvere, sulla base degli obbiettivi che il Paese si prefigge di conseguire nel breve/medio periodo, pur tenendo in debito conto le prevedibili esigenze di più lungo termine. Dobbiamo così rendere meglio compatibile la necessaria assunzione di responsabilità anche militari da parte del nostro paese nell’ambito della comunità internazionale, con le difficoltà di fondo della nostra finanza pubblica.
C’è da augurarsi che queste decisioni di rafforzamento delle nostre Forze Armate e del conseguente impegno di spesa, non separabile da un approccio di rigorosa qualificazione dell’uso delle risorse predisposte nel bilancio dello Stato, possano trovare il più intenso contributo propositivo e il più vasto consenso in Parlamento, nell’insieme delle forze politiche nonché sul fronte dell’informazione e del coinvolgimento dell’opinione pubblica. A nessuno possono sfuggire le preoccupazioni che nascono dall’aggravarsi della situazione in Afghanistan, dall’incombere di gravi incognite nella regione che abbraccia l’Iraq e l’Iran, dal riaccendersi di acute contrapposizioni nei vicini Balcani, dal persistere di tensioni nel quadro politico e istituzionale libanese, dal trascinarsi di una crisi lacerante nel Medio Oriente.
E’ nostro dovere prepararci a fronteggiare ciascuna di queste possibili emergenze ; è dovere comune di tutti coloro che hanno vivo il senso della responsabilità e del prestigio dell’Italia dare prova di unità nel vigilare, e nel ricercare le strade che meglio possono garantire la sicurezza e condurre alla pace.
Viva le Forze Armate, viva la Repubblica, viva l’Italia!
ROMA, 03-11-2008
Messaggio del Presidente Napolitano in occasione del 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale e Festa delle Forze Armate
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella ricorrenza del 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate, ha rivolto un messaggio che domani verrà letto a tutte le unità militari in Italia e all’estero:
"Novant’anni or sono aveva termine la Grande Guerra. Il Tricolore che quei giorni, per la prima volta, sventolava su Trento e su Trieste era il segno inequivocabile che l’unificazione d’Italia si era finalmente compiuta.
Oggi, prima presso l’Altare della Patria e poi a Redipuglia, renderò omaggio, a nome di tutti gli italiani, a quanti sono caduti per la libertà, per l’edificazione di uno stato democratico, per costruire un futuro di pace.
Celebrerò poi, a Vittorio Veneto, la giornata dell’Unità Nazionale ed il novantesimo anniversario della Vittoria, ricordando la Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alla memoria del Milite Ignoto. Essa testimonia la perenne riconoscenza dell’Italia per i seicentomila soldati che hanno perso la vita nel primo conflitto mondiale e simboleggia l’apprezzamento e il rispetto per tutti coloro che hanno combattuto e combattono a difesa dei nobili valori che il nostro paese promuove nel mondo.
Gli eredi dei giovani combattenti di novant’anni fa sono oggi impegnati ben oltre i limiti del territorio nazionale e con compiti molto diversi da quelli a suo tempo assegnati ai loro predecessori.
I soldati, i marinai, gli avieri, i carabinieri, i finanzieri che operano nei Balcani, in Libano, in Iraq, in Afghanistan ed in tante altre travagliate regioni non sono l’espressione di una nazione in guerra, ma costituiscono l’avanguardia di un paese fortemente impegnato, con tutte le proprie risorse, per lo sviluppo sociale ed economico globale e per la cooperazione pacifica tra i popoli.
Lo strumento militare non è più chiamato a presidiare in armi confini e trincee contro genti considerate nemiche provenienti da un mondo visto come straniero ed ostile. Al contrario, esso oggi costituisce componente primaria di un’azione complessa e costante che l’Italia, membro fondatore dell’Unione europea, conduce in seno alla Comunità internazionale, intervenendo sulle cause generatrici dei conflitti, attraverso la prevenzione, il controllo e la stabilizzazione delle crisi che mettono in pericolo la sicurezza ed attentano ai diritti primari dell’uomo.
Questo è il nuovo compito delle Forze Armate Italiane nel XXI secolo. E’ importante ribadirlo nella giornata ad esse dedicata. Nella medesima prospettiva, l’unità d’Italia, che oggi celebriamo insieme alle Forze Armate che ne furono artefici, non rappresenta più l’affermazione di un’identità nazionale in contrapposizione ad altre. Essa va invece intesa quale capacità del Paese di esprimersi, attraverso i valori, le idee e le azioni che gli sono propri, come parte integrante dell’Europa unita e soggetto collettivo unitario operante, al fianco di altri Paesi ed insieme ad essi, per obiettivi ed interessi sempre nel contesto di crescente interdipendenza in cui tutti viviamo e lavoriamo.
In nome di diverse ragioni, dunque, ma con lo stesso affetto di novant’anni fa, l’Italia è oggi particolarmente vicina e profondamente grata a tutti i suoi militari, siano essi impegnati sul territorio nazionale o in regioni remote.
Ed è con questi sentimenti che, quale rappresentante dell’Unità Nazionale e Capo delle Forze Armate, porgo a tutti i militari italiani in servizio ed in congedo il mio saluto.
Viva le Forze Armate!
Viva l’Italia!".
Roma, 3 novembre 2008
* FONTE: SITO - PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA *
L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA, ANCHE IL 4 NOVEMBRE
L’Italia ripudia la guerra, anche il 4 novembre
Ricordare le vittime delle guerre, costruire la pace e la sicurezza attraverso il disarmo *
Il 4 novembre non e’ un giorno di festa: e’ un giorno di lutto per le vittime delle guerre e d’impegno per il disarmo. Non festa ma lutto, perche’ si ricorda la fine di una "inutile strage", come Benedetto XV defini’ la prima guerra mondiale, e non si puo’ non ricordare che tutte le guerre sono "inutili stragi" e tutti gli eserciti ne sono gli strumenti.
Non festa ma impegno, perche’ per ricordare davvero - e non retoricamente e ipocritamente - le vittime delle guerre l’unico modo e’ "ripudiare la guerra" e costruire la pace, attraverso la via realistica del disarmo.
Eppure il 4 novembre - unica celebrazione traghettata dal fascismo alla Repubblica - si continuano a "festeggiare" le forze armate, cioe’ gli strumenti di guerra. Ed e’ una festa che si prolunga tutto l’anno: nelle varie manovre finanziarie, qualunque siano i governi in carica, si continuano a dilapidare preziose risorse in spese militari e di armamenti (23 miliardi nell’ultimo anno), si continua a finanziare l’acquisto di terribili strumenti d’attacco come i caccia F-35 (15 miliardi previsti) ed a condurre operazioni di guerra come l’occupazione militare in Afghanistan, atti contrari alla Costituzione italiana. Si lascia invece quasi privo di risorse il Servizio Civile Nazionale, strumento di difesa civile della Patria prevista dalla legge e coerente con la Costituzione.
Del resto, le forze armate e i loro armamenti non sono solo strumenti di guerra potenziale, che diventano attuali solo quando entrano in azione. Le armi sono strumenti e mezzi di guerra in atto anche quando non sparano, perche’ la quantita’ enorme di risorse pubbliche che vengono destinate alle spese militari, alla preparazione della guerra contro minacce ipotetiche o pretestuose, lasciano la Patria senza difesa ed insicura rispetto alle reali minacce alle quali sono gravemente sottoposti, qui ed ora, tutti i cittadini, sul proprio territorio: la disoccupazione e la precarieta’ del lavoro, la poverta’ e l’analfabetismo, la fragilita’ edilizia in un paese sismico e i disastri idrogeologici...
Svuotare gli arsenali e riempire i granai, diceva il Presidente Pertini, ed invece abbiamo riempito gli arsenali e svuotato i granai, offrendo la peggiore delle risposte possibili alla crisi economica e sociale che stiamo vivendo.
Ricordare davvero le vittime delle guerre e costruire la pace puo’ dunque avvenire solo avviando un serio disarmo, attraverso la riconversione dalla difesa militare alla difesa civile; liberando le risorse necessarie per l’affermazione dei "principi fondamentali" sanciti nei primi dodici articoli della Carta costituzionale, quelli che offrono la sicurezza della cittadinanza - il lavoro, la solidarieta’, l’uguaglianza, la cultura, la difesa del patrimonio naturale - attraverso il ripudio della guerra e degli strumenti che la rendono possibile. Il 4 novembre, come tutto l’anno.
Per questo il nostro Movimento, insieme a Peacelink e al Centro di ricerca per la pace di Viterbo, ha lanciato per il 4 novembre la campagna "Ogni vittima ha il volto di Abele", affinché in ogni città si svolgano commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre.
*
[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an@nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo]
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 1082 del 3 novembre 2012
ED ORA
di PEPPE SINI *
In molte citta’ italiane il 4 novembre si sono realizzate commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre, commemorazioni che sono state altresi’ azioni dirette nonviolente contro la guerra assassina, convocazione del popolo italiano a difendere la legge fondamentale del proprio ordinamento giuridico, la Costituzione della Repubblica Italiana che ripudia la guerra e difende i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Con le parole di Heinrich Boell, "Ogni vittima ha il volto di Abele", si e’ smascherato e denunciato l’orrore delle guerre e delle uccisioni - e degli eserciti e delle armi che all’esecuzione di guerre e uccisioni sono intesi -; e si e’ convocata ogni persona di volonta’ buona e di retto sentire al primo impegno di ogni essere umano: salvare le vite, essere a tutti di aiuto.
Dopo la marcia Perugia-Assisi del 25 settembre, dopo la Giornata internazionale della nonviolenza del 2 ottobre, le commemorazioni nonviolente delle vittime delle guerre del 4 novembre hanno proseguito, approfondito, esteso a tutta Italia l’impegno della nonviolenza in cammino a contrastare tutte le uccisioni e le persecuzioni, ad opporsi alla guerra e al razzismo assassini.
Ed ora deve continuare questo impegno ineludibile. Nella memoria e nel nome delle vittime, per impedire che altri esseri umani vengano uccisi.
E quindi diciamolo una volta ancora quali siano i compiti dell’ora:
che cessi immediatamente la partecipazione dello stato italiano alle guerre assassine;
che cessi immediatamente la persecuzione razzista dello stato italiano nei confronti di migranti e viaggianti;
che siano abrogate immediatamente le misure legislative ed amministrative anomiche e disumane in cui si e’ concretizzato il colpo di stato razzista;
che cessi immediatamente il colossale infame sperpero dei pubblici denari per le armi, gli armigeri, le guerre e le stragi;
che si dimetta immediatamente il governo della guerra e del razzismo, delle uccisioni e delle persecuzioni;
che si torni al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana che ripudia la guerra e riconosce e sostiene la vita, la dignita’ e i diritti di tutti gli esseri umani.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’.
* VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 439 del 7 novembre 2011
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
L’importanza della verità
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 5.11.2011)
L’autunno italiano è triste, luttuoso, incerto. Gravano su di noi la maledizione della natura e l’irrisione del mondo intero. La lingua stessa sembra diventata di legno, equivoca, inservibile. Ma quando la usa il presidente della Repubblica tutti la capiscono. «Parliamoci chiaro, dice oggi Giorgio Napolitano nei confronti dell’Italia è insorta in Europa, e non solo in Europa, una grave crisi di fiducia. Dobbiamo esserne consapevoli e sentircene, più che feriti, spronati nel nostro orgoglio e nella nostra volontà di recupero». Dire la verità, dirla con chiarezza, con nettezza, in limpido italiano è il dovere d’ufficio che il capo dello Stato si è assunto. Oggi ne abbiamo avuto una nuova prova, tanto più importante quanto più amara è questa verità e più urgente la necessità che il Paese intero ne prenda coscienza. Da giorni, da anni, un altro uomo, uno che dice di governare l’Italia ma che è considerato da tutto il mondo un ostacolo alla credibilità di tutti noi come individui e come Paese, tenta di venderci la sua capacità di illusionista, mentre coi più meschini calcoli di potere personale rinvia le scelte necessarie e trascina sempre più in basso la credibilità del Paese avvolgendo nelle nebbie di messaggi vaghi la comunicazione con le istituzioni europee.
La parola di Napolitano giunge ancora una volta tempestiva in risposta alle incredibili dichiarazioni di un premier che cerca di raccontarci la sua favola preferita: quella dell’Italia paese ricco, dove abbondano i soldi e i consumi, dove i ristoranti e gli hotel traboccano di clienti, gli aerei di passeggeri. Dove se c’è qualche problema è per colpa dell’euro. A queste menzogne il Paese ha il torto di avere creduto nella sua maggioranza per troppi anni. Oggi scopre a carissimo prezzo di avere sbagliato: la voce dei pentiti non potrebbe essere più corale. E la verità è la medicina amara che deve prendere per guarire, per cessare di essere un burattino nelle mani di un manipolatore professionale dell’informazione.
Enorme è il conto che viene presentato all’Italia al risveglio dal suo lungo sonno. Ci vorranno generazioni intere per saldarlo - le generazioni dei nostri figli. Il nostro è oggi un Paese che va letteralmente in pezzi, giorno dopo giorno: qui se sono fatiscenti e abbandonati i ruderi del mondo antico, ancor più fragili sono le costruzioni recenti. Mai come oggi l’idea che ci sia qualcuno che governa l’Italia appare surreale. È per questo che è necessario dire agli italiani che c’è una grave crisi di fiducia nel mondo che ci riguarda e che dunque tutti gli italiani debbono sentirsi chiamati a risalire questa china. Il Paese Italia resterà inaffidabile finché parlerà al mondo con la voce dell’attuale presidente del Consiglio. Dunque deve esserci un’altra voce che si faccia ascoltare e che parli a nome di noi tutti. Poi ci divideremo nella divisione dei debiti e nel conteggio di chi deve pagare. Ma non oggi.
Riconciliare le parole con la verità è il primo passo della ricostruzione che ci aspetta. Sarà una lunga fatica ma senza questo primo passo non si può nemmeno cominciare a rimboccarsi le maniche. Dunque è fondamentale che ci sia chi dice parole di verità: tanto meglio se lo fa con la garanzia di una credibilità che gli deriva non dalla sua pur altissima posizione istituzionale ma dal fatto di non avere mai mentito agli italiani e di avere saputo interpretare sentimenti e bisogni profondi del Paese. "La verità vi renderà liberi", si legge nel Vangelo di Matteo. "La verità è rivoluzionaria", scriveva Gramsci.
4 novembre: "L’omaggio del Paese e mio personale a coloro che hanno perso la vita per la libertà e la prosperità della nostra Patria" *
"Nella giornata del 4 novembre ricordiamo la vittoria nel primo conflitto mondiale e, con essa, l’Unità d’Italia e le sue Forze Armate. Questa mattina, prima sul sacello del Milite Ignoto e poi a Bari, nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare, renderò l’omaggio del paese e mio personale a tutti coloro che hanno perso la vita per la libertà e la prosperità della nostra Patria". Lo ha scritto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato in occasione del Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate.
"Nell’anno in cui ricorre il 150° dell’Unità Nazionale - ha continuato il Capo dello Stato - , pur pienamente ed orgogliosamente consapevoli di quanto l’Italia ha saputo fare a partire da quel remoto e glorioso 1861, credo sia nostro dovere guardare al futuro, non limitarsi alla celebrazione del passato".
"Mentre il nostro paese e tanti altri nel mondo - ha sottolineato il Presidente - sono stretti in una crisi economica di intensità, durata ed estensione senza precedenti nel periodo seguito alla II guerra mondiale, gli scenari internazionali si caricano di vecchie e nuove tensioni. Cresce l’instabilità ed emergono minacce trasversali, con il diffondersi del terrorismo e di movimenti eversivi transnazionali, la caduta di regimi autoritari pluridecennali e l’insorgere di forme antistoriche di radicalismo politico e religioso nonché di più generali fenomeni di intolleranza e di chiusura. E’ in atto una profonda e generale trasformazione dell’ordine internazionale, che mette in discussione le fondamenta del sistema di governance e dei modelli di sviluppo dominanti nell’ultimo sessantennio. Le stesse Istituzioni internazionali, preposte alla gestione delle emergenze, stentano ad intervenire con prontezza ed efficacia, frenate dalla insufficiente unitarietà di intenti dei paesi membri".
"In questo quadro così complesso ed incerto - ha scritto il Capo dello Stato - le Forze Armate italiane costituiscono un’istituzione di riferimento per il paese e per la comunità internazionale e, con la loro opera, contribuiscono a costruire, insieme agli strumenti militari di stati amici ed alleati, la sicurezza e la stabilità nelle aree più critiche del mondo e lungo le grandi vie di comunicazione, vitali per la libertà dei traffici commerciali. Le superiori finalità di questo compito richiedono che le Forze Armate, malgrado le ridotte risorse finanziarie disponibili, siano poste in condizione di affrontare con crescente efficacia le nuove sfide e le minacce emergenti. Sono necessarie inventiva, appassionata dedizione e la consapevolezza che nessuna soluzione che prescinda da una progressiva ma decisa integrazione interforze e multinazionale puó realisticamente risultare vincente".
"E’ a questa fondamentale esigenza di trasformazione innovativa - ha concluso - che le Istituzioni e le stesse Forze Armate sono oggi chiamate a rispondere in tempi brevi, con il sostegno dei cittadini. Con questi sentimenti, rivolgo il mio augurio ed un caloroso saluto a tutti i soldati, i marinai, gli avieri, i carabinieri e i finanzieri che, con il loro impegno e la loro professionalità, operano in Italia e nelle missioni internazionali, a presidio della sicurezza del nostro paese e per la stabilità e la legalità della comunità internazionale. Viva le Forze Armate, viva la Repubblica, viva l’Italia!".
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA, 4 NOVEMBRE 2011
http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Notizia&key=21120
Campo della Gloria del cimitero monumentale di Milano, 1 novembre 2009
Intervento di Mons. Gianfranco Bottoni a nome dell’arcivescovado della Diocesi di Milano
La memoria dei morti qui, al Campo della Gloria, esige che ci interroghiamo sempre su come abbiamo raccolto l’eredità spirituale che Caduti e Combattenti per la Liberazione ci hanno lasciato. Rispetto a questo interrogativo mai, finora, ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro paese, ad una caduta senza precedenti della democrazia e dell’etica pubblica. Non è per me facile prendere la parola e dare voce al sentimento di chi nella propria coscienza intende coniugare fede e impegno civile. Preferirei tacere, ma è l’evangelo che chiede di vigilare e di non perdere la speranza.
È giusto riconoscere che la nostra carenza del senso delle istituzioni pubbliche e della loro etica viene da lontano. Affonda le sue radici nella storia di un’Italia frammentata tra signorie e dominazioni, divisa tra guelfi e ghibellini. In essa tentativi di riforma spirituale non hanno potuto imprimere, come invece in altri paesi europei, un alto senso dello stato e della moralità pubblica. Infine, in questi ultimi 150 anni di storia della sua unità, l’Italia si è sempre ritrovata con la “questione democratica” aperta e irrisolta, anche se solo con il fascismo l’involuzione giunse alla morte della democrazia. La Liberazione e l’avvento della Costituzione repubblicana hanno invece fatto rinascere un’Italia democratica, che, per quanto segnata dal noto limite politico di una “democrazia bloccata” (come fu definito), è stata comunque democrazia a sovranità popolare.
La caduta del muro di Berlino aveva creato condizioni favorevoli per superare questo limite posto alla nostra sovranità popolare fin dai tempi di “Yalta”. Infatti la normale fisiologia di una libera democrazia comporta la reale possibilità di alternanze politiche nel governo della cosa pubblica. Ma proprio questo risulta sgradito a poteri che, già prima e ancora oggi, sottopongono a continui contraccolpi le istituzioni democratiche. L’elenco dei fatti che l’attestano sarebbe lungo ma è noto.
Tutti comunque riconosciamo che ad indebolire la tenuta democratica del paese possono, ad esempio, contribuire: campagne di discredito della cultura politica dei partiti; illecite operazioni dei poteri occulti; monopolizzazioni private dei mezzi di comunicazione sociale; mancanza di rigorose norme per sancire incompatibilità e regolare i cosiddetti conflitti di interesse; alleanze segrete con le potenti mafie in cambio della loro sempre più capillare e garantita penetrazione economica e sociale; mito della governabilità a scapito della funzione parlamentare della rappresentanza; progressiva riduzione dello stato di diritto a favore dello stato padrone a conduzione tendenzialmente personale; sconfinamenti di potere dalle proprie competenze da parte di organi statali e conseguenti scontri tra istituzioni; tentativi di imbavagliare la giustizia e di piegarla a interessi privati; devastazione del costume sociale e dell’etica pubblica attraverso corruzioni, legittimazioni dell’illecito, spettacolari esibizioni della trasgressione quale liberatoria opportunità per tutti di dare stura ai più diversi appetiti...
Di questo degrado che indebolisce la democrazia dobbiamo sentirci tutti corresponsabili; nessuno è esente da colpe, neppure le istituzioni religiose. Differente invece resta la valutazione politica se oggi in Italia possiamo ancora, o non più, dire di essere in una reale democrazia. È una valutazione che non compete a questo mio intervento, che intende restare estraneo alla dialettica delle parti e delle opinioni. Al di là delle diverse e opinabili diagnosi, c’è il fatto che oggi molti, forse i più, non si accorgono del processo, comunque in atto, di morte lenta e indolore della democrazia, del processo che potremmo definire di progressiva “eutanasia” della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
Fascismo di ieri e populismo di oggi sono fenomeni storicamente differenti, ma hanno in comune la necessità di disfarsi di tutto ciò che è democratico, ritenuto ingombro inutile e avverso. Allo scopo può persino servire la ridicola volgarità dell’ignoranza o della malafede di chi pensa di liquidare come “comunista” o “cattocomunista” ogni forma di difesa dei principi e delle regole della democrazia, ogni denuncia dei soprusi che sono sotto gli occhi di chiunque non sia affetto da miopia e che, non a caso, preoccupano la stampa democratica mondiale.
Il senso della realtà deve però condurci a prendere atto che non serve restare ancorati ad atteggiamenti nostalgici e recriminatori, ignorando i cambiamenti irreversibili avvenuti negli ultimi decenni. Servono invece proposte positivamente innovative e democraticamente qualificate, capaci di rispondere ai reali problemi, alle giuste attese della gente e, negli attuali tempi di crisi, ai sempre più gravi e urgenti bisogni del paese. Perché finisca la deriva dell’antipolitica e della sua abile strumentalizzazione è necessaria una politica nuova e intelligente.
Ci attendiamo non una politica che dica “cose nuove ma non giuste”, secondo la prassi oggi dominante. Neppure ci può bastare la retorica petulante che ripete “cose giuste ma non nuove”. È invece indispensabile che “giusto e nuovo” stiano insieme. Urge perciò progettualità politica, capacità di dire parole e realizzare fatti che sappiano coniugare novità e rettitudine, etica e cultura, unità nazionale e pluralismi, ecc. nel costruire libertà e democrazia, giustizia e pace.
Solo così, nella vita civile, può rinascere la speranza. Certamente la speranza cristiana guarda oltre le contingenza della città terrena. E desidero dirlo proprio pensando ai morti che ricordiamo in questi giorni. La fede ne attende la risurrezione dei corpi alla pienezza della vita e dello shalom biblico. Ma questa grande attesa alimenta anche la speranza umana per l’oggi della storia e per il suo prossimo futuro. Pertanto, perché questa speranza resti accesa, vorrei che idealmente qui, dal Campo della Gloria, si levasse come un appello a tutte le donne e gli uomini di buona volontà.
Vorrei che l’appello si rivolgesse in particolare a coloro che, nell’una e nell’altra parte dei diversi e opposti schieramenti politici, dentro la maggioranza e l’opposizione, si richiamano ai principi della libertà e della democrazia e non hanno del tutto perso il senso delle istituzioni e dell’etica pubblica. A voi diciamo che dinanzi alla storia - e, per chi crede, dinanzi a Dio - avete la responsabilità di fermare l’eutanasia della Repubblica democratica. L’appello è invito a dialogare al di là della dialettica e conflittualità politica, a unirvi nel difendere e rilanciare la democrazia nei suoi fondamenti costituzionali. Non è tempo di contrapposizioni propagandistiche, né di beghe di basso profilo.
L’attuale emergenza e la memoria di chi ha combattuto per la Liberazione vi chiedono di cercare politicamente insieme come uscire, prima che sia troppo tardi, dal rischio di una possibile deriva delle istituzioni repubblicane. Prima delle giuste e necessarie battaglie politiche, ci sta a cuore la salute costituzionale della Repubblica, il bene supremo di un’Italia unitaria e pluralista, che insieme vogliamo “libera e democratica”.
I padri costituenti e la difesa della arta
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20.10.2009)
Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia. Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione - proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBBLICA ITALIANA *
Art. 11.
* Sito: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA (cliccare sul rosso)
L’inutile massacro avvelenò l’inizio del ‘900
Novant’anni fa si concludeva la Grande Guerra un conflitto che cambiò l’assetto del mondo
Secondo Freud mai un evento storico era stato così dannoso per l’umanità
Sulle responsabilit politici e storici hanno alimentato un dibattito veramente infinito
di Massimo L.Salvadori (la Repubblica, 4.11.2008)
A esprimere ciò che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato l’Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l’hanno vissuta: militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi paesi, li ha però accomunati un unico responso: che essa determinò il crollo di un mondo. Lo percepì fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale scriveva: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità, (...) inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato». Ma di chi la responsabilità?
La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro avvenuto negli anni ‘60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evegheni V. Tarle, pochi anni dopo la conclusione del conflitto, quando osservò che «entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l’incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il più idoneo», ma che nell’estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l’occasione per esse più favorevole.
La «grande guerra», iniziata tra le fanfare e tripudi di folle osannanti nell’illusione di un conflitto di pochi mesi e durata invece dall’agosto 1914 al novembre 1918, fu così detta perché mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perché, scatenata allorché il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria posizione di «centralità», ebbe come oggetto quale blocco di potenze europee dovesse tenere il maggior dominio nel globo; e perché le sue conseguenze coinvolsero l’intera carta geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l’intervento americano nell’aprile del 1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei morti e feriti riguardarono l’Europa.
Fu una guerra che mobilitò come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantità gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati, equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l’ingresso nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d’opera femminile. E la vittoria andò al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado.
Fu una guerra che provocò un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000 tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell’impero zarista, 1.350.000 francesi, 1.300.000 appartenenti all’impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000 appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi.
Fu una guerra che maciullò i corpi e avvelenò gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da scrittori come Eric Maria Remarque in All’Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denunciò l’asservimento al potere e l’accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i più aspri conflitti tra i militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari intesi a sovvertire l’intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici. Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel 1917 dell’«inutile strage», e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di «estetica della guerra» e si compiacevano della «bella guerra virile e tecnologica». Le classi dirigenti operarono per «nazionalizzare le masse», per porle al totale servizio di una guerra in cui «la morte di massa» - ha scritto Mosse - «fu innalzata nel regno del sacro».
Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere alleate con l’impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della democrazia e delle libere nazionalità e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di monarchi, alti burocrati e militari.
Fu una guerra che lasciò un’eredità spaventosa. Il valore della vita umana risultò annullato, si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilità a ricorrere ad essa che avrebbero fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico.
Fu una guerra che tradì la promessa tanto agitata di essere l’ultima, quella che avrebbe assicurato pace, democrazia, benessere. Provocò il crollo dell’impero germanico, dell’impero asburgico e dell’impero zarista; creò le condizioni per la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un’ondata di convulsioni politiche e sociali destinate a durare un’intera epoca storica e a sconvolgere la società europea; fece nascere molti nuovi fragili Stati; portò all’emergere della potenza di un’America che presto voltò le spalle alla «pazza» Europa e si richiuse nell’isolazionismo. Per l’Italia la guerra fu la «quarta guerra di indipendenza», ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivò conflitti distruttivi.
Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese «senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto», la quale seminò nuovo disordine, nuovi conflitti e nuove guerre. In riferimento all’animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes osservava: «La vita futura dell’Europa non li riguardava», la loro mente era tutta rivolta alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, «al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari». Così avvenne che si coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora più catastrofico 1914: il 1939.
Sul tema, nel sito, si cfr. anche:
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
COMMEMORAZIONE DEI CADUTI DI EL ALAMEIN
IN OCCASIONE DEL 66° ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA
El Alamein, 25 ottobre 2008 *
In questo solenne scenario, che evoca vicende terribili di guerra e di morte, sentiamo profondamente, come italiani e come europei, il dovere della riconoscenza, della memoria, della riflessione.
Le generazioni che non hanno conosciuto la guerra, che hanno vissuto nella nuova Europa, via via unitasi nella pace e nella democrazia, debbono rispetto e riconoscenza, sempre, ai tanti che caddero in questa terra, e a quanti combatterono, da entrambe le parti, onorando le loro bandiere. Furono combattimenti - qui attorno ad El Alamein - tra i più duri e tormentati della seconda guerra mondiale, in un continuo alternarsi delle sorti tra gli opposti schieramenti.
E il nostro rispetto, la nostra riconoscenza sono tanto più grandi quanto più ricordiamo, sforzandoci di ripercorrerle, le condizioni in cui i combattenti furono chiamati a operare, le sofferenze e i sacrifici che essi doverono affrontare, fino al rischio estremo e quotidiano della vita. Rendiamo dunque omaggio alle alte virtù morali e alle straordinarie doti di coraggio di cui decine e decine di migliaia di uomini diedero qui incontestabile prova.
Tutti furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di patria, per diverse e non comparabili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale. La causa in nome della quale erano stati chiamati a battersi fino a immolare le loro vite tra le dune di questo deserto gli appartenenti alle forze armate dell’Asse nazifascista, apparve, proprio a partire da quei mesi del 1942, votata alla sconfitta. Una sconfitta che non avrebbe gettato alcuna ombra sui valori di lealtà e di eroismo dei combattenti italiani o tedeschi, ma che fu dovuta non solo - a El Alamein - alla soverchiante superiorità di mezzi e di uomini dell’opposto schieramento, ma alla storica insostenibilità delle ragioni, delle motivazioni e degli obbiettivi dell’impresa bellica nazifascista.
Tutto questo è oggi, e da un pezzo, alle nostre spalle : ma non va dimenticato. Ed è giusto dire che i veri sconfitti - anche sulle sabbie di El Alamein - furono i disegni di aggressione e di dominio, fondati perfino su aberranti dottrine di superiorità razziale, che avevano trovato nel nazismo hitleriano l’espressione più virulenta e conseguente.
Più in generale - e guardando all’intera prima metà del ventesimo secolo - si può ben dire che sono crollati nel disastro della seconda guerra mondiale, i nazionalismi irriducibili, i sordi antagonismi tra gli Stati europei - alimentati da interessi e pretese inconciliabili - gli impulsi egemonici e i tenaci revanscismi. E’ da quel terribile duplice abisso di distruzione e bagno di sangue della I e della II guerra mondiale che è scaturita la costruzione - a partire dagli anni ’50 del Novecento - di un’Europa fondata innanzitutto sulla riconciliazione tra Francia e Germania, su una graduale fusione di interessi e condivisione di sovranità. Abbiamo dato vita in Europa a un’autentica comunità di valori, tra i quali ha primeggiato quello della pace, di una cultura della pace basata sulla ricerca paziente di soluzioni negoziate per le controversie internazionali.
Su queste basi si è consolidata la pace in Europa - fino ad abbracciare l’intero continente - così da rendere impensabile il ripetersi di orrori come quelli che furono vissuti ad El Alamein da trecentomila uomini di molteplici nazionalità. E c’è da sottolineare come qui, più di sessant’anni orsono, dalle laceranti esperienze della guerra in Africa, prese avvio anche il grande fenomeno storico del crollo o del superamento degli imperi europei, aprendosi così la strada all’affrancamento di questo dolorante continente dalla dominazione coloniale.
All’affermazione di valori di pace e di giustizia fuori dei confini dell’Europa, i nostri paesi sono impegnati oggi a contribuire partecipando alle missioni internazionali di gestione delle crisi che hanno investito regioni vicine e lontane. Sono convinto, per quel che riguarda l’Italia, che nella partecipazione dei nostri soldati a quelle missioni si esprima quella stessa carica di lealtà, di coraggio e di umanità, che contraddistinse tutti i nostri corpi e reparti a El Alamein.
In conclusione, prima di lasciare questo luogo così ricco di commoventi memorie, desidero esprimere particolare riconoscenza anche a chi, al termine del conflitto, si dedicò alla dolorosa e nobile missione di cercare, raccogliere e ricomporre i resti, dispersi nel deserto, di tanti caduti, italiani e di altre nazionalità. Cito, per tutti, il Colonnello Paolo Caccia Dominioni, al cui spirito di servizio e alla cui passione, sorretta da un forte ingegno di costruttore, si deve l’imponente sacrario in cui oggi ci troviamo. Il Colonnello Caccia Dominioni era stato decorato al valor militare per la sua partecipazione già alla I guerra mondiale, lo fu per le prove date ad El Alamein e venne decorato per il suo eroico impegno, come comandante partigiano, nella guerra di Liberazione 1943-1945. Più di recente, ha meritato la medaglia d’oro al valore dell’Esercito per la missione di recupero e sistemazione delle salme dei caduti di El Alamein. Rendo reverente omaggio alla sua memoria.
Onore a tutti i combattenti e i caduti di El Alamein!
Viva la fratellanza nella pace tra i popoli europei e con il popolo egiziano!
* FONTE: Sito della Presidenza della Repubblica.
«Boicottare il 4 novembre»
Affondo di Rifondazione
Ma il Pd: un’idea assurda
Sansonetti: razzista la canzone del Piave che piace a La Russa
Sotto accusa la frase «Non passa lo straniero».
Ferrero: il ministro vuole glorificare lo Stato che manda la gente al macello
di Virginia Piccolillo (Corriere della Sera, 27.10.200)8
ROMA - «Assurdità da extraterrestri ». «Giusto: fermiamo la riscrittura della storia filo-guerra». «Non lasciamoci dividere su questi temi». Raccoglie pareri diversi l’appello di Piero Sansonetti: «Boicottiamo la festa del 4 novembre». Il direttore di Liberazione sottolinea che il governo e il ministro della Difesa Ignazio La Russa «si preparano a un gran numero di cerimonie per celebrare con tripudio il 90˚ anniversario di quella che Benedetto XV definì "inutile strage"». La Grande Guerra, «un avvenimento orribile, feroce, sanguinosissimo. Del quale è giusto parlare per spiegare ai giovani che le classi dirigenti europee impazzirono e si macchiarono di colpe ignominiose » che «aprirono le porte a fascismo e nazismo». Per questo invita a boicottare la festa. Esponendo bandiere arcobaleno o, almeno, leggendo Ungaretti. E attacca la proposta leghista di sostituire l’Inno di Mameli con la Leggenda del Piave, che «piace anche a La Russa». Motivata, secondo Sansonetti, dal verso «non passa lo straniero» che «nell’attualità politica assume un significato xenofobo».
Rosy Bindi suggerisce di «tralasciare una campagna controproducente ». Spiega: «Non c’è bisogno di contestare il 4 novembre per dire che la Grande Guerra era sbagliata. Tutte lo sono. Bisogna pensare a non farne. Ma questo non vuol dire che non si debba celebrare chi ha dato la vita per il nostro Paese». Si «trattiene con fatica dall’insulto » il pd Matteo Colaninno: «di fronte alla crisi drammatica che investe l’Italia, l’Europa e il mondo, dibattere del 4 novembre è da extraterrestri», rimprovera. «Chi rappresenta il nostro Paese deve rimanere ancorato alla storia del nostro Paese e ai suoi simboli. Lo sforzo dei presidenti Ciampi e Napolitano per recuperare il sentimento nazionale fa impallidire qualsiasi tentativo di originalità». «Basìta dal dibattito» anche la pd Marianna Madia: «Siamo italiani. Possibile che ancora non sia scontato? Ridiscutere il 4 novembre è come voler tornare a prima dell’Unità d’Italia. Parliamo d’altro».
Boicotterà il 4 novembre, invece, Giovanni Russo Spena (Prc): «Questa festa - dice - va contestata proprio ora che La Russa la sta rilanciando. Per noi vecchi antimilitaristi è l’occasione per insistere: occorre ritirare i militari dalle missioni di pace. Lo stesso La Russa ora ammette che sono di guerra ». Per Lidia Menapace (Prc) «dare pomposità a questa ricorrenza significa togliere importanza alla Costituzione che non è fondata sulla vittoria, ma sulla pace». «E poi evidenzia - qui in Sud Tirolo, celebrarla significa festeggiare la sconfitta dei nostri concittadini ». Per il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero «La Russa tenta di sdoganare la guerra. Nel concreto lavora a un maggiore ingaggio in Afghanistan.
Culturalmente tenta di rimettere in piedi la glorificazione dello Stato che mandò al macello la gente, con i carabinieri pronti a sparare alla schiena di chi disertava. La guerra non unisce la patria: potendo la gente non ci va». Striglia il direttore di Liberazione il suo predecessore Sandro Curzi: «La guerra è inevitabilmente di popolo. È un tema sul quale ha scritto pagine importanti anche Gramsci e che la sinistra seria, quella del Pci di Berlinguer, aveva già superato. Lo rilancia la destra per dividerci ora che qualcosa si muove. Non cadiamo nella trappola».
Lo storico Giovanni Sabbatucci
«Un salto indietro di novant’anni
Togliatti non fece mai polemiche»
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 27.10.08)
Quando ha letto il fondo di Piero Sansonetti su Liberazione, con l’appello a boicottare le celebrazioni del 4 novembre, lo storico Giovanni Sabbatucci ha avuto l’impressione di «un salto all’indietro di novant’anni, all’epoca in cui i socialisti esecravano la Prima guerra mondiale come un immenso crimine e accusavano di complicità nel massacro chi l’aveva voluta e chi l’aveva combattuta. Un atteggiamento che non giovò certo alla sinistra e anzi contribuì a portare molti reduci dalla parte del fascismo».
Per giunta i riferimenti letterari di Sansonetti gli appaiono incongrui: «Cita il libro Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu, che era e rimase un convinto interventista, e le poesie del volontario Giuseppe Ungaretti, che poi divenne fascista. D’altronde tra coloro che si opposero strenuamente a Mussolini troviamo parecchie persone che si erano schierate per la guerra: Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini. Si dice che Parri abbia scritto personalmente il bollettino con cui Armando Diaz, comandante dell’esercito italiano, annunciava la vittoria sull’Austria-Ungheria».
Del resto, aggiunge Sabbatucci, non si tratta di celebrare la guerra in sé: «Senza dubbio il primo conflitto mondiale fu un evento spaventoso, ma si può onorare il sacrificio dei caduti senza scadere nel bellicismo. Non si può negare che si sia trattato di un momento alto della storia nazionale, che suscitò, soprattutto dopo Caporetto, un vasto coinvolgimento popolare, anche se certo non unanime, nello sforzo bellico. Nel 1921, quando la salma del milite ignoto venne trasportata a Roma per essere tumulata al Vittoriano, fu salutata ovunque da grandi folle, con una forte partecipazione di massa al rito patriottico».
A dimostrazione del fatto che la Grande guerra era entrata come una pietra miliare nella memoria nazionale, Sabbatucci cita anche l’atteggiamento tenuto dalla sinistra dopo il 1945: «Il Pci di Palmiro Togliatti si guardò bene dal riprendere la polemica del precedente dopoguerra e anzi si adoperò per promuovere l’unità degli ex combattenti di entrambi i conflitti mondiali. Solo negli anni Sessanta e Settanta si diffuse a sinistra una visione demonizzante della Grande guerra, quella che si esprime, per esempio, nel film di Francesco Rosi Uomini contro. All’epoca anche la storiografia progressista assunse un atteggiamento non solamente critico, come è naturale, ma piuttosto deprecatorio, che però in seguito autori come Mario Isnenghi e Giorgio Rochat hanno corretto».
Sabbatucci chiude con una nota sul significato negativo che Sansonetti attribuisce alla Canzone del Piave, proposta dalla Lega come inno nazionale: «Non vedo come le parole "non passa lo straniero", riferite alle truppe austro-ungariche, si possano interpretare in senso xenofobo. E ritengo improponibile contrapporre l’Inno di Mameli alla Canzone del Piave: i due testi riflettono la stessa retorica nazionalista di origine risorgimentale. Basti pensare al richiamo alle glorie imperiali dell’antichità, con "l’elmo di Scipio" e la vittoria "schiava di Roma", nell’Inno di Mameli. Oggi dobbiamo guardare con distacco a quella retorica, ma non certo riesumarne una di segno ideologico opposto, che si richiami a un pacifismo esasperato».
4 novembre.
Non retorica festa militarista ma lutto per i morti di tutte le guerre.
Proposta del Movimento Nonviolento e di PeaceLink
Si prega di diffondere il piu’ possibile questo messaggio
Ci dissociamo dalle celebrazioni ufficiali del 4 novembre.
Ci dissociamo in nome della pace e della Costituzione.
Ci dissociamo in nome di tutti quegli italiani pacifici che furono condotti a combattere e a morire perché costretti.
Ci dissociamo in nome di tutti i disertori che non vollero partecipare a quella che il papa definì "un’inutile strage".
Ci dissociamo da ogni retorica celebrazione di eroismo.
Ci dissociamo da ogni ipocrisia.
Vogliamo ricordare che chi non combatteva veniva fucilato dai carabinieri italiani. Il sentimento di pace degli italiani venne violentato da un militarismo che avrebbe poi portato l’Italia al fascismo.
Occorre ricordare che la prima guerra mondiale fu uno spaventoso massacro.
Occorre trasformare il 4 novembre in una giornata di studio e di memoria, in una giornata di ripudio della guerra.
Si leggano le strazianti poesie di Giuseppe Ungaretti scritte in trincea.
Si legga il "Giornale di guerra e di prigionia" di Carlo Emilio Gadda in cui emerge l’ottusità di ufficiali arroganti e l’insipienza criminale degli alti comandi.
Si legga "Addio alle armi" di Ernest Hemingway e "Un anno sull’altopiano" di Emilio Lussu, grandi testimonianze del fanatismo di quella guerra.
Si diffondano le lettere dei soldati che mandavano al diavolo la guerra e il re. Furono censurate. Perché censurarle oggi nelle cerimonie ufficiali e non farne mai la minima menzione?
Per questo PeaceLink e il Movimento Nonviolento stanno facendo un volantinaggio telematico in tutt’Italia dal sito www.peacelink.it
Stiamo diffondendo la voce di chi ha maladetto la guerra perché voleva la pace. Oramai in tutte le scuole i libri di storia hanno rivisto il tradizionale giudizio positivo sulla prima guerra mondiale e oggi prevale una netta disapprovazione di una guerra che - come sostenne Giolitti - poteva essere evitata portando all’Italia Trento e Trieste mediante una neutralità concordata con l’Austria. Non comprendiamo come mai a scuola i libri disapprovino una guerra che oggi viene al contrario celebrata in piazza nella sua giornata vittoriosa. Ci chiediamo per quale oscura ragione il livello di consapevolezza raggiunto dalla cultura venga demolito dalla retorica. Ecco perché ci dissociamo dalle cerimonie ufficiali: quella guerra fu terrorismo e non va celebrata.
Il popolo della pace - in nome della nonviolenza - dice ancora una volta no alla guerra.
4 Novembre
89° anniversario della Prima Guerra Mondiale
“Dov’è, o guerra, la tua vittoria?”
Non festa, ma lutto
In occasione dell’ottantanovesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale (4 novembre 1918 - 4 novembre 2007), vogliamo proporre a tutti i cittadini che desiderano essere attivi “costruttori di pace” una riflessione ed un’iniziativa.
Per le autorità militari e civili questo è il giorno della festa dell’unità nazionale. Ma cosa c’è da festeggiare? La prima guerra mondiale fu un vero e proprio massacro e quella "vittoria militare" ci portò il fascismo, altre guerre, altri morti. Persino il Papa Benedetto XV la definì “un’inutile strage”. La festa fu una ricorrenza istituita dal fascismo per trasformare le vittime della prima guerra mondiale in eroi coraggiosi che si immolavano per la Patria. Una guerra che costò all’Italia 650 mila morti e un milione di mutilati e feriti, molti di più di quanti erano gli abitanti di Trento e Trieste, i territori ottenuti con la vittoria della guerra che erano gia stati concessi dall’Austria all’Italia in cambio della non belligeranza. La prima guerra mondiale fu un affare per grandi industriali, politici corrotti, funzionari statali senza scrupoli, alti ufficiali che si sono arricchiti con i proventi dell’industria bellica.
E oggi? Ancora una volta (come con qualsiasi governo, di destra, di centro o di sinistra) le spese militari aumentano a discapito di quelle sociali. Quest’anno le previsioni di spesa per la difesa (finanziaria, bilancio difesa, missioni internazionali, programmi sistemi d’arma) arrivano ad oltre 23 miliardi e 800 milioni di spesa: 20 miliardi e 900 milioni in bilancio, più 1 miliardo 550 milioni stanziato dalla finanziaria dell’anno scorso per le armi ad alto contenuto tecnologico, più altri 600 milioni in finanziaria 2008 tra finanziamenti al reclutamento dei professionisti e del finanziamento per gli Eurofighter e le fregate Freem. A questa somma vanno aggiunti gli oltre 800 milioni per il mantenimento delle missioni militari all’estero (compreso l’Afghanistan!).
Quindi il 4 novembre non c’è proprio nulla da festeggiare. Contro la retorica militarista, il 4 novembre invitiamo i cittadini ad esporre dai loro balconi le bandiere arcobaleno, a partecipare alla manifestazioni ufficiali, esprimendo una voce di dissenso (con un volantino, una bandiera che sventola, un cartello appeso al collo ... la Costituzione italiana garantisce a tutti i cittadini il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero: facciamolo correttamente, con educazione e civiltà, ma facciamolo!).
Davanti al dramma delle guerre in Iraq e in Afghanistan, nella quale siamo coinvolti come italiani, c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di celebrare con una “festa” la vittoria di una guerra? C’è solo da vergognarsi, e tacere per rispetto delle vittime di tutte le guerre. L’unico vero modo per celebrare il ricordo di una guerra, è quello di impegnarsi con la nonviolenza affinchè non ci siano più guerre. Come ha detto il grande scrittore Lev Tolstoj, profeta della nonviolenza, nel capolavoro “Guerra e pace”, le guerre non si vincono, le guerre si perdono e basta.
ManiFestAzione nazionale nonviolenta
Domenica 4 novembre a Verona
Quest’anno, in particolare, Il Movimento Nonviolento promuove un’iniziativa pubblica a Verona domenica 4 novembre in ideale continuità con la Marcia Perugia-Assisi e con gli impegni che la contrassegnano a partire dalla prima, indetta da Aldo Capitini nel 1961.
La manifestazione è aperta a tutti gli amici della nonviolenza e ne sollecita la consapevole partecipazione. Si rivolge in particolare a quanti sanno bene che l’affermazione dei diritti umani richiede un impegno di costruzione della pace. Per questo è necessario il rilancio della nonviolenza attiva.
La manifestazione concluderà il XXII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento, "La nonviolenza è politica per il disarmo, ripudia la guerra e gli eserciti", e ne riprenderà i temi attraverso un percorso che collega luoghi significativi della città.
Partenza alle ore 10 dalla Casa per la Nonviolenza, via Spagna 8, sede del Movimento e della rivista Azione Nonviolenta. Camminata con soste in piazza San Zeno (primo vescovo "extracomunitario" di origini africane), al Tribunale militare (dove veniva processati e condannati gli obiettori di coscienza), all’Arsenale (riconversione a fini civili di strutture militari), al ponte della Vittoria, (quella che fu "un’inutile strage"), per concludere alle ore 12 in Piazza Brà, dove insieme celebreremo un momento di riflessione e di impegno, perchè il rifiuto della guerra sia accompagnato da azioni coerenti a ogni livello di responsabilità.
Un banchetto sarà a disposizione per la raccolta delle firme per la legge di iniziativa popolare per Un futuro senza atomiche.
4 novembre, manifestazione a Verona
...la nonviolenza è in cammino...
Il volantino sul 4 novembre, in formato PDF e gia’ pronto da stampare, e’ disponibile all’indirizzo
http://www.peacelink.it/dossier/4novembre/4nov.pdf
* Il dialogo, Mercoledì, 31 ottobre 2007
4 NOVEMBRE: LUTTO NON FESTA!
La guerra uccide.
Gli eserciti uccidono.
Le armi uccidono.
Tu non uccidere.
Tu opponiti a tutte le guerre, a tutti gli eserciti, a tutte le armi.
Tu non uccidere, tu salva le vite.
Anche se in tutta fretta, vi comunico alcune riflessioni che ho ricevuto da Alfonso Navarra. Le faccio mie, e mi auguro che siano anche vostre.
Buona domenica.
Aldo Antonelli
4 NOVEMBRE: NON FESTA DELLE FORZE ARMATE MA LUTTO PER LE GUERRE
Il 4 novembre o della turbativa dell’ordine mentale
Che dopo (quasi) 100 anni si festeggi ancora ufficialmente la "vittoria" contro l’Austria è pazzesco, nel momento in cui, sentendoci cittadini europei, siamo - unanimemente sembra - impegnati nella costruzione dell’Europa Unita.
Ma è quello che avverrà in tutta Italia con le varie cerimonie per il 4 novembre, festa della "vittoria" e delle Forze Armate.
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Tanto varrebbe celebrare le "vittorie" del Granducato di Milano contro la Repubblica di Venezia: cose che appartengono ad un passato storico morto che oltretutto è bene seppellire dal punto di vista politico (il riferimento, per nulla casuale, è, ad esempio, per i nostalgici della "Serenissima"...).
L’assurdità di queste celebrazioni fa il paio con la parata militare che è stata riesumata per il 2 giugno: come se la Repubblica fosse costituzionalmente fondata sulle armi e non sul lavoro...
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E’ la (in)cultura del militarismo aggressivo e della guerra che i riti ufficiali del 4 novembre, che è eredità non a caso fascista,
intendono celebrare e ribadire.
Siamo perciò, con queste ridicole pratiche di autorità, di bande militari e generali tronfi come palloni gonfiati ("con cimiteri di medaglie sul petto"), in perfetta antitesi con il "ripudio" costituzionale della soluzione dei conflitti mediante interventi armati offensivi.
Quelli in cui storicamente, ricorda Don Milani ne "L’obbedienza non è più una virtù", si è sempre infognata l’Italia, che mai si è battuta "per difesa", dalla Prima Guerra Mondiale, con i 600.000 soldati caduti per Trento e Trieste (che l’Alleanza Austria-Germania ci avrebbe concesso se fossimo restati neutrali), alle guerre coloniali (Libia, Etiopia, Eritrea...) con l’uso dei gas e i massacri dei civili, alla
Seconda Guerra Mondiale, che cominciammo aggredendo la Francia (il nostro infallibile Duce voleva
600.000 morti per partecipare al "tavolo della vittoria").
La guerra dal punto di vista dei poveracci, della gente comune, del popolo minuto, è sempre stata una grandissima fregatura. Ieri come oggi, anche se la neolingua della "casta" la ha ipocritamente ribattezzata "interventi umanitari".
Noi oggi, popolo italiano, siamo ancora in guerra, al rimorchio dell’Impero americano, ma ce ne accorgiamo relativamente perchè a morire, per il "tenore di vita" fondato sulle rapine petrolifere, sono solo, per adesso, i Mohamed oltremare. La
"guerra al terrore", qualcuno l’ha calcolato, avrebbe già provocato quasi un milione di vittime civili in Medio Oriente.
Non paghi di ciò abbiamo dichiarato guerra (ci ha pensato sempre la "casta" che ci rappresenta) anche al nemico interno: i lavavetri e i rom! Tra poco marchieremo a fuoco anche i disgraziati che non riescono ad arrivare alla fine del mese per i mutui da pagare. O i giovani precari che svendono la loro vita per un pugno di euro, privati di ogni speranza in un futuro dignitoso.
L’ingiustizia però è un masso che finisce sempre col ricadere sui piedi di chi lo solleva. Non crediamoci allora assolti perchè ci fingiamo, per pelosa ed illusoria comodità, non direttamente coinvolti.
Facciamo dunque la nostra parte, finchè siamo in tempo, per fermare le escalation riarmiste e belliche. Quelle che, prima o
poi, ci porteranno l’incendio in casa, non esclusa la possibilità della deflagrazione atomica. Anche firmando per le due LIP (leggi di iniziativa popolare) sul disarmo atomico e sul disarmo delle basi. E sostenendo la Campagna di obiezione di coscienza alle spese militari, che propone il cambiamento del sistema di difesa offensivo attuale in un modello difensivo via via sempre più nonviolento.
Chi sta in alto dice:
si va verso la gloria.
Chi sta in basso dice:
si va verso la fossa.
La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente aceva la fame.
Fra i vincitori aceva la fame la povera gente egualmente.
(Bertolt Brecht)
Il nodo in gola. E due passi da fare
di Maria G. Di Rienzo *
Non e’ per raccontarvi i fatti miei, pero’ c’e’ un’incongruenza che mi tormenta. Voglio capire. Io ho abitato per un anno circa in un tugurio senza riscaldamento (avevo una stufetta a legna per tre stanze e ti riscaldava solo se ci stavi appiccicata). Il cesso, non posso chiamarlo "bagno" per rigore scientifico, era all’aperto: mettere il cappotto per andare a fare la pipi’, di notte, nel gelo, era qualcosa che trovavo allucinante. Il lavandino della cucina non aveva il tubo di scarico e il proprietario non voleva spendere i soldi neppure per un miserabile pezzo di plastica: cosi’ io lavavo i piatti con un occhio sul rubinetto e uno sulla bacinella sottostante. Faticavo a trovare lavoro, perche’ all’epoca, assieme ai meridionali, i nemici additati da media e vari politici ecc., quelli che stavano devastando la nostra nazione, erano i giovani "rossi" come me. Gli immigrati dall’estero erano ancora troppo pochi per costituire un bersaglio reale. Non avevo un soldo in tasca, quindi, e a volte stavo in piedi dal mattino alla sera con due cappuccini. Il clima culturale era tale che la polizia sembrava appostata per fermarmi non appena mettevo il naso fuori di casa: credo che mi abbiano controllato i documenti duemila volte e fatto aprire la borsa, quando l’avevo, altre mille. Il momento piu’ divertente fu quando un agente, indicando un assorbente interno disse arcigno: E questo cos’e’? Ma ci sono stati altri momenti, un po’ peggiori. Lasciamo stare. In tale difficile periodo della mia esistenza, mi e’ capitato di riuscire a bere due birre di fila, e quando facevo la volontaria alla spina della birra, durante una festa, sono probabilmente riuscita a berne anche tre.
Quello che non mi e’ capitato mai, neppure quand’ero infelice al sommo grado, arrabbiata, sfinita dall’odio attorno a me, e’ stato pensare di aggredire qualcuno, di violentarlo e/o ucciderlo a botte. Naturalmente. Sono una donna. Le donne non stuprano gli uomini.
Ma non e’ cosi’ semplice, sapete, perche’ se avessi guardato in basso nella scala gerarchica probabilmente avrei trovato anch’io qualcuno a cui fare del male, a cui rovesciare addosso centuplicato il male fatto a me. Un’altra donna, un bambino, un animale. Ma non volevo e non potevo. Non accettavo la graduatoria del dominio, non l’accetto tuttora.
Continuo a pensare che ogni essere umano dovrebbe poter vivere una vita decente, usare le proprie abilita’, dare e ricevere amore, e che anche agli animali dovrebbe essere dato maggior rispetto.
Continuo a pensare che Giovanna e Nicolae, entrambi esseri umani, condividessero il diritto di vivere: non semplicemente di sopravvivere, proprio di vivere, e al meglio possibile. Ma lei e’ stata uccisa, nel modo orribile che sappiamo, soffrendo, lottando, come altre migliaia di donne muoiono ogni giorno. E mi e’ bastato uno sguardo alla baraccopoli di Tor di Quinto perche’ mi venisse un nodo in gola. Possono vivere cosi’, degli esseri umani?
Niente prediche, per carita’, stiamo ai fatti. Mi par quasi di sentirli, politici e opinionisti e tuttologi. Ho soluzioni da proporre, qualcosa di concreto, invece di ripetere per l’ennesima volta le stesse cose, eh, ce l’ho? Si’. Per iniziare, ne ho due. Sono risposte di base, e non affrontano altre questioni a cui sono ovviamente correlate, come la necessita’ di un cambiamento radicale dell’ordine politico ed economico su scala mondiale: ma il piu’ lungo dei viaggi comincia con un solo passo, e io ve ne propongo due.
*
Il primo e’ che vorrei partisse da subito, con il coinvolgimento di istituzioni, scuole, ong, una grande campagna contro la violenza di genere.
Manifesti, forum, incontri, conferenze, la rete delle Commissioni pari opportunita’ scenda in campo e faccia il mestiere per cui l’abbiamo creata, le ministre e le parlamentari si siedano attorno ad un tavolo e comincino a parlarne, il movimento femminista si sta gia’ muovendo: andiamo alla manifestazione del 24 novembre a Roma, tanto per cominciare, e facciamola riuscire piu’ che bene.
La societa’ e’ satura di misoginia e violenza di genere. Il trattamento volto a degradare le donne e’ cosi’ pervasivo e "normale" che non ci facciamo neppure caso. Siamo tutti coinvolti in questo massacro, perche’ la violenza senza fine che investe le donne e’ collegata direttamente alla volonta’ di disumanizzarle, e quando hai reso qualcuno disumano, tutto e’ possibile ("Gli ebrei sono certamente una razza, ma non una razza umana", Adolf Hitler: sei milioni di morti nei campi di sterminio).
Dobbiamo innanzitutto imparare a vedere/riconoscere la violenza, e non solo la sua spettacolarizzazione o strumentalizzazione. Il quadro include la violenza di stato e quella individuale, quella pubblica e quella privata.
Razzismo, omofobia, e altre forme di marginalizzazione che razionalizzano, "spiegano" la violenza, la narrano come inevitabile e necessaria, provengono da un’unica sorgente, e si alimentano l’un l’altra e si costruiscono l’una a partire dall’altra. Il nome della sorgente e’ sessismo. Il nome del "nemico" primario, quello su cui si costruiscono tutti gli altri, e’ donna.
Quindi non si tratta solo di cio’ che gli individui compiono o possono compiere per le ragioni piu’ disparate: la violenza e’ sostenuta istituzionalmente, e’ sistemica, e percio’ un certo grado di essa (in diverse forme e contesti ecc.) diventa accettabile, e in alcuni casi persino raccomandato.
Quando la III Corte di Cassazione diventa famosa per la "sentenza dei jeans" e poi per quella in cui riconosce attenuanti allo stupratore ("patrigno" della vittima) perche’ la ragazzina avrebbe avuto esperienze sessuali precedenti lo stupro, la legge italiana sta dicendo esattamente questo: che un certo grado di violenza e’ accettabile in condizioni date. La violenza accettabile e’ (quasi) sempre quella che una donna subisce, il motivo per cui e’ accettabile e’ che la donna la vuole, la merita, se l’e’ andata a cercare. E comunque, soddisfare gli uomini e’ tutto cio’ a cui una femmina serve. Ci sono soldi da fare, amici.
L’industria dei giocattoli sta lanciando in questo momento nuove linee dirette a bambine dai sei ai nove anni: cosmetici, piccoli reggicalze, top di tessuto elastico. Non e’ mai troppo presto per infilare nelle menti delle bambine questo concetto: cio’ che e’ veramente importante e’ la loro abilita’ di compiacere sessualmente gli uomini. Ok?
Quando non vi sono reti di sostegno sociale (welfare, redistribuzione equa delle risorse) una donna che vive con un partner violento e’ costretta a restarci. Quando impieghi mal retribuiti, non sicuri, non permettono ad una donna di costruirsi una vita decente, la espongono a situazioni in cui la violenza e’ facilitata. E questa e’ un’altra responsabilita’ istituzionale rispetto alla violenza di genere.
*
La seconda proposta: bisogna accelerare sul pedale dei diritti per gli immigrati. Proprio. Le persone che vengono qui sono nostri concittadini e concittadine, lavorano qui, hanno figli qui, e capita che commettano crimini qui, proprio come gli italiani. Ma noi continuiamo a dir loro che questo non e’ il loro paese, che non lo sara’ mai.
La cittadinanza degli immigrati e delle immigrate deve avere pieno titolo, diritto di voto compreso, responsabilita’ verso il bene comune compresa, e non tanto e non solo per considerazioni etiche: se sai di essere a casa tua e’ piu’ difficile che ti venga voglia di distruggerla; se sai di essere tra persone civili e accoglienti, che potrebbero persino diventare amici, e’ piu’ difficile alimentare l’odio in ambo le direzioni.
E’ inutile pensare, come qualcuno non solo pensa ma dice, che possiamo rimandare i migranti da dove vengono. Le condizioni oggettive (e qui sto sul piu’ crudo pragmatismo) economiche, storiche, sociali non permettono il tipo di soluzione "scopiamoli sotto il tappeto e dimentichiamoci di loro", e lo sa bene anche chi strilla il contrario.
Percio’ dobbiamo affrontare la situazione e renderla il piu’ possibile pacifica e accettabile e serena per tutti. E quando un’idiota ci passa un volantino con su scritto "Questi non devono piu’ toccare le nostre donne" restituiamolo chiedendogli da quando e’ stata reintrodotta in Italia la schiavitu’: le donne non sono di nessuno, appartengono a se stesse, come qualsiasi altro essere umano sulla faccia della Terra. E gli italiani le degradano e feriscono quanto gli altri.
*
Viviamo in un paese in cui la gente spara dalle finestre gridando "Vi odio tutti", in cui i bambini si impiccano non sopportando lo scherno e l’esclusione, in cui ragazzi di vent’anni si danno il turno a stuprare una quindicenne intercalando la violenza con giochini al computer: sono tutti fatti di cronaca, abusi commessi da italiani su altri italiani, disperazione tutta italiana, non mi sto inventando niente. Vogliamo cominciare a dire che non ci sta bene? Vogliamo spegnere i fuochi dell’odio, prima che il rogo ci annienti tutti?
* EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: IL NODO IN GOLA. E DUE PASSI DA FARE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e’ una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell’Universita’ di Sydney (Australia); e’ impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta’ e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell’islam contro l’integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu’ ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e’ in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81]
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 136 del 4 novembre 2007