QUESTIONI APERTE
Da Helsinki il monito del presidente: «Valori e
principi, c’è una questione aperta sulla Carta»
Il Colle: la Costituzione non è ancora di tutti
di Marcella Ciarnelli (l’Unità, 11.09.2008)
Per il Presidente della Repubblica tra quelle che ancora bisogna affrontare in Italia c’è «la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutte le componenti della società nei principi e nei valori della Costituzione». Ed è proprio da questa identificazione che per Giorgio Napolitano «dovrebbe nascere un forte moto di patriottismo costituzionale per il quale credo ci siano le condizioni».
Il Capo dello Stato sta per lasciare la Finlandia al termine di una visita di Stato. Sullo sfondo, per due giorni, ci sono state le recenti polemiche seguite alla celebrazione dell’8 settembre. Conseguenti a tutte le altre che hanno segnato la storia di un Paese in cui ancora c’è, evidentemente, chi non è ancora riuscito a fare i conti con la storia. Quella personale. Quella di tutti.
Le parole del Presidente mettono in evidenza la necessità di proseguire nella riflessione e nell’analisi, anche alla luce di determinati comportamenti che continuano ad esserci nel Paese. L’invito è a ricordare i principi ed i valori che hanno alimentato la fase costituente, per cercare di superare le divisioni. Per arrivare a condividere il concetto della Costituzione come momento fondante. Arrivando a quel «patriottismo costituzionale», appunto, che dovrebbe essere patrimonio di tutti. La Carta è riformabile «nella sua seconda parte» secondo interventi «possibili, necessari e concentrati» precisa Napolitano. Ma l’obbiettivo deve essere quello di un sentire comune ancora non conquistato dato che proprio il presidente ha appena parlato di «questioni aperte» e di mancata «identificazione» da parte di alcuni.
Il botta e risposta con il ministro La Russa che l’8 settembre ha difeso a Porta San Paolo i militari che scelsero di stare dalla parte della Repubblica di Salò mentre altri, ricordati dal presidente della Repubblica, pagarono con la vita la scelta opposta, sono stati l’oggetto della domanda a cui Napolitano ha risposto avanzando la sua preoccupazione per «la questione aperta».
Titoli di agenzia e di siti web sintetizzano il concetto. «Non tutti si riconoscono nei valori della Costituzione». Arriva la precisazione del Quirinale. Non c’è corrispondenza con i contenuti delle dichiarazione del presidente che, comunque, ci ha tenuto a puntualizzare che con il discorso dell’8 settembre «ho solo espresso il mio punto di vista. Non ho fatto polemiche con alcuno, né ho tirato per la giacca nessuno, né ho risposto ad alcuno. Ho svolto il mio intervento per ultimo, come era previsto». Peccato che proprio il ministro della Difesa, nel corso di una intervista a tutta pagina riservatagli da Il Giornale, abbia affermato il contrario: «Non potevo far polemiche con il presidente dato che ho parlato dopo di lui». Ieri La Russa, impegnato nelle grane di partito e coalizione, si è limitato a dire che le parole di Napolitano sul problema di una mancata identificazione da parte di alcuni con i valori fondanti della Costituzione non le aveva ancora lette ma «per il presidente ho grande stima».
Al di là delle sintesi nei titoli è evidente che c’è ancora molto da lavorare per superare le questioni aperte cui Napolitano ha apertamente fatto riferimento. «In Finlandia - ha ribadito - sembra che tutto sia stato metabolizzato. Non sono rimaste prigionieri né del risentimento, né di una logica di isolamento, perché hanno saputo attraversare la propria storia». E’ evidente il rammarico per questo cammino ancora incompiuto nel nostro Paese. Il lavoro da portare a termine si mostra ancora accidentato nel suo complesso. - Bene allora, per portare verso l’adesione ai valori costituzionali anche i più refrattari, lavorare con la scuola: «Sono molto favorevole all’introduzione nelle scuole primarie della materia “Cittadinanza e Costituzione”». Deve essere «l’inizio di uno sforzo maggiore della cultura, della politica e dell’informazione». Perché si sta per chiudere l’anno del sessantesimo anniversario della Carta, «e non so se sia stato fatto tutto quello che si poteva fare» per diffonderla. E qualcuno è evidentemente rimasto indietro con il programma. «La prossima volta parliamo d’Italia» ha scherzato con i giornalisti.
Sul tema, nel sito, si cfr. (per leggere gli art. cliccare sul rosso):
L’INNO DI MAMELI (Sito della Presidenza della Repubblica).
Le istituzioni più forti degli uomini
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 13/12/2009)
Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo, un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso delle leggi e dello Stato. C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).
Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.
È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.
Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).
Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.
Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).
Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.
Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.
Gelli: il nuovo capo della P2? «Il mio erede è Berlusconi»
Per il "gran maestro" un programma tv
Adesso ha un programma tutto suo su Odeon tv e sfrutta la rinnovata ribalta per passare il testimone. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, non ha dubbi: per l’attuazione del Piano di Rinascita democratica della P2, «l’unico che può andare avanti è Berlusconi». L’investitura arriva durante la conferenza stampa di presentazione di Venerabile Italia, il programma che Gelli condurrà sull’emittente tv: «L’unico che può andare avanti è Berlusconi: non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora mostra un po’ di debolezza perché non si avvale della maggioranza parlamentare che ha».
Sembra una barzelletta. Invece è una vergogna. Soprattutto perché a Gelli viene regalata una tribuna tutta per sé. Il tema del programma sarà la storia d’Italia. Il capo della loggia massonica P2 racconterà la sua versione, magari sulla strage di Bologna, per cui è stato condannato per depistaggio. O sulla repubblica di Salò a cui aderì, o su Gladio, o su qualsiasi delle pagine grigie (se non nere) dalla storia del nostro paese a cui Gelli è legato.Il programma ha già degli ospiti, Anche questi poco fantasiosi: per la prima puntata Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell’Utri. Si parlerà di fascismo.
Forse, per chiarire il contesto, è utile ricordare la sua fedina penale. Licio Gelli è stato condannato con sentenza definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato, calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola, tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna e Bancarotta fraudolenta (per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a 12 anni). Se lui considera Berlusconi il suo erede più credibile non abbiamo troppo di che stare tranquilli.
Anche perché, come se non bastasse quello che sta facendo, Gelli dà anche consigli al suo “figliol prodigo”: «Se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Non mi interessa la minoranza, che non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo, e non ci devono essere offese. Ci sono provvedimenti che non vengono presi perché sono impopolari, e invece andrebbero presi: bisogna affondare il bisturi o non si può guarire il malato».
* l’Unità, Pubblicato il: 31.10.08, Modificato il: 31.10.08 alle ore 17.33
Populismo e il passato che ritorna
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 13/9/2008)
Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. Testarde fazioni politiche contrapposte tengono in ostaggio la politica.
Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. Nessuno sa più dirne le ragioni, in modo convincente per tutti, pur facendo attenzione alle legittime differenze.
La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto - dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo Paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente.
C’è in giro una pesante aria decisionista. A parole almeno. Comincia dai vertici dei ministri, indaffarati a fare proclami, cui non sappiamo che cosa davvero seguirà. Colpisce l’irresponsabilità e il dilettantismo di ministri che parlano (pensando in realtà soltanto ai media) come se tutto dipendesse dalle loro parole.
Come se la scuola - per fare un esempio - non fosse una grande complessa istituzione tenuta in piedi da migliaia di professionisti che hanno una loro competenza ed esperienza, di cui tener conto. No. Sono trattati come zelanti esecutori di decisioni calate dall’alto.
Ma da dove è spuntata fuori questa classe ministeriale? Da quale cultura? Dalla destra storica liberale? Dal fascismo riciclato democraticamente? No, per carità - si obietta subito -, non incominciamo con le genealogie ideologiche. Ciò che conta è «fare ordine» contro il «disordine della sinistra» - come dice il Cavaliere.
Mettere ordine, ripulire, punire, comandare. Se è il caso, mettere in galera clandestini, teppisti di stadio, prostitute di strada. Come se fossero la stessa cosa.
Naturalmente una società ordinata e sicura è un valore collettivo. E non finiremo mai di rimproverare la sinistra per essersi fatta scippare per malinteso «buonismo» questo valore. Per questo motivo non solo ha perso le ultime elezioni, ma adesso ha perso anche la testa. Infatti non sa più come reagire. A ogni iniziativa «d’ordine» ministeriale o governativa, balbetta e si divide.
Ma quali sono i valori della nuova destra populista che pretende di essere innanzitutto pragmatica, anti-ideologica? A prima vista sono i valori tradizionali di «Dio, patria e famiglia». Naturalmente al posto di Dio oggi si preferisce parlare di «radici cristiane»; l’idea di patria richiede qualche aggiustamento critico; soltanto la famiglia sembra mantenere le vecchie connotazioni. Ma è una pura finzione, se guardiamo ai comportamenti reali e non alle dichiarazioni fatte «per compiacere la Chiesa» (parole di Berlusconi).
In realtà la vera chiave della cultura politica di oggi è nel termine di «populismo» che va inteso non in modo generico, ma appropriato. Il populismo democratico ha quattro ingredienti: un popolo-elettore che tende a esprimersi in uno stile tendenzialmente plebiscitario con un rapporto di finta immediatezza con il leader; la dominanza di una leadership personale, gratificata di qualità «carismatiche»; un sistema partitico semplificato con un ricambio di élite politiche che è di supporto immediato al leader; il ruolo decisivo e insostituibile dei media allineati. Sottoprodotti di questa situazione sono la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione.
Gli elettori scelgono o si orientano al leader con aspettative di tipo decisionistico, per l’insofferenza verso le eccessive mediazioni parlamentari e le corrispondenti differenziazioni partitiche.
Da qui l’attivismo cui assistiamo quotidianamente. E le misure populistiche fatte appunto per soddisfare un immediato desiderio di ordine: contro la violenza di stadio come contro la prostituzione, indifferentemente.
Questo trattamento cui è sottoposto il Paese ha un costo alto: l’assenza di una vera soluzione dei problemi più gravi e strutturali (dalla giustizia alla scuola) che non possono essere risolti in stile populistico-decisionistico. È necessaria infatti una strategia capace di grande vero consenso, che è compatibile con le regole democratiche della maggioranza/minoranza. Altrimenti il paese si spezza nel profondo. Perde l’orientamento. È quanto sta accadendo.
Esattamente quindici anni fa molti di noi si sono chiesti se non cessassimo di essere una nazione. Allora c’erano le prime aggressive provocazioni antinazionali della Lega, i forti timori per una globalizzazione appena scoperta e la nuova inattesa visibilità degli immigrati. Al confronto di oggi quei problemi erano relativamente controllabili. Quello che non era prevedibile invece era l’implosione interna della nazione cui assistiamo oggi. Sì, forse, stiamo cessando di essere una nazione.
L’ultimo valore
di MASSIMO GIANNINI *
Se occorreva una lettura alta e forte del "sommario di decomposizione" politica, civile e culturale che l’Italia sta vivendo in questo tempo di egemonia della "nuova destra", quella di Giorgio Napolitano non poteva essere più vera, anche se più amara. In quale altro Paese d’Europa un Capo dello Stato è costretto ad ammettere che non tutti gli italiani "si identificano nella Costituzione repubblicana"? Forse solo nei Balcani.
C’è un pezzo di destra berlusconiana, priva di retaggi ideali e di ancoraggi politici con la grande tradizione liberal-conservatrice dell’Occidente, che concepisce la politica come epifania personale, e non come servizio reso al Paese nel rispetto dei suoi valori fondativi. C’è un pezzo di destra post-fascista, non rassegnata a spegnere la fiamma dentro il mare indistinto del popolarismo europeo, che rifiuta una memoria condivisa della storia perché coltiva un’altra idea della democrazia. C’è un pezzo di destra leghista, non rassegnata a declinare la devolution come federalismo solidale, che rifiuta il primato della Repubblica perché insegue la primazia della Padania.
Per questa Italia la prima parte della Costituzione è quasi un "relitto". Con quel suo carico di diritti pre-moderni (l’uguaglianza, l’equità, la solidarietà, il lavoro...) che imbrigliano l’economia e imbrogliano i cittadini. "Costituzione sovietica": non la definisce così il Cavaliere? La seconda parte è quasi un "delitto". Con quel suo apparato di bilanciamenti istituzionali (il ruolo del Parlamento, le prerogative del Capo dello Stato, l’autonomia della magistratura) che minano il potere politico e minacciano il potere esecutivo. Non è per questo che, sempre per il Cavaliere, si rende necessario il presidenzialismo e si deve "riformare" il Csm? È grave questo uso spregiativo della Costituzione. Ma ancora più grave è che, secondo il falso spirito "modernizzatore" dominante, si vuol far passare per arcaico (e dunque politicamente irrilevante) anche chi la Costituzione la invoca e la difende. Per questo dobbiamo essere grati, una volta di più, a Giorgio Napolitano.
* la Repubblica, 11 settembre 2008.
Né fascisti, né fascistini
di ANDREA RICCARDI (la Stampa, 11/9/2008)
In questi giorni i nostri ragazzi tornano a scuola. Settant’anni fa - dovremmo ricordarlo - ci furono ragazzi a cui fu impedito di ritornarci: erano ebrei. Tanti di loro hanno raccontato l’umiliante esclusione ordinata dai «provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista». Fu un fatto drammatico. Forse non approvato all’unanimità dagli italiani. Taluni mormorarono. Ma ormai il Paese era imbavagliato da più di quindici anni di dittatura e i provvedimenti, con la firma del re, passarono.
Il 5 settembre 1938, il regime disponeva: «Alle scuole di qualsiasi ordine e grado... non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Quello stesso giorno fu costituita la Direzione Generale per gli Affari razziali, incaricata della politica razzista. La discriminazione razzista isolò la comunità ebraica; favorì poi, con la collaborazione della Repubblica Sociale Italiana, lo sterminio nazista degli ebrei. È la storia italiana della Shoah: le razzie, il campo di Fossoli, le tradotte verso il Nord, l’eliminazione di tanti.
Nel 2008 ricorre il settantesimo delle leggi razziste, fondate sull’idea che «le razze umane esistono» e che ebrei, africani, appartengono a un’altra razza. Era una politica priva di base culturale e di ragionevolezza.
Ma fu attuata, perché il Paese, come mai nella breve storia nazionale, era nelle mani di un dittatore. Quelle leggi furono il prodotto folle di un sistema di potere. Non l’unico frutto amaro del regime: si pensi all’ingresso in guerra. Ma il fascismo non fu solo un insieme di gravi errori, bensì un sistema che distruggeva la libertà.
Si è tornati, nei giorni scorsi, a discutere di fascismo e Shoah. Non si tratta tanto di dibattere attorno all’idea di «male assoluto», che è categoria di ordine teologico (come ha notato ieri Massimo De Angelis su Il Foglio), quanto di riconoscere l’orizzonte politico e nazionale comune: quello della Repubblica che, sin dalla sua Costituzione, si è voluta totalmente altra dal fascismo, ripudiandolo. Questa è la linea su cui ci siamo mossi, sin dal 1945, e nel cui alveo si collocano le istituzioni repubblicane.
Questa via fu confermata anche nell’opposizione al comunismo, che De Gasperi volle come lotta democratica, senza cedere a strumenti autoritari (come gli era proposto in Italia e all’estero). Il voto del 18 aprile 1948 sancì il consenso nazionale all’Italia democratica, che aveva voltato le spalle al fascismo e che non sceglieva il comunismo. La collocazione nella Nato e in Europa consentì in particolare al Pci di potersi allontanare dal cono dell’influenza sovietica. Nell’Europa di allora pesava la minaccia sovietica, che ingabbiava i paesi dell’Europa dell’Est. Molti ricordano la tragica estate del 1968, quando il sogno di un socialismo dal volto umano fu schiacciato a Praga.
Mi sembra necessario rifarsi con chiarezza all’orizzonte della nostra cultura politica e istituzionale. Questa chiarezza è preziosa in un tempo in cui si fa tanto bricolage di numi ispiratori, mescolando pezzi di passato alla rinfusa e secondo l’estro del momento. Le genealogie ideali non si improvvisano. La memoria di un’Italia che ripudia il fascismo è parte integrante della nostra identità. Infatti, tra l’Europa e la globalizzazione, l’Italia va ridefinendo in questi anni la sua identità e la sua funzione nel mondo.
L’antifascismo del dopoguerra, anche nella ricaduta storiografica, ha conosciuto una stagione enfatica, eco di battaglie appena finite. Talvolta si è esecrata la storia del regime più di quanto la si sia compresa. Ma tanta strada si è fatta. Renzo De Felice - non lo si dimentichi - cominciò ad interessarsi al fascismo partendo dalla storia degli ebrei sotto il regime. Ha storicizzato la vicenda fascista, notando cambiamenti, articolazioni, consenso popolare. Il fascismo fu diverso dal totalitarismo nazista. Emilio Gentile ne parla come di «cesarismo totalitario». Si può discutere su totalitarismo, regimi autoritari e populisti. La storiografia è un campo sempre aperto a nuove acquisizioni. Non è un caso, però, che il fascismo finì per collaborare all’attuazione della Shoah in Italia. Il dibattito storiografico non cancella il fatto che la nostra vita politica e istituzionale si è costituita a partire dal ripudio di metodi, sistemi e idee, che hanno fatto il regime fascista.
C’è poi il capitolo dei fascisti e dei combattenti di Salò. È anche la storia di memorie familiari. La pietas davanti alla morte e alla sofferenza è un valore, che spero sempre più condiviso. Si cita spesso l’intervento di Luciano Violante a proposito dei «ragazzi» di Salò. Il valore del dolore umano fu sentito dalla Chiesa negli anni della guerra. Ho trovato questo passo del giugno 1944, dopo la Liberazione, nella cronaca del monastero romano di San Gregorio, che aveva nascosto ebrei e ricercati dai nazisti, come molte case religiose: «È l’ora dei gerarchi fascisti che per sottrarsi all’ira popolare o agli arresti del nuovo governo d’Italia domandano asilo alle case religiose e sebbene non se ne condivida i principi di rovina loro, carità ci obbliga ad aprire le porte».
Oggi si discute di scuola, di educazione civica, di identità nazionale. È allora opportuno richiamare al senso di una «storia comune», quella dell’Italia democratica, che è la nostra. Non si tratta di demonizzare nessuno. Né di coltivare odio. Né di imbavagliare la ricerca storica e la diversità di opinioni. Ma tutto non si può confondere. C’è bisogno di dire che questa è la nostra storia comune che nasce dal ripudio del fascismo. Così racconteremo ai ragazzi che stanno rientrando a scuola quanto accadde nel 1938 agli ebrei della loro età. Lo faremo, ricordando che non ci sono razze. Diremo anche che la politica può fare tanti errori, ma distruggere la libertà non è un errore bensì l’inizio della fine.
Intervento del presidente della Camera alla festa di Azione giovani ’Atreju 08’ a Roma
Replica alle polemiche sorte dopo le dichiarazioni del sindaco di Roma Alemanno
Fini: "La destra si riconosca nei valori antifascisti"
"I repubblichini stavano dalla parte sbagliata"
Nella commemorazione dell’8 settembre il ministro La Russa aveva sostenuto
che chi aveva combattuto per la Repubblica di Salò comunque aveva difeso la Patria
ROMA - Chi è democratico "è a pieno titolo antifascista" e la destra deve riconoscersi nell’antifascismo. Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ospite della festa di Azione giovani ’Atreju 08’ a Roma. Il presidente della Camera ha anche affrontato la questione della Repubblica di Salò, sollevata qualche giorno fa in occasione della cerimonia di commemorazione dell’8 settembre dal ministro della Difesa Ignazio La Russa. "I resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata", ha detto Fini. Subito dalla platea si sono levate grida di contestazione: "Sei stato chiaro ma non coerente, presidente".
Subito la replica: "A Salò c’è stata buona fede, riconoscerla è in molti casi doveroso ma è altrettanto doveroso dire che non si può equiparare chi stava da una parte e dall’altra. Onestà storica e compito di una destra che vuole fare i conti con il passato è dire che non è equivalente chi combatteva per una parte giusta e chi, fatta salva la buona fede, combatteva dalla parte sbagliata. La destra deve ribadirlo in ogni circostanza non per archiviarlo ma per costruire una memoria che consenta al nostro popolo di andare avanti".
La terza carica dello Stato ha sottolineato che "la destra politica italiana e a maggior ragione i giovani devono senza ambiguità dire alto e forte che si riconoscono in alcuni valori della nostra Costituzione, come libertà, uguaglianza e solidarietà o giustizia sociale. Sono tre valori che hanno guidato il cammino politico e ribadire che la destra vi si riconosce è un atto doveroso".
"Se in Italia - ha aggiunto Fini - non è stato così agevole, è perché non c’è stata una destra in grado di dire che ci riconosciamo in pieno nei valori antifascisti". Giorni fa hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del sindaco di Roma Gianni Alemanno, secondo il quale "il fascismo non fu un male assoluto", mentre lo furono senza dubbio le leggi razziali.
"Quando ci si confronta con la storia - ha ribadito Fini - serve la consapevolezza che un periodo storico va giudicato nel suo complesso, e il giudizio complessivo da parte della destra del periodo del fascismo storico, dal 1922 al 1945 deve essere negativo, in ragione della limitazione e poi della soppressione della libertà. Non possiamo prescindere dai dati storici, il passato non lo possiamo nè ignorare, nè mistificare". Il presidente della Camera ha scandito a chiare lettere che non solo le leggi razziali sono state la colpa grave del fascismo, ma anche "la soppressione della libertà, la negazione dell’uguaglianza e infine la dichiarazione della guerra, una catastrofe che i nostri padri non hanno dimenticato".
* la Repubblica, 13 settembre 2008.
Uno strappo solitario
Il gelo dei colonnelli. Alemanno aspetta ore prima di rilasciare un gelido comunicato: «Tutto il gruppo dirigente di An ha elaborato le tesi di Fiuggi»
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 14.09.2008)
Stavolta lo strappo di Fini col fascismo c’è stato. Impossibile negarlo. Con tutto il fascismo, e non solo con le pagine legate alla Rsi. Netti infatti sono apparsi ieri i giudizi pronunciati dal Presidente della Camera davanti, ai giovani di An. Primo: «La destra deve riconoscersi nell’antifascismo». Secondo, di qui viene una Costituzione fondata su «libertà eguaglianza e giustizia sociale», da assumere in pieno come «valori antifascisti». Terzo, a parte la buona fede di chi scelse la Rsi, «i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Già, e Fini usa proprio il termine dispregiativo «repubblichini», per indicare gli adepti di Salò, lo stesso termine contestato da quanti a destra hanno sempre rivendicato alla Rsi la dignità di un’idea statale e di patria.
Certo ne ha fatta di strada quel Fini che a fine anni ‘80 parlava di «fascismo del 2000». Nei primi anni ‘90 di Mussolini come «del più grande statista del 900». E ne ha fatta anche rispetto alla svolta Fiuggi, del 1995. Quando l’antifascismo veniva da lui definito «momento necessario di passaggio, negativo e non valore in positivo». Come pure c’è uno «stacco netto rispetto alla distinzione finiana in Israele tra «male assoluto» nazifascista, e pagine fasciste anteriori, non tutte negative. No, stavolta c’è stato molto di più in Fini. Un vero capovolgimento di Fiuggi: l’antifascismo come valore fondante e positivo. Condito da un’altra, decisiva notazione storiografica, sull’intero fascismo stavolta. E cioè, ha detto Fini, non si possono isolare nel regime alcuni «fotogrammi», ma va dato un giudizio di insieme. E quel giudizio nel Presidente della Camera è globalmente negativo. Per la dittatura, la violenza, la guerra e l’alleanza con nazismo.
Di più. Accennando alla «memoria condivisa», Fini ha citato Ciampi e la sua pedagogia civile. Che privilegia la memoria costituzionale antifascista (non la marmellata delle memorie). All’insegna di una patria democratica, e non del «nazionalismo», che per Fini è male. Dunque occorre dare atto a Fini di onestà e di coerenza. In una col tentativo di ritagliarsi un ruolo decente di leader della destra democratica europea. Anche sotto lo stimolo di una polemica «antirevisionista» contro le ambiguità post-fasciste, che qualche frutto lo ha dato. Senonché qui nascono i problemi. Dentro An e guardando al futuro Pdl di Berlusconi. Tanto per cominciare già ieri Fini è stato contestato da uno di quei giovani ai quali parlava. Gli stessi ragazzi che portarono fiori sulle tombe dei saloini a Nettuno. «Sei stato chiaro ma non coerente!», ha gridato uno di loro. Mentre altri dissentivano e abbandonavano la sala. Poi, ai lati di An, sono arrivate le proteste furiose di Storace, di Fiore di Fn e di Donna Assunta: «Fomenta le divisioni tra italiani, dà la stura all’antifascismo, ha gettato la maschera, se ne vada se crede...».
Ma il vero punto è un altro. Sono le reazioni sbigottite e compresse di due dei colonnelli contro i quali è diretto lo strappo di Fini. Vale a dire Alemanno e La Russa, protagonisti di esternazioni che avevano oltremodo irritato Fini in questi giorni. Il primo - che aveva rivalutato un fascismo «buono» contro Salò - se l’è cavata nel pomeriggio con una dichiarazione che ribadisce il «percorso di Fiuggi». Condiviso ed «elaborato da tutto il gruppo dirigente di An compreso il sottoscritto (Alemanno, n.d.r)». Quasi a voler chiudere in anticipo illazioni e sospetti di dissenso, in realtà per troncare e sopire scontri col leader. La Russa invece, dopo aver dato segni di stupore ed essersi rifiutato di commentare a caldo, ha precisato con disagio che il suo ultimo discorso dell’8 settembre davanti a Napolitano, era solo un intervento sulla «memoria condivisa». E che perciò non c’è alcun problema con Fini.
Dunque una questione aperta c’è in An, a parte l’adesione «convinta» di altri colonnelli come Gasparri e Bocchino. E non mancherà di palesarsi, sia rispetto alla fusione annunciata con Fi, sia rispetto agli equilibri interni, di An. Sia infine rispetto a una platea di militanti ed elettori che già facevano fatica a condividere la timida svolta di Fiuggi. Sicché non è infondato dire, come ha fatto Veltroni a Cortona, che le parole di Fini sono un «grande passo avanti», ma «rientrano in un’evoluzione personale», se raffrontate alla posizioni di Alemanno e La Russa.
Salvate il soldato Fini in An? Vedremo. Al momento però i giochi sono abbastanza incerti, sul destino dell’identità post-fascista in attesa di finire nel Pdl. E, quanto a quest’aspetto, resta aperto un altro tema. Anzi due: il rapporto Fini/Berlusconi. Se il primo, con la sua «revisione», entra alla grande nel Ppe e può aspirare concorrere da Premier, il secondo, proteso al Quirinale, si candida ormai di fatto a vero leader post-fascista. Vanno in tal senso gli umori «anti-antifascisti» del Cavaliere. La sua ostilità alla Costituzione da lui definita «sovietica», il disamore per la Resistenza, la descrizione del fascismo come innocua dittatura. E da ultimo, anche l’esaltazione del genio italico coloniale e dello squadrista Italo Balbo. Regalata guarda caso da Berlusconi proprio ai giovani di An. Fini antifascista moderato e Berlusconi post-fascista e presidenzialista? Sarebbe l’ennesima giravolta dell’Italia di destra vecchia e nuova. Giravolta trasformista. E pericolosa.
Un brutto segnale
L’ex presidente della Camera: Fini è più avanti del resto del partito
Ingrao: "Svolta più netta del ‘95 ma la pancia di An è ancora indietro"
Le uscite di Alemanno e La Russa sono un brutto segnale, la conferma che certe radici con il fascismo non sono state ancora recise
di Concetto Lo Vecchio (la Repubblica, 14.9.08)
ROMA - È sabato pomeriggio e Pietro Ingrao, il Grande vecchio della sinistra italiana (93 anni), legge e rilegge le dichiarazioni di Fini sui dispacci delle agenzie.
Presidente Ingrao, ha letto le dichiarazioni sul fascismo di Fini? Sono una svolta più netta di Fiuggi?
«Mi pare proprio di sì, ma soprattutto quel che colpisce è la presa di distanza da Alemanno e La Russa».
Come se Fini fosse più avanti rispetto al resto del partito.
«Questo è probabile. Con quest’uscita mi sembra che abbia voluto dare un monito, e dire alla sua parte che non è più tempo di traccheggiamenti».
La platea ha accolto con freddezza le sue parole.
«E questo è grave, perché per quanto lodevole, per quanto positiva, la critica di Fini è pur sempre parziale, nel senso che non iscrive il fascismo italiano dentro la tragedia del nazifascismo. Ci faccia caso, non cita mai Hitler, che di Mussolini fu un alleato stretto se non un duro comandante».
Da Fiuggi sono passati tredici anni eppure è come se in An non tutti avessero fatto sino in fondo i conti con il fascismo.
«È un brutto segnale, il segno che certe radici non sono state ancora recise, e che sono più radicate di quel che si pensi, considerate le uscite di Alemanno e La Russa degli ultimi giorni».
Fini dice anche che non tutti gli antifascisti erano democratici.
«Può darsi sia così, può darsi... Non dico che tutti della mia parte fossero santi ed eroi, ma l’antifascismo italiano è pieno di storie, vicende e figure di un’emozione e di un fulgore straordinari. Pensi alla tragica grandezza di Primo Levi, che finisce per uccidersi oppresso da quel che ha vissuto nei lager».
"Non si può equiparare chi stava da una parte e combatteva per una causa giusta di uguglianza e libertà e chi, fatta salva la buonafede, stava dalla parte sbagliata", ha detto il presidente della Camera. Sono parole che Fini avrebbe pronunciato anche da leader di An?
«Non saprei cosa risponderle, ma non sono stupito di queste parole mi pare che già negli anni passati Fini avesse espresso una volontà di riflessione autocritica. E tuttavia mi colpisce il silenzio che permane tuttora sul grande movimento di popolo che in Italia è stata la Resistenza. E forse sull’epopea che è stata la Resistenza italiana, c’è una debolezza anche nella scuola italiana».
È un caso che le uscite di Alemanno e La Russa siano giunte adesso, che la sinistra è stata pesantemente sconfitta?
"Purtroppo non è una stagione felice per la sinistra, c’è stata una riscossa conservatrice, le abbiamo buscate, diciamolo chiaramente. E anche il governo Prodi non è valso a fermare l’arretramento. Ancora adesso non si è sviluppata a sinistra né una riflessione critica adeguata e nemmeno una ripresa del collegamento con le masse. Questa è la questione centrale da affrontare. E c’è l’urgenza di ripartire presto».
Lo storico «Le frasi del presidente della Camera chiudono il percorso avviato nel ’96 dall’infausto discorso di Violante su Salò»
di Al. T. (Corriere della Sera, 14.9.08)
C’è una netta contraddizione tra le parole di Fini e quelle dei suoi colonnelli. Resto preoccupato perché con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma per le politiche che sta attuando Biografia Lo storico Nicola Tranfaglia ha scritto la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate dall’Unità: il cammino del leader del Msi dall’antisemitismo a Salò, fino al passaggio di testimone a Fini
ROMA - Le origini fasciste della destra le conosce bene. Non solo perché è uno storico di fama, ma anche perché è stato proprio lui, Nicola Tranfaglia, a scrivere la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate a giugno dall’Unità. Una storia nella quale ripercorre il cammino del leader del Msi, dall’antisemitismo alla Repubblica di Salò, fino al passaggio di testimone a Gianfranco Fini. Ora Tranfaglia è soddisfatto dalle parole del presidente della Camera. Ma se da una parte tira un sospiro di sollievo, dall’altra si dice ancora preoccupato.
Sollievo perché?
«Perché le dichiarazioni di Fini possono essere interpretate come un decisivo passo avanti sulla strada dell’acquisizione dell’antifascismo come criterio fondamentale per stabilire la democrazia».
Di recente qualche «colonnello» di An si era espresso diversamente.
«E infatti le sue parole mi sembrano in aperta polemica sia con La Russa sia con Alemanno ».
Preoccupato perché?
«Con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma anche per le politiche che sta attuando».
Cominciamo da Fini: il suo giudizio sul fascismo è nettamente negativo.
«Già nel 2003, allo Yad Vashem, disse cose in oggettivo contrasto con quelle che aveva detto fino ad allora. Parlare di male assoluto riferendolo solo alle leggi razziali non tiene conto della natura dispotica del regime, che fece uccidere Gramsci e Matteotti e picchiò fino alla morte Amendola. Ora Fini fa un passo avanti importante».
E Salò? La Russa ha rivalutato chi «combattè in difesa della patria».
«Si trattò di un regime satellite del Terzo Reich che combattè fino alla fine per difendere gli ideali nazisti di Hitler. Bene ha fatto Fini a prendere le distanze».
Ma il fatto che Fini debba intervenire ancora una volta, per sconfessare i suoi, qualcosa significherà.
«In effetti c’è una contraddizione netta tra lui e gli altri dirigenti. Mi sembra che siamo nel caso di un leader che si trova molto più avanti rispetto alle convinzioni della base e ai funzionari».
La Destra di Storace potrebbe avvantaggiarsene?
«Non credo. Sono residui di una destra ormai tramontata che non trova spazio nel Paese. La reazione di Storace è un giusto sigillo alle dichiarazioni di Fini: è l’ennesima speranza di riscossa di un estremismo che però è condannato dalla storia».
Quella di Fini invece è una destra ormai moderata.
«Sì. Mi sembra che ora sia Forza Italia ad aver scavalcato a destra Alleanza nazionale».
C’è ancora qualche resistenza o reticenza da abbattere per Fini?
«Non credo. Mi sembra decisivo riconoscere che l’antifascismo è indispensabile. È il passo fondamentale per uscire dal limbo: finalmente il fascismo non è più la base della destra in Italia. Mi lasci dire un’ultima cosa su Fini».
Prego.
«Le sue dichiarazioni in qualche modo concludono, perché vanno in direzione opposta, il percorso avviato da Luciano Violante nel ’96, con l’apertura ai "ragazzi di Salò". Un discorso infausto. E’ significativo che ci sia questo rovesciamento di ruoli e che, dopo dieci anni, arrivi la smentita di Fini alle parole di Violante».