PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. PER IL 150° DELL’ITALIA UNITA, UN ESAME DI COSCIENZA COLLETTIVO E UN AUTENTICO SCATTO DI CONSAPEVOLEZZA.
CARO PRESIDENTE NAPOLITANO,
CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA...
di Federico La Sala
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
SOCIETA’
Dal panino global al caffè low cost
piccoli Davide sfidano le multinazionali
La Regione Sardegna si schiera con McPuddu’s contro McDonald’s. Carlo Petrini: mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin per rispondere all’arroganza Usa
di MAURIZIO CROSETTI *
"E ITTE funtis narando?...", si chiede adesso il giovane imprenditore Ivan Puddu, in cucina tra un culurgione e una sebada. "Ma questi che stanno dicendo?...". Questi, cioè gli avvocati di McDonald’s che hanno intimato a Puddu di levare il "Mc" davanti al suo marchio "Mc Puddu’s". E lui, obbediente, ha eseguito, diventando nel giro di poche ore un più mite "De Puddu".
Era global, ora è di nuovo local. Una di quelle storielle tristi che fanno morire dal ridere.
"La multinazionale dell’hamburger sostiene che il mio Mc poteva confondere il consumatore. Ma quando? Ho due piccoli negozi alimentari con la mia fidanzata Martina, qui facciamo i culurgiones, sfoglie di pasta ripiena di patate e formaggio, anzi veramente li fa mia suocera. Mica panini imbottiti. Però non importa, non ho soldi da buttare in avvocati". Ora che tutta Italia parla di lui, c’è il sospetto di un’operazione pubblicitaria (involontaria?) colossale: "Ma io non posso mica sfornare migliaia di pezzi, mi limito a offrire una birra agli amici del paese, Santa Maria Navarrese, nell’Ogliastra, felice che si parli di prodotti e realtà locali. La pasta dei culurgiones cuciti con le dita la preparano anche i bambini, la domenica, nelle case sarde, sa di buono e di antico, è un rito di famiglia".
Dunque, Davide impasta e tira la sfoglia addosso a Golia, ai suoi cetrioli indigeribili e alle sue salse tremende. E la Regione Autonoma della Sardegna gli arma la mano contro il gigante. "L’Italia subisce ogni anno danni per 70 miliardi di euro a causa di falsi e imitazioni alimentari: diffidare un commerciante di tipicità sarde per il solo suffisso Mc, suona perciò come una beffa", dice l’assessore all’agricoltura Andrea Prato, nel cognome un destino.
Ma cosa racconta, questa bizzarra vicenda? I colossi patiscono davvero il solletico delle botteghe? "Un’arroganza così stupida, che mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin’s!", risponde Carlin Petrini, presidente di Slow Food. "Il prefisso Mc vale l’italiano De, oppure l’irlandese ’O, dichiara l’appartenenza a una famiglia, mica è un’esclusiva di McDonald’s. Il signor Puddu ha tutta la mia solidarietà: ha fatto male a cambiare nome, qui serve una risposta mondiale contro chi ha rotto proprio le scatole. Anche perché sono sicuro che, in tribunale, McDonald’s perderebbe".
Se Davide mangia i tortelli e Golia vuole imporre il cheeseburger (regalando magari i bicchieri colorati, compreso l’introvabile color azzurro), si tratta di commercio ma anche di antropologia. E allora che ne pensa l’antropologo? "Oltre il ridicolo dell’elefante che se la prende con la formica, questa vicenda segnala l’anomalia di un produttore globale che ignora il locale", risponde il professor Giulio Angioni. "Eppure, è dimostrato che il primo non sopravvive senza il secondo. Poi, mi chiedo se fosse davvero il caso di usare quel prefisso all’americana". Forse, l’errore è copiare i grandi e poi lamentarsi se questi si ribellano. "Perché richiamarsi a McDonald’s?", si chiede infatti lo scrittore Salvatore Niffoi. "Siamo di fronte a un imperialismo alimentare e linguistico, contro la cucina della memoria e il valore della lentezza. La definirei un’aggressività regressiva. È anche vero che certi prodotti popolari stanno diventando di nicchia, costosissimi e per pochi, dunque elitari. E ormai, per campare si va al discount".
E magari i grandi e piccoli negozi possono anche non litigare. "Anzi, è indispensabile convivere", dice Giuseppe Brambilla, amministratore delegato di Carrefour Italia, 1450 negozi, 24 mila dipendenti. "L’ottanta per cento dei nostri punti vendita, non solo ipermercati ma anche piccoli negozi, è gestito da imprenditori: se hanno prodotti locali da valorizzare, penso al pane o alla carne, possono farlo. Quello che conta è offrire qualità corretta a prezzi bassi, arrivando a un risparmio per il cliente di oltre il 15 per cento. I prodotti del territorio sono indispensabili, senza assurdi combattimenti. La nostra logica si basa sulla flessibilità dell’offerta. È chiaro che, talvolta, il piccolo negoziante può soffrirne, però il mercato va in una direzione chiara: ci sono sempre meno soldi da spendere. Nulla contro i prodotti di nicchia, però non tutti se li possono permettere".
Forse la soluzione del problema è un asse da stiro. Quello che l’economista Mario Deaglio ha comprato proprio ieri mattina, in un ipermercato: "Ma la prossima volta, forse, lo ordinerò su Internet e me lo farò consegnare a casa il giorno dopo, risparmiando. La rete mette d’accordo locale e globale, è il famoso terzo litigante che gode: lì c’è posto per tutti, senza limite di scaffali. Detto questo, alla grande distribuzione imporrei due regole. La prima: concedere sempre uno spazio ai produttori locali. La seconda: se chiude il negozietto di paese, si deve aprire un altro punto vendita per non lasciare scoperta la zona. Bisogna fare in modo che i centri commerciali non siano distruttivi". Altrimenti, si va a stirare col computer.
* la Repubblica, 25 agosto 2010
Per un voto onesto servirebbe l’Onu
di ROBERTO SAVIANO *
"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un’affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un’esagerazione, sappia che l’Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?
Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c’è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L’ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l’orgoglio. Ma come è potuto accadere? Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.
Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna. Io non voglio arrendermi a un’Italia così, a un’Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all’Osce, all’Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.
Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov’è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l’imputata Sandra Lonardo Mastella che dall’esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all’ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell’Udc. Così sui manifesti c’è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.
Ci indigniamo per la vicenda dell’ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d’arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.
Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della ’ndrangheta, com’è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l’accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto. Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.
E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di ’ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell’inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell’inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell’ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l’uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.
A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il - o vengono prima del - diritto, valutazioni in merito all’opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all’opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l’antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un’abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un’alzata di spalle come quello d’un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un’altra donna.
Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro? Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.
Dov’è finito l’orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov’è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.
Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze - certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l’obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l’avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.
Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso - meno crudele, certo, ma meno forte e solido - solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un’alternativa vera e vincente. Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un’alternativa. Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.
Del resto, quello che più d’ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate. L’Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.
Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell’offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all’economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.
Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all’Onu, all’Unione Europea, all’Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni. Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto. ©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara
© la Repubblica, 20 marzo 2010
Un Paese oltre ogni limite
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 13/3/2010)
La nuova ondata di intercettazioni resa nota ieri dal «Fatto quotidiano» ci consegna uno spaccato del potere anche peggiore di quel che si poteva immaginare. Di per sé, l’idea che il presidente del Consiglio chiami al telefono il direttore generale della Rai Mauro Masi, il direttore del Tg1 Augusto Minzolini e il membro dell’Agcom, l’Autorità indipendente per le telecomunicazioni, Giancarlo Innocenzi, non è fuori dalla realtà. Ma se solo è verosimile il contenuto dei verbali, riassunti stavolta, e non pubblicati tra virgolette, è il modo in cui li tratta - da servi, neppure da dipendenti! - che fa spavento. Se questo è il livello a cui è giunta la vita pubblica, ancorché nei suoi anfratti nascosti, siamo ormai oltre la «bolgia» infernale denunciata dal Capo dello Stato. Del resto sarebbe proprio Masi a lamentarsi perché certe cose, a suo dire, non accadono neppure nello Zimbabwe.
Malgrado ciò occorre distinguere. Il premier che cerca di orientare il responsabile del principale telegiornale dell’emittente di Stato è solo uno, uno dei tanti politici che tutti i giorni cercano di guadagnare visibilità, ascolto e spazio a dispetto di altri.
Chiunque abbia lavorato come giornalista in Rai sa che un malinteso concetto del servizio pubblico fa credere a ciascuno dei quasi mille membri del Parlamento di essere azionista di viale Mazzini, e in base a questo di poter accampare pretese, senza rispetto, né per chi fa informazione, né per chi deve fruirne come pubblico. Sta alla personalità e alla professionalità di chi riceve le telefonate reagire e salvaguardare, per quanto possibile, l’informazione dalle pressioni indebite. Ma siccome al telefono si ricevono anche notizie, e siccome i politici non hanno sempre ed esclusivamente torto, un giornalista che condivida, in qualche caso, il punto di vista del suo interlocutore, e come Minzolini lo faccia esplicitamente, anche nel caso si tratti del presidente del Consiglio, non è detto che faccia necessariamente qualcosa di male.
Diversi sono i casi di Masi e Innocenzi. In qualche modo, e con opposti atteggiamenti, stando sempre al riassunto delle intercettazioni, sarebbero stati coinvolti nella cancellazione per il periodo elettorale del programma di Michele Santoro «Anno Zero», che si è tirata dietro la sospensione di tutti i più importanti spazi di approfondimento, da «Porta a porta» a «Ballarò» a «In mezz’ora». In questo caso sembra che, mentre il membro dell’Agcom Innocenzi (a lungo dipendente delle emittenti Mediaset prima di approdare a Forza Italia) si adoperava, non solo per favorire, ma per suggerire una via per ghigliottinare il conduttore sgradito al premier, il direttore generale Masi a modo suo resisteva. E si sarebbe piegato solo dopo il silenzio imposto ai talk-show della Rai dalla Commissione parlamentare di vigilanza, e seguito dal regolamento dell’Autorità - peraltro sospeso ieri mattina dal Tar - che lo estendeva anche alle reti tv private. Ma con la collaborazione di uno, o con l’opposizione dell’altro dei due altissimi funzionari, alla fine l’effetto è stato lo stesso: e Berlusconi, anche se non gli spettava, l’ha avuta vinta sul terreno - la politica in tv - su cui da sempre è più sensibile.
Accanto a questa ricostruzione, per forza di cose frammentaria e meritevole di approfondimenti - per accertare, almeno, se Innocenzi debba rispondere di esser venuto meno ai doveri di imparzialità connessi al suo incarico di membro di un’Autorità indipendente - c’è un altro interrogativo che aspetta risposte. Come si sa, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di tutto è partita da Trani, in Puglia. Le indagini riguardavano un giro di usura basato su carte di credito irregolari. Alcuni degli indagati avrebbero minacciato di rivolgersi all’Agcom e alla Rai come consumatori truffati, millantando amicizie che potevano procurargli assistenza da parte dell’Autorità e attenzione giornalistica da parte del Tg1.
Un magistrato che decida di conseguenza di mettere sotto controllo uno (solo uno?) dei membri dell’Agcom dovrebbe sapere che quell’organo non si occupa di protezione dei consumatori. Se non lo sa, appena scopre che ha sbagliato indirizzo, dovrebbe chiudere le intercettazioni. Lo stesso vale per il direttore del Tg1, che tra l’altro sulla storia delle carte di credito ha anche mandato in onda un servizio.
Invece il magistrato rimane in ascolto. E quando si accorge che al telefono dei suoi intercettati c’è Berlusconi, moltiplica le sue attenzioni, anche se è chiaro che né lui né gli altri due c’entrano niente con la storia della truffa. Per questa strada - una via obliqua - s’è arrivati a rivelare le pressioni del premier sull’informazione Rai. Ma - va detto - difficilmente si potrà arrivare fino in fondo e conoscere tutta la gravità e i dettagli del caso, specie ora che è finito nel frullatore della campagna elettorale. Il magistrato che ha continuato a tendere il suo orecchio, pur sapendo che la vicenda non era di sua competenza, non ha dato grande prova di serietà. Anzi, magari senza capirlo - cosa che fa dubitare della sua intelligenza - ha contribuito ad accelerare la legge che vuole tagliare le intercettazioni. D’altra parte, se è così facile spiare il presidente del Consiglio (oggi Berlusconi, ma era successo anche a Prodi), non si troverà più tanto facilmente qualcuno contrario a limitarle. Così, giorno dopo giorno, cresce la confusione e la sensazione è che anche i diritti più elementari e le libertà indispensabili siano messi a rischio. L’Italia sta diventando un Paese senza il senso del limite.
Napolitano: «Rischio scontro tra i poteri dello Stato» *
C’è il rischio di un nuovo scontro tra poteri e organi dello stato. È l’allarme lanciato dal presidente della Giorgio Napolitano all’indomani dell’ultimo attacco del premier Berlusconi ai giudici.
In una lettera al vice presidente del Csm Nicola Mancino il Capo dello Stato scrive: «Da un lato gli sviluppi di delicate vicende processuali e dall’altro l’avvio di un’impegnativa competizione elettorale, rischiano di alimentare nuovamente drastiche contrapposizioni e pericolose tensioni non solo tra opposte parti politiche ma anche - come ho avuto, tempo fa, già modo di rilevare con comprensibile allarme - tra istituzioni, tra poteri e organi dello stato. Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare. Di qui il mio vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel consiglio superiore della magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse. Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione».
A larghissima maggioranza ("no" dei laici del Pdl) approvato
il documento che accusa il presidente del Consiglio
"Attacchi inaccettabili che delegittimano le istituzioni. Il premier non può insultare e intimidire"
"Premier denigra, a rischio democrazia"
Sì del plenum del Csm alla delibera *
ROMA - A larghissima maggioranza, con il solo scontato "no" dei laici del Pdl, il plenum del Csm ha approvato il documento che accusa il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di aver denigrato e delegittimato la magistratura.
Tra i favorevoli alla delibera, il vice presidente del Csm Nicola Mancino. Che fa sentire la sua voce: "Il presidente del Consiglio è un organo istituzionale, ha responsabilità politica, non può usare un linguaggio di insulti e talvolta di intimidazioni nei confronti del libero esercizio dell’attività giudiziaria".
Il documento approvato è la conseguenza dei frequenti attacchi del premier verso le toghe. Un fascicolo che è andato via via ingrossandosi. Attacchi con un unico filo conduttore. Nel mirino del premier erano finiti tra gli altri i magistrati "comunisti" del processo Mills, i pm che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose (accusati da Berlusconi di cospirare contro di lui), le toghe di Firenze che hanno messo sotto inchiesta Guido Bertolaso ("si vergognino"), la Corte Costituzionale e da ultimo le "bande" dei pm "talebani" "che perseguono fini eversivi". All’opposto il Csm elogia "la compostezza" e il "silenzio" opposto ad accuse "generiche e ingiuste" da questi magistrati.
Nei confronti del premier i consiglieri non usano giri di parole: l’assunto di una magistratura che vuole "sovvertire l’assetto istituzionale" è "la più grave delle accuse" e "una obiettiva delegittimazione della funzione giudiziaria nel suo complesso e dei singoli magistrati". E il pericolo per l’equilibrio tra poteri dello Stato, che è il fondamento della democrazia, è legato proprio al fatto che queste affermazioni ("inaccettabili") provengano "dal massimo rappresentante del potere esecutivo". Perché "non è ammissibile una delegittimazione di un’istituzione nei confronti dell’altra, pena la caduta di credibilità dell’intero assetto costituzionale".
I consiglieri si appellano a tutte le istituzioni "perché, sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura, condizione imprescindibile di un’ordinata vita democratica". Un passo indispensabile anche per poter affrontare "serenamente le auspicate riforme in materia di giustizia".
* la Repubblica, 10 marzo 2010