PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ... Appunti e note *
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!!: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
IL REGNO DEL MENTITORE. L’ITALIA SOTTO L’EFFETTO LUCIFERO.
L’ITALIA, LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala
Silvio Berlusconi e’ fuori dal Parlamento. L’aula del Senato vota per la decadenza
’E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia’, aveva detto Berlusconi parlando alla folla di sostenitori che si sono riuniti nel pomeriggio davanti a palazzo Grazioli *
Il Senato ha dichiarato decaduto Silvio Berlusconi da senatore. Lo ha annunciato in Aula il presidente Grasso subito dopo che l’Assemblea aveva respinto tutti e nove gli ordini del giorno presentati.
"Essendo stati respinti tutti gli ordini del giorno presentati in difformità dalla relazione della Giunta per le Immunità che proponeva di non convalidare l’elezione di Berlusconi la relazione della Giunta deve intendersi approvata". Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso confermando la decadenza del Cav da senatore. A prendere il posto di Silvio Berlusconi al Senato è il primo dei non eletti in Molise per il Pdl Ulisse Di Giacomo.
"E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia": cosi’ Silvio Berlusconi aveva parlato in piazza del Plebiscito a Roma ai suoi sostenitori.. ’’Il Senato di sinistra con il suo potere ha ordinato al tempo di fare freddo’’, aveva detto Berlusconi aprendo il suo comizio davanti palazzo Grazioli. La magistratura vuole "la magistratura via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese", aveva aggiunto Berlusconi ai militanti di Forza Italia a via del Plebiscito. "Quando la sinistra non è al potere la magistratura fa di tutto per farla tornare al potere". ’’Noi siamo moderati. Si sono scagliati contro questa manifestazione ma vogliamo tranquillizzarli: questa è una manifestazione legittima e pacifica’’.
’’La sentenza sui diritti Tv è una sentenza che grida vendetta davanti a dio e agli uomini’’: così Silvio Berlusconi nel suo comizio in via del Plebiscito. Quella sentenza, ha aggiunto, ’’è basata solo su teoremi e congetture e su nessun fatto o documento o testimone’’. "Sono assolutamente sicuro che il finale di questi ricorsi sarà il capovolgimento della sentenza con la mia completa assoluzione", ha detto Berlusconi ai militanti di Fi a via del Plebiscito ribadendo la volontà di presentare domanda di revisione del processo Mediaset.
’’Non ci ritireremo in qualche convento, noi stiamo qui, restiamo qui, resteremo qui’’: così Silvio Berlusconi dal palco. "Nessuno di noi può stare più tranquillo sui propri diritti, sui propri beni e la propria libertà. E allora restiamo in campo. Non disperiamoci se il leader del centrodestra non sarà più senatore: ci sono altri leader di partito che non sono parlamentari e mi riferisco a Renzi e Grillo che dimostrano che anche da fuori si può continuare a battersi e combattere per la nostra libertà". Lo ha detto Silvio Berlusconi al comizio davanti a Palazzo Grazioli. ’’Oggi brindano perché sono riusciti a portare l’avversario davanti al plotone d’esecuzione: sono euforici, lo aspettavano da venti anni... ma non credo abbiano vinto la partita della democrazia e della libertà’’: così Silvio Berlusconi.
"Ci diamo un appuntamento preciso: l’8 dicembre ci incontriamo per festeggiare i primi mille club che si stanno fondando in Italia": cosi’ Berlusconi ai militanti di Forza Italia che manifestano a Via del Plebiscito.’’Altri se ne sono andati... ma noi siamo rimasti qui, siamo sicuri di essere la parte giusta, sicuri che non tradiremo mai i nostri elettori’’, ha detto il Cavaliere che ha fatto un implicito riferimento ad Alfano e al Nuovo centrodestra. La folla ha rivolto un lungo buuuuu agli alfaniani e il Cavaliere ha chiosato: "Interruzione ruvida ma efficace".
Secondo gli organizzatori della manifestazione di Forza Italia in Via del Plebiscito, i militanti presenti erano 20 mila.
I senatori di Forza Italia hanno cominciato a invocare il nome di Silvio Berlusconi nell’aula del Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla sua decadenza. Dopo l’intervento di Annamaria Bernini, i senatori di Forza Italia si sono tutti alzati in piedi, gridando ’Silvio, Silvio’, ritmando il nome con il battito delle mani.
"L’ex premier italiano Silvio Berlusconi è stato espulso dal Senato". La notizia della decadenza del Cavaliere fa in una manciata di minuti il giro del mondo e irrompe come "breaking news" sui siti dei principali media internazionali: dalla Bbc al Wall Street Journal, dalla tedesca Faz allo spagnolo El Pais.
Firmare a sostegno dei pm anche per dire no al regime
di Gianni Vattimo *
Si parla tanto, discutendo dell’articolo (decisivo, inappuntabile) di Gustavo Zagrebelsky, di eterogenesi dei fini. Ma varrebbe la pena anche, e più, di parlare di eterogenesi delle cause. Spieghiamoci: davvero possiamo pensare che le tante migliaia di cittadini - compreso il sottoscritto - che hanno firmato l’appello del Fatto a difesa dei pm di Palermo sotto attacco da parte di quasi tutti i grandi media cosiddetti indipendenti, siano stati motivati dalla preoccupazione per la sorte di quei magistrati, per ora almeno non direttamente minacciati né di licenziamento né di carcere; o dalla irresistibile curiosità di sapere che cosa si dicevano Napolitano e Mancino nelle conversazioni illegalmente, criminalmente ascoltate e addirittura trascritte dalla magistratura palermitana? Ma che cosa davvero ci poteva essere di così decisivo in quei nastri, già per giunta dichiarati irrilevanti ai fini del processo? Confessiamo finalmente che del contenuto di quelle intercettazioni non ci potrebbe importare di meno. Figurarsi se il nostro saggissimo presidente (Giulia Bongiorno docet) si sarebbe mai lasciato andare, anche senza sospettare di essere ascoltato, a dire qualcosa di men che prevedibile, istituzionale, neutrale?
E allora? Perché in tanti avremmo dovuto sentirci così impellentemente spinti a firmare il documento pro pm? Le ragioni, le cause “eterogenee” di cui generalmente si tace nella discussione sullo scritto di Zagrebelsky, sono, appunto, altre. La diffusa e motivatissima insofferenza per il vero e proprio regime che è calato sul Paese per gli sforzi congiunti di Napolitano e Monti, è la ragione principale che spiega la popolarità dell’appello - anche se sia delle sorti dei magistrati palermitani, sia della trattativa Stato-mafia nessuno dei firmatari si era dimenticato. Ciò che si è voluto respingere con la valanga di firme è stato principalmente la progressiva instaurazione del regime, che del resto anche dalla vicenda delle intercettazioni palermitane ha ricevuto una intensificazione senza precedenti. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, dopo le esternazioni mediatiche degli ultimi giorni, anche e soprattutto da parte di padri della patria come Scalfari, questi dubbi non dovrebbero più esserci. Siamo di fronte non a una campagna di delegittimazione del Capo dello Stato, come vanno predicando ex esponenti della ex-ex-ex sinistra; ma a un generale sforzo di consolidamento del regime; temiamo, in vista di autunni e inverni caldi e caldissimi.
Le poche voci dissonanti, anzitutto quella di Antonio Di Pietro, accanto a quella di Grillo e all’altra - un po’ arrochita dal vecchio e nuovo berlusconismo, della Lega, sono ormai tacitate e demonizzate in tutti i modi, fino a dire esplicitamente che chi non sta con Napolitano o si permette di criticarlo non potrà appartenere al centrosinistra Bersanian-Casinista verso cui Quirinale e establishment ci stanno spingendo. Non solo c’è la luce in fondo al tunnel, ne siamo ormai fuori per merito di questo governo. Domandare conferma di tutto ciò agli esodati senza pensione, ai licenziati di tutte le fabbriche che hanno chiuso i battenti, ai tarantini presi in giro dalla compagnia di giro dei ministri inviati prontamente sul luogo da Monti. Quasi tutti i giorni la stampa “indipendente” ci informa che Monti ci è invidiato da tutti i paesi d’Europa e forse anche da Obama. Sarà anche vero che lo spread è un poco sceso, e che le borse hanno guadagnato qualche punto: già, le borse e le banche, pupilla degli occhi del premier. Ma per il resto, i costi della vita per le famiglie, ci sarà forse da aspettare un po’ di più, e così per avere un qualche recupero dell’occupazione.
Ma intanto noi vediamo la luce in fondo al tunnel con gli occhi dei media; che del resto, insieme a Napolitano sono i creatori delle fortune politico-tecniche di Monti. Nessuno si è accorto che qualcosa sia migliorato in Italia negli ultimi mesi, anzi il contrario è sotto gli occhi di tutti. È anche questo clima di untuosa accettazione della menzogna ufficiale, quirinalizia o no che sia, ciò che (correggetemi se sbaglio) i firmatari dell’appello pro pm di Palermo vogliono combattere. Forse sarebbe ora di smettere di giocare tutti ai costituzionalisti dibattendo sulle prerogative del Presidente. Ne usasse finalmente una, decisiva: sciogliere le inutili Camere e mandarci finalmente a votare e restaurando quel poco di democrazia che ancora ci resta.
* Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2012
Tutti antiberlusconiani
L’ultimo sport nazionale
degli ex amici del Cavaliere
di Jacopo Jacoboni (La Stampa, 28/5/2012)
Uno da Almodovar le critiche a Berlusconi se le aspetta, da Tremonti e Formigoni, e Belpietro e Gasparri, in teoria, no.
Celebriamo in questi giorni una tragedia nazionale che investe la politica e i media, ex berlusconiani che forse - ma sarebbe psicanalisi - non sanno neanche più di esserlo stati, e l’ostentano. Quasi meglio chi, come Daniela Santanchè, lo difende perinde ac cadaver, «se qualcuno pensa che Berlusconi debba fare un passo indietro sbaglia profondamente». Ma se ha sentito il bisogno di ribadirlo è perché tanti lo pensano, e lo dicono, senza imbarazzi.
E’ una un po’ triste Revirgination collettiva. Giulio Tremonti in tv da Formigli aveva messo su l’aria dell’osservatore economico, non di colui che fu il potente ministro dell’Economia. Enfatizzò la dialettica che ebbe con l’allora premier, «quello che cercai di fare è noto», sospirò. Adesso dà un’intervista a «Chi» - pensosa rivista di critica del berlusconismo diretta dal mai berlusconiano Alfonso Signorini - e confida: «Quando ero ministro non ho mai pensato di fare le scarpe a Berlusconi. Silvio avevi i voti e, quindi, il potere. Allora non era scalabile». Allora, appunto; oggi, invece...
I cambi di casacca dei paria sarebbero il meno, la Carlucci, Santo Versace. Le lettere dei deputati frondisti - gli Stracquadanio, le Giustine Destro - farebbero sorridere. Già più rivelatrici di questa antropologia gregaria sono certe conversazioni intercettate, come la Prestigiacomo che si lascia andare, «Berlusconi purtroppo non è intelligente»; o miserie come la Minetti che dà al Cavaliere del «vecchio di m...». Per non dire del senso di ripulsa quando pezzi da novanta del berlusconismo - per esempio Roberto Formigoni, il Celeste che farebbe forse meglio a occuparsi dei suoi, di guai - ne sanciscano spensieratamente la fine prima che lo sappia l’interessato: a ottobre il governatore lombardo già gonfiava il petto, «non sarà Berlusconi il nostro candidato». Oppure di Roberto Calderoli, che tra i leghisti era l’ufficiale di collegamento col berlusconismo, il quale fa il sardonico sulla proposta del Cavaliere semipresidenziale, «si finge di voler cambiare tutto quando invece non si vuole cambiare niente...». Era il ministro per le Riforme di Berlusconi, vi rendete conto?!?
«Libero» sembra diventato «Il Fatto». Belpietro sulla proposta del semipresidenzialismo del Pdl scrive cose come «fossimo nel Cavaliere, invece di pensare al Colle penseremmo al Pdl». È già leggenda, in tema Rai, la lite di qualche mese fa tra Gianluigi Paragone e Stracquadanio, col conduttore che gridò al deputato «avete sbagliato tutto! voi politici non siete i padroni della Rai!». Ma assistiamo anche al patetico fenomeno di polemisti superberlusconiani che s’arrampicano sugli specchi e si professano pro Grillo.
Ecco. Dopo le amministrative Ignazio La Russa in tv si sentiva in condizioni di dettare la linea al Capo, «fossi stato in Berlusconi non avrei incontrato Monti prima dei ballottaggi». E Maurizio Gasparri, da sempre superberlusconiano, oggi non teme più il reato di lesa maestà: «Se Berlusconi dovesse dire che non vuole più andare avanti con il Pdl il partito andrà avanti lo stesso. È un problema suo se non ne vuole far parte». Un problema suo? Non ci si crede.
Sarebbe nulla se tutto questo riguardasse solo la tragedia di un uomo ridicolo; illumina invece le inclinazioni peggiori di un Paese, il voltagabbanismo, la ricerca di facili colpevoli, e un’inestirpabile tendenza all’autoassoluzione: l’autobiografia di una nazione. Quel che è peggio, forse, è che il Palazzo è davvero uno specchio (magari leggermente deformato) di ciò che accade nella società italiana. Filippo La Porta su Europa notava che ormai la parola «berlusconiano» si usa come insulto al supermercato: ovviamente, da parte della maggioranza silenziosa che fino a ieri, al Cavaliere, ha rumorosamente leccato i piedi.
IN MEMORIA DI DON PRIMO MAZZOLARI.
(...) don Primo Mazzolari era solito dire che rimettersi totalmente, ciecamente a un uomo, per autorevole che fosse, era come dimettersi da uomo. E agli uomini della sua parrocchia puntualmente ricordava: "Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa". (Angelo Casati, Libera parola. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Ovvero della paura di pensare, in “mosaico di pace” del novembre 2010)
Cronache del parroco di Bozzolo
di Angelo Paoluzi (“Europa”, 28 febbraio 2012)
Non è morto nel 1959 perché il suo messaggio sembra scritto oggi. Don Primo Mazzolari, «la tromba dello Spirito Santo della Bassa mantovana» - così lo definì papa Giovanni XXIII -, è ancora fra noi, con il suo potere di ammonimento e possiamo dire di profezia.
Nelle centoventi pagine di un’antologia dal titolo Come pecore in mezzo ai lupi le edizioni, Chiarelettere (Milano 2011, 7 euro) ripropongono testi che continuano a servire come catechismi di moralità politica. Nella prefazione don Virginio Colmegna parla di «attività provocatoria » di don Primo, di una «nuova cultura politica, partecipata, rilanciando la connessione virtuosa fra etica e impegno politico, riscoprendo una soggettività che ha il coraggio del servizio disinteressato, del bene comune come responsabilità».
Un concetto al quale risponde - sembra per i nostri giorni - il brano di un articolo scritto su Adesso nel 1950: «Un popolo che stenta a vivere e conta a milioni i suoi disoccupati e ha lo schifo di pochi avventurieri che buttano via volgarmente il denaro, ha diritto di vedere che almeno gli uomini da lui scelti per governarlo, se non proprio poveri, siano almeno distaccati, in omaggio a quello spirito di povertà da cui prendono nome e vanto».
Così un’amara osservazione sui principi, sui quali «è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali, posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità materiale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alle necessità». E sullo spettacolo (triste immagine dei nostri tempi) «poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria, che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari, che esaltano la santità della famiglia».
Abbiamo di don Mazzolari un ricordo preconciliare. Si svolse a Napoli, negli anni che precedettero il Vaticano II, un convengo di scrittori cattolici, cui partecipò il meglio della cultura di allora, da Giancarlo Vigorelli a Giorgio La Pira, da Carlo Bo a Mario Pomilio. Fra essi un silenzioso don Primo: il suo Adesso era sotto il tiro della censura clericale. In un gruppo di lavoro si sfogò: chiese a tutti i laici presenti che cosa stessero rischiando, in quanto credenti, della loro libertà: un povero prete come me questo rischia, disse, e sventolò la tonaca. Erano gli anni in cui, fra la generale diffidenza ecclesiale, si batteva per la pace, per l’obiezione di coscienza, per una Chiesa che respingesse - come più tardi essa fece - la legittimità della guerra.
Come pecore fra i lupi restituisce al nostro ricordo il tenace parroco di Bozzolo, che non soltanto i fascisti non riuscirono a piegare
Il potere in maschera
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 18 ottobre 2011)
Che l’Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: "Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte". Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere.
Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C’è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L’ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.
Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l’attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.
Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su Repubblica, di un colloquio telefonico avvenuto nell’ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: "Mi manda il Capo". Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: "Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere". E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l’impunità: "Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri".
Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un’autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l’appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l’esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l’attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli. La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall’altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l’agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.
Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d’interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n’è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.
È dagli inizi degli anni ’80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull’Italia. Peggio: è dalla fine degli anni ’70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell’Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all’incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l’un l’altra, come nei Piani della P2.
Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l’elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest’ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: "Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro". Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.
La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell’opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D’improvviso non c’è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: "I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all’età loro non l’abbiamo fatto". E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente ("È un gran peccato") la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.
La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d’ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell’inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s’intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d’ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: "Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l’antitesi radicale della Democrazia".
Il Parlamento degli schiavi
di Furio Colombo (il Fatto, 02.10.2011)
L’Italia si è incastrata in una secca dalla quale non può uscire. Lo sguardo si abbassa fino a Berlusconi, per ricordare la sua grave e immensa responsabilità. Ma solo per ricordarla. Finora non siamo riusciti a fare altro. Lo sguardo si alza verso il Presidente della Repubblica con la richiesta, a momenti affannata, che “faccia qualcosa”, pur sapendo benissimo che la Costituzione (che non aveva previsto una maggioranza parlamentare a pagamento, voto per voto) non lo consente. Ci restano oggi, le sue parole dure contro la Lega padana, il piccolo-grande complice di Berlusconi. Lo sguardo irato e angosciato dei cittadini si è fissato allora sul Parlamento. È subito divampata una polemica carica di ragioni e di prove, su sprechi, privilegi e spese fuori misura. Tutti si devono rendere conto che è un problema (prima ancora, un fatto) che non potrà mai più essere accantonato. Eppure non è per questo che la macchina del Parlamento sta bloccando la nave Italia. Direte che il Parlamento è pigro e assenteista. Non è vero. Purtroppo sta lavorando. Tutto il suo lavoro è al servizio del governo e della sua pretesa rovinosa di restare governo, una sorta di ideologia rappresentata abbastanza bene, in una recente dichiarazione che potremmo chiamare “il Manifesto Lavitola” (diretta del Tg la7 la sera del 28 settembre) ovvero passare avanti e indietro, senza spiegazioni, grandi somme di danaro tra persone ricercate dalla giustizia. Il discredito è grande, come è grande il costo economico (praticamente incalcolabile) di quel discredito.
NEI GIORNI scorsi un importante giurista, Gustavo Zagrebelsky si è assunto il compito di dire perché il Parlamento, a cui spesso si fa riferimento come al luogo giusto per la vita democratica, sia adesso in Italia il luogo in cui ogni barlume di vita democratica si spegne, e anzi è il luogo e la ragione del blocco. Ecco il punto chiave del documento che Libertà e Giustizia presenterà a Milano il giorno 8 ottobre (già pubblicato dal Fatto il 30 settembre): “Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori dalla presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? (...) Ci pare anche gravemente offensivo del comune senso del pudore politico accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e trasformare il vero in falso e il falso in vero, gettando nel discredito le istituzioni parlamentari e, così, l’intera democrazia” . Ho citato questa dichiarazione estrema perché è la descrizione accurata di un giorno, ogni giorno, al Parlamento italiano. Per esempio , il giorno in cui la Camera dei Deputati ha votato a maggioranza, e con il sistema del “voto di fiducia” una circostanza falsa e palesemente tale, ovvero la dichiarazione del capo del Governo italiano di essere certo che una prostituta minorenne fermata in strada a Milano fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak.
Un simile dileggio dell’istituzione dovrebbe portare rivolta in Parlamento, prima di tutto fra le file della maggioranza, se qualcuno dei suoi membri avesse un minimo di rispetto per se stessa o se stesso. Ma, soprattutto dovrebbe portare rivolta nel-l’opposizione. Possiamo continuare ad essere soci regolari e partecipi di un club che vuole tenacemente avere nei suoi ranghi Saverio Romano e i suoi legami mafiosi, lo proclama in modo solenne con un voto di fiducia a cui partecipa tutta la Lega Nord (benché non sia in gioco la tenuta del governo, ma il prestigio della Camera dei Deputati) e poi ci fa assistere all’abbraccio fra il rinviato a giudizio per concorso esterno al reato di mafia e il presidente del Consiglio italiano? Possiamo passare avanti, sia pure con amarezza, a lavorare per altri “provvedimenti” di questo governo-gang che attendono di essere votati (cosa che faremo con assiduità e cura, credendo che sia quello il nostro dovere e il legame con i cittadini)? Possiamo dedicarci a migliorare qua e là, con giudiziosi emendamenti in Commissione Giustizia, la nuova legge sulle intercettazioni che i nostri elettori chiamano, fin dall’inizio, “legge bavaglio”?
DOVE, DA CHI abbiamo imparato che un’opposizione segue comunque l’ordine dei lavori stabilito dal governo, e che il governo può sempre imporre la sua volontà alla maggioranza succube? In onore o in omaggio o in ubbidienza a chi o che cosa noi dovremmo concorrere nella responsabilità di svilire l’istituzione cardine della democrazia? L’appello di Zagrebelsky indica con esattezza il punto cruciale del confronto fra sottomissione e liberazione. Posso testimoniare che, dentro il Parlamento, è un punto di solitudine. È diffusa la credenza che un bravo parlamentare non si volta mai indietro a guardare i suoi elettori. Il bravo parlamentare sta al gioco, per quanto iniquo e devastante, un gioco totalmente manovrato da fuori del Parlamento e distruttivo per la Repubblica.
Possibile che si debba lavorare di buona lena insieme con Milanese, con Saverio Romano, con mafia e camorra, con massoneria e gruppi d’affari P3 e P4, con gli svariati e fantasiosi reati compiuti, e in via di compimento,del presidente del consiglio? L’appello di Zagrebelsky dice in modo esplicito e solenne, con la garanzia della persona e del giurista, che una spaccatura grave e profonda divide in modo irreparabile (finchè dura la causa) il Paese e i suoi attoniti cittadini dalla istituzione Parlamento. Chiedo con angoscia e rispetto ai mie colleghi della Camera dei Deputati: siamo sicuri che la cosa giusta sia continuare a “lavorare insieme”, tentando di migliorare, emendare e comunque partecipare a vita e avventure di chi ha infettato alla fonte tutto il lavoro e l’esistenza stessa del Parlamento?
I burattini del Cavaliere
di Curzio Maltese (la Repubblica, 2 luglio 2011)
Nel teatro delle marionette del basso impero berlusconiano, ieri è stato il giorno del pupo Alfano, eletto segretario del Pdl o di Berlusconi, come dice Bersani, per acclamazione. Niente primarie, niente congressi. Negli spettacoli per bambini basta battere le mani. Per la prima volta Berlusconi è stato costretto dal calo di consensi a far acclamare un altro, e questa è la novità, il segno dei tempi.
Per il resto siamo appunto a un teatrino di marionette. L’ultimo divertimento del capo, che ormai ha tanto tempo libero. I magistrati cattivi l’hanno costretto a rinunciare ai bunga bunga e governare non deve, non può, non sa più fare dal dicembre scorso, quando fu approvata la legge Gelmini. Ultimo e sventurato atto di governo. Da allora, il nulla. Con l’ultima manovra, il governo Berlusconi ha addirittura ammesso a chiare lettere che non è nemmeno più in grado di compiere l’atto di governo per antonomasia, la finanziaria, e l’ha rinviata alla prossima legislatura, quando forse l’Italia avrà un governo vero. Nell’attesa, nella noia del tempo libero, Berlusconi s’è messo dunque a fabbricare marionette. Alcune gli si sono rotte fra le mani, come Capitan Terremoto, al secolo Guido Bertolaso, e il ministro della polemica inutile, Renato Brunetta. Altre gli sono venute malissimo fin dal principio, per esempio quel Frattini del quale si vedono troppo i fili.
Altre ancora reggono, come il fantoccio di Umberto Bossi, ridotto ormai a maschera regionale della commedia dell’arte, al governo da un decennio, ma sempre bravissimo a fingere ogni mese di farlo cadere. Un piccolo capolavoro è il burattino di Giulio Tremonti, il Quintino Sella de noantri, che ha riscosso successo anche presso le scolaresche di sinistra. Fenomenale l’ultimo show di Giulietto che, manovrato dall’alto dal Mangiafuoco di Arcore, ha presentato la finanziaria del proprio successore, spiegando che il risanamento dei conti pubblici si faranno «nel medio termine». Quando, come diceva il grande John Maynard Keynes, saremo tutti morti. Nel magazzino di Mangiafuoco si contano poi centinaia di altri piccoli pupi a forma di giornalista, dirigente Rai, ministro e ministra, deputato «responsabile», ma non vale nemmeno la pena di parlarne.
Angelino Alfano è una via di mezzo fra Tremonti e Frattini, ma con il rischio di finire come Bertolaso. Per quanto siciliano, non appartiene alla grande e coloratissima tradizione dei pupari, ma piuttosto alla più grigia genia delle marionette da ventriloquio. Certi giorni però può sembrare che parli davvero di suo. Ti accorgi che non è vero perché, non appena esprime un giudizio all’apparenza autonomo, subito ci attacca un lungo (auto) elogio di Berlusconi. Talvolta con lieve inflessione milanese. Ieri per esempio ha ammesso che nel Pdl ci sono anche corrotti e delinquenti, ma prima e dopo, a scanso di facili equivoci, ha ricordato che Berlusconi è un perseguitato dalla magistratura. Il suo programma è di fare del Pdl il partito degli onesti, al cui confronto l’utopia di Tommaso Moro era uno scherzo.
Berlusconi muove i fili, assistito da qualche Bisignani, e sta alla cassa. Non può più presentare la propria faccia, per quanto ritoccata, deve affidarsi a maschere e burattini e perfino fingere di guidare un partito democratico. Questo è già qualcosa. Lo spettacolo non è gran cosa, ma i biglietti sono omaggio. L’impressione però è che alla lunga ci costerà moltissimo.
Tangenti, spie e burattinai
la corruzione al potere
di Guido Crainz (la Repubblica, 26.06.2011)
«C’era un Paese che si reggeva sull’illecito»: lo scriveva Italo Calvino nel 1980, in un fulminante Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che segnalava con lucidità un mutamento decisivo. In quei mesi infatti la tangente Eni-Petromin, lo scandalo dell’Italcasse e altri venivano a confermare un imporsi della corruzione come metodo rivelato già nel 1974 dalle tangenti petrolifere.
Quello stesso 1974 in cui era iniziata la parabola discendente di Michele Sindona, inutilmente contrastata da pressioni politiche e criminali (con l’aggressione alla Banca d’Italia di Baffi e di Sarcinelli, e l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli). Nel frattempo lo scandalo Lockheed aveva coinvolto, oltre a ex ministri, anche figure di mediatori come Antonio e Ovidio Lefebvre. E ancora nel 1980, mentre Craxi faceva aprire in Svizzera il conto "Protezione", Licio Gelli usciva allo scoperto sulle ospitali pagine del Corriere della Sera.
Poco dopo le liste della P2, rinvenute dai giudici Turone e Colombo nelle indagini su Sindona, faranno emergere meglio la trama che ha i nomi del Banco Ambrosiano di Calvi, dello Ior, della Rizzoli. Ed evocheranno inoltre sia oscure ombre precedenti o presenti (dalle trame eversive del passato sino al ruolo dei servizi durante il rapimento Moro o alla strage alla stazione di Bologna), sia inaspettate proiezioni nel futuro. Anche a prescindere, naturalmente, dai nomi di Berlusconi o di Cicchitto (che sarà allontanato per alcuni anni dal pur comprensivo Psi di allora).
Figura in quelle liste, ad esempio, il socialista Teardo, che sarà al centro di uno dei due scandali che nel 1983 fanno già intravedere - in Liguria, appunto, e a Torino - quella devastazione della vita pubblica che crescerà negli anni Ottanta sino all’esplosione di Tangentopoli. Esplosione che ha la sua massima espressione nell’affare Enimont, che culmina tragicamente con i suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini (preceduti da quello - avvolto in più oscure nebbie - di Sergio Castellari). Fra i condannati al processo Enimont vi è un altro nome già presente nelle liste della P2: Luigi Bisignani.
Un commentatore pur moderato come Sergio Romano osservava allora che gli storici della "prima Repubblica" avrebbero letto gli atti giudiziari di Mani Pulite come gli storici della Rivoluzione francese leggono i cahiers de doléances inviati agli Stati generali: affreschi entrambi di due profondissime crisi di regime. Occorrerà comprendere meglio perché - dopo lunga incubazione e inascoltati segnali - siano poi riesplosi quei fenomeni giganteschi di corruzione e di distorsione delle istituzioni che le intercettazioni sulla "cricca" hanno ampiamente rivelato nel febbraio del 2010. Svelando, ad esempio, che la Protezione civile, lungi dall’essere strumento dell’emergenza, si era trasformata nello svuotamento quotidiano della democrazia, completamente privata di norme e controlli: una deformazione che stava per essere istituzionalizzata al livello più alto.
In quell’occasione molti hanno osservato che rispetto agli anni di Tangentopoli il "rubare per sé" appare oggi molto più diffuso del "rubare per il partito". Osservazione sin troppo scontata, dato che i partiti, nella forma di allora, non esistono più: e sciaguratamente questo ha portato talora ad affrontare in proprio, per così dire, i "costi della politica". Così come ha dato un peso crescente alle cricche e a quelle forme di relazione che le cronache di questi giorni hanno illuminato di luce cruda. Ricordandoci la vecchia intervista di Gelli al Corriere: da piccolo, disse, volevo fare il burattinaio.
PER UN’ITALIA FUORI DAL SONNAMBULISMO (1994-2011)!!! AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’INVITO A RIPRENDERSI LA "PAROLA" E A RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL PAESE: VIVA L’ITALIA!!!
RISULTATO REFERENDUM: 57%. IL "QUORUM" DELL’ITALIA E LA GRANDE SBERLA A CHI CERCA DA ANNI DI METTERE LA COPPOLA SUL PAESE E METTERE IN BARILE UN POPOLO DI PERSONE LIBERE E SOVRANE.
IL REFERENDUM DEL 12 E 13 GIUGNO 2011 E IL LEGAME TRA CHIESA E SOCIETA’ IN ITALIA, OGGI: RITROVATA E RIPRESA LA MEMORIA DELLA LEGGE, DEL FUOCO, E DELL’ACQUA DELL’ALLEANZA ...
ACQUA, FUOCO, LEGGE DELL’ALLEANZA! UN’ESPLOSIONE D’AMORE - LA PENTECOSTE, "LA DONAZIONE DI PIETRO", E IL CATTOLICESIMO ROMANO. Una riflessione di Jacques Noyer, con una nota di Federico La Sala
(...) Si potrebbe credere che l’esplosione d’Amore che è la Pentecoste sia da moltissimo tempo diventata inoffensiva. Lungo la storia, però, degli uomini e delle donne hanno buttato all’aria le tradizioni e le ovvietà per disegnare con le loro parole e con i loro gesti quel Regno di Dio che continua a rimbombare nelle profondità della nostra umanità.
Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione..
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di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 09.02.2011)
Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
Il partito della salvezza
di Angelo D’Orsi (il Fatto Quotidiano, 07.01.2011)
Il 2 giugno scorso redassi un manifesto che cominciava con queste parole: “L’Italia è molto oltre la crisi di nervi. L’Italia che festeggia oggi la nascita della Repubblica - uno dei pochi momenti della sua storia in cui il popolo è stato sovrano, attuando una rivoluzione istituzionale, che si legava al “vento del Nord”, la grande speranza suscitata dalla Resistenza - si trova a fronteggiare, quasi inerte, una crisi drammatica”.
La crisi cui alludevo non riguardava soltanto l’economia, o le istituzioni, o l’informazione: la crisi era - ed è, tanto più oggi, a sei mesi di distanza - una crisi di sistema. Siamo nel pieno di una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani. Come gli eventi del 14 dicembre - tra il Parlamento e la piazza - hanno dimostrato, noi italiani, come in altre stagioni della storia, ci troviamo in una situazione di contrapposizione radicale. Lo scontro è durissimo, e grazie alla prepotenza del tiranno - forte del suo strapotere finanziario e mediatico - si acuisce settimana dopo settimana.
Chi mette in dubbio il valore dell’Unità
NESSUNA CERTEZZA ci è rimasta; basti dire, che mentre ci accingiamo a celebrare i 150 anni di esistenza dello Stato unitario, una forza politica la mette sotto accusa, quasi fosse uno dei grandi mali del Paese, negandone provocatoriamente il valore storico e il significato politico. La Sinistra è spappolata e tenta in qualche modo di raccogliere le sparse membra per rilanciarsi, ma l’impresa appare difficilissima. Le forze di opposizione sono esitanti, e nel momento del redde rationem hanno rivelato la loro debolezza, mostrando quanto grande sia lo spazio tra le dichiarazioni e l’azione: il tycoon a capo del governo, in grado di comprare non soltanto i voti, ma l’anima dei suoi avversari, ride, ride, non cessa di ridere, mentre continua la sua campagna acquisti. Se vi è chi riesce a comprare è perché esiste un mercato sul quale si possono reperire uomini e donne in vendita.
Si è sostenuto sovente che il trasformismo è uno dei mali d’Italia; ma qui si tratta d’altro: qui siamo all’infamia, che mostra la pochezza di un’intera classe politica e l’impotenza delle istituzioni, la complicità di una parte dei media; qui siamo alla vendita e acquisto dei voti in Parlamento. In passato e ancora oggi, specie nel Mezzogiorno, certi personaggi politici facevano campagna elettorale col pacco di pasta o con le mille lire tagliate a metà. Ora la compravendita è giunta in Parlamento, gettando ignominia su quel consesso, ma anche su quei partiti che hanno accolto nelle loro file individui non spregevoli, ma spregevolissimi.
Ennesimo, certo non ultimo segnale di un degrado ogni giorno più evidente e pericoloso, che dalle istituzioni giunge ai singoli e viceversa. Il catalogo è lungo, tra inefficienze e nefandezze, menzogne e sprechi, iniquità sociali e bassezze morali. Quanto c’è dell’oggi, legato essenzialmente alla figura malefica del Cavaliere e quanto dei nostri ieri nella politica messa in atto da un gigantesco “Partito della Devastazione”? Da dove giungono le miserie odierne? In tal senso giunge opportuno il bel libretto di Paul Ginsborg, lo studioso inglese che da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana (pur conservando - e fa bene! - la sua d’origine): Salvare l’Italia (Einaudi) si intitola, significativamente. Un titolo che suona classico, stentoreo, ma non retorico: e io condivido il messaggio che esso contiene e che evoca grandi spiriti, da Cattaneo a Rosselli, da Pisacane a Gramsci. Oggi si tratta di tentare, precisamente, di opporre un ideale “Partito della Salvezza” al partito in atto “della Devastazione”.
Ginsborg, con arguzia e ricca informazione, ripercorre molti fili della storia di questo sfortunato Paese, sovente connettendoli a una trama europea. Salvare l’Italia da quali pericoli? - si chiede. Sono quattro: 1) “Una Chiesa troppo forte in uno Stato troppodebole”; 2) il clientelismo, mai debellato e anzi mai affrontato seriamente come un male cronico, gravissimo; 3) “la ricorrenza della forma dittatura”; 4) la “povertà delle sinistre”.
Il raffronto tra il duce e Berlusconi
LA VICENDA della formazione unitaria, i limiti del Risorgimento, gli errori e le miopie delle classi politiche che si sono succedute nel corso di un secolo e mezzo; le timidezze delle forze di una sinistra che pare aver rinunciato alla “bellezza della lotta”, che costituisce un elemento di fondo del suo background.
Particolarmente stimolante il raffronto, tra Mussolini e Berlusconi, enumerando somiglianze e differenze; certo, nota Ginsborg, questo raffronto che fino a qualche tempo fa suscitava riprovazione e quasi scandalo, oggi sta diventando quasi un esercizio obbligato: troppi i punti di contatto, anche nella distanza temporale e nella mutata temperie storica. Ginsborg prova anche - esercizio da lui, come da altri studiosi, già compiuto nel saggio intitolato proprio a Berlusconi (Einaudi, 2003) - a sondare le ragioni del successo di questo falso modernizzatore, che seduce le casalinghe avvinghiate al televisore che ogni sera racconta inesistenti famiglie felici, imprenditori capaci, giovani di successo, donne belle e fortunate...
A questa Italia passiva e plaudente al sorriso del Cav, che la modella e a sua volta la rispecchia, il nostro nuovo concittadino Paul oppone un’altra Italia: una “nazione mite” ma combattiva, che riscopra la politica dal basso, che sia quasi una guerriglia autenticamente democratica, una Italia di cittadini attivi e non più passivi e inerti. Il Risorgimento, non da prendersi come modello alla lettera, offre buoni spunti in tal senso. E in fondo, come ho scritto io stesso su questo giornale, oggi “non possiamo non dirci garibaldini”.
La metamorfosi dei Presidenti nell’Italia senza regole
di Carlo Galli (a Repubblica, 28. 10.2010
Tra gli effetti del lodo Alfano c’è quello di innalzare il rango costituzionale del presidente del Consiglio, e contemporaneamente - anche se verrà corretta la previsione che il blocco dei processi sia subordinato a un voto del parlamento - di abbassare quello del presidente della Repubblica, che viene parificato al premier per la temporanea immunità davanti ai reati comuni.
In realtà, si tratta di due figure assai diverse, per significato, per legittimità, e per finalità. Il presidente del Consiglio è l’espressione di una parte che resta tale - la maggioranza (quella reale o quella resa tale dalla legge elettorale) - , poiché governa legittimamente l’Italia secondo una linea che non deve essere condivisa da tutti (esiste, altrettanto legittima, l’opposizione); il presidente della Repubblica, invece, ha nell’unità la propria cifra caratterizzante.
Infatti, il legislativo - il parlamento, che concede la fiducia al governo - è composto da "membri", ciascuno dei quali "rappresenta la Nazione" (art. 67 della Costituzione); mentre il presidente della Repubblica è il "Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale" (art. 87). L’Italia è quindi rappresentata sia da un corpo composto da membri (il parlamento) sia da un Capo al quale è associata l’idea di unità. Che il testo costituzionale, pur così moderno nelle forme e nei contenuti, utilizzi l’antichissima immagine (ecclesiastica, ma anche romana) delle membra e del capo di un corpo, significa che la compagine giuridico-politica del Paese - l’ingranarsi del potere legislativo, espressione della dialettica politica che è la vita della nazione, dell’esecutivo, che a quella dialettica dà una direzione specifica (di centro, di destra, di sinistra), del giudiziario, che amministra le norme che gli altri due poteri stabiliscono e mettono in pratica - richiede, per funzionare ordinatamente, una proiezione simbolica verticale. Ci deve essere autorità, perché ci siano i poteri legali.
Un’autorità non trascendente, e anzi democratica, che non nasce dal sangue e da Dio, come quella
che nello Statuto albertino era detenuta dal re e dalla sua "maestà".
Al contrario, la legittimità del
presidente della Repubblica, secondo la nostra Costituzione, deriva da un’elezione di secondo grado,
da parte del parlamento; questa procedura stacca il presidente dalla vita dei partiti e dalla loro
inevitabile conflittualità, e proprio per questo distacco - che non è una contrapposizione - gli
consente di simboleggiare, di rappresentare con autorità l’unità del popolo.
Di fatto, questa figura democratica dell’autorità è disegnata, nella Costituzione, come un potere neutro, come un’istituzione di garanzia che provvede a regolare - come il bilanciere di un orologio - il funzionamento della macchina delle istituzioni; a tal fine il presidente della Repubblica collabora alle dinamiche dei tre poteri dello Stato, curandone la rispondenza formale alle procedure costituzionali. È in questa distanza dai contenuti specifici dell’opera dei poteri statali la spiegazione della irresponsabilità del presidente, prevista dalla Costituzione.
Questo ruolo di garanzia, di autorità super partes, è stato interpretato - da De Nicola fino a Napolitano - da democristiani, socialisti, comunisti, socialdemocratici, laici. Vi sono stati presidenti conservatori e progressisti, notarili e interventisti; non tutti sono stati perfetti e impeccabili (basti ricordare le polemiche su Segni e il "piano Solo", nell’estate del 1964, o la richiesta comunista di mettere Cossiga in stato d’accusa nel 1991); alcuni hanno voluto imprimere alla politica certe direzioni piuttosto che altre (Gronchi favorì il centrosinistra); alcuni si sono dimessi (Leone e Cossiga), altri sono stati amatissimi e popolari (Pertini, Ciampi) o hanno ispirato molta fiducia (Napolitano).
Ma in generale, comunque si presenti, la garanzia che è fornita dal presidente della Repubblica non è formalismo; è anzi la custodia - autorevole ma non autoritaria - della democrazia, per la salvaguardia del significato autentico della Costituzione: il rispetto delle competenze e del decoro costituzionale, l’equilibrio fra le componenti storiche del Paese e fra le sensibilità e gli interessi che lo costituiscono, la pari dignità fra i cittadini e fra le forze politiche e sociali. E tutto ciò non è ipocrisia, né vuoto cerimoniale: è politica, sottratta alla politica quotidiana, e quindi più alta e più profonda di questa.
L’aspetto "politico" dell’autorità del presidente è meno evidente nei tempi "normali" della
Repubblica, mentre è molto rilevante quando, come ai nostri giorni, prevalgono le tentazioni di
forzatura costituzionale, le interpretazioni plebiscitarie della democrazia, i disegni di squilibrare i
poteri dello Stato a favore dell’esecutivo. Quando si cerca di deformare la Costituzione, il presidente
proprio per esserne custode - deve resistere, diventando così un attore, di fatto, della politica; ma
senz’altro contenuto e senz’altra finalità che di consentirne il normale funzionamento. La fiducia che
gli italiani oggi manifestano per Napolitano è quindi rivolta, oltre che alla persona, anche alla forma
democratica e istituzionale dell’autorità, e a una politica che sia rispettosa delle indicazioni della
Costituzione.
L’unità nazionale è la mia stella polare
Un brano dell’intervento di ieri del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’École Normale Supérieure di Parigi. *
Nell’Assemblea Costituente del 1946-47, si discusse ampiamente sul come caratterizzare la figura del Presidente della Repubblica; se ne discusse prendendo in considerazione, con apertura e ricchezza di riferimenti e argomenti, diverse ipotesi e possibilità di scelta, non esclusa l’opzione presidenzialista.
La conclusione di quel dibattito fu nettamente favorevole a un Capo dello Stato eletto dal Parlamento e non direttamente dai cittadini, titolare di rilevanti prerogative e attribuzioni ma non di poteri di governo, chiamato a intrattenere col Paese un rapporto non condizionato da appartenenze politiche e logiche di parte. La Costituzione pone in cima all’articolo che sancisce caratteri e compiti del Presidente della Repubblica, l’espressione-chiave: «rappresenta l’unità nazionale». Egli la rappresenta e la garantisce svolgendo un ruolo di equilibrio, esercitando con imparzialità le sue prerogative, senza subirne incrinature ma rispettandone i limiti, e ricorrendo ai mezzi della moral suasion e del richiamo a valori ideali e culturali costitutivi dell’identità e della storia nazionale.
E chiudo qui questa digressione, della cui lunghezza e apparente estraneità al nostro incontro di oggi spero vorrete scusarmi. Ma se il rappresentare l’unità nazionale è la stella polare del ruolo che mi è stato affidato dal Parlamento, è lì anche - questo volevo sottolineare - la ragione prima del mio impegno per le celebrazioni del 150° anniversario dello Stato italiano. A maggior ragione in un periodo nel quale sul tema dell’unità nazionale pesano sia il persistere e l’acuirsi di problemi reali rimasti irrisolti, sia il circolare di giudizi sommari (in taluni casi, fino alla volgarità) sul processo che condusse alla nascita del nostro Stato unitario e anche sul lungo percorso successivo, vissuto dall’Italia da quel momento, da quel lontano 1861 a oggi. Siamo in presenza di tensioni politiche, di posizioni e manovre di parte, di debolezze e confusioni culturali, di umori ostili, che ruotano attorno alla questione dell’unità nazionale e che le istituzioni repubblicane debbono affrontare cogliendo un’occasione come quella del 150° anniversario del 17 marzo 1861.
Coglierla attraverso un’opera di ampia chiarificazione, riproponendo e arricchendo le acquisizioni della cultura storica, e collegandovi una riflessione matura sulle tappe essenziali della successiva nostra vicenda nazionale. Dovrebbe trattarsi - come ho avuto occasione di dire - di un autentico esame di coscienza collettivo, che unisca gli italiani nel celebrare il momento fondativo del loro Stato nazionale. Riuscirvi non sarà facile, l’inizio è risultato difficile, ma cominciamo a registrare una crescita di interesse e di impegno, una moltiplicazione di iniziative anche spontanee.
Non ho voluto tacervi il quadro delle preoccupazioni che mi muovono. Ma debbo aggiungere che esse non nascono da timori di effettiva rottura dell’unità nazionale. Polemiche e contese sui rapporti tra il Nord e il Sud, per quanto si esprimano talvolta in termini e in toni estremi, e rumorose grida di secessione, trovano il loro limite obiettivo nel fatto che prospettive separatiste o indipendentiste sono - e tali appaiono anche a ogni italiano riflessivo e ragionevole - storicamente insostenibili e obiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi.
Quel che preoccupa è dunque altro: è il possibile oscurarsi della consapevolezza diffusa di un patrimonio storico comune, il tendenziale scadimento culturale del dibattito e della comunicazione. Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso e di veder crescere tra gli italiani il sentimento dell’unità: nell’interesse dell’Italia e - lasciate che aggiunga - nell’interesse dell’Europa. [...]
Rispetto a tendenze che circolano in Italia, come quelle che ho evocato, e anche tenendo conto del loro sorprendente provincialismo, è particolarmente importante un contributo quale il vostro, di riflessione sul respiro europeo del movimento per l’unità italiana e dei suoi maggiori protagonisti, e sul quadro delle vicende europee in cui quel movimento si collocò. Come si può ignorare l’impronta ginevrina e parigina, e anche londinese, della formazione - diciamo pure tout court europea - di Cavour? O l’influenza della storia e del pensiero francese sul maturare del bagaglio culturale e del disegno politico di Giuseppe Mazzini, per non parlare del suo radicamento nell’Inghilterra di quel tempo? Il flusso dei grandi messaggi ideali provenienti dalla Francia dell’epoca rivoluzionaria e del periodo napoleonico fu retroterra essenziale del Risorgimento.
Cavour vide più lucidamente di chiunque il quadro internazionale - con i condizionamenti oggettivi che ne derivavano - in cui collocare la strategia del piccolo e ambizioso Regno di Sardegna e la questione italiana. Erano in giuoco in Europa - allora teatro privilegiato e decisivo della politica mondiale - gli equilibri usciti dalla prima e dalla seconda Restaurazione, i moti per le libertà costituzionali contro il dispotismo, gli equilibri sociali sotto il premere di nuovi conflitti, l’affermazione del principio di nazionalità e le lotte per l’indipendenza contro il dominio imperiale austriaco. Il sapersi muovere con audacia e duttilità, e con i necessari adattamenti, in questo contesto fu per Cavour fattore determinante di superiorità ai fini della guida del movimento nazionale italiano, e fattore non meno determinante per il successo ultimo della sua strategia al servizio della causa dell’Unità italiana.
L’asse della politica europea di Cavour fu l’alleanza con la Francia di Napoleone III, senza peraltro trascurare l’importanza, in momenti significativi, del rapporto con l’opinione pubblica, ambienti politici e governanti della liberale Inghilterra. E sappiamo anche come fu non lineare, e quali tormenti suscitò in Cavour, la ricerca dell’intesa con l’imperatore francese - basti pensare a quei drammatici giorni dell’aprile 1859 quando Cavour vide il suo disegno sul punto di crollare e visse momenti di estremo sconforto. Poi gli eventi presero il corso da lui voluto della II Guerra d’indipendenza. E le battaglie di Solferino e San Martino cementarono nel sangue un’alleanza che cento anni più tardi, nel 1959, il Presidente francese eletto l’anno precedente, il generale De Gaulle, volle, venendo in Italia per quelle celebrazioni, indicare come il «trovarsi insieme dei campioni di un principio grande come la terra, quello del diritto di un popolo a disporre di se stesso quando ne abbia la volontà e la capacità».
Infine, vorrei ribadire come l’altro fattore decisivo dell’affermarsi della funzione egemone di Cavour in Italia e del progredire della causa italiana, fu - come ha scritto Rosario Romeo - che «Cavour stette indubbiamente dalla parte del realismo e della moderazione, ma ebbe l’intuizione di ciò che valessero le forze e i motivi ideali nella costruzione dell’edificio italiano». E mi permetto di aggiungere, reagendo a una certa moda attuale di esaltare, rispetto a Cavour, altre personalità del Risorgimento e del movimento per l’Unità, che la grandezza del moto unitario in Italia sta precisamente nella ricchezza e molteplicità delle sue ispirazioni e delle sue componenti; la grandezza di Cavour sta nell’aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte divergenti, nell’aver saputo padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco essenziale della conquista dell’indipendenza e dell’unità nazionale.
Quando, logorato da anni di dure fatiche e di «dolori morali», scrisse, «d’impareggiabile amarezza», cessò di vivere il 6 giugno 1861, Cavour poté senza dubbio lasciare come suo estremo messaggio quello che «l’Italia era fatta». Ma nel grande discorso per Roma capitale tenuto in Parlamento il 25 marzo, otto giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, egli aveva affermato: «L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa». Tra quei «gravi problemi» era destinato a risultare come il più complesso, aspro e di lunga durata il problema del Mezzogiorno, dell’unificazione reale, in termini economici, sociali e civili, e dei suoi possibili modi, tra Nord e Sud. Possiamo dire oggi che quella resta la più grave incompiutezza del processo unitario.
* LA STAMPA, 30/9/2010
Scuola di Adro, l’altolà di Napolitano
"Fuori i simboli padani dalle classi"
La lettera del capo dello Stato:
«Bene l’intervento della Gelmini» *
ROMA «Il capo dello Stato ha apprezzato il passo compiuto dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, invitando il sindaco di Adro a rimuovere quelle esibizioni».
Sono parole del segretario generale della presidenza della Repubblica, contenute nella lettera indirizzata ai 185 genitori del comune bresciano che nei giorni scorsi si erano rivolti al Quirinale per chiedere un intervento in merito alla presenza dei 700 ’Soli delle Alpì nel nuovo polo scolastico del paese. Napolitano - si legge ancora nella missiva - «ha ribadito la sua convinzione che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire in sede pubblica, quelli della nazione e dello Stato, nè questi possono essere oggetto di provocazione e sfide».
È il più recente sviluppo di una vicenda che, giorno dopo giorno, sembra registrare sviluppi a senso unico. Il sindaco Oscar Lancini da più di una settimana non rilascia dichiarazioni. Ieri sera ha addirittura rinviato il consiglio comunale perchè i fotografi e gli operatori non intendevano attenersi alla sua richiesta di lasciare l’aula prima che la seduta iniziasse. Il consiglio si terrà domani, ma a porte chiuse, ulteriore testimonianza della tensione che regna in amministrazione ad Adro. Ieri sera, peraltro, i cittadini sia prima che dopo la decisione di non iniziare il consiglio hanno conversato e discusso senza particolare tensione.
All’ordine del giorno non era prevista la discussione della questione dei ’soli delle Alpì, ma i consiglieri d’opposizione erano fermamente intenzionati ad intervenire in merito. Il nuovo polo scolastico, intitolato a Gianfranco Miglio, è stato realizzato a tempo di record, in un anno, e inaugurato il 12 settembre scorso. Sin da quel giorno sono divampate le polemiche per la presenza del simbolo leghista del ’sole delle Alpì. Il sindaco Oscar Lancini ha sempre replicato che si tratta di «un simbolo del territorio e non di partito». Le polemiche hanno registrato ogni giorno una presa di posizione, ma la vera svolta si è avuta nel fine settimana successivo all’inaugurazione. Il ministro Maria Stella Gelmini ha infatti invitato il sindaco, attraverso il Dirigente Scolastico Regionale della Lombardia, a rimuovere i simboli. Lancini, il giorno successivo ha dichiarato: «se me lo dice Bossi, non domani, ma ieri».
La polemica si è accesa ulteriormente, ma da allora il primo cittadino di Adro non ha più rilasciato dichiarazioni. Lancini, che è stato riconfermato con il 62% dei voti nel 2009, ha sempre avuto una grossa fetta della popolazione al proprio fianco nella battaglia per la presenza dei «Soli» nella scuola. Secondo le opposizioni ora, però, sta solo attendendo che cali il clamore mediatico per attuare una “exit strategy” che non si profila agevole. Non fosse altro per quel sole delle alpi dal diametro di dieci metri che si trova sul tetto della scuola.
* La Stampa, 28/9/2010
Un paese in ginocchio
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.09.2010)
L’immagine dell’Italia trasmessa dai media, per una persona per bene di buon senso, è raccapricciante. Lo squallore della sua politica ha sfondato ogni soglia della decenza. Il governo si da con maniacale accanimento alla distruzione delle fondamenta dello stato democratico con lo strumento della demagogia populista più vieta, dell’intorbidamento delle acque per cancellare le differenze fra il giusto e l’ingiusto, fra la legalità e il crimine.
Con questa tecnica antica e oscena vengono demoliti a colpi di mazza i pilastri dell’intera società: i principi costituzionali, la scuola pubblica, la cultura, i fondamenti morali, i diritti civili e i diritti sociali. L’opposizione parlamentare, con rare eccezioni, sembra - anche ad ad un osservatore non particolarmente smaliziato - assistere allo scempio pavida, divisa, balbettante, capziosa, arrogante e stonata. È difficile non pensare che l’unica sua cura sia la propria autoconservazione.
Quanto alla «sinistra fuori dal parlamento» si è virtualizzata. Se non fosse per la coraggiosa Fiom, per un leader carismatico capace di guardare il futuro e per qualche sparuta testa pensante potrebbe bene figurare in un film di Moretti come associazione di reduci.
Spero con tutto il cuore di essere una cattiva Cassandra ma, sulla soglia dell’età della pensione, non riesco ad impedirmi di pensare che si tratti della bancarotta di quasi un’intera classe dirigente che ha sacrificato il benessere di un paese ai piedi di un grottesco omino, aspirante sovrano, truccato come un clown sinistro e sull’altare del cinismo e del conformismo. In questo sfacelo riesco a trarre conforto da quelle donne e quegli uomini dell’Italia reale che continuano a vivere, a lavorare e a lottare secondo i principi della dignità e della giustizia. Grazie a loro sento che essere italiano non è solo una iattura.
L’Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale
Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione
di Guido Crainz (la Repubblica, 25.09.2010)
In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l’intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.
Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent’anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell’etica collettiva. Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.
Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi - se non nel corso di esso - venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all’emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti».
Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D’Alema, vide non il rafforzamento ma l’ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione - altamente simbolica - di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l’ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall’interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.
Ripresero così campo - sul versante leghista come su quello berlusconiano - ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell’area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall’Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l’emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi.
Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa).
Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l’esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.
È l’esito di un processo. È l’esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l’evoluzione stessa di quella parte della destra - un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" - che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste.
È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l’ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.
Sull’altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell’urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.
Il governo è salvo. l’Italia no
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 23/9/2010)
A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.
No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.
Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.
E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.
Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa - lasciata in eredità ad An - è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.
Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».
E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Di questo tema si discute da domani al terzo Festival del diritto di Piacenza Per difendere uno dei principi fondamentali bisogna capire come si è evoluto Le diversità culturali religiose e di genere sono un banco di prova Resta un concetto centrale rispetto ad ogni tentativo di distorcere la democrazia
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.09.2010)
Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un’altra società e d’un altro diritto, e "la rivoluzione dell’eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l’eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all’eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d’essere adempiuta.
Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l’art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.
1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all’origine delle tensioni dei decenni successivi.
2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l’art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell’eguaglianza sostanziale, che segue quello dell’eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. Già l’inizio dell’art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell’eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".
3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L’antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell’art. 3. A questo si deve aggiungere l’«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l’art. 36. Dobbiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi?
4) L’eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l’elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell’eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l’eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall’altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".
5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l’accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall’effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.
6) L’eguaglianza riguarda l’accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l’avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.
7) L’associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell’eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l’eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L’eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.