LO SCEMPIO DEL “TERRITORIO” ... E LE “CAMERE” SGARRUPATE!!!
La ‘lezione’ di “due” grandi accademici dei Lincei, Giovanni Garbini e L. Camurzio Punico
di Federico La Sala *
Negli ultimi “Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei” - nella “Classe di Scienze morali, storiche e filologiche” - tra le “Note dei Soci”, è apparsa la nota del Socio Nazionale Giovanni Garbini, presentata nell’adunanza dell’11 marzo 2005. Si tratta - questo il titolo - di “Divagazioni storiche e linguistiche su L. Camurzio Punico”. Fortuna ha voluto, che abbia avuto l’opportunità di poterlo leggere: è un piccolo delizioso ‘gioiello’, per scrittura e ricchezza di vibrazioni umane, culturali, scientifiche e ... politico-civili! Sorprendente, e bello!
Così comincia: “Da quando frequento questa nostra Accademia, e sono non pochi anni, ogni volta che scendendo le scale mi sono trovato di fronte alla nicchia che conserva l’ara funeraria di Lucio Camurzio Punico mi sono chiesto chi fosse precisamente costui: quel cognomen di Punicus sollecitava inevitabilmente la curiosità di uno che si è interessato di cose fenicio-puniche fin dal 1960. Ho così incominciato a curiosare, da profano di cose romane, intorno a questo personaggio, che possiamo quasi considerare quasi come un nostro antico consocio, anche se è finora rimasto estraneo alle nostre sedute. In questa Nota esporrò i risultati delle mie indagini, che mi hanno coinvolto a livello personale più di quanto potessi sospettare all’inizio”(pp. 383-384). E dedica “questa breve nota con affettuoso ricordo a Massimo Pallottino”- l’illustre docente di etruscologia e di archeologia italica - “nel decennale della scomparsa”(p. 384)
Ma come un’eco, nel ‘racconto’ della ricerca fatta da Garbini, affiora anche la ‘voce’ di un altro grande protagonista della cultura italiana del Novecento: “Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata [...]); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano [...]”. E’ quella di don Giuseppe De Luca, e quello citato è l’avvio dell’articolo, intitolato “Ballata alla Madonna di Czestochova” (“Osservatore Romano” del 25 febbraio 1962), scritto su invito di papa Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski (legato a sua volta a un altro prete che - figlio di una donna di religione ebraica, di nome “Emilia”, e di un padre cristiano-cattolico - porta già nel cognome il ‘grido’ W o Italy: Karol J. Wojtyla).
Incredibilmente, il primo riferimento bibliografico di Garbini - dopo aver detto che “Il fatto che il monumento funerario di Camurzio Punico sia stato ritrovato a Roma fa supporre che il personaggio appartenesse a una famiglia romana; ciò viene confermato da una fonte letteraria, l’unica che ricordi un Camurzio” - nella nota 2, relativa alla questione, è proprio ad un’opera di una studiosa con lo stesso cognome, di nome Gioia: “Il monumento - scrive Garbini - è pubblicato in G. De Luca, I monumenti antichi di Palazzo Corsini in Roma, Roma 1976, pp. 117-118, n. 62 [...]”.
Ma, stranamente, la ‘coincidenza’ non è limitata a questo: in ordine capovolto di ‘narrazione’, nella “Ballata” c’è lo ‘stesso’ movimento. De Luca prende il ‘via’ dalla sua casa, per ‘arrivare’ al santuario della Madonna di Czestochova e... accompagnare e accogliere a Roma il cardinale Wyschinski, Garbini ‘parte’ da Roma e, seguendo le tracce di L. Camurzio Punico - sempre guidato dal suo “spirito” e dalla sua “parola” - ritorna là da dove è partita la sua famiglia e .... accompagna e accoglie a Roma, all’Accademia dei Lincei, la “parola” e lo “spirito” di questo suo “antico consocio”!
Riannodiamo i fili del ‘racconto’ della ricerca: Garbini, accertato che “il nostro Camurzio era vissuto per diverso tempo a Cartagine e forse era stato testimone delle vicende che nel 70 d. C. portarono all’uccisione del proconsole Pisone”(p.385), e resosi conto che “sulla famiglia romana dei Camurzi” non ha potuto “trovare di più” e, tuttavia (dopo aver ricordato, in particolare, tre iscrizioni provenienti rispettivamente da Compsa - l’attuale Conza della Campania, in provincia di Avellino - da Paestum, e da Brindisi), che “il nome Camurtius esisteva già nella seconda metà del IV sec. a. C.”, concentra la sua “attenzione sull’aspetto linguistico del nome Camurtius” e “dalla forma ampliata di Camurius, dal quale deriva anche Camurenus” e riprende il cammino...
“Il nome viene ritenuto, a ragione, di origine etrusca, come rivelano le forme camurinal e camuris documentate rispettivamente a Chiusi e a Perugia” e, ancora, il fatto che “tutta l’area coperta da questi nomi è etrusca” e, infine, che “Camerino, in provincia di Macerata, trova la sua ovvia spiegazione nel fatto che questo centro portava il nome etrusco di Camars, lo stesso portato dalla città etrusca di Chiusi prima di diventare Clusium”(p. 386).
Così, considerate tutte le forme onomastiche documentate e visto che “la forma originaria della radice, testimoniata dal greco, dall’etrusco e dal latino, è camar-; mentre esclusivamente latina è camer-“, ci avviciniamo alla soluzione, al nome comune “che sta alla base dei toponimi e degli etnici”: il latino camàra con il più comune càmera, “volta con il soffitto a volta” o, per estensione, “un centro abitato situato su un terreno arcuato, cioè su una collina [...]”(p.387) E, alla fine, confortato dall’esistenza “di un raro aggettivo latino, camùrus, [...] usato solo da Virgilio (Georgica, III, 55) e che designa un bue le cui corna sono conversa introrsus, cioè curvate all’interno”, non gli resta che trovare “il missing link che leghi direttamente camur- a camar-“(p. 388).
E lo trova! “L’anello mancante - scrive Garbini - esiste: nella zona a sud di Camerino, dalla quale proviene la mia famiglia, non è raro trovare zone collinose, coltivate o meno, chiamate “Camere”; una di queste, che conosco molto bene e che si trova su un terreno piuttosto scosceso, è nota anche con un secondo appellativo, “Sgamuratu”, che mi ha sempre lasciato perplesso e che finalmente ho capito grazie a Camurzio Punico. “Sgamuratu” rappresenta la forma collettiva di “Camere”, ottenuta con un prefisso s- di valore intensivo e la radice gamur- derivata da camer-“. E, poco oltre, così mette fine al suo ‘racconto’: “Possiamo quindi concludere che il gentilizio romano Camurtius è di origine etrusca e nasce, con ogni probabilità, come etnico dal toponimo Camars; l’esistenza di due città etrusche con questo nome non permette di essere più precisi, anche se l’ampia distribuzione geografica e cronologica del nome rende più verosimile un’origine da Chiusi anziché da Camerino”.
Ma, a questo punto, non tutto è chiaro e, tuttavia, nemmeno possiamo lasciarli dove sono arrivati - né Giovanni Garbini né L. Camurzio Punico.... dobbiamo invitarli a ritornare dove attualmente sono - a Roma, e accompagnarli dal nostro Presidente della Repubblica Ciampi, affinché siano accolti con tutti gli onori - come meritano questi “due” grandi cittadini ‘romani’!!! Prima di farlo, però, dobbiamo ringraziarli del lavoro fatto e portare loro in dono dalla Campania e da Napoli ... l’ultima “parola”, per chiarire tutto e per rendere omaggio finalmente alla loro lodevolissima opera di virtuosi cittadini sia di Roma sia dell’Italia!!!
Che cosa ci ha ‘raccontato’ tanto di importante da meritare tutto questo il socio dell’Accademia, il prof. Giovanni Garbini, ordinario di filologia semitica all’Università di Roma “La Sapienza” e autore - tra tante altre opere - di una eccezionale traduzione del Cantico dei cantici (Paideia Editrice, Brescia 1992), che rende e restituisce - contro tutte le menzogne e le disperazioni - il v. 8.6 (“Amore è più forte di Morte”) al suo valore e splendore assoluto? Seguendo L. Camurzio Punico, egli ha ritrovato il filo per ritornare alla sua terra e alla sua casa e, finalmente, capire cosa significa “Sgamuratu” - una ‘lezione’(dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista socio-politico) dal e sul suo e nostro instabile e vulcanico territorio - tutto, quello d’Italia.
L’anello mancante l’ha trovato ... ma ad esso, per capire bene il senso della sua preziosa personale e scientifica ricerca, bisogna ri-unire l’altro lato - quello negativo (in dialetto campano): “Sgarrupatu”! Chiariamo: come si chiamano - nell’area studiata - le “zone collinose, coltivate o meno”, quando si trovano “in un terreno piuttosto scosceso”? Sono chiamate “Sgamuratu”, perché - e qui per motivi geologici e strutturali! - si trovano ad essere in tale stato da epoche preistoriche; ma nella stessa zona e altrove, dove tali “Camere” sono diventate “Sgamuratu” - non per ragioni naturali, ma per l’abuso e la speculazione di avidi imprenditori, urbanisti, e politici, che vi hanno messo “le mani sopra” - come devono essere chiamate e si chiamano? Non si devono chiamare più giustamente e più propriamente “Camere sgammurate, sgarrupate”?!
In Campania, al mio paese - poco distante dal paesino di don Giuseppe De Luca - con la parola “sgarrupaturo”, indichiamo proprio ciò che Garbini dice essere il significato di “sgamuratu”, e tale senso lo diamo anche ad edifici che - abbandonati e non più abitati - diventano, per progressivo degrado, “sgarrupati”!!! E allora, chiarito questo, si comprende bene ... perché L. Camurzio Punico ha svegliato dal “sonno dogmatico” il prof. Garbini e l’ha sollecitato a lanciare l’allarme ‘ambientale’. Ciò che è in gioco - qui ed ora, nel nostro presente ‘territorio’ storico e politico (ricordiamo che la Nota il prof. Garbini l’ha presentata all’Accademia l’11 marzo del 2005) - sono le “Camere” di Roma e di tutta l’Italia - e non solo quelle “fisiche”!!! E, se teniamo presente che la nostra Capitale è ben piantata su sette colline, sui “sette colli”, cosa hanno cercato di comunicarci L. Camurzio Punico e Giovanni Garbini? Semplicemente che è l’ora di svegliarsi. Il loro ‘grido’ è: Attenti alle “Camere”! Attenti a Roma! Che l’Italia ...Viva! E che il nostro Paese non venga ridotto a un paese “sgamuratu”, “sgarrupatu” ... dove nessuno, senza eccezione e senza alcuna speranza, se la potrà più cavare! Nient’altro - ma non è affatto poco, sia da parte di L. Camurzio Punico sia da parte di Giovanni Garbini, sia da parte dell’Accademia dei Lincei! Pensiamoci! (25.03.2006).
Federico La Sala
* Il Dialogo, Sabato, 25 marzo 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
AMARE L’ITALIA: SALVARE LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA.
Federico La Sala
Terremoto.
A Camerino la ricostruzione è quasi a zero e la gente aspetta il Papa
«Speriamo che sproni le coscienze», dicono gli abitanti della città devastata nel 2016. Nel suo cuore, il centro storico, il tempo si è fermato e regna il silenzio
di Alessia Guerrieri, inviata a Camerino (Avvenire, sabato 15 giugno 2019)
Appare quasi d’improvviso dopo una galleria, e fa meraviglia, sul cocuzzolo di un colle imponente e signorile allo stesso tempo. A vederla da lontano, dalla nuova superstrada, sembra quasi che a Camerino il terremoto non sia passato. A tradire questa prima impressione però è soprattutto la notte, quando le sparute luci della periferia lasciano spazio ad un buco nero al centro, in cima alla collina. Ed è proprio il suo cuore cittadino, dove il cotto si alterna alle tinte ocra e arancio dell’intonaco e alla pietra dei palazzi storici, che tutta la devastazione della città si palesa ancora agli occhi, due anni e mezzo abbondanti dopo il sisma.
Ogni angolo della zona rossa è presidiato e interdetto agli abitanti per il rischio di crolli in quei palazzi non puntellati. L’unico rumore che interrompe il silenzio spettrale delle vie storiche in questi giorni è quello degli operai, intenti nei preparativi della visita del Papa in piazza Cavour dove domani celebrerà la messa. Alle sue spalle Francesco troverà il palazzo Ducale, la sede storica dell’università, inagibile, e di fronte il duomo, ricostruito dopo il sisma del 1799, che ora ha finestre e campanili imbragati, sorretti dai tiranti d’acciaio così come il vicino vescovado.
Questa piazza domani prenderà di nuovo vita per un giorno. «A tutti a Camerino manca la quotidianità e il rumore di queste strade». Don Marco Gentilucci è parroco della chiesa di San Venanzio, patrono della città, che si trova proprio poco distante da qui. Mentre gestisce gli ultimi dettagli per il palco, la stanchezza ad un tratto lascia spazio alla speranza. «Riusciremo a riaprire la basilica di San Venanzio a Natale - dice - grazie a 2 milioni di euro donati da un benefattore di Cremona».
Una notizia che rinfranca l’anima di fronte a tanta desolazione. Salire per la centralissima via Vittorio Emanuele II è tutto un susseguirsi di negozi e attività abbandonate - e solo in parte svuotate - balconi ormai posseduti dai piccioni e qualche persiana lasciata aperta che sbatte al primo alito di vento. Tutto sembra essersi fermato a ottobre 2016, compresi i cartelloni degli spettacoli del teatro comunale. Solo l’erba che cresce copiosa ai lati delle strade secondarie ricorda lo scorrere del tempo, come pure quello scorcio di primavera che qualcuno ha voluto portare in pieno deserto, piantando dei fiori sui balconi delle case inagibili a ridosso del limite invalicabile della città.
Come resistano con il gran caldo non si sa, ma è un’immagine che stride con la fontana ormai chiusa di Piazza Garibaldi e con le tante ordinanze di inagibilità appese ai portoni avvolte nel nastro adesivo blu. È ormai sbiadito, invece, l’azzurro del nastro di una nascita che ancora pende al civico 50 di Corso Vittorio e praticamente non è rimasto nulla neppure della bandiera italiana sul palazzo del municipio. Qui, nel centro storico, dove i due terzi dei palazzi ha bisogno di essere messo in sicurezza e i lavori avviati - secondo i dati del Comune - sono pari a zero, si è ancora alla fase di valutazione del danno. Sui 6.617 sopralluoghi effettuati ad oggi in immobili inagibili, in 80 hanno scelto la delocalizzazione (sono soprattutto attività commerciali) e appena 191 proprietari di casa (per lo più in periferia) hanno iniziato la fase di ricostruzione. In tutto il territorio comunale, poi, sono poco più di 500 le pratiche consegnate, ma i tempi dell’istruttoria oscillano tra 6 e 8 mesi.
«Il Papa spero sproni le coscienze di chi ci governa e di tutti noi, perché ognuno si prenda le proprie responsabilità», dice Angelo Goretti del comitato cittadino "Le Pale", nato dopo il sisma, che vede come via per la rinascita una zona economica speciale (Zes) al posto della zona franca urbana attuale. «Supererebbe i paletti imposti dall’Ue e la lentezza della ricostruzione», spiega mentre all’ombra di via Emilio Betti guarda in sù il grande crocifisso che appare appena da dietro il muro di legno che delimita la chiesa di San Venanzietto. «Qui, dopo il terremoto, abbiamo riscoperto la bellezza dello stare insieme», racconta Angelo, ma ora serve uno sforzo in più: «Avviare una ricostruzione creativa e solidale».
Per ora poco di questo si vede a Camerino, ma quei cuori rossi che resistono esposti nei negozi inagibili del centro storico dimostrano che la voglia di reagire c’è. E quella scritta a pennarello aggiunta da Chiara sulla vetrina del suo negozio di peluche - «Solo un anno di attività...ma ancora non mollo» - è la prova che tra queste vie in molti ci hanno lasciato il cuore. E vogliono tornare.
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo (la Repubblica, 15.08.2018)
Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto. Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini. La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua. Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico. Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».
Breve elogio della ribellione in salsa umanistica
Un’anticipazione dall’intervento di oggi al «Festival della mente» di Sarzana. Che cosa significa utilizzare il proprio cervello critico? Le giovani generazioni si trovano davanti a scelte difficili da decifrare. Occorre scommettere sulla «terapia» della scuola
di Lamberto Maffei (il manifesto, 03.09.2016)
A Sarzana il Festival della mente 2016 apre il programma con alcuni versi di una poetessa che mi è cara, Alda Merini: «voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso/ della divina sapienza». Con desideri simili anche io auspico un piccolo spazio, quello della ribellione, contro la corruzione, la disonestà, le guerre, le ingiustizie sociali, l’uso del linguaggio per ingannare il prossimo, la vendita delle armi, e contro coloro che, come loro fossero superuomini dotati di cervelli e corpi diversi, sfruttano e riducono a servi altri uomini.
La prima riflessione, banale ma necessaria è che gli uomini condividono gli stessi organi, la stessa organizzazione del sistema nervoso, gli stessi recettori: tu ed io siamo uguali a tutti gli altri. Risultano perciò inaccettabili alla logica prima ancora che all’etica i privilegi di chi nasce ricco e ha goduto delle facilitazioni di un ambiente adeguato, ma anche di amicizie, di favori più o meno leciti. La loro condizione di privilegio si mantiene grazie alla esistenza dei molti che invece di privilegi non ne hanno e con la loro opera rendono possibile i loro salari stratosferici e perfino i loro comportamenti offensivi con cui ostentano la loro ricchezza per mostrare il loro potere e diversità, manifestazioni volgari che gridano vendetta davanti a Dio.
Ricordo a proposito alcune parti dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito (...) Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?»
L’onesto è relegato alla posizione di una sottospecie di fessi non degni di salire nella casta dei furbi. Il cervello, il buon senso, la critica, l’onestà sono in rivolta. La mia non è una ribellione violenta, perché la violenza genera violenza, ma è un richiamo all’uso del cervello pensante e critico, è la rivolta della ragione contro quel’1 per cento della popolazione che possiede più ricchezze del restante 99 per cento (rapporto Oxfam 2016). Ho raccolto queste riflessioni in un mio piccolo libro Elogio della ribellione uscito per Il Mulino.
In questo spirito di inquietudine e di rivolta rifletto su alcuni aspetti del mondo moderno, sulla globalizzazione, sul rapido invasivo sviluppo delle tecnologie che hanno procurato vantaggi ma anche problemi.
Le tecnologie della comunicazione hanno creato un nuovo tipo di solitudine, che possiamo chiamare paradossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.
La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.
Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.
La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.
La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.
Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA COSCIENZA A POSTO. Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
L’epopea di Roma inizia a Canne
Dopo la sconfitta inflitta da Annibale la Repubblica si compatta. Fino alla distruzione di Cartagine
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 23.06.2016)
Secondo una intuizione che Platone nelle Leggi attribuisce a Clinia, l’interlocutore cretese del dialogo, «ciò che la maggior parte degli uomini chiamano pace è solo un’apparenza; in realtà tutte le città sono per natura in uno stato permanente di guerra non dichiarata contro tutte le altre città» (626A). Si potrebbe aggiungere a questa penetrante osservazione dell’ultimo Platone che, nel mondo greco, anche il lessico denota la coscienza della precarietà della pace e del carattere invece permanente - anche se talvolta latente - della guerra. In greco infatti è la stessa parola ( spondai ) che indica la «tregua» e la «pace» stipulata attraverso trattati interstatali. Trattati che indicano anche per quanti anni sarà valido l’impegno.
Quanto al mondo dominato da Roma, prima della pax Augusta il tempio di Giano, la cui apertura denotava lo stato di guerra, era stato chiuso una sola volta! Né va dimenticata la voce di un fiero avversario di Roma, il capo britannico Calgaco, il quale - secondo un celebre passo dell’ Agricola di Tacito - affermò che i Romani definiscono pace la «terra bruciata»( solitudinem ) che si lasciano alle spalle.
Una ben aspra idea di «pace», che prende atto della brutalità e insanabilità del conflitto di potenza. È noto del resto che anche le religioni - fino a che non si sublimano in credi filosofici, come è da qualche decennio il caso del cristianesimo - hanno praticato la guerra come prosecuzione della politica per dirla col celebre motto di von Clausewitz, rinverdito ora dalla brillante antologia del Vom Kriege edita in questi giorni da Mondadori a cura di un appassionato polemologo come Gastone Breccia.
Ma il locus classicus del conflitto di potenza è, nel mondo antico - al pari della guerra peloponnesiaca (431-404 a.C.), - il conflitto interminabile e mortale tra Roma e Cartagine. Conflitto che non si limitò ai primi due atti del dramma, tra il 264 e il 202 a.C., ma proseguì - dopo stasi e conflitti in altri teatri - fino alla distruzione di Cartagine (146 a.C.).
Di quella vicenda, e delle ragioni dell’impossibilità di una risoluzione non catastrofica di quel conflitto, Giovanni Brizzi è il maggior conoscitore e più agguerrito interprete: sia sul piano dell’interpretazione politica che degli avvenimenti militari. Dal suo Annibale, come un’autobiografia (Rusconi 1994) all’ Annibale per la Eri (1999, che trascrive le sue conversazioni radiofoniche nel ciclo Alle otto della sera ), al monumentale Scipione e Annibale, la guerra per salvare Roma (Laterza 2007), al recentissimo Canne, la sconfitta che fece vincere Roma (il Mulino).
Pur abbracciando l’intera vicenda della guerra annibalica, dai prodromi all’epilogo, il saggio si concentra sulla memorabile battaglia (2 agosto 216 a.C.) non solo per il suo rilievo ma soprattutto per i suoi mancati effetti: nessun’altra città Stato del mondo antico avrebbe retto a una sconfitta di tali proporzioni.
Non a caso è proprio sul dopo Canne che Brizzi si sofferma, in tre paragrafi ben concatenati: Sembrava la fine; Che cosa sconfigge Anni bale?; Roma dopo Canne: il «metus». La spiegazione proposta da Brizzi al quesito che già galvanizzò l’attenzione di Polibio è che decisivi furono «la dedizione e lo spirito di sacrificio dei contadini-soldati della Repubblica». «Ad animare i combattenti - egli prosegue - sarà d’ora in avanti soprattutto una pulsione profondamente morale». «Questo animus collettivo permetterà alla res publica di sostenere fino in fondo la prova titanica (...) Roma infatti giungerà, negli anni successivi alla sconfitta, a tenere costantemente sotto le armi da 20 a 25 legioni (ne avrà 30 quattro secoli dopo quando i suoi confini andranno dalla Britannia all’Eufrate!)» (p. 152).
E, soggiunge Brizzi, contribuì, come elemento non secondario, la compattezza degli alleati, i fedelissimi socii Latini nominis, cioè dotati della cittadinanza di diritto latino. Tale inaudita capacità di colmare i vuoti dell’esercito e di lanciare sempre nuove legioni «nell’inestinguibile fornace di una guerra infinita» logorerà Annibale, stretto sempre più nell’area di Crotone, e alla fine richiamato in patria per effetto dell’imprevisto Blitzkrieg di Scipione in Africa. Mossa strategica vincente quella del poco più che trentenne rampollo dell’aristocrazia romana: mossa degna dell’audacia cesariana nel corso della guerra civile che dilanierà l’impero un secolo e mezzo più tardi.
Ma forse, se è ben vero che i contadini-soldati restarono in piedi a difendere la Repubblica, è giusto porsi la questione: perché lo fecero? La risposta è quella implicita, ma chiara, nel racconto polibiano. Non è per caso infatti che Polibio, dopo aver narrato di Canne (libro III), prima di riprendere il filo della storia di Roma (libro VII), faccia pausa nel racconto e inserisca un intero libro (il VI) sugli ordinamenti politici e militari romani. Perché egli ravvisa in quegli ordinamenti, capaci di compenetrare in modo originale ed equilibrato le tre forme di governo nel cui implacabile scontro s’erano invece logorate le città greche per secoli, la ragione vera della compattezza della Repubblica: anche nel momento estremo della sconfitta. Non è un caso che Machiavelli, giovandosi di versioni latine, abbia posto proprio quei capitoli polibiani sulla «costituzione mista» a fondamento della sua opera più pensata e più «repubblicana», i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
La guerra in Etiopia
L’impero sui colli di Roma
Ottanta anni fa la brutale invasione di Addis Abeba: sogno di «grandeur» del duce e di tanti italiani che vi credettero
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.06.2016)
Scrive Bernard Droz, storico francese della decolonizzazione: «La valorizzazione ideologica e affettiva degli imperi coloniali raggiunge il suo apice durante gli anni Trenta, congiunta alle forme più diverse, rinnovate dal progresso delle tecniche di propaganda. La Gran Bretagna eccelle nell’organizzare immense e sontuose manifestazioni di unanimismo imperiale, in occasione di un giubileo, di un’incoronazione o della Giornata dell’Impero, il 24 maggio, anniversario della nascita della Regine Vittoria. Le piccole monarchie del Belgio e dell’Olanda sono costrette a una maggiore discrezione, ma la Francia, all’occasione, celebra i fasti repubblicani assegnando uno spazio sempre più ampio alle truppe d’oltremare nelle parate del 14 luglio. In forma autonoma o inserite nelle Esposizioni universali, come quella di Parigi nel 1937, le Esposizioni coloniali, affiancate da un’abbondante documentazione e dalla stampa, riscuotono un immenso successo di pubblico dove la curiosità venata di esotismo compete con l’orgoglio del “genio civilizzatore” proprio di ogni nazione». (Histoire de la décolonisation au XXe siècle, Seuil 2006)
È opportuno aver presente questa situazione storica se si vuol comprendere l’entusiasmo col quale gli italiani accolsero ottanta anni fa la conquista di un impero coloniale, ottenuto con una spietata guerra contro l’Etiopia, uno degli ultimi due Stati africani - l’altro era la Liberia - non ancora assoggettati al dominio imperialista. La premeditata aggressione italiana era stata annunciata dal duce dal balcone di Palazzo Venezia la sera del 2 ottobre, davanti a una folla oceanica radunata nella piazza romana e nelle piazze di tutta l’Italia: «Venti milioni di uomini - tuonò Mussolini - occupano in questo momento le piazze d’Italia [...]La loro manifestazione deve dimostrare al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta, assoluta, inalterabile». L’aggressione iniziò il giorno successivo.
Il duce ordinò ai suoi generali di condurre la guerra con largo dispiego di mezzi e di armi, compresi i gas asfissianti, per ottenere una rapida vittoria. E così avvenne: il 5 maggio 1936, le truppe italiane al comando del generale Pietro Badoglio entrarono in Addis Abeba, capitale dell’impero etiopico, mentre l’imperatore Hailé Selassié riuscì a fuggire. Dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 5 maggio, Mussolini annunciò «al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita». E dallo stesso balcone, la sera del 9 maggio 1936, il duce salutò «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma».
Mussolini considerava la conquista dell’impero il suo massimo successo politico e militare. Non solo: essa fu anche il massimo successo propagandistico del fascismo all’interno, perché mai, nei venti anni di incontrastato dominio totalitario, il regime e soprattutto il duce riscossero un consenso altrettanto entusiastico dalla quasi totalità della popolazione. Lo ricordava lo stesso Mussolini, in un libro dedicato al figlio Bruno morto in un incidente aereo nell’agosto 1941: «Mai una guerra fu più sentita di quella. Mai entusiasmo fu più sincero. Mai unità di spiriti più profonda.[...] Tre adunate improvvise di popolo come non si ebbero mai nella storia e poi la notte trionfale del 9 maggio, la più grande vibrazione dell’anima collettiva del popolo italiano».
Ma quando il duce scriveva queste parole, l’Italia era da due anni coinvolta nella Seconda guerra mondiale, e l’impero era già nuovamente sparito dai colli fatali, dopo cinque anni esatti: il 5 maggio 1941, le truppe britanniche vittoriose avevano ricondotto ad Addis Abeba l’imperatore Hailé Selassié.
La nostalgica descrizione mussoliniana del sentimento degli italiani di fronte alla conquista dell’impero corrispondeva tuttavia alla realtà, come hanno confermato gli studi sull’opinione pubblica durante il regime. Il più recente, dedicato da Marco Palmieri proprio al periodo della guerra d’Etiopia (L’ora solenne, Baldini & Castoldi 2015), mostra, con una varia documentazione inedita, «quanto fosse ampio e radicato il consenso e l’entusiasmo degli italiani di fronte alla decisione di Mussolini di invadere l’Etiopia»: l’uno e l’altro confermati, dopo varie oscillazioni dubbiose dovute all’andamento della guerra, dalle esplosioni di giubilo all’annunzio della vittoria e della riapparizione dell’impero sui colli fatali.
Entusiasta fu anche l’adesione alla guerra coloniale di gran parte delle gerarchie ecclesiastiche, dagli alti prelati ai modesti parroci. E non pochi furono gli antifascisti, anche in esilio, che si ricredettero nella loro avversione per il duce e per spirito patriottico si sentirono uniti a tutti gli altri italiani nell’auspicare la vittoria. Milioni di uomini e donne donarono la fede d’oro alla patria.
Su 419 senatori, 414 offrirono la loro medaglietta, fra i quali l’antifascista Benedetto Croce. Persino i comunisti constatarono che la propaganda fascista per l’impero aveva contagiato larghi ceti operai, specialmente giovanili.
Ma l’entusiasmo e l’esaltazione popolari, per quanto genuini ed estesi, non furono durevoli e si mutarono presto in delusione, malcontento e soprattutto timori per le nuove avventure militari del duce. «A livello di massa, - ha osservato Renzo de Felice - il coinvolgimento psicologico dei ceti popolari e soprattutto di quelli operai nella guerra d’Etiopia non equivaleva a un pieno consenso politico verso il regime fascista” (Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi 1974).
L’effimera durata del nuovo impero italiano e il naufragio delle ambizioni imperiali del duce con la disfatta subita dall’Italia nella Seconda guerra mondiale, hanno indotto gli storici a considerare la conquista dell’Etiopia un’impresa coloniale anacronistica, compiuta quando ormai l’era dell’imperialismo e del colonialismo volgeva al tramonto.
Una simile interpretazione, valida se formulata alla luce di quanto è accaduto dopo la Seconda guerra mondiale, è però inadeguata a comprendere come mai gli italiani fossero stati coinvolti con tanto entusiasmo nella conquista coloniale e nella fondazione di un nuovo impero italiano.
In realtà, come abbiamo visto all’inizio, negli anni Trenta nessuna delle potenze coloniali europee, neppure quelle che si opposero all’aggressione italiana all’Etiopia, come l’Inghilterra e la Francia, considerava anacronistico il proprio impero. E combatterono nella Seconda guerra mondiale, e a lungo anche dopo, per conservarlo.
Marco Palmieri, L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia, Baldini & Castoldi, Milano, pagg. 320, € 18
Dopo l’unità d’italia. La camorra? Nasce come setta
In un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domemica, 3 Gennaio 2016)
Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese).
In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che - sinteticamente - si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca - le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale - Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che - significativamente - questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori.
La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.
Il marcio di Roma. Mafia Capitale e fascismo trasversale
di Annamaria Rivera (il manifesto - 9 dicembre 2014) *
Più volte ho usato nei miei scritti, per intuizione più che per analisi compiuta, l’aggettivo marcescente a definire la fase attuale del capitalismo finanziarizzato. Intendendo quel qualificativo nel senso di ciò che, pur affetto da putredine, sopravvive annunciando un possibile esito di tipo totalitario.
Questa premessa per dire che, sebbene il sistema fascio-mafioso romano non sia una rivelazione (ne avevano parlato alcuni ottimi giornalisti, tra i quali Lirio Abbate dell’Espresso), l’inchiesta della magistratura squaderna sotto i nostri occhi, in tutto il suo lerciume ed orrore, cosa sia divenuta la politica al tempo della lunga crisi economica, che è anche crisi della democrazia, della rappresentanza, della moralità pubblica, perfino della capacità di analisi della sinistra più rispettabile.
Questo ramificato sistema criminale -costituito da una fitta rete di rapporti tra malavita nerissima, imprenditori del Terzo settore, consorzi aderenti a LegaCoop, mazzieri, mercenari, amministratori pubblici e politici di destra e di sinistra, dirigenti di azienda fino ai vertici di Finmeccanica- si è insinuato nei gangli più vitali della vita politica cittadina. Ed è riuscito a sussumere, in perfetto stile postmoderno, per così dire, finanche ciò che si credeva (e in gran parte era) riformatore e innovativo sul piano giuridico, sociale, politico: dall’inserimento sociale degli ex detenuti alla legge del 1991 sulle cooperative sociali, dal Terzo settore ai temi del mutualismo e dei beni comuni, fino al diritto all’accoglienza dei migranti e dei rifugiati.
Basta dire come la cupola abbia saputo volgere a proprio vantaggio, con la compiacenza di taluni amministratori, l’articolo 5 della legge n. 381 che ho appena citato: quello che accorda agli enti pubblici, compresi gli economici, e alle società di capitali a partecipazione pubblica la possibilità di stipulare convenzioni con le cooperative sociali “anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione”.
Sussumendo tutto questo e mercificandolo secondo il proprio interesse, il sistema mafioso ne ha rovesciato il senso e le finalità, sicché il rischio incombente è che ora siano screditati, agli occhi dell’opinione pubblica, ogni attività nel campo del sociale e perfino chi vi dedica il proprio impegno volontario e gratuito.
Se è fenomenicamente trasversale, un tal sistema è intrinsecamente fascista. E non solo perché ricorre a manovalanza neofascista e perché ai suoi vertici vi sono ben noti fascisti dalla lunga e intensa carriera criminale. Ma soprattutto perché esso si avvale del retroterra costituito dal fascistume “del Terzo Millennio”, oggi rafforzato dall’alleanza con i leghisti.
Fra questo retroterra e la cupola mafiosa sembrano esserci state, fino a ieri, una certa sinergia e divisione dei compiti, almeno oggettive. Per esempio, si potrebbe sospettare che il pogrom contro il centro di accoglienza di viale Morandi, a Tor Sapienza, scatenato, secondo testimoni oculari, da una trentina di “fascisti del Terzo Millennio” incappucciati, avesse come obiettivo non tanto i rifugiati e i minori quanto piuttosto la cooperativa “Un sorriso”. Forse perché sfuggita o sottrattasi al controllo della cupola?
In realtà, il blocco fascio-leghista interpreta ed estremizza a suo modo la retorica e la pratica emergenzialiste che caratterizzano l’approccio delle istituzioni al fatto strutturale delle migrazioni, degli esodi, della presenza di popolazioni rom, sinte, camminanti: cioè con la propaganda razzista, le aggressioni, i pogrom, l’infiltrazione progressiva in quartieri popolari, allo scopo di strumentalizzarne il disagio e la rabbia dirottandoli verso i soliti capri espiatori.
Dal canto suo, la cupola fascio-mafiosa ha saputo profittare della tendenza istituzionale a tradurre in termini di emergenze quelli che, in un paese normale, sarebbero semplicemente bisogni e diritti. Così, lasciando incancrenire, per insipienza o intenzionale disegno, le emergenze riguardanti non solo migranti, rifugiati, rom, ma anche periferie, casa, rifiuti, trasporti, salute, si è permesso alla cupola di allungare i suoi tentacoli sui relativi appalti.
Particolarmente scandaloso è aver affidato a cinici manigoldi di tal fatta settori di estrema delicatezza quali l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo e la gestione dei campi-rom: è come affidare dei bambini alle cure di una banda di pedofili.
A proposito di campi-rom, non solo questo sistema di segregazione spaziale e sociale - vera specialità italiana - è stato condannato dalle più varie organizzazioni internazionali, ma se ne è anche attentamente analizzato e denunciato il lucroso business: fra il 2013 e il 2014 sono stati pubblicati Segregare costa, l’indagine di OsservAzione (condotta con Lunaria e altre associazioni), e Campi nomadi spa, lo studio dell’Associazione 21 Luglio.
Di fronte a un tale “maleodorante pozzo di nequizie, di corruzione, di oscenità”, il senso di schifo di cui parla Angelo d’Orsi a me sembra non sia condiviso da tutti. Perfino a sinistra si può trovare chi riduce a semplice clientelismo o consociativismo questo solido sistema criminale; chi, ritenendo la corruzione della Capitale un dato così intrinseco da essere quasi-naturale, afferma scetticamente che “mondo è stato e mondo è”; e v’è pure chi disquisisce se “Er Cecato” sia stato o no organico ai Nar o alla banda della Magliana e quanto meritorio sia stato l’esordio della Cooperativa “29 giugno” e del suo ideatore.
Tutte queste propensioni - che, ripeto, si ritrovano perfino tra la sinistra che si pretende nuova e/o radicale - sono indizio, mi sembra, di scarsa consapevolezza della posta in gioco, d’insufficiente coraggio politico, di subalternità, almeno psicologica, allo stato di cose presenti; se non di un politicismo di bassa lega, attento più a salvaguardare equilibri politici, peraltro assai fragili, che a prendere atto, con severa lucidità, del baratro in cui siamo precipitati, onde trarne lezioni politiche e morali adeguate.
Una sinistra meritevole di questo nome dovrebbe smetterla di gingillarsi con scempiaggini come la “guerra tra poveri”, rivolgendosi invece a difendere senza indugio i diritti dei penultimi e degli ultimi in assoluto: migranti, rifugiati, rom. E farebbe bene a tentare d’impedire il dilagare dell’estrema destra nei quartieri popolari, con un paziente lavoro politico e anche con presîdi antifascisti e antirazzisti.
Per citare il Pasolini di un articolo del 1962 su Vie Nuove, “prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo”.
*
Versione modificata e ampliata dell’editoriale del manifesto del 9 dicembre 2014 (da: Libera cittadinanza).
La Capitale da rifondare
Un calderone maleodorante nel quale si mescolavano criminalità mafiosa, estremismo neofascista, imprenditoria malata e politica corrotta
di Sebastiano Messina (la Repubblica, 03.12.2014)
SCOPERCHIANDOLO il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone ha svelato il mistero dell’ingovernabilità di Roma. La capitale era in realtà governata benissimo - naturalmente ai propri fini - da questa banda di criminali che sapeva usare la prepotenza della pistola, l’odore dei soldi, la solidarietà tra camerati e la forza del clan per mettere le mani sugli affari che passavano per il Comune di Roma e per le sue controllate, a cominciare dall’Ama, l’azienda dei rifiuti.
Quella che faceva capo a Massimo Carminati - l’ex terrorista nero dei Nuclei Armati Rivoluzionari legato alla banda della Magliana, l’uomo che come hanno accertato i magistrati «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale e finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti» - era una creatura mai vista, un intreccio perverso e spietato tra la malavita mafiosa e il governo della capitale, legati da un filo nero - è il caso di dirlo - che passava per l’ entourage dell’ex sindaco Gianni Alemanno, il primo sindaco postfascista dalla caduta del duce.
Si capiscono molte cose, leggendo le 1.200 pagine dell’ordinanza che ha mandato in carcere 37 persone e chiamato in causa più di cento indagati - il più importante dei quali è lo stesso Alemanno. E si scopre che questa banda battezzata da Pignatone “Mafia capitale” gestiva senza problemi non solo i fondi per la manutenzione del verde o quelli per la raccolta differenziata, arrivando a partecipare alla stesura dei bandi per le gare d’appalto, ma aveva messo stabilmente le mani sul flusso di denaro pubblico destinato ai campi nomadi e alle strutture per gli immigrati richiedenti asilo.
Rifiuti, nomadi, immigrati: quelli che per la città di Roma erano in cima alla lista dei problemi, per la destra neofascista erano contemporaneamente il facile bersaglio delle sue proteste populiste e la ricca miniera d’oro che alimentava una rete sotterranea di corruzione, quella invisibile ma potentissima cerniera che in questi anni ha tenuto insieme mafiosi, ex terroristi, politici corrotti e imprenditori senza scrupoli.
“Capitale corrotta, nazione infetta” fu il celebre articolo di una grande inchiesta dell’ Espresso del 1956 sul sacco di Roma, ma quello che abbiamo scoperto ieri ci dice che la corruzione è penetrata in profondità, e mescolandosi con la forza eversiva dell’estremismo neofascista e con la potenza criminale della mafia ha avvelenato il Campidoglio.
Sarebbe sbagliato identificare la capitolazione della politica alla mafia con la stagione di Alemanno, e non solo perché sarà l’inchiesta a chiarire fin dove arrivavano le complicità politiche, ma perché questa struttura spietata e diabolica agiva anche prima che Alemanno arrivasse ed ha continuato a operare anche dopo che lui se n’è andato.
Eppure questo rende ancora più grave la diagnosi: il virus è penetrato in profondità, e ha imparato a resistere agli anticorpi dell’alternanza. Perciò da un sindaco chirurgo come Ignazio Marino oggi i romani, e non solo loro, si aspettano un gesto forte, non una cura ma un taglio netto, un colpo di bisturi sul malgoverno infetto della Capitale.
Napoli.
La vita di un ragazzo: il prezzo da pagare per aver abbandonato le città
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014)
Dopo cinque giorni di agonia, ieri Salvatore Giordano è morto: a quattordici anni. Sabato era stato colpito da alcuni calcinacci staccatisi dal soffitto della Galleria Umberto I, nel cuore di Napoli. Perché è successo? Di fronte a eventi terribili come questo, ci si è sempre interrogati. Gesù, nel Vangelo di Luca, sfida le superstizioni dei benpensanti del suo tempo: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico”.
Oggi, invece, ci chiediamo: si poteva evitare? È davvero una fatalità? O è colpa di qualcuno? Non è possibile non vedere il nesso tra la tragica morte di Salvatore Giordano e l’abbandono di ogni manutenzione delle nostre città. Il centro storico di Napoli si va lentamente disfacendo, nell’indifferenza generale: ma il problema non è solo di Napoli.
Il 4 gennaio 2012, alle cinque di pomeriggio, a Firenze si rischia una strage: dalla Colonna dell’Abbondanza, nell’affollatissima Piazza della Repubblica, si stacca un frammento lapideo di ottanta chili, che precipita al suolo, miracolosamente senza ammazzare nessuno. Sempre a Firenze, pochi giorni fa quel miracolo non si è ripetuto: un ramo staccatosi da un albero nel Parco delle Cascine ha ucciso una donna e la sua nipotina. “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.
La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindaco trovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.
Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.
Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
La protezione incivile
di Francesco Merlo (la Repubblica, 27.10.2012)
La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati...: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna.
Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa.
Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita.
Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole.
Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendum antinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo...».
CDM
Rifiuti, il governo rinuncia a Corcolle
nuovo incarico per trovare un’alternativa
Il consiglio dei ministri si schiera con Clini: i ritardi sono resposanbilità delle amministrazioni locali.
Dopo le dimissioni di Pecoraro spetterà al prefetto Sottile individuare un altro sito per la discarica *
ROMA - E’ svanita la possibilità che la nuova discarica di Roma sorga a Corcolle, il contestato sito non distante da Villa Adriana. Sulla scelta, oggetto di forti contestazioni e polemiche nei giorni scorsi 1, il Consiglio dei ministri ha condiviso oggi le considerazioni del ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, che ha messo in evidenza la responsabilità cronica delle amministrazioni competenti "non in grado di assumere decisioni adeguate e misure efficaci ad assicurare il rispetto delle direttive europee e delle leggi nazionali in materia di gestione dei rifiuti."
"La valutazione che avevamo già anticipato, così come quella del ministero per i Beni culturali, è stata accolta dal Cdm", spiega il ministro. Di fatto, aggiunge, la soluzione Corcolle "è stata archiviata". "Non è una situazione di oggi, ma di anni. Roma e il Lazio avrebbero potuto attrezzarsi per tempo - osserva - e questo elemento è importante per cercare le responsabilità, che non possono essere scaricate solo sul prefetto Pecoraro, che è arrivato per ultimo". "Bisogna far uscire Roma dalla schiavitù della discarica, che è la sua dannazione", dice ancora Clini ricordando che Roma "è una delle poche capitali europee" che ancora non ha un sistema integrato di gestione dei rifiuti. "Abbiamo poco tempo avanti" per affrontare e risolvere il problema. "Dobbiamo lavorare in fretta ma si può ancora fare".
Da tempo Clini si oppone alla scelta di Corcolle e preme piuttosto per un deciso rafforzamento della raccolta differenziata nella capitale. Che l’opzione Corcolle stia sfumando lo confermano anche le dimissioni del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, principale sponsor di questa soluzione, dall’incarico di "Commissario delegato" per l’emergenza rifiuti a Roma. Al suo posto il Consiglio dei Ministri "ha deciso di conferire l’incarico al Prefetto Goffredo Sottile".
A Sottile palazzo Chigi ha conferito l’incarico di procedere urgentemente "all’individuazione della discarica necessaria a dare soluzione al problema della gestione del ciclo integrato dei rifiuti della Capitale".
La svolta del governo è stata salutata con soddisfazione dal Pd. "Sgomberato il campo dalla possibilità del tutto insensata di collocare la discarica alle porte di Villa Adriana - affermano i senatori Francesco Ferrante e Roberto Della Seta - ora bisogna che tutte le parti coinvolte, a cominciare dal sindaco Alemanno e dalla governatrice Polverini, si assumano finalmente le loro responsabilità per evitare che nei prossimi mesi Roma precipiti in un’emergenza ambientale e sociale drammatica".
Costretto invece a incassare l’ennessima bacchettata del ministro Clini, il sindaco di Roma Alemanno fa buon viso a cattivo gioco. "Voglio fare un atto di riconoscimento al lavoro svolto e alla sua linearità al prefetto Pecoraro", afferma il primo cittadino della capitale. "Ha portato avanti un lavoro molto buono anche se la proposta finale non era condivisibile, però va dato atto al lavoro svolto - aggiunge Alemanno - Adesso il nuovo commissario avrà il compito di trovare una soluzione realmente sostenibile, vanno fatte nuove valutazione su tutti i siti e sono convinto che si riuscirà a trovare una soluzione che sia più sostenibile di Corcolle. Massima collaborazione da parte nostra". Ad ogni modo, sottolinea il sindaco "penso ci siano tutte le carte, tutte le analisi per poter giungere, anche in una settimana, ad una decisione. Credo non ci sia bisogno di tempo, ma di un’intensa concentrazione in pochi giorni per giungere ad una decisione".
Il leader dei Verdi Angelo Bonelli punta invece l’indice contro la presidente della Regione Lazio Renata Polverini: "Ora dopo le dimissioni del Prefetto Pecoraro è giunto il momento che tragga le dovute conseguenze e si dimetta". Eventualità che la governatrice non sembra prendere assolutamente in considerazione. In una lettera indirizzata al premier Mario Monti Polverini ha piuttosto rivendicato che "la giunta regionale, che ho l’onore di rappresentare, ha posto rimedio, in pochi mesi a mancanze e omissioni compiute da tutti i livelli istituzionali che per legge dovevano occuparsi della materia, come ben sanno tutti coloro che hanno ricoperto ruoli di prestigio e alta amministrazione nei diversi dicasteri interessati negli ultimi decenni".
RIFIUTI
Palazzo Chigi dà l’ok alla discarica di Corcolle
Ornaghi dice no, si allarga l’opposizione
Dopo le notizie sul sostegno di Mario Monti al sito cresce l’opposizione. Carandini abbandona il Mibac, mentre l’associazione Italia Nostra presenta un esposto. Positivo invece il giudizio della Polverini: "Finalmente si va verso una soluzione". La Provincia: "contraria da sempre".
di STEFANIA CARBONI *
Corcolle sì, Corcolle no. Mentre si delinea sempre più la scelta del luogo a due passi da Villa Adriana come sito del dopo Malagrotta, aumenta la polemica. Stamane a dare un brusco risveglio ai comitati antirifiuti ci ha pensato il presidente del Consiglio Mario Monti, con una lettera che dà il via alla costruzione della discarica. L’idea sostenuta dal prefetto Giuseppe Pecoraro, va avanti, ma potrebbe creare non pochi problemi, data la contrarietà dei ministri Corrado Clini e Lorenzo Ornaghi, rispettivamente Ambiente e Beni culturali.
"Rimango contrarissimo - afferma il ministro dei beni culturali Lorenzo Ornaghi - Per il bene del paese, Villa Adriana e il suo ambiente storico-naturalistico non possono essere sfregiati". A unirsi anche Stefania Prestigiacomo, ex ministro dell’ambiente del Pdl: "Vogliamo fare della capitale un altro scandalo mondiale? Ma ci si rende conto dell’enorme danno di immagine?"
"La provincia è stata da sempre contraria a questa scelta" sottolinea Michele Civita, assessore provinciale alle politiche del territorio e alla tutela ambientale. Mentre Italia Nostra presenta un esposto in procura, Andrea Carandini abbandona il Mibac: "Esistono per ciascuno di noi dei limiti di tolleranza. Le ultime notizie giuntemi sulla discarica, straordinariamente gravi e alle quali non arrivo a credere, rappresentano la goccia che ha fatto traboccare il mio vaso". Carandini scrive tutto in una lettera, rivolta al ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi, con la quale l’ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali annuncia l’abbandono del suo incarico. "Tra gli altri motivi - spiega Carandini - c’è un taglio di 9 milioni alle risorse e tutta una situazione molto difficile. Non si può servire un paese così. Non mi va più di lavorare in un clima del genere".
Il coro dei no. "Centuplicheremo le nostre iniziative. Domani presenteremo un esposto in procura - afferma Carlo Ripa di Meana, presidente locale di Italia Nostra - Venerdì sembra essere il giorno del sì o del no, ci riserviamo ogni altra iniziativa nelle sedi di giustizia e nelle sedi della mobilitazione civile".
"É una tripla tenaglia quella che si stringe oggi sulla città. Da un lato la vicenda di Corcolle con il beneplacito di Monti, mentre arrivano con straordinaria sincronia le dichiarazioni del amministratore delegato di Ama che definisce, come al solito irrealizzabili, le proposte del Ministro Clini di portare la capitale al 65% entro il 2014. La cosa non ci sorprende. Ama non è in grado, o non vuole, di fare la differenziata, la appalta all’esterno con procedure opache" osserva Nando Bonessio, presidente dei Verdi del Lazio.
"Oggi il mio cuore è ferito - commenta Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fai, fondo ambiente italiano - mettere una discarica a meno di tre chilometri da Villa Adriana significa distruggerla". Ad aggravare infatti la scelta del luogo è la vicinanza a Villa Adriana, patrimonio dell’umanità dal 1999.
"Sono stradelusa. Ed è una delusione doppia, da un lato per la discarica e dall’altro perché la decisione arriva da Monti che per me era una figura quasi evangelica di salvatore - commenta l’attrice Franca Valeri, madrina del comitato ’Salviamo Villa Adriana’- Fare una discarica in quel posto non può essere che un imbroglio".
Il sostegno. Positivo invece il giudizio di Renata Polverini, presidente della Regione: "Finalmente, si va verso una soluzione, di questo problema. Sentiremo Pecoraro. Se c’è una lettera la vedremo, ci sarà una conferenza dei servizi e mi auguro che finalmente si possa andare avanti. Anche perché abbiamo perso tempo prezioso".
Il sindaco. "Non abbiamo ancora avuto nessuna comunicazione ufficiale, lo abbiamo letto sui giornali" commenta Gianni Alemanno, sindaco di Roma. "Attendiamo una comunicazione ufficiale - ha aggiunto - che ci spieghi i parametri della scelta. Su questo faremo delle osservazioni perché non siamo favorevoli. Non è un atteggiamento di ostruzionismo ma vogliamo verificare con i ministri Clini e Ornaghi che la pensano come me, il motivo di questa scelta".
Niccolò Rinaldi, europarlamentare e capodelegazione Idv, va sul piede di guerra preannunciando una interrogazione urgente su Corcolle: "Concedere il via libera al sito che sostituirà Malagrotta è irresponsabile e ridicolizza un ministro come Corrado Clini le cui posizioni sono invece apprezzate in Europa".
Legambiente. "Per quanto apprendiamo gli studi tecnici, che tutti avremmo il piacere fossero resi pubblici, l’area di Corcolle non è inquinata, il terreno è tufaceo e richiederebbe un’impermeabilizzazione di metri e metri di costosa argilla- aggiunge Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. - E’ ovvio, e allora? Addirittura sarebbe stata chiesto all’Unesco una riperimetrazione del sito, ma siamo davvero pazzi? Per realizzare quello scempio servirebbero tali e tante deroghe alle norme di legge e spese enormi e inutili da rendere irrealizzabile l’opera".
Il presidente della sezione di Tivoli, Gianni Innocenti, portavoce del comitato ’Uniti contro le discariche’, solleva il problema delle falde acquifere: "Sotto il sito individuato inoltre c’è il condotto dell’Acqua Marcia. Ma il problema principale è quello della falda idrica sotterranea a Corcolle, che è un fiume d’acqua di circa mille litri al secondo che va ad alimentare i pozzi di prelievo di Acea Ato 2 che servono le case dei quartieri ad est di Roma".
Opposizione europea. L’eurodeputato del pd, Guido Milana, ha inviato oggi la lettera-appello a Monti, per chiedere di non avallare l’ipotesi. L’appello, già sottoscritto da 77 europarlamentari di una quindicina di paesi membri (altri, in queste ore, chiedono di firmare) si rivolge al premier "affinché sia scongiurata questa eventualità, confidando sulla sua sensibilità e su una valutazione la quale, possa includere come elemento primario la tutela e conservazione di un bene storico-archeologico di primaria importanza mondiale. L’iniziativa di Milana è sostenuta anche dai tre capidelegazione italiani a Bruxelles, Davide Sassoli (S&d), Mario Mauro (Ppe) e Niccolò Rinaldi (Alde), dai due vice presidenti del parlamento europeo e da numerosi parlamentari italiani, tra cui Rita Borsellino, Luigi Berlinguer, Sergio Cofferati, Iva Zanicchi, Gianni Vattimo e Debora Serracchiani.
Cittadini si diventa: in piazza
Dall’agorà greca alla Tahrir del Cairo un luogo emblematico che mette in gioco i rapporti tra spazio e società
di Carlo Olmo (La Stampa, 21.05.2012) *
I fili che si intrecciano quando si ragiona sui possibili legami tra la piazza e le espressioni della cittadinanza sono davvero tanti e molto ingarbugliati. Sono fili complessi e contradditori, non solo perché attraversano geografie e cronologie.
Sin dalle prime tracce scritte che noi abbiamo - la riflessione di Aristotele sulla griglia di Ippodamo da Mileto nella Politica - la piazza costituisce insieme l’eccezione e l’enfasi di un disegno urbano che esprimeva assieme un’egual distribuzione delle opportunità per tutti i cittadini e una forma di controllo sociale attraverso lo spazio. Nel ragionamento che Aristotele costruisce e che ha nella vicenda di Thurii il suo esempio più controverso, la griglia è una proposta costituzionale che prevede una redistribuzione dei profitti derivanti dagli usi del suolo funzionale alla organizzazione delle classi sociali.
L’agorà, in questa prospettiva, diventa un luogo «eccezionale», volutamente lasciato a funzionare ambiguamente come spazio rituale (in cui il passaggio è anche dal sacro al pubblico) e come spazio sociale (del confronto, del conflitto e della mediazione). Quest’impostazione ha una storia che arriva sino a oggi, con momenti di grande enfasi, quando sarà fatta proprio da diversi pensieri utopici, o quando la griglia diventa il paradigma fondamentale su cui si costruiscono le città di fondazione e la piazza il luogo ancor più caricato del dover essere «costituzionale» e non solo funzionale.
Un secondo filo dalla storia non meno antica è quello che può essere riassunto in un apparente paradosso, The Roman Bazaar, seguendo il lavoro prezioso di Peter Fibiger Bang. La piazza come il luogo del mercato, come il luogo dove lo scambio attraversa tutte le sue declinazioni: sociali (di integrazione e legittimazione di chi opera lo scambio), simboliche (nel passaggio dallo scambio tra beni a quello tra beni e monete, a quello tra monete), antropologiche (con il problema centrale del rapporto tra il denaro e il sacro e del problema di chi gestisce il credito... e l’usura).
L’esempio più noto, una specie di incipit occidentale, è la piazza delle corporazioni a Ostia, un altro è la strada-piazza del Gran Bazar a Istanbul. La piazza come luogo del mercato segue, è quasi ovvio dirlo, l’evoluzione della funzione, ma anche della rappresentazione, del mercato nelle società. Questa «piazza» rappresenta anche, occorre sottolinearlo, il luogo per eccellenza dove le regole informali che le società si danno prevalgono su quelle formali (e sulla gestione repressiva o meno della loro applicazione).
Esiste poi un terzo filo rosso altrettanto importante, quello che separerebbe la piazza disegnata, espressione di una volontà di forma, e la piazza che si costruisce per successive addizioni. Tra queste ultime, la piazza del Campo nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti e, se si preferisce al posto di una rappresentazione un luogo reale, quella che sorge a Lucca sulle tracce dell’anfiteatro romano. Tra quelle disegnate, la Piazza ideale dell’Anonimo fiorentino conservata oggi a Baltimora, oppure la piazza Pio II a Pienza o le places royales, in primis la place des Vosges a Parigi. Una contrapposizione che ha fatto la fortuna del modello di piazza «italiana» sino a farla diventare quasi
il paradigma della piazza in cui si riconosce una comunità, mentre la piazza disegnata è diventata la rappresentazione dello Stato assolutista. Con ulteriori e interessanti paradossi che ne accompagnano la storia. La piazza «medievale» può diventare il cavallo di battaglia di chi combatte la modernità e rifiuta un concetto universalista di società - così è ad esempio per Léon Krier e per il principe Carlo - mentre la piazza disegnata è diventata l’ultima espressione di una ormai morente cultura modernista: la piazza del Campidoglio a Chandigarh di Le Corbusier o la piazza della Sovranità di Niemeyer a Brasilia ne sono gli esempi più conosciuti.
Dietro tutti questi intrecci sta una riflessione sempre estremamente contraddittoria e complessa sul rapporto che può esistere tra spazio e società, che mette in discussione facili genealogie. Proprio lo studio di come si costruisce realmente ad esempio la place des Vosges mette in luce come quella che appare il paradigma di una volontà assolutista di forma nasca dal riconoscimento - siamo nel 1616 - che l’uniformità sociale costituisca un problema per il funzionamento della città. Mentre saranno studi - soprattutto statunitensi e bostoniani - a cercar di definire il disegno urbano come strumento inatteso di una possibile Urban Democracy.
Ma è proprio la piazza, anche in quelle riflessioni storiografiche e critiche, che rimane il luogo più ambiguo.La piazza delle Tre Culture a Città del Messico, plaza de Mayo a Buenos Aires, oggi piazza Tahrir al Cairo sono entrate nell’immaginario politico e culturale come luoghi dove si rappresenta (non tanto si organizza) il dissenso. Sono piazze «fuori scala», scarsamente vissute come tali, che diventano, proprio come luoghi fortemente ambigui, scene di una rappresentazione sociale. In realtà, il rapporto tra piazza ed espressione della cittadinanza è nella storia urbana ben più complesso.
L’esempio forse più immediato rimane l’attuale place de la Concorde. Pensata come piazza destinata a ospitare la statua equestre di Luigi XV, viene localizzata dove sarà costruita dopo un doppio concorso che vede coinvolti quasi tutti i quartieri di Parigi, fondamentalmente perché quel luogo comprendeva il primo grande fallimento di una finanziarizzazione della rendita urbana: quello di John Law. La piazza rimane una piazza aperta verso la Senna, costruendo diverse prospettive visuali, proprio il contrario della piazza chiusa, mito e simbolo delle piazze espressione di un potere monocratico. Diventa con la rivoluzione la piazza delle esecuzioni, poi lo snodo delle processioni rivoluzionarie, per diventare l’inizio del più importante progetto di disegno urbano della Parigi di prima metà dell’Ottocento, rue de Rivoli, sino a essere vissuta oggi come un’immensa rotonda automobilistica che ha perso persino il suo statuto di piazza.
Le metafore aiutano a semplificare questioni complesse. Piazza può essere usata provocatoriamente per semplificare ad esempio nuove forme di comunicazione, ma, come tutte le parole, si porta dietro un’avventura più ricca e forse più interessante del suo uso come semplice metafora.
I cinquemila intellettuali da tutto il mondo contro la discarica accanto a Villa Adriana
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 16.05.2012)
Gli ha detto «non se ne parla» il ministro dell’Ambiente, glielo ha ribadito il ministro dei Beni Culturali, glielo hanno ripetuto il sindaco di Roma, l’Unesco, Italia Nostra, la gente del posto, l’Autorità di bacino e migliaia di intellettuali di tutto il mondo. Niente da fare: il Commissario ai rifiuti vuol fare la discarica proprio lì, a due passi da Villa Adriana.
All’estero non ci vogliono credere, che un paese che si vanta di essere una delle culle della cultura possa solo ipotizzare di costruire la nuova pattumiera della capitale, in seguito all’inevitabile chiusura dello storico immondezzaio di Malagrotta (dopo mille rinvii e l’ammasso di 36 milioni di tonnellate di pattume) a 70o metri dall’area vincolata della maestosa residenza dell’imperatore Adriano.
«Ma siete sicuri che non è una bufala?», hanno chiesto increduli tanti professori universitari e archeologi e storici dell’arte e intellettuali vari a Bernard Frischer, direttore del Virtual World Heritage Laboratory, tra i promotori di una raccolta di firme planetaria contro l’idea scellerata: «E impensabile che la Villa e il territorio circostante debbano subire il degrado che ovviamente deriverebbe dalla discarica in progetto».
Ieri sera i firmatari (appoggiati da una mozione votata dalla Société Francaise d’Archéologie Classique) erano già quasi cinquemila. Da Lisa Ackerman, vicepresidente esecutiva del World Monuments Fund, ad Alain Bresson dell’Università di Chicago, dall’archeologo Tonio Holscher di Heidelberg all’architetto Richard Meier, da Salvatore Settis a vari docenti di Oxford e Berkeley, Harvard e Cambridge. Per non dire delle personalità di spicco del Louvre, del Prado, del Getty Museum di Malibù, dell’Hermitage di San Pietroburgo, del Kunsthistorisches Museum di Vienna... Una sollevazione. Che da una parte ci consola per l’amore che riconosciamo nel mondo verso i nostri tesori, dall’altra ci fa arrossire di vergogna. E ci ricorda quella tremenda battuta che girava tra gli intellettuali stranieri dopo l’infelice insistenza di chi come il Cavaliere sbandierava che l’Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall’Unesco». Diceva quella battuta: «L’Italia ha la metà dei tesori d’arte mondiali. L’altra metà è in salvo». Umiliante.
Eppure va detto che questa volta, con l’eccezione della presidente della Regione Lazio Renata Polverini, un po’ tutte le autorità locali e nazionali hanno usato parole nette. «Qui la discarica non si può e non si deve fare», ha tuonato l’altro ieri Gianni Alemanno. Due ore più tardi, sul suo blog si appellava «al commissario e a tutte le autorità competenti» spiegando che lì «1’Acea raccoglie acque importanti, da qui passa l’acquedotto dell’Acqua Marcia, ci sono fonti di captazione non solo per l’acqua a uso agricolo, ma anche per quella potabile. E qui c’è un sito tutelato dall’Unesco, Villa Adriana, che deve essere rispettato».
Non c’è solo la residenza imperiale famosa nel mondo per il Ninfeo e il Teatro Marittimo, i Portici e le Grandi Terme e per le «Memorie di Adriano» di Marguerite Yourcenair. Ci sono intorno ampi spazi dove ancora si può vedere quanto belli fossero quei dintorni di Roma che abbagliarono i grandi visitatori del passato e antichi manieri medievali come quello che domina l’ex cava destinata a diventare una discarica e liquidato dagli esperti prefettizi, con una definizione furbetta tesa a non impensierire i custodi delle belle arti, come un «manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle».
Macché, a stretto giro di posta il prefetto Giuseppe Pecoraro, rispondeva al sindaco a brutto muso: «Nella vita di un funzionario pubblico a volte bisogna fare scelte obbligate anche se dolorose. Da parte mia non c’è naturalmente alcuna intenzione di ledere alcun territorio, ma il mio obiettivo è superare l’emergenza, e per farlo bisogna fare delle scelte. E l’obiettivo primario che mi guida è l’interesse pubblico». Avanti tutta: la discarica la vuole proprio a Corcolle. E a questo punto lo scontro è durissimo.
In una lettera del io maggio a Mario Monti, a costo di andare in conflitto con la collega Anna Maria Cancellieri, i ministri dell’Ambiente Corrado Clini e dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, sono infatti irremovibili. E non solo manifestano l’irritazione per la *** scelta del prefetto di incaponirsi su Corcolle «in aperto e pubblico contrasto con i nostri ministeri». Ma ripetono che «Corcolle insiste su un’area vulnerabile del sistema acquifere o regionale caratterizzata da una presenza significativa di pozzi d’uso prevalentemente agricolo, igienico e il domestico, oltre che dalle sorgenti Acquoria e Pantano Borghese, con una portata complessiva di i.ioo litri al secondo, captate da Acea per la rete idropotabile di Roma. La discarica metterebbe a rischio un’importante quota di approvvigionamento idrico della capitale».
Di più: «La barriera geologica naturale (...) necessaria alla localizzazione di un eventuale discarica, è estremamente ridotta e caratterizzata da una permeabilità non conforme ai requisiti di legge con rischi di contaminazione ambientale del sistema acquifere o regionale». Il prefetto vuole andare avanti «in deroga ai vincoli stabiliti»? Inaccettabile, per i due ministri: «Non è possibile derogare da tali vincoli, come dimostrano le numerose procedure d’infrazione a carico dell’Italia». Non bastasse, «è altamente probabile» che se andasse avanti «l’iniziativa verrebbe bloccata», presumibilmente dalla magistratura, «e di conseguenza il sistema di gestione dei rifiuti di Roma entrerebbe davvero in emergenza».
E allora che senso ha insistere? Quanto a villa Adriana, la lettera ricorda che il ministero dei Beni culturali ha ritenuto «che sia assolutamente improprio consentire un intervento lesivo di un patrimonio culturale e paesaggistico di valenza universale, annoverato tra i siti Unesco e come tale oggetto di un accordo internazionale che obbliga lo Stato alla tutela e alla conservazione». Cos’altro serve ancora, con lo spettro che l’Unesco possa davvero revocare alla residenza imperiale lo status di «patrimonio dell’umanità», per abbandonare il progetto?
Riflessioni attorno alla nevicata
di Giulietto Chiesa (Il Fatto Quotidiano on-line, 5 febbraio 2012)
Ho visto, e sperimentato di persona, cosa può produrre una, tutto sommato banale, nevicata, in un tutto sommato ancora (per poco), paese industriale “avanzato”. Al di là dei soliti lai dei mass media, che lasciano il tempo che trovano, mi sono trovato a riflettere, in un treno ad alta velocità fermo in mezzo alla neve, sulla fragilità delle nostre società. Riflessione stimolata da un articolo sul Fatto, di quel giorno, a firma Massimo Fini, che a sua volta rifletteva su un elemento correlato: la perdita progressiva della nostra manualità umana.
Non siamo più capaci di fare niente con le nostre mani. Non siamo più capaci di praticare l’agricoltura. Il pollice è diventato dominante, quanto a trepestare sui tasti del cellulare, ma la mano non riceve più dal cervello ordini sensati che non siano quelli di usare coltello e forchetta.
Ho pensato che le nostre società sono diventate così complesse e costose, che se dovessimo essere costretti, da qualche imprevisto, a rinunciare collettivamente all’energia elettrica per più di tre giorni le nostre società cadrebbero nel panico e i morti si conterebbero non più a decine ma a centinaia di migliaia.
Complesse e costose. Abbiamo scelto l’alta velocità (lasciamo pure perdere la Val di Susa, dove la scelta è talmente insensata che non varrebbe nemmeno più la pena di parlarne se non fosse che il governo ha militarizzato, per farla, trenta comuni) senza nemmeno renderci conto che, più veloci andiamo, più quelle stesse macchine (e tutto il complicatissimo e costoso meccanismo che le fa muovere) diventano fragili come il vetro. Treni e scambi e rotaie, che potrebbero benissimo funzionare in condizioni di velocità tradizionali, diventano improvvisamente inabili a fronteggiare situazioni di emergenza, con il risultato che, invece di andare più veloci, restiamo fermi.
Il tutto di fronte alla prospettiva, serissima, che proprio ciò aumenta la probabilità di accadere nell’arco breve delle nostre vite. La crisi energetica, che facciamo tutti finta di non vedere, è appena dietro l’angolo. Le implicazioni che comporterà - sottolineo: nell’arco della vita nostra e dei nostri figli - saranno gigantesche.
Ma noi continuiamo a andare avanti, come dei dementi senza destino, a costruire complessità, facendo terra bruciata dietro le nostre spalle. Cioè facendo terra bruciata davanti al futuro dei nostri figli. Quando parli di “decrescita” sorgono rabbiose le urla degli sviluppisti a tutti i costi. E il governo dei tecnici, che ci sgoverna come il precedente governo dei puttanieri e dei ladri, ci promette ancora “crescita”.
Prima ancora di dire a Mario Monti che è un bugiardo, perché promette una crescita che non ci sarà, gli darei dell’irresponsabile. Gli direi: caro Monti, lei ci sta minacciando, con la sua crescita. Non la vogliamo la sua crescita. Vorremmo re-imparare a fare crescere i pomodori e le patate, perché sta venendo il tempo in cui non le troveremo più nel negozio sotto casa.
Il paese sconfitto
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 05.02.2012)
Non c’era bisogno di un’altra triste metafora, dopo i rifiuti di Napoli, i crolli di Pompei e il naufragio del Giglio, per rappresentare la crisi del nostro Paese sul piano mediatico planetario. Ma la disfatta di Roma, sotto una nevicata di poche ore e di pochi centimetri, è piuttosto un esplicito atto d’accusa contro un apparato pubblico palesemente inadeguato. "Capitale inetta, Nazione sconfitta", si potrebbe dire parafrasando uno storico slogan del settimanale L’Espresso.
Quando il maltempo si combina con il malgoverno, non c’è scampo per i cittadini. Allora la forza della natura s’incarica di mettere a nudo tutta la debolezza dell’uomo: per dire l’incapacità di prevenire e affrontare un’emergenza ambientale già ampiamente annunciata. Per l’occasione, il sindaco Alemanno avrebbe potuto almeno risparmiarsi (e risparmiarci) il consueto scaricabarile con la Protezione civile sulla puntualità delle previsioni meteorologiche: bastava ascoltare nei giorni scorsi un qualsiasi giornale radio o telegiornale, per informarsi e provvedere di conseguenza.
La "Città eterna", dunque, degna Capitale del Malpaese. Centro nevralgico di un intero sistema - ferroviario, aereo, stradale e autostradale - obsoleto e inefficiente. Ma anche simbolo di un cattivo governo del territorio, del suo assetto idro-geologico, del suo contesto ambientale. Non a caso, fin dai tempi del boom economico, Antonio Cederna denunciava il "sacco di Roma" come paradigma di un malcostume nazionale, alimentato dalla speculazione edilizia e dalla cementificazione selvaggia.
Di questa cultura o incultura collettiva, fa parte integrante la mancanza o insufficienza cronica dell’ordinaria manutenzione. Cioè di quei "piccoli lavori" quotidiani che, a differenza delle mitiche "grandi opere", si possono (e si devono) realizzare con minori costi e rischi. È proprio questa, in realtà, la forma di prevenzione più efficace per arginare e contenere l’impatto delle fenomeni o delle calamità naturali.
Basta allora una nevicata, neppure tanto catastrofica, per mettere in ginocchio una Capitale e mandare in tilt mezzo Paese. A parte, poi, le vittime e i danni che un evento del genere riesce in queste condizioni a provocare. Danni materiali, economici e comunque anche d’immagine, se è vero che quella del turismo resta tuttora la prima industria nazionale.
Il fatto è che il nostro appare oggi un Paese a rischio permanente. E a dispetto del suo incomparabile patrimonio storico, artistico e culturale, come della sua antica tradizione di accoglienza e civiltà, non offre un’ospitalità adeguata ai visitatori e ai turisti italiani o stranieri. C’è uno spreco intollerabile di risorse che pure appartengono al patrimonio pubblico e non influiscono quanto potrebbero sul Prodotto interno lordo, né in termini finanziari né tantomeno di occupazione.
Qualsiasi politica di rilancio e di crescita, invece, non può che fondarsi sulla sicurezza ambientale e civile. E questo vale in particolare per il Mezzogiorno, afflitto dal degrado e dall’abusivismo edilizio oltre che dalla criminalità organizzata. Senza sicurezza non c’è turismo e senza turismo per noi non c’è sviluppo.
È tanto paradossale quanto inaccettabile, perciò, che una nevicata spacchi il Paese in due, paralizzando la Capitale, i collegamenti stradali e ferroviari. Che centinaia di passeggeri rimangano bloccati per un giorno intero in stazioni gelate, che intere zone rimangano isolate, che quasi duecentomila famiglie rimangano senza elettricità. Mentre cerchiamo faticosamente di risalire la china della credibilità internazionale e di ridurre finalmente lo spread, per pagare meno interessi sul finanziamento del debito pubblico, nello stesso momento mostriamo al mondo intero il nostro volto peggiore: quello di un popolo arruffone, disorganizzato, inefficiente. Un’Italia occupata in gran parte da catene montuose, le Alpi in tutto l’arco settentrionale e gli Appennini come spina dorsale da nord a sud, ma senza spazzaneve e camion spargi-sale a sufficienza.
A Roma e dintorni, nei prossimi giorni il ghiaccio si scioglierà. La circolazione stradale tornerà più o meno regolare. I treni e gli aerei riprenderanno a viaggiare più male che bene. Ma, prima che arrivi un’altra nevicata, un’altra alluvione o un’altra frana, dovremmo imparare una buona volta la lezione che di tanto in tanto la natura severamente impartisce.
Il legame segreto tra noi e gli antichi
Vesta, la dea nemica del familismo
Vergine madre di Roma, custode del focolare domestico e della cosa pubblica
di Andrea Carandini (Corriere della Sera, 10.12.2011)
L’arcano dell’impero di Roma è nell’invenzione della «cosa pubblica», tanto forte da aver durato per 1.150 anni e aver improntato di sé la civiltà in Occidente. L’essenza di questa res publica fu una casta diva: Vesta, forgiata intorno al 750 a.C., su misura della città-Stato appena nata. Vesta era il fuoco pubblico di Roma, né ebbe immagine antropomorfa prima del I secolo a.C. Pensiamo che civitates e poleis si siano formate nel corso di secoli, mentre invece sono state «fondate» in un certo giorno. Sono state, in primo luogo, invenzioni teologiche e cerimoniali. Vi è somiglianza tra i fondatori di città e i fondatori di religioni: sovente eroi, figli di vergini fecondate da un dio, come Romolo e Cristo.
Per capire Vesta bisogna conoscerne il passato latino, anteriore alla città. Ma risalire così in alto è difficile, perché i Romani hanno cancellato i miti della dea, perché apparisse vergine senza trascorsi. Ma Vesta un passato lo aveva avuto, e sorprendente. Lo rivela il mito di Rhea Silvia, principessa di Alba Longa devota di Vesta - sua immagine riflessa - fecondata da Marte e genitrice di Remo e Romolo. La dea era dunque una «vergine madre», come Silvia e Maria. Anche le sacerdotesse di Vesta, le vestali, conservavano tracce della natura ambigua della dea. Somigliavano a vergini figlie, eppure anche a spose, di cui indossavano la veste, salvo il bianco velo e il diadema che segnalavano lo stato sacerdotale. I Romani hanno voluto adattare la Vesta pre-civica al loro progetto di città e mentre la plasmavano hanno concepito un’idea del pubblico che a noi pare più essenziale e radicale delle invenzioni cittadine dei Greci.
Infatti Vesta romana fu esclusivamente pubblica - sottratta ai fuochi privati - e le vestali erano costrette alla purezza per una generazione. Esclusivamente statale mai era stata la dea greca del focolare Hestia, né alcuna sacerdotessa greca ha conosciuto alla condizione simbolicamente vertiginosa delle vestali.
In origine Vesta presiedeva ai fuochi di famiglie, gentes, regie casate e anche di villaggi e rioni. Le fiamme ardevano allora nelle capanne accanto alla fossa-dispensa (penus) delle granaglie, che su quelle braci venivano cotte. Ma a Roma Vesta fu distolta da quei fuochi particolari e locali, come rapita dalla città, monopolizzata dallo Stato e relegata nel sua capanna (aedes), dove nessuno abitava o cucinava, e nel cui penus era non farro ma un talismano: il fascinus, cioè un fallo, segno di altri tempi. Le vestali abitavano in una loro capanna, davanti all’aedes, dove cucinavano e tenevano nel penus le provviste. Erano figure stravaganti, immagini viventi della dea. Dovevano preservarsi immacolate, impenetrate come le mura sante della città, e dovevano tenere il fuoco acceso durante l’anno nell’aedes, riaccendendolo ritualmente a capodanno. Se il fuoco si spegneva era una calamità grave. Rivelava che una vestale era stata violata: mostruosità da annientare, seppellendola viva.
Vesta era stata rapita ai fuochi particolari, come le vestali erano state bambine sottratte dal re alle famiglie, per divenire essenza divina esclusiva dello Stato, segno apicale della cosa pubblica. Essendo di nessuno, le vestali erano di tutti. Mai come a Roma lo Stato fu altro da un aggregato di famiglie: una entità centrale e gerarchizzata, sovraordinata rispetto rioni e parentele.
Quando i Greci fondavano una colonia, un «piroforo» recava in un vaso le braci della madrepatria con cui veniva acceso il fuoco nella città figlia, che da quel seme bruciante traeva vita. A Roma le cerimonie di fondazione furono due. Prima Romolo fondò l’epicentro dell’abitato sul Palatino, seguendo riti latini ed etruschi: era un 21 aprile, primitivo capodanno pastorale. Poi, durante il regno con Tito Tazio, egli fondò il centro sacrale e politico nel Foro-Arce: era un primo marzo, capodanno dei primi Romani. Il Foro era stato progettato tra due culti del fuoco.
Accanto al fuoco domestico di Vesta risiedevano re e sacerdoti, in un fulcro di sovranità sacrale: al lucus Vestae. Accanto al fuoco bellico di Vulcano il re agiva con consiglieri e cittadini in assemblea, nel fulcro della politica, al Volcanal-Comitium. Fu allora che Vesta assunse il carattere pubblico della greca Hestia. Questa idea straordinaria era giunta forse da Cuma, per cui la fondazione della città era consistita in riti latini, etruschi e greci. Roma interiorizzò il cosmo, fin da principio.
Vesta nel Foro era sola, separata ormai da Vulcano e Marte e lontana dalle ragazze in ritiro prematrimoniale a lei devote, che con quegli dei si erano unite - pronuba la dea - per generare fondatori di città, come Ceculo, Romolo, Servio Tullio. Ora la casta diva era servita da sacerdotesse che, se violate, venivano sacrificate per preservare la salute della città. Quale differenza con la multiforme versatilità della dea originaria, con le sacre unioni che generavano eroi. Eppure qualcosa permaneva di quell’ardore originario, fatto di sovranità, purezza, fecondità, capacità difensiva ed energia nutritiva tesaurizzata.
Vigeva allora in Roma un’austerità puritana, che dell’imbarazzante passato pre-civico conservò traccia incongrua nel fascinus. La trasformazione servì a generare, nel coacervo di fazioni in lotta, il dispositivo della cosa pubblica. Mai era stato inventato un più perfetto correttivo pacificatore. Stava nella sublimazione del particolare nel generale, in un’essenza di virtù civica che rimane immortale: lezione anche per gli italiani che ristagnano ancora nel familismo amorale. Vesta e le vestali non erano di famiglia alcuna, tutt’uno col popolo romano. Vesta è dunque un’invenzione teologica artificiale, razionale. Il suo santuario e il Foro erano in un distretto esterno all’abitato e neutrale, per poter essere riconosciuto da tutti, come il Columbia District, in cui è Washington. I re di Roma furono stranieri per essere accettati dai contendenti locali - oggi diremmo tecnici super partes - e Vesta fu resa straniera a se stessa, per essere la vergine delle vergini, la sposa delle spose e perfino lo sposo degli sposi... Infatti le vestali furono le uniche donne di Roma ad avere i diritti civici dei maschi, compreso quello di sacrificare. Insomma, Vesta era onnipotente, come la Giunone di Lanuvio. Sembra contraddittoria, perché era ad un tempo polifunzionale e olistica. Nella sua sacrale eccezione si conciliava quant’era inconciliabile tra gli uomini. Vesta è il sistema antifamilistico e morale di Roma, simbolico capolavoro nella sua essenza estrema.
Gli antichi erano incerti se attribuire il culto pubblico di Vesta al tempo di Romolo, intorno al 750 a.C., o a quello di Numa Pompilio, intorno al 700. Scavando nel Santuario abbiamo scoperto che i primi edifici risalgono al 750 a.C.: la casa delle vestali davanti all’aedes Vestae e la domus dei re, che avevano lasciato il Palatino per abitare nel Foro. La discontinuità con il precedente abitato proto-urbano è assoluta. Per trasformare una palude nel Foro servirono numerosi interri accumulati dal 750 a.C. circa. Il primo pavimento in ciottoli si data intorno al 700 a.C.
Acqua alla gola coscienze sporche
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 7 novembre 2011)
Ci sono momenti in cui la realtà costringe a prendere alla lettera le metafore, spesso con effetti assai spiacevoli. Mettere con le spalle al muro un avversario in una discussione, diceva Karl Kraus, può finire prima o dopo per portarlo al muro di un’esecuzione. La natura - che la specie umana ritiene di aver domata, dimenticando di farne parte anch’essa né più né meno degli animali, delle piante o dei venti - è divenuta, per la nostra cultura, soprattutto un serbatoio di metafore: si parla di un terremoto politico, del tramonto di un leader, di un Paese con l’acqua alla gola, senza sospettare che quelle immagini possano diventare realtà concreta. La catastrofe in Liguria ha tragicamente restituito alle parole il loro significato brutalmente primario e letterale; l’acqua alla gola è salita ancora più in alto e ha ucciso alcune persone.
Non ho la minima competenza per capire se e in che misura il disastro possa essere o no attribuito anche a scarse misure preventive, insufficienti controlli, permessi edilizi accordati irresponsabilmente, incurie di vario genere. L’impressione - anch’essa superficiale, di seconda mano - è che, nel complesso, la Protezione civile e le autorità, forse carenti nella comunicazione, abbiano agito con prontezza ed energia.
Negli ultimi tempi i disastri cosiddetti naturali, in Italia e nel mondo, sono stati piuttosto frequenti e sono stati ogni volta accolti non solo con comprensibile sorpresa, ma anche con lo stupore che simili eventi possano accadere oggi, nell’era in cui la scienza e la tecnica sono in grado di modificare le specie e la riproduzione, di abolire le distanze spaziali e temporali della comunicazione e forse di creare la vita in laboratorio. Ci si stupisce che piogge, temporali e maree possano metterci, almeno temporaneamente, in ginocchio più delle crisi politiche, quasi fossimo ancora al tempo dei nonni o bisnonni. Riluttiamo a credere che il Paese debba essere salvato non solo dalla crisi economica e dal collasso politico, ma anche dalle maree, dagli smottamenti, dalle alluvioni, dai fiumi in piena.
Certo, la nostra cultura è anche ossessionata dalla consapevolezza dei danni arrecati all’ambiente dallo sviluppo tecnologico. Fioriscono dovunque movimenti ecologisti e partiti verdi che denunciano giustamente l’inquinamento, l’aumento di gas tossici, le scorie nucleari, il surriscaldamento e tanti altri mali. Ma sono movimenti che, pure facendo rumore e occupando i media, non riescono a diventare comune buon senso e mentalità del cittadino medio, che alla fine determina l’azione pubblica più dell’attivista militante.
In molti sacrosanti critici dello stupro dell’ambiente vi è inoltre una distorta, misticheggiante fede nella Natura, con l’iniziale maiuscola, identificata soltanto con alcune delle sue manifestazioni, nel falso presupposto che l’uomo e l’attività umana non ne facciano parte anch’essi. Goethe, amante della natura come forse nessun altro, sapeva che tutto è natura; anche ciò che sembra contraddire il suo volto per noi abituale, anche ciò che ci sembra alieno. Una creatura per noi mostruosa degli abissi marini o un bacillo per noi mortale non sono meno «naturali» del nostro amato cane e di noi stessi. Escludere l’attività umana dalla natura è stupido e impossibile; il vino non è meno naturale perché non si fa da solo bensì con l’intervento dell’uomo, come i nidi si fanno con l’intervento degli uccelli. I gas tossici sono costituiti da sostanze che fanno parte della terra e le distese ghiacciate di Plutone non sono meno «naturali» dei colli toscani. Semplicemente i gas tossici, come i - naturalissimi - funghi velenosi sono letali per l’uomo, il quale invece sembra stia facendo di tutto per rovinare non «la Natura» bensì quell’equilibrio naturale necessario alla sua vita, alla sua sopravvivenza e al suo benessere elementare. Inoltre, se c’è talora un irrazionale fondamentalismo verde giulivamente nemico del progresso, c’è pure un irrazionale fondamentalismo di alcuni scienziati, credenti in un progresso illimitato e luminoso, del quale non si chiedono il senso, e convinti che, quando una cosa è tecnicamente possibile, sia anche sempre lecito e doveroso farla.
Progresso significa migliorare il rapporto con il mondo che ci circonda e dunque con noi stessi. Tutto è natura, come il mare in cui possiamo nuotare o affogare e che possiamo anche attraversare con una vela o con un motore. L’inondazione della strada in cui annegano persone dipende dalla pioggia e dal fiume come dalle case costruite troppo vicino al fiume o dai materiali inadatti con cui sono costruite quelle case, dalle scorie gettate in quel fiume e dal sistema politico e sociale che permette e anche produce lo scempio di quelle scorie e del loro scolo nel fiume.
Dalla fine della guerra non è mai stata così forte la sensazione di dover salvare l’Italia. Non solo da una cricca inetta o da una crisi economica, ma anche, con altrettanta urgenza, da piogge e da maree, la cui assopita potenza distruttiva ogni tanto esplode. Immersi, volenti o nolenti, nella realtà del nostro Paese come nella natura, assomigliamo al barone di Munchhausen risucchiato dalle sabbie mobili e non ci resta che cercare di venirne fuori tirandoci su, come lui, per il nostro codino. Un fiume inquinato e in piena può sommergerci, ma siamo noi quel fiume.
Il dramma della Liguria e dell’Italia: speculazioni edilizie e speculazioni finanziarie non sono “catastrofi naturali”
di Raniero La Valle (“domani”, 3 novembre 2011)
La catastrofe delle Cinque Terre (ma anche in Toscana) è una perfetta rappresentazione di quel genere letterario simbolico (e anche apocalittico) che attraverso la descrizione drammatizzata di un evento minore racconta una storia molto più reale e più vasta, o già accaduta o ancora da accadere. L’allegoria dell’alluvione delle Cinque Terre, a saperla leggere, rinvia al rischio che tutto il Paese faccia la stessa fine, travolto dal fiume in piena di una economia impazzita, abbandonato a se stesso da una politica insensata e investito dai detriti di grandi ricchezze trasformate in mine vaganti e intralci ai soccorsi.
Il disastro della Liguria non è infatti per niente una catastrofe naturale. Certo, ha piovuto. Ma il territorio era stato appaltato a un’economia selvaggia, controlli e regole erano saltati, a Monterosso una piscina definita “opera di pubblico interesse” era stata piazzata sugli scogli a picco sul mare, i torrenti erano stati interrati e i fiumi trasformati in discariche, la sabbia portata via per le costruzioni autostradali, il lavoro della difficile terra era stato abbandonato, perché “produrre un quintale di vino alle Cinque Terre costa come cento quintali in Romagna”: non è da ieri, dice lo scrittore Maurizio Maggiani sul quotidiano genovese, ma sono vent’anni che Monterosso non esiste più. L’istituzione del Parco è finita in ruberie e manette, e la nuova, unica risorsa su cui si è fatto affidamento è stato il turismo, dimensionato su cinque milioni di presenze all’anno, e la gente stessa si è snaturata, ha chiuso con la sua storia; l’occasione della loro vita è stata il bed and breakfast.
L’Italia è lo stesso. Non è solo che piove a dirotto sui mercati. È che le difese sono state azzerate, la politica ha mistificato l’interesse pubblico, si sono perse le distinzioni tra fuorilegge e persone per bene, la bufera si è abbattuta sul Paese e quel Berlusconi che doveva rifare l’Italia ora, con la cocciuta difesa del suo potere e con la sua “maggioranza”, ha finito per essere solo un superstite abbarbicato a un’inferriata messa di traverso alle acque, a fare da ostacolo ai soccorsi; e anche questo è un reato.
Ma, tolto questo ostacolo, che fare? C’è qualcuno che comincia ad avere il coraggio di dire che è tutto il sistema messo su negli ultimi trent’anni che è sbagliato, è il capitalismo post-novecentesco che è fallito. Chi ha detto che il debito è sacro e anzi, con la solita secolarizzazione dei concetti che è il vizio dell’Occidente, è “sovrano”? Chi ha detto che le leggi dei mercati, della speculazione finanziaria, dei bilanci in pareggio, sono leggi di natura? E chi ha detto che la trascendenza e la scarsità del denaro devono essere al centro di tutto? Secondo il prof. Salvatore d’Agata c’è una rivoluzione copernicana da fare. Sapendo la storia, ci dice che se non fossero stati dimenticati i debiti non si sarebbe usciti con Roosevelt dalla crisi del ’29. Con i bilanci in pareggio non si sarebbe vinta la guerra contro il nazismo, non ci sarebbe stato il piano Marshall e non sarebbero state ricostruite né l’Italia né l’Europa.
E come si permette “l’Europa” non solo di dirci che cosa dobbiamo fare entro domani, ma addirittura che cosa mettere nella nostra Costituzione, che ha finora resistito ad ogni oltraggio? Questa idea della crisi economica come catastrofe naturale a cui si deve dare una risposta obbligata secondo leggi di natura, è la sconfitta più cocente e finale di tutto l’illuminismo europeo.
Le classi dirigenti europee stanno infatti attuando alla lettera la tesi del grande economista reazionario Friedrich August von Hayek, secondo cui nessuna intelligenza può regolare la vita economica meglio di quanto lo possa fare il casuale gioco degli interessi privati, e secondo cui “l’uomo non è né sarà mai l’artefice del proprio destino”. Se qui il lavoro costa mille euro e in India dieci rupie, che ragione c’è di far sì che il lavoro resti in Italia?
La lettera della Banca centrale europea e la risposta ultraliberista del documento di Berlusconi non sono che la tomba dell’intelligenza europea, la resa alle imperscrutabili forze che, ben retribuite, ci governano, la rinunzia al cimento e alla responsabilità della politica. Troppo presto è stata liquidata la lezione del Novecento. E da lì occorre ripartire per costruire tutto di nuovo. Ci vogliono progettisti, architetti, capomastri ed operai, non certo rottamatori.
Raniero La Valle
P.S. È ora in libreria il mio “Quel nostro Novecento” (edizioni Ponte alle Grazie) che forse è un promemoria utile per capire quello che accade.
PANE AL PANE
L’alluvione delle coscienze
di LORENZO MONDO (La Stampa, 6/11/2011)
Sembra una beffa. Mai come oggi siamo appesi ai bollettini meteorologici per programmare una gita nel fine settimana o anche il minimo scarto da comportamenti abitudinari. Sono avvisi inappuntabili sul nuvolo e sul sereno, forniti da uomini che fin dalla divisa dell’aeronautica mostrano di avere confidenza con i cieli. Ma la loro capacità di previsione ci aiuta a scampare da un acquazzone, non dalla tragedia come quella che si è rovesciata sulle Cinque Terre e su Genova. La verità è che la mutazione "tropicale" del clima produce alluvioni-lampo non incluse in un generico stato di allerta, tali da trasformare in pochi minuti un inoffensivo torrente in uno scarico di distruzione e di morte.
Non si tratta soltanto di malaugurate congiunture, la ripetizione degli eventi rivela che dobbiamo prendere atto di una amara novità. Se devo avvalermi di un termometro letterario, mi ricordo che, a raccontare disastri provocati dalle acque, figurano tra i nomi eminenti soltanto il Riccardo Bacchelli del Mulino del Po e il Giovanni Guareschi di Mondo piccolo. Ma si tratta appunto delle prevedibili intemperanze di un grande fiume. Il dato è abbastanza significativo e conferma a suo modo che ci troviamo di fronte a inedite minacce, scontando decenni di insipienza, di avido sfruttamento di un territorio estremamente fragile.
Il repertorio delle reponsabilità è stucchevole ma proprio questo dimostra la sua impunita recidività. C’è un abusivismo edilizio che, sommandosi alle autorizzazioni di manica larga, divora e sfigura parti sempre più estese del territorio (annettendosi palesi zone a rischio, fino a coprire tratti di un torrente con asfalto e cemento). C’è il mancato dragaggio dei corsi d’acqua, depauperati dello sfogo rappresentato dalle golene. E i boschi, già protettivi contro il dissesto, patiscono l’abbandono, sono lasciati alle scorrerie dei cinghiali. Così, il demone dell’urbanizzazione selvaggia viene castigato da un retroterra dimenticato, da un contesto che si rivela sempre più alieno.
Appaiono emblematiche, nelle immagini tragiche di Genova sommersa, le auto sparpagliate come fiammiferi, come bastoncini di un surreale gioco a Shangai. E adesso? Finora, a sgomentarci, era lo scempio del paesaggio, di un patrimonio mirabile consegnatoci dalla natura e dalle generazionbi passate. Erano, ad avvilirci, l’egoismo e la corruzione che presiedono a tanti misfatti. Ma ora è la terra che ci frana addosso, fango contro fango. Per intraprendere la strada lunga e sofferta di un cambiamento, bisognerebbe recuperare il senso del limite e ripulire, insieme ai luoghi devastati, le coscienze. Trattando con esemplare durezza chi insiste a malfare. Ne saremo capaci?
CORRUZIONE
Roma 2009, in 33 citati a giudizio
Processo per abusivismo edilizio
Sotto accusa l’ex presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci e Claudio Rinaldi, i due ex commissari straordinari per l’organizzazione della manifestazione. Sequestrati nuovamente il circolo Aniene e il Salaria Sport Village. La prima udienza è stata fissata per il 5 aprile 2011 *
ROMA - A processo per abusivismo edilizio. La procura di Roma ha disposto la citazione diretta a giudizio per 33 persone: sotto accusa c’è il procedimento per la realizzazione e l’ingrandimento delle strutture sportive che hanno ospitato le delegazioni dei mondiali di nuoto del 2009.
Gli abusi edilizi, secondo i pm, sono stati commessi in gran parte per la realizzazione di circoli sportivi, molti dei quali in zone di interesse paesaggistico. I pubblici ministeri Sergio Colaiocco e Delia Cardia hanno disposto la trasmissione degli atti alla procura regionale della corte dei conti, come avevano richiesto i magistrati contabili il 9 luglio scorso.
I soggetti coinvolti. Sotto accusa ci sono l’ex presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci e Claudio Rinaldi: i due si sono susseguiti nel rivestire la carica di commissario straordinario per l’organizzazione della manifestazione iridata. A giudizio anche l’imprenditore Giovanni Malagò, per il circolo Aquaniene, che è stato nuovamente sottoposto a sequestro (i sigilli erano stati messi già un anno fa).
Tra gli imputati anche Simone Rossetti, gestore del centro benessere Salaria Sport Village (anche questo sequestrato oggi per la seconda volta) e finito tra le intercettazioni, ormai all’attenzione dei pm di Perugia, insieme al capo della protezione civile Guido Bertolaso. Nell’occhio del ciclone alcuni incontri che sarebbero avvenuti nel settore "spa e benessere" del centro 1.
Tra i direttori dei lavori che dovranno subire il processo c’è anche l’architetto Angelo Zampolini, già direttore dei lavori del Salaria Sport Village e tra i principali indagati nella più ampia inchiesta nei cosiddetti "grandi eventi", finita al vaglio della procura di Perugia in seguito al coinvolgimento dell’ex procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro.
La prima udienza per tutti è fissata per il 5 aprile 2011. Nei giorni scorsi, nell’ambito dell’inchiesta, è stato ascoltato il sindaco Gianni Alemanno e altri indagati hanno cercato di giustificare il proprio operato, facendosi interrogare volontariamente dal pubblico ministero. Tra questi, Malagò.
Gli edifici sequestrati. Nell’ambito dell’indagine di Piazzale Clodio sono finite sotto sequestro complessivamente una decina di strutture tra circoli e impianti sportivi, tutti oggetto di lavori in occasione della competizione sportiva del 2009.
Come già accennato, è stato sequestrato nuovamente, su ordine della procura di Roma, l’impianto sportivo Aquaniene 2, nella zona dei Parioli, su decisione del gip Donatella Pavone. Nell’ambito dell’inchiesta erano già state sequestrate altre quattro strutture realizzate a Roma in zone con vincoli paesaggistici: il Salaria Sport Village 3, il Flaminio Sporting Club 4, il Reale Circolo Canottieri Tevere 5 e il Gav Roma Natura.
L’inchiesta sugli abusi edilizi per i Mondiali di Nuoto del 2009, condotta dal Pubblico ministero Sergio Colaiocco, ha finora accertato che il Circolo Aquaniene è stato realizzato ex novo, e non ampliando gli impianti già esistenti, così come previsto da una delibera comunale del 2007. L’Aquaniene, inoltre, secondo quanto accertato dagli inquirenti, non è destinato solo a fini sportivi: la struttura si estende infatti su 14mila metri quadri e parte di questi sono stati utilizzati anche per la costruzione di bed and breakfast.
I veleni dell’Ecomafia che investe sulla crisi
di Roberto Saviano (la Repubblica, 7 giugno 2010)
Raccontano che la crisi rifiuti è risolta. Che l’emergenza non c’è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e ’ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade. Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".
Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti. Esempio lampante ne è l’economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti.
Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?
Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L’emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l’anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all’emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell’emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa. Ma risolvere un’emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco.
Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci. «Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti». Sono parole dell’amministratore delegato dell’Asia (l’azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata.
Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell’aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.
La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza. La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica «The Lancet Oncology», già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite.
Ma l’ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business. E la novità di quest’anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali.
Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all’autodistruzione.
La "Golden Rubbish" è un’inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un’inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale.
L’inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l’organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l’inchiesta denominata "Matassa".
È trentina, e precisamente della Valsugana, l’inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l’operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l’"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.
È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l’operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l’inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l’aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.
Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per come ha gestito l’emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l’ambiente". E nella sentenza si legge che l’Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".
Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell’Everest, alto 8850 metri.
Se un cittadino straniero conservava l’illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell’Ecomafia, circa un quarto dell’intero fatturato delle mafie.
Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un’eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre.
Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l’imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell’imprenditoria legale e criminale.
Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall’imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.
O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.
©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara
(Il testo pubblicato è la prefazione al volume "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)
Cara Italia mai nata
di Ermanno Rea(il manifesto,29.05.2010)
Ho letto con grande attenzione l’intervento di Giorgio Ruffolo pubblicato dal manifesto (mercoledì 26 maggio) sotto il titolo «Federalismo, un patto tra Nord e Sud» e desidero, per quel poco che possano valere le mie parole, spenderne un po’ a favore dell’ipotesi avanzata dall’illustre economista e uomo politico a giudizio del quale il futuro dell’Italia potrebb’essere anche, o meglio forse, quello di suddividersi in alcune (poche) macro-regioni federate tra loro ma dotate di grande autonomia.
Ruffolo avanza la sua proposta senza alcuna iattanza o sicumera, non pretende affatto di avere in tasca la ricetta utile a salvare l’Italia dalle tempeste che la vanno squassando ormai da tempo immemorabile (fino a rendere fumosa ogni speranza di riassetto virtuoso soprattutto sotto il profilo economico, in un tempo ragionevolmente breve). No, egli si limita a richiamare l’attenzione generale su una possibilità che merita quanto meno di essere discussa, non fosse altro che per guardare meglio dentro noi stessi e per comprendere quanto gravi siano le ferite presenti sul corpo del paese e come sia impensabile che la disunità italiana possa continuare a produrre mostri, senza che vengano adottati rimedi radicali. Rimedi capaci di rivoluzionare lo stesso modo di pensare e di essere dei cittadini e soprattutto delle classi dirigenti sia al Nord che al Sud.
Imprevedibilmente, la sortita di Ruffolo (vedi il suo bel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi) ha ricevuto però un’accoglienza improntata a una certa sufficienza, nella convinzione che ogni discorso federalistico sarebbe nient’altro che un modo per consegnarsi nelle mani di Bossi .
Come Ruffolo, anch’io ritengo che le cose non stiano così, e non soltanto perché un pensiero federalista è presente in tutta la storia del Risorgimento, sostenuto con spirito patriottico da illustri intellettuali che non possono certamente essere annoverati tra i padri ispiratori dell’attuale leader leghista, tipico figlio di nessuno dal punto di vista politico e culturale. Ma perché non riesco a intravedere alternative diverse dal divorzio a un matrimonio così manifestamente andato in frantumi.
Inutile bendarsi gli occhi: dal punto di vista statuale l’Italia non esiste; non è mai nata. Il divario Nord/Sud, così come lo abbiamo costruito pazientemente, un po’ alla volta, in maniera deliberata e consapevole lungo centocinquant’anni di storia, non ha uguali in tutto il mondo, fa dell’Italia un caso unico nella sua anomalia socio-economica con riflessi perfino di natura neurologica (come negare che ormai la "faglia" attraversa la nostra stessa psicologia?).
Semmai c’è da apprezzare lo sforzo di Ruffolo nel formulare una proposta che, pur smontando l’idea di Stato, salva e rafforza quella di Nazione, secondo una distinzione che fu particolarmente coltivata a metà dell’Ottocento da Bertrando Spaventa, esponente di punta di quel neo-hegelismo napoletano (Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Vittorio Imbriani...) che incarnò nel secolo XIX l’ideale unitario come organizzazione organica e rigidamente integrata di un popolo. Nello Stato, ebbe a dire Bertrando Spaventa, «la coscienza nazionale sale e si perfeziona a coscienza politica».
Non ricordo a caso la figura di questo pensatore ingiustamente depennato dai libri di scuola. Se lo faccio è soprattutto per ricordare da quale accademia e da quale milizia provengono tanti di noi in quanto meridionali convinti del valore salvifico dell’ideale unitario, di uno Stato italiano forte, coeso e soprattutto affrancato dalla tutela di santa romana Chiesa. Come predicava Bertrando Spaventa.
Per la verità il buon filosofo diceva di più. Sosteneva che la figura del cittadino responsabile era stata inventata dall’Italia, dalla cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma che essa era stata subito messa in ceppi dal Sant’Uffizio che non aveva tardato a trasformare il suddetto cittadino responsabile in suddito, perfetto figlio della Controriforma.
Tutto questo vuole dire che oggi, accettando di discutere di federalismo e di macro-regioni, stiamo smentendo noi stessi e i nostri maestri, stiamo facendo commercio dei nostri ideali? Non credo. Stiamo soltanto prendendo atto di un fallimento epocale, ci stiamo semplicemente interrogando se non sia possibile pervenire agli stessi risultati progettati un tempo attraverso una strada sicuramente più tortuosa e insidiosa, ma non per questo senza sbocchi e tassativamente perdente come l’ha dichiarata Eugenio Scalfari in un suo articolo (la Repubblica del 16 maggio scorso).
In ogni caso, coloro che si dichiarano indisponibili a ogni discorso sul federalismo e le macro-regioni dovrebbero quanto meno spiegarci quale possa essere oggi un rimedio credibile alla situazione di malessere, di sfascio e di spaccatura in cui versa l’Italia; soprattutto, dovrebbero spiegarci se siamo ancora in tempo a fare quello che non è stato fatto in passato, e cioè realizzare una unificazione del paese, oltre che di natura amministrativa, anche di tipo economico e sociale. Il marcio infatti è tutto qui. Personalmente ho il torto di pensare che ormai sia troppo tardi per correre ai ripari. Obbiettivamente e anche soggettivamente, nel senso che ritengo difficile orientare consolidati modi di pensare e di agire in direzioni opposte a quelle del passato.
L’Italia che si unisce lo fa infatti precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l’insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tarpano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell’illimitata ricchezza dei proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l’unificazione l’ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.
Sia concessa anche a me una illuminante citazione di Gramsci. «La egemonia del Nord sarebbe stata ’normale’ e storicamente benefica se avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe stata allora questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica nazionale (...) e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così...».
La citazione è curiosa. Innanzi tutto per lo spirito che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. La diresti l’opinione di un protestante.
Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l’unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient’altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento della già debolissima economia meridionale , colpita negli anni Ottanta dell’800 da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercè del Nord.
A partire da quel momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un suo corposo studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».
E’ tempo di concludere. Lo farò con una semplice domanda. E’ davvero impensabile che il Mezzogiorno non possa trovare dentro di sé quelle risorse di dignità, di energia e anche d’immaginazione in grado di salvarlo, sia pure in un tempo non breve e tra mille sacrifici, dal baratro nel quale è precipitato? In ogni caso, chi ha meglio da proporre si faccia avanti.
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
Da uno studio presentato oggi alla Camera emerge un quadro desolante dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni
Rom, sinti e romeni i meno graditi. Il profilo più estremo riguarda il 10 per cento e si espande online
Razzismo, quasi la metà dei giovani
chiusa agli stranieri o xenofoba
ROMA - Quasi la metà dei giovani italiani è razzista, diffidente nei confronti degli stranieri mentre solo il 40 per cento si dichiara "aperto" alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro Paese. E’ lo sconfortante ritratto offerto dall’indagine "Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti" da cui emerge che il razzismo è un fenomeno tutt’altro che sradicato tra i ragazzi. Presentato oggi alla Camera, alla presenza del presidente, Gianfranco Fini, lo studio è promosso dalla Conferenza delle assemblee delle Regioni nell’ambito delle iniziative dell’Osservatorio della Camera sui fenomeni di xenofobia e razzismo, ed è stato realizzato da Swg su duemila giovani.
Chiusure e fobie. L’area tendenzialmente fobica e xenofoba è del 45,8 per cento, con diverse sfumature al suo interno. Lo studio indica tre agglomerati. Il primo è quello dei Romeno-rom-albanese fobici, pari al 15,3 per cento del totale degli interpellati, e manifesta la propria intolleranza soprattutto verso questi popoli. E’ l’unico gruppo la cui maggioranza (56 per cento) è costituita da donne. Il secondo riunisce soggetti con comportamenti improntati al razzismo. E’ il più esiguo, perché rappresenta il 10,7 per cento dei giovani, ma il più estremo, perché in sostanza rifiuta e manifesta fastidio per tutti, tranne europei e italiani. Ci sono poi gli xenofobi per elezione (20 per cento): non esprime forme di odio violente, quel che conta è che le altre etnie se ne stiano lontane, possibilmente fuori dall’Italia.
Aperture e tolleranze. La fetta di quanti hanno invece un atteggiamento aperto è del 39,6 per cento. All’interno si riconoscono gli inclusivi (19,4 per cento) con un’apertura totale e serena (55,3 per cento); i tolleranti (14,7 per cento), un po’ più freddi rispetto ai precedenti e gli aperturisti tiepidi (5,5 per cento), ossia giovani decisamente antirazzisti, ma con forme più caute e trattenute, minore interazione con le altre etnie e un riconoscimento più ridotto dell’amore omosessuale. Al centro lo studio posiziona i mixofobici (14,5 per cento), giovani che non sono del tutto proiettati verso la chiusura, ma neppure verso il suo opposto e che vivono un sentimento di fastidio verso ciò che li allontana dalla loro identità.
Rom, sinti e romeni i meno graditi. I giovani italiani tra i 18 e i 29 anni giudicano ’simpatici’ gli europei in genere con un voto pari a 8,2 su una scala da 1 a 10, gli italiani del Sud (7,8) e gli americani (7,7), mentre ritengono antipatici e da tenere a distanza soprattutto Rom e Sinti (4,1), romeni (5,0) e albanesi (5,2). Attraverso un’indagine è stato chiesto ai giovani di rispondere come si sarebbero comportati in determinate situazioni. Ecco le risposte.
Scegliere con chi andare a cena. I giovani hanno messo in testa le persone disagiate economicamente, giudicano "accettabile" una cena con un ebreo, un omosessuale o con un extra-comunitario. Accettato, ma con freddezza un musulmano. Impensabile pasteggiare con un tossicodipendente o un rom.
Il vicino di casa. Verrebbero accettati tranquillamente omosessuali, ebrei e poveri. No invece a zingari e a chi utilizza sostanze stupefacenti e zingari.
Se un figlio si fidanza. I giovani italiani riterrebbero accettabile avere un figlio che ha un partner o una partner di religione ebraica, ma anche qualcuno con evidenti disagi economici. Meglio comunque se a ritrovarsi in questa situazione è il maschio: per la figlia femmina, infatti, c’è qualche resistenza in più. Scarso entusiasmo se la coppia si formasse con un o una extra-comunitaria o con una persona musulmana. Assai più difficile convivere con l’omosessualità di un figlio. Ma l’incubo peggiore è la possibilità che uno dei propri figli faccia coppia con un tossicodipendente o un rom, situazione considerata inaccettabile.
Identikit del giovane razzista. Il profilo più estremo del razzismo tra i giovani, così come emerge dall’indagine presentata alla Camera, descrive una persona che ostenta superiorità e persistente bisogno di potenza. Ha atteggiamenti apertamente omofobici, spinte antisemitiche, convinzione dell’inferiorità delle donne. E non accetta nessuna razza o etnia diversa dalla propria. Un profilo che riguarda il 10,7 per cento dei giovani, ma estremamente preoccupante. L’indagine definisce questa tipologia come quella dei soggetti "improntati al razzismo".
Un clan che si espande online. Questo clan, rileva la ricerca, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Si tratta di un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, e il proprio megafono. Questo clan ha, anche se per ora non in modo uniforme e unificato, una propria strategia di "espansione", per creare nuovi fan, per sviluppare e far crescere i propri adepti, di ingrossare le proprie fila.
Su Facebook oltre mille gruppi xenofobi. Dalla ricerca emerge inoltre che sono oltre un migliaio i gruppi razzisti e xenofobi che si trovano su Facebook. "Nel nostro studio sul razzismo e i giovani - ha spiegato il direttore di Swg, Enzo Risso, - abbiamo condotto un’indagine su Facebook, una sorta di censimento sui gruppi xenofobi, effettuato tra ottobre e novembre. Ne abbiamo contato un centinaio anti musulmani, 350 anti immigrati alcuni con punte di 7 mila iscritti, 400 anti terroni e napoletani e 300 anti zingari, anche qui con fino a 7mila iscritti". Risso ha spiegato che questa parte dell’indagine "non può essere considerata un censimento vero e proprio perché quella di internet è una realtà che varia continuamente, ma ha un valore indicativo".
* la Repubblica, 18 febbraio 2010
"Città senza forma, non contiamo più"
di Francesco Erbani (la Repubblica, 10.12.2009)
Le città perdono forma. E diventa più difficile distinguerle dalla non-città. Al tempo stesso si costruisce a ritmi che, così vorticosi, in Italia non si vedevano dal dopoguerra. I due fenomeni sono connessi. Ma il problema è: come si comportano di fronte a queste vicende gli urbanisti, coloro i quali, per statuto culturale, sono addetti a capire quel che sta accadendo e semmai sarebbero tenuti anche a intervenire perché le trasformazioni non siano proprio tremende?
La parola crisi è la più frequente che si senta pronunciare quando due o più urbanisti si siedono al tavolo di un convegno. Qualcun altro, come Leonardo Benevolo, parla apertamente di "tracollo". Benevolo, classe 1923, è uno dei padri della disciplina, in Italia e non solo. Da più di trent’anni vive sopra Brescia, a Cellatica. Qui si rifugiò dopo aver abbandonato Roma e l’università e per seguire uno degli esperimenti più riusciti dell’urbanistica italiana fra anni Sessanta e Settanta, appunto, la pianificazione di Brescia. «Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata», spiega arrotando bene la erre, «considerata con fastidio, e preferibilmente accantonata. Nei programmi elettorali e nel comportamento delle istituzioni centrali questo capitolo è scomparso da tempo. Nelle amministrazioni periferiche, Regioni, Comuni e Province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e disponibilità economiche precarie; nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere o eliminare. Dovunque se ne parla malvolentieri, e il meno possibile».
Non è stato sempre così. «L’urbanistica era uno degli argomenti più popolari nel dibattito politico e culturale del dopoguerra e per alcuni decenni almeno. Basti rammentare le discussioni sul piano regolatore di Roma, negli anni Cinquanta». E oggi, invece? «Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza fra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per motivi diversi, condividono il desiderio di trascurare, o far semplicemente a meno di questa disciplina. In questa vicenda io vedo un elemento paradossale». Quale? «Tutto questo avviene mentre per il paesaggio, per le modificazioni portate in esso dall’uomo, l’interesse è cresciuto e cresce anche nel nostro paese».
L’urbanistica arretra proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di essa. Grandi trasformazioni investono i paesaggi, sia quelli non costruiti che quelli urbani: ma quante di queste sono culturalmente sorvegliate, per non dire regolate, da chi per mestiere dovrebbe farlo? «Si costruisce per il mercato», è la risposta che dà Paolo Berdini, altra generazione rispetto a Benevolo, che insegna alla Facoltà di Ingegneria di Tor Vergata, a Roma. Berdini ha provato a mettere ordine fra i numeri che indicano, spesso in conflitto fra loro (da una parte cifre allarmistiche, da un’altra molto accomodanti), quanto suolo è stato consumato in Italia. Circa 10 milioni di stanze, fra il 1995 e il 2006, dice l’Istat. Che vuol dire, sommate ai capannoni industriali, ad altre iniziative produttive e alle infrastrutture, 750 mila ettari in un decennio, cioè quanto tutta l’Umbria e, ogni anno, quanto una città come Ravenna. Il problema è, sottolinea Berdini, che la popolazione italiana è cresciuta nello stesso periodo di 1 milione 900 mila abitanti, «quasi esclusivamente emigranti, persone cioè che, salvo eccezioni, non hanno la minima possibilità di accesso alle case che si costruiscono».
L’enorme quantità di palazzi non ha, insiste Berdini, alcuna corrispondenza con la domanda (nel frattempo, infatti, di edilizia popolare o comunque a prezzi contenuti se ne fa pochissima in Italia). E allora a che cosa è legata? «Evidentemente ad altri fattori, per esempio al fatto che il fiume di denaro virtuale creato dall’economia finanziaria doveva trovare luoghi in cui materializzarsi: le città e il territorio». Ma non doveva essere proprio l’urbanistica a regolare il modo in cui città e territori si davano assetti compatibili con lo spazio e con le persone che li abitano, senza lasciare che a decidere fossero solo le leggi del mercato, comprese quelle di un mercato impazzito, i cui sussulti fanno tremare quel paradiso - o inferno - dell’urbanistica globale che è Dubai?
Di fronte alla forza del mercato sembra si possa fare poco. «L’urbanistica moderna nasce in ambito liberale e anzi proprio di economia capitalista per affrontare un problema che il mercato, cioè la spontaneità dei meccanismi individuali, non riusciva ad affrontare». Edoardo Salzano parte da lontano, dal primo piano regolatore della storia, realizzato a Manhattan nel 1811, per spiegare la crisi di oggi. Ex assessore ed ex preside della Facoltà di Pianificazione a Venezia, dirige www.eddyburg.it, il più frequentato sito in materia di città e territorio, un pozzo di documenti, di interventi e di denunce provenienti dall’Italia e dall’estero. Dice Salzano: «L’urbanistica ha perso la sua dimensione collettiva, si adegua a una società appiattita sull’io e si piega ad aggiustare, a mitigare tecnologicamente le trasformazioni che avvengono sul territorio, senza cercare soluzioni alternative al pensiero dominante, che è poi quello sempre forte della speculazione edilizia». Ma le trasformazioni sono necessarie, ci sono sempre state... «È vero: ma di quali interventi ha bisogno oggi il nostro paese, di quartieri-dormitorio di lusso o di un piano di difesa del suolo?»
Passano sopra la testa degli urbanisti i Piani-casa - ampliamenti per mezzo milione di abitazioni (stima l’Associazione costruttori), demolizione e ricostruzione di 16 mila fabbricati - che ogni Regione ha approvato per conto proprio, spezzettando l’Italia come un vestito di Arlecchino. E poco c’entreranno gli urbanisti con la legge sugli stadi, chiamata così nonostante i campi di calcio occuperanno solo un’infinitesima parte di nuovi quartieri per migliaia di abitanti. Emblematica anche la ricostruzione dell’Aquila: venti insediamenti e un centro storico abbandonato a sé stesso senza un’idea complessiva di cosa potrebbe essere la città del futuro. «È solo attraverso la mediazione dell’urbanistica che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la propria impronta», insiste Salzano.
L’urbanistica, si insegna all’università, è quella disciplina nella quale convergono saperi scientifici e umanistici, e che dopo un’indagine sulla realtà fisica e sociale di un territorio, pianifica trasformazioni e conservazioni, misurando gli effetti in tempi lunghi e in spazi vasti, e mediando fra gli interessi generali - i bisogni di chi quel territorio abita - e quelli dei privati, in particolare dei proprietari dei suoli. L’urbanistica, poi, offre soluzioni alla politica. Ed è qui un altro nodo che, secondo molti, si è aggrovigliato sempre di più fino a formare una matassa inestricabile. Se l’urbanistica è in crisi, la politica lo è di più.
I Comuni finanziano gran parte del proprio bilancio con gli oneri di urbanizzazione, i soldi incassati rilasciando concessioni edilizie. Sono deboli di fronte al proprietario di un suolo che chiede di poter costruire, anche se le case che sorgeranno servono soprattutto ad accrescere la sua rendita. E gli urbanisti sono spesso schiacciati in questo meccanismo. «In molti di loro», racconta una non urbanista, Paola Bonora, geografa dell’Università di Bologna, curatrice con Pier Luigi Cervellati di Per una nuova urbanità (Diabasis, pagg. 213, euro 21), «prevale un senso di disincanto malizioso e compiaciuto. L’espansione edilizia viene descritta con rassegnazione e disinteresse: ma raramente le mille etichette per raccontare ciò che accade si accompagnano a una seria denuncia degli effetti devastanti del consumo di suolo e a una coerente proposta politica. Nelle facoltà di Architettura c’è un ritorno alla tecnica e poca attenzione ai contesti territoriali in cui calano gli interventi. Da tempo ci si è invaghiti della crescita illimitata: e l’ubriacatura continua».
Il grande sacco dell’Italia
dl BARBARA SPINELLI (La Stampa, 4/10/2009).
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l’Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.
E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.
Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.
Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.
È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.
Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po’ come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del ’500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.
L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.
Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D’un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c’è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.
New Roma: sette nani per sette colli
di Michele Serra *
Perché limitarsi a costruire una new town al posto de L’Aquila distrutta dal terremoto, quando si potrebbe ricostruire una intera New Italy al posto di quella vecchia nella quale viviamo? Il governo ci sta riflettendo. Il progetto più ambizioso prevede un nuovo Stivale di gomma gonfiabile da stendere accanto all’attuale Penisola, coprendo l’Adriatico e parte dei Balcani. La sagoma sarebbe uguale a quella dell’Italia attuale, ma ampliata del 20 per cento come prevede il piano casa. L’ampliamento sarebbe ottenuto grazie al prolungamento del Gargano fino a Belgrado. Nel caso di una insanabile opposizione da parte delle nazioni che verrebbero parzialmente ricoperte dalla New Italy, si potrebbe ripiegare sul piano B: progetti locali. Vediamo quali.
New Milano Dovrebbe sorgere nella immensa e desolata landa che separa l’attuale Milano da Malpensa, una zona nella quale gli unici segni di vita sono le urla dei viandanti che si chiedono l’un l’altro "ma dove cazzo è l’aeroporto?". Il progetto è stato affidato alle più grandi star dell’architettura mondiale: dal giapponese Uramaki, famoso per avvolgere i grattacieli con enormi rotoli di alghe, al texano John Grunt (inventore della tavola da pranzo col rinforzo di ghisa per evitare che gli speroni la rovinino), che ha dichiarato di amare molto Milano e di considerarla la più affascinante tra le città spagnole. Ma l’appalto è stato vinto dal geometra Perego, che ha in mente una megalopoli di grattacieli a schiera. La new Madunina, sulla guglia più alta del new Duomo, avrà le fattezze della cantante Magalì Brembasca, che nessuno ha mai sentito nominare, ma è stata imposta dalla Lega in cambio della rinuncia alla poltrona di direttore del ’Corriere’.
New Roma Sorgerà sull’attuale area urbana, interamente spianata con l’eccezione del Vaticano che rimarrà identico e con lo stesso papa sottoposto a lifting su consiglio di Berlusconi. Verranno costruiti i new sette colli, che grazie a una sponsorizzazione della Disney avranno il nome dei sette nani. Sul Gongolo sorgerà il nuovo Palazzo Chigi. Il Colosseo, ricostruito in polistirolo antisismico, verrà riportato alla sua forma originale, che secondo Berlusconi era identica alla Rinascente con la sola eccezione della scale mobili. La plebe potrà continuare a dedicarsi ai suoi pittoreschi atteggiamenti, ma su consiglio di Berlusconi non dovrà più accalcarsi nei vicoli gridando ’ah Nandooo!’, ma accalcarsi nei vicoli gridando ’ah Piernandooo!’
New Napoli Dovrebbe sorgere dove capita. I bassi dei Quartieri spagnoli saranno replicati fedelmente, ma su suggerimento dello stesso Berlusconi avranno la moquette. Il new Vesuvio sarà collegato a quello vecchio con un modernissimo sistema di sensori, dando luogo alla prima eruzione stereofonica della storia, che verrà ripresa in diretta e trasmessa in tutto il mondo in sensorround per registrare fedelmente le grida di terrore e i gemiti degli agonizzanti. Il governatore sarà Bassolino almeno fino al 2150, grazie a un accordo politico tra il Pd e un’azienda di formalina. Berlusconi ha suggerito di intitolare il nuovo teatro a Gaetano De Filippo, rimanendo molto contrariato alla notizia che si chiamava Eduardo. Per rimediare alla gaffe, ha chiesto che all’inaugurazione sia presente Pulcinella, purché non passi a Sky.
New Sardegna Sarà la prima isola antisismica del mondo. L’idea è di abolire la causa scatenante dei terremoti, e cioè il terreno, erigendo in mezzo al Mediterraneo la prima isola di sole barche. Migliaia di panfili legati l’uno all’altro con gomene e ponticelli sospesi, dando luogo alla più eccitante movida del pianeta, con veline e calciatori che si rincorrono cercando di evitare le fucilate di Vittorio Emanuele di Savoia. Tutte le barche saranno disegnate da Briatore e avranno due poppe.
* Fonte: L’Espresso online, 17 aprile 2009
L’ANALISI
Il morso del Caimano
di CURZIO MALTESE *
È un po’ ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l’amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l’insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.
Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l’Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all’enorme potere mediatico del premier.
Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l’assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d’urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.
Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del ’94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell’opinione pubblica sempre più debole. Nel ’94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.
La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L’opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l’hanno disegnata i padri della Costituzione.
Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po’ bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.
In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l’Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell’Italia del ’94 sarebbero stati inimmaginabili.
Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com’è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.
Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell’opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel ’94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d’urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell’editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell’opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.
Altro che "l’onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S’illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l’arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.
Non ci saranno tempi migliori per l’opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell’agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l’opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.
* la Repubblica, 21 giugno 2008.
Politica lontana dalla verità vicina alla mafia
di Caselli, Giancarlo (Liberazione, 30 gennaio 2008)
Molte cose sono cambiate in positivo, in questi anni, sul versante dell’antimafia. Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. Preliminarmente vorrei fissare alcuni punti.
Primo punto. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente, purtroppo) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l’orticaria. Non si identifica con l’Italia delle regole quanto piuttosto con l’Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti.
Secondo punto: io sono assolutamente convinto (non lo dico retoricamente) del primato della politica. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell’interesse - si spera - di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storia del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché sono seriamente convinto del primato della politica sono altrettanto convinto che la politica questo primato lo deve vivere ed interpretare nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe - secondo me - esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal ’90 ad oggi. Molte volte invece sembra di avvertire una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica come pretesa di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che la giustizia incrocia determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di risolvere - nelle sue competenze istituzionali - questo o quell’altro problema.
Terzo ed ultimo punto preliminare. Usa dire che l’antimafia e l’anticorruzione non portano voti. Non è vero, secondo me, ma sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell’agenda politica, quando ci sono, sono in posizioni non primarie. Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996, con vari sussulti successivi di tipo emergenziale e quindi effimero. Nel senso che soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, troviamo tempo e modo di occuparci di queste cose, ma con una forte tendenza a dimenticarle presto e rimetterle ai margini dell’agenda.
Allora, se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione nel settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del 92 e del 93, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali che nazionali. E allora ecco che invece dell’indignazione o della giusta tensione abbiamo la passività e la rassegnazione. Ci si convince che così va il modo, che c’è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici. Favole per i gonzi e la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità.
Io ho un’ impressione, sempre più forte: che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi sempre meno compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando sempre più strade diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte della politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziare, certamente politiche. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza - magari una sentenza definitiva di cassazione - elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali gravissimi, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale: il riferimento è al "caso Andreotti"), se tutto questo - in quella sentenza - si dice che è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso sol perché prescritto, questa non è assoluzione! E’ un’altra cosa.
Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con l’assoluzione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. E’ anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se io dico che c’è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, io questi fatti li cancello, io questi fatti li sbianchetto. Ma cancellando questi fatti, io legittimo un certo modo di fare politica, che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica lo legittimo per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita : si cancella il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c’è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E’ l’eclissi della questione morale, quando la questione morale è la premessa fondamentale di ogni buona politica.
E allora si capiscono tante cose, a partire dalla mancanza di continuità. L’antimafia "militare" bene o male ormai procede costante (come prova la sequenza di arresti: da Riina e soci a Provenzano ai Lo Piccolo). Non così l’antimafia che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le cosiddette relazioni esterne, le complicità, le collusioni, le coperture. Su questo versante, si riesce a rimanere ad un certo livello - quando lo si raggiunge - per non più di due anni tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell’antimafia che è la gestione efficiente, razionale, incisiva dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo -lentamente ma inesorabilmente - vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l’anagrafe dei conti bancari, una legge del ’93 che non è mai stata attuata. Sterilizzata fino ad oggi, con qualche recentissimo segnale di novità ancora tutto da verificare. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.
E attenzione, che questo quadro insieme comporta delle scelte disastrose. Una recente ricerca della Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell’economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180 mila posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; zavorramento che significa (secondo il Censis) che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in paraventi, simulacri, scatole vuote. Perché l’imprenditore mafioso - rispetto a quello onesto - gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto. E infine, se ci sono dei problemi l’imprenditore mafioso, rispetto all’imprenditore normale ha il vantaggio di poterli risolvere - questi problemi - coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l’intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività.
Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: "legalizzare la mafia sarà la regola del 2000", non fosse - mentre faceva della intelligente ironia - un profeta.
Seconda tappa della procedura di infrazione prima del deferimento alla Corte di Giustizia
Nuovi blocchi stradali a Marigliano, a Napoli tre persone minacciano di gettarsi nel vuoto
La Ue sui rifiuti: l’Italia
ha un mese di tempo
BRUXELLES - L’Italia ha un mese di tempo per risolvere il problema rifiuti. La Commissione europea ha inviato un parere motivato, seconda tappa della procedura di infrazione, per la situazione in Campania.
L’iniziativa è l’ultimo passaggio prima del deferimento del caso alla Corte di Giustizia europea. Normalmente Bruxelles concede due mesi per rispondere ai suoi rilievi, ma il caso è considerato molto grave: la risposta va quindi data entro trenta giorni.
"La situazione in Campania è intollerabile e capisco molto bene la frustrazione dei residenti che temono per la loro salute. E’ essenziale - ha detto il commissario all’ambiente Stravros Dimas - che le autorità italiane non solo prendano le misure efficaci per risolvere l’attuale emergenza, come stanno già facendo, ma anche che realizzino l’infrastruttura di gestione dei rifiuti necessaria per prevedere una soluzione durabile ai problemi che risalgono già a più di 10 anni".
Anche oggi continuano le proteste contro l’emergenza rifiuti. A Napoli, in via Gianturco, tre persone sono salite sul tetto della sede della Municipalità di Poggioreale minacciando di lanciarsi nel vuoto se non saranno ricevute da un rappresentante del commissariato. Sul posto, oltre alle forze dell’ordine, sono giunti anche i vigili del fuoco che hanno allestito dei teloni anticaduta. Questa mattina, intanto, la riunione del consiglio municipale è saltata per mancanza del numero legale.
Alle porte della città, decine di persone hanno bloccato il lungomare di via Napoli a Pozzuoli. I manifestanti protestano contro la mancata raccolta della spazzatura che non viene eseguita da almeno 10 giorni.
A Marigliano, dove nei giorni scorsi ci sono stati scontri fra i manifestanti e le forze dell’ordine per la riapertura della discarica, oggi ci sono stati due blocchi a distanza di poche ore sull’autostrada A30. Centinaia di uomini e donne hanno bloccato il tratto all’altezza del km 14,700, in direzione di Caserta. Qualcuno ha tagliato i copertoni di alcuni Tir e messo di traverso i camion.
Sul versante istituzionale, è iniziato intanto l’incontro fra il commissario di governo per l’emergenza rifiuti in Campania, Gianni De Gennaro e i sindaci del Nolano, giunti in rappresentanza dei cittadini che da giorni si oppongono all’apertura di un sito di trasferenza in località Boscofangone, nel comune di Marigliano.
* la Repubblica, 31 gennaio 2008
’Paesaggio italiano aggredito, che fare?’, domani convegno a Palazzo Valentini
Organizzato dal Consiglio Provinciale di Roma e dal Comitato per la Bellezza, chiamerà a consulto esperti e amministratori per dare risposte impegnative alla domanda dell’ambiente
Roma, 24 ott. - (Ign) - Tutelare il paesaggio e valorizzarne la risorsa per il sistema Paese. Questo l’intento di un convegno che si terrà domani, dal titolo ‘Paesaggio italiano aggredito, che fare?’. Organizzato dal Consiglio Provinciale di Roma e dal Comitato per la Bellezza, l’appuntamento chiamerà a consulto esperti, docenti universitari, amministratori e specialisti di paesaggio per dare le prime impegnative risposte alla domanda dell’ambiente, chiedendo maggiore chiarezza e determinazione al governo e alle Regioni.
Il tema è quantomai attuale: nell’ultimo sessantennio, infatti, l’Italia si è ‘mangiata’ in cemento e asfalto oltre 12 milioni di ettari intatti, vale a dire un terzo dell’intero territorio dello Stivale: una regione più grande del Nord Italia, sino al 1950 libera da costruzioni e infrastrutture e coltivata a prato, è stata coperta dal cemento.
Per contro, malgrado la ‘febbre edilizia’ in atto da anni, si assiste a una esponenziale emergenza-casa, sintomo che la cementificazione avviene per lo più a fine di lucro, con un mercato che è spesso quello delle seconde e terze case, una tipologia che certo non incrocia la domanda abitativa delle giovani coppie, di immigrati, di ceti deboli alla ricerca di alloggi economici.
Così l’indebitamento delle famiglie per la corsa al mattone negli ultimi tempi è addirittura raddoppiato, toccando nel 2004 i 160 miliardi di euro.
A questa stridente contraddizione, che sta colpendo sia il paesaggio agrario e storico italiano sia le classi meno abbienti, è appunto dedicato il convegno che si svolgerà per tutta la giornata di domani a Palazzo Valentini (via IV Novembre 119/A) e che sarà aperto alle 9,30 dal presidente del Consiglio Provinciale di Roma, Adriano Labbucci. Coordineranno i lavori Luigi Manconi e Desideria Pasolini dall’Onda, del Comitato per la Bellezza. L’introduzione sarà curata dall’urbanista Vezio De Lucia.
Relatori della mattinata: Vittorio Emiliani, Adriano La Regina, Paolo Berdini, Filippo Ciccone, il sindaco di Mantova, Fiorenza Brioni, Igor Staglianò. Sempre per la mattinata è inoltre previsto l’intervento del ministro per le Politiche Agricole, Paolo De Castro.
Nel pomeriggio, con inizio alle 15,00 le comunicazioni dell’assessore regionale del Lazio all’Urbanistica, Massimo Pompili, di Violante Pallavicino, di Paolo Baldeschi, di Irene Berlingò dell’Assotecnici, e gli interventi della presidente della Bianchi Bandinelli, Marisa Dalai, di Alberto Asor Rosa, coordinatore dei Comitati Toscani, del vice-presidente del FAI, Paolo Baratta, della vice-presidente di Italia Nostra, Rossana Bettinelli, del presidente del Wwf, Fulco Pratesi, di Gianni Mattioli del Movimento Ecologista.
Al termine dei lavori, le conclusioni saranno tratte da Luigi Manconi e da Vittorio Emiliani, del Comitato per la Bellezza.
Quel cuore di tenebra dell’Italia
ALFIO CARUSO (La Stampa,12/8/2007)
Si dilata il cuore di tenebra di un Paese sempre più attratto dal peggio. Cresce l’Italia che tifa per Moggi o per Corona, per le Br o per Cosa Nostra, per i Borboni o per Previti, per chi incendia i boschi o i cassonetti della spazzatura, per chi blocca le autostrade o le stazioni ferroviarie, per il pluriomicida Battisti o per l’ex ergastolano Fioravanti, per gli evasori fiscali o per i profittatori di Stato, per il professore che frega la scuola o per il genitore che insulta la professoressa. Si procede, ormai, per strappi ulteriori. Dilaga il rifiuto di fare i conti con le proprie scelte. Quanti di voi, almeno una volta, non hanno udito, in risposta a una domanda scomoda, la celebre frase: ben altro è il problema? Esempio: se una parte della Chiesa è impestata dai preti pedofili, il suggerimento è di guardare ai pedofili delle altre religioni. Alla disperata, la responsabilità appartiene agli ebrei, ai massoni, ai radicalchic, ai bevitori di anisette, ai cultori della pesca con la mosca, agli autostoppisti.
Ognuno ha il proprio irregolare di riferimento e, benché le uniche regole calpestate siano spesso quelle del Codice penale, a costui affidiamo lo sfizio che c’induce al sovvertimento. Le motivazioni, lo spessore morale del nostro eroe contano quanto il due di spade con la briscola a oro: l’importante è stare contro, l’istinto è di prendersela con chi incarna il concetto di Istituzione. Pretendiamo persino di essere selettivi, di saper valutare fiore da fiore, dando ovviamente per scontato che soltanto il nostro meriti ogni indulgenza. Così, davanti alla magia dei Faraglioni di Polifemo succede di ascoltare l’appassionato comizio del dotto professore universitario: con il sostegno degli immancabili riferimenti in latino passa, lieve e ispirato, dalla strenua difesa delle ragioni storiche della mafia all’invettiva contro la Legge, incapace di sbattere Moggi dentro la cella più buia e di buttare la chiave.
Con micidiale indifferenza leggiamo sia le intercettazioni nelle quali i brigatisti elogiano l’omicidio di un poliziotto da parte dei presunti fascisti di Catania, sia dei cori contro la polizia echeggiati durante un’amichevole del Catania senza che qualcuno s’indigni, intervenga per farli cessare. Purtroppo la cultura dello «spertu e malandrinu» ha fatto proseliti. La famosa linea della palma avanzante, secondo Sciascia, di 500 metri all’anno è arrivata in vista delle Dolomiti. Stare continuamente in contatto con l’impudenza ha dilatato i confini dell’impunità: consideriamo normale che un inquisito sia nominato capo di gabinetto, componente della Corte dei conti, assessore. Della disavventura romana dell’onorevole Mele non stupiscono la cocaina e le ragazze a pagamento, bensì che Casini l’abbia candidato e tanti pugliesi l’abbiano votato, malgrado il suo coinvolgimento in una vicenda di tangenti, sperperate peraltro al casinò.
In difesa dall’accusa di aver favorito Provenzano, il gioviale Cuffaro, governatore della Sicilia, sostiene che incontrava il braccio destro del boss nel retrobottega di un negozio di Bagheria per concordare il nuovo tariffario sanitario. In un Paese normale la toppa sarebbe molto più grave del buco: significherebbe, infatti, che la Regione più spendacciona e con la peggiore sanità nazionale ha i costi delle convenzioni decisi da Provenzano. Tuttavia, chiamati a scegliere fra Cuffaro e la Borsellino, i siciliani non hanno avuto dubbi. Di conseguenza i capi delle famiglie mafiose sono tornati a occupare ruoli pubblici nei partiti come succedeva quando Salvatore Greco, il fratello di Michele, il papa, era segretario della Dc di Ciaculli.
Dall’alto di un’intolleranza accumulata in secoli di servitù abbiamo inventato la presunzione d’innocenza fino all’ultima sentenza, che in un sistema giudiziario dai tempi biblici significa dimenticarsi la colpa e il colpevole. Dentro la pseudoculla del diritto lo stracitato in dubio pro reo dei romani si trasforma nell’assoluzione di tutti i rei. La Storia ci racconta che in occasioni eccezionali un pirata può diventare baronetto, non che tutti i pirati devono diventare baronetti. Solo in Italia s’ignora che il passato ci precede, dunque don Gelmini e i suoi estimatori pensavano che bastasse cancellarlo per esserne esenti. La televisione insegna che siamo i cavalieri del bene o le vittime del sistema. Per male che vada, la si può buttare in politica. A eccezione di Salvatore Giuliano, il giochino finora è riuscito a tutti.
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
* * *
Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
Il nodo
di Furio Colombo *
Ci deve essere un gran vuoto, uno spossante senso di attesa e di solitudine se le citazioni del giorno, riportate con enfasi da tutti i giornali (e prima ancora da una folla di telegiornali) sono di Sangalli, Montezemolo e Scajola, ciascuno nel modo sbagliato e dal luogo sbagliato.
Non so niente di Sangalli, presidente della Confcommercio, una delle due associazioni dei commercianti italiani (l’altra è la Confesercenti, ritenuti più di sinistra, quella che ha subissato Prodi di urla e di fischi). Ma non credevo che un astuto commerciante (deve esserlo, se no perché lo hanno eletto?) subentrato al non illustre e plurindagato Billè, fosse così ingenuo da spingere la sua immensa platea di iscritti a rafforzare il sospetto - giusto o ingiusto - che anima molti italiani a reddito fisso (e molte Guardie di Finanza, vedi i loro rapporti). Il sospetto, cioè, che molti commercianti siano evasori. Trasformare il grande evento sociale della categoria in un comizio alla Fidel Castro contro le tasse, alla presenza del grande predicatore dell’evasione Silvio Berlusconi, bene in vista, in posizione telecamera, un comizio che ha incluso anche la trovata retorica di rimpiangere la assenza di Prodi (cui è stata comunque dedicata la dovuta bordata di fischi) è stata una operazione perfetta di rivolta contro le tasse da parte di un tipo di imprenditori sospettato da sempre di infedeltà fiscale. Se il sospetto è ingiusto, come credo, il danno arrecato ai suoi iscritti da Sangalli è certo grande. Ha scatenato un antagonismo fiscale che manterrà a lungo tensione e diffidenza, chiunque governi (a meno che si torni a un regime di evasioni e condoni).
È vero, prima di lui lo aveva fatto, con inattesa alacrità, Venturi, il presidente della Confesercenti. Per giunta, si è prestato, con tutta la sua organizzazione «di sinistra» a una trappola un po’ volgare di fischi e di urla, non proprio la reazione tipica di chi cerca fiducia per la propria credibilità fiscale.
Possiamo dire che - insieme - Sangalli e Venturi, «destra» e «sinistra»dei commercianti italiani, hanno occupato uno spazio che raramente grandi organizzazioni vogliono pubblicamente occupare: invece della dichiarazione dei redditi, la dichiarazione di guerra al fisco.
Possibile che Sangalli e Venturi non abbiano mai fatto un viaggio in America, sperimentato qualche acquisto a Manhattan? Si sarebbero accorti che, dal più piccolo negozietto al più grande department store, il venditore compila una "lista di vendita" oltre allo scontrino e alla ricevuta della carta di credito. E applica ad ogni acquirente tre tasse diverse: federale, statale e cittadina (con la possibilità per il cliente di evitare due delle tre tasse se dimostra con un documento di abitare fuori della città e fuori dello stato). Si sarebbero accorti che i commercianti americani, almeno nella storia del dopoguerra e dopo depressione, non hanno mai organizzato proteste di categoria contro le tasse. E - allo stesso modo - non si ricorda alcuna campagna elettorale americana, federale, statale o cittadina, in cui, sia stata agitata la iniqua tassazione dei commercianti (che, tipicamente, passano gli oneri giusti o ingiusti al compratore). Mentre, ovviamente, sono normali e frequenti sia le promesse sia le richieste di tagli di tasse, con la tipica contrapposizione fra destra e sinistra. La destra taglia le tasse ai ricchi, la sinistra al reddito fisso.
Avrebbero anche notato che, in una isola di prosperità come Manhattan, dominano ormai, in tutti i settori, i grandi centri di vendita, che in un decennio hanno spazzato via la operosa, produttiva, utilissima classe media dei commercianti di negozi individuali e di famiglia. Hanno eliminato, anche socialmente, una intera parte di società libera: il negoziante.
Nell’Italia, in cui il fenomeno dei grandi centri di vendita è appena cominciato e sopravvivono ancora con tenacia e bravura centinaia di migliaia di quel tipo di botteghe e negozi che negli Stati Uniti sono scomparsi, non avresti detto che la prima preoccupazione di Sangalli e Venturi sarebbe stata di salvare dai mega-business quelle botteghe o negozi? Chi saranno state quelle migliaia di persone stipate nei due auditori? Tutti proprietari di mega centri commerciali e di shopping malls? Certo lo sfogo di uno schiamazzo, come ai bei tempi della scuola, non se lo nega nessuno se invitato a una piazzata. Però dicano francamente Sangalli e Venturi: c’è un solo economista pronto a dimostrare che i piccoli e medi negozi italiani (con il turismo in crescita e la domanda in aumento) chiudono per tasse, e non piuttosto perché scacciati dai mega-store? Hanno fatto felice Berlusconi, i due capi rivolta fiscale, ma forse non tanti iscritti. Quelli di loro che viaggiano e conoscono il mondo, sono felici che in Italia non ci sia l’inesorabile inquisizione fiscale americana, inglese, svedese, australiana, canadese dove l’arrivo di un ispettore è la peggiore sventura che può capitare a un negoziante. Eppure non ci sono rivolte di categoria perché tutti sanno che una condizione essenziale per il capitalismo, in un paese democratico, è l’assoluta certezza fiscale.
* * *
Di Luca di Montezemolo so abbastanza per stimarlo. E sono tra quelli che non hanno dimenticato che, prima di lui, la Confindustria, presieduta in passato da Guido Carli e Giovanni Agnelli, solo pochi anni fa aveva avuto l’imbarazzante presidenza di Antonio D’Amato.
Montezemolo non solo conosce gli Stati Uniti e la vita pubblica di quel Paese, ma ha anche una laurea americana. Per questo, però, la meraviglia si fa più grande quando l’attuale Presidente della Confindustria assume toni di visione e giudizio generale della cosa pubblica, come se rappresentasse una istituzione e non una categoria. E si attribuisce, dunque, una squilibrante autorità di fatto che - lui sa benissimo - non potrebbe mai avere o attribuirsi nel Paese che gli è caro e in cui ha imparato molte cose di cui, professionalmente, ha dimostrato di valersi bene.
Chi direbbe, da capo degli imprenditori, in una comunità democratica in cui di politica si occupano Governo e Parlamento, e di monitoraggio della politica si occupano i media, frasi arrischiate e destabilizzanti come «non ci sono piaciuti i tempi e i modi in cui si è affrontata la sostituzione dei vertici delle forze dell’ordine?». Ci sono precedenti, certo, di intromissione diretta nella politica degli industriali come categoria. Montezemolo sa bene che non sono buoni esempi. E che quell’elenco (triste, spesso finito male) non comprende nessuno dei paesi che, suppongo, sono il naturale modello di un Presidente di Confindustria di formazione liberale e democratica.
Il riferimento americano mi serve anche per domandarmi - e domandare all’interessato - se ricorda qualche dichiarazione di un Presidente della "American Manufacturers Association" o di fondazione o di "Think Tank" di ambito industriale, una dichiarazione, dicevo, che attacca e scredita i sindacati («statali», «pensionati», «fannulloni») piuttosto che discutere specifiche questioni, affrontare in modo chiaro e diretto contrasti, disaccordi, argomenti di scontro. Che senso può avere, da parte del personaggio di vertice di una parte importante della società italiana, aumentare il disordine, in un momento evidentemente difficile, in cui il contributo al disorientamento e al tumulto tipo Confcommercio non potrà essere ricordato come un merito?
E ancora una osservazione, nello spirito di un trascorso lavoro comune: c’è davvero una inaccettabile cultura anti-industriale nell’Italia di Maranello, in cui il parroco sa suonare le campane quando vince la Ferrari? Parlare di cultura anti-industriale in un Paese in cui tutti hanno ricominciato a comprare Fiat al primo segno di ripresa di quella azienda? Ce lo immaginiamo Robert McNamara, ai tempi in cui era a capo della General Motors, condannare un compito in classe di High School o una tesina di college perché «anti-industriale»?
E conosciamo un solo economista, Milton Friedman incluso, in grado di sostenere che «la ripresa si deve unicamente alle imprese»? Come non notare che l’affermazione è tecnicamente impossibile?
* * *
Entra in scena Claudio Scajola, rimasto nella memoria degli italiani per due ragioni: era il ministro degli Interni ai tempi del G8 di Genova. Chiunque, dopo quel "pestaggio cileno" di ragazzini inermi (definizione di questo giornale, in tempo reale, molto prima che il questore Fournier lo confessasse ai giudici) l’uccisione del giovane Carlo Giuliani e la mano libera lasciata ai misteriosi black bloc, avrebbe dovuto dimettersi. Scajola si è dimesso più tardi, quando ha definito «grande rompiballe» il prof. Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse mentre era privo di scorta.
Bene. Claudio Scajola ritorna. E in spregio alla funzione affidatagli di Presidente della Commissione parlamentare di controllo sui servizi segreti, dichiara che «il Governo ha agito in modo dilettantesco e irresponsabile» quando ha annunciato la fine del mandato del capo della Polizia De Gennaro.
La gravità, questa sì, irresponsabile, della frase sta nella delicatezza estrema della carica che Scajola ricopre.
Qui non siamo di fronte alla critica politica ma all’abuso di credibilità e autorità da parte di chi - Dio sa perché, con quel passato - è stato investito di quella carica.
È un modo in più, molto allarmante, per spiegare l’appello del Presidente Napolitano a rispettare le Istituzioni, a porre fine al sabotaggio distruttivo che impedisce al Parlamento di funzionare.
Purtroppo, non servirà. Ma almeno è stato detto con chiarezza dove, come si è creato il pericoloso nodo che sta minacciando la vita della Repubblica.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.06.07, Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15
I leader della Cdl arrivati al Colle*
ROMA - Sono arrivati al Quirinale i leader della Cdl - Silvio Berlusconi (Fi), Gianfranco Fini (An), Umberto Bossi (Lega) e Gianfranco Rotondi (Dca) - per incontrare il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Gli esponenti della Casa della libertà hanno lasciato Palazzo Grazioli, dove hanno partecipato ad un vertice per definire cosa dire al Capo dello Stato, e si sono recati direttamente al Colle.
Non c’è l’Udc. Non a caso il segretario Lorenzo Cesa, non nasconde le perplessità: "Non spetta a Napolitano indire nuove elezioni se la maggioranza non cade. Non può fare un golpe, basta capire un pò di diritto costituzionale".
* la Repubblica, 20-06-2007.
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
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Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
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Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
IL MATEMATICO, GLI EBREI E IL FASCISMO
di PAOLO SIMONCELLI (Avvenire, 17.12.2009)
L’ Accademia dei Lincei rende omaggio con una mostra e pubblica l’edizione delle «Opere matematiche» di Guido Castelnuovo (1865-1952), uno dei grandi matematici italiani a cavallo dei due secoli, dal 1891 docente di Geometria all’Università di Roma, quindi passato allo studio del calcolo delle probabilità e del calcolo infinitesimale. Accademico dei Lincei dal 1901, espulso nel 1938 a seguito delle leggi razziali, dinamico componente della relativa commissione di epurazione nel 1944-46, primo presidente dell’Accademia di questo dopoguerra, nominato da Einaudi senatore a vita nel 1949. Il suo percorso biografico, screziato in modo inqualificabile dall’espulsione dall’Accademia nel 1938, e la sua doverosa riammissione al termine dell’epurazione, ci offre tuttavia motivo di riflessione relativamente a non pochi altri casi di colleghi ebrei espulsi, riammessi, poi di nuovo radiati, in un convulso susseguirsi di misure normative e non di rado di rancori personali.
Tanto più che con commendevole onestà intellettuale, la mostra presenta il verbale di giuramento di fedeltà al regime fascista prestato da Castelnuovo nel 1934 per restare a far parte dell’Accademia, a seguito di un altro, meno noto decreto del 21 settembre 1933 che, come già per l’obbligo imposto ai professori universitari di giurare fedeltà al regime pena la perdita della cattedra, ora lo imponeva di nuovo, pena la perdita del titolo di socio. E Castelnuovo, e tanti altri colleghi, ebrei e non ebrei, giurarono anche nel ’34 così come avevano giurato già nel ’31. Si potrebbe eccepire che questo nuovo giuramento, non comportando pene dannose per l’educazione morale e scientifica delle nuove generazioni come quello del ’31 (per il quale sia Croce che ’La Civiltà Cattolica’ che dirigenti del Pci clandestino legittimarono comportamenti nicodemitici, ricordati esplicitamente da Concetto Marchesi), avrebbe potuto consentire un rifiuto privo di conseguenze pedagogiche e privo anche di personali danni materiali.
Ai Lincei non giurarono in dieci: sei rifiutando esplicitamente (Croce, Gaetano De Sanctis, Volterra, Orlando, De Viti De Marco, De Sarlo); tre dimettendosi con vari motivi (Alessio, Bresciani Turroni, Umberto Ricci), uno, Emanuele Paternò, premorendo alla misura di radiazione (Leone Caetani acquisendo la cittadinanza canadese decadde dall’Accademia). Tra loro dunque cattolici, ebrei, liberali più o meno sospetti di massoneria; scienziati e umanisti. Nell’elenco platealmente più lungo di quanti invece giurarono, parimenti cattolici, ebrei, liberali, marxisti (o futuri tali, così come futuri e radicali azionisti); scienziati e umanisti.
Tristezze di regime e di cultura. Il problema che viene tuttavia posto al termine del fascismo e della guerra è il difficile e controverso tracciato della linea di demarcazione tra i «sommersi» e i «salvati», indipendentemente dal giuramento prestato (si capisce: sarebbe stata spopolata l’Accademia). A gestire di fatto l’epurazione sarebbero stati però esponenti mai refrattari ad alcun giuramento; a strepitare con giacobina furia dai quotidiani per un’epurazione radicale, persone che come Concetto Marchesi giurarono assieme (a distanza di un giorno) a scienziati ebrei come Tullio Terni. Non fu seguito il logico criterio di valutare quanti avessero politicamente abusato di titoli littori anziché scientifici per essere ascritti ai Lincei (e giustamente radiati: Bottai, De Vecchi, Federzoni e Sabato Visco). Ma per chi avesse avuto titoli adeguati e che fosse stato già membro dell’Accademia prima del fascismo? E più ancora, quale dunque il confine morale, per separare gli ammessi dai nuovi radiati tra cui incredibilmente di nuovo ebrei?