[...] Noi, e mi ci metto anche io fosse solo per età e per - Dio solo sa la voglia di poter tornare a manifestare un giorno contro tutto quello che sta accadendo - abbiamo i nostri corpi, le nostre parole, i colori, le bandiere. Nuove: non i vecchi slogan, non i soliti camion con i vecchi militanti che urlano vecchi slogan, vecchie canzoni, vecchie direttive che ancora chiamano "parole d’ordine"[...]
Lettera ai ragazzi del movimento
di Roberto Saviano (la Repubblica, 16.12.2010)
Chi ha lanciato un sasso alla manifestazione di Roma lo ha lanciato contro i movimenti di donne e uomini che erano in piazza, chi ha assaltato un bancomat lo ha fatto contro coloro che stavano manifestando per dimostrare che vogliono un nuovo paese, una nuova classe politica, nuove idee.
Ogni gesto violento è stato un voto di fiducia in più dato al governo Berlusconi. I caschi, le mazze, i veicoli bruciati, le sciarpe a coprire i visi: tutto questo non appartiene a chi sta cercando in ogni modo di mostrare un’altra Italia.
I passamontagna, i sampietrini, le vetrine che vanno in frantumi, sono le solite, vecchie reazioni insopportabili che nulla hanno a che fare con la molteplicità dei movimenti che sfilavano a Roma e in tutta Italia martedì. Poliziotti che si accaniscono in manipolo, sfogando su chi è inciampato rabbia, frustrazione e paura: è una scena che non deve più accadere. Poliziotti isolati sbattuti a terra e pestati da manipoli di violenti: è una scena che non deve più accadere.
Se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta. Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni. Bisognerà organizzarsi, e non permettere mai più che poche centinaia di idioti egemonizzino un corteo di migliaia e migliaia di persone. Pregiudicandolo, rovinandolo.
Scrivo questa lettera ai ragazzi, molti sono miei coetanei, che stanno occupando le università, che stanno manifestando nelle strade d’Italia. Alle persone che hanno in questi giorni fatto cortei pieni di vita, pacifici, democratici, pieni di vita. Mi si dirà: e la rabbia dove la metti? La rabbia di tutti i giorni dei precari, la rabbia di chi non arriva a fine mese e aspetta da vent’anni che qualcosa nella propria vita cambi, la rabbia di chi non vede un futuro.
Beh quella rabbia, quella vera, è una caldaia piena che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti. Quei cinquanta o cento imbecilli che si sono tirati indietro altrettanti ingenui sfogando su un camioncino o con una sassaiola la loro rabbia, disperdono questa carica. La riducono a un calcio, al gioco per alcuni divertente di poter distruggere la città coperti da una sciarpa che li rende irriconoscibili e piagnucolando quando vengono fermati, implorando di chiamare a casa la madre e chiedendo subito scusa.
Così inizia la nuova strategia della tensione, che è sempre la stessa: com’è possibile non riconoscerla? Com’è possibile non riconoscerne le premesse, sempre uguali? Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare. Il "blocco nero" o come diavolo vengono chiamati questi ultrà del caos è il pompiere del movimento. Calzano il passamontagna, si sentono tanto il Subcomandante Marcos, terrorizzano gli altri studenti, che in piazza Venezia urlavano di smetterla, di fermarsi, e trasformano in uno scontro tra manganelli quello che invece è uno scontro tra idee, forze sociali, progetti le cui scintille non devono incendiare macchine ma coscienze, molto più pericolose di una torre di fumo che un estintore spegne in qualche secondo.
Questo governo in difficoltà cercherà con ogni mezzo di delegittimare chi scende in strada, cercherà di terrorizzare gli adolescenti e le loro famiglie col messaggio chiaro: mandateli in piazza e vi torneranno pesti di sangue e violenti. Ma agli imbecilli col casco e le mazze tutto questo non importa. Finito il videogame a casa, continuano a giocarci per strada. Ma non è affatto difficile bruciare una camionetta che poliziotti, carabinieri e finanzieri lasciano come esca su cui far sfogare chi si mostra duro e violento in strada, e delatore debole in caserma dove dopo dieci minuti svela i nomi di tutti i suoi compari. Gli infiltrati ci sono sempre, da quando il primo operaio ha deciso di sfilare. E da sempre possono avere gioco solo se hanno seguito. E’ su questo che vorrei dare l ’allarme. Non deve mai più accadere.
Adesso parte la caccia alle streghe; ci sarà la volontà di mostrare che chi sfila è violento. Ci sarà la precisa strategia di evitare che ci si possa riunire ed esprimere liberamente delle opinioni. E tutto sarà peggiore per un po’, per poi tornare a com’era, a come è sempre stato. L’idea di un’Italia diversa, invece, ci appartiene e ci unisce. C’era allegria nei ragazzi che avevano avuto l’idea dei Book Block, i libri come difesa, che vogliono dire crescita, presa di coscienza. Vogliono dire che le parole sono lì a difenderci, che tutto parte dai libri, dalla scuola, dall’istruzione. I ragazzi delle università, le nuove generazioni di precari, nulla hanno a che vedere con i codardi incappucciati che credono che sfasciare un bancomat sia affrontare il capitalismo.
Anche dalle istituzioni di polizia in piazza bisogna pretendere che non accadano mai più tragedie come a Genova. Ogni spezzone di corteo caricato senza motivazione genera simpatia verso chi con casco e mazze è lì per sfondare vetrine. Bisogna fare in modo che in piazza ci siamo uomini fidati che abbiano autorità sui gruppetti di poliziotti, che spesso in queste situazioni fanno le loro battaglie personali, sfogano frustrazioni e rabbia repressa. Cercare in tutti i modi di non innescare il gioco terribile e per troppi divertente della guerriglia urbana, delle due fazioni contrapposte, del ne resterà in piedi uno solo.
Noi, e mi ci metto anche io fosse solo per età e per - Dio solo sa la voglia di poter tornare a manifestare un giorno contro tutto quello che sta accadendo - abbiamo i nostri corpi, le nostre parole, i colori, le bandiere. Nuove: non i vecchi slogan, non i soliti camion con i vecchi militanti che urlano vecchi slogan, vecchie canzoni, vecchie direttive che ancora chiamano "parole d’ordine".
Questa era la storia sconfitta degli autonomi, una storia passata per fortuna. Non bisogna più cadere in trappola. Bisognerà organizzarsi, allontanare i violenti. Bisognerebbe smettere di indossare caschi. La testa serve per pensare, non per fare l’ariete. I book block mi sembrano una risposta meravigliosa a chi in tuta nera si dice anarchico senza sapere cos’è l’anarchismo neanche lontanamente. Non copritevi, lasciatelo fare agli altri: sfilate con la luce in faccia e la schiena dritta.
Si nasconde chi ha vergogna di quello che sta facendo, chi non è in grado di vedere il proprio futuro e non difende il proprio diritto allo studio, alla ricerca, al lavoro. Ma chi manifesta non si vergogna e non si nasconde, anzi fa l’esatto contrario. E se le camionette bloccano la strada prima del Parlamento? Ci si ferma lì, perché le parole stanno arrivando in tutto il mondo, perché si manifesta per mostrare al Paese, a chi magari è a casa, ai balconi, dietro le persiane che ci sono diritti da difendere, che c’è chi li difende anche per loro, che c’è chi garantisce che tutto si svolgerà in maniera civile, pacifica e democratica perché è questa l’Italia che si vuole costruire, perché è per questo che si sta manifestando. Non certo lanciare un uovo sulla porta del Parlamento muta le cose. Tutto questo è molto più che bruciare una camionetta. Accende luci, luci su tutte le ombre di questo paese. Questa è l’unica battaglia che non possiamo perdere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL CASO
Università, Napolitano: sì a riforma ma riscontra "criticità" nel testo
Dubbi tecnici su alcuni articoli della legge varata dal Senato il 23 dicembre tra le proteste di studenti e docenti. Gelmini: "Osservazioni non su elementi portanti". Gli studenti: "Chiediamo a rettori di disobbedire" *
ROMA - Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi promulgato la legge di riforma (testo) 1dell’università approvata dal Parlamento il 23 dicembre 2, rilevando la presenza di "criticità" nel testo. In una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri il capo dello Stato auspica infatti che "con successiva legislazione ministeriale" si risolvano le "talune criticità" riscontrate nel testo. Già in occasione dell’approvazione della legge in Senato, il Quirinale aveva espresso dubbi 3su alcune incongruenze tecniche del testo, poi specificate nella lettera.
In particolare, i rilievi del presidente riguardano l’articolo che riguarda la concessione di borse di studio anche su base della "appartenenza territoriale". Punto voluto dalla Lega nord nella riforma e considerato dal Quirinale a rischio incostituzionalità. Il presidente della Repubblica fa poi un preciso riferimento agli odg sul "sottofinanziamento del sistema universitario italiano" rispetto alla media europea.
Nella lettera al presidente del Consiglio, Napolitano sollecita quindi il governo a un confronto con tutte le parti per superare le criticità che permangono nel testo. E ricordando in modo inusuale il faticoso percorso della riforma, auspica che "il governo ricerchi un costruttivo confronto con tutte le parti interessate". Lo scontro si consegna dunque alla prossima fase, quella dei decreti attuativi.
Gelmini: "Osservazioni non su punti portanti". Ma il rettore... Per il ministro Gelmini le osservazioni del presidente della Repubblica non costituiscono una critica di sostanza alla sua riforma. ’’Esprimo la mia piena soddisfazione per la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica. Terremo, insieme al presidente Berlusconi, in massima considerazione le sue osservazioni. Appare evidente dall’analisi dei punti rilevati che nessuno di essi tocca elementi portanti e qualificanti della legge. Aver approvato la legge sull’università è un segnale positivo per il Paese perché dimostra che, seppur tra mille difficoltà, è possibile realizzare le riforme’’ ha detto il ministro dell’Istruzione.
Commenta il rettore di Sassari Attilio Mastini: "Non credo proprio che i rilievi del presidente della Repubblica siano secondari o irrilevanti. Si veda il richiamo ai finanziamenti, al dialogo con le altre componenti. E poi, per quanto riguarda l’articolo 6, il presidente riconosce la fondamentale funzione docente svolta dai ricercatori e afferma la necessità che il titolo aggregato non venga assegnato a intermittenza mese per mese, cancellandolo alla fine di ciascun anno accademico".
Il testo integrale della nota di Napolitano. "Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi promulgato la legge recante "Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonchè delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario". Il Capo dello Stato - si legge in una nota diffusa dal Quirinale- ha contestualmente indirizzato la seguente lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri:
Promulgo la legge, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, non avendo ravvisato nel testo motivi evidenti e gravi per chiedere una nuova deliberazione alle Camere, correttiva della legge approvata a conclusione di un lungo e faticoso iter parlamentare. L’attuazione della legge è del resto demandata a un elevato numero di provvedimenti, a mezzo di delega legislativa, di regolamenti governativi e di decreti ministeriali; quel che sta per avviarsi è dunque un processo di riforma, nel corso del quale saranno concretamente definiti gli indirizzi indicati nel testo legislativo e potranno essere anche affrontate talune criticità, riscontrabili in particolare negli articoli 4, 23 e 26.
Per quel che riguarda l’articolo 6, concernente il titolo di professore aggregato - pur non lasciando la norma, da un punto di vista sostanziale, spazio a dubbi interpretativi della reale volontà del legislatore - si attende che ai fini di un auspicabile migliore coordinamento formale, il governo adempia senza indugio all’impegno assunto dal Ministro Gelmini nella seduta del 21 dicembre in Senato, eventualmente attraverso la soppressione del comma 5 dell’articolo. Per quanto concerne l’art. 4 relativo alla concessione di borse di studio agli studenti, appare non pienamente coerente con il criterio del merito nella parte in cui prevede una riserva basata anche sul criterio dell’appartenenza territoriale. Inoltre l’art. 23, nel disciplinare i contratti per attività di insegnamento, appare di dubbia ragionevolezza nella parte in cui aggiunge una limitazione oggettiva riferita al reddito ai requisiti soggettivi di carattere scientifico e professionale. Infine è opportuno che l’art. 26, nel prevedere l’interpretazione autentica dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 2 del 2004 sia formulato in termini non equivoci e corrispondenti al consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale.
Al di là del possibile superamento - nel corso del processo di attuazione della legge - delle criticità relative agli articoli menzionati, resta importante l’iniziativa che spetta al governo in esecuzione degli ordini del giorno Valditara e altri G 28.100, Rusconi ed altri G24.301, accolti nella seduta del 21 dicembre in Senato, contenenti precise indicazioni anche integrative - sul piano dei contenuti e delle risorse - delle scelte compiute con la legge successivamente approvata dall’Assemblea. Auspico infine che su tutti gli impegni assunti con l’accoglimento degli ordini del giorno e sugli sviluppi della complessa fase attuativa del provvedimento, il governo ricerchi un costruttivo confronto con tutte le parti interessate".
Gli sudenti: "Bloccheremo riforma negli atenei". Non hanno alcuna intenzione di arrendersi, neanche dopo la firma del Ddl, gli studenti universitari che promettono ancora battaglia: ’’Non siamo sorpresi. - commentano gli studenti di Link-Coordinamento Universitario - Il presidente Napolitano ci ha ricevuto e ascoltato con rispetto, ma non ci aspettavamo che fosse lui a dare battaglia al posto nostro. A bloccare la riforma Gelmini dovranno essere gli studenti, i dottorandi, i precari, i ricercatori, i tecnici-amministrativi, tutti coloro che vivono sulla propria pelle la schiavitù della precarietà e il furto di futuro operato da questa riforma’’. Il piano della mobilitazione, fanno sapere gli studenti, si sposta dal parlamento verso il governo, con l’attesa dei decreti attuativi, e verso gli atenei, con l’adeguamento degli statuti universitari alla nuova legge. ’’Chiediamo fin da subito a tutti i rettori di disobbedire, e su questo daremo battaglia. - annunciano - Costruiremo proposte di statuti universitari in grado di bloccare la riforma e cambiare l’università dal basso’’. Link fa poi notare che una delle ’’criticita’’’ individuate dal presidente Napolitano riguarda l’emendamento della Lega Nord che riserva ai residenti in una regione una quota delle borse di studio: ’’Il presidente ha sottolineato come quella norma razzista sia completamente incoerente con una legge che dice di favorire il merito - spiegano -. Ora tocca al governo rispettare la Costituzione e cancellare la norma razzista nel decreti attuativi’’. Di ’conquista’ degli studenti in merito alle osservazioni di Napolitano parla Luca Cafagna, 25 anni, studente di Scienze Politiche della Sapienza di Roma: ’’Le osservazioni del presidente della Repubblica alla legge Gelmini sono una piccola conquista del nostro movimento’’.
L’Udu - Unione degli studenti universitari, commenta così la firma di Napolitano. ’’La Gelmini non ha mai deliberatamente ascoltato le ragioni della protesta studentesca, non ha mai ricevuto documenti di organi accademici favorevoli alla riforma se non dei Rettori. Questo Governo si e’ chiuso in se’ stesso ed appeso a tre voti ha scelto di proseguire nell’approvazione di una legge quadro stravolgente per il sistema universitario e destrutturante’’. "Ha avuto piu’ di un anno di tempo per ascoltare le nostre ragioni, l’apertura al confronto dopo l’approvazione di una legge quadro e’ propria di una turista della democrazia. Continueremo la nostra mobilitazione per raccogliere, come abbiamo fatto in questi mesi, lo sdegno verso un Governo autoreferenziale e autoritario’’.
Di Pietro: "Legge iniqua", Pd: "Governo apra confronto". ’’Il rispetto istituzionale che abbiamo verso la Presidenza della Repubblica ci impone di prendere atto della decisione di Napolitano. Resta il fatto che riteniamo questo provvedimento ingiusto, iniquo ed incostituzionale’’. Lo afferma in una nota il Presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che aggiunge: ’’Ci auguriamo, ad ogni modo, che i dibattiti e le riflessioni successive possano frenare la portata devastante che caratterizza la riforma". Della necessità che il Governo apra un confronto con le parti interessate parla la capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera Manuela Ghizzoni: ’’La lettera del Presidente della Repubblica conferma la grande attenzione e sensibilità riposta dal Quirinale. Altresì impegna il governo a un confronto con le parti interessate in tutta la complessa fase attuativa della legge Gelmini’’.
* la Repubblica, 30 dicembre 2010
Le ragioni delle parole più forti delle pietre
di Roberto Saviano (la Repubblica, 23.12.2010)
È bellissimo vedere le ragioni di questo movimento che fanno molta più paura, al governo, delle pietre. È stato bellissimo vedere come questo movimento abbia dimostrato che la violenza non gli appartiene. Le manifestazioni pacifiche di ieri sono state la dimostrazione che tutto è diverso, che tutto è nuovo. Interpretare questa manifestazione con le categorie del passato per cercare di spiegare cosa sta accadendo nelle piazze e nelle università è miope.
In concreto è stato bellissimo vedere quello che sta accadendo: è qualcosa di nuovo, qualcosa anche di migliore rispetto al passato. Sono felice di averci visto giusto quando ho scritto la lettera ai ragazzi del movimento (uscita su Repubblica il 16 dicembre, ndr) cercando di riflettere sulla strategia e sul fatto che io - quasi loro coetaneo, ho trent’anni - avevo guardato la violenza come un’enorme regalo da fare al governo. Questa volta infatti la strategia è stata diversa, le ragioni hanno vinto sui sassi e sui sampietrini.
Insomma il movimento è riuscito a trovare gli anticorpi al suo stesso interno: gli anticorpi alla violenza. E sta crescendo e sta diventando sempre più consapevole e il governo lo considera sempre più pericoloso: pericoloso perché pacifico, pericoloso perché coinvolgente, pericoloso perché è diventato un soggetto con cui non può più rifiutarsi di parlare e le cui richieste non possono rimanere senza risposta. intervento audio su Repubblica tv
Quei ragazzi inascoltati
Il Senato affidato alla matriarca leghista Rosi Mauro «è la pucchiacchia in mano a creatura». È la sceneggiata, in mezza giornata già un cult di youtube, sul contrasto tra la più sofisticata macchina procedurale e le maniere sbrigative di una volitiva massaia rurale che ha cercato di governare il Senato con la stessa sapienza con cui si governano e si cucinano i conigli. Ma è anche uno dei momenti probabilmente più maschilisti del nostro Parlamento.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 22.12.2010)
Questo governo sa come manovrare intrighi e gestire affari opachi, ma non sa fare la cosa più normale e importante: tenere una relazione di ascolto riflessivo con i cittadini che fuori dalle istituzioni vogliono far sentire la loro voce a chi è stato eletto per prendere decisioni nel nome di tutti. La violenza che si è scatenata nei cortei degli studenti è stata manipolata ed usata per criminalizzare tutto il movimento, giustificare il pugno duro della coercizione e imporre il volere di chi comanda. La risposta al dissenso che questa maggioranza dei 3 voti di limpido consenso dà, è quanto di più improvvido e autoritario; è la dimostrazione del fatto che gli studenti non sono considerati degni interlocutori da questa maggioranza, la quale probabilmente mette in conto che quelli degli studenti non sono voti suoi. Punire gli studenti è come punire l’opposizione tutta, quella parte del Paese che questo governo non rappresenta, che vuole anzi umiliare e reprimere; quella parte che non applaude e che è rubricata come "comunista" e va dalle toghe non domate, ai giornali non padronali, agli operai non marchionisti. Gli studenti sono in buona compagnia. Le loro esigenze sono senza voce, trattate come una questione di "sicurezza".
Eppure le esigenze espresse dagli studenti non sono corporative, non chiedono prebende, l’azzeramento di un mutuo o promesse di posti ad personam. Chiedono cose politiche: che questo progetto di riforma venga fermato e rivisto nella sostanza perché è pessimo per gli studenti di questa generazione e di quelle successive. A queste obiezioni, la politica che siede a Palazzo Chigi e in Parlamento non ha risposte se non il dileggio e il pugno duro. Da settimane gli studenti dicono all’opinione pubblica una cosa molto semplice: manca in questa proposta di riforma una visione di futuro positiva e di crescita per i giovani, ovvero per il Paese. Un riforma che restringe e rende asfittica la ricerca, che monitora la didattica con metodi da contabilità aziendale, che non riesce a dare il senso di un’università aperta al ricambio generazionale per merito provato e documentato. L’immagine dell’università che il ministro Gelmini ci propone è indifferente al mondo della ricerca e soprattutto ai principi scritti nella Costituzione che parlano di eguali opportunità e di cultura come patrimonio nazionale da proteggere e alimentare.
Da anni, i vari governi che si sono insediati, di destra come di sinistra, hanno voluto lasciare alla storia una loro "riforma" dell’università. In molti casi, hanno sbriciolato l’università che c’era nelle risorse e avvilita nelle potenzialità, senza riuscire a renderla migliore. Il risultato di questo sperpero sistematico è il seguente: le scuole e i licei formano generazioni di fuoriusciuti; le tasse dei contribuenti italiani contribuiscono al futuro dei Paesi stranieri. Dal Belgio alla Spagna, dall’Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada o al Brasile: dovunque si trova la stessa realtà, quella di studenti italiani espatriati, non per cercare l’Eldorado o perché figli di papà in viaggio, ma perché bravi e senza futuro degno e onesto nel loro Paese. È questa la realtà, il fatto di riferimento che l’algida Gelmini dovrebbe considerare quando trincera la sua riforma con la rituale dichiarazione che si tratta di una "buona riforma". Non si fa una riforma che è "buona". Si fa una riforma che è ottima, la migliore possibile data la situazione reale alla quale deve rispondere. Una riforma "buona" in questa contingenza è cattivissima: per il sistema di reclutamento, per la subordinazione dei criteri del valore a quelli aziendali, per un’intollerabile decurtazione delle risorse. Zero Euro. È questo il senso della riforma Gelmini. L’anorresia dei cervelli.
Di fronte a questi problemi, che gli studenti comprendono benissimo, la risposta del governo è in linea con la sua identità politica: paternalismo («i genitori facciano stare a casa i figli», come se i ragazzi non fossero adulti e liberi di decidere) e autoritarismo. Infantilizzazione e dominio repressivo; anche a costo di rispolverare l’arresto preventivo, un istituto che con le carte dei diritti non ha alcuna relazione; mentre ce l’ha con il regime del Ventennio nero: quando Mussolini andava in visita in una città si mettevano preventivamente in carcere i sospetti sovversivi per rilasciarli quando il duce se n’era andato. Le soluzioni proposte dal governo non sono né impreviste né irrazionali perché l’autoritarismo è l’esito certo quando si interrompe la relazione tra cittadinanza e rappresentanza. Non la si chiami democrazia autoritaria però, perché la democrazia autoritaria è un non-senso. Ciò che può esistere e c’è, è un esecutivo autoritario che soffoca la democrazia.
Cultura e cannone
Mentre si votano i tagli all’Università l’Italia paga oltre 15 miliardi per aerei militari
di Daniele Martini (il Fatto, 22.12.2010)
Si chiama Joint Strike F-35, è un cacciabombardiere monoposto sofisticatissimo, definito dai tecnici di “quinta generazione”. Costa uno sproposito, 130 milioni di euro ad esemplare, e per l’Italia sta diventando la pietra dello scandalo. Per diversi motivi. Primo: nonostante il bilancio dello Stato pianga e il governo tagli in ogni direzione, infierendo soprattutto nei confronti dell’Istruzione, dai fondi per l’Università alla ricerca, dalle borse di studio alle pulizie delle aule, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è in procinto di firmare il contratto per la fornitura della bellezza di 131 aerei, dando un’accelerata finale a un impegno assunto 12 anni fa dal governo presieduto da Massimo D’Alema. Costo stimato: oltre 15 miliardi di euro, la spesa più alta in assoluto decisa da un governo italiano per un aereo militare. Azienda fornitrice la Lockheed Martin, marchio che in Italia fa venire alla mente un’altra stagione e un altro scandalo avvenuto tra il 1972 e il 1976, collegato anche quello a una fornitura di aerei, i mastodontici C 130 da trasporto militare. Una vicenda in cui rimasero coinvolti, tra gli altri, lo Stato maggiore dell’Aeronautica e il presidente della Finmeccanica, Camillo Crociani, che dovette rifugiarsi in Messico. Gli spiccioli di Alenia
NELLA LEGGE diStabilità (la ex Finanziaria) sono già stati stanziati i primi 471 milioni per dare all’Italia la possibilità di presentarsi al tavolo per la firma definitiva, più altri 185 milioni che sono la prima tranche di un contratto da 800 milioni che lo Stato ha stipulato con la ditta costruttrice Maltauro per la realizzazione nell’area dell’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara, di hangar e strutture per la produzione della parte italiana dell’aereo (le ali) riservata all’Alenia, società posseduta al 100 per cento da Finmeccanica, a sua volta quotata in Borsa, posseduta solo per un terzo dalla parte pubblica e per il resto da privati. In pratica lo Stato sta pagando per intero i costi per le strutture produttive di un’azienda in larga misura privata. L’avvio dei lavori è previsto per l’inizio di gennaio.
Secondo motivo di perplessità: per recuperare le risorse per gli F-35, il ministro non esita a contrarre gli stanziamenti per l’acquisto di un altro aereo da combattimento, l’Eurofighter Typhoon, anche questo molto costoso, ma che almeno aveva il merito, dal punto di vista economico e strategico, di essere prodotto da aziende europee. L’Eurofighter è frutto della cooperazione tra Italia, Germania, Inghilterra e Spagna e dà lavoro a 100 mila persone in Europa, piùdi20milainItalia.Equando fu lanciato diversi anni fa, fu presentato come un esempio del tentativo di avviare un progressivo sganciamento strategico dal dominio americano sul versante della tecnologia e della produzione bellica. In confronto, gli F-35 americani lasciano molto meno all’Europa e in particolare all’Italia (ufficialmente considerata solo “partner di secondo livello”), poco più che le briciole, 600 operai, secondo le prime stime, più 2 mila tecnici, in parte spostati dalle linee dell’Eurofighter. Un gran saluto al caccia “europeo”
IL GOVERNO italiano non ha cancellato del tutto gli acquisti del caccia europeo, ma li sta riducendo parecchio e dopo averne comprato una quarantina di esemplari, ne acquisirà altri 60 fino al 2018, ma cancellerà la fornitura successiva, quella che i tecnici chiamano la “tranche 3B”. Per rientrare un po’ dei costi altissimi sostenuti finora per l’Eurofighter, l’Italia sta cercando insieme ad altri governi europei (Spagna, Germania, Gran Bretagna) di piazzarlo in mezzo mondo, dalla Romania all’India, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi al Qatar.
Terzo motivo di dubbio: le caratteristiche specifiche dell’aereo e i ripetuti rallentamenti della fase di sperimentazione dei prototipi. Secondo Silvia Corti, ricercatrice dell’Archivio Disarmo, l’F-35 è un aereo “dotato di grande forza distruttiva e in grado di trasportare armi nucleari”, requisiti che a prima vista non si attagliano molto alle forze armate italiane. Secondo un altro esperto,Francesco Vignarca, perfino i massimi vertici Lockheed hanno ammesso che lo sviluppo del progetto è rallentato da “grossi problemi tecnici e industriali”, mentre l’organismo tecnico di controllo del parlamento Usa, ha espresso riserve sull’efficacia di un progetto d’arma così mastodontico. Aumentano le spese
L’ULTIMO ELEMENTO di dubbio consiste nel fatto che l’acquisto dei costosissimi F-35 avviene nell’ambito di un nutrito programma di spese militari approvato alcune settimane fa dalla commissione Difesa del Senato (con l’astensione del Partito democratico) nel corso di una seduta lampo durata meno di un’ora. In quell’occasione fu dato il via libera all’acquisto di un arsenale: 10 elicotteri per l’Aeronautica (200 milioni di euro nel periodo 2010-2018), siluri per sommergibili (125 milioni), armamenti controcarro da montare sugli elicotteri d’attacco (altri 200 milioni), una nave di supporto subacqueo in grado di sostituire la vecchia Anteo (125 milioni). Poi 22 milioni per l’acquisto di mortai da 81 millimetri, e infine l’avvio di un sistema di informazioni fra diversi paesi, il Dii (Defense Information Infrastructure), valore 236
Dategli una lezione
di Marco Rossi Doria (l’Unità, 20.12.2010)
Mercoledì il Parlamento andrà alla votazione finale sulla legge universitaria. A pochi giorni dal 14 dicembre migliaia di persone di nuovo protesteranno. C’è di che preoccuparsi. Per quel giorno e, ben più in generale, per il clima nel Paese. In particolar modo, per quello tra generazioni che, come per tanti insegnanti, è stata la mia ragione di lavoro e di riflessione per molti anni. Non ho voglia di fare appelli né sermoni o rimbrotti. Perché penso che questo sia il tempo di ragionare, con passione civile. Nel farlo non penso affatto che ci si debba rivolgere solo ai giovani. Penso, invece, che ci si debba rivolgere a tutti e, dunque, a se stessi e agli altri. A tutti i cittadini. Che abbiano quindici, diciotto, venticinque o trenta anni o quaranta o sessanta o ottanta. In questa riflessione comune si deve partire - in primo luogo - dal riconoscere una cosa del tutto evidente, che ha cambiato il paesaggio sociale, politico e umano nel quale siamo chiamati a vivere. E che è questa: noi persone «più grandi» stiamo, oggi, consegnando a chi è nato dopo di noi un’Italia peggiore di quella che abbiamo ricevuto in consegna dai nostri genitori.
Peggiore per condizioni materiali e per quantità e qualità delle concrete possibilità di lavoro, di
reddito, di studio.
Peggiore in termini di accesso ai crediti materiali e spirituali in vista dello
sviluppo economico e civile e dell’imprenditorialità umana.
Peggiore per quanto riguarda il
riconoscimento del merito e la possibilità di fare parte della ricerca delle soluzioni ai problemi della
vita comune.
Peggiore per presidio delle procedure e delle regole della civile convivenza e per la
tenuta di ritualità e occasioni comunitarie.
Peggiore in termini di protezione di fronte
all’ineguaglianza e alle avversità della vita.
Peggiore riguardo al fare fronte alle normali fragilità,
difficoltà personali e alla possibilità di commettere errori.
Peggiore per estensione - reale e
percepita - degli orizzonti di speranza.
È nel bel mezzo di questo paesaggio - impoverito, depresso, che crea ansia e rancori quotidiani, paure e rabbia diffuse e persistenti - che questa destra si è rivolta ai giovani chiedendo loro di approvare le nuove norme che li riguardavano e omettendo, tuttavia, di fornire occasioni per confrontarsi nel merito. «Noi facciamo le leggi secondo quanto crediamo perché abbiamo vinto le elezioni. Ma voi leggetele bene e convincetevene. Se non lo fate, vi state facendo strumentalizzare». Così, non è stata neanche considerata la civile possibilità che i destinatari di misure di governo possano essere in disaccordo ma non per questo preda di strumentalizzazioni, che possano essere portatori di osservazioni e proposte importanti o utili, che possano notare incongruenze tra intenzioni e mezzi.
Dietro questo vi è un’idea povera - e involutiva in termini democratici - della politica: la politica si esprime e decide secondo i rapporti di forza. Punto. Altre volte la destra ha aggiunto a questo una miserevolezza umana: «Studiate e non manifestate. Pensate all’amore e non ai cortei». Come se fossero cose in contraddizione. Mentre non lo sono mai state.
Tale miserevolezza rivela un’assenza di esperienza e curiosità umane che impediscono di pensare che si può, al contempo, studiare e partecipare alle cose pubbliche e che è tanto grande la gioia di stare insieme, parlarsi, cercare comunità, incontrarsi e domandarsi del proprio tempo che viene esaltata la possibilità di amicizia e anche di incontro amoroso.
Ma - va pur detto - anche nell’opposizione troppo spesso, al di là di intenzioni o meno, è prevalso il riflesso teso a ricondurre la protesta alla vicenda politica contingente, alle sue esigenze particolari, al suo gergo. Da tutto questo deriva un pensiero, diffuso nelle nuove generazioni, che è legittimo: non siamo rappresentati.
E’ in questa atmosfera che si manifesterà di nuovo. L’ombra del 14 dicembre peserà. Perché ha svelato tutta la gravità della scena italiana riguardo il rapporto tra generazioni. Tanto che tantissimi hanno sentito di condividere l’esplosione di rabbia anche senza partecipare alle sue azioni. Non si è trattato di provocatori isolati. Non si può rimuovere la forza di una rabbia radicata e diffusa. Però non si può neanche nascondere che le cose sono complicate dal fatto che molti indizi fanno sospettare che qualcuno ha voluto tessere trappole brutte e pericolose. E che a farlo non siano stati né la stragrande maggioranza dei manifestanti né i poliziotti. Tali segni, in questi giorni, vengono purtroppo confermati dall’insistenza su un possibile esito terribile per la giornata di mercoledì prossimo. Si tratta di una profezia urlata. In particolar modo da una componente specifica della destra di governo, che ha una storia politica mai rivisitata, fatta anche di brutte vicende di piazza nella propria giovinezza, rimosse e mai rielaborate.
Di fronte a questa insistenza su un esito nefasto della prossima protesta acquista ancor maggiore importanza una riflessione su come si manifesterà mercoledì. E diventa ancor più urgente il grande bisogno di smentire una storia italiana che ha spesso depotenziato grandi movimenti, riducendone una parte ai rituali prevedibili dello scontro di piazza e una ben più grande alla mancanza di parola. Questa smentita è forse finalmente a portata di mano. Perché questo movimento sta insegnando a noi - altro che sermoni nostri ai giovani! - una nuova modalità di azione civile. I titoli dei libri davanti ai cortei, il salire sulle gru e sui tetti, il mostrarsi insieme ai monumenti sono stato questo.
E, a me come a tanti, è venuto alla mente Gandhi. È lì che vanno trovati i modelli di azione potente che servono a fare valere le ragioni di chi è escluso dal futuro. E penso quanto sarebbe potente se mercoledì - anziché porsi il problema di forzare la zona rossa del centro di Roma, messa lì ed estesa ad arte per attirare nelle vecchie trappole - si decidesse di sdraiarsi per terra, nella Capitale e in cento altre città. Vestiti di bianco per bloccare tutto, in silenzio. Come suggerito dalle nevicate di questi giorni. Pacifiche e implacabili.
«Vogliono inchiodarci alla logica della violenza. Li spiazzeremo ancora»
Tra gli studenti che preparano le nuove manifestazioni
«Non siamo soltanto un problema di ordine pubblico»
di Toni Jop (l’Unità, 19.12.2010)
«Spiazzeremo ancora, così come abbiamo sempre fatto, loro, Maroni e Alemanno, seguono schemi fissi, il movimento no, garantito». Francesco, dottorando in Scienze Politiche, promette sorprese per il 22 dicembre. La strategia non è ancora stata messa a punto, le assemblee hanno ruminato riflessioni su quel che è accaduto il 14 dicembre quando le immagini delle auto date alle fiamme e i pestaggi ai danni di alcuni agenti hanno scippato titoli e soggettività a una manifestazione di decine di migliaia di ragazzi che lottavano e lottano perché non passi il ddl Gelmini. Alemanno ieri parlava di zona rossa, Mantovano suggeriva misure restrittive incostituzionali per mettere alla gogna il movimento, la tensione sale, si criminalizza la piazza a pochi giorni di distanza dalla prossima prova di forza per impedire ciò che, secondo i militanti dei collettivi, non verrà impedito, e cioè l’approvazione della distruzione dell’università pubblica da parte di questo governo di destra. Dice Francesca, ventiquattro anni, facoltà di Lettere della Sapienza: «Stanno cercando di trasformare il dissenso in una questione di ordine pubblico, serve per stornare l’attenzione dal loro fallimento politico e sociale».
Sì, ma auto e bancomat dati alle fiamme, poliziotti picchiati mentre sono a terra o alla guida di un automezzo cos’hanno a che vedere con i vostri obiettivi politici? «Vede - risponde quel che è successo il 14 non ce lo aspettavamo, io non me lo aspettavo. Ho provato a spiegarmelo tenendo a mente un contesto atroce: la notizia della fiducia al governo conquistata a quel modo è stata una bomba, la manifestazione in quel momento è cambiata. E guardi che io e tantissimi altri come me di fronte a quella violenza siamo rimasti sbigottiti, ma eravamo noi, era la nostra rabbia. Eppure non ho nulla a che vedere con i pestaggi o con gli incendi. Ho visto persone insospettabili ma che conosco applaudire la camionetta in fiamme. Ma è pratica, la violenza, che non ci appartiene, non è roba nostra, anzi. E non credo che il 22 assisteremo a qualcosa di simile, lo spero con tutto il cuore, chiuderemo gli spazi a pratiche che non condividiamo».
«La violenza del 14? Solo atti marginali - sostiene Alessia 23 anni, dei collettivi di Fisica della Sapienza frutto di una rabbia troppo a lungo accumulata, ma abbiamo dimostrato di saper stare in piazza in modo pacifico anche se per due anni non siamo stati ascoltati». Ma non è vero, come si fa a considerare nulla il credito del movimento e il rispetto politico e sociale, e la stessa fatica con cui il governo sta arrivando al voto sul ddl? Merito del movimento, ma non ne tengono conto... «Non voglio dar fuoco e nessun bancomat, se è questo che vi interessa, anche se non mi sento di condannare un abitante di Terzigno se esasperato ha acceso quelle fiamme. Sì, cercheremo di riportare le cose alla dimensione di lotta che ci compete, la nostra». «Bella cultura questo governo - questo è Francesco, il dottorando - inquadra il movimento, la piazza, il dissenso, il conflitto come inquadra uno stadio di calcio. Roma città aperta, non fosse tragico, farebbe ridere».
D’accordo, ma il 22 che accadrà, c’è una parte grande ed empatica del Paese angosciata al pensiero che il Movimento cada nella trappola del potere... «Vorrei smentire questa angoscia, torneremo in piazza adottando modalità opportune e intelligenti, non saremo dove ci aspettano, riflettiamo su questa nostra forza collettiva, non si temano escalation, pratichiamo conflittualità, non violenza anche se non ci infossiamo in un dibattito sulla dicotomia tra violenza e non violenza». Chiamala dicotomia: la non violenza è un punto politico forte, anzi è la forza, anche di questo movimento.
Gli studenti: "Non siamo ultras col Daspo violate i nostri diritti"
Rabbia per la stretta del governo. Ma i ragazzi avvertono: "Niente violenza, vi sorprenderemo. Hanno paura della protesta"
di CORRADO ZUNINO *
ROMA - È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: "Li sorprenderemo". L’esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell’area della "zona rossa" attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell’Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d’accesso.
"Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell’ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta", dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. "Una zona rossa sempre più blindata offende l’idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili". Quindi, manifesterete o no? "Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci". Gli ultimi due "mob" dell’anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi. All’Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l’allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di "una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle".
Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: "Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato". A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. "C’è voglia di tornare in piazza, non c’è l’ansia. Lo faremo in modo ironico". Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell’intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: "Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì".
L’opposizione alla "Gelmini" avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. "È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto". Dalla scuola secondaria arriva l’esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il "no", in questo caso, è stato dei docenti. "Il campo di battaglia è ampio", assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: "In troppi hanno visto black bloc che non c’erano".
* la Repubblica, 19 dicembre 2010
LACRIMOGENI E LACRIME DI COCCODRILLO
di Ramon Mantovani *
Il 14 gennaio è stato una data cruciale. Un vero incrocio dove si sono incontrate diverse cose nello stesso momento. Come in un appuntamento in parte cercato e in parte casuale. Solo in circostanze simili possono avvenire certe cose. Intanto vediamo cosa si è incontrato e scontrato per le vie di Roma.
Da un lato un movimento studentesco, con rappresentanze di operai della FIOM e dei comitati di lotta territoriali. Dall’altro il potere nel giorno del voto che avrebbe potuto vedere la defenestrazione del governo Berlusconi. Da un lato i mass media dentro il palazzo e alla manifestazione e dall’altro l’opinione pubblica curiosa di vedere come sarebbe andata a finire dentro il palazzo e disinformata sulla manifestazione. Fin qui quasi nulla di nuovo. Se parliamo di “cosa” c’era all’appuntamento di Roma.
Ma vediamo bene “chi” c’era all’appuntamento.
Il movimento studentesco (che comprende anche una intera generazione di ricercatori precarizzati e neodisoccupati) è ben diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Figuriamoci da quello degli anni 70. È un movimento figlio della precarietà, che ha capito che la precarietà è un dato strutturale e fondante il modello sociale vigente e non un “sacrificio” parziale, momentaneo e necessario a rilanciare un modello includente. È un movimento che deve difendere sull’ultima trincea ciò che resta della scuola pubblica. Che sa che sull’ultima trincea si vince o si muore. Per due motivi: il primo è che già molto è stato perso nel tempo in cui i diversi governi, a cominciare dal centrosinistra con Berlinguer ministro, hanno a spizzichi e bocconi eroso non solo cose secondarie ma il cuore stesso della natura pubblica dell’istruzione e il principio dell’indipendenza della ricerca culturale dal mero mercato e dagli interessi immediati del sistema delle imprese capitalistiche. Il secondo è la consapevolezza che non sono le “necessità di bilancio” ad ispirare la “riforma” Gelmini, bensì il disegno preciso di rendere coerente il sistema formativo con il mercato del lavoro deregolamentato e con il modello Marchionne delle relazioni sindacali e dei rapporti di forza sociali.
Questa è l’ultima trincea perché dietro non ce n’è un’altra da cui condurre la stessa battaglia.
In altre parole c’è la consapevolezza che siamo ad un passaggio di civiltà. Dalla società dei diritti (esigibili e/o teorici) alla società del mercato e degli individui subordinati al comando del mercato e perciò competitivi fra loro. Ovviamente questa consapevolezza, come in qualsiasi movimento, ha diversi gradi di approssimazione alla vera e propria coscienza. Si presenta come “intuizione”. È spesso mediata e filtrata da “categorie” analitiche diverse tra loro. E’ anche distorta, ma ci ritorneremo, da un rapporto bastardo con la “politica” e con la rappresentazione che i mass media danno del problema.
Ma c’è. Come si può vedere in un nuovo tipo di unità fra gli studenti e gli operai. Nei collegamenti solidali con tante lotte ambientali e sociali. Perché la trincea, rappresentata dal contratto nazionale e dalla difesa dei diritti costituzionali in fabbrica, su cui combatte la FIOM è anch’essa un’ultima trincea, oltre la quale tutto sarà diverso e peggiore di prima, ma soprattutto diverso. Perché il territorio abitato da comunità che difendono il diritto alla salute è anch’esso un’ultima trincea. O è a disposizione di speculazioni e operazioni “imprenditoriali” nocive, legali o illegali fa esattamente lo stesso, senza l’impaccio dei diritti dei cittadini che lo abitano, o è proprietà della comunità, che per viverlo e gestirlo deve scontrarsi con quelle stesse istituzioni, che invece di tutelarlo, come imporrebbe la costituzione, lo vogliono spogliare di qualsiasi vincolo comunitario per renderlo pienamente disponibile al mercato. Ripeto, illegale o legale fa lo stesso.
L’unità fra tutti questi soggetti in una difesa consapevole dei diritti fondamentali sotto attacco non si può spiegare in altro modo. Ed è il dato saliente che rende possibile la lotta sull’ultima trincea.
Gli stessi soggetti erano in piazza il 16 ottobre, insieme. In quella manifestazione c’era più tradizione dal punto di vista “antropologico” essendo prevalentemente composta da lavoratori e da militanti della sinistra. E il nemico non era a pochi metri dalla trincea. Era ancora lontano e sembrava diviso e, dopo tanto tempo, debole ed attaccabile. Fuor di metafora il governo traballava, la CGIL non aveva ancora compiuto certi passi concertativi e Marchionne non aveva ancora rincarato la dose a Mirafiori, la “riforma” Gelmini non era ancora certa. Il 14 dicembre la manifestazione era prevalentemente studentesca, e quindi visivamente diversa per simboli esibiti e per slogan, con una declinazione più chiara e radicale (io direi proprio più di sinistra nonostante le apparenze) degli stessi contenuti della precedente. Non solo per il soggetto studentesco generazionalmente più colpito direttamente sul proprio futuro (ed è importante proprio per la contesa di civiltà in corso), ma anche per le pessime “novità” degli ultimi due mesi.
Chi c’era dall’altra parte? Un governo arrogante, blindato nella zona rossa, dedito all’acquisto dei voti necessari a sopravvivere. Solo il governo? Secondo me no. Bisogna guardare in faccia la realtà. Anche se mette in discussione più o meno antiche certezze. Soprattutto per evitare semplificazioni tali da indurre la più tossica falsa coscienza. E qui il discorso merita di essere, anche se sommariamente, approfondito.
All’appuntamento del 14 c’è solo il solito Berlusconi cattivo che fa cose poco commendabili? Non sarà, per caso, che è l’intero parlamento e l’intero sistema politico a minacciare la trincea nella quale stanno studenti operai e cittadini in lotta? Io dico di si. E aggiungo che seppur dubbioso su molte altre cose su questa sono proprio convinto. La polizia, è stato detto da più parti, difendeva il parlamento, la “culla della democrazia”, non (o non solo) il governo. In fin dei conti, è stato detto da più parti, il governo ha vinto perché ha comprato dei voti ma adesso è debole e non ce la farà a governare, e forse, con questa cosa oscena, perderà anche consensi. (potrei continuare a elencare luoghi comuni di questo tipo, largamente diffusi). Come se fossimo non ad un passaggio di civiltà, bensì ad una qualsiasi dialettica bipolare, e come se il concetto di democrazia fosse invariabile rispetto alla natura delle decisioni che vengono prese da un parlamento. Come se non ci fosse relazione fra cosa si fa e come lo si fa. Come se non ci fosse conseguenza fra la fiducia al governo e la prossima approvazione della “riforma” Gelmini. Per chi ragiona così dovrebbero esserci molti sintomi e fatti da prendere in considerazione per provocare un serio ripensamento. Temo non ci sia l’onestà intellettuale sufficiente per farlo. Ma vediamo i sintomi e i fatti. All’accusa di aver comprato parlamentari i berlusconiani rispondono serafici: l’avete fatto anche voi, più volte, e in ogni caso dovete provarlo, altrimenti è solo il comportamento normale e costituzionale del deputato che è eletto senza vincolo di mandato.
Hanno torto? Hanno ragione sia politicamente sia formalmente. Ciò cancella l’evidenza dei fatti? Certamente no, ma la riconduce alla normalità. Alla normalità del bipolarismo, aggiungo io. Il fatto che deputati eletti in un partito la cui bandiera è l’antiberlusconismo salvino Berlusconi è certamente un fatto estremo. Ma è solo la punta dell’iceberg. Perché la transumanza da uno schieramento all’altro di singoli e di partiti è diventata la normalità, guarda caso, esattamente da quando c’è il maggioritario. O no? Solo uno scemo decerebrato può dimenticare la Lega che esce dal governo per appoggiare un governo tecnico, con il corollario delle accuse a Berlusconi di essere un mafioso e la minaccia di “andare a cercare i fascisti a casa, uno per uno”. O dimenticare la mirabile traiettoria politica di Lamberto Dini. Ricordiamola perché è sintomatica. È un po lungo ripercorrerla, ma vale la pena, proprio perché è fantastica.
Da direttore della Banca d’Italia a Ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi. Propone la controriforma pensionistica, si becca lo sciopero generale, il distacco della Lega dalla coalizione, la crisi di governo. E diventa Primo Ministro del governo tecnico che fa la controriforma pensionistica, con il consenso della CGIL, sostenuto da uno schieramento che va dalla Lega al PDS. Fonda prima una lista, con socialisti e Segni, entra nell’Ulivo e fonda il suo partito: Rinnovamento Italiano. Diventa Ministro degli Esteri e rimane tale in tutti e tre i governi di centrosinistra dal 96 al 2001. Confluisce nella Margherita e diventa vicepresidente del Senato. Nel 2006 diventa Presidente della Comm. Esteri del Senato. Il suo nome viene indicato come candidato unitario alla Presidenza della Repubblica. Dalla Margherita? No, macché, dalla “Casa delle Libertà”. Che dopo averlo descritto a suo tempo come un voltagabbana e un venduto improvvisamente lo vorrebbe Presidente della Repubblica. Nel 2007 è indicato fra i 45 costituenti del PD, ma prima della fondazione del PD esce e fonda un nuovo partito: I Liberaldemocratici. Alla fine del secondo governo Prodi, insieme ad altri tre che cambiano schieramento, fa cadere il governo non votando la fiducia. I Liberaldemocratici si federano al PdL e viene rieletto al Senato e subito dopo, con un ultimo scatto, abbandona i Liberaldemocratici che rompono il patto federativo e (ri)entra nel PdL.
È stato comprato Dini? E se si quante volte?
Domanda: questo zig zag si spiega con il fatto che sarebbe stato sempre ed opportunamente sul mercato? Non è che per caso si spiega meglio con la intercambiabilità di un certo personale politico nell’ambito di politiche simili, se non identiche, da parte di schieramenti che agiscono dentro i confini delle compatibilità del sistema? E che proprio perché simili sui contenuti dispiegano il massimo di scontro sulla contesa della postazione di governo, rubandosi perfino lo stesso personale a vicenda? Attenzione, perché chi non vuole vedere la transumanza da uno schieramento all’altro, mercanteggiata illegalmente o meno fa lo stesso, come un fenomeno strutturale del bipolarismo, finisce poi, con un salto mortale, per proporre come soluzione del problema una cosa magica: le preferenze. Ma come, dico io, la “nomina” dei parlamentari non doveva essere la garanzia di fedeltà al capo e al partito? E se c’è una forza misteriosa e superiore che provoca la transumanza il rimedio può essere che ognuno sia eletto con i propri consensi personali, indebolendo così i legami col capo e col partito? Non succederà, per caso, che per aumentare i voti del partito si “comprino” candidati che portano un valore aggiunto di preferenze, senza guardare per il sottile in quanto a moralità, principi etici e affidabilità delle persone?
Che rimedio sarebbe questo?
Insomma, come si vede il 14 gli studenti hanno giustamente, magari confusamente ma giustamente, individuato il sistema politico, il palazzo, come impermeabile alle loro istanze. All’appuntamento c’erano corpose minoranze sociali destinate all’esclusione e alla deprivazione di diritti e dall’altra un palazzo strutturalmente incapace di ascoltare. Se persino una vittoria parziale come l’archiviazione della “riforma” Gelmini, attraverso la caduta del governo Berlusconi, è affidata alla “vittoria” di Fini e del FLI che hanno votato e condividono la Gelmini, è evidente il grado di separazione ed incomunicabilità che separa il palazzo dalla società.
Se siamo ad un passaggio di civiltà, reso più rapido e violento dalla crisi, e se il bipolarismo rende il palazzo, e la sua dialettica interna, strutturalmente incapaci di fermare il processo di esclusione sociale in corso, come mai non emerge con la dovuta forza il vero problema politico? Che è, con tutta evidenza, un problema democratico. Chi lo indica come problema preminente? Forse quelli che esaltano il bipolarismo e imputano al solo Berlusconi crimini che essi stessi hanno più volte commesso, anche se con più rispetto del galateo? Forse quelli che “spiegano” con predicozzi vergognosi ai “ragazzi” che non bisogna esagerare, che non bisogna fare cose che sottraggono consenso alla propria stessa causa, perché in “democrazia” quello che conta alla fine è il consenso (elettorale) e andare contro la “pubblica opinione” sfasciando vetrine è controproducente? Eh no! Così lo negano. Così lo nascondono.
Bisognerà pur dire una verità.
In queste condizioni proprio solo gli scontri, con tutti i loro eccessi, indicano l’esistenza di un problema democratico. E, come una cartina di tornasole, svelano i “misteri delle alchimie politiche” degne del piccolo chimico e denunciano le mille ipocrisie e omertà di chi, dal mondo della politica ufficiale, attraverso prediche e pensosi aggrottamenti di sopracciglia (la nonviolenza, la non violenza, dobbiamo capire, dobbiamo capire) dimostra solo di aver separato il proprio destino politico da quello degli esclusi. E per giunta vorrebbe che gli esclusi mantenessero comportamenti ed atteggiamenti coerenti non già con la gravità della situazione, bensì con il destino di un pezzo del palazzo. Per questo si sentono dire cose come: i ragazzi sono bravi (del resto vogliamo che votino per noi) ma i teppisti vanno condannati; non esistono teppisti, sono infiltrati, mandati da chi vuole oscurare le ragioni dei bravi ragazzi; e così via.
Lo ripeto. Se all’appuntamento c’erano minoranze sociali che avvertono di essere e restare escluse nella società e un palazzo chiuso, blindato e sordo, c’è un problema democratico di prima grandezza, non la solita vicenda della politica spettacolo e la solita liturgia della manifestazione radicale ma composta.
Facciamo finta, per capirlo meglio, che non fosse volato nessun petardo e che non ci fosse stato nessuno scontro. Di cosa si discuterebbe oggi sui mass media? Di cosa discuterebbero dentro il palazzo? Solo ed esclusivamente della vittoria (di Pirro o meno e più o meno scandalosa) di Berlusconi. Solo delle contromosse di Fini e di Casini. Solo delle probabili o meno elezioni anticipate. La manifestazione sarebbe stata, come sempre succede, relegata in trafiletti e comunque descritta come un’appendice dello scontro epico dentro il palazzo.
Se non è vero mi si dica, mi si dimostri il contrario.
Siccome invece è vero, allora bisogna riconoscere che solo attraverso il fatto eclatante degli scontri è emersa la gravità della situazione. E che se c’è qualcosa da condannare è il sistema nel suo complesso. Non chi ha fatto gli scontri. In particolare c’è un pezzo del sistema, che si è presentato all’appuntamento, diverso dal palazzo ma egualmente contrapposto agli esclusi. I mass media.
Ho appena detto che “solo” gli scontri hanno dato conto della gravità della situazione. E cioè del problema democratico preminente. Perché non può esserci democrazia con l’esclusione sociale di una intera generazione. Ma ho messo travirgolette il “solo” perché i mass media, presi nel loro complesso, non informano, non spiegano, non descrivono i fenomeni sociali. E quando lo fanno, male, è solo per poi far dire a santoni, guru dell’economia che negli ultimi venti anni non hanno azzeccato una sola previsione, predicatori televisivi, pseudo opinionisti ed “esperti” di ogni tipo, che si, i “ragazzi” hanno ragione a lamentarsi, ma devono capire che il welfare è finito, è vecchio, è un lusso che non ci può più permettere. O, nella versione di centrosinistra, che i “ragazzi” hanno ragione a lamentarsi, ma è colpa del ministro Gelmini, che è incapace, e non dei diktat dell’Unione Europea, del sistema finanziario, delle banche, della dittatura del mercato, del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, del WTO.
[...]
Possibile che nessuno dica la semplice verità che i mass media e i talk show sono massimamente responsabili del fatto che per “fare notizia” bisogna fare ogni volta cose sempre più eclatanti, scontri compresi? Possibile che non si veda anche qui un problema democratico enorme? E che si finga di indignarsi per le ovvie conseguenze di una simile situazione, in perenne peggioramento? Possibile che i predicatori televisivi strapagati per dire le loro “opinioni”, quasi sempre superficiali e banali, abbiano perfino la faccia tosta di fare prediche ai “ragazzi”, dicendogli di non fare “cazzate”, ben sapendo che senza quelle cazzate spariranno dai mass media? Certo che è possibile, perché solo il guru televisivo potrà così volgere il suo pensoso sguardo verso il basso e descrivere e denunciare le ingiustizie che affliggono una generazione. Una generazione che deve commuoversi ed entusiasmarsi quando sente il guru ma che non può parlare, farsi ascoltare, direttamente e per proprio conto. Una generazione, cioè, le cui sofferenze vengono usate come ingrediente dello spettacolo televisivo e mass mediatico, fanno crescere l’audience e quindi gli introiti pubblicitari e quindi i cachet dei predicatori.
Che schifo!
Quando, 12 anni fa, si suicidarono Sole e Baleno, i loro compagni anarchici chiesero che ai funerali non si presentassero televisioni e giornalisti. Che si evitasse la solita sarabanda. Che ci fosse un minimo di rispetto. Dovettero cacciare i giornalisti prendendoli a pedate. Sacrosante pedate! Il diritto di cronaca..., il diritto di cronaca..., e giù condanne per chi li aveva cacciati. Eppure pochi mesi prima la famiglia Agnelli aveva chiesto ed ottenuto che nessuna televisione o giornalista andasse alla cerimonia funebre per Giovanni Alberto Agnelli, morto di tumore a 33 anni. Li c’era il rispetto per la morte e per il dolore, li non c’era il diritto di cronaca.
Basterebbe questo piccolo esempio per qualificare il sistema massmediatico italiano.
In conclusione si può dire, e ripetere, che gli scontri del 14 sono il prodotto della gravità sociale e democratica della situazione, della impermeabilità del palazzo e della enorme mancanza di informazione. A questo è dovuto il consenso evidente della stragrande maggioranza dei manifestanti. A questo è dovuta l’incisività dell’evento e il suo potere comunicativo e politico. Il resto sono chiacchiere pseudo sociologiche, da salotto, quando non veri e propri imbrogli ipocriti.
Ovviamente la lotta continua e continuerà. E dovrà trovare ogni giorno le forme consone al livello dei problemi e ai rapporti di forza. Credo che il movimento sia abbastanza maturo per sapere che gli scontri, più che giustificati il 14 per denunciare e rendere evidente la gravità della situazione, diverrebbero impedenti lo sviluppo della lotta se reiterati ad ogni occasione. Ma questo lo vedremo presto, credo.
* ramon mantovani - blog personale. Per leggere l’intero art., cliccare qui: http://ramonmantovani.wordpress.com/2010/12/18/lacrimogieni-e-lacrime-di-coccodrillo/
Caro Saviano, forse in piazza c’era gente nuova
di Caterina Bonvicini (l’Unità, 18.12.2010)
Caro Roberto Saviano, come sai, non sono una studentessa. Ma ero a Roma, alla manifestazione del 14 dicembre, insieme a una mia amica. Lì in mezzo ero pure la più vecchia, ma stare dentro alla cose è sempre interessante. Abbiamo camminato per otto ore. La prima scena che abbiamo visto, intorno a mezzogiorno, è stata questa: due camionette della celere sbarravano l’accesso a Palazzo Grazioli e un gruppo di napoletani ha cominciato a lanciare la monnezza contro la “sede del potere”. Vedevi volare i sacchi neri della spazzatura come aquiloni. Naturalmente, in mezzo, c’era qualche bottiglia di birra e qualche petardo. Non abbiamo potuto osservare il seguito perché subito sono partiti i lacrimogeni.
Il corteo proseguiva in Corso Vittorio, di fianco a noi c’era un ragazzo di diciassette anni. Si è avvicinato perché avevamo la radio e voleva notizie. Aveva il volto scoperto. Gli abbiamo chiesto perché teneva il casco agganciato alla cintura. Ci ha spiegato che all’ultima manifestazione, contro il decreto Gemini, si era preso un sacco di botte dagli estremisti di destra. Come dici tu, la testa serve per pensare: forse è legittimo cercare di proteggerla. Quando la gente ha saputo che Berlusconi, per tre voti, aveva ottenuto la fiducia, il clima non è cambiato molto. Tutti continuavano a marciare come prima. E qui, ci siamo interrogate. Ma che tipo di rabbia è? Sembrava indifferente agli esiti delle compravendite del Parlamento.
Subito dopo, abbiamo incrociato un gruppo di ragazzi aquilani. Erano andati a farsi sentire davanti alla sede della Protezione Civile. Tu, Roberto, hai una qualità: riesci a nominare le persone, a renderle vive, una per una. Agli studenti che sono morti durante il terremoto volevi restituire un’identità, giustamente. Anch’io, vorrei. Però non posso. Perché quegli studenti non sono morti, non sono intoccabili.
Dopo un po’, abbiamo visto una colonna di fumo. Nessuno capiva. Poi ci siamo avvicinati: c’era una macchina in fiamme. Qualcuno ha preso il megafono e ha detto: «Non perdete la calma, allontanatevi subito, può esplodere». Ci siamo tutti lanciati giù dal pendio, verso via di Ripetta. Alcuni ragazzi, nonostante il pericolo, sono rimasti fermi lì. Aiutavano la gente a scendere, uno per uno. Questa è civiltà.Dovevamo entrare in Piazza del Popolo, ma era già in fiamme.
Le scie dei lacrimogeni sembravano fuochi d’artificio a capodanno. Il corteo si è fermato, doveva fare spazio ai ragazzi che scappavano. Abbiamo visto correre verso di noi una studentessa aquilana, con il massimo dei voti in filosofia. Non era una black bloc, aveva il viso scoperto e un elmetto rosso. Tu usi il termine “idioti” e “imbecilli”. Certo quei ragazzi non ti possono querelare. E’ un po’ facile così. E anche fare paragoni storici e dejà-vu. Forse è gente nuova, che ha qualcosa di nuovo da dire, e non può.
Il piombo è solo nelle orecchie di chi non ascolta
Spinelli: “Non sono gli anni ‘70, questi ragazzi lasciati fuori dalla politica”
Anni di piombo è diventato un tormentone: inutile, e al tempo stesso banale e provocatorio. Ma il metallo sembra essere nelle orecchie di chi non sa ascoltare: parola di Barbara Spinelli.
di Silvia Truzzi (il Fatto, 18.12.2010)
Giovedì ad Annozero Santoro ha detto ai politici in studio: noi domandiamo ai ragazzi se si vogliono dissociare dagli episodi di violenza, ma se loro non ci rispondono quello che vogliamo sentirci dire - come poi è accaduto - dobbiamo essere in grado di parlare con loro. D’accordo?
Completamente. È più che legittimo chiedere ai giovani di riflettere suoi pericoli che i gesti violenti possono ingenerare. Ma la questione qui non è il dissociarsi dei ragazzi, ma il dissociarsi dei politici da una discussione su una manifestazione di cittadini. Bisogna dare uno spazio di dialogo: i giovani che erano in piazza non hanno compiuto un attentato, non sono gente con il sangue nelle mani.
La Russa ha dato dei vigliacchi ai ragazzi. Se ne voleva andare, ma è rimasto.
So che va molto di moda la parola canagliesca, detta d’istinto, ma un ministro non dà queste risposte. Non minaccia d’andarsene, appena uno comincia a parlare. Forse sarebbe meglio se se ne andasse davvero, se non sa fare il suo mestiere. Nel curriculum di ogni terrorista c’è il non riconoscimento delle istituzioni, della politica stessa che è risoluzione dei conflitti tramite ricorso alla parola della ragione. La Russa fa come i terroristi: dice ai ragazzi e implicitamente alla politica: “Io non vi riconosco”.
Ma loro sono cittadini. Vuol dire che lo Stato non riconosce gli elettori?
Certo, questo Stato si mette fuori, perché è in guerra, tra l’altro non si capisce con chi, e sfrutta le paure della gente. Casini da Santoro ha detto: i poliziotti erano lì per tutelare la culla della democrazia. E uno dei manifestanti ha avuto il coraggio di far osservare come quella culla fosse la bara di una democrazia “mercantile”. I politici che lanciano l’appello a tutelare le istituzioni, le pensano in buona salute. La culla della democrazia parlamentare è vuota. Non dico che quindi bisogna tirare i sassi, ma ha ragione lo studente quando dice che questa non è la democrazia di Pericle. Quella culla è anche un posto da cui si evoca con una certa frequenza il partito dell’odio. Ogni dissenso, anche pacifico, ormai è criminalizzato, oltre che inascoltato. Plutarco scrive che nei paesi asiatici si diceva sempre sì, mentre in Europa, dove c’erano democrazie, si diceva no. Sto con Plutarco.
Un luogo comune logoro vuole che la società civile si sia progressivamente staccata dalla politica. In analisi logica, un moto da luogo della società. Non sarà che è la politica ad aver aumentato in maniera abissale la distanza che la separa da ciò che i cittadini chiedono?
Sì, è una responsabilità della politica, e se il divario diventa molto profondo vuol dire che la società non ha altri luoghi e modi di manifestare se stessa e i propri disagi diversi dalla piazza. I moti violenti sono pericolosissimi. Ma sono anche un monito che la classe politica deve ascoltare, pena la propria sconfitta. Lo si è visto nella rivolta dei ghetti neri a Los Angeles nel ’92: fu allora che venne coniata una parola nuova: sottoveglianza, cioè l’inverso della sorveglianza denunciata da Foucault. La società cominciava a sorvegliare il potere dal basso verso l’alto, era soggetto e non più solo oggetto d’un controllo. La novità in Italia è che questa sottoveglianza ormai esiste. E la politica deve tenerne conto, sapere che è sotto controllo costante.
Quindi la ricetta è una società aperta. Ma quali sono gli spazi di un dialogo finora non possibile?
I luoghi cui accedono i politici devono accogliere anche i giovani, gli stessi che avranno come pensione 360 euro al mese. Penso alla tv, per esempio. E poi non ci devono essere restrizioni di manifestazione del pensiero sul web. I politici devono cominciare ad ascoltare, perché non sono di fronte a terroristi. Penso alle dichiarazioni dei giovani nella rivolta delle banlieue parigine. Dicevano in tv: “Noi non riusciamo a parlare”. La domanda è di essere ascoltati, di entrare nell’agorà. Oggi c’è una forma di ghettizzazione: è come se una generazione intera fosse chiamata negra. Quando ho visto l’immagine di quel ragazzo picchiato in piazza del Popolo, l’altro giorno, mi è tornato alla mente il filmino sul pestaggio di Rodney King nel ‘91. Ripreso da persone che stavano lì - e qui torna la sottoveglianza - nel momento in cui la polizia picchiava il giovane nero. La rivolta dei ghetti nacque da lì.
Saviano ha scritto: “Gli infiltrati ci sono sempre, da quando il primo operaio ha deciso di sfilare. E da sempre possono avere gioco solo se hanno seguito. È su questo che vorrei dare l’allarme. Non deve mai più accadere. Così inizia la nuova strategia della tensione, che è sempre la stessa: com’è possibile non riconoscerla? Com’è possibile non riconoscerne le premesse, sempre uguali? Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare”. Non sarà un po’ limitata la sua analisi?
Come lui condanno la violenza anche perché controproducente rispetto a ciò che si vuole ottenere. È vero anche che un movimento, anche di tipo diverso da quello degli anni di piombo, può essere accompagnato da una strategia della tensione e avere quindi gli stessi risultati. Approvo dunque la messa in guardia di Saviano. Al tempo stesso, la messa in guardia non può essere l’unica premessa, a mio parere, del discorso con questi giovani, perché in loro non c’è un disegno politico di tipo classico. C’è un disegno di chi è relegato fuori in maniera radicale dalla politica e vuole entrarci. Questo è un atto politico di persone che sono fuori dalla gestione pacifica dei conflitti.
Si fa il paragone con gli anni di piombo. Ma queste proteste non hanno nulla di ideologico. In piazza c’erano precari senza futuro, terremotati senza case, ricercatori che rischiano di sparire, napoletani sommersi dai rifiuti. Alemanno - uno che a qualche manifestazione non pacifica ha partecipato - ha detto: ”Non dobbiamo tornare agli anni ’70. Tutte le istituzioni facciano muro contro questa azione violenta perché non è più tollerabile”.
Sono un po’ stanca di sentire ricordati gli anni 70 e anche della frase “bisogna stare in guardia”. Dire “tutte le istituzioni facciano muro” significa solo che salta la pluralità delle istituzioni. Che tutte devono rispondere al comando di un unico capo. È la logica di un paese in guerra. Fare muro è un giudizio negativo sulla magistratura che ha appena scarcerato i giovani. C’è poi un dato: il rapporto Stato-cittadini. Lo Stato non può chiamarsi fuori perché il rapporto non è paritetico. Le analisi migliori le ho viste nei pezzi di Bonini e Bianconi. In quelle dei politici ho visto solo il desiderio di compiacere quella che loro immaginano sia la maggioranza silenziosa. Non vogliono risolvere i problemi, vogliono solo che la vetrina non sia rotta. Questo non è governare, è la risposta per ottenere una buona reazione da un eventuale sondaggio. Anche quella dei politici che si sottraggono al confronto è violenza.
Il direttore del Giornale, Sallusti, ha detto: "Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito".
Nemmeno gli avversari del ’68 usavano aggettivi simili. Dici a un’intera generazione che è fallita: tanto vale farla fuori. Maggioranza e opposizione, salvo qualche eccezione, sembrano aver dismesso il mandato di rappresentanza dei cittadini. Vero? Vedo anch’io una dismissione del mandato politico. In questi anni c’è stata una svendita: nessuno si occupa dei cittadini. Ogni giorno sentiamo politici appellarsi alla sovranità di un popolo per legittimare il loro agire politico. Ma come si permettono? C’è un enclave di persone che comandano e un muro che le separa dai barbari. Ma i barbari, attenzione, sono gli italiani.
Miopia o dolo?
L’errore maggiore è non saper prevedere, non ascoltare domande e non dare risposte . L’errore non è fare politiche austere, come dimostrano i casi di Grecia e Irlanda. L’errore è far fare i sacrifici solo a chi è già emarginato. Bisognava riconoscere la crisi, il nostro governo l’ha sempre negata, sostenendo che è un’invenzione dei media. Ma quando si vive nella menzogna, la bolla scoppia. Chi semina miseria senza spiegare perché raccoglie collera. E questo è vero da migliaia di anni.
Mercoledì un’altra manifestazione contro la riforma Gelmini
Mercoledì prossimo ci sarà il rischio di nuovi scontri dopo quelli che martedì scorso hanno sconvolto Roma. L’approvazione definitiva del ddl di riforma dell’Università, prevista al Senato, potrebbe rappresentare la miccia per nuovi disordini nella Capitale dopo quelli del giorno della fiducia al governo. Le forze dell’ordine hanno spiegato che c’è una tendenza alla ricerca dello scontro fisico una novità rispetto al lancio delle molotov degli anni ‘70. Per questo motivo proveranno ad evitare una contrapposizione frontale di blindati con i manifestanti per privilegiare assetti più agili e mobili, in grado di controllare in tempo reale gli itinerari dei cortei e prevenire il rischio che alcuni procedano in direzioni non programmate per dare vita ai disordini. Le prossime iniziative previste dagli studenti sono un sit-in per martedì e manifestazioni e cortei per mercoledì, non solo nella Capitale ma anche nelle altre città italiane. Non si può escludere però che già lunedì, in concomitanza con l’approdo del ddl alla discussione di Palazzo Madama, possano essere messe in atto singole azioni dimostrative e iniziative spontanee di protesta.
Movimento spaccato
Gli studenti divisi sugli incidenti: molte condanne ma c’è chi giustifica
di Caterina Perniconi (il Fatto, 16.12.2010)
Nella cittadella universitaria regna la quiete dopo la tempesta. Sotto la statua della Minerva de La Sapienza a Roma ci sono gruppi di ragazzi che studiano al leggero tepore del sole di dicembre. La manifestazione di ieri è l’argomento del giorno. Ne parlano tutti. A Radio Sapienza se ne discute già la mattina presto. Davanti a una rassegna stampa che per lo più tratta di facinorosi e black bloc, gli speaker trasaliscono. Che qualche ragazzo proveniente dai centri sociali facesse parte della manifestazione è indubbio, ma che negli scontri siano coinvolti per lo più frange studentesche estremiste e non esterni a loro è chiaro. Come ai ragazzi raccolti nelle assemblee delle varie facoltà a La Sapienza. È da qui che è partito il corteo di martedì e anche molti dei giovani coinvolti negli scontri.
NELLE AULE occupate, infatti, non sono pochi quelli che rivendicano la violenza come strumento di lotta politica ed espressione del disagio sociale. “È l’unico metodo col quale possiamo portare in piazza la rabbia e l’esasperazione - spiega Roberta, studentessa di Sociologia - io martedì ho dovuto lasciare il corteo in anticipo e non ho visto gli scontri di piazza del Popolo, ma non li condanno. Sono solo contraria alle devastazioni gratuite, quelle non servono”.
Pareri simili sono emersi anche durante l’assemblea di Giurisprudenza. Ma c’è una maggioranza che non la pensa così, e che ieri è andata all’Università agguerrita per dimostrare il proprio dissenso: “Quello che è successo martedì è la dimostrazione della peggiore realtà del movimento - dichiara Cosimo - in un pomeriggio sono riusciti a cancellare il lavoro di un anno. Avevamo alzato la voce e la politica ci aveva sentito. Ora penseranno che siamo tutti studenti esaltati”. Di certo, fanno notare, c’erano diverse componenti tra i violenti. Quelli che spaccano i bancomat, per intendersi, sono giovani legati alle realtà dei centri sociali. Mentre tra coloro che hanno tentato di forzare i blocchi, scontrandosi con la polizia, gli studenti sono la maggioranza. Agli infiltrati danno poca importanza: “Ci siamo accorti che i ragazzi dei centri sociali ogni tanto non riconoscevano alcune persone nei loro gruppi, ma non abbiamo pensato a un piano studiato, anche se qualcuno ci poteva essere”. I testimoni dei momenti di massima tensione lamentano la disorganizzazione delle forze dell’ordine rispetto a una manifestazione molto più ampia del previsto: “Se non avessero perso la testa i poliziotti - raccontano gli universitari - probabilmente anche i ragazzi non sarebbero arrivati a tanto”.
Il punto, però, è capire dove vogliono arrivare i contestatori. “Sicuramente non cercano il dialogo - spiega ancora Cosimo - ma non ho sentito nemmeno parlare di alternative percorribili, come per esempio il referendum dopo l’approvazione della legge Gelmini. E allora, con una giornata come ieri nella quale non hanno ottenuto nulla, cosa vogliono davvero?”. PER CLAUDIO Riccio, del coordinamento universitario Link, il problema è proprio quello della rappresentanza e del futuro: “Siamo stati lasciati soli in troppe battaglie, adesso dobbiamo capire come produrre il cambiamento. Questa classe dirigente non funziona e noi dobbiamo costruire il consenso intorno a noi. La sensazione di martedì, dopo la fiducia a Berlusconi, era quella di una sconfitta, ma non abbiamo perso. Ci siamo fatti sentire. Ora la domanda che ci dobbiamo porre è: al di là della reazione istintiva, come proseguiamo?”.
E la rivendicazione studentesca degli scontri è arrivata anche da Torino: “Ma quali infiltrati e facinorosi? In strada a Roma come a Torino c’erano soltanto studenti arrabbiati che hanno voluto esprimere il loro dissenso”. Le parole di Dana Lauriola, leader del movimento studentesco autonomo di Torino, chiariscono la posizione dei manifestanti: “Chi divide i contestatori tra buoni e cattivi non capisce che in piazza è andata semplicemente la rabbia collettiva e diffusa che per una volta è riuscita a organizzarsi”.
"Ho visto esplodere la rabbia è una rivolta generazionale"
Uno dei leader anti-Gelmini: si rischia la deriva
I giovani sanno che per loro l’ascensore sociale sta andando al contrario, la disperazione è sempre più forte
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.12.2010)
ROMA - «Ero lì, tra i ragazzi, nel corteo. E quello che mi ha colpito di più è stato vedere la rabbia che cresceva, e centinaia di studenti unirsi ai gruppi che fronteggiavano la polizia e provavano a sfondare i blindati. Sbaglia chi pensa che si tratti soltanto di frange organizzate. Martedì nel corteo è esplosa una rabbia generazionale, la frustrazione di chi sa di non essere ascoltato. E questo è pericoloso e preoccupante». Gianni Piazza ha 47 anni, insegna Scienze Politiche all’università di Catania, ed è uno dei ricercatori della "Rete 29 aprile" che da un mese "occupa" il tetto della facoltà di Architettura di Roma. Piazza, perché parla di rabbia generazionale? E che cosa sta succedendo nel movimento?
«Si sapeva fin dall’inizio che ci sarebbero stati gruppi che avrebbero provato a violare la cosiddetta zona rossa. Era già successo in alcune manifestazioni precedenti. Ma erano rimasti episodi limitati. Anche perché questo movimento non ha alcuna matrice ideologica di violenza, e martedì erano davvero pochi quelli arrivati alla manifestazione con l’intenzione di mettere a ferro e fuoco la città».
Però è accaduto...
«Infatti, e invece di indietreggiare, di isolare i violenti, una buona parte di manifestanti si è buttata negli scontri. Come se, soprattutto dopo la notizia della fiducia a Berlusconi, il senso di frustrazione, di essere centomila in piazza ma nessuno per il governo, avesse avuto il sopravvento».
Voi ricercatori siete la parte "adulta" della protesta. Si può ancora in qualche modo fermare la deriva violenta?
«Mi auguro di sì, perché ripeto questo movimento universitario che si è collegato con le grandi aree di disagio sociale del paese, finora ha mostrato lucidità e anche resistenza. Ma se continuerà ad esserci questa chiusura totale da parte del governo, la situazione può diventare ingestibile».
Ma lei, tra i suoi studenti, ha percepito la tentazione di una svolta verso forme di protesta più estreme?
«No, direi di no. Però la disperazione è forte. E riguarda anche le fasce più adulte, i ricercatori. I giovani sanno che stanno prendendo l’ascensore sociale al contrario, studiano ma sono consapevoli di non avere futuro, la loro sfiducia adesso si è trasformata in rabbia, e questo può portare ad una escalation di violenze».
Lei ha scritto diversi libri sui movimenti studenteschi, di cui l’ultimo sull’Onda. Oggi però le similitudini più forti sembrano essere quelle con gli anni Settanta.
«Forse nelle modalità degli scontri, o nella protesta sociale. Ma per fortuna nell’università, come nella società, non ci sono modelli di gruppi armati e soprattutto non ci sono ideologie. Non siamo negli anni Settanta, però da martedì qualcosa è cambiato, e adesso le reazioni di questo movimento fino ad ora pacifico sono diventate imprevedibili. Per questo credo che sia gravissima la decisione del Governo di voler approvare la legge Gelmini il 22 dicembre, rischiando un’altra giornata di guerra».
Proprio il 22 dicembre sarà un mese che siete sul tetto di Architettura.
«Sì, e fa molto freddo, ma quel tetto è diventato davvero un simbolo importante. E da come vanno le cose rischiamo di restarci ancora a lungo».
POLITICA - ITALIA
Il Telepredicatore
di Valerio Evangelisti per Infoaut *
Roberto Saviano ha scritto, nella sua unica opera narrativa, verità innegabili sulla camorra e sull’intreccio tra affari e malavita. Gliene siamo tutti grati. Ha però interpretato la gratitudine collettiva come un’autorizzazione a predicare sempre e comunque, anche su temi di cui sa poco o niente.
Ecco che, su "Repubblica" del 16 dicembre, rivolge una "Lettera ai giovani" firmata da lui e, curiosamente, dall’agenzia che tutela i suoi diritti letterari. E’ un’invettiva, a tratti carica di odio, contro i "cinquanta o cento imbecilli" che martedì scorso si sono scontrati a Roma con le forze dell’ordine che bloccavano il centro cittadino.
La lettera appare il giorno stesso in cui un gruppo di manifestanti è processato per direttissima. Preferisco pensare che sia un caso, anche se tanta tempestività potrebbe sembrare sospetta. Non dimentico che, solo pochi giorni dopo l’attacco a Gaza e il suo migliaio di morti, Saviano era in Israele a tessere l’elogio di quel paese intento a difendersi dai "terroristi", analoghi ai camorristi che minacciano lui.
Ma lasciamo correre, e lasciamo correre anche la connessione tra nazionalismo basco e traffico di droga, che lo stesso governo spagnolo dovette smentire.
Veniamo agli scontri di Roma. E’ proprio sicuro, Saviano, che i dimostrati fossero cinquanta o cento? Per di più vigliacchi, piagnucolosi, descrivibili come "autonomi" o "black bloc" intenti a imporre la loro violenza - che a suo dire li diverte - alla folla passiva e terrorizzata del corteo? Oltre a parlare in tv, dovrebbe ogni tanto guardarne le immagini. In questo caso avrebbe notato una folla ben più numerosa, e una manifestazione tutt’altro che pronta a sbandarsi in preda alla paura. Così come avrebbe rilevato, nei giorni precedenti, episodi del tutto analoghi a Parigi, ad Atene, a Londra e un po’ in tutta Europa. "Autonomi" e "black bloc" anche laggiù?
Ciò porterà, dice Saviano, a una limitazione degli spazi di libertà. Non considera che la libertà era già stata circoscritta, con cordoni tesi a proteggere i palazzi del potere da chi quel potere contesta. I dimostranti avevano annunciato che non si sarebbero lasciati imporre alcuna "zona rossa". Così è stato, nel preciso momento in cui si veniva a sapere che un governo discreditato aveva ottenuto la fiducia per pochi voti, grazie a espedienti inconfessabili. Una presa in giro per giovani che non scorgono alcun futuro, e vivono sulla loro pelle le conseguenze umilianti di pseudo-riforme modellate sulle esigenze dei privilegiati.
La reazione è stata di rabbia. Come poteva non esserlo? Solo chi vive fuori dal mondo potrebbe attribuirla all’azione di "cinquanta o cento" imbecilli innamorati della violenza.
Saviano, è noto, deve muoversi sotto scorta. Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo. Al punto da denigrare chi già subisce umiliazioni quotidiane, e di dire a chi detiene il potere ciò che ama sentir dire. Con tanto di menzione dell’agenzia letteraria, a tutela del copyright.
* INFOAUT.ORG You cannot arrest a generation!, 16 dicembre 2010 alle ore 15.33:
http://www.infoaut.org/articolo/il-telepredicatore