12 dicembre: uno sciopero giusto per una scuola giusta
Alla scuola servono meno chiacchiere, meno hashtag e più risorse. Un Governo che vuole davvero cambiare il Paese deve essere più disponibile all’ascolto e al confronto.
di Federazione Lavoratori della Conoscenza, 01/12/2014
La scuola sciopera il 12 dicembre 2014, insieme a tutto il mondo del lavoro, perché questo è uno sciopero che unisce. È inevitabile quando di fronte hai un Governo autoritario e arrogante, un Governo che, oltre a rappresentare il Paese, ne è anche il più importante datore di lavoro, quello che dovrebbe dare il buon esempio di relazioni corrette tra i propri dipendenti e le loro rappresentanze. Un Governo che, invece, mortifica il lavoro, lo spoglia di diritti riducendolo a un puro fattore di costo, piegato al potere unilaterale delle imprese o della dirigenza nei settori pubblici. E che si mostra incredibilmente sprezzante quando si tratta di confrontarsi con i sindacati che pure rappresentano milioni di persone. E le ragioni dei lavoratori sono tante e le abbiamo presentate in varie forme, insieme a molte proposte concrete.
Sarà sciopero generale, e il Governo se ne farà certo una ragione. L’autunno è iniziato all’insegna del conflitto per tutto il mondo del lavoro e per i settori pubblici in particolare e non poteva essere diversamente. L’ultima provocazione è l’ennesimo blocco dei contratti pubblici. Nei settori della conoscenza, in cui i contratti sono scaduti il 31 dicembre 2009, c’è un’emergenza salariale, determinata anche dal blocco delle retribuzioni e dell’anzianità, che non è stata compensata dai famosi 80 euro. Ma non si tratta solo di retribuzioni. Il rinnovo del contratto è una priorità perché è lo strumento migliore per leggere il lavoro che cambia e per dare gambe alle necessarie riforme di cui, soprattutto nella scuola, c’è bisogno. Ma il contratto è anche lo strumento per ridiscutere i carichi di lavoro, per garantire parità di diritti e salari tra precari e "stabili", per contrattare i regimi degli orari, le modalità di valorizzazione professionale, le forme e le finalità della valutazione. Ed è lo strumento più flessibile e più condiviso per farlo.
Una riforma della scuola ambiziosa come quella descritta nel piano del Governo non si fa a costo zero. I tre miliardi promessi sono una goccia nel mare, quando si auspica una scuola piena di computer e laboratori, dove la multimedialità innova la didattica, inserimento di nuove discipline, potenziamento delle lingue straniere. Tutto questo comporta investimenti. Lo sanno Renzi e Giannini che molte scuole sopravvivono solo per la generosità delle famiglie? Che loro finanziano la scuola dell’obbligo, quella che lo Stato dovrebbe garantire gratuitamente? E siamo radicalmente contrari alla sostituzione delle risorse pubbliche con quelle private. Vogliamo difendere fino in fondo la laicità e la libertà di insegnamento sancite nella Costituzione.
Non siamo in una fiction, servono meno chiacchiere e meno hashtag e più disponibilità all’ascolto e al confronto. Questo ci aspettiamo da un Governo che vuole davvero cambiare il Paese.
Rivoluzione a Maturità e licenza media, laurea per gli asili, sostegno ai disabili: le novità per la scuola
I contenuti delle 8 deleghe approvate per completare la riforma. Novità anche per il diritto allo studio, la rivoluzione del punteggio finale dei maturandi, l’estesione dei servizi all’infanzia
di SALVO INTRAVAIA *
ROMA - Sabato scorso, nella tarda mattina, il governo ha approvato in prima battuta 8 delle 9 deleghe previste dalla Buona scuola. Un provvedimento che arriva il penultimo giorno utile prima della scadenza: la legge 107/2015 dava al governo 180 giorni di tempo dal 16 luglio 2015. Ecco tutte le novità.
Valutazione e nuovi esami di maturità. E’ forse la delega con le novità più seguite da genitori e studenti. Nel 2018, gli esami di maturità contempleranno soltanto due scritti, Italiano e prova di indirizzo. Salterà la terza prova scritta, quella confezionata lo stesso giorno dalla commissione esaminatrice. E verrà rivoluzionato anche il punteggio finale, che resterà in centesimi, attribuendo un peso maggiore alla carriera scolastica che oggi vale 25 punti di credito. Dall’anno prossimo la carriera scolastica, con le attività di alternanza scuola-lavoro, peserà per 40 punti. Gli altri due scritti e il colloquio varranno 20 punti ciascuno. La commissione esaminatrice resta mista: tre membri interni, tre commissari esterni e un presidente, anche questo esterno. E all’ultimo anno gli studenti dovranno obbligatoriamente (pena l’esclusione dall’esame di maturità) sostenere una prova nazionale Invalsi di Italiano, Matematica e Inglese.
Cambia anche l’esame di terza media: tre prove scritte (Italiano, Matematica e lingua straniera) e un colloquio, in luogo delle sei prove scritte di oggi. Perché la prova Invalsi di Italiano e Matematica, che rientrava nell’esame finale, verrà spostata in un altro momento dell’anno e uscirà dalla valutazione finale. Ma sarà obbligatorio svolgerla per l’ammissione agli esami. In forse le novità sulla valutazione della condotta, che dovrebbe essere espressa sulla base di indicatori nazionali relativi allo sviluppo delle competenze personali, sociali e di cittadinanza.
Da zero a sei anni. Quella sul segmento che contempla i più piccoli, da zero a sei anni di età, è la delega che si pone come obiettivo di estendere i servizi all’infanzia: asilo nido, da zero a tre anni, e scuola dell’infanzia, da tre a sei anni. L’offerta comunale di posti per gli asili-nido è oggi irrisoria, inferiore al 15 per cento, e la delega si prefigge di arrivare entro un numero ragionevole di anni al 33 per cento in almeno il 75 per cento dei comuni e di estendere al 100 per cento la fruizione della scuola dell’infanzia, oggi al 94 per cento. Per centrare l’obiettivo, è previsto un fondo da 229 milioni all’anno da distribuire agli enti locali per estendere i servizi. E toccherà al ministero dell’Istruzione coordinare l’articolato sistema di nidi, micro-nidi e sezioni primavera locali attraverso i Poli per l’infanzia, finanziati da fondi Inail da 150 milioni all’anno, che avranno il compito di potenziare la ricettività dei servizi e sostenere la continuità del percorso educativo e scolastico dei bambini e delle bambine. Obiettivi e funzioni dei servizi per l’infanzia verranno determinati a livello centrale, così come la partecipazione economica da parte delle famiglie. E per lavorare nei nidi occorrerà essere in possesso della laurea triennale.
Diritto allo studio. Dopo oltre 70 anni dalla sua nascita arriva il provvedimento che applica l’articolo 34 della Costituzione: "I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso". Le agevolazioni (e gli esoneri) per i capaci e i meritevoli riguardano trasporti, borse di studio, tasse scolastiche, istruzione domiciliare, libri di testo e il potenziamento della Carta dello studente. Per il welfare dello studente sono previsti 10 milioni all’anno e dal 2018/2019 gli studenti delle quarte classi delle superiori verranno esonerati totalmente dal pagamento delle tasse scolastiche. Dall’anno successivo, la misura interesserà anche i ragazzi di quinta.
Inclusione scolastica. Si tratta di uno degli interventi più delicati: la riforma di un vero e proprio fiore all’occhiello dell’istruzione italiana, risalente a 25 anni fa. Il sostegno ai disabili, ma non solo (la delega si occuperà anche dell’inserimento degli alunni con Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) e Bes, con Bisogni educativi speciali) richiederà meno tempo, meno burocrazia per assegnare le risorse (docenti e altre professionalità) alle scuole e assicurerà una maggiore continuità didattica. Ma anche docenti più preparati. Si parte da 200mila alunni disabili, più una vasta platea di alunni disgrafici e dislessici. Cambierà anche l’iter per la certificazione della disabilità - che oggi richiede diversi mesi - semplificata e accelerata attraverso la modifica della commissione medica che certifica l’handicap e la variazione dei criteri stessi della certificazione. Sarà la scuola la scuola che elaborerà il Progetto educativo individuale dell’alunno per l’assegnazione delle risorse. E non sarà solo la gravità della disabilità a determinare le risposte offerte alle alunne e degli alunni dalle istituzioni. Infine, le classi prime di ogni ciclo e le sezioni di scuola dell’infanzia frequentate da soggetti disabili non potranno avere più di 22 alunni.
Le nuove regole per salire in cattedra. L’attuale percorso per insegnare alla media è al superiore è alla sua terza modifica. Con la delega sulla formazione iniziale il governo intende accorciare i tempi, per portare in cattedra insegnanti più giovani, e incrementare il livello di formazione dei futuri prof. Occorreranno 5 anni di laurea magistrale abilitante a numero chiuso. Dopo la laurea sarà possibile partecipare ad un concorso e chi lo supererà si inserirà in un percorso di formazione di tre anni, due dei quali fatti anche a scuola. Il percorso si concluderà, dopo il terzo anno, con l’assunzione a tempo indeterminato.
Promozione e valorizzazione della cultura umanistica. Una delega ad hoc riguarda la promozione della cultura umanistica, in crisi non solo in Italia di fronte ai colpi della cultura scientifica e tecnologica. La Buona scuola, spiegano dal Miur, al centro il made in Italy. E verranno potenziate nei prossimo mesi anche musica e danza, teatro e cinema, pittura, scultura, grafica delle arti decorative e design e scrittura creativa saranno solo alcune delle arti. "Il patrimonio culturale e artistico italiano può essere occasione di crescita per l’Italia se le nuove generazioni sapranno coniugare tradizione e innovazione", continuano da viale Trastevere. Per questa ragione le scuole saranno aperte a contributi esterni per sostenere la cultura umanistica.
La riforma degli istituti professionali. In Meno di dieci anni, gli istituti professionali sono alla loro seconda riforma degli ordinamenti. Ecco perché. Occorre, secondo il governo, "innovare la loro offerta formativa, superando l’attuale sovrapposizione con l’istruzione tecnica, rispondendo anche alle esigenze delle filiere produttive del territorio". La durata dei percorsi professionali sarà sempre di 5 anni, un biennio e un triennio, e gli indirizzi passeranno da 6 a 11: Servizi per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la silvicoltura; Pesca commerciale e produzioni ittiche; Artigianato per il Made in Italy; Manutenzione e assistenza tecnica; Gestione delle acque e risanamento ambientale; Servizi commerciali; Enogastronomia e ospitalità alberghiera; Servizi culturali e dello spettacolo; Servizi per la sanità e l’assistenza sociale; Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: odontotecnico; Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: ottico. Rafforzate le attività di laboratorio e l’alternanza scuola-lavoro. E si partirà dal 2018/2019.
La riforma delle scuole italiane all’estero. Per promuovere la cultura italiana verranno riformate anche le scuole all’estero per allinearle alle novità introdotte dalla Buona scuola. Tra i diversi interventi, per evitare un periodo troppo lungo di distacco dal sistema nazionale, verrà ridotto il periodo massimo di permanenza all’estero dei docenti italiani da 9 a 6 anni. E sono previste "maggiori e nuove sinergie con istituzioni ed enti che promuovono e diffondono la nostra cultura nel mondo", concludono dal ministero.
* la Repubblica, 16 gennaio 2017 (ripresa parziale).
Sciopero 12 dicembre 2014 di Cgil e Uil, stop di 8 ore
Camusso: lavoriamo per risultato positivo. Barbagallo: non temiamo flop
di Redazione *
Lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per venerdì 12 dicembre sarà di otto ore e lo stop riguarderà tutti i settori privati e pubblici, dai trasporti alla scuola. Con lo slogan ’Così non va’ sul Jobs act, sulla legge di stabilità e sulla Pa, i sindacati chiedono al governo di cambiare verso alle politiche economiche e del lavoro, di estendere il bonus degli 80 euro ai pensionati e agli incapienti e di aprire il tavolo per il rinnovo del contratto nel pubblico impiego, fermo al 2009.
Sono 54 le manifestazioni organizzate in tutta Italia, di cui 10 regionali, 5 interprovinciali e 39 territoriali. Al corteo a Roma, da piazza dell’Esquilino a piazza Santi Apostoli, parteciperà il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo; al corteo a Torino, da piazza Vittorio a piazza San Carlo, parteciperà il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Nel trasporto ferroviario lo stop sarà dalle 9 alle 17; in quello aereo dalle 10 alle 18; mentre nel trasporto pubblico locale, nel rispetto delle fasce di garanzia, l’articolazione dello sciopero che interesserà bus, tram e metro, avrà fasce orarie diverse da città a città.
Camusso: lavoriamo per risultato positivo. Barbagallo: non temiamo flop. "Stiamo lavorando perché ci sia una grande riuscita dello sciopero e delle manifestazioni. Registriamo un ampio consenso sulle nostre ipotesi, non ci nascondiamo le difficoltà di uno sciopero nella crisi". Lo ha affermato il leader della Cgil, Susanna Camusso, a proposito delle attese sullo sciopero generale di venerdì 12 dicembre, proclamato insieme alla Uil: "Lavoriamo perché ci sia un risultato positivo, riteniamo possibile essere stupiti dal risultato stesso". "Non temiamo sarà un flop", ha aggiunto il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, rispondendo alla stessa domanda.
Furbetti
Prima dell’articolo 18, Renzi cambi la norma della sua pensione
di Marco Lillo (il Fatto, 02.12.2014)
Matteo Renzi ha sbagliato mira. Nel Jobs act il premier ha puntato l’articolo 18 rendendo più facili i licenziamenti, poi ha sparato sull’articolo 4, permettendo il controllo a distanza e infine ha dato una botta all’articolo 13 per facilitare il demansionamento. Però, guarda caso, non ha sfiorato l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori che riguarda i politici e un politico in particolare: Matteo Renzi.
Se ci fosse ancora una sinistra, se il M5S fosse un movimento di opposizione e non una fabbrica di espulsioni, se i giornali facessero il loro mestiere, Renzi non potrebbe toccare gli articoli 18, 4 e 13 senza prima mettere mano all’articolo 31. Invece, grazie alla distrazione generale, un sedicente ‘leader della sinistra’ può abbattere i diritti dei lavoratori senza toccare i privilegi della Casta. E nessuno fiata.
LA NORMA tabù della quale il Jobs act non si occupa dispone: “I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee regionali, ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato. I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta dell’interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione (...) l’interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni”. La norma si applica anche in caso di distacco sindacale ed era nata per favorire l’accesso alla politica del lavoro dipendente. L’operaio eletto per fare gli interessi della classe operaia non doveva essere soggetto al ricatto del padrone delle ferriere e la legge gli concedeva il diritto all’aspettativa e ai contributi figurativi.
Questa conquista dei lavoratori, purtroppo, è stata usata spesso dai furbetti di ogni parte politica per farsi assumere pochi giorni prima dell’elezione o (in caso di elezione sicura) della candidatura per poi ottenere, a spese dei contribuenti, il diritto a pensione e cure.
Matteo Renzi era solo un collaboratore nella società Chil fondata dal padre Tiziano. Il 27 ottobre 2003, proprio un giorno prima che il suo partito lo candidasse alla presidenza della Provincia di Firenze, come abbiamo scritto sul Fatto: mamma Laura assume in Chil il figlio. Tre giorni dopo l’assunzione, l’Ansa racconta ‘la positiva accoglienza degli alleati della candidatura del giovane Renzi’.
Il 4 novembre, otto giorni dopo l’assunzione, arriva l’ufficializzazione. La Chil assume Renzi a rischio zero: il candidato presidente del centrosinistra è come se fosse già eletto a Firenze e comunque, dopo una quasi impossibile trombatura, Matteo Renzi poteva pur sempre tornare a fare il collaboratore della Chil per non pesare sulle spalle di mamma e papà.
A giugno 2004 Renzi come da copione è stato eletto prima presidente. Nel 2009 è stato rieletto sindaco e così per una decina di anni i suoi contributi li ha pagati la collettività. Solo dopo l’ascesa a Palazzo Chigi, su richiesta del Fatto e nel disinteresse della grande stampa, Renzi si è dimesso dalla Chil con un bel gesto del quale gli abbiamo dato atto.
Questa complicata ricostruzione era noiosa ma necessaria per comprendere perché è vergognoso che Renzi tocchi prima l’articolo 18 dell’articolo 31 dello Statuto. Con quale faccia uno che non ha mai lavorato da dipendente vero di una società, si permette di toccare i diritti dei lavoratori prima di avere toccato il privilegio ingiustificato che oggi gli permette di avere 10 anni di anzianità?
RENZI non è stato un caso isolato. L’articolo 31 è stato usato in circostanze diverse anche da Josefa Idem (indagata) e da tanti altri politici. Si dirà: l’articolo 31 dello Statuto è una norma giusta e non sarebbe corretto abolirla per tutti solo perché qualcuno se ne approfitta.
Si può però prevedere una norma anti-furbetti: l’articolo 31 potrebbe scattare solo se il politico eletto era già dipendente della società almeno un anno prima dell’elezione. Inoltre si potrebbe prevedere una sorta di verifica del diritto per evitare trucchi e truffe. Illustri giuristi renziani si esercitano ogni giorno sull’articolo 18. Provino a trovare la formula giusta per l’articolo 31. Non è una questione tecnica né una questione politica. Questa è una questione di giustizia: prima di toccare i diritti dei lavoratori, Renzi e i suoi devono far sparire dal tavolo tutte le furbate e i privilegi della Casta.
Art. 18, storia di battaglie per i diritti
di Carlo Smuraglia *
Leggo sui giornali, testualmente, un titolo come questo “Addio all’articolo 18” e una dichiarazione del Presidente del Consiglio italiano che nel dichiararsi soddisfatto, afferma “abbiamo tolto l’articolo 18”. Non mi interessano i distinguo, gli accordi raggiunti in Parlamento e le soddisfazioni manifestate. Mi chiedo solo se tutti ricordino la storia e le origini dell’art. 18, pronto a sentirmi dare del conservatore, ma forte del fatto che la storia non si può contestare ed è lì a ricordarci i suoi valori.
La racconterò in modo rapido e sommario, questa storia che comincia nel 1955, con un famoso convegno a Torino sui licenziamenti, che vide riuniti molti dei più importanti giuristi, del lavoro e costituzionalisti, del Paese. Era accaduto che in una grande fabbrica del nord fosse stato licenziato un lavoratore, con espresso riferimento ai motivi “politici” del licenziamento stesso. Questa esibizione “muscolare” provocò una sorta di rivolta morale, nel Paese, tra i lavoratori, gli intellettuali, i giuristi. Ne nacque un convegno in cui tutti misero in discussione la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, come uno dei più consistenti strumenti di potere contro i lavoratori.
Da quel convegno nacque una spinta politica e sindacale, che impiegò degli anni, ma alla fine sfociò nella prima legge italiana sui licenziamenti, quella del 15 luglio 1966, n. 604 (norme sui licenziamenti individuali) che introduceva l’obbligo di motivazione e affiancava alla “giusta causa”, già prevista dal Codice civile, il “giustificato motivo”. La legge costituiva un grande passo avanti, rispetto al potere indiscriminato di recesso, ma aveva un limite, nel senso che tutto si poteva risolvere, in caso di licenziamento ingiustificato, col pagamento di alcune mensilità di retribuzione (come alternativa rispetto alla reintegrazione).
Ci vollero ancora degli anni e le battaglie sindacali del così detto” autunno caldo” per arrivare alla legge 20 maggio 1970, n. 300 (“Statuto dei diritti dei lavoratori”) intitolata significativamente come “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori”. Nello Statuto era compreso l’art. 18, che superava il limite della legge precedente, prevedendo - in caso di licenziamento ingiustificato - la reintegrazione. Un percorso lungo, complesso e ricco di lotte per arrivare alla prima vera applicazione delle norme della Costituzione che riguardano il lavoro, facendo della tutela dei diritti di chi lavora un a questione di dignità e di libertà. Da molti quella fu considerata una conquista di straordinaria importanza. Se nel Convegno del 1955 si era affermato che la Costituzione si era fermata fuori dei cancelli delle fabbriche, con lo Statuto e con l’art. 18 quella soglia era stata finalmente superata.
Un giurista di grande rilievo e di insospettabile indipendenza di giudizio (che pagherà poi con la morte) Massimo D’Antona, poteva affermare che “il merito maggiore dell’art. 18 sta nell’aver tradotto nel linguaggio del diritto [...] l’idea che esiste, e deve essere difeso, un diritto del lavoratore alla conservazione del suo concreto posto di lavoro”. Un altro grande giurista del lavoro, Giorgio Ghezzi scriverà, anni dopo, che “la tutela reale del posto di lavoro è, in sé stessa, un regime di integrale ripristino della continuità giuridica del rapporto di lavoro” e sosterrà che “la totale reintegrazione del posto di lavoro [...] si traduce non nella difesa di un singolo diritto, pur importante e significativo che sia, ma nella salvaguardia dell’intero regime dei diritti soggettivi, sia individuali che collettivi oggi fruibili sul posto di lavoro”.
Questo spiega perché, quando fu proposto da Marco Pannella un referendum abrogativo dell’art. 18, nel 2000, vi fu una vera sollevazione non solo dei lavoratori, ma anche di tanti giuristi e della gran parte della cultura politica del Paese (ricordo, fra l’altro, una lettera della Federazione milanese dei Democratici di sinistra, inviata ad un convegno proprio su quel referendum, in cui si ribadiva con nettezza l’impegno del maggior partito di sinistra per un fermo ”no” alla proposta referendaria).
E’ passata molta acqua sotto i ponti, persino rispetto al momento in cui - proprio sull’art. 18 - Cofferati riempì le piazze di Roma, per esprimere la ferma contrarietà ad ogni ipotesi di riforma. Peraltro, è anche bene ricordare come finì quel referendum per l’abrogazionedell’art. 18 a cui ho fatto riferimento più sopra: il referendum non raggiunse il quorum dei votanti necessario, ma di quelli che andarono a votare il 66,6% si espresse contro l’abrogazione.
Oggi, molti sembrano avere dimenticato questo lungo percorso; e perfino il richiamo alla libertà e dignità, contenuto nel titolo dello ”Statuto”, sembra aver perso molto del suo smalto, nelle menti e nei cuori di tanti. È per questo che vale la pena di ricordare ciò che la storia dovrebbe insegnare, il lavoro, le lacrime e il sangue di quanti hanno sofferto perché fosse - almeno su questo punto - attuata la Costituzione.
So di parlare al vento, ma mi auguro che almeno lui (il vento) abbia buona memoria e tenga conto dei valori e dei significati della storia, sempre utili e necessari per uscire dalla crisi in modo duraturo e soprattutto equo. Intanto, impietosamente, sono usciti i nuovi dati dell’ISTAT, che fissano la disoccupazione al 13% (cioè al peggior livello di questi anni, pari solo a quello del 1977). Lo stesso ISTAT colloca al 43% il tasso di disoccupazione dei giovani; mentre continua la recessione e, sostanzialmente, anche la stagnazione dell’economia e delle attività produttive. È davvero togliendo di mezzo la maggior parte dell’art. 18 che si otterranno risultati positivi per risolvere una crisi di queste dimensioni?
*
Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi
Jobs Act, così cambia l’articolo 18. Nuovi ammortizzatori
Ok definitivo delega, contratto a tutele crescenti, addio co.co.co
di Redazione ANSA, 03 dicembre 2014
Modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, estensione degli ammortizzatori sociali, nuove regole per l’Aspi, cambiamenti nelle norme sui controlli a distanza, introduzione del contratto a tutele crescenti e superamento delle collaborazioni coordinate e continuative: sono le principali novità contenute nella delega sul lavoro (il cosiddetto Jobs act) sul quale il Senato ha votato oggi la fiducia. Dopo l’ok definitivo l’obiettivo è approvare entro dicembre i primi decreti delegati a partire da quelli sul contratto a tutele crescenti e sulla nuova ASpi.
Ecco in sintesi cosa prevede il provvedimento:
CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI PER I NEOASSUNTI: arriva il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio per tutti i neoassunti. Cambia l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con la possibilità di reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamenti illegittimi limitata solo a quelli nulli e discriminatori e a ’’specifiche fattispecie’’ di quelli disciplinari (legati al comportamento del lavoratore). Saranno i decreti delegati a stabilire quali saranno queste fattispecie. Sui licenziamenti per motivi economici (esigenze aziendali) giudicati ingiustificati sarà previsto solo l’indennizzo. Se i decreti arriveranno entro dicembre il nuovo contratto potrà usufruire degli sgravi contributivi previsti dalla legge di stabilità per le assunzioni fatte nel 2015.
RIORDINO FORME CONTRATTUALI E RAPPORTI LAVORO, SUPERAMENTO COLLABORAZIONI: l’obiettivo al quale si vuole arrivare con il contratto a tutele crescenti e’ di farne la modalità normale di assunzione sfoltendo le decine di forme contrattuali e le norme esistenti. Si punta alla creazione di un testo organico di disciplina delle varie tipologie contrattuali e al ’’superamento’’ delle collaborazioni coordinate e continuative.
MANSIONI FLESSIBILI E CONTROLLI A DISTANZA: si rivede la disciplina delle mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento. Il passaggio da una mansione all’altra diventa più semplice (con la possibilità anche di demansionamento). Viene rivista anche la disciplina dei controlli a distanza con la possibilità di controllare impianti e strumenti di lavoro.
RIFORMA CIG: sarà impossibile autorizzare la cig in caso di cessazione "definitiva" di attività aziendale. L’obiettivo e’ di assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori con tutele uniformi e legate alla storia contributiva del dipendente. Saranno rivisti i limiti di durata del sussidio (adesso il tetto e’ di due anni per la cassa ordinaria e di quattro per la straordinaria) e sarà prevista una maggiore partecipazione da parte delle aziende che la utilizzano. Si punta alla riduzione delle aliquote di contribuzione ordinarie (ora all’1,9% della retribuzione) con la rimodulazione delle stesse tra i settori in funzione dell’effettivo impiego.
RIFORMA ASPI: la durata del trattamento di disoccupazione dovrà essere rapportata alla ’’pregressa storia contributiva’’ del lavoratore con l’incremento della durata massima (per ora fissata a 18 mesi a regime nel 2016, ndr) per quelli con le carriere contributive più rilevanti. Si vuole estendere l’Aspi ai collaboratori fino al superamento di questo tipo di rapporto di lavoro. Per le persone in situazione di disagio economico potrebbe essere introdotta dopo la fruizione dell’Aspi una ulteriore prestazione eventualmente priva di contributi figurativi.
RAZIONALIZZAZIONE INCENTIVI ALL’ASSUNZIONE E ALL’AUTOIMPIEGO: si istituisce inoltre un’Agenzia nazionale per l’impiego e si punta a semplificare e razionalizzare le procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro al fine di ridurre gli adempimenti a carico di cittadini e imprese. L’obiettivo e’ svolgere tutti gli adempimenti per via telematica.
NO VACATIO LEGIS: legge e decreti delegati entreranno in vigore il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta. Gli effetti degli interventi normativi saranno oggetto di un monitoraggio permanente da realizzarsi senza maggiori oneri.