Appello [del 18.11.2008)
L’ITALIA HA UN SOLO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LA PAROLA "ITALIA" E’ COSTITUZIONALMENTE SOLO SUA.
NESSUNO PUO’ APPROPRIARSENE PER FARNE PAROLA DI PARTITO O SCUDO PER COPRIRE INTERESSI DI PARTE, COME E’ AVVENUTO E CONTINUA AD AVVENIRE SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE D’ITALIA.
NON E’ PIU’ POSSIBILE TEMPOREGGIARE E GIOCARE CON IL FUOCO E CON LA MORTE CIVILE CULTURALE E POLITICA DELL’INTERA ITALIA.
LA "LOGICA" E IL SOFISMA DEL MENTITORE ISTITUZIONALE HA ASSICURATO AL PARTITO "FORZA ITALIA" UNA MAGGIORANZA FALSA E BUGIARDA, CAMUFFATA DA LEGALITA’ E LEGITTIMITA’, E PRODOTTO UNO STRAVOLGIMENTO DELLE STESSE REGOLE COSTITUZIONALI.
NON SI PUO’ PIU’ PROCEDERE OLTRE SU QUESTA STRADA DI DEVASTAZIONE E MORTE CULTURALE POLITICA E CIVILE. E’ L’ORA DI DIRE SEMPLICEMENTE E DECISAMENTE: BASTA!!!
OLTRE C’E’ SOLO LA FINE DI OGNI DIGNITA’ DELL’INTERA ITALIA.
Federico La Sala (18.11.2008)
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 15 marzo 2010)
Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa.
È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole.
Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo.
Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise.
Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco - il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole - si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere.
Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese.
Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge.
Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati.
Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto.
Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto - scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis - cesserà insieme con la barbarie».
I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere.
Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà.
Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano - in forme abnormi - piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri.
Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
È il momento di cambiare
Noi, costretti a regalare il cervello all’estero
di Renato Dulbecco (la Repubblica 19.11.2008)
HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ’75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all’appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all’estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l’immobilismo di un’Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c’è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l’organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all’innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L’Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.
Università serve un G-30
di PIERGAETANO MARCHETTI (La Stampa, 19/11/2008)
Alcuni fatti sono ormai pacifici. La riforma dell’Università dev’essere profonda, a tutto campo. L’Università ha bisogno di una riforma strutturale, di un’iniezione di fiducia e di energia; ha bisogno, a un tempo - come notava Luca Ricolfi su La Stampa (15 novembre) - di tagli e di investimenti. Ha bisogno di rivedere, a volte ribaltare, i comportamenti dei suoi attori; di liberare le eccellenze (e ve ne sono) che vi operano e di bonificare le pure grandi zone malsane. Tutto ciò non si raggiunge con ritocchi, timidi innesti di nuovo, con indiscriminate decimazioni, né con scatti d’orgoglio o di mero volontarismo e nemmeno con l’immancabile «ma il problema non sta qui», che ogni riforma puntualmente suscita. Occorre un grande progetto globale, una mobilitazione di coscienze e d’energie.
Occorre uscire dalle secche dei provvedimenti tampone, del gioco a rimpiattino tra offerte di collaborazione all’opposizione e diffidenza diplomatica. Occorre condurre a sintesi le numerose, e diversissime, proposte salvifiche che ogni «saggio» ed «esperto» quotidianamente offre. Occorre pensare in grande a un’azione complessa, guardare fuori dalla propria provincia, dal proprio orto, o cortile che sia, decantare la riforma dal troppo contingente.
E allora? Esito a evocare un nome e un precedente troppo invocato, ma un’iniziativa tipo Commissione Attali qui si addice. Un G-30 (il numero è casuale: 30 come il voto massimo all’esame) italiano per liberare la crescita dell’università, sviluppando o consolidando anche supporti consultivi già in essere. Un G-30 con rappresentanti di altri Paesi, con qualificate persone in possesso delle plurime competenze che occorrono per risolvere i molti nodi dell’università: dai profili istituzionali a quelli economico finanziari; dalle azioni per la ricerca e la didattica ai profili organizzativi; dal reclutamento alle carriere; dai controlli alle incentivazioni, al valore dei titoli, alle misure per consentire la mobilità degli studenti. Né si invochi il «meglio poco, ma subito» e il timore che un progetto generale insabbi la questione universitaria. I1 rischio è proprio l’opposto. I1 raccordo tecnico con i provvedimenti in discussione non è difficile. Si parta subito con un termine di 3-4 mesi per la conclusione dei lavori, in modo che con il prossimo anno accademico possa decollare la nuova università. Non s’ignori, ma si conosca l’esistente. Si respingano vischiosità e gabbie, ma si pratichi realismo e anche gradualità, se il progetto è saldo e completo. Un G-30 per l’università, non per scavalcare e sostituire la politica, ma per la politica. La quale potrà qui trovare materia d’ispirazione e convergenza su di un terreno che superi le diplomazie degli schieramenti.
Docenti stranieri per salvare l’Università
L’unica vera soluzione sarebbe azzerare tutte le gerarchie accademiche. Ma può farlo solo un dittatore Le proteste contro le decurtazioni indiscriminate non ci inducano a difendere lo status quo Un professore che ha spesso insegnato all’estero affronta i problemi dei nostri atenei falcidiati dai tagli del governo
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica 18.11.2008)
I recenti provvedimenti, in verità parecchio sprovveduti, presi dal governo sulla scuola e sull’università hanno avuto almeno un effetto positivo: quello di stimolare all’autocoscienza studenti e professori, e di attirare l’attenzione della popolazione sulle disastrose condizioni in cui versa l’istruzione nel nostro paese, dalle elementari ai dottorati di ricerca. La protesta contro i tagli indiscriminati ai fondi e al personale, a cui si riducono tutti i provvedimenti citati, non può però essere intesa come una difesa dello status quo e dell’organizzazione del nostro sistema scolastico e universitario, i cui molti anacronismi non trovano l’uguale in Europa e nel mondo.
Per evitare di fare un discorso accademico (un termine che, significativamente, potrebbe essere inteso sia come «universitario» che come «ozioso»), mi sia permesso di riferirmi direttamente alle mie esperienze di studio e di insegnamento all’estero: dopo essere entrato all’Università di Torino nel 1973, dapprima come borsista, e poi via via come contrattista, assistente, associato e ordinario, mi sono infatti parallelamente perfezionato alle Università dell’Illinois e della California negli Stati Uniti (1978-80) e di Novosibirsk nell’Unione Sovietica (1982-1983), e in seguito sono stato un regolare professore a contratto a Cornell (1985-2003), oltre che uno sporadico visitatore di università australiane e cinesi, nelle quali ho trascorso rispettivamente un semestre (1989) e tre (1992, 1995, 1998).
In queste lunghe visite, ho naturalmente avuto occasione di sperimentare l’organizzazione degli studi in paesi sia capitalisti che comunisti, e di scambiare informazioni e opinioni coi colleghi stranieri, sollevando dovunque la sorpresa e l’incredulità per i nostri meccanismi didattici e concorsuali. Primo fra tutti il nostro assurdo sistema di esami, che non solo è tuttora in vigore, ma viene considerato dagli studenti come un diritto acquisito, invece che il residuo fossile di un bizantinismo degno forse di altri tempi, ma sicuramente indegno del nostro. Dovunque abbia insegnato, invece, mi venivano comunicati con mesi di anticipo e in maniera tassativa non solo le date di inizio e di fine dei corsi, e l’orario delle lezioni, ma anche le date degli esami.
Anzi, la data dell’esame, perché esso avveniva inderogabilmente per scritto e in un unico giorno, con una prova uguale per tutti, a distanza più o meno di una settimana dalla fine del semestre: altro che la nostra operetta di prove orali e appelli multipli, che in molti casi arrivano fino a otto all’anno, e permettono agli studenti di ripresentarsi indefinitamente a sostenere lo stesso esame, a distanza magari di anni da quando è stato tenuto il corso! Perché ci stupiamo che metà degli studenti universitari siano fuori corso, quando siamo noi stessi a spingerli a non tenere nessun ritmo e a permettere loro di non dare gli esami nell’unico momento in cui ha senso darli?
Per quanto posso testimoniare io, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Russia, Cina e Australia, e dunque indipendentemente dal sistema economico del paese, chi non passa l’esame al momento giusto deve ripetere il corso l’anno dopo, con tutti i costi (letterali e metaforici) che questo gli comporta. E chi si inalberasse a sentire la parola «costi», dovrebbe meditare su quelli comunque esatti dal nostro sistema: invece di un giorno di esami e uno di correzioni degli scritti, da noi ogni orale richiede infatti una media di mezz’ora per studente, e dunque spesso centinaia di ore per corso, che vanno moltiplicate per il fattore di ripetizione studentesca dell’esame e per il numero dei commissari delle commissioni. Un enorme dispendio di risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate altrimenti.
Con un sistema del genere, che richiedesse di tornare una mezza dozzina di volte l’anno per gli appelli, io non avrei mai potuto insegnare all’estero, né avrei potuto dedicare il mio tempo alle uniche attività che un professore dovrebbe svolgere, e cioè l’insegnamento e la ricerca. A proposito delle quali, va notato che in Italia la progressione di carriera è determinata (almeno ufficialmente, a parte le distorsioni sulle quali torneremo) dalla sola ricerca, mentre gli obblighi universitari riguardano il solo insegnamento: una schizofrenia singolare, che non tiene in nessun conto il fatto che un bravo ricercatore può essere un pessimo insegnante, e viceversa.
In Unione Sovietica si evitava questa schizofrenia permettendo ai professori di ripartire il proprio impegno tra la ricerca presso l’Accademia delle Scienze e l’insegnamento presso l’Università, in proporzioni variabili, che potevano arrivare fino al cento per cento dell’una o dell’altro. Negli Stati Uniti il sistema è più complesso, ma le università in genere pagano lo stipendio soltanto per i nove mesi dell’insegnamento: i rimanenti tre mesi devono essere finanziati dalla National Science Foundation (fatte le dovute proporzioni, un analogo del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche) e da accordi con industrie o centri di ricerca privati.
A proposito di stipendi, una differenza sostanziale è che negli Stati Uniti essi non sono rigidamente legati a un’automatica «progressione di carriera», e vengono invece contrattati individualmente con la propria Facoltà, sulla base di parametri che tengono conto del livello e dell’impegno del docente: in particolare, le valutazioni provengono non soltanto dai colleghi locali e nazionali, ma anche dagli studenti, che alla fine di ogni corso compilano anonimamente dettagliati questionari sulla qualità generale e specifica dell’insegnamento. Una bella forma di tutela, questa, che elimina alla radice la piaga di quei professori terroristi che bocciano sistematicamente la maggioranza degli studenti, senza rendersi conto del fatto che questo la dice più lunga sul livello del loro insegnamento che su quello dell’altrui apprendimento.
Quanto al reclutamento dei professori, e sebbene questo possa sembrare inconcepibile da noi, negli Stati Uniti esso viene deciso dalle università in totale autonomia, anche se ovviamente sulla base della distribuzione di potere inter - e intradipartimentale. I candidati sono invitati a presentare un paio di «lettere di raccomandazione», e possono decidere se riservarsi o no il diritto di visionarle: naturalmente, facendolo si condannano a un giudizio asettico e tutto sommato inutile, mentre non facendolo si assoggettano all’espressione di un giudizio spassionato e spesso determinante, in ogni caso supplementato dai pareri di esperti interpellati direttamente dall’università.
Il processo mira ovviamente a selezionare il migliore, anche perché l’istituzione ha tutto l’interesse a farlo. Il valore di mercato delle lauree e dei dottorati dipende infatti dal livello delle università in cui sono conseguiti, e questo livello è certificato da apposite graduatorie nazionali, ottenute attraverso sondaggi in cui i professori di ciascuna università valutano il livello delle altre, senza poter valutare la propria. Non avendo invece nessun incentivo a selezionare i migliori, le nostre università finiscono spesso di accontentarsi dei peggiori, cooptati in base ai «criteri» clientelistici, nepotistici e favoritistici che tutti conosciamo.
Per continuare con le testimonianze personali, io stesso ho dovuto vincere la cattedra due volte, perché la prima che vinsi fu dirottata a un ricercatore che nel frattempo non era riuscito a diventare associato per mancanza di titoli! Di casi simili ogni professore ne può citare a volontà, ma le mele marce che nel frattempo sono entrate a valanghe in università, ci sono rimaste e hanno proseguito la loro carriera: quel ricercatore, ad esempio, è poi diventato preside di facoltà da qualche parte, e altri saranno arrivati anche più in alto. Fanno dunque tenerezza, per non dir altro, i tentativi del ministro di introdurre meccanismi di sorteggio dei commissari nei concorsi a cattedre: a parte il fatto che queste pensate erano già state adottate nel passato, senza alcun effetto visibile, non si può ovviamente impedire che la mala sorte selezioni proprio le mele marce, né è da esse che ci si può sensatamente attendere un rinnovamento.
L’unica vera soluzione sarebbe un immediato azzeramento di tutte le gerarchie universitarie, ma poiché nemmeno un dittatore potrebbe imporre una misura così radicale, bisogna aspettare che lo facciano gradualmente l’età e la pensione. Nell’attesa possiamo pure sorteggiare i commissari per i futuri concorsi: ma che siano stranieri, che possano portare gradualmente il nostro povero Bel Paese ai criteri e agli standard adottati nel mondo intero, dagli Stati Uniti alla Russia alla Cina all’Australia.
Mancino: ’’Positivo ruolo super partes del presidente della Repubblica’’
Giustizia, Napolitano: ’’Governo e opposizione riflettano su storia Csm’’
Il capo dello Stato alla cerimonia per il 50esimo anniversario della legge istitutiva dell’organo di autogoverno dell’Ordine giudiziario: ’’Approfondiscano la vicenda storica vissuta finora dal Consiglio superiore della magistratura, prima di formulare ipotesi di riforma’’
Roma, 17 nov. (Adnkronos) - Il governo e il Parlamento approfondiscano la vicenda storica vissuta finora dal Consiglio superiore della magistratura, prima di formulare ipotesi di riforma dell’organo di autogoverno dell’Ordine giudiziario. L’invito, sotto forma di pacato suggerimento, arriva dal capo dello Stato Giorgio Napolitano (nella foto), che del Csm è presidente, al termine della cerimonia per il 50esimo anniversario della legge istitutiva a Palazzo dei Marescialli.
Per Napolitano si tratta di "una storia che forse non è abbastanza conosciuta e sulla quale poco si riflette e che, nello stesso tempo, ha sollevato interrogativi e problemi in modo molto serio e obiettivo. Penso che queste considerazioni - insiste Napolitano - potranno illuminare il dibattito, quando ci sarà in Parlamento, tra le forze politiche di governo e di opposizione".
Secondo il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, la previsione costituzionale di attribuire al capo dello Stato la presidenza "si è mostrata nell’esperienza vissuta in questo cinquantenario, lungimirante e stabilizzatrice e ha permesso di superare fasi di stallo che non sono mancate e soprattutto a volte le aspre polemiche nate dal difficile rapporto politica-giustizia". Proprio il ruolo super partes del presidente della Repubblica, ha aggiunto Mancino, "è stato e resta garanzia dell’unicità in un solo organismo della rappresentanza della magistratura sia inquirente che giudicante". L’occasione del 50esimo anniversario del Csm è servita per Mancino a "suggerire un’utile riflessione su alcuni eccessi di autoreferenzialità, soprattutto di inalterabilità delle sue articolazioni e dei suoi organi di interni".
Dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Conso (che è stato anche vicepresidente del Csm) è arrivato un appello a mettere alla base di delibere e pareri la "non appartenenza ad alcuna corrente e non insistere a tutti i costi su propri candidati, ma guardare ad una scelta per il bene della collettività".
L’invito è giunto dopo non poche polemiche e accesi dibattiti politici su un possibile correntismo dell’organo di autogoverno della magistratura; un appello "alla deontologia e all’etica". Per quanto riguarda l’attività della sezione disciplinare del Csm, Conso ha invitato a "tenersi lontano da posizioni preconcette" e ha sottolineato la positività delle pratiche a tutela delle toghe spesso vittima di "ingiuste colpevolizzazioni genericamente formulate".
Ansa» 2008-11-18 21:34
CSM: SPACCATURA SUL PG CASSAZIONE, NOMINATO ESPOSITO
ROMA - Un Csm spaccato ha nominato Vitaliano Esposito, 71 anni, napoletano, nuovo procuratore generale della Cassazione. Attualmente avvocato generale in Cassazione e per cinque anni "difensore" dell’Italia davanti alla Corte europea di Strasburgo, Esposito ha avuto la meglio sull’ex parlamentare Salvatore Senese, che fu tra i fondatori di Magistratura democratica.
Esposito e’ passato con 15 voti, contro gli 11 andati al suo concorrente. Ha ottenuto il sostegno delle correnti della magistratura piu’ moderate, Unicost e Magistratura indipendente, dei laici del centrodestra, del vice presidente del Csm Nicola Mancino, del pg uscente della Cassazione Mario Delli Priscoli e della laica dei Ds Celestina Tinelli. Per Senese hanno votato invece i togati di Magistratura democratica e del Movimento per la Giustizia e tutti gli altri laici del centrosinistra, oltre al primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone.
NAPOLITANO, NESSUNA OPERAZIONE PER COLPIRE COMPONENTI - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a conclusione del plenum del Csm che ha eletto il nuovo Pg presso la Cassazione, ha dato un giudizio positivo sul dibattito al quale ha assistito. "Ho voluto partecipare - ha spiegato il presidente della Repubblica - anche perché avevo un interesse di apprendimento alla dialettica del Csm, visto che ho ancora qualche anno davanti. Ho assistito a un confronto vivace e libero, a un confronto argomentato, in cui ci sono stati soltanto gli argomenti a sostegno dei candidati. Non c’é stata invece nessuna operazione mirata a colpire alcuna componente del Csm". Nel suo intervento conclusivo, Napolitano ha fatto le sue felicitazioni al nuovo Pg della Cassazione Esposito e ha espresso anche apprezzamento per il candidato battuto, Salvatore Senese.
MD, CON SCELTA ESPOSITO SCRITTA UNA PAGINA BUIA - "E’ stata scritta una pagina buia; il Csm è diventato di una parte ed è una sconfitta": Magistratura Democratica, la corrente di sinistra delle toghe, protesta dopo la nomina di Vitaliano Esposito a procuratore generale della Cassazione, preferito a Salvatore Senese, che era invece sostenuto dalla corrente di sinistra. E’ il consigliere Livio Pepino a manifestare il disappunto del gruppo dopo la nomina; ed era stato lui stesso nel dibattito che si è svolto dinnanzi al capo dello Stato Napolitano, ad usare toni molto forti sulla scelta che la maggioranza dei consiglieri si apprestava a fare. Sostenendo che tra i due candidati non c’erano paragoni, tenuto conto della superiorità del profilo professionale di Senese, Pepino aveva parlato del "riemergere di una convetio ad excludendum nei confronti degli incarichi proposti da Magistratura Democratica". E aveva rilevato che la scelta di preferire Esposito a Senese esprimeva la volontà di "cancellare una parte della rappresentanza della magistratura e di trasformare questo Csm in un Consiglio della maggioranza". Un’operazione alla quale, aveva aggiunto, "ci opporremo con la massima energia e durezza".
MANCINO A MD, CONSIGLIO DI PARTE? NON CREDO - Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino esclude che sia stata scritta una pagina buia con la nomina di Vitaliano Esposito al vertice della Procura generale della Cassazione e che il Consiglio sia divenuto di parte. Ai giornalisti che gli ponevano l’interrogativo, alla luce delle contestazioni di Magistratura Democratica, Mancino ha risposto con un "non credo". E ha sdrammatizzato la spaccatura che si é verificata in Consiglio sulla scelta del nuovo Pg. "C’é stata una divisione che mi auguro venga superata" ha detto, ricordando come il plenum si sia diviso anche sulla scelta del primo presidente della Cassazione e del Procuratore generale aggiunto. "La fisiologia di un organo democratico - ha aggiunto - è far ricorso al voto quando non c’é unanimità ".