Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
In data 20 luglio 2000 è stata promulgata dal Presidente della Repubblica, dopo l’approvazione della Camera dei Deputati e del Senato, la seguente legge:
Art. 1.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato e protetto i perseguitati.
Art. 2.
In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai accadere.
Auschwitz |
SHEMA’
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
[10 gennaio 1946]
Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1979
Nel sito, cfr. AUSCHWITZ, QUEL GIORNO.
PRIMO LEVI,
ALZARSI *
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche’ suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e’ sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".
11 gennaio 1946
* Primo Levi, Ad ora incerta (ma e’ anche l’epigrafe che apre La tregua), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 526]
SUL TEMA, DA UN PUNTO DI VISTA STORICO,FILOSOFICO E TEOLOGICO, E POLITICO, NEL SITO, SI CFR:
Federico La Sala
MEMORIA E ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: DANTE ALIGHIERI, PRIMO LEVI, HANNA HARENDT, ED ENZO PACI.
"IL CANTO DI ULISSE" E IL "PIKOLO" SEGRETO DELLA STORIA...
COME UNO SQUILLO DI TROMBA. L’Ulisse di Dante ad Auschwitz svela a Primo Levi il Pikolo segreto della storia "che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie".
HANNAH ARENDT E IL PROBLEMA DELL’INIZIO, DELLA NASCITA: "Nella grande opera sulla Città di Dio Agostino enuncia, senza però darne spiegazione, ciò che avrebbe potuto divenire il sostegno ontologico di una filosofia della politica autenticamente romana o virgiliana. A suo dire, come sappiamo, Dio creò l’uomo come creatura temporale, homo temporalis; il tempo e l’uomo furono creati insieme, e tale temporalità era confermata dal fatto che ogni uomo deve la sua vita non semplicemente alla moltiplicazione della specie, ma alla nascita, l’ingresso di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo. Lo scopo della creazione dell’uomo fu di rendere possibile un inizio: «Acciocché vi fosse un inizio, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno», «Initium ... ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» [Agostino, De civitate Dei, libro XII, cap. 21]. La capacità stessa di cominciamento ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita" (H. ARENDT, "La vita della mente", Bologna 1987).
UN PRESEPIO NEL LAGER. Nel Natale 1944, Enzo Paci con vari militari (tra cui Paul Ricoeur) prigionieri nel Lager di Wietzendorf, riflette su "Nicodemo o della nascita").
Federico La Sala
Shoah. Quando la luna splendeva sopra il sonderkommando
L’esperienza dei prigionieri costretti a collaborare allo sterminio costituisce un abisso dentro l’abisso, in cui la lotta per la sopravvivenza raggiunge la violenza assoluta
di Raul Gabriel (Avvenire, sabato 23 gennaio 2021)
La vicenda del sonderkommando non è La vita è bella o la colonna sonora un po’ zuccherosa di Schindler’s list. Non si può disinnescare con la retorica che maschera la nostra indifferenza. Non è come siamo soliti immaginare le storie, con un inizio, uno svolgimento e una fine, su cui siamo ansiosi di piazzare la morale per fare bella figura. Questa storia non ha né una fine né una morale. È una abnorme finestra mistica sull’abisso in superficie, l’abisso dell’ordinario. Ogni morale qui è sospesa perché nessuno è in grado di farsene carico.
Su questa terra è esistita una realtà creata e nominata dai nazisti sonderkommando. Gruppi di deportati il cui compito era supportare le SS nelle operazioni di sterminio. Sconvolgente. Sabbia mobile di una meditazione interdetta e senza sfogo, sempre sul punto di abbandonare, sempre tenuta in vita da una domanda che parte dalle viscere ma non arriva da nessuna parte. La storia del sonderkommando, come un giudice inappellabile, chiama in causa l’ipocrisia umana fatta sistema. Il sonderkommando è la prova della nostra ineludibile contiguità con il male che puntualmente tentiamo di negare.
Un male apparentemente inspiegabile, così al limite da risultare impossibile allo sguardo, anche da lontano, se non si vuole diventare statua di sale. La mia visita ad Auschwitz di due anni fa, nata dal caso, ha generato in me una scossa irriducibile che mi ha condotto nel tempo verso il sonderkommando.
A prima vista il sonderkommando sembra delineare una categoria di chimere ignobili. Peggio dei carnefici. Primo Levi li definisce corvi neri, da uomo riflessivo e mite quale me lo immagino. Il sonderkommando, il non classificabile, portatore di un fardello di colpa su cui è meglio non esprimersi perché sembra sporcare tutto ciò che tocca.
Il sonderkommando però non erano corvi. Erano uomini. Non erano i carnefici. Erano vittime. Private dei diritti delle vittime. Private del diritto di compiangersi. Quello che succedeva nel sonderkommando e attraverso il sonderkommando era il punto limite dell’umanità. Eppure è stata quotidianità per migliaia di esseri umani. A volte di una umanità che lascia sgomenti. Il sonderkommando. In bilico costante sulla voragine di un passaggio tragico, orrendo, mistico. Pensato e realizzato dagli uomini, ma oltre l’uomo. Ad alcuni è stato imposto di stare sulla porta dell’inferno che è oltre l’apparenza, pure brutale, di quel rito.
Non molto tempo fa ho trovato il libro che raccoglie gli scritti furtivi di Salmen Gradowsky, seppelliti a Birkenau nella speranza che qualcuno, un giorno, li avrebbe trovati: Sonderkommando, diario di un crematorio di Auschwitz, 1944.
Un grido soffocato di esistenza, rivendicazione di una umanità la cui perdita si rinnova ogni momento. -Gradowsky è stato membro del sonderkommando di Auschwitz per parecchi mesi. La sua unica possibilità di dirsi umano si è aggrappata al racconto del suo incomprensibile giorno ordinario. Di cui è stato vittima e operaio, nel punto critico della storia e del mondo. Perché si voleva sopravvivere, anche ad Auschwitz. Il punto critico era un percorso breve e assoluto, concentrato di morte. I membri del sonderkommando celebranti. I nazisti, i veri carnefici, hanno immaginato il sonderkommando come disumanizzazione definitiva.
Quello di Gradowsky è un testo mistico. Attraverso le sue parole semplici, a tratti anche poetiche, mi sono affacciato a una finestra di cui non posso avere immagini, odori, suoni. Per fortuna. Quelle poche righe mi hanno come sospeso nel compiersi di quel rito mostruoso e ordinario, senza risposta, soluzione o redenzione. Il passaggio dal camion alla svestizione, alla camera a gas e quindi al forno è fatto di persone, è fatto di gesti.
Gradowsky è costretto dalla maledetta sopravvivenza ad assistere e celebrare il martirio di persone come lui, nella speranza contraddittoria e ossessiva che qualche loro gesto eroico potesse scardinare il meccanismo di distruzione, soccorrendo la sua fatale impotenza. È lì, ma non comprende. La dissociazione tra il gesto meccanico e la sua umanità in agonia è lancinante. Lo stupore, la rassegnazione, la disperazione, la menzogna. Il tempo della trasformazione industriale dell’uomo in cenere è la notte, illuminata da una luna che splende sempre e comunque su vittime e carnefici, senza preferenze. Pensando all’infamia dei compiti atroci del sonderkommando, siamo tutti pronti a giurare che noi non lo avremmo fatto. È un esempio meschino di sdegno ipocrita e vigliacco, il primo a voltare la testa di fronte ai soprusi di ieri e di oggi. La verità è che nessuno può dire cosa avrebbe fatto sotto la minaccia di passare per il camino, in condizioni di deprivazione della volontà.
Nell’immaginario comune, almeno lo era per me, non ci si chiede molto sulle camere a gas. Si pensa che quando uno vi entrava la catena del dolore era finita. Non è così. Arrivare alla camera a gas non era la fine dell’inferno. La camera a gas era il gradino più basso di un incubo ancora tutto da vivere. La camera a gas era feroce, terrificante. Schiacciati nel buio insieme a centinaia di altre persone i cui corpi diventavano l’ultimo strumento di morte. Lì dentro la lotta era tremenda. Quando, terminate le grida, veniva aperta, l’indistricabile groviglio di corpi trovava i più robusti in alto, morti cercando di sfuggire al gas che si diffondeva dal basso, dopo aver calpestato e schiacciato i più deboli, bambini, donne, anziani. Era una colpa questa? No. Su questo non può esservi dubbio.
La pietà prevale su ogni giudizio quando l’uomo è posto così all’estremo da non riconoscersi. Per il sonderkommando vale lo stesso. Se non era una colpa cercare l’aria schiacciando gli altri non è stata una colpa cedere alla sopravvivenza. Anche questo è un uomo.
Il santo, l’eroe, sono l’eccezione. Che non può essere richiesta come attestato del minimo di dignità umana. Perché decreterebbe la condanna definitiva della maggior parte di noi. Gli scritti di Gradowsky hanno un livello di umanità spiazzante che stride in modo insopportabile con la realtà da cui provengono. Il sonderkommando parla di noi, anche se non vogliamo sentirlo dire. La loro infinita disgrazia è un monito che ci permette di guardare dentro un po’ di più senza pagarne il prezzo. Gradowsky non mi fa rabbia né orrore. Gradowsky mi fa tenerezza, una tenerezza ormai inutile. Ma tenerezza.
Tenerezza per lui, per tutte le vittime, per il genere umano, per me. Non è una risposta. È l’inizio di una domanda. Inizio della trasformazione di ciò che è stato distruzione in fonte di vita, ispirazione, rigenerazione, senza cui ogni memoria, ogni celebrazione, sono profondamente, irrimediabilmente inutili.
L’ultima testimonianza in pubblico di Liliana Segre
di Liliana Segre
All’età di novant’anni, Liliana Segre ha scelto di ritirarsi dalla sua ormai trentennale opera di testimonianza sul periodo storico che va dalle leggi razziali ai lager. L’ha fatto con un ultimo discorso tenuto alle ragazze e ai ragazzi ospiti dello studentato della Cittadella della Pace di Rondine (Arezzo), il 9 ottobre 2020, dov’è stata anche inaugurata l’Arena di Janine, intitolata alla ragazza francese che Liliana guardò andare alle camere a gas senza salutarla, ma il cui ricordo non l’ha mai abbandonata.
Un racconto che parte da sé e tesse un filo continuo tra l’esperienza personale e la grande storia, tra il passato e ciò che è in gioco nel presente, tra il suo vissuto e le condizioni di chi vive i drammi storici di oggi. Senza che mai la narratrice dimentichi di essere una donna, la donna di pace che è diventata.
(La redazione) *
N.B. Nella seconda metà del discorso c’è una pausa di parecchi secondi: non è né la fine dell’intervento, né un guasto.
Auschwitz
Libri tra i fili spinati
Jadwiga Pinderska-Leh è la direttrice della casa editrice interna al Lager. Pubblica testimonianze dei sopravvissuti, guide, saggi: «Niente fiction, per rispetto»
di Maria Teresa Carbone *
Ogni mattina, da più di dieci anni, Jadwiga Pinderska-Lech entra nel suo ufficio e si mette al lavoro secondo una routine che qualsiasi responsabile di una casa editrice in tutto il mondo conosce bene: ricontrolla i volumi in uscita, esamina i testi potenzialmente interessanti, elabora iniziative editoriali, incontra i redattori e i consulenti. Qualcosa, però, rende singolare, anzi unico, il suo lavoro: la sede della casa editrice che lei dirige si trova all’interno del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau, nell’edificio di mattoni dove aveva il suo studio Eduard Wirths, il medico-capo del campo, l’uomo a cui faceva riferimento, tra gli altri, Josef Mengele. «Un luogo saturo di sofferenza, in effetti, ma l’attività che svolgiamo qui dentro è così vasta e coinvolgente, che di rado - almeno nella dimensione quotidiana - ci soffermiamo sul passato di questi muri», dice Pinderska-Lech, che giorni fa, alla Casa della memoria di Roma, ha partecipato all’apertura di una mostra dedicata al polacco Jan Karski, tra i primi a far conoscere al mondo quello che stava avvenendo nei campi di sterminio nazisti.
Non molti, tra i milioni di persone che ogni anno visitano Auschwitz, sanno che fin dal 1957 - dieci anni dopo la trasformazione del campo di sterminio in un museo-memoriale - è attivo all’interno del vecchio lager un dipartimento per l’editoria, di fatto una casa editrice che pubblica libri e periodici con l’obiettivo di divulgare la storia del campo e di commemorare le vittime.
«Si era cominciato allora con gli “Zeszyty Oświęcimskie”, alla lettera, i “Quaderni di Auschwitz”, una rivista monografica di cui esiste oggi una versione inglese, gli “Auschwitz Studies”, al posto di quella tedesca, pensata nei tempi in cui l’unico possibile ponte dalla Polonia verso l’Occidente era la Germania socialista» ricorda la direttrice in un italiano ricco e fluido, appena venato da un lieve accento polacco. Nei primi anni del periodico gli argomenti trattati erano generali (la nascita del campo, la sua organizzazione, le deportazioni dai vari Paesi), ma oggi gli studi affrontano una gamma di temi più ampia e approfondita: «Proprio in questi giorni sto chiudendo il trentesimo numero, che contiene tra l’altro un saggio degli storici del nostro centro di ricerche in cui viene proposta una nuova interpretazione della rivolta dei prigionieri Rom a Birkenau nel maggio 1944 e una revisione del numero generale delle vittime Rom, un dato che dovrà essere acquisito dai manuali di storia».
A distanza di oltre settant’anni dalla fine della guerra, le ricerche continuano: «Solo in epoca relativamente recente abbiamo ricevuto dalla Russia - sia pure in fotocopia o microfilm, non in originale - documenti che erano stati portati via all’indomani della liberazione: sono migliaia di fogli da cui emergono episodi all’apparenza piccoli ma significativi, come la protesta di un caposquadra edile che ha dovuto bloccare per una giornata il suo lavoro a causa dell’attività di una camera a gas nelle vicinanze».
Con il passare del tempo, ai «Quaderni» si è affiancato un numero sempre più alto di volumi, in media tra le venti e le trenta novità l’anno, cui si aggiungono circa settanta ristampe: per lo più saggi storici e testi autobiografici dei sopravvissuti, ma anche libri illustrati e raccolte di poesie. Attualmente il catalogo delle edizioni di Auschwitz comprende circa cinquecento titoli, alcuni dei quali - in particolare le guide per i visitatori - sono tradotti in oltre venti lingue.
Tutti i libri, comunque, precisa Jadwiga Pinderska-Lech, «vengono scelti e curati secondo criteri rigorosi, in accordo con il comitato scientifico del museo». Nessun romanzo, per esempio, è ammesso in catalogo: «È una forma di rispetto verso i sopravvissuti: spesso nelle opere di narrativa su questo tema si trovano elementi di finzione che non solo non corrispondono alla realtà, ma la travisano - storie d’amore improbabili o impossibili, una sorta di “addolcimento” che rappresenterebbe un’offesa per chi ha vissuto questa esperienza tragica».
Non a caso, i libri che hanno una circolazione maggiore sono le memorie delle persone che sono scampate all’Olocausto, ma non hanno dimenticato la tortura della vita al campo: titoli come Sono sopravvissuto dunque sono di Tadeusz Sobolewicz, La speranza è l’ultima a morire di Halina Birenbaum, Infanzia dietro il filo spinato di Bogdan Bartnikowski, Io dal crematorio di Auschwitz di Henryk Mandelbaum, Una violinista a Birkenau di Helena Dunicz Niwińska, si potrebbero definire best seller, se il termine non suonasse poco appropriato per una casa editrice che gode di un finanziamento pubblico e non ha finalità commerciali (i volumi, tra l’altro, si possono acquistare nel bookshop del museo oppure online, ma non nelle normali librerie).
Di queste opere e dei loro autori Jadwiga Pinderska-Lech parla con passione: «Sono convinta che nell’educazione dei giovani, per ricordare le vittime, le testimonianze dei sopravvissuti possano fare moltissimo. Personalmente mi sento onorata perché grazie al mio lavoro ho stretto amicizie preziose, come quella con Halina Birenbaum, e in genere ho avuto la possibilità di conoscere da vicino persone eccezionali, da Tatiana Bucci a Shlomo Venezia, a Piero Terracina». E ricorda quando, da bambina, era rimasta colpita e turbata dalla lettura di un piccolo libro su Auschwitz trovato nello scaffale di sua madre. «Allora abitavo con la mia famiglia lontano da qui, ma quando negli anni Novantasono andata a studiare Lingue all’università di Cracovia, ho deciso che avrei lavorato come guida in questo museo. In seguito ho ricevuto la proposta di entrare nella casa editrice e ho accettato subito». Da allora, prima come redattrice e traduttrice, poi come direttrice, Jadwiga Pinderska-Lech si siede ogni giorno alla scrivania nelle stesse stanze dove il dottor Wirths stilava i suoi rapporti sulle malattie nel campo e sulle terribili sperimentazioni mediche effettuate sui detenuti. «È vero, la tristezza di questi ambienti è grande, ma l’impegno per il mio compito è più forte. Anche se, certo, lavorare ad Auschwitz ha influenzato in profondità il mio modo di vedere le cose, il mio sguardo sulla vita».
* Il Sole-24 Ore, 26 gennaio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
GIORNO DELLA MEMORIA, PERCHÉ GLI EBREI?
Il dovere morale di preservare i valori moderni
di Francesco Bellusci (Casa della cultura, 24.01.2020)
“Perché gli ebrei?”. È questa la domanda che spesso giunge dal pubblico in coda alle manifestazioni del Giorno della Memoria, a scuola o in altri contesti, oppure rimane taciuta nel retro-pensiero, difficile da esternare, come se la sua imbarazzante e sconcertante semplicità, più che ad appagare una sete di conoscenza, sia diretta a placare l’angoscia che accompagna l’inevitabile senso di “colpa metafisica”, come l’avrebbe chiamata Karl Jaspers[1], cioè la colpa di essere “sopravvissuti” a loro, di avere goduto il privilegio della vita, ingiustamente e violentemente negata ai nostri simili, pur essendo, noi, lontani ed estranei ai soggetti direttamente imputabili della colpa politica o giuridica o morale di quel crimine spaventoso. Perché gli ebrei e non un’altra minoranza etnica o religiosa, allora? Perché la scelta del comodo capro espiatorio su cui polarizzare il risentimento e le frustrazioni di un popolo sconfitto in guerra e sconvolto dalla crisi economica è caduta sugli ebrei? Perché le ideologie del fascismo e del nazismo hanno fatto leva sull’antisemitismo e sulle leggi razziali contro gli ebrei per la loro cinica propaganda?
Hitler o Mussolini non hanno inventato il male, tantomeno l’antisemitismo. Certamente, però, in Germania, un’impressionante e contingente reazione favorita da enzimi ideologici (nazionalismo, darwinismo sociale, scientismo, xenofobia, razzismo), politici (la competizione accesa per il consenso in democrazie “giovani”, con istituzioni nascenti o fragili messe da subito a dura prova dalle conseguenze sociali ed economiche della Grande Guerra e, poi, dalle ripercussioni mondiali del primo “crac” della nuova potenza economica globale: gli Stati Uniti) e materiali e tecnologici (la disponibilità di burocrazie più efficienti, la sperimentazione di nuove armi letali) fece sì che dall’odio, dal disprezzo, dalla discriminazione nei confronti dell’ebreo si arrivasse, per la prima volta, al progetto efferato di un genocidio, concepito come un assassinio industrializzato di massa. E ha portato altri regimi fascisti come l’Italia o la Repubblica di Vichy a collaborarvi. Ma con la fine del nazifascismo, Hiroshima annunciava che l’irrazionale, la psicosi del potere, non si erano affatto ritirati dal mondo, subito piombato nella corsa agli armamenti e sempre sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Un mondo dove la macchinazione tanatocratica di governi, laboratori scientifici e industria militare, in sinergia tra loro, sembravano preparare stavolta l’olocausto dell’umanità, al punto da far dire, provocatoriamente, al filosofo e storico della scienza Michel Serres, in un memorabile pamphlet:
La fine del mondo bipolare, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ha per fortuna allontanato la minaccia di un olocausto della specie umana, ma se, come ricordava Serres nel suo saggio, la paranoia di Hitler era storica, e non individuale, rimane da chiedersi ancora perché le vittime di quella paranoia, e dell’unico olocausto sinora avvenuto, siano state proprio gli ebrei. -Diventa interessante farlo tanto più che la risposta a questa domanda ci costringe a risalire a un periodo storico, l’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, con il quale secondo il politologo David Runciman[3], il momento storico attuale con il suo strisciante rigetto diffuso della democrazia liberale, del cosmopolitismo, della multietnicità, intrattiene più analogie.
Allora si consumò, infatti, il più pericoloso cortocircuito culturale della modernità, con il rischio di un inabissamento della civiltà europea stessa, e coincise con il periodo d’incubazione dell’ideologia fascista, che, solo nelle circostanze critiche del dopoguerra, si sarebbe poi trasformata in un movimento politico di estrema destra organizzato e combattivo. Questa pista ci viene acutamente suggerita dagli importanti studi storici di Zeev Sternhell[4]. In quel periodo, infatti, germina e cresce rapidamente un rifiuto dell’Illuminismo, espresso da vari rivoli della cultura europea, che si declina come rifiuto del principio di uguaglianza naturale degli uomini, dell’universalismo, del razionalismo, dell’idea di progresso e che culmina nella scomunica di “materialismo”, indirizzata indistintamente a democrazia, liberalismo, socialismo, con le loro dottrine egualitarie e utilitaristiche, concepito come la malattia europea che era necessario sradicare, quella che più di altre minava l’“organismo vivo” della nazione. Il fascismo e il nazismo, pertanto, non sono tanto figli della reazione al bolscevismo e al comunismo, quanto l’emergenza più vistosa, aggressiva e radicale di quel rifiuto. Il che ne spiega l’appeal che esercitò sia sulle masse sia sull’élite intellettuale.
Si comprende allora la scelta del capro espiatorio ebraico. La “questione ebraica”, ovvero il tema della tolleranza e dell’emancipazione della minoranza ebraica da secoli discriminata o ghettizzata, si era affermata proprio con l’Illuminismo e gli illuministi l’avevano imposta già nell’agenda politica dei “sovrani illuminati”, per essere riconfermata nelle rivoluzioni liberali della prima metà dell’Ottocento (non a caso, La questione ebraica è il titolo di un libro fondamentale nella produzione di Marx, del 1843, dove ai sostenitori dell’emancipazione politica attraverso l’estensione universale dei diritti civili, anche agli ebrei, Marx replica denunciando i limiti intrinseci dell’emancipazione politica, a fronte dello scarto tra gli eguali diritti proclamati in astratto e le concrete condizioni di diseguaglianza presenti nella società).
Questo tema sarà ricorrente per tutto il XIX secolo in Europa, anche se maggiormente in Francia e in Germania rispetto ad altri Paesi europei, e, quindi, uno dei modi migliori per dichiarare morte ai valori dell’Illuminismo sarebbe stato proprio scagliarsi contro gli ebrei e archiviare, con il tema dell’emancipazione degli ebrei, il simbolo essenziale dell’Illuminismo. La presenza nella coscienza collettiva e nel dibattito intellettuale del nesso tra illuminismo e questione ebraica trova peraltro conferma in un articolo[5] di Hannah Arendt, pubblicato sulla Zeitschrift für Geschichte der Juden in Deutschland, alcuni mesi prima della nomina a cancelliere della Repubblica federale di Adolf Hitler, in cui la giovane filosofa ripercorreva il modo in cui gli stessi intellettuali ebrei (Lessing, Mendelssohn, Dohm) si collocavano nella tradizione illuminista, oscillando tra l’invito a mantenere la religione ebraica come “religione della ragione” o a rinunciarvi per una piena “naturalizzazione” e assimilazione nella società tedesca e europea. E certamente, come ci ricorda André Glucksmann, nel suo controverso libro-manifesto dei nouveaux philosophes[6], giocò nella scelta degli ebrei anche l’immagine di “nemico interno” costruita filosoficamente dagli idealisti tedeschi, che vi videro i rappresentanti o di uno “Stato nello Stato” (Fichte), nutrito e compattato dall’ostilità per il resto del genere umano, o peggio ancora, di un “anti-Stato” (Hegel), esempio aberrante di comunità che scardina l’equazione tra popolo, nazione, Stato e, quindi, ancora più inquietante agli occhi un movimento culturale politico come quello fascista e nazista, esplicitamente nazionalista, illiberale e razzista.
Bisogna aggiungere che, in questo attacco all’Illuminismo, che venne quasi naturalmente a combinarsi con l’attacco agli ebrei, il nazismo, rispetto al fascismo, con il suo dogma del Blut und Boden, si spinse oltre, fino a colpire la concezione dell’uomo ereditata dalla tradizione giudaico-cristiana, come aveva intuito Emmanuel Lévinas, in un articolo pubblicato nel 1934 sulla rivista Esprit: “L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo, significa soprattutto accettare questo incatenamento (...) Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea (...) Incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso”[7]. Un attacco, quindi, non solo all’Illuminismo e ai suoi valori (l’autonomia, la finalità umana delle nostre azioni, l’universalità morale e giuridica, senza distinzioni di razza, di ceto, di religione), ma anche alle radici spiritualiste da cui quei valori scaturivano nella loro distillazione secolarizzata.
E per avere la sensazione di quale potesse essere la condizione psicologica di un ebreo nel clima plumbeo e “anti-illuminista” in cui la crisi di civiltà europea era precipitata, basterà rileggere il passo di una delle lettere, scritte tra il 1920 e il 1923, di Franz Kafka a Milena Jesenská, che morirà nel 1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück: “Per me tutto avviene all’incirca come per qualcuno che, ogni volta che uscisse, dovesse non soltanto lavarsi, pettinarsi ecc. - il che è già abbastanza faticoso - ma venendogli a mancare tutto una volta di più, ogni volta, dovesse anche cucirsi un vestito, fabbricarsi delle scarpe, confezionarsi un cappello, tagliarsi un bastone ecc. Naturalmente non tutto gli riuscirebbe bene, le cose reggerebbero per una strada o due (...) Alla fine, in via del Ferro, si imbatterebbe in una folla che sta dando la caccia agli ebrei”. Ecco, il Giorno della Memoria deve servire anche a ricordarci il dovere morale di preservare i valori moderni che permettono di costruire una società in cui nessuno si senta manchevole per essere uomo, come i suoi simili, e in cui nessuno venga considerato mai un “uomo di troppo”.
[1] Vedi: U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, cap. 25
[2] M. Serres, Trahison: la thanatocratie (1972), in: M. Serres, Hermès III. La traduction, Le Minuit, Paris 1974, p. 74
[3] D. Runciman, Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di un’istituzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Storico israeliano di origine polacca, professore di Scienza politica presso la Hebrew University di Gerusalemme, autore di numerosi saggi, tra cui: Nascita dell’ideologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano 1993; La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano 1997; Né destra, né sinistra, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
[5] H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, Cronopio, Napoli 2007
[6] A. Glucksmann, I padroni del pensiero, Garzanti, Milano 1977
[7] E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 32, 34
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Centinaia di sindaci in marcia per Liliana Segre a Milano: "Cancelliamo le parole odio e indifferenza"
Corteo da piazza Mercanti a piazza Scala passando per la Galleria. Unico intervento quello della senatrice sotto scorta. In Galleria la gente canta "Bella Ciao" e grida "Liliana, Liliana". I sindaci le consegnano la fascia tricolore, la piazza canta l’Inno d’Italia
"C’è una grande musica in questa piazza, il tempio della musica oggi è all’aperto. Siamo qui per parlare di amore e non di odio. Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera. Basta odio, stasera non c’è indifferenza, ma c’è un’atmosfera di festa": Liliana Segre parla dal palco di piazza della Scala tra gli applausi, poi tutta la piazza si ferma per un minuto di silenzio, prima che il presidente di Anci consegni alla senatrice a vita una fascia tricolore e tutti cantino l’Inno d’italia. Seicento sindaci e loro rappresentanti, tutti con la fascia tricolore, ma senza simboli di partito, in prima fila i sindaci Beppe Sala, Leoluca Orlando, Giorgio Gori, Antonio Decaro. E tanta gente comune, a formare quella "scorta civile" per la senatrice a vita Liliana Segre e per dire che "l’odio non ha futuro". E’ stata la marcia dei sindaci, organizzata dal Comune di Milano,assieme all’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), Autonomie Locali Italiane (ALI) e Unione Province Italiane (UPI), per testimoniare la vicinanza di piccoli, medi e grandi comuni alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, oggi sotto scorta a causa di ripetute minacce antisemite.
Liliana Segre ai sindaci in piazza: "Lasciamo l’odio agli anonimi da tastiera"
"Tutti i sindaci indipendentemente dal colore politico sono arrivati da tutta Italia per dimostrare l’affetto nei confronti di Liliana Segre. Con la fascia tricolore che tiene insieme le nostre comunità ma anche il Paese". Così il presidente di Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha parlato ai giornalisti del senso della marcia. Decaro ha spiegato che sono state circa 1000 le adesioni e che a Milano sono arrivati circa 600 sindaci. "Vogliamo dire con forza a tutti che non accettiamo nessun tipo di fanatismo, l’unico fanatismo che i sindaci accettano in questo Paese è quello per la libertà, la democrazia e il rispetto degli altri. - ha aggiunto -. Per questo oggi con le nostre fasce tricolori vogliamo fare da scorta civica a Liliana Segre. Oggi siamo tanti di tutti gli schieramenti politici". "Ci sono questioni sulle quali non ci si può dividere e i sindaci su questi temi non si dividono mai. Noi siamo qui oggi per condannare le parole di violenza che sono arrivate a Liliana Segre", ha concluso.
"Non siamo organizzatissimi in termini di ordine ma di idee sì, siamo tutti molto felici di essere qua e io spero che lo sarà soprattutto la Segre e il paese per questa nostra testimonianza di cui c’è bisogno": così il sindaco di Milano Beppe Sala alla partenza della marcia da piazza Mercanti, con qualche problema logistico per far partire il corteo tra la folla dello shopping di Natale. "Oggi è veramente la giornata per la Segre, della Segre, per l’Italia e infatti abbiamo deciso che nessuno dei sindaci parlerà dal palco, solo la senatrice - ha aggiunto -. A noi il gesto, a lei le parole e le parole di Liliana sono sempre le parole giuste".
Milano abbraccia Liliana Segre: centinaia di sindaci alla marcia contro l’odio
"Voi avete una missione difficile e apprezzo tantissimo che per qualche ora abbiate voluto lasciare i vostri compiti per questa occasione. Il vostro impegno può essere decisivo per la trasmissione delle memoria". Lo ha detto la senatrice a vita Liliana Segre rivolgendosi dal palco di piazza Scala a Milano, ai 600 sindaci in fascia tricolore. "Nell’Italia degli 8 mila Comuni c’è un giacimento straordinario di storia che può essere tramandata alla comunità. Una storia che resta relegata a musei, istituti, vie, pietre di inciampo. Sta alla sensibilità delle amministrazioni comunali fare in modo che questo giacimento non venga abbandonato" ha esortato la senatrice a vita. "Fare sì che quelle fredde lastre di pietra dei trasformino in occasioni antiretoriche per rinnovare un patto tra generazioni" ha concluso.
Il corteo attraversa per la prima volta la Galleria Vittorio Emanuele II e fermarsi in piazza della Scala, davanti a Palazzo Marino. Qui un solo intervento: quello della senatrice Segre, che si unisce alla marcia dall’Ottagono della Galleria. "Penso sia giusto che prenda la parola solo lei a conclusione della marcia perché la politica porterà la sua testimonianza e la voglia di essere la scorta della senatrice, aspettiamo le sue parole", ha detto il sindaco Sala.
"È importante essere qui dal punto di vista istituzionale sia dei cittadini perché è evidente che va contrastato un clima anche lessicale di odio e di intolleranza". Lo ha detto il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, in fascia tricolore in piazza Mercanti a Milano. "Il fatto di manifestare in prima persona è cercare di essere rappresentanti autorevoli, un modo diverso di fare politica e società civile. "Ha fatto benissimo Sala a non schierarsi dal punto di vista degli inviti politici, dobbiamo essere compatti".
Siamo qui "per dimostrare ancora una volta, al di là delle strumentalizzazioni politiche, che i sindaci della Lega sono contro ogni tipo di odio, di violenza e di razzismo e sono vicini alla senatrice Segre e tutte le persone che come lei hanno vissuto gli anni bui dello scorso secolo". Lo ha detto il sindaco di Chiuduno (Bergamo) Stefano Locatelli, responsabile enti locali della Lega, presente alla marcia.
"Non si può restare indifferenti di fronte al dilagare di intolleranza e odio, sentimenti che in alcuni casi possono tramutarsi in atti di violenza. La risposta di questa sera è straordinaria. Non c’è solo Milano in piazza, ma tutta l’Italia". Così il vice Ministro dell’Interno, Matteo Mauri, arrivando a Milano alla manifestazione "L’odio non ha futuro". "Qui c’è un Paese vivo - aggiunge il Vice Ministro - che scende in piazza per testimoniare vicinanza alla senatrice Liliana Segre, oggi purtroppo sotto scorta per le minacce antisemite ricevute, e per difendere i propri valori di tolleranza e di libertà contro ogni deriva estremista, contro il linguaggio dell’odio e delle paura che alcune forze politiche continuano a diffondere in modo meschino e irresponsabile. Grazie al sindaco di Milano Beppe Sala per aver pensato a questa bella iniziativa di solidarietà. Difendere la memoria storica è fondamentale perché rappresenta la base su cui si poggia la nostra convivenza civile". C’è anche l’eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino.
Le adesioni arrivate sono, appunto, già più di seicento: la marcia lanciata da Beppe Sala e da Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ha poi raccolto l’adesione della sindaca di Roma, Virginia Raggi: "L’odio non ha futuro Roma aderisce alla manifestazione che si terrà a Milano in favore di Liliana Segre, dopo gli insulti e le minacce intollerabili che ha ricevuto. Tutti insieme contro odio e razzismo", ha scritto Raggi su Facebook. Ci sono anche il sindaco di Bari e presidente di Anci Antonio Decaro e Chiara Appendino, sindaca di Torino Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Giorgio Gori da Bergamo, Dario Nardella da Firenze, Virginio Merola da Bologna, Valeria Mancinelli da Ancona. Ci sono - dopo le polemiche con Matteo Salvini - anche sindaci del centrodestra, come quello di Cagliari Paolo Truzzu, Claudio Scajola da Imperia o come il leghista Mario Conte, primo cittadino di Treviso, il responsabile degli enti locali del Carroccio Stefano Locatelli. E c’è anche Roberto Di Stefano, il sindaco di Sesto San Giovanni che ha rifiutato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, assieme all’assessore leghista Stefano Bolognini.
* Fonte: la Repubblica/Milano, 10.12.2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Liliana Segre ricorda Piero Terracina
“Ci legava una fratellanza silenziosa”
da "Moked" (08/12/2019 - 10 כסלו 5780 )
“Con Piero Terracina ci legava una fratellanza silenziosa, tra noi non servivano parole. E ora che non c’è più mi sento ancora più sola”. Con tenerezza e dolore la senatrice a vita Liliana Segre ricorda il legame con Piero Terracina, sopravvissuto come lei ad Auschwitz e scomparso in queste ore all’età di 91 anni. “Noi ci conoscevamo da reduci. Lui era stato nel Lager degli uomini e io in quelle delle donne ovviamente. Però ogni volta che ci siamo incontrati, le tante volte che ci siamo incontrati, sentivamo proprio una fratellanza, qualcosa che ci univa. Tra me e lui, come con tanti altri come noi, non c’era bisogno di parlare. Noi dovevamo parlare agli altri ma tra di noi non c’era bisogno di farlo”, il ricordo di Segre a Pagine Ebraiche. “La sua scomparsa mi colpisce molto. So che lui era molto amato e diceva sempre: ‘io non ho avuto una famiglia ma ho avuto così tante persone che mi hanno voluto bene, che mi sono state vicine, di amici, che è andata bene così. Non c’era stato bisogno di avere moglie e figli, per lui era stata stupenda l’amicizia di cui aveva goduto”. “Ora mi sento più vecchia e più sola”, le parole di Segre che, anche nel segno dell’amico Piero Terracina, ribadisce il suo impegno “a continuare a parlare d’amore. Questa è la cosa migliore, quella che mi sento”.
I sommersi e i salvati. Una nuova edizione per le scuole
di Martina Mengoni - Roberta Mori (Il Mulino, 06 giugno 2019)
Nel 1973 Primo Levi pubblicò un’edizione scolastica di Se questo è un uomo all’interno della collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Si inseriva in una serie di edizioni commentate per le scuole che Levi curava personalmente: La tregua (1965), Il sistema periodico (1979), La chiave a stella (nel 1983, con commento di Gian Luigi Beccaria supervisionato dallo stesso Levi). Per Se questo è un uomo lo scrittore aveva progettato, oltre alle note, una serie di strumenti allo scopo di fornire ai giovani lettori informazioni sui Lager nazisti e sulla geografia e la storia europee tra il 1918 e il 1945: una prefazione, due carte geografiche dei campi di concentramento e sterminio europei, una bibliografia essenziale e un apparato di esercizi di comprensione e analisi.
Nel proporre agli studenti delle scuole superiori la prima edizione scolastica de I sommersi e i salvati, a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione (1986), abbiamo provato a fare tesoro delle indicazioni provenienti dal lavoro di autocommento e curatela svolto da Levi, cercando di adattarle alla didattica e alla scuola odierna.
L’introduzione offre un resoconto, sintetico ma non semplificato, delle ultime ricerche sulla genesi, la struttura, gli stili e l’impianto retorico de I sommersi e i salvati. Il volume è ricondotto innanzitutto alla sua prima gestazione, negli anni Sessanta, quando Levi aveva uno scambio vivo e diretto con i suoi lettori tedeschi. Al contempo il libro non avrebbe visto la luce senza il dialogo ininterrotto con gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, di cui la prefazione dà conto. “Sono stato in più di centotrenta scuole”, scrive l’autore nel 1979.
Gli studenti sono dunque il destinatario ideale de I sommersi e i salvati; è per loro l’ultimo e forse il più importante lascito analitico di Primo Levi, ed è questa la chiave per comprendere le scelte retoriche e argomentative del libro: un testo che fonde l’impianto saggistico con l’andamento narrativo, ricco di “figure” memorabili e insieme inesauribili, che rilanciano gli interrogativi filosofici, morali e storici posti dall’autore; un libro dal carattere socratico, concepito come un tentativo di ripristinare la complessità di una vicenda storica, sociale, culturale. “Una segnaletica di problemi”, come lo ha definito la storica Anna Bravo.
Nella progettazione e nella messa a punto dell’apparato di note si è cercato di trovare una sintesi tra due esigenze di segno opposto: da un lato l’aspirazione a trasmettere informazioni esaustive, dall’altro la necessità di non appesantire la pagina con note troppo lunghe e impegnative. Abbiamo optato per una notazione di servizio, agile e poco invadente, il cui scopo è quello di chiarire ogni riferimento non immediatamente presente nel bagaglio di conoscenze degli studenti delle scuole medie e superiori: traduzione di termini stranieri e spiegazione di termini specialistici, di derivazione colta e letteraria, di uso raro; note storiche e storico-biografiche, che coprono un arco cronologico che si estende dalla Prima guerra mondiale fino agli anni Ottanta del Novecento; spiegazione delle citazioni esplicite, dei riferimenti culturali, letterari, artistici.
Del tutto assenti in questa edizione sono invece le note di tipo critico-interpretativo. Il senso di questa scelta è alla base dell’intera operazione editoriale: proporre agli studenti un testo di cui fare un uso attivo, in classe, con il docente, nei lavori di gruppo, evitando di sovrapporre la nostra voce di curatrici a quella dell’autore. Non ci interessava intervenire nel dialogo fra autore e lettore suggerendo un’interpretazione preconfezionata (e, visto lo spazio a disposizione, per forza incompleta); abbiamo preferito lasciare alle note il compito di sciogliere eventuali ambiguità e di mettere a disposizione informazioni essenziali alla comprensione del testo.
Ciò non significa rinunciare alla funzione critica, che è piuttosto affidata agli esercizi presenti nel volume. Ci siamo chieste se fosse possibile costruire un eserciziario che accompagnasse gli studenti stessi, in autonomia, a individuare i maggiori nodi critici e argomentativi della pagina leviana, a esplorare l’uso della lingua e le ibridazioni che Levi sperimenta, la tendenza all’ossimoro e al paradosso che attraversa il libro. Chiedendo ai giovani lettori di misurarsi con l’analisi sintattica e con le etimologie del lessico leviano, giustapponendo di fronte a loro la pagina dei Sommersi con alcuni testi della tradizione letteraria e filosofica che Levi stesso chiama, esplicitamente o implicitamente, in causa, costruendo piccoli percorsi di ricerca bibliografica guidata: in tutti questi modi ci è sembrato di mettere i destinatari di questo lavoro nelle condizioni non soltanto di orientarsi nel testo, ma di coglierne le unicità e le tensioni interne, la potenza, le fonti, le aporie.
Al volume annotato de I sommersi e i salvati, che chiunque può trovare in libreria, si accompagna un fascicolo omaggio riservato agli insegnanti. Il fascicolo si compone di tre sezioni: 1) una serie di percorsi di apprendimento cooperativo, cinque in tutto, su alcuni temi chiave del libro; 2) undici percorsi di analisi guidata di testi di Primo Levi, sul modello delle prove di tipologia A e B dell’Esame di Stato; 3) una ricognizione bibliografica e sitografica sulla figura di Primo Levi, sulla storia della Resistenza e della deportazione e sulla didattica della Shoah.
Sono in particolare le prime due sezioni a costituire una novità a tutti gli effetti, un aggiornamento e un potenziamento rispetto agli apparati didattici delle edizioni einaudiane per le scuole medie che hanno ispirato questo progetto.
I sommersi e i salvati è il libro dello scrittore maturo Levi, che per tutta la vita si è interrogato sull’esperienza concentrazionaria, e al contempo ha sperimentato differenti forme di scrittura, frequentando generi e destinatari diversi. -Una guida per gli insegnanti doveva innanzitutto, a nostro avviso, rilanciare la poliedricità dello scrittore Levi, proponendo testi normalmente meno letti e frequentati dagli studenti delle scuole superiori; e in secondo luogo esplorare le possibili diramazioni culturali, scientifiche, filosofiche di alcuni temi cardine dei Sommersi come la memoria, la zona grigia, gli stereotipi della prigionia.
Alla prima esigenza rispondono le proposte di analisi del testo: undici brani tratti dal Sistema periodico, da La chiave a stella, da Racconti e saggi e dall’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo sfatano il mito monolitico di Levi testimone e allargano lo sguardo sul ben più sfaccettato e complesso universo del Levi scrittore, che si muove tra la chimica, con le sue vittorie e sconfitte, il lavoro manuale, la giovinezza, la formazione intellettuale e quella morale, la Resistenza, il rapporto con i tedeschi, le radici dell’intolleranza razziale e la manipolazione dell’informazione durante il Terzo Reich. Nella selezione di testi che proponiamo, questi temi sono spesso affrontati con lo sguardo di un Levi-personaggio liceale e poco più che ventenne, nel tentativo di stimolare un dialogo e un confronto generazionale.
I sommersi e i salvati è anche un libro che combina otto saggi tematici; ciascuno di questi temi (memoria, zona grigia, vergogna, comunicazione, violenza inutile, essere un intellettuale ad Auschwitz, dialogo con i tedeschi) si dirama in molte ed eterogenee direzioni. Uno dei modi possibili per far confluire le ricerche leviane degli ultimi anni in un apparato adatto agli studenti di scuola superiore era quello di costruire percorsi di apprendimento cooperativo interdisciplinari che, a partire dai temi discussi da Levi, toccassero altri testi letterari (Montale, Borges, Shakespeare, Dostoevskij), filosofici (Platone, Cicerone, Agostino, Bergson, Freud, Arendt), scientifici (Alexander Lurija) e storico-memorialistici (Massimo Mila, Luciana Nissim) con incursioni nel fumetto (Maus di Art Spiegelman, ma anche le vignette di prigionia di Ernesto Rossi), nelle arti figurative (il memoriale di Berlino, le Stolpersteine), nelle serie tv (Prison Break, Black Mirror). I percorsi sono pensati come attività di apprendimento di gruppo. Tre di essi sono incentrati sulla memoria, in tre differenti accezioni (memoria biologica, memoria collettiva, metafore della memoria); uno è dedicato alla zona grigia; l’altro allo stereotipo del prigioniero.
Prendiamo come esempio quest’ultimo: il percorso è costruito a partire dalle considerazioni del capitolo Stereotipi. Levi riflette sul progressivo sfaldamento dell’immaginazione storica degli studenti, non solo per quanto riguarda i grandi eventi, ma anche e soprattutto per quel che concerne la condizione di chi veniva fatto prigioniero nei campi: un progressivo sfaldamento psicologico e morale, un annientamento del corpo che andava di pari passo con quello del soggetto pensante. Niente di più lontano dal mito del prigioniero che “spezza le catene”, coltivato dalla letteratura e dal cinema.
Per il nostro percorso di apprendimento cooperativo, abbiamo affiancato a un testo tratto da Il sistema periodico (Oro) in cui Levi racconta la sua prigionia in Valle d’Aosta, un brano tratto da Memorie dalla casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano sulla “morte interiore” dei prigionieri; insieme ad essi, abbiamo proposto un estratto da Le loro prigioni di Massimo Mila (in “Il Ponte”, n. 3, marzo 1949), in cui l’intellettuale antifascista racconta - con una certa disincantata ironia - il periodo di prigionia a Regina Coeli, la difficoltà nello scrivere lettere che eludessero la censura, la noia, la lettura, le conversazioni, l’avidità di notizie sul presente. Il testo è accompagnato da una vignetta di Ernesto Rossi, che con Mila condivideva la cella in quegli anni.
A questi testi si aggiunge una proposta eterodossa: quella di analizzare e commentare un film che Levi cita nel capitolo, Io sono un evaso (1932), accostandolo a un altro film sullo stesso filone, uscito negli anni Settanta, Fuga da Alcatraz (1979), e a una serie tv recente, Prison Break (2005-2017). Tutti e tre insistono in modi diversi - ma con un’iconografia simile, già individuabile nelle locandine - sullo stereotipo del prigioniero forte e padrone di sé, che riesce a liberarsi e a fuggire, spezzando i propri vincoli con lucidità pianificata e senza l’aiuto esterno. Far reagire i testi di Levi, Nissim, Mila e i disegni di Rossi con film che rappresentano il loro contraltare narrativo ci è sembrato utile per illuminare, attraverso un’attività didattica concreta, costruita sul lavoro a gruppi, il contenuto del capitolo dei Sommersi.
È improbabile che uno studente nato negli anni Duemila conosca Io sono un evaso o abbia letto a scuola gli Scritti civili di Massimo Mila; ma è possibile che abbia visto almeno una puntata di Prison Break, ed è quasi certo che sia familiare con la sua estetica e con la sua simbologia.
Un percorso di apprendimento cooperativo che colleghi questi contenuti potrebbe avere il merito di allenare lo sguardo degli studenti a riconoscere non solo gli stereotipi storici, ma anche i tic narrativi più frequenti; un esercizio di analisi e straniamento utile alla lettura e all’interpretazione delle costruzioni simboliche e dei miti letterari che popolano l’immaginario e la mitologia contemporanea.
Levi ha costruito I sommersi e i salvati esattamente con questo spirito: una galleria di esercizi mentali sul passato e sul presente, estremi e necessari. Noi proviamo a rilanciarli.
Un antidoto alla rimozione: la Shoah spiegata in 34 pagine
Poche pagine, ma decisive per rompere il silenzio di cui si nutre l’incubo
di Furio Colombo (Il Fatto, 21.01.2019)
L’esperimento, anche dal punto di vista letterario, è importante e riuscito: Piccola Autobiografia di mio padre, di Daniel Vogelmann (Giuntina editore), è un libro molto piccolo che racconta una tragedia molto grande. Racconta la Shoah in 34 pagine, attraverso un frammento dell’esperienza delle leggi, della fuga, della cattura, della deportazione, della morte di donna e bambina, del ritorno dell’uomo strappato da tutto e restituito per caso alla vita.
Il libro è breve perché l’uomo sopravvissuto non racconta e non racconterà nulla. A noi giunge la voce del figlio nato dopo lo strappo. Il padre, vissuto dopo la morte, deciso a non esserne il narratore, non aggiunge quasi nulla, e ci sono poche cose che il figlio riesce a ricomporre come “la vita, prima”.
In quel poco c’è rivelazione e conoscenza di ciò che è stato: attesa, timore, ansia, sospetto, speranza sbagliata, paura e, all’improvviso, il confronto irreversibile con il volto vicinissimo del carnefice, che non ha nulla da dire e nulla da risparmiare. La Shoah è questo, La morte generata come pensiero religioso e politico che deve realizzarsi comunque senza che neppure l’assassino voglia una ragione per uccidere, a parte l’identificazione dei milioni che devono essere sterminati.
Questo libro, di poche pagine, ti dice tutto in modo pacato e perentorio perchè nulla può essere omesso, anche se basta un accenno, e tutto è già stato detto anche se non è possibile spiegarlo. Resta un incubo, e l’incubo può essere usato nei due sensi: sapere oppure negare.
La forza del negare sta nell’insensatezza, tanto crudele quanto folle, dell’incubo che non si spiega se non come esplosione del potere nelle mani di persone accecate dal furore del decidere su vita e morte degli altri, persone che sanno come trovare una lista indiscutibile di colpevoli.
Sanno anche di poter contare su immenso silenzio durante e dopo, che rende facile come una malattia il bene organizzato sterminio, e trasforma il “dopo” in sobria e saltuaria partecipazione al dolore, anche con un pò di fastidio. Ma sempre di ebrei dobbiamo parlare? Il libro di Vogelmann non vi intrattiene a lungo. Solo 34 pagine. C’è tutto.
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
La vicenda vera di un gruppo di studiosi di Varsavia che cercò di contrastare la supremazia della memoria nazista
Nel 1999 l’Unesco ha incluso l’archivio “Oyneg Shabes” (nome della compagnia dei 60 studiosi) nella “Memoria del Mondo”
di Federico Pontiggia (Il Fatto, 15.01.2019)
“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto - dice Kassow nel film - per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce - “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” - e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”.
Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.
1938-2018. Un libro dello storico Enzo Collotti. Qui una sintesi della prefazione
Leggi razziali, una scelta di Mussolini. Ottant’anni fa la vergogna antisemita
Non vi furono pressioni naziste per l’adozione di misure contro gli ebrei
Colpire persone del tutto innocenti fu una scelta consapevole del regime
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 16.11.2018)
Che cosa può significare per un adolescente andare a scuola, come ogni giorno, ed essere rifiutato? «No, per te la scuola è chiusa - non solo oggi, ma per sempre». Così, senza alcun motivo plausibile; né per un provvedimento disciplinare, né tanto meno per aver commesso un reato. Semplicemente perché «sei ebrea!», «sei ebreo!». È capitato, nell’autunno del 1938, agli ebrei italiani che improvvisamente furono cacciati dai banchi di scuola, espulsi dalle aule universitarie. Coloro che passarono indenni per le successive sciagure, descrissero quell’evento come un trauma violento e inesplicabile. Primo Levi parlò di «fulmine», un termine frequente in altre testimonianze. Il che rende bene la drammaticità, ma anche la sorpresa e lo sconcerto.
Ciò avveniva nell’Italia fascista di Mussolini che, attraverso un decreto del 5 settembre 1938, firmato dal ministro Bottai, conquistò una triste e ignobile supremazia: fu la prima nazione a espellere le «persone di razza ebraica» dalle scuole di ogni ordine e grado, nonché dalle università e dalle accademie. Il decreto valeva per gli studenti come per gli insegnanti. Pur avendo emanato nel 1935 le leggi razziste di Norimberga, la Germania nazista introdusse solo un paio di mesi dopo l’Italia un’analoga misura.
Già questo deve far riflettere su quella singolare narrazione che ha dominato per decenni e si è radicata profondamente nell’immaginario collettivo italiano. Le cosiddette «leggi razziali» del 1938 sarebbero state l’esito di una imposizione della Germania che intimava di perseguitare gli ebrei italiani. Mussolini, invece, non avrebbe voluto altro che «discriminare non perseguitare», come proclamava uno slogan allora famoso. Se negli studi più recenti questa subdola narrazione è stata criticata e del tutto sconfessata, il mito degli Italiani «brava gente» è pur sempre duro a morire. Non è difficile intuire perché. Oltre a lavare con un colpo di spugna la coscienza della nazione, contrabbandando l’apparenza innocua di un fascismo tutt’al più «servile», questo mito ha avuto il vantaggio di rimuovere la «questione ebraica» in Italia. Come se non fossero mai esistiti né antisemitismo né antiebraismo.
Oltre a ripercorrere con chiarezza la storia delle leggi promulgate dal fascismo italiano per discriminare e perseguitare gli ebrei, il libro di Enzo Collotti Il fascismo e gli ebrei, in edicola domani con il «Corriere», richiama la nazione alla sua storia e alle sue responsabilità, delineando il contesto in cui quei provvedimenti furono emanati.
Pur pubblicato per la prima volta nel 2003, questo lavoro resta un punto di riferimento imprescindibile in un filone di studi che si è andato estendendo. E mette l’accento proprio sull’intento di costruire anzitutto una «scuola fascista», la cui rilevanza era strategica per trasformare la cultura del Paese.
Gli ebrei erano cittadini italiani. In tal senso le leggi contro di loro furono una ferita inferta alla cittadinanza, un precedente grave e allarmante; sebbene non tutti i diritti fossero stati revocati, gli ebrei vennero di fatto espulsi dalla nazione. Molti di loro furono tanto più sorpresi, perché si sentivano profondamente italiani. Basti pensare al ghetto di Roma, sede della comunità ebraica più antica della diaspora, cuore della città. Proprio gli ebrei romani avevano più di altri salutato con gioia l’unità nazionale per le libertà di cui avrebbero goduto. La costruzione, tra il 1901 e il 1904, del Tempio Maggiore, quasi al centro del ghetto, fu il suggello di un’assimilazione compiuta. Ma lo era davvero?
Il criterio. L’essenza ebraica fu identificata nel sangue al quale si attribuirono tratti immutabili
Nel contesto italiano, come in quello di altri Paesi europei, restava aperta la «questione ebraica». Si doveva considerare l’ebraismo una religione? Come lo è il cristianesimo? Quest’idea aveva promosso l’emancipazione: gli ebrei avrebbero potuto essere cittadini - italiani, tedeschi, francesi, ecc. - nella sfera pubblica, esercitando il proprio culto in privato. Si sarebbe trattato allora solo di un’uguaglianza di diritti. Sennonché gli ebrei erano anche un popolo con una lunga storia. Da qui nasceva, nella modernità, il topos dello «Stato nello Stato». La questione non era solo religiosa, ma anche politica. Se appartenevano a un popolo altro, gli ebrei erano allora «nemici» all’interno della nazione, tanto più temibili e pericolosi perché si spacciavano per quello che non erano, si facevano passare per tedeschi o per italiani, mentre erano «stranieri».
Questi logori cliché tornarono, anzi, ad accendersi, allorché si coniugarono con l’antisemitismo di stampo più prettamente politico. La Germania anticipò i tempi e dette, per così dire, l’esempio, mostrando che era possibile legiferare contro una parte dei propri cittadini che non avevano commesso alcun reato. Ma fu appunto solo un esempio e, tutt’al più, uno stimolo. Non esistono prove e documenti che testimonino un intervento tedesco nelle scelte della politica fascista. Per emanare le leggi antiebraiche occorreva, però, definire l’«ebreo». Tale definizione si sarebbe rivelata non solo ardua e problematica, ma alla fin fine impossibile. Chi si era convertito al cristianesimo non avrebbe forse dovuto essere considerato cristiano? E che dire poi dei figli di coloro che erano battezzati da una o più generazioni? Malgrado tutto l’acqua del battesimo non sembrava, però, sufficiente a lavare il sangue.
Questa era stata la lezione delle prime leggi razziste, promulgate a Toledo il 5 giugno 1449. Grazie alla «purezza del sangue», più importante di quella della fede, vennero prese misure contro i marrani, ebrei convertiti più o meno forzatamente al cristianesimo, distinti così dai cristiani di «pura origine». Già allora si andarono chiudendo le porte della fratellanza universale, mentre cominciò l’ossessione per la genealogia. L’essenza ebraica fu identificata nel sangue, fluido così vitale e corporeo, così occulto e ineffabile, nel quale si credette di scorgere gli immutabili tratti ebraici, impossibili da emendare. Nessuna conversione avrebbe mai potuto guarire quel «male incurabile», dal cui contagio era necessario preservarsi. La teologia ricorreva alla politica e, viceversa, la politica alla teologia.
L’esordio. Il primo provvedimento fu espellere studenti e insegnanti da scuole e università pubbliche
Questa singolare metafisica del sangue restò anche in seguito alla base delle leggi razziste. Come se davvero il sangue fosse criterio di purezza. Si comprende perciò l’imbarazzo della Chiesa di fronte alle leggi del 1938, che in Italia vietavano i «matrimoni misti», un imbarazzo messo tuttavia a tacere. Ma si comprende anche la difficoltà di definire l’«ebreo», che non ebbe altro esito se non una raccapricciante aritmetica che contava il quarto, il settimo, il decimo di sangue impuro. Lo scopo fu dapprima quello di discriminare e separare, quindi di espellere e, alla fin fine, eliminare. Il diritto, che avrebbe dovuto garantire la protezione dei cittadini, fu piegato a quell’impresa violenta di potere.
Via le pensioni agli ebrei vittime delle leggi razziali e ai perseguitati dal fascismo per motivi politici
di Andrea Carugati (La Stampa, 29.10.2018)
Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell’Economia, con effetto immediato.
E così, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre. Persone che hanno avuto diritto a questo vitalizio come «gesto riparatore» per aver perso il lavoro o il diritto di andare a scuola dopo il 1938, o perché costretti a fuggire all’estero.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese. Una sforbiciata che rientra nella spending review che il governo ha attuato per fare cassa e trovare le coperture per la manovra. Ma che colpisce per il suo valore simbolico. Anche perché - questo il fondato timore dell’Unione delle comunità ebraiche italiane - non si tratterebbe di una riduzione dell’assegno, ma di una vera e propria cancellazione. La legge varata nel 1955 porta il nome del senatore comunista Umberto Terracini, e per circa trent’anni ha riguardato prevalentemente i perseguitati politici. Poi, dal 1986, grazie a un intervento della Corte costituzionale, nella commissione governativa che eroga gli assegni è stato inserito anche un rappresentante delle Comunità ebraiche. Da allora l’accesso a questo istituto si è diffuso anche tra gli ebrei italiani, sia quelli che hanno vissuto gli anni delle persecuzioni sia -in via indiretta- i coniugi e gli orfani con un reddito annuo sotto i 17 mila euro.
Una procedura non semplice. Gli aventi diritto devono fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938. Documenti vecchi di decenni e difficili da reperire.
Tra gli ebrei italiani la notizia ha suscitato un forte sconcerto. La presidente dell’Ucei Noemi Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria. Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
L’obiettivo di questo «appello morale» è arrivare a un ripensamento da parte della maggioranza, almeno in fase di esame parlamentare del decreto. C’è tempo infatti fino a Natale prima della definitiva conversione in legge. E per evitare che partano le raccomandate in cui lo Stato informa i perseguitati che, dal 2018, non si sente più in dovere di riparare l’immenso danno che hanno subito. Neppure con un piccolo assegno.
Vergogna firmata a San Rossore
Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati a partire dal 1938, con l’obiettivo di colpire soprattutto la minoranza ebraica residente in Italia. Benito Mussolini le annunciò il 18 settembre di quell’anno durante un comizio a Trieste; il 5 settembre, il re Vittorio Emanuele III aveva firmato la prima legge in difesa della razza nella tenuta regia di San Rossore, a Pisa.
Con queste norme la popolazione ebraica fu gradualmente estromessa dai diritti sociali e civili: insegnanti, impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione furono licenziati; gli studenti vennero esclusi dalle scuole e si stabilì il divieto, per tutti gli ebrei, di sposare persone “di razza italiana”. Le leggi impedivano anche agli imprenditori discriminati di possedere aziende con più di 100 dipendenti, oltre che di avere la proprietà di terreni e fabbricati che superavano certe dimensioni. Le leggi razziali, precedute, come contesto culturale, dal Manifesto della Razza, restarono in vigore fino al 1944.
* Il Fatto, 29.10.2018
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel ’38
La Sant’Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della “razza ariana” nei lavori degli allievi di oggi
di Giorgio Meletti (Il Fatto, 29.10.2018)
Giulio Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra all’Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D’Achiardi: “Di famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi sento particolarmente fiero della nomina”. Pochi mesi dopo D’Achiardi lo sospende dall’insegnamento “ai sensi” del Regio Decreto 5 settembre 1938, n. 1390 “sulla difesa della razza”. Racah si crede fiorentino ma il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi e Wolfgang Pauli.
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica degli atenei: “Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né l’insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata”.
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un fermo no: “Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939”.
La memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore Sant’Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli studenti della Sant’Anna e della Normale di studiare la storia dei venti professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: “I protagonisti ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza”. Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie indagini anziché da un professore. E riproponendo - in una intensa giornata di studio voluta dalle tre Università pisane - il variopinto mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero Sraffa (l’amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta aria: “Oggi, o si è ebrei, o non lo si è - non c’è via di mezzo”. Primo Levi ha consolidato il concetto: “Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera”.
Naftoli Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di medicina legale, se l’è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di Gomel (nell’attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all’Università. Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla loro patria, l’Italia:
Le leggi razziali non sono state solo una questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide Guadagni dell’Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano (Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette in conto l’essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943 viene arrestato dalla polizia di Salò.
All’inaugurazione dell’anno accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller, Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido, compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: “Un ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati dall’insegnamento per motivi razziali”. Furono materialmente allontanati dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che “il Prof. Ciro Ravenna e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si hanno avuto più notizie”. Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c’è scritto “agronomo”. Sulla memoria c’è molto da fare. Siamo solo all’inizio.
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
Alle preoccupazioni del 28enne tedesco già fuggito dal nazismo il professore replicava: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma gli dispiaceva
di G. Me. (Il Fatto, 29.10.2018)
“Carissimo, ho parlato giorni addietro a Gabetti di un valentissimo giovane, il Dott. Cristaller [sic] che accetterebbe volentieri un lettorato tedesco in Italia. (...) È ebreo, ma appoggiatissimo da Heidegger, di cui è allievo”. È il 2 ottobre 1933, mancano cinque anni alle leggi razziali ma - con buona pace del partito “non volevano ma Hitler...” - essere ebreo in Italia è già un dannato problema.
Paul Oskar Kristeller ha 28 anni e ha lasciato la Germania: uno dei primi atti del nazismo è cacciare gli ebrei dall’Università. È un raffinatissimo studioso di filosofia. È ebreo ma bravo. Cinque anni dopo sarà bravo ma ebreo. Il professor Ernesto Codignola segnala il giovane al suo maestro Giovanni Gentile che se lo prende alla Scuola Normale di Pisa, di cui è direttore. Gentile è un fascista della prima ora, ministro dell’Istruzione e artefice della riforma della scuola. Un grande intellettuale che naviga nella dura realtà politica. Non condivide le teorie razziste ma tace. Aderirà alla repubblica di Salò e nel 1944 sarà ucciso da partigiani comunisti.
Kristeller, secchione patologico, a Pisa sembra felice. “Posso constatare, non senza commozione, che il suo paese mi dà un’ospitalità e un aiuto amichevole che mi ha rifiutato la mia propria patria”, scrive a Gentile, ma forse è solo diplomazia. Un collega della Normale, Luigi Baccolo, lo intuisce: “Tutti vedevamo nascere l’alba di una nova epoca, ma solo Kristeller vedeva il sangue di quell’alba”. Si prepara per Kristeller un nuovo esilio, e Laura Grazioli, studentessa di chimica alla Normale, ricostruisce la sequenza drammatica di paura e vigliaccheria.
Gentile incita Kristeller a ottenere la cittadinanza italiana, va a Roma per intercedere presso il Duce che gli dice no. Il 14 luglio 1938, viene pubblicato il Manifesto della razza. Kristeller è angosciato: “Sono parecchio preoccupato per ciò che leggo adesso sui giornali, Vi sarei grato di sentire il vostro parere in proposito”. Il filosofo dell’attualismo minimizza: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma al vicedirettore della Normale Gaetano Chiavacci scrive: “Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller”.
Ad agosto l’editore Sansoni respinge la monografia di Kristeller su Marsilio Ficino perché è arrivato il divieto di pubblicare autori ebrei. Chiavacci pone a Gentile la questione delle teorie razziali: “Dovremo assistervi passivi?”. Gentile risponde con l’attualismo. Il 29 agosto ottiene udienza da Mussolini, gli chiede di chiudere un occhio sul filologo ebreo. Si illude. Scrive trionfante: “Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini”.
Ma arrivano le leggi razziali. L’8 settembre Gentile scrive al Duce: “Eccellenza, nel colloquio che lunedì scorso Vi compiaceste di accordarmi, mi diceste di non toccare a Pisa il Kristeller. Questi invece mi pare ricada sotto il decreto di ieri, che espelle dal Regno tutti gli stranieri di razza ebraica (...). Vi prego vivamente, per mia norma, di farmi sapere se posso o no trattenere, e nel caso positivo in che modo, questo povero diavolo come lettore di lingua tedesca nella Scuola Normale Superiore. Vogliate scusarmi. Vostro Giovanni Gentile”.
Gli risponde il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, pisano: “In relazione alla lettera da Voi diretta al DUCE in data 8 settembre u.s., Vi comunico che, giusta Superiori disposizioni, è stato consentito al Prof. Kristeller, israelita straniero, di risiedere in Italia fino alla scadenza del termine massimo stabilito dal R.D.L. 7.9.1938, n° 1381. Il DUCE, inoltre, ha disposto che al medesimo venga elargita la somma di L. 5000 per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”.
Kristeller va in America. Gentile pensa alla Normale e cerca un docente che lo sostituisca. Scrive a Codignola: “Spero bene che non sia né israelita, né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi diede sempre tanto da fare”.
Kristeller se ne va col suo punto nero a insegnare alla Yale e alla Columbia. Morirà a 94 anni lasciandoci una negazione quasi beffarda dell’attualismo gentiliano: “Il passato resta reale anche dopo che è scomparso dalla scena. È compito dello storico tenerlo vivo e dare giustizia anche a sconfitti e dimenticati”.
Dibattito
Una pagina di storia spesso ignorata poichè dimostrava l’adesione del popolo italiano al fascismo. Ecco perché a ottant’anni di distanza sono ancora diversi i nodi da sciogliere
Ancora aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani Quale fu la diffusione dell’antisemitismo negli anni di propaganda antiebraica
LEGGI RAZZIALI. La memoria negata
di ANNA FOA (Avvenire, 23.10.2018)
Ottant’anni fa, il regime fascista emanava quelle che sono passate alla storia con il nome di leggi razziali, anche se sarebbe preferibile definirle “leggi razziste”.
L’annuncio ufficiale fu dato dal duce stesso a Trieste il 18 settembre 1938, nella piazza dell’Unità d’Italia, affollatissima e plaudente. Il 5 agosto di quell’anno era uscito il primo numero de La difesa della razza, la rivista razzista ad amplissima diffusione diretta da Telesio Interlandi, con un giovane Giorgio Almirante come segretario di redazione. La rivista scriveva in apertura: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. [...] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofi che o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano nordico».
Nel luglio, il Manifesto della Razza, firmato da un certo numero di scienziati ma opera in gran parte dello stesso Mussolini, aveva gettato le basi teorichedi questa svolta.Cominciava l’emanazione delle leggi di discriminazione contro gli ebrei. Il primo settore a essere colpito fu quello della scuola, già all’inizio di settembre, con l’espulsione di studenti e docenti dalle scuole di ogni ordine e grado. Seguirono i provvedimenti contro gli ebrei stranieri: la perdita della cittadinanza italiana per chi l’avesse acquisita dopo il 1919, l’espulsione. Nel 1940, con l’entrata in guerra, gli ebrei stranieri sarebbero stati rinchiusi in campi di internamento appositamente creati. In un susseguirsi di leggi, norme e disposizioni successive, la perdita da parte degli ebrei dei diritti conquistati con l’Emancipazione era sancita per legge. Altre disposizioni non avevano riscontro nel periodo pre-emancipatorio, come il divieto di matrimonio tra “ariani” ed ebrei, sia pur convertiti. Ottant’anni fa, quindi. Oggi ce ne ricordiamo e celebriamo questo anniversario non solo come l’inizio delle sciagure del mondo ebraico italiano, ma come la distruzione definitiva da parte del fascismo dell’Italia nata dal Risorgimento e fondata sull’uguaglianza dei suoi cittadini. Un problema dell’Italia tutta, quindi, e non degli ebrei soltanto.
Ma quanto e come ce ne siamo ricordati in questi ottant’anni? In realtà, la memoria delle leggi del 1938 non ha seguito lo stesso percorso di quella della Shoah. Se quest’ultima ha avuto anch’essa delle difficoltà a costruirsi e ad affermarsi, almeno per i primi quindici anni dopo il 1945, quella delle leggi del 1938 è ancora più tarda. Solo dopo cinquant’anni, nel 1988, si moltiplicano gli studi sulle leggi razziali, sul loro contenuto, sul contesto in cui sono state emanate, sulla loro messa in atto. -Le ragioni di questo ritardo sono diverse. Innanzitutto, il confronto con la Shoah: è evidente che la persecuzione dei diritti, così è stato chiamato il periodo tra il 1938 e il 1943, e quella delle vite, con l’arresto, la deportazione e i campi di sterminio, sono entità incommensurabili. Auschwitz non è paragonabile alla perdita del posto di lavoro e nemmeno, per quanto traumatica sia stata, alla cacciata dei bambini ebrei dalle scuole. Solo più tardi si è arrivati achiarire il ruolo fondamentale che avrà il censimento degli ebrei del 1938, deciso dal regime contemporaneamente al varo delle leggi, per l’avvio dell’individuazione degli ebrei, del loro arresto, della loro deportazione.
Le liste create nel 1938 e periodicamente aggiornate, presenti in questure e prefetture, sono servite dopo il settembre 1943 ai nazisti per rintracciare e arrestare gli ebrei. Durante l’intermezzo del governo Badoglio, nessuno ha ordinato agli uffici di distruggerle o almeno di nasconderle. Solo alcuni funzionari lo hanno fatto, spontaneamente e a loro rischio e pericolo. La persecuzione dei diritti, tanto meno grave di quella delle vite, poteva quindi, nel dopoguerra, anche essere considerata di secondaria importanza.
Inoltre, il ricordo delle leggi del 1938 metteva in discussione l’immagine prevalente nel dopoguerra e oltre di un’Italia ligia al fascismo per paura o conformismo, non per convinzione, in cui i delitti di sangue, gli stermini e i massacri erano stati opera non dei fascisti ma dei nazisti. Dare troppa enfasi alle leggi del 1938 voleva dire introdurre l’idea del consenso al fascismo, un’idea che per essere pienamente accettata nell’Italia repubblicana ha dovuto passare attraverso vie strette e affrontare numerose contraddizioni. Non ultima quella del primo sostenitore dell’ampio consenso italiano al fascismo, Renzo De Felice, che ha minimizzato invece le leggi razziali e soprattutto la loro esecuzione, mentre eraquello un nodo che se affrontato avrebbe potuto consolidare l’immagine del consenso italiano al fascismo. Un consenso, certo, gravido di responsabilità e di colpe.
Poi, il problema di spiegare una svolta effettivamente poco comprensibile, il passaggio del fascismo all’antisemitismo. In un primo momento, uno dei temi affrontati è stato proprio questo: perché Mussolini ha emanato le leggi del 1938? Provata l’inesistenza di una richiesta di Hitler al suo alleato italiano, non si poteva che ricorrere a spiegazioni più generali: il razzismo portato dalla guerra d’Etiopia, la convinzione di Mussolini che il razzismo hitleriano e l’esaltazione della razza ariana rappresentassero l’accesso alla modernità, al nuovo mondo vittorioso prospettato da Hitler. Molto si è discusso anche del ruolo giocato dal dittatore: era personalmente antisemita? Questioni marginali, credo, di fronte alla firma del duce, accanto a quella del re in fondo al decreto di istituzione delle leggi razziste.
Di qui, il dibattito, tuttora vivo, sulla data d’inizio della politica razziale del fascismo: il 1938? Il 1937 o il 1936? O addirittura il 1929, con il Concordato con la Chiesa? Credo sia necessario mantenere il fuoco dell’attenzione non su sporadici casi di antisemitismo ma sulla preparazione e la messa a punto della legislazione antisemita vera e propria, cioè sul 1937. Un altro dei temi maggiormente all’attenzione tanto della storiografia che del pubblico è stato quello della reazione della Chiesa all’emanazione della legislazione razziale. Una reazione che fu concentrata soprattutto sulla questione dei matrimoni misti, senza che nemmeno su questo punto la Chiesa riuscisse però a ottenere alcun risultato rilevante. Nonostante compromessi e ambiguità, il conflitto tra razzismo e Chiesa fu radicale. Fra l’altro, fra il 1938 e il 1943, in seguito al prevalere dell’ideologia della razza, la tradizionale politica cattolica volta a favorire le conversioni finì per essere attaccata dall’ala più estrema del fascismo come un tentativo ebraico di minare dall’interno la compattezza della razza italica (..).
Quella che ancora resta aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani. Quale fu la diffusione dell’antisemitismo nei sette anni di martellante propaganda antiebraica lanciata dallo Stato fascista? Si è parlato di indifferenza, e poi, nel 1943, di trasformazione, in molti casi, dell’indifferenza in pietà e sostegno. Ma quanti invece accolsero le leggi non con indifferenza ma con convinzione e fervore e passarono senza contraddizioni dal razzismo indotto dalla propaganda alla caccia concreta all’ebreo lanciata dalla Rsi? Non abbiamo molte fonti a documentare questa questione, anche perché nel dopoguerra razzismo e antisemitismo sono divenuti e restati a lungo tabù. Ora questo tabù si è assai indebolito, e il razzismo non è più un’ideologia da nascondere e viene proclamato da molti a voce sempre più alta, anche se, per ora, non ancora contro gli ebrei. Sarebbe forse il caso che noi storici ci occupassimo di analizzare più a fondo il modo in cui il veleno delle leggi del 1938 si è diffuso nell’animo degli italiani e i suoi guasti di lungo periodo. Non solo per illuminare il passato, ma anche per capire il presente.
Per non dimenticare.
Viaggio nell’Italia delle leggi razziali
di Roberto I. Zanini (Avvenire, martedì 23 ottobre 2018)
«Vagoni merci chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla». La citazione è di Primo Levi, da Se questo è un uomo. Nella mostra multimediale voluta dal presidente Sergio Mattarella in alcune sale del Quirinale è pronunciata dalla voce narrante dell’attore Francesco Pannofino. Sottolinea uno dei passaggi più intensi: quello che il visitatore vive dall’interno di un vagone riscostruito con i piedi collocati su binari che vanno idealmente a collegarsi alla strada ferrata proiettata sulla parete in un video d’epoca, che conduce nel campo di Auschwitz attraverso il cancello principale.
Stiamo parlando di “1938: l’umanità negata. Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz”, mostra inaugurata ieri pomeriggio dal capo dello Stato alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che resterà aperta fino al 27 gennaio, Giorno della memoria.
Una mostra storica che utilizza con efficacia le moderne tecniche multimediali di ’realtà aumentata’. Ideata, scritta e curata da Giovanni Grasso e dal fisico Paco Lanciano (lui preferisce parlare di «realtà emotivamente orientata »), noto al grande pubblico per i suoi interventi scientifici a SuperQuark e autore di tutte le ricostruzioni ’virtuali’ delle trasmissioni di Piero Angela, è finanziata dal Miur e si avvale della collaborazione del Memoriale della Shoah di Milano, di Rai Storia, Istituto Luce e Treccani.
Un’iniziativa che, come hanno spiegato gli autori, è soprattutto diretta ai giovani e alle classi scolastiche con l’idea di offrire loro un’efficace ricostruzione, facendo anche intuire emotivamente il contesto di ’normalità’, sempre riproponibile, in cui si sono collocati quei fatti. Lo spunto è ancora una citazione di Levi da Se questo è un uomo: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre».
Ecco allora la suggestione del treno merci che entra fra le baracche di Auschwitz, ma soprattutto ecco la soluzione narrativa costruita sulla vita di due famiglie italiane, una ebrea e l’altra cattolica, delle quali sono giunte fino a noi le pellicole con le quali i due padri (Francesco cattolico, Bruno ebreo) hanno realmente documentato le ’quotidiane vite di normalità’ nella Roma fra gli anni Venti e Trenta: le mogli Giovanna e Sara, i figli Paolo, Anna e Daniele, il lavoro, la scuola... Un po’ come succederebbe oggi con le foto e i video fatti col telefonino, ma in bianco e nero.
Una storia che nella prima sala della mostra inizia con proiezioni su schermi che avvolgono il visitatore. E le prime immagini sono quelle che documentano le colonne di giovani soldati che vanno verso il fronte il 24 maggio 1915. Ragazzi da tutta Italia, cattolici, ebrei, protestanti, atei, che combattono per tre anni fianco a fianco e fraternizzano. Nel sangue e nel dolore di quelle trincee, si è sempre detto, si è costruita l’unità d’Italia.
E fra quei ragazzi in marcia, ripresi di spalle, la ricostruzione di Grasso e Lanciano estrae i volti di due che, casualmente si girano verso la macchina da presa. Sono loro i nostri Francesco e Bruno.
Due italiani fra tanti. Due italiani che dopo il 4 novembre 1918 tornano a casa e negli anni che seguono sono impegnati nella ricostruzione del Paese, due italiani che dopo la Marcia su Roma, come quasi tutti, diventano fascisti senza rendersi conto fino in fondo di quanto accade davvero in Italia e in Europa.
Due italiani dalle vite pressoché parallele, ma che dal 1938 in poi divergono spaventosamente così che Francesco e Bruno diventano nemici in forza di legge con la sequenza crescente fra settembre e novembre delle cosiddette leggi razziali. Poi ancora una guerra, l’armistizio, il rastrellamento nel ghetto di Roma dove vengono presi anche Bruno e la sua famiglia. La mostra racconta, facendola rivivere immersivamente, una sequenza di fatti che per quelle due famiglie ebbe un epilogo del tutto inatteso e che ancora oggi si stenta a crederlo come razionalmente possibile. «Le azioni compiute erano mostruose ma chi le compì era pressoché normale», scrisse a riguardo Hannah Arendt. E non mancano, con i filmati autentici, suggestivi documenti storici e prima pagine di giornale che collocano quelle vicende nel tempo e nello spazio raccontando, come ha detto Mattarella, «una lezione terribile» che invita a essere sempre vigili di fronte ai «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo presenti nelle nostre società e in tante parti del mondo».
A chiudere il percorso, nell’ultima sala, una delle tre copie autentiche della Costituzione italiana con le firme, in data 27 dicembre 1947, di Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini; quella spesso sottostimata conquista politica e sociale che all’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel 2019 è previsto che la mostra diventi itinerante, poi dovrebbe trovare una collocazione definitiva. Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, ’Binario 21’, ha spiegato a riguardo che si spera in una sistemazione definitiva in locali limitrofi alla Fondazione.
Il libro, l’elenco
E lo Stato si piegò alla razza
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
Memoria. Ottant’anni dopo, un libro di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo con l’elenco delle persone cacciate (il Mulino)
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.10.2018)
Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così... Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità. Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno, scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo “in folio” sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine - molte pagine, talvolta, per intero - sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”, “Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata (...) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell’Interno il 5 settembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d’Italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione, corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino...» senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
Il registro , scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato. (...) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai “liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì» .
Fascismo razzista
Il giorno che gli ebrei scoprirono di essere nemici degli italiani
di Alberto Sinigaglia (La Stampa, 15.09.2018)
Il 18 settembre 1938 a Trieste Mussolini tenne un discorso tremendo contro gli ebrei. Per la prima volta giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re Vittorio Emanuele III aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio sinistro al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana», estremo frutto del «manifesto» dei dieci scienziati pubblicato il 14 luglio sul Giornale d’Italia.
Il duce calcolò il momento, il luogo, le parole. Avvertì importanti giornali stranieri. Scelse la città più internazionale, prossima a confini incandescenti: l’Austria invasa dal Reich, la Cecoslovacchia in pericolo, a giorni la Conferenza di Monaco. Scelse la terza comunità ebraica dopo quelle di Roma e di Milano, che contava ebrei fascisti e irredentisti. Andò a gridargli in faccia che l’ebraismo era «un nemico irreconciliabile», che si decideva per loro una «politica di separazione».
Le «soluzioni necessarie» non sarebbero tardate: via dai libri di testo quelli scritti o curati da ebrei; via i bambini dalle scuole pubbliche e gli studenti dalle università; via i padri, le madri e i nonni dalle cattedre accademiche, dai giornali, da assicurazioni, banche, notai, pubblico impiego; spogliati della divisa coloro che avevano combattuto per l’Italia e ancora la servivano in armi; vietati i matrimoni con ariani.
Il capo del fascismo lanciò due precisi messaggi a chi lo considerava emulo di Hitler e a chi difendeva gli ebrei: «Sono poveri deficienti» quanti credono «che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o, peggio, a suggestioni»; «il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di oltre frontiera (...) e i loro improvvisati amici (...) non ci costringano a mutare radicalmente cammino».
Un operatore cinematografico ufficiale filmò tutto. Paolo Gobetti alla fine degli Anni 70 avrebbe acquistato la pellicola da un collezionista per l’Archivio storico della Resistenza da lui fondato con Franco Antonicelli a Torino. Vi si vede e ascolta il solito Mussolini tonitruante quella mattina in una Piazza Unità d’Italia imbandierata a festa e gremita di popolo, che acconsentiva, applaudiva, urlando di entusiasmo e invocando il suo nome. Dal punto di vista della propaganda fascista, un risultato perfetto: i termini, il tono, l’attore, la scena.
Perché il cinegiornale dell’Istituto Luce mostrò soltanto l’inizio del discorso e poco più? Fu il regime a censurarlo? E per quale strategia il dittatore, pur tornando spesso al tema razziale, non dedicò agli ebrei altri discorsi di quella forza, anzi evitò di nominarli?
Il silenzio di Mussolini li ingannò: furono in molti a illudersi, a non cercare riparo oltreoceano, a non poter immaginare che, comunque cittadini italiani, da altri italiani sarebbero stati consegnati ai nazisti e avviati ai Lager. Poiché quel destino fu segnato dal «discorso di Trieste», il Polo del ’900 e l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte hanno pensato che ad aprire le manifestazioni torinesi in memoria delle leggi razziali nulla fosse più efficace di quelle immagini e di quel sonoro: un grumo di odio, disprezzo e «chiara, severa coscienza razziale», certo inattuale, ma salutare alla memoria.
“Occorre una coscienza razziale per stabilire non solo differenze ma superiorità nettissime”
di Benito Mussolini (La Stampa, 15.09.2018)
È questa, o Triestini e Triestine, la quarta volta che ho la ventura, l’onore e la gioia di rivolgervi la parola. La prima fu nel dicembre del 1918, quando nell’aria della vostra città e nelle vostre anime c’era ancora, visibile e sensibile, la vibrazione del grande evento che si era compiuto con la Vittoria. [...]. Dopo molti anni torno fra voi e sin dal primo sguardo ho potuto riconoscere il grande, il poderoso balzo innanzi compiuto dalla vostra, dalla nostra Trieste.
Non sono venuto tra voi per rialzare il vostro morale, così come gli stilopennivori d’oltre monte e d’oltre mare hanno scioccamente stampato. Non ne avete bisogno, perché il vostro morale fu sempre altissimo. (...) Sono venuto per vedere ciò che avete fatto e per vedere altresì come sia possibile di bruciare rapidamente le tappe per giungere alla mèta. Sono venuto per ascoltarvi e per parlarvi. (...)
Triestini!
Vi sono dei momenti nella vita dei popoli in cui gli uomini che li dirigono non devono declinare le loro responsabilità, ma devono fieramente assumerle in pieno. Quello che sto per dirvi non è soltanto dettato dalla politica dell’Asse Roma-Berlino, che trova le sue giustificazioni storiche contingenti, né soltanto dal sentimento di amicizia che ci lega ai Magiari, ai Polacchi e alle altre nazionalità di quello che si può chiamare lo Stato mosaico numero due. Quello che sto per dirvi è dettato da un senso di coscienza che vorrei chiamare, più che italiano, europeo.
Quando i problemi posti dalla storia sono giunti ad un grado di complicazione tormentosa, la soluzione che si impone è la più semplice, la più logica, la più radicale, quella che noi Fascisti chiamiamo totalitaria. Nei confronti del problema che agita in questo momento l’Europa la soluzione ha un nome solo: Plebisciti. Plebisciti per tutte le nazionalità che li domandano, per le nazionalità che furono costrette in quella che volle essere la grande Cekoslovacchia e che oggi rivela la sua inconsistenza organica. Ma un’altra cosa va detta: ed è che, ad un certo momento, gli eventi assumono il moto vorticoso della valanga, per cui occorre far presto, se si vogliono evitare disordini e complicazioni. Questo bisogno del far presto deve essere stato sentito dal Primo Ministro britannico, il quale si è spostato da Londra a Monaco, messaggero volante della pace, perché ogni ritardo non affretta la soluzione, ma determina l’urto fatale. Questa soluzione sta già, malgrado la campagna di Mosca, penetrando nel cuore dei popoli europei.
Noi ci auguriamo che in queste ultime ore si raggiunga una soluzione pacifica. Noi ci auguriamo altresì che, se questo non è possibile, il conflitto eventuale sia limitato e circoscritto. Ma se questo non avvenisse e si determinasse, pro o contro Praga, uno schieramento di carattere universale, il posto dell’Italia è già scelto.
Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. IL perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto.
L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili, nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati ed inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino. [...]
Ma per noi Fascisti la fonte di tutte le cose è l’eterna forza dello spirito, ed è per questo che rivendico a me il privilegio di realizzare quello che fu l’ideale bisecolare della vostra città, l’Università completa nei prossimi anni. Padova, che fu per secoli il solo Ateneo delle genti venete, nel suo vigilante patriottismo comprende, e sarà Padova che offrirà il gonfalone alla neoConsorella giuliana.
Triestini e Triestine!
Dopo quanto vi ho detto io vi domando: C’è uno solo fra voi di sangue e di anima italiana che possa per un solo istante dubitare dell’avvenire della vostra città unita sotto il simbolo del Littorio, che vuol dire audacia, tenacia, espansione e potenza? Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No, Roma è qui. È qui sul vostro Colle e sul vostro Mare; è qui nei secoli che furono e in quelli che saranno; qui, con le sue leggi, con le sue armi, e col suo Re.
Mai prima tanta violenza e livore in un proclama
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa 15.09.2018)
L’odio si crea, l’odio si insegna. A Trieste, davanti una folla immensa, Mussolini attacca per la prima volta apertamente gli ebrei italiani e «l’ebraismo internazionale». Fino a quel momento, le sue rare uscite sul tema dell’antisemitismo e del razzismo sono state dichiaratamente critiche. In un discorso del 1934, ha addirittura schernito «talune dottrine d’oltralpe» riferendosi al razzismo nazista. La svolta del regime è cominciata già dal 1937, con l’inizio della campagna di stampa antiebraica. Ma è a Trieste che Mussolini si espone personalmente con un discorso che è un violentissimo attacco, ma anche un capolavoro retorico.
Per la prima volta, «l’ebraismo mondiale» viene indicato come «un nemico inconciliabile» del fascismo. Per la prima volta l’opinione pubblica italiana scopre di avere un nemico.È un passo importantissimo, fondamentale: fino al 1938, nonostante la campagna di stampa partita l’anno precedente, gli ebrei sono stati insultati ed attaccati, anche in maniera pesante, ma mai con questa virulenza e livore, e soprattutto mai da figure di primo piano del regime.
Inoltre Mussolini qui non spiega in alcun modo perché gli ebrei sono dei nemici e suggerisce, invece, che il regime è «costretto» a difendersi da un nemico pericoloso e aggressivo. Il fascismo è giusto e generoso, ma nonostante ciò è attaccato dall’interno (gli ebrei italiani) e dall’esterno (l’ebraismo internazionale).
Come tutte le dittature, il fascismo ha bisogno di presentare al «popolo» dei «nemici» contro i quali mobilitarsi, e le conseguenze funeste di questa politica si vedranno durante l’occupazione nazista, quando i fascisti più radicali aiuteranno le SS nelle deportazioni. Il percorso dell’esclusione e della persecuzione, e la retorica dell’odio contro il «nemico» ebreo, voluto da Mussolini con un cinismo rivoltante, comincia da questo discorso.
I giudici e “le leggi abominevoli”, molti grigi esecutori e pochi eroi
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa, 15.09.2018)
Il ruolo dei giudici nell’applicazione della legislazione razzista è scandagliato nel volume «Razza e inGiustizia», meritoriamente pubblicato dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consiglio nazionale forense in collaborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e presentato ieri in Senato.
Dal 1923 il fascismo aveva limitato l’indipendenza dei magistrati, degradandoli a «funzionari»: il governo ne decideva promozioni e trasferimenti; nominando i capi delle corti, influiva sulle sentenze. Ai giudici di rango inferiore erano imposti camicia nera e saluto fascista. Chi dimostrava «atteggiamenti incompatibili con le generali direttive politiche del governo» era dispensato dal servizio. I reati politici erano sottratti alla magistratura e devoluti a un tribunale speciale. Il Csm era non era più eletto dai giudici, ma designato dal potere esecutivo e ridotto a organo consultivo del ministro. Nel 1941 la tessera del partito sarebbe diventata requisito per l’esercizio della professione.
In questo contesto, non stupisce che il 17 novembre 1938, quando Vittorio Emanuele III firmò il regio decreto 1728 che poneva le basi giuridiche della discriminazione cancellando il principio di eguaglianza tra i «regnicoli» sancito dall’articolo 24 dello Statuto albertino, il contagio nel mondo giuridico fosse già diffuso. Alti magistrati, avvocati di fama e accademici di prestigio contribuivano alla rivista «Il diritto razzista». In generale, la magistratura si adeguò. Prevalse - chi per paura, chi per viltà - la zona grigia, l’ossequio formale a quelle che Calamandrei definì «leggi abominevoli».
I venti magistrati che aderirono fieramente al razzismo antiebraico furono posti al vertice della piramide giudiziaria, salvo riciclarsi in ranghi ancor più elevati dopo la Liberazione. Gli ebrei erano sfiduciati. Fino al 1943 solo 60 fecero ricorso contro provvedimenti discriminatori.
Ma ci fu una parte dei giudici che invece praticò, sotto diverse forme, una resistenza. L’epurazione di 18 magistrati ebrei fu immediata, all’insegna della «purezza razziale dell’intero apparato».
Una forma di resistenza fu quella di chi cercò di limitare, quando non di vanificare, gli effetti delle leggi razziali con una puntigliosa, creativa e cavillosa interpretazione del proprio ruolo. Scrive Giovanni Canzio, ex presidente della Cassazione: «Mentre in Germania i giudici applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia almeno una parte dei giudici interpretava analoghe norme rifacendosi ai principi generali dell’ordinamento, sì da interporre un qualche argine di legalità formale al controllo assoluto messo in atto dal regime».
L’articolo 26 del regio decreto del 1938 attribuiva la competenza esclusiva e insindacabile in materia al ministro dell’Interno, che era lo stesso Mussolini; una legge del 1939 istituiva commissioni speciali, i cosiddetti «tribunali della razza» affidati ad alti magistrati fascistizzati e quindi sostanzialmente emanazione del regime.
Nonostante ciò, alcuni magistrati civili e amministrativi si ritagliarono un ruolo, operando una distinzione: al ministro la decisione «in merito a chi fosse ebreo», ai giudici quella sul godimento dei diritti civili e politici e sullo stato delle persone. Un campo assai vasto: dal lavoro alla famiglia, dal patrimonio all’impresa. Per altro verso, si sostenne un’applicazione restrittiva di leggi considerate eccezionali e si rigettò l’idea, all’epoca (solo?) diffusa, di interpretare il diritto «alla luce del comune sentimento popolare».
La dottrina più autorevole e illuminata - Calamandrei, Galante Garrone, Jemolo - teorizzò il carattere politico, più che la portata giuridica, delle leggi razziali, spiegando che «il concetto di razza è estraneo all’ordinamento italiano». Nel 1939, in una causa in materia di filiazione, la Corte d’appello di Torino (presidente Domenico Riccardo Peretti Griva) rivendicava la propria competenza «a conoscere dell’appartenenza a razza determinata» di un cittadino quando necessario a determinare i limiti della capacità giuridica.
La parte della magistratura schierata col regime non tacque. Giulio Ricci, primo presidente della Corte torinese, contestò l’orientamento con due circolari, che denunciavano l’elusione delle disciplina discriminatoria e paventavano responsabilità dei magistrati fuori linea. Ma Consiglio di Stato e Cassazione difesero i giudici dissidenti, motivando che le deroghe all’autonomia della giurisdizione non potessero essere oggetto di interpretazione estensiva.
I giudici amministrativi annullarono la revoca del nulla osta all’iscrizione universitaria disposta dal ministro degli Esteri nei confronti di un tedesco di origine ebraica. La Corte dei conti restituì la pensione a un’anziana signora. Fu, quello giudiziario, un eroismo sottile e cocciuto che va ricordato. E coltivato.
Non solo gli ebrei. Così morì lo Stato
Commento di Anna Foa (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Nell’autunno 1938 il regime fascista emanò una serie di leggi, le cosiddette "leggi razziali", seguite da ulteriori circolari e disposizioni, che introducevano radicali discriminazioni fra i cosiddetti appartenenti alla "razza ariana" e i non ariani, in particolare gli ebrei. All’epoca, gli ebrei presenti in Italia erano 47.000, di cui 10.000 circa stranieri. Un ebreo ogni mille "ariani", quindi.
Le leggi razziali si abbatterono come un fulmine a ciel sereno sul mondo ebraico italiano, partecipe in larga misura del consenso generale al regime fascista. Le mille disposizioni con cui le leggi colpivano gli ebrei erano inaspettate, anche se fra il 1936 e il 1937 non erano mancate avvisaglie di una possibile svolta razzista, e se il sempre più stretto avvicinamento alla Germania hitleriana appariva a molti preoccupante.
Anche dopo l’emanazione delle leggi, però, il mondo ebraico italiano non ebbe piena consapevolezza della portata della catastrofe. Prevalse l’idea che poco a poco tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, mentre molti tentavano la strada delle domande di "discriminazione" per meriti fascisti o altro, ossia l’esenzione individuale dalle norme razziste, per lo più respinte dal regime e che comunque non sarebbero riuscite più tardi ad evitare la deportazione dei "discriminati". Anche tra gli antifascisti, tranne poche voci, scarsa fu la consapevolezza della gravità di quanto accaduto. Il mondo stava precipitando verso la catastrofe e le leggi razziste furono generalmente sottovalutate anche dagli oppositori del regime. Fra gli "ariani" pochissimi reagirono.
Certo, c’era una dittatura che già si era sbarazzata dei suoi oppositori col carcere, l’esilio, il confino. Ma i non ebrei fecero tesoro della propaganda razzista diffusa a piene mani dal regime. I professori delle Università furono pronti ad occupare le cattedre liberate dai colleghi ebrei, gli insegnanti cacciarono da scuola gli studenti ebrei senza mostrare rammarico, un trauma rimasto nella memoria di quei bambini a tutt’oggi. Chi continuava a avere rapporti con gli ebrei era definito "pietista".
Nessuno allora comprese che con queste leggi era definitivamente morto lo Stato creato dal Risorgimento. Che la ferita più grande le leggi l’avevano inferta non agli ebrei, ma all’Italia.
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Il campo di internamento di Ferramonti presso Tarsia (Cosenza) fu inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940
di Mirella Serri (La Stampa, 28.08.2018)
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni.
La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei... significa la loro condanna a morte».
Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta:
tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud.
Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei».
Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.
La Shoah fu anche un enorme affare economico, che portò sollievo ai conti della Germania nazista
La memoria dei beni razziati
di Elena Pirazzoli
L’annientamento degli ebrei d’Europa da parte nazista fu, per molti aspetti, anche un affare economico. In Germania, l’esproprio delle loro case garantì il ricollocamento di diversi cittadini tedeschi, i loro posti di lavoro vennero occupati da altri, le loro aziende furono statalizzate o vendute al miglior offerente. Alcuni anni fa una commissione di storici tedeschi pubblicò uno studio che mostrava come tra il 1933 e il 1945 il ministero dell’Economia sia stato parte attiva del processo di annientamento, dal lato finanziario, degli ebrei: inizialmente attraverso la tassazione, poi con la vendita dei beni depredati dopo la deportazione dei loro legittimi proprietari, fu possibile raccogliere denaro per coprire almeno il 30% delle spese di guerra tedesche. Il saccheggio dei beni ebraici non fu quindi un mero corollario della Shoah, ma un processo sistematico ad essa connesso.
Per molto tempo è stato noto soprattutto il caso delle opere d’arte, sequestrate per andare ad arricchire la collezione di Hermann Göring o la raccolta selezionata dalla Sonderauftrag Linz, la Commissione speciale Linz istituita per individuare dipinti e sculture che avrebbero dovuto fare parte del Führermuseum, il museo che Hitler voleva realizzare nella città della propria giovinezza.
Dopo la guerra, il recupero di questi beni è stato, ed è tuttora, molto difficile: di molti si sono perse le tracce, altri, come nel noto caso del ritratto di Adele Bloch Bauer dipinto da Gustav Klimt, sono stati oggetto di contenziosi legali.
Esistono diversi progetti che tentano di ritrovare le opere spoliate, come nel caso dei dipinti confiscati dalla Sonderauftrag Linz censiti dal Deutsches Historisches Museum, o vere e proprie iniziative governative come la German Lost Art Foundation, creata in Germania nel 2015 per cercare e identificare i beni sequestrati dal regime nazista in modo da assistere gli eredi dei legittimi proprietari.
Ma quello che forse colpisce maggiormente è il fatto che l’ossessione nazista per i beni ebraici non si limitasse ai dipinti, le sculture, gli oggetti di valore: con un approccio patologico al concetto di funzionalità, vennero create delle divisioni con il compito di espropriare e inventariare tutti gli oggetti appartenenti agli ebrei avviati alla deportazione. Con lo scoppio della guerra venne creato il Commando Rosenberg, che mise in atto la spoliazione sistematica dei beni degli ebrei nei Paesi occupati, in particolare in Francia. Nei suoi depositi parigini presso la Gare d’Austerlitz venne catalogato tutto in modo minuzioso, suddividendo le tipologie degli oggetti prelevati (stoviglie, mobili, porcellane, tappeti, pianoforti, libri...).
Nel romanzo Austerlitz di W.G. Sebald (Adelphi, 2002) vengono descritti questi depositi: “E là sotto, nel magazzino Austerlitz-Tolbiac, a partire dal 1942 è venuto accumulandosi tutto ciò che la nostra civiltà ha prodotto per rendere più bella l’esistenza o per semplice uso domestico, a cominciare dai cassettoni Luigi XVI, dalle porcellane di Meißen, dai tappeti persiani e da intere biblioteche per arrivare fino all’ultima saliera e pepaiola”.
Sebald descrive gli oggetti divisi per tipologie, le squadre di internati del campo di Drancy - antiquari, storici dell’arte, restauratori, falegnami, orologiai, pellicciai - condotti lì per sistemare i beni in arrivo e smistarli in base al valore e al genere. E immagina la presenza, negli ambienti di questi grandi magazzini coatti, di “alti gradi delle SS e della Wehrmacht, in compagnia delle consorti o di altre signore, per cercarsi un salotto adatto alla villa di Grunewald, oppure un servizio di Sèvres, una pelliccia o un Pleyel”. Le scene descritte nel romanzo non sono, tuttavia, invenzione narrativa, ma corrispondono alla realtà, come mostra un album fotografico conservato presso il Bundesarchiv, che documenta la “Möbel-Aktion”, l’operazione di sequestro e inventario di mobili, letti, biancheria, scarpe, giocattoli e suppellettili domestiche intrapresa dall’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg a Parigi, tra il 1942 e il 1943.
Nell’estate 2017 il piccolo album è stato esposto alla 14. edizione di documenta a Kassel, all’interno del progetto dell’artista tedesca Maria Eichhorn, che da diversi anni lavora sugli oggetti razziati dai nazisti agli ebrei, arrivando addirittura a fondare il un istituto di ricerca dedicato a Rose Valland, la storica dell’arte e membro della resistenza francese che salvò moltissime opere delle collezioni nazionali e private di Francia.
Lo spazio centrale della sala dedicata al lavoro di Maria Eichhorn a documenta era occupato da una torre di libri: volumi conservati nella Zentral- und Landesbibliothek di Berlino, tutti inventariati con un numero progressivo e una J. La J di Jude, “ebreo”. Si tratta di 2.000 degli oltre 40.000 libri comuni (quelli di pregio avevano altre destinazioni) prelevati dalle biblioteche private degli ebrei “evacuati”, tipico eufemismo della burocrazia nazista. E con un nuovo eufemismo, nel dopoguerra vennero rubricati come Geschenke, donazioni, quando invece erano frutto della spoliazione sistematica di ogni bene degli ebrei della città. Nulla si fece per cercare di restituirli.
A partire da dediche ed ex libris, Maria Eichhorn, insieme al personale della biblioteca, sta cercando ora di risalire ai legittimi proprietari o ai loro eredi ma, laddove anche si riescono a ritrovare i nomi di queste persone, il loro destino è quasi sempre lo stesso: la morte nei campi di sterminio.
[Immagine: Maria Eichhorn, Unlawfully Acquired Books from Jewish Ownership - Unlawfully acquired books from Jewish ownership by the Berliner Stadtbibliothek in 1943, registered in Zugangsbuch J (accession book J)]
* Il Mulino, 29 Gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Shoah, i nodi tra passato e presente
Tempi presenti. Riflessioni intorno al senso della Giornata della Memoria, tra ritualizzazione mediatica e il baratro dell’oblio alle porte
di Lia Tagliacozzo (il manifesto, 25.01.2018)
È il diciassettesimo anno di celebrazione del giorno della memoria: giornata deputata al ricordo di quando, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz. La strage degli ebrei e degli altri rinchiusi in quei campi non si fermò quel giorno: per porre fine alla strage bisognò arrivare alla primavera. E qualche mese dopo, solo ad estate inoltrata, arrivò anche la fine del secondo conflitto mondiale.
Se quel 27 gennaio del 1945 sul territorio italiano non accadde una vicenda assurta a data pubblica il 27 gennaio è comunque il giorno scelto dal Parlamento per ricordare «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
UN VENTAGLIO AMPIO di eventi e di soggetti da ricordare ma così recita la legge istitutiva. Delle leggi razziali ricorre quest’anno l’ottantesimo dalla promulgazione: volute dal fascismo e controfirmate da Vittorio Emanuele di Savoia la cui salma è di recente tornata in Italia accompagnata da accese polemiche. Eppure quest’anno, più che i precedenti, sembra che passato e presente si intreccino in un’ignoranza immemore e arrogante. Il discorso pubblico sembra, sempre più spesso, abdicare a valori che si presumevano condivisi. È proprio l’intreccio tra parole del passato e nodi del presente che inquieta: come se un argine sia venuto meno e il razzismo sia diventato moneta corrente e legittima che tracima dagli stadi alla politica, dai social al linguaggio corrente. C’è da aver paura.
Una posizione molto ferma viene però dalla neo senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbrueck: «Chi mi ha nominato si aspetta che io prosegua la mia missione di testimone - ha affermato nelle sue prime dichiarazioni - in un tempo, questo, in cui il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono ignote, senza un nome, così come sono stati quelli che ho visto io andare al gas».
Questo non significa, ovviamente, che il Mediterraneo dei barconi e dei migranti si sia trasformato in una nuova Auschwitz, ma che quelle morti di sconosciuti anonimi ci riguardano come negli anni del nazismo e del fascismo al potere avrebbero dovuto riguardare i concittadini di allora le morti degli ebrei, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, dei portatori di handicap, degli oppositori politici. E il nodo tra passato e presente si stringe ancora perché, come un’ eco alle parole di Liliana Segre, a Milano è stata vandalizzata un’altra pietra della memoria: uno di quei piccoli sanpietrini dorati posti dall’artista tedesco Günter Demnig di fronte alla casa da cui le persone sono state deportate e che ne reca inciso il nome, la data di nascita e, quasi sempre, quella di morte.
Una «pietra di inciampo», in cui ciò che inciampa è, dovrebbe essere, l’attenzione di una cittadinanza consapevole. Invece anche le parole pubbliche perdono la memoria: Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla Regione Lombardia, non si è vergognato mentre inneggiava alla «razza bianca». Lo stesso candidato, dopo aver azzardato scuse poco sostenibili, ha aggiunto: «La razza bianca? Mi ha portato fama e consensi». Un’enormità a cui pure è possibile credere. E con la quale sarà necessario misurarsi ad elezioni avvenute.
L’articolo 2 della Legge istitutiva prosegue: «In occasione del Giorno della Memoria sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado».
L’INTERO MONDO della scuola, non sempre ma spesso appassionato e partecipe, ha in questi anni letto, recitato, riflettuto anche quando, paradossalmente, le ore di studio della storia sono diminuite. Proprio le scuole sono forse il luogo dove il giorno della memoria appare meno «ritualizzato»: ogni studente e ogni classe impone ogni volta di ricominciare da capo, di leggere nuovi libri, di inventare nuovi lavori. E ogni bambino o studente formula nuove domande.
L’elenco delle questioni che pone la celebrazione oggi del giorno della memoria è infinito, quelle che seguono sono solo alcune: la relazione tra storia e memoria, il ruolo dell’arte accanto a quello della testimonianza, la scomparsa degli ultimi testimoni, la formazione degli insegnanti, la necessità di inserire la Shoah dentro la storia dell’Occidente e non farne un mausoleo a parte, decontestualizzato dalla vicenda del Novecento, l’esigenza di non lasciare il dovere della memoria del nazifascismo alle sue vittime, la riflessione sull’unicità della Shoah e sugli altri stermini che l’umanità non ha risparmiato a se stessa. E poi la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra la ritualizzazione delle istituzioni e l’esposizione mediatica.
SEMBRA ANCHE sempre più urgente interrogarsi se la memoria porti davvero con sé qualcosa di buono o se piuttosto non rischi di diventare una pianta velenosa a fronte però di una certezza: senza il giorno della memoria la consapevolezza della Shoah in questo paese sarebbe minore. Così è stato, infatti, nella riflessione collettiva fino al momento della sua istituzione. Eppure caricarsi di una memoria tanto dolorosa ha senso solo se si riesce ad integrare nel suo racconto che è esistita perfino allora, durante la guerra e sotto il dominio totalitario, la possibilità di scegliere: se stare dalla parte dei perseguitati o dei persecutori, degli ignavi o degli amici, dei soccorritori o dei delatori. Proprio per questo, si impone una riflessione attenta, in grado di definire gli odi di ieri e quelli di oggi. Si tratta da un lato di rifiutare equiparazioni impossibili dall’altro di ricordare quello che scriveva, con tragica lucidità, Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere che ’ogni straniero sia nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Memoria. "Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
AUSCHWITZ, QUEL GIORNO
Primo Levi, La tregua: "La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...)"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Il Magistero di Liliana
di Moni Ovadia (il manifesto, 20.01.2018)
Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni e mezzo e sopravvissuta all’inferno del famigerato lager nazista da cui uscì a 15, è stata una dei grandi testimoni della Shoà: il 19 gennaio 2018 il Presidente Sergio Mattarella, l’ha nominata Senatrice della Repubblica a vita.
Conosco bene Liliana, la considero un’amica e penso che anche lei mi consideri tale. Ho conosciuto anche l’amore della sua vita intera, diventato suo marito, Alfredo Belli Paci, si incontrarono giovanissimi e si innamorarono per sempre. Belli Paci fu un Ufficiale dell’Esercito del nostro paese, uno di quei soldati che salvarono l’onore dell’Italia rifiutando di aderire alla barbarie nazifascista di Salò. Era un bell’uomo, sopra il metro e ottanta, che ti toccava profondamente per il garbo e la grazia con cui si esprimeva.
Quando uscì dall’internamento pesava 32 chili ma quando parlava di Liliana e del suo calvario, si schermiva per sminuire le proprie sofferenze rispetto a quelle patite dalla moglie.
Liliana è una donna straordinaria, forte, schietta, coraggiosa.
Mi è capitato alcune volte di accompagnarla nel suo magistero di rendere testimonianza nelle scuole, in particolare in occasione delle Giornate della Memoria.
In queste circostanze - l’hanno ascoltata fino a settemila studenti per volta - Liliana racconta la sua storia con un eloquio nitido, fermo e inciso, la sua terrificante esperienza e lo sforzo di sostenere la grande emozione che ho percepito - perché seduto accanto a lei -, non ha intaccato mai il cammino di una parola che doveva toccare i cuori ma anche le menti.
Liliana dichiara sempre il suo obiettivo, minimale ma vitale, far sorgere da quella moltitudine di giovani almeno tre «candele della Memoria».
Per candele della Memoria intende luci dell’anima e della mente che raccolgano da lei il testimone per dare presente e futuro al dovere di ricordare e assumersi l’impegno etico di suscitare altre «candele» per le generazioni future, di generazione in generazione.
Il culmine del suo racconto, è la parte che riguarda il primo momento della liberazione. Approssimandosi le forze dell’Armata Rossa al lager di Auschwitz, i carnefici dettero avvio alle marce della morte. Facevano camminare gli internati ancora in grado di farlo di lager in lager, con l’intento di sfinirli e di farli morire durante le marce forzate.
Ma a un certo punto si udirono crepitare le mitragliatrici sovietiche a poche centinaia di metri, e i super uomini nazisti, presi dal panico, si misero in mutande e gettarono divise e armi lontano da sé. Il più terrorizzato, racconta Liliana, fu lo spietato ufficiale delle SS che dirigeva l’ultimo campo; aveva così paura, il superuomo, che lasciò cadere la sua pistola.
Liliana la raccolse, avrebbe potuto ammazzarlo come un cane, aveva visto mille volte sparare a bruciapelo alla testa di un internato, ma dopo qualche istante la gettò pensando: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice. Da quel momento sono stata libera».
Ho visto sui giovanissimi volti scendere lacrime copiose in silenzio.
Molto si potrebbe dire su questa figura di donna eccezionale, ma oggi è meglio soffermarsi almeno su un significato reale e simbolico della presenza a vita di Liliana Segre nel Senato, l’impegno dell’intero parlamento e delle istituzioni, a espungere da ogni aspetto della vita pubblica ogni cellula di fascismo e di nazismo in tutte le sue forme, nostalgiche, vecchie, nuove, nuovissime.
Non ci sono fascismi diversi, ce n’è uno solo ed è peste nera.
Missione testimone: la numero 75190 è senatrice a vita
Ieri la telefonata del presidente Mattarella
“La mia pelle racconta l’orrore di Auschwitz”
di Paolo Colonnello (La Stampa, 20.01.2018)
Liliana Segre, 87 anni, neo senatrice a vita della Repubblica, è una signora d’altri tempi: gentile e apparentemente fragile. In realtà è una delle donne più forti e lucide che sia mai capitato di conoscere. Del resto non si sopravvive a una deportazione in un carro bestiame, a un campo di concentramento come Auschwitz, allo sterminio dei propri genitori, degli amici, all’indifferenza del ritorno, alle cicatrici indelebili della persecuzione, se non si ha nell’anima un filo d’acciaio. Che poi è quello che hanno tutti coloro che scelgono di essere testimoni del proprio tempo. Così Liliana si batte da anni per la «memoria», perché nessuno dimentichi l’orrore delle leggi razziali, degli stermini nazisti, dello zelo fascista.
Certo non se l’aspettava la telefonata del Presidente, ieri mattina: «Un fulmine a ciel sereno. Ero già stata contattata per andare a Roma il 25 e così celebrare al Quirinale la giornata della Memoria. Poi ho risposto al telefono: “Buongiorno, sono Mattarella”. Gli ho detto: “Aspetti che prima mi siedo...”. Non sapevo neanche che potesse nominare 5 senatori a vita...». La casa di Porta Magenta piano piano si è riempita di gente. Ma Liliana non si è fatta travolgere.
Che memoria può esistere nel mondo dell’effimero, delle verità che scompaiono per lasciare il posto a chi si fa strada tra la menzogna? «Questo è un mondo pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo, in molti casi. Certo, non sono molto ottimista, ma è una battaglia che non si può smettere di combattere. È la mia missione: me la sono data 30 anni fa, dopo aver trascorso 45 anni in silenzio, dal ritorno dal campo di sterminio».
E qui la voce si fa sottile. Perché a 13 anni, dopo essere respinta dalla Svizzera, portata con suo padre, a San Vittore, nella stessa strada in cui era nata; infine al famigerato «binario 21» della Centrale, da cui partivano i treni della morte e dove ora c’è il Memoriale della Shoah, la memoria di Liliana è stata incisa nella carne, come il numero di Auschwitz sul suo braccio sinistro: «Per la vergogna di chi lo ha fatto: numero 75190. Non lo toglierei per nessuna ragione al mondo. Perché in fondo io sono quel numero».
Un numero che per anni ha destato curiosità nella gente ma che Liliana non aveva mai la forza o la voglia di spiegare. «Perché dopo essere tornata da quel tormento, mi accorsi che ero da sola: eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo vista più...”». Come se fosse partita per una malattia che poi in fondo di questo si tratta: una malattia dell’umanità. «Poi a un certo punto ho deciso che dovevo ricordare che ero matura per mettermi davanti ai ragazzi senza parlare mai di odio o di vendetta per raccontare una storia italiana».
Eppure, c’è ancora qualcuno che parla di “razza bianca”, che effetto le fa? «A me la parola razza mette sempre ansia. Voglio credere che sia stato “un lapsus” perché non posso credere altrimenti». In Europa c’è un ritorno delle destre estreme, la preoccupa? «Sì, primo perché ho sempre creduto nei ricorsi storici e poi perché nella mancanza totale di valori di oggi il rischio è ritrovarsi un Hitler al potere senza rendersene conto. Io faccio la mia parte, che ognuno faccia la sua».
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
Esempio vivente - Mattarella nomina la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’antisemitismo, senatrice a vita
di Leonardo Coen (Il Fatto 20.01.2018)
Sono passate da poco le undici del mattino. Liliana Segre è ancora a casa, si sta preparando per le cerimonie del primo pomeriggio - la posa di alcune “pietre d’inciampo” per ricordare le vittime del nazifascismo - quando squilla il telefono di casa. È la “batteria” del Quirinale: “Il presidente della Repubblica desidera parlarle”.
Liliana ignora per quale motivo. Forse vogliono coinvolgerla in qualche manifestazione ufficiale legata alla Giornata della Memoria, sabato 27 gennaio. Si sbaglia. Mattarella le annuncia che ha deciso di nominarla senatrice a vita. Alla Segre manca il respiro, per l’emozione. Lo ringrazia e assicura quale sarà il suo impegno: “Porterò in Senato la voce degli umiliati dalla Patria che amavano, cercherò di perpetuare la memoria, contrastare il razzismo, costruire un mondo di fratellanza, comprensione e rispetto, in linea coi valori della nostra Costituzione finché avrò forza a raccontare ai giovani l’orrore della Shoah, la follia del razzismo, la barbarie della discriminazione e della predicazione dell’odio”.
Mattarella si convince che la sua è stata una scelta coraggiosa, opportuna e anche politicamente significativa: la nomina della Segre, una personalità di altissimo profilo, in fondo può essere letta anche come una ferma presa di posizione contro chi voleva stravolgere Senato e Costituzione. Per Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Fondazione Memoriale della Shoah, “vedremo finalmente sedute in Parlamento l’etica, la morale, la Storia”.
La notizia “mi ha colto completamente di sorpresa”, dirà subito al figlio Luciano Belli Paci. Vuol subito far sapere che la sua nomina non è stata sponsorizzata dai partiti, “non ho mai fatto politica attiva... sono una persona comune, una nonna con una vita ancora piena di interessi e impegni”. Ma è consapevole che lei è vista come una sorta di baluardo contro le pericolose derive razziste, xenofobe e antisemite che crescono nel Paese. Lei è una sopravvissuta dell’Olocausto - non suo padre Alberto, col quale venne deportata ad Auschwitz:
“Certamente il presidente ha voluto onorare, attraverso la mia persona, la memoria di tanti altri in questo anno 2018 in cui ricorre l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Sento su di me l’enorme compito, la grave responsabilità di tentare almeno, pur con tutti i miei limiti, di portare nel Senato le voci ormai lontane che rischiano di perdersi nell’oblio.
Le voci di quelle migliaia di italiani, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che nel 1938 subirono l’umiliazione di essere degradati... che furono espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società dei cittadini di serie A”. Non ha mai dimenticato. Liliana, il giorno che le impedirono di entrare a scuola. Aveva otto anni.
E la colpa d’essere nata ebrea. La discriminazione tolse voce e identità: gli ebrei vennero perseguitati, braccati, deportati per la “soluzione finale”. La Segre vuole che non ci si dimentichi mai di loro, di chi non ha più tomba, di chi è svanito nel vento: “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare”. Certo, “non dimenticando e non perdonando - l’ho sempre fatto - ma senza odio e spirito di vendetta: sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”.
Oggi, per esempio, l’attendono gli studenti del liceo Carducci. A loro, come da lustri e lustri, dirà che è nata a Milano il 10 settembre 1930, che i suoi genitori si chiamavano Alberto Segre e Lucia Foligno, che abitava in corso Magenta al numero 55. Che il 7 dicembre del 1943, insieme al padre a due cugini, tentò invano di riparare in Svizzera, aiutati da qualche contrabbandiere. Ma la “barca era piena”, dissero impietosi gli svizzeri che la ricacciarono indietro. L’arrestarono il giorno dopo a Selvetta di Viggiù, poi la trasferirono al carcere di Como e da qui a San Vittore. Ci rimase 40 giorni. Il 30 gennaio del 1944 la misero col padre dentro un vagone piombato. Il convoglio partì dal famigerato Binario 21. Oggi, quel luogo è diventato un Memoriale. L’anno scorso l’hanno visitato 26 mila studenti.
La Storia senza schermi interattivi
Luoghi. «Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz», un denso saggio di Piotr M. A. Cywinski. Il direttore del museo-memoriale sarà in Italia, ospite al Festivaletteratura di Mantova
di Lia Tagliacozzo (il manifesto, 02.09.2017)
Auschwitz è un luogo che ci interroga: è stato il più grande campo di sterminio industrializzato della Germania nazista. E pone, oggi, domande immense: tentare di farne un elenco interpella il nostro essere uomini e donne, la storia d’Europa, la coscienza individuale, la vita presente e le responsabilità future. Oggi un aiuto a formulare domande e ipotesi di risposte lo offre Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15) di Piotr M. A. Cywinski che dal 2006 è direttore del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau e che l’8 settembre sarà fra gli ospiti di Festivaletteratura di Mantova (ore 17, Palazzo del Seminario Vescovile - Auditorium). Il libro è tradotto e curato da Carlo Greppi che ne scrive anche una bella postfazione rivolta al pubblico italiano.
Non c’è una fine è un volume che non esaurisce temi e domande ma che pure lenisce il travaglio di chi sente di doversi confrontare con l’anus mundi della «civile» Europa che in quel luogo ha perso, definitivamente, la sua innocenza.
UN LIBRO deliberatamente di parte, scritto da uno che «rimane qui»: «Ai visitatori servono quattro ore per visitare Auschwitz, a volte un po’ di più. Noi invece restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel giorno del nostro compleanno, subito dopo la nascita di nostro figlio o al ritorno dal funerale di qualcuno a noi caro». Poche righe più avanti, spiega come «a noi nessuno domanda al rientro a casa come abbiamo passato la giornata». Vi è in questo una qualche saggezza: «In fin dei conti, non tutto deve essere detto. Proprio come non tutto deve essere sentito.
Occhiali ritrovati ad Auschwitz
CI SONO VERITÀ che non aumentano affatto la nostra conoscenza. Al contrario ci avvelenano». Ed è la riflessione su verità, autenticità e conoscenza che accompagna per intero la lettura del libro.
In un itinerario tra molte domande il volume ragiona, con garbo e inquietudine, su cosa sia Auschwitz oggi e sul perché milioni di persone vi si rechino ogni anno: «dopotutto, sappiamo cosa è successo ad Auschwitz e non ci sono sconosciuti i nomi di altri luoghi - scrive Cywinski - come Treblinka, Mauthausen, Buchenwald, Dachau o Gross-Rosen. I fatti li conosciamo dai libri, dai manuali, dagli insegnanti. Tuttavia crediamo che ad Auschwitz saremo in grado di capire qualcosa di più». La potenza di quel luogo interroga ancora se oltre cinquanta milioni di persone vi si sono recate in visita, omaggio e ricordo nel corso degli anni. Le pagine del libro non risparmiano domande, a nessuno.
CIASCUNO, in virtù della propria formazione culturale, politica o umana può trovarvi e aggiungere le proprie. Quello che è certo - prosegue Cywinski - è che «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Una questione di inizio è perché proprio Auschwitz abbia finito con il rappresentare l’intero dramma della Shoah - la distruzione sistematica degli ebrei - quando in realtà non è così.
La Shoah infatti non si esaurisce nello sterminio industrializzato - le stragi di massa e le fosse comuni nell’Europa orientale ebbero altra storia, altre date e, in parte, altri protagonisti - come Auschwitz non esaurisce tutta la sua storia «solo» nella Shoah: fu il punto centrale di un sistema concentrazionario con fabbriche e campi di lavoro. Ed è questo uno dei motivi per cui ne conosciamo meglio la storia: in quanto campo di lavoro vi furono più sopravvissuti. Eppure «di tutti i maggiori centri di assassinio di massa, solo Auschwitz è sopravvissuta in una forma che si mostra ancora decifrabile. Gli altri luoghi furono smantellati, distrutti e alterati al punto da essere irriconoscibili (...) per questa ragione Auschwitz come sito memoriale iniziò ad essere visitato regolarmente da capi di stato, primi ministri e leader religiosi. Divenne il centro simbolico di un tutto molto più grande ed esteso».
La riflessione di Cywinski non si sclerotizza nel simbolo e cerca di andare oltre. Nella memoria pubblica vi è un’evidenza che rimane celata: nell’immaginario collettivo Auschwitz è rappresentato dal filo spinato, dalle torrette di guardia, dall’immondo cancello con la scritta «il lavoro rende liberi». Lo scopo del museo-memoriale è esattamente il contrario di quella rappresentazione stereotipata: è invece ricordare le persone. «Le persone comuni che vennero assassinate in questo Luogo. Senza questa consapevolezza il lavoro diventerebbe simile a quello che si fa in qualsiasi museo o sito archeologico», perché è incontrare lo sguardo delle vittime che costringe ad affrontare l’immensità dello sterminio.
Per questo, spiega ancora Cywinski, «la narrazione della memoria qui coincide prima di tutto con il Luogo». Il Luogo - la maiuscola è di Cywinski - è lo spazio fisico attraversato da quelle vittime, non simbolo ma consistenza. «La voce dei sopravvissuti e il Memoriale sono i due maggiori pilastri della narrazione di Auschwitz. Si sostengono l’un l’altro. Uno sarebbe più debole senza l’altro».
LA PRESENZA FISICA del visitatore che si aggira tra i resti tangibili del campo mette a confronto «l’immaginazione disorientata con l’inflessibile realtà». «Le parole e il Luogo si sostengono a vicenda per creare un tutt’uno. Queste due realtà sono tutto ciò che abbiamo, e non avremo mai niente di più».
Ed è intorno a quel Luogo che il volume si dipana: non tanto su cosa sia stato ma su cosa debba essere oggi. Il libro affronta alcune delle antinomie che la riflessione su Auschwitz pone - quella tra storia e memoria per esempio - e affronta con determinazione il dilemma tra conservazione e innovazione: i chilometri di filo spinato devono essere sostituiti ogni dozzina di anni. «Qualcuno protesta sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può e deve essere fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di cemento isolati. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto un’incomprensibile foresta di pali». Diverso il dramma posto dalla conservazione delle tonnellate di capelli che si vanno deteriorando. Ipotesi di restauro si sono alternate a quelle di seppellirle: per il momento si è deciso di conservarle così come sono, senza interventi. «Credendo fortemente nella potenza evocativa del Luogo stesso sono convinto che l’opzione più sensata sia il minimalismo. Proprio come il silenzio è spesso il miglior compagno di una visita».
RITORNA SPESSO tra le pagine un appello cocente alla conservazione del Luogo senza trasformarlo in una sorta di parco multimediale sulla Shoah. L’aspetto didattico, le visite con l’audioguida aiuterebbero una maggiore comprensione del Luogo? La risposta di Cywinski è decisa: «Le persone non vengono qui per vedere lo schermo più interattivo del mondo. Se uno schermo del genere venisse installato intralcerebbe l’esperienza che è la cosa più importante. Nasconderebbe la verità e per questo dovrebbe essere rimosso». Resta, almeno, una questione in sospeso: in alcuni punti di Birkenau sul terreno vi sono piccoli oggetti bianchi che paiono sassolini. Si tratta di frammenti di ossa. Che farne? Concedere sepoltura e riposo? Come non comprendere l’angoscia degli ebrei ortodossi che li vedono? «Le persone si trovano a confrontarsi con un enorme problema: cosa fare per ossequiare la Legge in un luogo dove è stata trascurata. In altre parole come normalizzare qualcosa che è decisamente insolito».
La risposta migliore «è che questo luogo non deve essere normalizzato. La differenza è tra impossibilità e divieto. Nessuno ha diritto di normalizzare questo Luogo. Ma non è più una risposta religiosa. È un’affermazione ideologica».
È possibile effettuare una sepoltura ma quei resti perderebbero il loro significato: «Sarebbero arrivate la pace e la quiete; qualcosa di buono nel caso di altre morti, ma insostenibile qui».
Viktor Frankl, L’amore per la vita, nonostante tutto
di Daniele Bruzzone (Alfabeta2, 27.01.2017)
Quello sui campi di concentramento è il secondo libro pubblicato da Viktor Frankl, una volta rientrato a Vienna nell’aprile del 1945, dopo due anni e mezzo di prigionia. Era stato deportato nel settembre del 1942 a Theresienstadt, in Boemia. Sarebbero seguiti Auschwitz, in Polonia, poi Kaufe- ring III e Türkheim (due filiali di Dachau), in Baviera 1.
Già nei mesi precedenti la deportazione Frankl aveva apprestato il manoscritto del suo lavoro più rappresentativo, Ärztliche Seelsorge (Cura medica dell’anima), che secondo un illustre psichiatra dell’epoca, Oswald Schwarz, avrebbe offerto alla storia della psicoterapia un contributo paragonabile a quello rappresentato dalla Critica della ragion pura di Kant per la storia della filosofia. Frankl conservò, finché gli fu possibile, questa prima stesura del suo lavoro e, quando fu trasferito ad Auschwitz, la nascose nella fodera del cappotto nella segreta speranza di poterla un giorno dare alle stampe. Naturalmente quel manoscritto andò perduto, e lo stesso Frankl rammenta che, nelle gelide notti trascorse nei Lager, in preda alla febbre, una delle cose che lo tennero in vita fu proprio la volontà di ricostruire il manoscritto perduto, stenografandone i contenuti su piccoli foglietti di carta sottratti di nascosto alle SS 2. Dopo essere rientrato a Vienna, su suggerimento del nuovo Ordinario di Psichiatria dell’Università, il prof. Otto Kauders, Frankl riscrisse il libro e lo pubblicò presso la casa editrice Deuticke nel marzo del 1946 3.
Subito dopo iniziò a comporre le sue memorie, che comparvero ancora in quella primavera del ’46, con il titolo Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager («Uno psicologo nei campi di concentramento»), per i tipi di Jugend und Volk. Tra i due lavori pubblicati in quell’anno corre un intimo legame: se da un lato le intuizioni di Frankl sulla psicoterapia, così come sono state sviluppate nel primo libro, erano precedenti alla deportazione, dall’altro l’esperienza dei Lager ne costituiva, paradossalmente, la riprova empirica più inconfutabile. Auschwitz, in un certo senso, era stato il vero experimentum crucis delle sue teorie.
Qui le capacità propriamente umane dell’autotrascendenza e dell’autodistanziamento, sulle quali ho richiamato l’attenzione più volte negli ultimi anni, furono verificate e convalidate in termini esistenziali. Quest’empiria, nel significato più ampio del termine, confermò il survival value, per parlare con la terminologia psicologica americana, che spetta a ciò che io chiamo “volontà di senso” o autotrascendenza, ossia l’orientamento dell’esistenza umana al di là di sé, verso qualcosa che non è se stessa 4.
La prima edizione uscì anonima. In soli nove giorni e nove notti, un misterioso medico viennese deportato dai nazisti aveva sottoposto i lunghi anni di inaudite sofferenze al vaglio saggio e paziente della scrittura, costringendo la congerie di ricordi e il carico emotivo di cui erano intrisi a incanalarsi in una rigorosa operazione di analisi e riflessione. Ciò che ne scaturì non era un trattato, beninteso, ma non si poteva neppure considerare un semplice memoriale della deportazione: si trattava di un documento umano di straordinario valore, il cui successo, evidentemente, non è dovuto tanto all’oggetto del discorso, quanto alla particolarissima prospettiva con cui viene affrontato. Da questo punto di vista, il titolo della prima edizione è significativo: rappresentava il tentativo, da parte di uno psichiatra, di sezionare con metodo scientifico la propria esperienza, per restituirne una comprensione più profonda.
Tuttavia, in quella fase di faticosa ripresa postbellica, nessuno voleva (ancora) ricordare il passato, bensì trovare prospettive di fiducia e di speranza per il futuro. Non a caso, quando il libro, alcuni anni dopo, venne ribattezzato ... trotzdem Ja zum Leben sagen (Nonostante tutto dire sì alla vita) 5, conobbe quel successo di pubblico che immediatamente non aveva raccolto 6 . In effetti, il nuovo titolo riusciva, più del precedente, a comunicare l’essenza del messaggio frankliano: che, cioè, la vita vale la pena di essere vissuta in qualunque situazione, o meglio, che l’essere umano è capace, anche nelle peggiori condizioni della vita, di “mutare una tragedia personale in un trionfo” 7. Proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi dell’inossidabile attualità dello scritto di Frankl: esso, infatti, pur narrando i tragici eventi a cui si riferisce, li trascende per incentrarsi sull’esplorazione della natura umana e delle sue potenzialità. E, in questo senso, ciò che dice vale non solo per l’esperienza della detenzione, ma anche e a maggior ragione per tutte le altre “situazioni-limite” (la sofferenza, la malattia, la disabilità, il lutto, ecc.) che, in certo qual modo, sfidano la capacità umana di resistere e di sopravvivere.
Ogni singolo lettore, pertanto, può trovare in questo libro un riflesso di sé: non necessariamente di ciò che è stato, ma magari di ciò che può diventare. Leggere Frankl, infatti, è un’esperienza di rivelazione: ci induce a scoprire i lati migliori di noi stessi 8.
Del resto, il libro di Frankl non è solo un’incursione in una delle pagine più dolorose della nostra storia, ma un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’essenza dell’umanità. Questa è forse la ragione principale per cui il suo contributo si distingue dalle altre - ancorché inestimabili - memorie della Shoah. Egli non si limita (pur facendolo) a raccontarci le efferatezze compiute nei Lager, né è interessato (benché li descriva in modo accurato) a restituire oggettivamente i fatti più salienti.
Il suo intento è tutto orientato a comprendere dall’interno l’esperienza del deportato, sviluppando una fenomenologia dell’internamento che, per molti versi, converge con altre analisi psicologiche effettuate sui detenuti di diversi regimi. Soprattutto, però, Frankl non si accontenta di descrivere e spiegare i modi in cui progressivamente le persone, in quelle condizioni estreme, si adattavano al contesto, perdevano gradualmente la loro umanità e, infine, soccombevano al destino; egli infatti è assai più incuriosito dai motivi per cui alcune di esse (non necessariamente quelle fisicamente più robuste) resistessero più a lungo e, soprattutto, si opponessero al quel processo di disumanizzazione che in tali situazioni apparirebbe, se non proprio inevitabile, quanto meno prevedibile e ampiamente giustificato. La domanda sorgeva spontanea: che cosa consentiva a queste persone di resistere e di non smarrire la dignità e la speranza?
La risposta a questo interrogativo ci conduce a una revisione delle più consuete teorie motivazionali con cui tendiamo a interpretare - o addirittura a prevedere - il comporta- mento umano. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, infatti, gli interessi spirituali delle persone che si trovano in situazioni di deprivazione radicale sul piano psico-fisico non regrediscono fino a scomparire, ma possono acuirsi e perfino manifestarsi laddove sembravano sopiti. Come dire: proprio laddove la natura umana è ricondotta e ancorata implacabilmente alla sua “bassezza”, il suo spirito è capace di elevarsi a un’“altezza” (intellettuale, morale, religiosa) altrimenti forse insospettata.
Ciò che Frankl mette a fuoco nel suo scritto è l’incredibile “forza di resistenza dello spirito” (una sorta di resilienza ante litteram) che, proprio nei momenti più difficili, permette alle persone di opporsi al proprio destino e - pur non potendolo mutare esteriormente - le rende capaci di dominarlo dall’interno. In tal modo, con l’autorevolezza dello scienziato e la credibilità del testimone, lo psichiatra sopravvissuto ai Lager sostiene che le persone sono capaci non solo di resistere, ma perfino di crescere, nonostante gli “urti” della vita e talvolta grazie ad essi 9. Questo aspetto costituisce altresì il principale motivo di distinzione dell’interpretazione frankliana rispetto alle altre descrizioni psicologiche dei campi di concentramento. Ad esempio quella di Bruno Bettelheim, che fu deportato nel 1938, venne rilasciato nel 1939, si rifugiò negli Stati Uniti dove insegnò psicologia per trent’anni e poi morì suicida: laddove Bettelheim vede il trionfo dell’istinto di morte sulla pulsione di vita, Frankl scorge invece la possibilità di “dire sì alla vita” nonostante tutto10.
Dagli abissi della sofferenza emerge l’intuizione che la libertà interiore e la responsabilità (la capacità, cioè, di rispondere al proprio destino) sono l’intimo baluardo della dignità umana contro la spersonalizzazione e il fatalismo:
Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve “essere”; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza.
Che cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che sempre decide ciò che è. Un essere che porta in sé contemporaneamente la possibilità di abbassarsi al livello degli animali o di innalzarsi al livello di una vita santa. L’uomo è l’essere che ha inventato le camere a gas, ma è anche l’essere che è entrato in esse a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro o la preghiera ebraica per la morte 11.
Forse il pessimismo e la disperazione che hanno insidiato l’esistenza di tanti superstiti (incluso, forse, il nostro amato Primo Levi) fino a spegnere in loro il desiderio di vivere, sono dovuti a una domanda che li ha assillati ogni giorno, rodendone l’anima dall’interno come un tarlo: Perché ha potuto accadere tutto questo? Perché abbiamo dovuto soffrire? Perché così tanti sono morti nell’indifferenza del mondo?
Anche Frankl esce dai campi di concentramento chiedendosi perché, ma la sua è una domanda molto diversa. Egli non si chiede perché abbia dovuto soffrire, né pretende di sapere perché abbia dovuto perdere le persone più care (il padre Gabriel, la madre Elsa, il fratello Walter e la giovanissima moglie Tilly morirono nei campi); si domanda piuttosto: Perché io sono tornato indietro? Perché a me la vita è stata risparmiata? La differenza è evidente: la risposta al perché del male e della morte non è in nostro potere, e la domanda è destinata a infrangersi contro il silenzio (o la morte) di Dio; la risposta alla domanda sul perché della vita, invece, dipende interamente da noi: sta a noi, infatti, decidere per chi o per che cosa siamo disposti a vivere, soffrire e perfino morire.
Questo spiega anche, almeno in parte, il carattere di Viktor Frankl: la sua instancabile dedizione al lavoro, il suo spiccato senso dell’umorismo, la sua irriducibile passione per le sfide che la vita, ad ogni età, poteva presentargli. Non si trattò, probabilmente, di una consapevolezza immediata, ma di una conquista progressiva, l’esito di un lungo lavoro su di sé. Dalle lettere che Frankl inviò agli amici nei mesi immediatamente successivi alla liberazione si evince lo stato di profonda prostrazione in cui era precipitato. Il 14 settembre 1945 scriveva a Wilhelm e Stepha Börner:
Forse il farmaco per questo malessere fu proprio la scrittura. Scrivere, probabilmente, gli consentì di metabolizzare la materia grezza del dolore trasformandola in nutrimento per l’anima. In questo senso, si potrebbe dire che il libro non è solo il ricettacolo di una sofferta saggezza, ma anche lo strumento con cui è stata distillata.
Il risultato sta sotto gli occhi di ogni lettore. L’esperienza della sofferenza poteva spegnere in Viktor Frankl l’amore per la vita oppure farlo divampare come un fuoco inestinguibile. Sono passati 70 anni da quando queste pagine hanno visto la luce per la prima volta. Bruciano ancora.
1 Per un’introduzione alla vita e al pensiero di Frankl, si rimanda a D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci, 2012. Per un avvicinamento al modello clinico della logoterapia e analisi esistenziale, cfr. D. Bellantoni, L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl, 2 voll., LAS, 2011.
2 Alcuni di questi esemplari sono tuttora conservati come reliquie al museo recentemente inaugurato del Viktor Frankl Zentrum di Vienna, al numero 1 di Mariannengasse, proprio nell’appartamento adiacente a quello in cui Frankl ha vissuto ininterrottamente dal suo ritorno a Vienna fino alla sua scomparsa, il 2 settembre del 1997.
3 L’edizione italiana, tradotta da Danilo Cargnello nel 1953 e successivamente rivista da Eugenio Fizzotti, reca il titolo Logoterapia e analisi esistenziale ed è pubblicata dall’editrice Morcelliana di Brescia. Solo alcuni anni dopo la sua morte, nell’archivio di casa Frankl, è stata rinvenuta la prima stesura del ’42 (probabilmente Frankl aveva affidato una copia del manoscritto a un amico, prima dell’arresto) e ciò ha permesso di mettere al confronto le diverse stesure, raccolte nel IV volume delle Gesammelte Werke, a cura di A. Batthyany, K. Biller e E. Fizzotti (Böhlau, Wien, 2011).
4 V. E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, FrancoAngeli, 2012, p. 100.
5 Si trattava del titolo di una delle prime conferenze tenute da Frankl presso l’Università Popolare di Ottakring nel 1946.
6 Quando poi nel 1959, per volere dell’allora Presidente dell’American Psychological Association, Gordon W. Allport, ne venne pubblicata la traduzione in lingua inglese (dapprima con il titolo From Death-Camp to Existentialism e poi con il titolo tuttora in vigore Man’s Search for Meaning), il volume divenne rapidamente un bestseller, tanto che gli studenti universitari americani lo elessero più volte “libro dell’anno” e la Library of Congress di Washington D.C. lo ha decretato “uno dei 10 libri più influenti d’America”. Alla morte di Frankl, l’opera era stata tradotta in 24 lingue e aveva venduto oltre 10 milioni di copie.
7 V. E. Frank l , La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca di senso , a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Erickson, 2005, p. 119.
8 Si veda, a questo proposito , P. Versari, Dalla « bella vita» a una vita bella. Colmare i vuoti di senso alla scuola di Viktor E. Fr ankl , Ares, 2015.
9 Da questo punto di vista l’intuizione frankliana anticipa e ispira le successive ricerche sulla capacità di resilienza e i fattori di protezione e di rischio che la condizionano, ma si lega anche al costrutto, più recentemente definito, della “crescita post-traumatica”, secondo cui una persona può esibire un grado di consapevolezza, di maturità e di integrazione personale, non solo pari a quello che possedeva prima del trauma, ma addirittura superiore.
10 Per approfondimenti si rinvia a D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, 2007, pp. 37-59.
11 V. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, 1998, pp. 97-98.
12 V. E. Frankl, Lettere di un sopravvissuto.Ciò che mi ha salvato dal lager, a cura di E. Fizzotti , Rubbettino, 2008, pp. 137-138.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
‘La morte nera’ e il fascista che è in noi
di Iside Gjergji *
Il recente libro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin (Ombre Corte 2016) è uno dei testi più interessanti pubblicati in Italia nel 2016. L’opera prosegue e, forse, conclude una elegante e seducente lettura di Walter Benjamin, già avviata da Denunzio con L’uomo nella radio. Organizzazione e produzione della cultura in Walter Benjamin (Giulio Perrone 2012) e, prima ancora, con Quando il cinema si fa politica. Saggi su “L’opera d’arte” di Walter Benjamin (Ombre Corte 2010).
Il libro tratta un tema attuale - il fascismo - e lo fa attraverso le parole e i silenzi del filosofo berlinese. La morte nera non è solo un testo di critica e, senza dubbio, non è uno di quei lavori che - come va di moda - si accaniscono sul “corpo” di un autore, nella speranza di ricavarne un lembo, al fine di assicurarsi un posto nella koinè culturale che conta.
Al contrario, il testo ha un obiettivo ambizioso: vuole realizzare uno schizzo multidimensionale del fascismo, vuole mostrare il suo cuore segreto, ancora palpitante, per farci sentire anche nella vigna dei testi il suono inquietante del “duro metallo della violenza” (Baudelaire). Obiettivo riuscito.
Inoltre, come si può intuire già dal titolo (per gli amanti di Guerre stellari, la Morte Nera è l’arma potente e segreta dell’Impero, che, da sola, può annientare interi pianeti, cosi come “Morte Nera” è l’espressione con la quale si definisce la peste che sterminò più di un terzo della popolazione europea nel XIV secolo), il lavoro ha un carattere ibrido. Vi si trova la critica più rigorosa attraversata da intuizioni, collegamenti storici e biografici, rimandi a frammenti letterari, epistolari, trasmissioni radiofoniche e film.
Nella prima parte si svolge come una sceneggiatura in tre atti (fasi), denominata “Il fascismo”, il cui prequel, nella seconda parte, è dedicato a “Il fascista”.
Ma andiamo con ordine. Denunzio, come anticipato, individua tre fasi nello sviluppo del pensiero benjaminiano sul fascismo. Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, Benjamin pensa a un modello di fascismo a partire da una analisi “giornalistico-informativa”, anche come diretta conseguenza del suo girovagare in Europa.
La sua attenzione è catturata pressoché interamente dalla figura del “duce”. L’autore coglie in questa fase lo sguardo critico di Benjamin sull’Illuminismo e la sua conseguente spiegazione della legittimazione popolare del “duce” attraverso il conflitto tra ragione e religione. Il collegamento è da ricercare nel “vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”, creando spazio a “personaggi che, contrabbandando un soprannaturale di scarto, [...] vengono investiti di un potere che sicuramente useranno contro quanti gliel’hanno conferito” (p. 34).
La soggettività a cui Benjamin pensa in questo periodo non coincide con l’uomo razionale, ma con l’uomo religioso, capace di esperire la trascendenza.
La seconda fase, secondo l’autore, coincide con gli anni 1934-36 e si caratterizza per l’approccio “politico-combattente” del filosofo. Benjamin perviene, infatti, a un modello di fascismo fondato su elementi strutturali, tenendo conto della composizione delle classi e delle strategie di dominazione del capitalismo. È in questo passaggio che il filosofo tedesco accantona la coppia concettuale “ragione-religione” e abbraccia un’altra, anch’essa oppositiva, ovvero “natura-tecnica”.
La riflessione più matura sull’Illuminismo e sulla modernità spinge Benjamin a pensare un rapporto inedito tra natura e tecnica, in quanto egli riesce a immaginare la tecnica “liberata dal fine strumentale di dominare la natura e finalmente impiegata per fare giocare e divertire gli uomini” (p. 63).
La soggettività dominante nel pensiero benjaminiano di questa fase non è l’individuo, ma la classe lavoratrice. È il lavoro a mediare le relazioni e, di conseguenza, la trascendenza finisce in secondo piano (senza però scomparire del tutto) per lasciare maggiore spazio alla Ragione.
L’ultimo e terzo atto della sceneggiatura denunziana sulla teoria del fascismo di Benjamin si consuma nel 1940, che è anche l’ultimo anno di vita del filosofo, ormai esule e solitario nelle strade d’Europa, nelle quali imperversa la “follia”. Il modello di fascismo delineato in questa fase conserva il nesso struttura/sovrastruttura sviluppato nelle fasi precedenti, ma questa volta l’elemento (strutturale) economico trova un perfetto rispecchiamento nella sovrastruttura ideologica del fascismo: “La conservazione millenaria della prima si rispecchia fedelmente nell’eternità della seconda” (pp. 72-73). Benjamin perviene così a una riflessione sul tempo nella modernità, sui momenti temporali dell’eternità e dell’istante.
La chiave di lettura dell’intera sceneggiatura è, però, nascosta nel prequel, ovvero nella seconda parte del libro, laddove Denunzio, in modo raffinato, sviluppa un’analisi sociologica e psicoanalitica, setacciando il tempo, la vita e le parole del filosofo tedesco, a caccia di lapsus, di non detti e del rimosso. È nella seconda parte, infatti, che le parole e i silenzi abitano corpi che ci consentono di interpretare e comprendere comportamenti, testi, dottrine ed eventi narrati nella prima parte. E nondimeno ci consegnano un ritratto completo di Benjamin, con le sue luci e le sue (non poche) ombre nere. Qui il fascismo diventa una silhouette autoritaria e tirannica, una presenza che si produce in fasi storiche e passaggi biografici caratterizzati da “vuoti” di autorità e che si manifesta sotto molteplici sembianze: padri sostituivi con simpatie naziste, personaggi letterari che evocano tiranni, poeti vicini alle SS.
L’autore sottolinea, dunque, quanto già evidenziato dalla migliore tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero l’imprescindibilità della teoria freudiana nella comprensione del fascismo come fenomeno sociale, in quanto pone l’urgenza di comprendere, accanto a tutto il resto, anche i condizionamenti e le tirannie interne (IL fascista interno) al soggetto. Curiosamente, però, Fabrizio Denunzio attribuisce l’ulteriore sviluppo di tale riflessione, nella seconda metà del Novecento, ad alcuni illustri autori francesi, quali Foucault, Deleuze, Guattari, i quali notoriamente si sono ispirati a pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e Heidegger, tutti, almeno a parere di chi scrive, reazionari, anti-dialettici e immersi nel tunnel dell’irrazionale. La lotta contro i residui del “fascista” (morte nera) dentro di noi, a quanto pare, non può mai dirsi conclusa. Che la Forza sia con noi!
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IL FATTO QUOTIDIANO, di Iside Gjergji | 23 dicembre 2016
Walter Benjamin, l’inquilino in nero
di Massimo Palma (alfapiù, 11 gennaio 2017)
A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni.
L’angolatura è originale - evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio.
Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona - nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata -, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma - questa la tesi dirompente - altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano.
Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici.
Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Questo postulato d’inizio libro resta tale. Tutto lo studio ne consegue. Questa premessa-conclusione - «il fascismo intrapsichico di Benjamin», il «padre compensativo interiorizzato da Benjamin per rispondere alla crisi d’autorità paterna: guerrafondaio, criminale e sadico» - si dirama, serpe in seno al lettore, in parallelo alla formula dell’«ebreo comunista esule e perseguitato» che, assieme all’intellettuale antifascista precario declassato non-accademico, classifica WB nel casellario vittimario. Paria come tanti.
Eppure, tale premessa-conclusione per esser presa sul serio deve celare una sottaciuta rilettura del concetto di immedesimazione o empatia, che Benjamin individua come una dannazione operativa della storiografia e della «tecnica» artistica in generale e che legge in questi termini sin dall’Origine del dramma barocco tedesco, per demolirlo nella tesi VII Sul concetto di storia come funzione «fascista» della scrittura.
Ma il libro sul barocco viene ignorato da Denunzio fin quasi alla fine: non lo menziona riguardo alla ricostruzione iper-cattolica, à la Schmitt, della «filosofia» del primo Benjamin (schiacciato sul Programma della filosofia futura e definito «non rassegnato a vivere in un mondo senza dei e trascendenza»), ma solo per affrontare il tiranno. E certo, nel momento in cui si affronta la teoria della storia di Benjamin, la decostruzione dell’Einfühlung deve emergere, perché è una decostruzione politica che modula il concetto anti-fascista di storia che Benjamin lascia ai posteri.
Dobbiamo quindi supporre che Denunzio la dia per scontata, nel momento in cui la sua tesi verte sul consentire col fascismo e sull’identificazione di Benjamin nel capo fascista («Benjamin si trova ad aver interiorizzato proprio una figura di Capo di questo tipo»). Un’immedesimazione il cui precipitato, nel critico che usa fonti tedesche già compromesse col regime, è esposto senza infingimenti: «li si disponga tutti assieme in un’unica immagine, i Kommerell, gli Obenauer e gli Schmitt, a mo’ di foto dell’epoca, semmai con tanto di divise e di fasce al braccio, e si vedrà in tutta la sua crudezza una costante dell’atteggiamento di Benjamin nei confronti di questi gerarchi del sapere fascista idealmente fotografati: la complicità».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
Restano gli affondo, la profondità abissale del tema, la libertà di ricerca esibita, ma anche l’incedere di un libro pesantissimo che vola da un fiore all’altro dell’orto benjaminiano, decontestualizzando un singolo riferimento epistolare del 1924, un passo di diario del 1938 e passaggi di opere complesse (decenni di ricezione non solo «idealista» né «teologico-politica» sarebbero lì a testimoniarlo), per attribuire all’autore l’inconscia «richiesta di uno Stato forte» e un «desiderio» di fascismo», senza dialogare con alcuno se non i suoi testi.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
NOTA *:
LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE. La teoria del fascismo di Walter Benjamin ...
Benché segnata da timore e tremore, l’autore della recensione ("Alfabeta2", 11 gennaio 2017) non ha potuto non riconoscere il coraggio dell’Autore e del suo lavoro sulla “morte nera” ... e superate le resistenze ha saputo accogliere anche dentro di sè “l’inquilino in nero”!!!
Trovata la “cosa” di grande interesse teoretico e storico (sul tema, ad ampio ‘spettro’, si cfr.: “Le due metà del cervello”, “Alfabeta”, n. 17, settembre 1980, p. 11), l’ho ripresa qui: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556#forum3119697, in collegamento e in riferimento a un mio ‘vecchio’ lavoro (“La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Roma 1991).
*
Federico La Sala
WALTER BENJAMIN, IL “PROGRAMMA DELL FILOSOFIA FUTURA”, E “CAGLIOSTRO”: KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.... *
CONDIVIDENDO LA CONCLUSIONE DELLA NOTA DI Iside Gjergji (si cfr.:‘La morte nera’ e il fascista che è in noi - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/23/la-morte-nera-e-il-fascista-che-e-noi/3274504/):
MI PERMETTO DI DIRE, SOLAMENTE, CHE “leggere *monotematicamente* Benjamin” e “metterlo al servizio del comunismo” - come chiarisce Fabrizio Denunzio nelle “Memorie di famiglia” (si cfr. l’Introduzione a “La morte nera”, Ombre Corte, Verona, 2016, p. 14) riporta al punto di partenza, nel vicolo cieco - da cui lo stesso Benjamin non è uscito.
Sulla “teoria del fascismo di Walter Benjamin”, Denuzio ha brillantemente messo e rimesso a fuoco il problema, ma non ha visto e non poteva vedere la “CAGLIOSTRO-sità” del problema per essersi collocato con lo stesso Benjamin in un’orizzonte hegelo-marxista (e non più propriamente “kantiano” - alla Kant, e “marxiano” - alla Marx!) e pensare meglio e bene il nesso tra “ragione e religione”, il materialismo - “quel vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”(op. cit., p. 34), e, infine, lo stesso “Messia” delle Tesi “Sul concetto di storia”.
Benjamin (come Freud, Aby Warburg, Kantorowicz) cerca di imitare “Mosè”, pensa il problema dell’”esodo”, ma alla fine non riesce a scappare “dall’Egitto” e, drammaticamente, finisce per restare (e con Goethe!) nella terra e nell’orizzonte del “Grande Copto”, del “Cagliostro” di turno. La “carica rivoluzionaria dell’Illuminismo” (op. cit., p. 11) di Kant è rimasta impensata - e ancora impensabile!
* Sul tema, mi sia consentito, cfr.: FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829: in particolare, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790
Federico La Sala
PER NON PERDERE IL FILO... *
STORIA E STORIOGRAFIA: IMMANENZA E TRASCENDENZA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (Walter Benjamin):
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5878.
IL "LIBER PARADISUS" (https://it.wikipedia.org/wiki/Liber_Paradisus) DEL XX SECOLO: LA LISTA DI SCHINDLER ("Schindler’s List" - https://it.wikipedia.org/wiki/Schindler’s_List_-_La_lista_di_Schindler) - IL GIARDINO DEI GIUSTI ("Il primo Giardino dei Giusti (https://it.wikipedia.org/wiki/Giardino_dei_Giusti), nato a Gerusalemme nel 1962, è dedicato ai Giusti tra le nazioni. Il promotore è Moshe Bejski, salvato da Oskar Schindler).
«Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» (Walter Benjamin)
1925-2017
Morto Zygmunt Bauman
Nella Shoah vide lucidamente il nesso tra orrore e modernità
Il sociologo polacco è morto lunedì 9 gennaio all’età di 91 anni
L’analisi dello sterminio e il richiamo all’etica: ci si può sempre opporre al male
di DONATELLA DI CESARE *
Quando Zygmunt Bauman pubblicò, nel 1989, il suo libro Modernità e Olocausto (il Mulino), ancora pochi, a parte i testimoni, avevano azzardato riflessioni o ipotesi interpretative. A lungo si era protratta una afasia, dovuta non solo a rimozione, inconscia o intenzionale, ma anche alla difficoltà di pensare quel che era accaduto. Il suo libro ruppe il silenzio con un coraggio intellettuale senza precedenti. E da allora è rimasto una pietra miliare.
«Il regime nazista è finito da tempo, ma la sua venefica eredità è tutt’altro che morta», così avvertiva Bauman. Ebreo polacco, scampato all’invasione nazista nel 1939, chiedeva molto più della punizione del crimine. Se si trattasse di questo - scriveva - si potrebbe «affidarlo allo studio degli storici». Ma la questione andava al di là degli esecutori, al di là perfino delle vittime. «Oggi più che mai l’Olocausto non costituisce un’esperienza che appartiene ai soggetti privati (ammesso che mai sia stato così): non ai suoi esecutori, affinché vengano puniti; non alle sue vittime dirette, perché godano di simpatia, favori o indulgenze particolari in nome delle loro sofferenze passate; e non ai suoi testimoni, in cerca di redenzione o di certificati di innocenza. Il significato attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità».
Bauman è stato il primo ad avanzare l’esigenza di considerare la Shoah un capitolo della storia umana, quella terribile ed estrema del Novecento. Senza farne un evento unico, fuori dalla storia e fuori dalla ragione, ma senza neppure ignorare quelle caratteristiche che l’Olocausto non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio.
Certo, l’omicidio di massa non è un’invenzione recente. La storia è punteggiata di violenze, massacri, stermini. Ma l’industrializzazione della morte nelle officine di Hitler impone una riflessione peculiare. Lo sterminio appare a Bauman l’epilogo della civiltà industriale e tecnologica, di quella organizzazione burocratica del mondo in cui viene profilandosi il dominio totalitario. Perciò Bauman punta l’indice contro la modernità.
Non si può non vedere il ruolo attivo della civiltà moderna nello scatenamento e nell’esecuzione dell’Olocausto. E, soprattutto, non si può non riconoscere il fallimento della modernità. Auschwitz non è un capitolo chiuso, concluso. Perché noi continuiamo a vivere in quella stessa modernità che ha consentito la «soluzione finale» volta ad annientare gli ebrei d’Europa.
Sul tema della colpa Bauman non si lascia andare a speculazioni metafisiche o a imponderabili teodicee. Quale senso può avere avuto la sofferenza degli innocenti? Non confermerebbe tutto ciò un mondo senza Dio? Anche se l’incommensurabilità dei crimini perpetrati sembra andare oltre ogni giustizia, la responsabilità è tutta umana. Il male non è un principio della mistica di cui dovrebbe rispondere Dio. È un’offesa di cui deve rispondere l’uomo.
La grande domanda che Bauman si è posto, a partire dalla sua riflessione sulla Shoah, è stata quella sulla responsabilità. Si può dire che il suo volume Le sfide dell’etica (Feltrinelli), pubblicato pochi anni dopo, nel 1993, sia in gran parte un precipitato di quei suoi studi. Delegittimata, schernita, l’etica appare fuori moda, destinata alla pattumiera della storia. Come se la modernità avesse decretato una emancipazione dall’etica.
Bauman denuncia l’illusione e il pericolo di questo modo fin troppo diffuso di pensare. Proprio quel che è accaduto ad Auschwitz ci insegna che l’etica è indispensabile e che la responsabilità è sempre assolutamente individuale. Il male non è onnipotente - è possibile, è doveroso resistere. «Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto».
Zygmunt Bauman ha fatto della Shoah il caleidoscopio attraverso cui guardare nell’abisso disumano di una modernità che non ha mantenuto le promesse. Si condensa forse qui il compito ultimo della sua intensa e instancabile ricerca, un compito che questo grande diagnostico del mondo contemporaneo non ha mai disatteso.
Elie Wiesel, l’uomo che vide Dio appeso a una forca
Si è spento a Boston, a 87 anni, lo scrittore premio Nobel per la Pace Nato in Romania, rinchiuso nel ghetto e poi ad Auschwitz aspettò a lungo prima di raccontare l’orrore, ma poi non ha più smesso
di Elena Loewenthal (La Stampa, 03.07.2016)
Ed è giunta anche per lui quella notte infinita di cui la sua scrittura aveva fatto cifra del male assoluto in terra e in cielo. No, qualcosa di più: La notte di Elie Wiesel è il ritratto del mondo che ha attraversato: il ghetto. Buchenwald. Auschwitz. «Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo.
Elie Wiesel ci ha lasciatI: l’annuncio arriva dalla collina dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, ed è come un’eco triste che risuona ai quattro angoli del mondo, ovunque lui ha vissuto, scritto, lottato. Era nato nel 1928 a Sighetu Marmatiei, in Romania, anzi fra i monti Carpazi, là dove c’era un ebraismo remoto, distante da tutto nel tempo e nello spazio, quasi millenario. Un ebraismo di campagna e di montagne, fatto più di silenzi che di parole. Wiesel aveva attraversato l’infanzia insieme allo yiddish e a un chasidismo dolce, mite, condito di un umanesimo spontaneo, fatto di parole antiche. Aveva studiato tanta Torah, sia con il padre sia con la madre.
Nel 1944 lui, tutta la sua famiglia e la comunità ebraica erano stati rinchiusi nel ghetto. Anticamera di quello sterminio che da un campo all’altro, da una forca all’altra si portò via tutto il suo mondo. Dopo la guerra Wiesel cominciò a peregrinare: da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, da una solitudine all’altra. Incominciò a scrivere, come giornalista e traduttore. Studiò il francese. Nel 1955 si trasferì a New York, ma in fondo ha continuato per tutta la vita a viaggiare fra le sue diverse esistenze, fra le sue lingue - yiddish, romeno, inglese, francese, ebraico -, a muoversi dentro il proprio passato, ad abitarlo con le parole, raccontarlo nello strazio, riviverlo nella consapevolezza che trasmettere la storia di quel male fosse una missione imprescindibile. Un dettato: non divino ma umano.
Ci mise però molti anni a raccontare. Diversamente da Primo Levi che, appena tornato a casa da Auschwitz sentì impellente il bisogno di scagliare sulla pagina quella esperienza, come unica strada per provare a ricominciare a vivere, Wiesel tacque per almeno dieci anni: non voleva né scrivere né parlare di quello che aveva attraversato durante la Shoah. Ma quando cominciò fu un fiume in piena, in yiddish, Un di velt hot geshiving (E il mondo tacque, una specie di immensa bozza di autobiografia sulla quale sarebbe poi tornato varie volte, affinando la scrittura, rendendo tutto via via più lucido. Da quelle originarie 900 pagine fu tratto La notte, uscito nel 1992 nella meritoria traduzione italiana di Daniel Vogelmann per La Giuntina editrice.
Da questo libro in poi, Elie Wiesel è diventato uno dei grandi cantori di quell’orrore. Ma è stato anche molto altro. Intellettuale militante, sempre pienamente coinvolto nell’attualità, sempre in dialogo con le grandi questioni del presente. E quando parlava, la sua voce aveva sempre uno spessore tutto particolare, fatto di impegno e pacatezza, di profonda partecipazione alla vita. Non a caso non vinse mai il Nobel per la Letteratura, ma nel 1986 ebbe quello per la Pace. Undici anni dopo gli fu offerta la carica di Presidente dello Stato d’Israele, ma declinò, cedendo così il passo a Shimon Peres.
Eppure Elie Wiesel è stato tutt’altro che un’icona, una figura «statica» dall’aura spirituale carica di sacralità. La sua vera cifra, come uomo e come scrittore, è l’umanità nel senso più pieno e anche più contraddittorio. Ricco di quelle contraddizioni che raccontano una complessità ricca di sfumature, capace di sfuggire sempre alle semplificazioni. Lui che era nato in un mondo ebraico così conservatore, così ai margini storici e geografici, divenne un ebreo cosmopolita, capace di abitare lingue e spazi diversi: un cittadino del mondo. Si era formato in un ebraismo tradizionale, era cresciuto dentro la Torah e dentro il pietismo chasidico cui era rimasto in un certo senso fedele per tutta la vita, come testimoniano i suoi tanti scritti dedicati a quel mondo scomparso, da Il Golem. Storia di una leggenda alle Celebrazioni chasidiche. Aveva scritto anche tanto di Bibbia e Talmud, aveva una intimità profonda e spontanea al tempo stesso con tutta la tradizione d’Israele.
Eppure come pochi altri intellettuali aveva sfidato la fede, aveva sfidato Dio. Vuoi quando lo vede con rabbia e rassegnazione e un dolore indicibile appeso alla forca nel corpo di un bambino impiccato che lancia al mondo i suoi ultimi palpiti. Vuoi quando scrive Il processo di Shamgorod: un testo bellissimo e terribile sull’assenza di Dio, sull’ingiustizia del mondo, dove, a differenza del biblico Giobbe, all’uomo non resta rassegnazione ma solo un’interrogazione senza risposta. E uno sgomento muto di fronte al male, alla sua presenza così incomprensibilmente invadente.
Elie Wiesel è stato un grande testimone, un grande scrittore, uno straordinario uomo di spirito, e anche di azione. Ma è stato soprattutto una figura dalla complessità straordinaria, mai arreso di fronte all’incomprensibile, mai stanco di interrogare e interrogarci. Ci mancherà la sua parola. Ci mancherà la sua notte. Ci mancherà quel silenzio abissale che stava sempre lì, tra una riga e l’altra di testo.
Addio a Elie Wiesel, mai in silenzio di fronte al male
Nobel per la pace, sopravvisse alla Shoah e ne raccontò l’orrore
di Redazione ANSA *
E’ morto Elie Wiesel. Nobel per la pace e sopravvissuto alla Shoah, aveva 87 anni. Lo ha annunciato Yad Vashem da Gerusalemme.
Eliezer "Elie" Wiesel era nato il 30 settembre del 1928 in Romania a Sighet. Autore prolifico (57 libri) e attivista dei diritti umani, Wiesel è stato conosciuto in tutto il mondo per la promozione dell’educazione e del memoria della Shoah. Il suo libro di memorie ’Notte’ basato sulla sua esperienza da ragazzo nel campo di sterminio di Auschwitz è uno dei racconti più importanti sull’Olocausto.
Quando gli fu assegnato il Nobel fu definito "messaggero per l’umanità" e il suo lavoro per la causa della pace un potente messaggio di "pace, di espiazione e di dignità umana" alla stessa umanità. Educato in una famiglia religiosa su di lui ha avuto grande influenza il nonno materno Dodye Feig come ha ricordato in molti libri lo stesso Wiesel.
Dopo la guerra Wiesel si trasferì in Francia dove cominciò a collaborare con diversi giornali israeliani tra cui Yediot Ahronot. Per oltre 10 dieci non volle scrivere della sua esperienza nella Shoah, ma fu decisivo l’incontro con Francois Mauriac e nacque ’Notte’. Nel 1955 Wiesel si trasferì negli Usa e prese la cittadinanza Usa. Nel 1986 il Nobel per la Pace per il suo impegno contro il razzismo e la violenza.
I confini del Mein Kampf
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 16.06.2016)
HO LETTO la prefazione che lo storico contemporaneista Francesco Perfetti (Luiss, Roma) antepone per una dozzina di pagine al volume. Nonostante le dichiarate simpatie politiche del professor Perfetti, la presa di distanza dallo scritto di Hitler è abbastanza netta anche se un tema così sanguinoso avrebbe meritato ben altro approfondimento. Una cautela editoriale comunque fragile. Il volume riproduce in anastatica l’edizione fascista pubblicata (Bompiani) tra il 1934 e il 1937.
C’è la breve prefazione allora scritta ad hoc dal Fuhrer e una “Vita di Adolf Hitler” redatta con molta enfasi. Il tono di questi contributi stabilisce la vera temperatura del volume delineando la figura di un eroe, come del resto l’asservimento dell’Italia fascista al Reich imponeva. Nulla quindi a che vedere con le cautele storico-critiche di ben altra serietà adottate in Germania dopo lungo dibattito.
Non so perché il direttore de Il Giornale abbia preso una decisione di tale gravità. Sono state fatte molte ipotesi che vanno dalla simpatia personale per quei giorni al calcolo elettorale in vista dei ballottaggi. Si tratta di illazioni e non ho elementi per commentarle. So per certo che pubblicare un volume che ha avuto un tale peso criminale nella storia umana comporta una responsabilità morale (come sottolinea anche la signora Heymann) che la frettolosa edizione italiana, a voler essere benevoli, ignora: il 1937 è l’anno che precede la promulgazione delle leggi razziali il cui fondamento si trova in queste pagine.
Mein Kampf in edicola, scherzare con il fuoco
L’iniziativa de Il Giornale. La scelta di Sallusti non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili. Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
di Enzo Collotti (il manifesto, 14.06.2016)
La trovata de Il Giornale di distribuire il Mein Kampf per aumentare le vendite è semplicemente indecente. Non si capisce se è una trovata spregiudicata o se vuole essere un ammiccamento morboso ad uso di un pubblico sicuramente non avvezzo a bocconi così forti.
Certo non è una lettura neutrale, e il proposito di farne l’introduzione ad una serie di pubblicazioni sul nazismo non rende l’idea meno perversa. Essa sfrutta l’appeal che continua ad avere il Führer in virtù dell’attrazione del mostro ma senza fornire gli strumenti per neutralizzarlo.
È un po’ scherzare con il fuoco, come se in un frangente in cui tornano virulenti populismi e razzismi nelle più diverse matrici ci fosse ancora bisogno di normalizzare l’orrore offrendolo in pasto agli ignari lettori fuori dal contesto in cui il Führer lo concepì e a distanza di quasi un secolo dalla sua originaria pubblicazione.
Un anacronismo, si direbbe, se non fosse che c’è ancora qualcuno che pensa a pulizie etniche, a muri di separazione, a gerarchie di razza, ad egoistici esclusivismi e che potrebbe trovare in un simile oggetto incoraggiamento e argomenti.
Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo uscito dalla sconfitta, dalla catastrofe economica e dalla demoralizzazione e che prometteva con freddo calcolo l’assassinio di milioni di esseri umani, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
Il fatto singolare è che mentre in Germania, come cercheremo di spiegare in altra sede, si procede con cautela a ristampare con un’edizione «critica», corredata da un autorevole e anche troppo pignolesco commento di accompagnamento, il testo incriminato, in Italia senza troppi complimenti lo si distribuisce quasi gratuitamente e senza troppo curarsi della sua correttezza non dico filologica ma neppure logica.
Si tratti di una consapevole provocazione o di una operazione mirata e sicuramente male architettata, l’iniziativa de Il Giornale non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili che sono messe a confronto con uno dei capolavori del pensiero perverso senza essere necessariamente preparati a svelenirne il contenuto.
Sarebbe vano invocare censure, dovremmo contare solo sulle capacità di ciascuno di esercitare la propria censura interna e di avere una cultura e un’educazione storica e politica superiori a quella dei media che insieme al buon senso insidiano la buona fede e la curiosità dello sprovveduto lettore attratto dall’apparente novità nel singolare quanto orrido messaggio.
Mein Kampf
Non è un libro normale, è un inno allo sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 14.06.2016)
Hitler non si addice alle edicole. La scelta di «regalare» Mein Kampf come allegato deve essere condannata con grande fermezza da una società civile. Quali che siano i motivi reconditi che possono aver spinto il Giornale a diffondere il libro di Hitler, si tratta di una scelta gravissima, irragionevole e ingiustificabile.
Questo fatto - come ha dichiarato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme - è «senza precedenti». Non stupisce che la stampa internazionale abbia dato rilievo alla notizia. Dalla Frankfurter Allgemeine a Die Welt e al Washington Post , per citare solo alcune testate, lo sconcerto è unanime. E ci si chiede come mai, nell’Italia di oggi, Hitler possa tornare a essere popolare.
Il «regalo» è giunto sabato scorso - per gli ebrei alla vigilia di Shavuot, la festa in cui si ricorda il dono della Torah, il Libro dei libri. Triste coincidenza, dunque, che nelle edicole di un Paese europeo, coinvolto nello sterminio, girasse la «Bibbia del nazismo». Né si può sorvolare su una coincidenza inquietante: solo pochi giorni fa è stata finalmente approvata la legge contro il negazionismo.
Vuoi per richiamo morboso, vuoi per banale interesse, nelle edicole l’allegato è esaurito. Questa sarebbe una operazione culturale? Distribuire il secondo volume del testo di Hitler, intitolato La mia battaglia , nella vecchia edizione Bompiani del 1937? Non è una edizione critica: non ci sono né note, né commenti. Non può farne le veci la breve e discutibile introduzione di Francesco Perfetti, il quale sembra ignorare il successo ottenuto, persino nel mondo accademico tedesco, dall’«antisemitismo della ragione» propugnato da Hitler. L’edizione critica, pubblicata in Germania nel gennaio del 2016, è costituita da due volumi di 2.000 pagine e corredata da ben 3.500 note.
Ma arriviamo al punto. I campioni dell’ultraliberalismo hanno gridato alla censura e si sono appellati alla necessità di leggere Hitler come «documento storico». Qui è bene chiarire: Mein Kampf non è un libro come un altro. Non può essere paragonato ad altri libri antisemiti che hanno propagato e propagano ancor oggi le teorie del complotto. Mein Kampf è il libro che contiene il primo progetto di sterminio planetario del popolo ebraico.
Chi lo ha letto lo sa. E sa giudicare la gravità incommensurabile di quelle pagine che preludono all’annientamento. Per Hitler gli ebrei sono gli «stranieri», che cancellano i confini - quelli geografici e quelli tra i popoli. Distruggono gli altri per dominare il mondo; la loro «vittoria» sarebbe «la ghirlanda funeraria dell’umanità», decreterebbe la fine del cosmo. Il pericolo maggiore viene indicato nella possibile fondazione di uno «Stato ebraico». Perché non ci deve essere luogo alcuno, per gli ebrei, nel mondo. Di qui l’annientamento.
Dare allora queste pagine da leggere senza una guida critica? Certo che occorre conoscere Mein Kampf . E chi responsabilmente si occupa della Shoah lo legge e lo fa leggere. Non era necessario che il Giornale degradasse la cultura italiana per avvertirci che il male si deve conoscere. Noi il male non lo dimentichiamo. Ma siamo convinti che uno studio critico, come quello che d’altronde già si compie in molte università e scuole italiane, sia la strada giusta per conoscere il passato e per guardare con più consapevolezza al futuro.
Leggere il Mein Kampf apre gli occhi
Il volume è utile per capire che il centro delle emozioni dell’estrema destra non è essere forti, ma la paura di essere deboli. Il senso di inferiorità spinge a voler dominare gli altri anche attraverso il terrore
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 14.06.2016)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf. Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo.
Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle. Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf. Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf, questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale. Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla. Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf.
La dissuasione della «cristiana» civiltà europea
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 27.04.2016)
È sicuro ormai che l’Europa è solo all’inizio di un processo di decomposizione politica. I segnali si moltiplicano. La vittoria dell’estrema destra in Austria, la crisi polacca, il regime di Orbán, l’affermazione dell’AdP in Germania, la chiusura delle frontiere, il referendum sul Brexit. Ma il voto con cui la Camera dei comuni inglese ha rifiutato di accogliere i 3000 bambini di Calais è qualcosa di molto più profondo e sinistro di una crisi politica continentale. È, come hanno notato i critici della decisione, di qualcosa di vergognoso.
Perché in gioco, oltre al destino migliaia di orfani, c’è un confine che le cosiddette democrazie occidentali non dovrebbero, almeno ufficialmente, varcare: il senso minimo di umanità, quello che per gli apologeti distinguerebbe la «civile» Europa dagli altri mondi.
Oddio, anche sequestrare beni ai profughi, come fanno la Danimarca e altri stati della Ue, è vergognoso, proprio come lasciarli alla deriva a Idomeni e Lesbo, o dare un po’di quattrini a Erdogan perché non ce ne mandi altri.
Ma i bambini non dovrebbero essere sacri, nell’Europa cristiana, cattolica, anglicana o luterana che sia? Con il voto alla Camera dei comuni, la risposta è stata semplicemente «No!» D’altra parte, i leader della Afd tedesca non hanno forse dichiarato che è legittimo sparare ai profughi che attraversano illegalmente i confini, anche quando sono donne e bambini? Certo, i conservatori inglesi a parole non arrivano a tanto. Ma il risultato non è molto diverso.
Che fine faranno i bambini che il socialista Hollande fa marcire a Calais, tra assalti xenofobi e manganellate? Nessuno lo sa e a nessuno interessa.
La motivazione del voto inglese è sublime nella sua ipocrisia squisitamente british. Noi non li accogliamo, per dissuadere altri profughi dal chiedere asilo in Inghilterra. Con la stessa scusa, le navi militari inglesi non soccorrono più la carrette del mare dei migranti nel Mediterraneo.
Ora, immaginiamo dei bambini che scampano alla morte in Siria e poi ai naufragi nell’Egeo o nel canale di Sicilia. Ebbene, qualcuno pensa che si faranno dissuadere dal passare in Europa, e magari dal raggiungere dei parenti in Inghilterra, pensando al voto della Camera dei comuni? Quando la Svizzera respinse i profughi ebrei che scappavano dalla Germania con la motivazione che «la barca piena», si macchiò della stessa vergogna, ma con meno ipocrisia.
Noi europei, dopo la Shoah, non dovremmo sorprenderci più di nulla. E nemmeno pensare che, con la sconfitta del nazismo e del fascismo, siamo al sicuro dagli stermini di massa. Migranti e profughi muoiono a migliaia per raggiungere le nostre terre benedette dalla ricchezza.
Dopo un po’ di lacrimucce sui bambini annegati sulle spiagge greche e turche, ecco che prendiamo a calci quelli che non sono annegati, o semplicemente ne ignoriamo l’esistenza.
Noi europei, così civili e democratici, stiamo gettando le premesse di nuovi stermini, magari per omissione, disattenzione o idiozia. Ma per le vittime non fa nessuna differenza.
Europa
Londra lascia soli i bambini
Piccola Bretagna. Niente accoglienza per 3mila minori siriani non accompagnati sparsi nei campi profughi in Europa. La camera dei Comuni boccia per un pugno di voti l’emendamento che era stato proposto e approvato dalla camera dei Lord. Pressing dei capigruppo tory sui deputati. Dopo la votazione, un coro di «vergogna» dai banchi dell’opposizione. Il ministro ombra per l’immigrazione: «La lotta continua»
di Leonardo Clausi (il manifesto, 27.04.2016)
Londra Presso la stazione ferroviaria di Liverpool Street, nell’East End londinese, da qualche anno sorge un piccolo memoriale in bronzo dell’artista Frank Meisler: cinque figure di bimbi con rispettivi bagagli, appena scesi dal treno e in attesa di qualcuno che li accolga. Sono i bambini del Kindertransport, il programma di evacuazione nel Regno Unito dei figli di famiglie ebree vittime della Shoah provenienti dal Reich organizzato da Sir Nicholas Swinton, lo Schindler britannico.
Tra loro vi era un piccolo cecoslovacco di 6 anni, Alfred Dubs. Che oggi è un Lord laburista responsabile delle politiche d’immigrazione e che si è fatto promotore di un emendamento all’Immigration bill discusso ai Comuni lunedì.
L’emendamento, bipartisan e votato dalla camera alta, avrebbe costretto il governo a farsi carico di 3000 bambini siriani non accompagnati sparsi per i campi profughi d’Europa. Ma è stato sconfitto per un pugno di voti, 294 a 276, dopo una giornata di forti pressioni disciplinari esercitate dai capigruppo tory per sedare fastidiosi sussulti d’umanità nei deputati le cui coscienze rifiutavano di ammutolire in nome della realpolitik: in molti, piuttosto che votare contro il proprio partito, si sono astenuti.
La giustificazione del governo e dal ministro dell’interno Theresa May, è ormai ben nota ed è la medesima addotta per accelerare l’abbandono dell’operazione di soccorso nel Mediterraneo Mare Nostrum: entrambe avrebbero incoraggiato il cosiddetto «fattore di attrazione» (pull factor) alle percentuali di persone che scelgono di intraprendere il proprio viaggio verso una vita più umana. Ma arriva dopo una serie di contorsioni sull’argomento, tra cui l’annuncio, la scorsa settimana, che il governo avrebbe accolto 3000 bambini provenienti da campi profughi in Medio Oriente e non in Europa, nel tentativo, evidentemente poi riuscito, di dare un contentino alle coscienze più lacerate tra le sue file.
James Brokenshire, ministro per la sicurezza e l’immigrazione, ha detto che ogni risposta alla crisi «deve fare attenzione a non creare inavvertitamente una situazione in cui le famiglie trovino vantaggioso mandare avanti i bambini da soli o nelle mani di trafficanti, mettendo le loro vite a repentaglio tentando rischiose traversate via mare verso l’Europa.»
Alla fine solo 5 deputati conservatori hanno votato a favore, tra cui Geoffrey Cox, Tania Mathias e Stephen Philips. Per far passare il diniego, il governo ha fatto ricorso a quella che i detrattori hanno definito una «tattica disperata», la norma detta del financial privilege, che consente alla camera dei comuni di “disobbedire” alle prescrizioni dei Lords qualora un emendamento venga ritenuto economicamente oneroso per il cittadino.
Dunque più di settant’anni dopo aver dato una luminosa lezione al mondo in accoglienza e umanità, e di fronte alla crisi umanitaria più grave proprio dalla seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna decide di fare il contrario: sbatte la porta in faccia a 3000 di quei 10000 bambini identificati dall’Europol come dispersi nel vecchio continente durante la fuga dagli orrori della guerra in casa propria e che già sono (o rischiano di diventare) vittime di abuso di sostanze, lavoro minorile e violenze sessuali. E per farlo, imbocca senza imbarazzo un pertugio costituzionale abbastanza meschino.
Immediata e sdegnata la reazione delle Ong e di alcuni deputati Labour e Libdem propugnatori dell’emendamento: l’esito della votazione è stato accolto con una gragnuola di «vergogna» dai banchi dell’opposizione. Per Kirsty McNeill, di Save the Children, il voto è stato «profondamente deludente», il ministro-ombra per l’immigrazione, il laburista Keir Starmer, ha promesso battaglia: «Non possiamo voltare le spalle a questi vulnerabili bambini in Europa: la storia ci giudicherà per questo. La lotta continua» ha detto ai microfoni di Bbc Radio 4.
Se al posto del governo che nel 1939 decise di dare asilo ai bambini in fuga dalla delirante violenza del terzo Reich ci fosse stato quello guidato da David Cameron, Lord Dubs non sarebbe fra noi. Forte anche di questa consapevolezza il peer laburista ha riproposto ieri l’emendamento alla camera dei Lords - dove il governo è in minoranza - in una versione più soft, senza specificare la soglia dei 3000. Il secondo tentativo è stato approvato con una maggioranza schiacciante di 107, e alcuni deputati Tory potrebbero ora approvarlo nel prossimo passaggio ai Comuni.
Europa
Diecimila i minori scomparsi nel nulla
Migranti. Allarme Europol sui bambini arrivati in Europa di cui si sono perse le tracce negli ultimi due anni
di Manfredi Barbareschi (il manifesto, 27.04.2016)
BRUXELLES Diecimila minorenni. Se ne sono perse le tracce sul territorio europeo negli ultimi due anni e molti potrebbero essere finiti nelle mani di organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione.
La notizia sembrerebbe inverosimile se i soggetti in questione non fossero migranti, categoria sistematicamente privata di alcuni dei diritti umani più basilari, anche dopo l’arrivo sui territori Ue.
A lanciare l’allarme sui bambini scomparsi è stata l’Europol, l’organismo di polizia a livello comunitario, che precisa che in Italia sarebbero 5mila. La questione è stata discussa giovedì scorso al Parlamento europeo durante una riunione della Commissione per le libertà civili a Bruxelles.
L’Europa si trova a far fronte a un’ondata di rifugiati senza precedenti nella sua storia recente e l’attuale impasse politica rischia di aggravare la situazione dei gruppi di migranti più vulnerabili, ovvero i più giovani.
Oltre allo stress psicologico causato dalla separazione dalla propria famiglia, che avviene nel Paese di origine o in maniera accidentale nei luoghi di transito affollati come le frontiere o le stazioni ferroviarie, i bambini sono una categoria particolarmente a rischio di abusi in quanto vengono considerati dai trafficanti come veri e propri oggetti da smerciare sui mercati mondiali.
Tuttavia, non è solo il caso a far cadere i minori nelle mani dei criminali. Le condizioni di vita degradanti nei centri di accoglienza, la lunghezza insopportabile del processo burocratico per l’assegnazione dell’asilo e l’impossibilità di raggiungere il Paese europeo prescelto sono tutte ragioni che influiscono sulla scelta di molti giovani migranti di tentare la sorte e fuggire. La realtà è che esistono pochi dati certi riguardanti il destino di chi sceglie di seguire questa via. L’Ong per i diritti dei minori Save the Children stima che i bambini scomparsi in Europa siano addirittura 20mila, il doppio di quanto affermato dall’Europol.
Secondo i dati pubblicati dall’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 35% dei migranti arrivati nei territori dell’Unione Europea a partire dal primo gennaio 2016 è minorenne.
Tra questi ci sono molti giovani che viaggiano senza un accompagnatore che si prenda cura di loro. Basti pensare che nel solo 2015 sono state oltre 85mila le richieste di asilo sporte da minorenni non accompagnati, una cifra triplicata rispetto al 2014.
E se da un lato crescono in maniera esponenziale le cifre relative agli arrivi dei rifugiati in Europa, dall’altro aumenta anche il ricavo delle organizzazioni criminali specializzate nelle tratta di esseri umani.
L’Europol stima che il traffico di migranti clandestini abbia fruttato tra i 3 e i 6 miliardi di euro nel solo 2015. Un profitto destinato a «raddoppiare o a triplicare se la crisi dovesse proseguire nel 2016», veniva scritto in un rapporto ufficiale Europol pubblicato pochi mesi fa.
Un giro di vite contro gli scafisti e i criminali che gestiscono in maniera illegale i flussi di migranti è fondamentale, ha affermato davanti agli eurodeputati Dietrich Neumann, responsabile dei servizi corporate dell’Europol, poiché le organizzazioni che portano i migranti in Europa sono le stesse responsabili per la tratta degli esseri umani nei territori Ue. Nel database dell’agenzia finalizzata a combattere il crimine all’interno dell’Unione Europea ci sono oltre 40mila sospetti, di 100 nazionalità diverse. Tuttavia, le risorse attuali non bastano per combattere quello che, dati alla mano, è il mercato criminale con la maggiore crescita in Europa.
Non esiste ancora una proposta legislativa a livello comunitario per tentare di arginare questo fenomeno. L’incontro di giovedì scorso è servito anche a sondare il terreno per quanto riguarda le misure che possono essere adottate.
Il democristiano olandese Jeroen Lenaers ha proposto di iniziare a registrare in maniera sistematica anche i migranti al di sotto dei 14 anni, cosa che al momento non avviene in Europa. Secondo Lenaers, in questo modo si eviterebbe che i minori possano scomparire del tutto dai radar dei Paesi membri dell’Ue.
Diverso invece l’approccio di Barbara Spinelli che ha puntato il dito contro i governi responsabili di trattamenti disumani nei confronti dei migranti, fattore che spinge sempre più giovani a una fuga disperata dai centri di accoglienza. In particolare, secondo Spinelli, la mancanza di cibo distribuito ai bambini è uno dei dati più preoccupanti.
«A Chios a bambini di 6 mesi vengono dati 100 millilitri di latte al giorno» ha spiegato Spinelli, chiedendosi «se non sia il caso di considerare la riduzione drastica del latte dato a un neonato come una forma di tortura perseguibile come tale». Anche Laura Ferrara, eurodeputata del Movimento 5 Stelle, ha espresso un parere critico nei confronti delle condizioni di vita nei centri di accoglienza per migranti. Secondo Ferrara, la mancanza di tutori volontari e la conseguente nomina del gestore del centro stesso come tutore temporaneo delinea un chiaro conflitto di interessi. D’altro canto, riferisce l’eurodeputata pentastellata, ci sono casi in cui un singolo tutore volontario è responsabile allo stesso tempo per 70 minori non accompagnati, il che rende «umanamente impossibile» riuscire a seguire con la dovuta attenzione ogni bambino.
Secondo numerose Ong che lavorano in questo campo, la creazione di una normativa europea comune servirebbe a permettere la condivisione delle informazioni riguardanti i minori scomparsi, consentendo dunque di allargare la ricerca di un giovane migrante scomparso a più Paesi.
Al momento invece la risoluzione del problema grava sui singoli governi, che raramente scelgono di unire i loro sforzi. Ad oggi, quindi, la certezza è una sola: l’Europa non è in grado di dire cosa sia successo a queste migliaia di bambini scomparsi sul suo territorio.
Dopo la Shoah, il dovere di testimoniare
di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 29.03.2016
Arminio Wachsberger (classe 1913) venne deportato ad Auschwitz, in quanto ebreo, dopo il rastrellamento di Roma del 16 ottobre 1943. Trasferito poco tempo dopo a Varsavia (novembre 1943), giunse a Dachau nell’agosto del 1944, per essere infine rinchiuso nel sottocampo di Wald, nella foresta bavarese. I giorni della liberazione furono drammatici e solo la furbizia di un ufficiale della Wehrmacht, consapevole che la guerra era ormai perduta, e della assoluta necessità di salvare se stesso, gli permise di sopravvivere insieme ai suoi compagni di lavoro.
Il desiderio di Arminio di tornare alla normalità lo spinse subito a rifarsi una vita e nel giugno del 1945, a 32 anni, conobbe e sposò una ragazza ungherese, Olga Wiener. A Birkenau aveva perso tutti i suoi cari, ma ora la vita gli dava un’altra possibilità: una nuova famiglia e un forte spirito di iniziativa che lo spinse a rendere testimonianza sempre, con precisione e passione, della tragedia degli ebrei sotto il nazismo. Oltre alla sua attività militante, oggi si contano diciassette testimonianze di Wachsberger, dal 1947 al 2010.
Ed è su questo materiale che Gabriele Rigano costruisce il suo bel libro di storia e memoria della deportazione L’interprete di Auschwitz (Guerini e Associati). Facendo sua una metodologia di ricostruzione storica già avanzata da Saul Friedländer e in parte anche da Christopher Browning (due storici che hanno saputo integrare la storia basata sui documenti alle memorie e ai diari delle vittime), Rigano ci propone una biografia di Wachsberger che è, insieme, la ricostruzione di una vita e della Shoah, dalle leggi razziste del fascismo fino alla Liberazione. Qui la storia, spesso fatta di grandi numeri e di ricostruzioni generali pur necessarie e utili, ha gli occhi di un giovane, del quale il lettore comprende assai bene dolore, rabbia, forza di resistenza e lotta per la giustizia.
Molto utile, poi, il capitolo metodologico che Rigano dedica all’analisi e all’uso critico delle fonti. La sua valorizzazione delle memorie scritte e orali, integrate dall’uso di altre fonti, è destinata a produrre novità nella rilettura di questa tragedia.
LA MEMORIA COME ATTO
di David Bidussa *
C’è una crisi dell’Europa.
Dubito che nei ventiquattro anni (era il 7 febbraio 1992, una data che non è entrata nel calendario europeo) che ci separano da Maastricht sia nata l’Europa. A dire la verità all’inizio abbiamo provato a misurarci con l’idea di fondare un’identità continentale e per dire che facevamo sul serio abbiamo persino provato a darci un calendario civile e a sceglierci una data che parlasse per noi al futuro.
Volevamo fortemente il futuro e soprattutto non volevamo che si ripetesse il passato. Per questo la prima e unica data che ci siamo dati è stato il 27 gennaio, il “giorno della memoria”, pensato all’inizio del 2000. Perché è stata scelta quella data? Perché non era una data nazionale, non ricordava nessuna vittoria. Ma funzionava come un canone: diceva che indietro non si tornava. Che il passato stava alle spalle. Era una data metafisica ed era una data che voleva parlare al futuro. Ma non è mai riuscita a parlare la lingua del futuro, perché si è proposta come sguardo al passato.
Molti pensano il 27 gennaio come una data riparatrice, o come una data “di penitenza”. Indubbiamente nell’evento ricordato c’è questo. La scelta di quella data voleva guadare al millennio che si apriva. Non a quello da cui stavamo per congedarci. Il Giorno della memoria - il 27 gennaio - non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza ogni paese ha una sua data nel proprio calendario pubblico (noi abbiamo il 2 novembre). Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato. È l’evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre “potenzialità”.
Il 27 gennaio non è il giorno in cui gli ebrei ricordano la Shoah (quello è il 27 di Nissan la data nel lunario ebraico che segna l’inizio della rivolta del ghetto di Varsavia, che cade in una data variabile del nostro calendario tra la seconda metà di aprile e i primi di maggio) ma riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Per questo proporla come data nel calendario civile europeo significava pensarla come un patto per il futuro.
E chiamare quella data “giorno della memoria” non voleva dire pensare in termini di passato, ma in termini di futuro. Può sembrare contraddittorio affermare che la memoria riguarda il futuro, ma è logico.
La memoria non è un fatto. È un atto. Un atto che si compie tra vivi, volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica. Per questo ha un valore pragmatico. Ossia serve per fare qualcosa (altrimenti è una commemorazione). E’ un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire oggi in relazione a un domani che si intende costruire. Non volere quel passato non significa riscriverlo, ma impegnarsi per un altro futuro.
È ancora così? Oppure come ieri a Varsavia, o a Budapest o a Sarajevo, o a Srebrenica e oggi a Kobane, il nostro sguardo racconta l’indifferenza?
David Bidussa
*
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (25/01/2016).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE
INFANZIA E STORIA. In memoria di Vladimir Jakovlevič Propp, di Italo Calvino, e di Gianni Rodari...
FIABA, COSTITUZIONE, E SOCIETA’.
Giorno della Memoria
Un nuovo modo per insegnare storia e ricordo
di David Bidussa (Il Sole-24 Ore, 28.01.2016)
Il Giorno della Memoria continuerà, anche nei prossimi anni, ma i suoi protagonisti sono cambiati. Il 27 gennaio del 2016 è finito un ciclo generazionale, e con questo è finito un modo di discutere, riflettere, parlare, comunicare i contenuti di una lezione di storia. Da quando è nato, il Giorno della Memoria ha costituito immediatamente una pratica emozionale fatta di tre elementi fondamentali: il testimone oculare di un tempo storico, un mediatore professionale, che di solito è un docente di storia, un gruppo di adolescenti che ascolta un racconto.
Il Giorno della Memoria, in qualche modo, ha avuto la stessa struttura narrativa di come i vecchi di una società raccontano (raccontavano) ai più giovani la storia della propria famiglia. E di solito, stando a questo schema, i giovani sono disposti ad ascoltare un racconto che vogliono ereditare.
La «Generazione Doppio Zero», cioè i ragazzi nati nei primi anni Duemila, entrati nella scuola circa dieci anni fa, e che oggi ne stanno per uscire, non sono più quel tipo di persone. Sono altre. Hanno strumenti propri, linguaggi propri e un senso del passato prossimo che glielo fa percepire come se fosse già un tempo molto lontano. Soprattutto ascoltano le parole e i racconti di chi ha 60 anni più di loro senza immediatamente capire un mondo: o sono travolti dall’emozione oppure ne hanno talmente paura che la rifiutano. Una generazione che noi (e dicendo «noi» includo tutti quelli che hanno più 30 anni), dobbiamo prima di tutto ascoltare. E se non riusciamo ad ascoltarla, non riusceremo certo a parlare con questi ragazzi. O magari loro non avranno interesse ad ascoltare noi.
Quello che è accaduto o sta per accadere è semplice. Dobbiamo invertire il modo di trasmettere la conoscenza del passato. Dobbiamo partire dalle domande, dobbiamo sentire le loro emozioni e poi dobbiamo ricostruire le riflessioni di un giovane; e aiutarlo in questo processo. Dobbiamo umilmente ascoltare le sue incertezze, accompagnare anche i suoi rifiuti, insistere sulle sue perplessità, capire che lì, in quei rifiuti, in quelle perplessità, c’è una resistenza che nasce forse anche dall’incredulità.
Quell’incredulità nasce da una prassi che noi abbiamo avuto in questi 15 anni, importantissimi, di Giorno della Memoria. Ovvero, per 15 anni, abbiamo detto e fatto un’operazione di questo tipo: abbiamo detto “voi non sapete, questa storia ve la racconto e voi la dovete imparare e costruirci una memoria”. In questo modo la memoria è stata in qualche modo “autoritaria”, non aveva nulla di ciò che chiedevano i portatori primi di questa storia, coloro che si sono presentati come eredi di una vicenda e che raccontavano una controstoria rispetto a quella ufficiale e che per questo doveva essere creduta come vera; per le sofferenze avute e per il rispetto dovuto a chi quelle sofferenze aveva dovuto sopportare.
Quindici anni dopo, quelle storie, riascoltate passivamente, non sono più delle storie percepite, che diverranno successivamente proprie. Diceva Freud che se vuoi imparare qualcosa devi ripercorre un’emozione, devi fare un percorso non tuo e farlo tuo. La «Generazione Doppio Zero» è nella stessa condizione: si deve partire dalle sue emozioni, dalle incertezze e anche dalle domande imbarazzanti. Dobbiamo favorire i giovani, lavorando con pazienza, includendo tante fonti (musica, narrativa, film), per far sì che l’inquietudine di queste vicende - che è l’inquietudine del loro vissuto quotidiano (e spesso non ha la parola per essere raccontata) - sia “comunicata”.
Paradossalmente il Giorno della Memoria ha oggi nuovi protagonisti: quelli che hanno meno di 20 anni che chiedono che quella storia che fino ad oggi hanno ascoltato diventi un’esperienza emozionale, con la quale fare un percorso. Per tanti anni abbiamo pensato che fosse sufficiente leggere una frase di Levi, un testo di Brecht, una poesia.
Oggi, per capire il percorso di disperazione e un vissuto conflittuale dobbiamo fare ancora di più. Dobbiamo capire cosa accade nella testa di un ragazzo quando vede «Bastardi senza gloria», o farlo riflettere sui un film come «L’onda». Non raccontargli il totalitarismo ma farlo confrontare con una storia come quella del film, che lo mette davanti al fenomeno concreto. Quelle scene parleranno ad un adolescente meglio di un qualsiasi testo teorico. E dopo, forse, gli faranno venire voglia di scavare, di leggere, di saperne di più. La Generazione Doppio Zero va a cercare le immagini sul web e, se trova stimoli, allora arriverà al libro. Il compito della mia generazione è quello di non farli sentire in colpa di questo percorso. E ricordarsi, magari,di essere curiosa di farlo a sua volta.
IL FIGLIO DI SAUL
Liceità e educatività di una rappresentazione
di Roberto Maragliano *
Il film Il figlio di Saul pone un gran numero di problemi etici e filosofici (prima che estetici in senso stretto), riassumibili nell’interrogativo sulla liceità di una rappresentazione di Auschwitz dal di dentro. Liceità narrativa oltre che tecnica, anzi prima tecnica e dopo narrativa. Nell’economia di un intervento come questo, che mira a mettere in luce quello che io vedo come il grosso (e oneroso) carico educativo di cui è portatore questo film, dove alla domanda sulla liceità è data una risposta coraggiosamente positiva con cui confrontarsi, non posso dilungarmi con troppo insistenti disquisizioni. Mi limito dunque a fissare alcuni punti.
“Una liceità tecnica prima che narrativa”, dicevo. Perché questa priorità? Perché, cosa sorprendente forse per molti, e comunque sorprendente per me stesso, almeno fino a che sono venuto a saperlo, di immagini prese dal di dentro del campo di concentramento, atte a documentare la vista, il punto di vista delle vittime non ne esistono che quattro. Tutte le altre foto di campi di concentramento di cui disponiamo o sono degli aguzzini o sono dei liberatori, e lì sempre le vittime risultano riprese frontalmente. Dunque anche sul piano materiale diventa impossibile immaginare (cioè elaborare immagini a partire da immagini) quella loro sofferenza. Per non dire del tipo di rimozione che i sopravvissuti tendono a esercitare rispetto all’olocausto e che ne mina nel profondo la narratività (ostacolo che spiega le traversie incontrate per anni da Se questo è un uomo: per tutto ciò c’è la fondamentale opera di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo). Comunque alle quattro uniche immagini riprese da membri del Sonderkommando Geoges Didi-Huberman, storico e filosofo dell’arte, dedica il suo Immagini malgrado tutto, uscito in edizione italiana nel 2005. Testo da leggere, assolutamente.
Si direbbe, da quel fatto delle quattro immagini e dal racconto/analisi che ne propone il saggio che ho appena citato prende spunto, meglio uno degli spunti, il regista de Il figlio di Saul, l’unghese László Nemes, trentanove anni, per infrangere il veto sulla rappresentabilità. Ma, direte, questo veto (che è possibile far risalire al detto di Adorno del 1949 “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”) è stato già ampiamente superato, in campo cinematografico, e lo mostrano i casi di Schindler’s List o de La vita è bella. No, rispondo all’obiezione, quelle rappresentazioni non sono dal di dentro della sofferenza, anzi ne rimuovono la sostanza, nel loro intento consolatorio: non ci trattano da adulti, ci tengono al riparo della sofferenza, come fa il Benigni personaggio con il figlio. Nemes fa tutt’altra cosa. Prende frontalmente l’impegno di vivere e far vivere l’indicibile e irrappresentabile sofferenza.
Lo fa proponendo di collocare nell’assurdo dello scenario di morte scientifica e impersonale una storia apparentemente ancora più assurda, volta riscattare la morte come fatto umano e dunque in quanto tale carico di soggettività. La storia rappresentata è assolutamente lineare. ”Il protagonista, Saul, è un componente del Sonderkommando di Auschwitz, ossia uno dei prigionieri, periodicamente uccisi e sostituiti, che aiutavano gli aguzzini nella gestione dello sterminio: accompagnare nelle camere a gas, pulire, bruciare i corpi. Ma un giorno Saul vede un bambino sopravvissuto al gas e finito da un medico, e decide di dargli degna sepoltura, secondo il cerimoniale del Kaddish” (così da L’Espresso).
Ma come è resa, come è messa in scena questa storia? Qui la questione si fa seria. Anzi la sua sostanza sta tutta lì. Nemes fa due scelte di fondo: la prima è di adottare una chiave realistica sul versante acustico/sonoro; la seconda di usare effetti flou sul piano visivo, riducendo il campo di visibilità alle cose che Saul trova più direttamente davanti a sé e impegnandosi a seguirne da dietro le incessanti peregrinazioni. In questo modo l’immedesimazione da parte di te spettatore è totale. Per due ore partecipi di quella sofferenza. Non ti importa che sia in preparazione una ribellione, del resto impossibile, non ti importa delle morti che hai attorno e dei rischi mortali che corri, ti importa solo di trovare un rabbino e di salvare dalla morte impersonale quell’unica persona, quel figlio in cui ti immedesimi di quel padre presunto in cui ti immedesimi. Non importa nemmeno se ci riuscirai. Importa solo che tu lo faccia e che così tu renda viva quella morte.
Non a caso, continuando il dialogo, Didi-Huberman scrive in forma di lettera al regista un magistrale saggio di analisi del film, e lo pubblica in libro qualche mese fa, dopo il successo di Cannes. Si intitola Sortir du noir. Lì l’uscita dal nero della non rappresentabilità acquisisce tra le altre cose il merito di chiamare in causa Walter Benjamin e il suo saggio Il narratore. Certamente una lettura impegnativa, quella, come del resto tutti gli scritti di Benjamin. Ma noi italiani, nel caso, siamo avvantaggiati, potendo contare su un’edizione “didattica” curata da Alessandro Baricco, dove molti dei nodi vengono sapientemente sciolti. E uno di questi mi sembra particolarmente utile, quello che riporta il guardare e vivere la morte alle radici della narrazione epica, di una narrazione per così dire a bassa definizione, così diversa da quella ad alta definizione del romanzo o dell’informazione storica o cronachistica. Una narrazione che ti fa vivere e ti porta ad essere tu stesso narratore, in una logica sempre più di oralità che ritorna, sia pure dentro la tecnologia più avanzata e sofisticata. Forse è possibile, oggi, anzi è doveroso rappresentare Auschwitz: è dunque un diritto delle nuove generazioni che si generino narrazioni, e che si producano immaginari di cose non immaginabili. Ecco, il cinema è anche questo, e su questo può e deve giocare la sua forza: empatia e pedagogia.
Informazioni su Roberto Maragliano
Il Piccolo dizionario delle tecnologie audiovisive, scritto assieme a Benedetto Vertecchi, è del 1974. Da allora non ho smesso di occuparmi di quelle cose. Da persona che sta dentro il rapporto tra formazione e media, non sono le tecnologie che mi preoccupano, ma gli atteggiamenti superficiali di tanti nei confronti delle tecnologie.
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Laboratorio di Tecnologie Audiovisive
Università degli Studi Roma Tre
The Eichmann Show
Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah
di Aldo Grasso (Corriere della Sera, 23.01.2016)
Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.
Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.
Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina...) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.
I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.
Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento - reale, simbolico o meramente retorico - dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza.
La tv diventa «agente di storia».
The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita... Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».
Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ:
“come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo):
Neil Gregor
“Bisogna leggere il Mein Kampf per disarmarlo”
Da ieri il manifesto di Hitler è nelle librerie tedesche in edizione critica e autorizzata. Con quali rischi? Parla Neil Gregor, uno dei massimi esperti mondiali di storia del nazismo
intervista di Enrico Franceschini (la Repubblica, 09.01.2016)
LONDRA «Era giusto proibire il libro di Hitler nel 1945, ma oggi la Germania fa bene a pubblicarlo, perché possa essere studiato, per capire ancora meglio come nacque il genocidio degli ebrei durante il nazismo e per mettere in guardia contro i genocidi del presente».
Neil Gregor, docente di storia all’università di Southampton, uno dei più grandi studiosi al mondo del Terzo Reich, guarda cadere l’ultimo tabù della Germania. Ieri, per la prima volta dal 1945, è tornato nelle librerie tedesche il “Mein Kampf”: edizione critica di due volumi, duemila pagine, un apparato di note e commenti monumentale, curato dal team dello storico Christian Hartmann dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera.
Sono passati settant’anni dalla morte del Führer, novanta dalla prima edizione e appena sette giorni dalla scadenza dei diritti d’autore. Non è stata una sorpresa, ma vedere l’opera in vetrina dopo che per tutti questi anni il Land della Baviera ne aveva vietata la riedizione, è stato uno choc. A Monaco soprattutto, la città culla del movimento nazista, dove Hitler aveva scelto di avere la sua residenza e dove nel 1925 per i tipi dell’editore Franz Eher, era apparso con il titolo Una resa dei conti il primo volume dell’opera. Eppure l’interesse è stato tale da arrivare già ieri a 15mila ordini, 4mila in più della tiratura iniziale. Un successo di copie che sembra dar ragione agli editori.
Cosa pensa della pubblicazione del “Mein Kampf”, professor Gregor?
«Non penso che la Germania avesse molta scelta. Ritengo comunque che pubblicarlo sia stata la decisione giusta, per le ragioni che gli editori hanno anticipato da tempo, a cominciare dal fatto che il libro era disponibile comunque online a chiunque volesse leggerlo, per finire con il fatto che è passato molto tempo, la Germania è cambiata ed è comunque giusto potere studiare anche un testo simile per comprendere la storia del passato e i rischi del futuro».
Nel saggio “How to read Hitler” lei ha analizzato non solo gli argomenti, ma anche la lingua e la forma del “Main Kampf”. Siamo sicuri che non ci siano problemi a leggere oggi il Führer?
«Non credo. La Germania oggi è probabilmente la democrazia più stabile d’Europa. È inoltre un paese che ha ragionato a lungo sul proprio passato nazista, lo ha digerito con grande attenzione ed è consapevole di che cosa significa come retaggio storico e culturale. Il Mein Kampf è un esempio del retaggio del Terzo Reich, non differente da altri testi e manifestazioni politiche, artistiche, culturali di quel periodo che vanno egualmente analizzate».
Quale potrà essere la reazione dei circoli di estrema destra e filo-nazisti, in Germania e nel resto d’Europa?
«È vero che esistono gruppi di questo genere nella Germania odierna, come del resto ne esistono in Gran Bretagna, Italia e altri paesi del nostro continente. Ma è altrettanto vero che si muovono in una prospettiva differente rispetto al nazismo del Terzo Reich e alle idee propagate dal libro di Hitler. Sono gruppi anti- profughi, anti-immigrati, più concentrati sull’islamofobia che sull’antisemitismo, ben diversi dai predecessori ai quali si rifanno, seppure anch’essi pericolosi e da emarginare con fermezza. Il danno che possono fare relativamente alla pubblicazione del libro di Hitler, tuttavia, dovrebbe essere marginale, non mi aspetto che possa diventare la miccia di un risorgere del nazismo, con vecchi o nuovi slogan».
Andreas Wirsching, direttore dell’istituto che ha curato l’edizione, ha detto che questo lavoro «smaschera le informazioni false diffuse da Hitler, le sue bugie e rende riconoscibili tutte le mezze verità finalizzate agli effetti propagandistici»...
«Conosco il lavoro che è stato fatto dagli editori: hanno fornito nelle note i nomi, le date, il contesto storico, necessari a inquadrare il testo e a capirne meglio il significato. Un lavoro ben fatto, che mira per così dire a detossificare il libro, a dimostrare quanto folli, orribili e sbagliate fossero le tesi dell’autore».
Le opere di Mao, Stalin, Lenin, sono sempre state pubblicate senza suscitare polemiche, sebbene oggi quei leader siano giudicati dalla storia come dei dittatori sanguinari. Perché il “Mein Kampf” andrebbe considerato diversamente?
«La mia risposta è che in effetti il Mein Kampf non dovrebbe essere considerato diversamente. La differenza è che, dopo la morte di Hitler e la fine della Germania nazista, la nuova Germania democratica mise al bando quel testo per dare un messaggio simbolico di condanna totale del passato, un segno di rottura, mentre i libri di Lenin, Stalin, Mao continuavano a venire pubblicati, in Russia, Cina o in Europa orientale, con il sostegno di governi o regimi che non avevano preso le distanze da essi. La mia opinione è che la Germania fece bene a vietare il Mein Kampf nel 1945, ma oggi viviamo in un’epoca differente. Pubblicare le opere di un tiranno non vuol dire condividere le sue idee, vuol dire soltanto che è possibile studiarlo».
Come si studierebbero Napoleone, Genkis Khan, Giulio Cesare?
«Sì, ma Napoleone o Cesare non concepirono il genocidio di massa di un popolo. La ragione per studiare Hitler e il suo libro è diversa: serve a capire non solo il meccanismo ideologico che portò la Germania nazista verso il genocidio degli ebrei, ma anche a comprendere la minaccia del genocidio nel mondo contemporaneo, una minaccia che, dal Ruanda alla Cambogia al Darfur, purtroppo non è scomparsa».
Crede che in Israele la pubblicazione del ‘Mein Kampf” da parte della Germania verrà presa con maggiore ansia?
«Probabilmente sì e per ragioni interamente comprensibili. Molti cittadini di Israele hanno perso la propria famiglia nell’Olocausto ed è legittimo che guardino ancora con preoccupazione al risveglio di un simile orrore in qualunque forma. Ma penso che anche molti israeliani concordino che, a distanza di settant’anni, è un fenomeno da studiare per capire appunto come si è sviluppato. E inoltre Israele sa che la Germania, proprio per quello che fece Hitler agli ebrei, è oggi il suo miglior amico e sostenitore in Europa».
Mein Kampf e il Diario, i destini che si incrociano
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 05.01.2016)
Con la caduta del Reich, le forze militari americane affidarono al governo regionale della Baviera la gestione dei diritti del Mein Kampf. La Baviera per settant’anni ne impedì le ristampe, ma ora, con il 2016, la summa delle follie antisemite di Adolf Hitler potrà essere tradotta e diffusa liberamente. L’Istituto di Storia contemporanea di Monaco ne ha allestito infatti un’edizione critica in due volumi, corredata da migliaia di note di commento, che verrà distribuita questa settimana in 4000 copie. L’iniziativa editoriale è il frutto di una lunga discussione storico-politica sull’opportunità di riproporre un libro che alla sua uscita, avvenuta in due tempi nel luglio 1925 e nel novembre 1926, fu un colossale bestseller (oltre 12 milioni di copie).
Da una parte ci sono quelli che vedono nella riproposta del libro un’occasione per rendere più coscienti delle mostruosità naziste anche le giovani generazioni (magari in un’antologia scolastica); dall’altra quelli che avvertono un pericolo nel divulgare quelle aberrazioni.
L’edizione scientifica è stata una scelta di cui il Land bavarese, dopo una prima adesione, ha finito per lasciare all’Istituto storico la piena ed esclusiva responsabilità. Senza considerare che rendere accessibile, con le dovute avvertenze, ogni espressione, anche la più depravata, della storia umana (vicina e lontana) è non solo legittimo ma auspicabile in una società matura e democratica che sia capace di elaborare il proprio passato.
Nel frattempo anche il Diario di Anne Frank sarebbe di dominio pubblico a partire dal 2016. Il condizionale è d’obbligo perché la sua disponibilità resta ufficialmente in bilico visto che la Fondazione di Basilea detentrice dei diritti sostiene che Otto, il padre di Anne, va considerato coautore del Diario, in quanto curatore e «editor» del libro. Dunque, essendo Otto Frank morto nel 1980, i diritti decadrebbero nel 2051. Tra le ragioni di tanta ostinazione, escludendo i motivi economici, ci si appella alla necessità di tutelare il delicato quaderno di Anne da manomissioni e da edizioni infedeli.
Intanto però qualcuno ha sfidato gli svizzeri e ha pubblicato il testo integrale in rete. Se però la Fondazione finisse per far valere le sue ragioni, otterrebbe il paradossale risultato di limitare la circolazione dell’opera simbolo della Shoah, mentre il più diabolico manifesto antisemita resterebbe accessibile a tutti.
E’ morto lo "Schindler inglese" Nicholas Winton aveva 106 anni. Salvò 700 bambini ebrei
di Redazione ANSA LONDRA *
Non si sentiva un eroe ma lo era. Non aveva mai cercato un riconoscimento e fino al 1988 nessuno sapeva chi fosse Nicholas Winton, lo ’Schindler inglese’, che salvò quasi 700 bambini ebrei dall’Olocausto e che è morto a 106 anni.
Fu sua moglie Greta a scoprire per caso in soffitta un vecchio album di ritagli che documentava i salvataggi dei piccoli che Winton trasferì in treno da Praga a Londra riuscendo anche a trovar loro una sistemazione. Tutto cominciò da una mancata settimana bianca che, naturalmente, non si chiamava così.
Nell’inverno del 1938, poco dopo Natale, l’allora broker alla Borsa di Londra, nato e cresciuto a Londra da genitori ebrei di origine tedesca, decise di andare in Svizzera a sciare. Ma poi, convinto da un amico, cambiò destinazione e finì a Praga, nell’allora Cecoslovacchia, dove iniziò a capire che i rischi erano altissimi per i rifugiati - soprattutto per i bambini - che arrivavano dalla dalla zona dei Sudeti, annessa in ottobre alla Germania dopo l’accordo di Monaco. A quel punto Winton comincio’ a pianificare l’evacuazione, lavorando su due fronti: da una parte organizzo’ i trasferimenti, persuadendo i tedeschi a non bloccare l’operazione, dall’altra si attivo’ con inserzioni sui giornali inglesi cercando volontari che potessero ospitare i bambini. Il primo treno partì il 14 marzo 1939, il giorno prima dell’invasione nazista.
L’ultimo nell’agosto dello stesso anno. A settembre lo scoppio della guerra interruppe tutto e Winton, dopo aver fatto il volontario nella Croce Rossa, si arruolò nella Royal Air Force. Pochi ricordarono e nessuno ne parlò più. Poi la scoperta degli appunti da parte della moglie, i riconoscimenti e soprattutto l’emozione dei bambini, diventati grandi, che cominciarono a scrivergli e ad andarlo a trovare. Secondo alcuni sono complessivamente 6000, tra coloro che sono stati salvati e i discendenti, le persone che devono la vita all’eroismo di Winton. Baronetto dal 2002 ripeteva spesso: "non sono un eroe, non sono mai stato in pericolo".
Nel 2009, per il 70/mo anniversario dei suoi ’treni della vita’ la cerimonia fu emozionante. I ’bambini’ di Winton hanno ripercorso coi loro familiari il viaggio dalla stazione di Praga arrivando a Londra su un treno a vapore: li’ lo hanno riabbracciato. Il 19 maggio aveva compiuto 106 anni, festeggiato e onorato.
1945: incredulo film dell’orrore
Alla Cineteca di Bologna il lungometraggio sui campi con la consulenza di Hitchcock che notò lo scorrere sereno della vita che si svolgeva intorno ai luoghi dei massacri
di Angelo Varni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Bergen-Belsen, Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Mauthausen: i nomi terribili dell’orrore nazista; di una crudeltà neppur più misurabile in termini di dolore e di sopraffazione fisica e morale dell’uomo sull’uomo, bensì destinato a portare all’annientamento delle coscienze, all’indifferenza dei carnefici e delle stesse vittime, ridotti a strumenti disumanizzati di un progetto razziale perseguito con meccanica apatia e cieca obbedienza.
Nomi simbolo di una rete vastissima di campi di concentramento e di sterminio, che la Germania di Hitler disseminò nel proprio territorio ed in quelli dei paesi conquistati durante la seconda guerra mondiale, dove milioni di donne, di uomini, di bambini, ebrei per lo più, ma anche renitenti alla leva,zingari, omosessuali, dissidenti politici e prigionieri delle diverse nazionalità trovarono la morte secondo una tragica pianificazione di massa.
A settant’anni da quei terrificanti eventi la Cineteca di Bologna, nell’ambito della XXIX edizione del festival «Il cinema ritrovato» (27 giugno-4 luglio), presenta in prima nazionale l’edizione integrale di German Concentration Camps Factual Survey (La vera indagine sui campi di concentramento tedeschi), un film-documentario costruito attraverso le immagini girate dagli operatori, che accompagnarono le truppe inglesi nell’aprile del 1945 al momento del loro ingresso nei campi (in particolare in quello di Bergen-Belsen). Qui la pellicola fissò - con la crudezza derivante dall’incredulità stessa di quanti si trovarono d’improvviso di fronte all’imprevedibile manifestarsi dello spegnersi di ogni scintilla di umanità - i segni incancellabili delle torture e dei massacri collettivi compiuti, di cui erano prova cataste di poveri corpi ridotti a manichini inscheletriti, insieme al vagare in un vuoto senza sentimenti degli occhi inespressivi dei pochi sopravvissuti.
Subito il ministero dell’Informazione britannico pensò a un immediato utilizzo di tali filmati (completati da quelli paralleli girati dalle truppe sovietiche ed americane) per testimoniare al popolo tedesco, e al mondo intero, le ragioni di un conflitto reso indispensabile dalla necessità di por termine a simili barbarie, che giustificavano la durezza delle condizioni di pace imposte alla Germania. Fu incaricato del progetto il noto produttore Sidney Berstein, che mise al lavoro una squadra di montatori e sceneggiatori di prim’ordine, chiamando a farne parte come consulente l’amico Alfred Hitchcock. Nonostante questo, la lavorazione del film, andò per le lunghe, al punto che gli Stati Uniti, desiderosi di una più immediata divulgazione delle atrocità del delirio hitleriano, affidarono a Billy Wilder la realizzazione di un cortometraggio di una ventina di minuti (uscì nello stesso 1945 con il titolo Death Mills), che presentasse una sintesi di quanto documentato dai filmati realizzati in presa diretta dai militari.
La svolta che rapidamente prese la politica internazionale, avviata verso le tensioni della “guerra fredda”, consigliò di attenuare l’impatto che simili fotogrammi potevano avere sull’opinione pubblica germanica, che veniva posta sotto accusa e che era invece necessario coinvolgere nella ricostruzione del paese, mentre gli inglesi, nel contempo, intendevano ostacolare la volontà degli ebrei - certo enfatizzata dal senso di pietà suscitato dal filmato - di ritrovare il proprio “focolare” palestinese, per evitare le negative reazioni del mondo arabo.
Di conseguenza, a fine settembre 1945, fu deciso di abbandonare il progetto, lasciando il film incompiuto, mentre l’intero girato e tutti i materiali connessi (compresi la sceneggiatura e l’elenco delle riprese) qualche anno dopo vennero depositati all’Imperial War Museum di Londra, dopo essere stati comunque usati quali capi di accusa al processo di Norimberga. Nel 1984 questa versione incompiuta (cinque rulli dei sei previsti) fu presentata al Festival cinematografico di Berlino con il titolo Memory of the Camp, suscitando comunque reazioni sconvolgenti nel pubblico.
Vent’anni dopo, nell’edizione del 2005 del Cinema ritrovato, fu proposto questo documento, creando l’aspettativa di un completamento e di un restauro complessivo dell’opera. Con alcuni anni di lavoro il Museo londinese è riuscito a identificare tutte le sequenze sulla base dei documenti originali, rimontando l’intero film in digitale e accompagnandolo con il commento tratto dalla prima sceneggiatura.
Le scene che in tal modo si succedono davanti agli occhi dello spettatore, oltre a provocare un senso di inorridita repulsione verso una simile evidente testimonianza di disprezzo per gli stessi primordiali valori di umanità, propongono difficilmente sondabili interrogativi sulle responsabilità individuali e collettive di fronte all’esercizio del male; sul rapporto tra autorità statale e cittadini; sulla capacità di un’ideologia e di una fede cieche di lacerare le coscienze trascinandole in uno smarrimento di sé, che sa di abdicazione totale all’uso critico della ragione, cioè all’abdicazione stessa dall’ essere uomini.
Ecco allora le scene terribili dei soldati tedeschi obbligati a gettare nelle fosse comuni i miseri resti dei prigionieri lasciati morire di fame, che paiono svolgere tale compito con meccanica impassibilità. Ecco il confronto (sul quale Hitchcock pare insistesse molto) tra quanto accadeva nei campi e lo scorrere sereno della vita degli abitanti dei luoghi circostanti. Ecco, ancora, il bruciare dei forni, i cumuli di ossa, i folli esperimenti genetici posti in atto, fino al puntiglioso recupero dei vestiti dei prigionieri, predisposti per un ordinato burocratico riutilizzo per i successivi ingressi, in immagini non meno deprimenti, sotto il profilo morale, di quelle riguardanti i primi piani dei cadaveri.
Ecco, soprattutto, gli sguardi dei vivi fra tante morti: impossibilitati ormai a esprimere alcunché, neppure la riconoscenza per i “salvatori”, negata dalla forzata perdita di ogni sensibilità verso quanto appartenesse alla sfera delle umane relazioni. Ma poi ritornano antiche emozioni perdute - ed è momento particolarmente coinvolgente del film - quando vengono dati ai sopravvissuti i vestiti per ricoprire le loro abbruttite nudità: pare che un simile gesto, un tempo naturale, riportasse alla vita; a una normalità capace di scacciare, ancor meglio del fragore delle armi, anche di quelle soccorritrici, i neri fantasmi della malvagità, del dolore, della consunzioni dei corpi e delle anime.
Certo con questi fotogrammi il cinema mostrava per la prima volta al mondo incredulo la prova inconfutabile di un oscuro potere del male, cui popoli interi finivano per soggiacere. E c’era la speranza chiaramente espressa che questa visione esorcizzasse altre consimili tragiche esperienze. La storia dell’intero secolo scorso e di questo inizio di millennio ci dimostra che così non è stato e non è e che si finisce magari per assuefarci a queste rappresentazioni raccapriccianti. Eppure non si deve perdere la speranza che il riscoprire la concreta visione di tali realtà ci porti tutti a risvegliare coscienze capaci di trovare il necessario equilibrio tra ragione e sentimento, unica strada per una civile convivenza dell’umana collettività.
Il vuoto e la voglia di far sapere
Le lettere degli scampati ai Lager
Il museo dell’Olocausto di Gerusalemme rende pubbliche le prime missive scritte subito dopo il 1945.
“Sono sopravvissuto, il resto è perduto”
di Maurizio Molinari (La Stampa, 17.04.2015)
«Mio figlio di 11 anni è stato gasato, mi chiedo perché sono sopravvissuta, era meglio morire»: la lettera di Olga alla zia Jenny è una delle centinaia scritte dai sopravvissuti all’Olocausto subito dopo la liberazione dei campi. Il centro di ricerche dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, le ha raccolte sin dagli Anni Sessanta e in occasione del 70° Giorno dell’Olocausto, che Israele ha celebrato ieri, ha deciso di renderle pubbliche anticipando l’uscita del libro Sono sopravvissuto, il resto è perduto. «Le lettere sono la prima testimonianza che abbiamo da parte dei sopravvissuti - spiega Iael Nidam-Orvieto, direttore dell’Istituto internazionale di ricerca sull’Olocausto che ha curato il progetto assieme a Robert Rozett, direttore delle Biblioteche dello Yad Vashem - e ci consentono di comprendere cosa provarono, pensarono e fecero nei giorni immediatamente seguenti l’apertura dei cancelli dei lager».
Lo spunto per la ricerca nasce dalla missiva che Primo Levi, appena liberato, scrisse alla famiglia. Godfried Bolle, nell’agosto 1945, riassume così al fratello Leo, ad Amsterdam, il senso della «prima lettera»: «Finalmente riesco a farlo». E poi aggiunge: «Ne seguiranno altre con i dettagli su quanto di terribile è avvenuto alla nostra famiglia, così che possiate farlo sapere agli altri». Negli ultimi tre anni lo Yad Vashem è entrato in possesso di centinaia di «prime lettere» di sopravvissuti grazie all’iniziativa «Raccogliamo i frammenti» che ha portato migliaia di famiglie a consegnare ogni tipo di oggetti risalenti al periodo della persecuzione e dello sterminio di sei milioni di ebrei europei da parte dei nazisti e dei loro alleati.
I contenuti dei testi aiutano ad entrare nelle menti di chi era appena scampato alla morte. «Scrivono anzitutto per ricordare chi non c’è più, per far sapere ai famigliari cosa è avvenuto - spiega Nidam-Orvieto - ma anche per esprimere una forte voglia di ricominciare a essere vivi, fare progetti, immaginare attività, iniziative, vite possibili».
Colpisce, in ogni testo, l’assenza totale di euforia per l’avvenuta liberazione da parte degli alleati. Prevale, pagina dopo pagina, una netta sensazione di vuoto che si tenta di colmare ricostruendo quanto avvenuto e guardando all’avvenire possibile, spesso nella Palestina meta dell’emigrazione ebraica o anche negli Stati Uniti «terra dove si lavora duro ma si respira liberamente» come scrive una giovane all’ex insegnante Zvi.
La descrizione dell’inferno appena attraversato è minuziosa, sempre accompagnata alla scelta di frenarsi nel racconto. «Ho avuto il tifo ed ho particolarmente sofferto la fame, era terribile lavorare dalle 3 del mattino fino a notte avendo fame, ci sono state volte che la fame era tale da accecarmi - scrive Olga, sopravvissuta ad Auschwitz e Bergen Belsen - a sorvegliarci erano i cani delle SS, sono ancora piena dei segni dei loro morsi, ma non voglio più scrivere di queste cose, è incredibile che degli esseri umani abbiamo fatto ciò ad altri esseri umani».
Poi c’è il «come» queste lettere furono scritte: in una moltitudine di lingue europee, in yiddish ed anche nell’ebraico allora poco adoperato, indirizzandole a qualsiasi persona o ente conosciuto. Come se il bisogno di scrivere, comunicare, prevalesse sull’identità del destinatario. «C’è chi spedisce la lettera ad un’organizzazione ebraica o sionista, chi scrive alla famiglia, chi a lontani conoscenti e chi a singole persone conosciute limitando a indicare come località la città dove immagina che possano trovarsi».
Esprimendo il desiderio di ricominciare ad esistere. Come fa la giovane scampata che, ricevuta la prima lettera di risposta, ammette di «averci giocato» assaporando il ritorno alla vita.
Quando la feccia si presenta in tivù
di Antonio Padellaro (il Fatto, 04.03.2015)
Nel 1938, Telesio Interlandi pubblicò il primo numero del quindicinale La difesa della razza e ne stampò 95 mila copie che andarono rapidamente esaurite. Un successo editoriale che durò fino al 1943 e che ebbe, per così dire, la funzione di fare venire a galla l’antisemitismo che albergava in una parte degli italiani. Così, quando cominciò la persecuzione degli ebrei, molti girarono la testa e qualcuno fu indotto a pensare: in fondo se la sono cercata. Quello che succede in Italia a proposito dei rom richiama quello schema, per ora (ma solo per ora) nella forma farsesca adatta ai nostri tempi.
Lunedì sera, a Piazza pulita, Gianluca Bonanno parlamentare europeo, leghista, girovago dei talk show dove vende la sua merce avariata, ha definito rom e zingari “feccia della società”. Una parte del pubblico ha battuto le mani e il conduttore Corrado Formigli, collega che stimo, ha detto: “È un applauso di cui mi vergogno”. Spiegando poi: “Bonanno è qui perché riflette un pezzo di Paese che la pensa come lui”.
Nelle due frasi, entrambe vere, c’è il micidiale cortocircuito che sta resuscitando il mostro. Abbiamo un Salvini, e i suoi tristi epigoni che raccattano voti dando voce agli istinti più bassi: contro i clandestini che sarebbe meglio abbandonare tra le onde e contro i nomadi brutti, sporchi e cattivi. E abbiamo la Tv che in crisi di ascolti li corteggia e legittima presso milioni di persone la feccia che rappresentano. Purtroppo, vergognarsi non basta più.
Primo Levi e la lettera inedita: l’olocausto spiegato a una bambina
“Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere”
Primo Levi era nato il 31 luglio 1919 a Torino, dove è morto l’11 aprile 1987
di Monica Perosino (La Stampa, 23/01/2015)
Torino
Gli avevo chiesto: come potevano essere così cattivi?
A 11 anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo. L’avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo l’Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità?
Se questo è un uomo era nella lista dei libri da leggere stilata dalla professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un’undicenne, mi parve ovvio andare alla fonte. Cercai l’indirizzo di Primo Levi sulla guida del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Nemmeno per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama planetaria. Per me era «solo» Primo Levi e il suo libro era anche un po’ mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che c’ero lo invitai nella mia scuola.
La risposta arrivò, datata 25 aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di «ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre anni dopo, l’11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l’uomo che avrebbe potuto darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre. Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue risposte.
25/4/83
Cara Monica,
la domanda che mi poni, sulla crudeltà dei tedeschi, ha dato molto filo da torcere agli storici. A mio parere, sarebbe assurdo accusare tutti i tedeschi di allora; ed è ancora più assurdo coinvolgere nell’accusa i tedeschi di oggi. È però certo che una grande maggioranza del popolo tedesco ha accettato Hitler, ha votato per lui, lo ha approvato ed applaudito, finché ha avuto successi politici e militari; eppure, molti tedeschi, direttamente o indirettamente, avevano pur dovuto sapere cosa avveniva, non solo nei Lager, ma in tutti i territori occupati, e specialmente in Europa Orientale. Perciò, piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi. La cosa più brutta vista in Lager credo sia proprio la selezione che ho descritta nel libro che conosci.
Ti ringrazio per avermi scritto e per l’invito a venire nella tua scuola, ma in questo periodo sono molto occupato, e mi sarebbe impossibile accettare. Ti saluto con affetto
Primo Levi
Domande scomode sull’antisemitismo
di Riccardo Franco Levi e Alberto Melloni (Corriere della Sera, 21.01.2015)
«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo traportando alla fossa comune il cadavere di Somogyi, il primo dei morti tra i nostri compagni di camera... Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati...». Così, nelle prime pagine de La tregua , Primo Levi descrive la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz.
A settanta anni esatti di distanza, il 27 gennaio, come avviene ormai da quattordici anni in base alla Legge n.211 del 20 luglio 2000, si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo»), «dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». «Affinché simili eventi non possano mai più accadere».
La realtà non sempre si adegua alla norma, foss’anche alla più giusta tra di esse, specie quando ultra vires sostituisce il problema del risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare. Ma se ci fosse stato ancora bisogno di ricordare quanto e come l’odio antiebraico non sia sparito e non sia stato espulso dalle viscere profonde della società e degli uomini, a suonare l’allarme e a risvegliare le coscienze ci hanno pensato i terroristi di Parigi, allungando con il massacro al supermercato kosher, nelle ore di preparazione dello Shabbat, la scia di sangue e di morte che avevano iniziato a tracciare con la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo.
A tanto orrore ha risposto l’enorme, emozionata partecipazione alla marcia che ha percorso e bloccato Parigi e scosso l’intera Europa. E una speranza si è riaccesa. Per quanto scomodi, urticanti addirittura, alcuni interrogativi, però, sono legittimi, anzi doverosi, proprio per non rinunciare alla razionalità critica che è quella che nella storia europea ha permesso a ciascuna delle sue culture di essere più profondamente se stessa.
Quanto della commozione, della condivisione di valori e sentimenti che si sono manifestati in quelle ore terribili è stato possibile grazie a quel «Je suis Charlie», il motto sventolato come impavida bandiera della libertà di espressione che ha saputo parlare dritto al cuore di tutti? Quanto ha pesato nell’eco e nell’emozione estesa da Parigi al mondo intero il fatto che le prime vite spezzate, spezzate come le matite subito assurte a simbolo dell’orrore, fossero vite di giornalisti, che ad essere colpito fosse stato il mondo dell’informazione? Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l’eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o persino dei bimbi della scuola che i terroristi avevano progettato di colpire, ripetendo nella Ville Lumière l’orrore consumato nel 2012 a Tolosa? Avremmo visto, nelle strade, sui balconi, sulle prime pagine dei giornali, la scritta «Je suis Johan»? E noi, noi italiani, come avremmo reagito? Cosa avremmo pensato?
Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà essere l’occasione per risposte vere a questi interrogativi. In un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere.
Come ha ricordato il ministro Giannini parlando agli studenti italiani ad Auschwitz pochi giorni fa, pur nel riconoscimento di quel luogo quale primo ed universale simbolo dell’orrore della Shoah, altri sono i luoghi, altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione contro gli ebrei italiani: l’aula della Camera dei deputati dove il 14 dicembre del 1938 furono all’unanimità approvate le leggi antiebraiche; il Ghetto di Roma dove avvenne il rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943; il Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove partivano i vagoni per la deportazione; il campo di Fossoli, ultima tappa prima di Auschwitz, la Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico campo di sterminio in terra italiana.
Qui, non meno che ad Auschwitz, è e sarà bene portare gli studenti per far toccar loro con mano (sì, con la mano passata, ad esempio, sul legno dei vagoni conservati nel Memoriale del Binario 21) la realtà e la radice profondamente italiane delle persecuzioni contro gli ebrei.
Per aprire la porta a una conoscenza diffusa e a una comprensione più vera della storia, delle storie, delle responsabilità. Per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti, le verità di comodo: quella degli italiani brava gente, delle leggi razziali fasciste come frutto dell’obbligato accodarsi all’alleato nazista, della Chiesa avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei.
Così sappiamo che non fu. Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia con una retorica del diabolico, generando un risentimento autoassolutorio sui nazisti o sui croati o sugli ucraini.
Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede e il Cattolicesimo in generale che, non certo soli, ebbero un ruolo nell’ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso, s’illusero che tollerando la «parte cattiva» delle leggi razziste (che ci fosse la «parte buona» il portavoce del Papa lo sostenne privatamente anche dopo il 25 luglio 1943) avrebbe potuto svolgere la sua missione.
Ancora più in profondo, la propaganda e le argomentazioni fasciste a giustificazione e sostegno della legislazione antiebraica furono astutamente modellate sulla base di quell’insegnamento del disprezzo e quel diritto di segregazione iscritti nella storia dei cristiani: i cattolici della associazione «Amici Israël» che li volevano ripudiare furono sciolti nel 1928, e dovettero attendere fino al 1959 e all’inizio del Concilio perché il ripudio del linguaggio della «perfidia» e dell’antisemitismo «di chiunque e quandunque» aprisse una via nuova.
Quanto di questo substrato, di questi pregiudizi (sull’ebreo ricco ed avaro, potente nella finanza e nel mondo dell’informazione, corruttore della società, estraneo ed infedele alla nazione che lo «ospita») rimane vivo nella società italiana? E se sì, perché? Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio.
Dopo la marcia di Parigi, il presidente del Consiglio Renzi ha detto: «Je suis Charlie, je suis juif, je suis européen». Siamo sicuri che le sue parole rappresentino davvero il comune sentire di tutti noi italiani? E se qualcuno facesse compilare agli italiani un’autocertificazione razziale come quella richiesta ad Albert Einstein al suo ingresso in America, scriveremmo tutti di essere di razza «umana»?
L’olocausto una tragedia europea (e molto italiana)
di Furio Colombo (Corriere della Sera, 24.01.2015)
Caro direttore,
chiedo ospitalità al tuo giornale, che il 20 gennaio ha pubblicato un articolo firmato da Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni. Benché intitolato «Domande scomode sull’antisemitismo», l’articolo dedica un’attenzione quasi esclusiva alla legge numero 211 del 20 luglio 2000, che istituisce in Italia il Giorno della Memoria.
Quel testo di legge che, come è noto, ho scritto, firmato e presentato fin dall’inizio della Tredicesima legislatura, viene presentato come anonimo nell’articolo in questione (non si dice neppure da quale parte della Camera di allora quel testo sia stato presentato). Ma alcune osservazioni severe vengono fatte subito.
Scrivono Levi e Melloni: «Come avviene ormai da quattordici anni, il 27 gennaio si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo») dello sterminio e della persecuzione del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Ma il testo della legge dice all’articolo 1: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte...». Non sembra che vi siano omissioni o ambiguità.
L’articolo 2 si conclude (e conclude il breve testo della legge), con le parole «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Commentano gli autori: «La realtà non sempre si adegua alla norma (...) specie quando sostituisce il risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare». L’argomento così grave rende imbarazzante una obiezione ovvia ma anche inevitabile. Il Giorno della Memoria, come si constata in molte scuole d’Italia, ma anche in televisione, raramente fa accenni vaghi ai ricordi. Di solito si ascolta chi racconta ciò che sa e che ha vissuto, si vedono i film, i luoghi, i documenti di cose tragicamente accadute, per chi non le avrebbe mai viste.
Ed ecco un secondo, disorientante passaggio: «Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà (...) avere un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere (...). Altri sono i luoghi e altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione agli ebrei italiani». Gli autori elencano, oltre ai campi italiani, il Ghetto di Roma e la Camera dei deputati dove tanta parte della tragedia è accaduta «per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti». E concludono: «Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio».
Su come tutto è cominciato, e, alla fine, con tutti i suoi limiti, si è realizzato, affido un chiarimento importante (ma che era certo conosciuto dagli autori dell’articolo) al professor Robert F.C.Gordon (Modern italian culture, University of Cambridge) citando dal suo libro The Holocaust in Italian Culture ( L’Olocausto nella cultura italiana, pubblicato da Stanford University Press): «Nei tardi anni Novanta Furio Colombo e altri hanno cominciato a sostenere la necessità di istituire in Italia un giorno nazionale della memoria dell’Olocausto. (...) Alla fine il giorno scelto è stato il 27 gennaio, data della liberazione del campo da parte dei Sovietici e il più grande simbolo dell’orrore della soluzione finale. Ma Furio Colombo ha continuato a insistere su una data italiana, una data che appartenesse alla storia italiana e alla storia degli ebrei italiani. La sua data era il 16 ottobre 1943, quando, lui diceva, la soluzione finale è stata portata nel cuore di Roma e ha mostrato e confermato la collaborazione fra tedeschi e fascisti» (pag. 97 ).
Non ho mai incontrato Robert Gordon. Ma ciò che scrive era pubblico a quel tempo in Italia, e gli argomenti si incrociavano sui giornali e in televisione. Tanto che lui può scrivere: «Si è espresso bene Colombo, quando inizia la sua campagna per il Giorno della Memoria e dice: “La Shoah è un delitto italiano”» (pag. 179).
Molto importante, per me, è la presa di posizione di Tullia Zevi, allora presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, che mi ha chiesto di aderire alla proposta del 27 gennaio, come data capace di contenere il senso europeo della tragedia. Alla fine - il giorno dell’approvazione unanime della legge alla Camera - ho potuto dire ai miei colleghi ciò che Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni vogliono che sia il senso del Giorno della Memoria: «In quest’Aula in ciascuno dei nostri seggi sedeva qualcuno che ha votato sì alle leggi di persecuzione dei cittadini italiani ebrei. Io vi chiedo di votare sì, adesso, dagli stessi seggi, sul Giorno della Memoria. Non potremo cambiare neppure in un dettaglio il passato. Ma avremo detto ai più giovani che sappiamo che cosa è accaduto in quest’Aula». (Cito dai verbali).
Mi sono illuso per un momento che il Parlamento fosse una macchina del tempo, capace di toccare il passato. Non lo è. È poca cosa il Giorno della Memoria. Ma esiste. Esiste in Italia.
*
Giornalista e scrittore
Ex parlamentare pd
Capirete cosa è il contagio del male
Così fu Auschwitz: in un volume testimonianze inedite dello scrittore e di un suo compagno di prigionia
di Primo Levi (La Stampa, 21.01.2015)
Pensate: non più di venti anni fa, e nel cuore di questa civile Europa, è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri e gli schiavi ci sono stati. [...]
Ma c’è stato anche di più e di peggio: c’è stata la dimostrazione spudorata di quanto facilmente il male prevalga. Questo, notate bene, non solo in Germania, ma ovunque i tedeschi hanno messo piede; dovunque, lo hanno dimostrato, è un gioco da bambini trovare traditori e farne dei sàtrapi, corrompere le coscienze, creare o restaurare quell’atmosfera di consenso ambiguo, o di terrore aperto, che era necessaria per tradurre in atto i loro disegni.
Tale è stata la dominazione tedesca in Francia, nella Francia nemica di sempre; tale nella libera e forte Norvegia; tale in Ucraina, nonostante vent’anni di disciplina sovietica; e le medesime cose sono avvenute, lo si racconta con orrore, entro gli stessi ghetti polacchi: perfino entro i Lager. È stato un prorompere, una fiumana di violenza, di frode e di servitù: nessuna diga ha resistito, salvo le isole sporadiche delle Resistenze europee.
Negli stessi Lager, ho detto. Non dobbiamo arretrare davanti alla verità, non dobbiamo indulgere alla retorica, se veramente vogliamo immunizzarci. I Lager sono stati, oltre che luoghi di tormento e di morte, luoghi di perdizione.
Mai la coscienza umana è stata violentata, offesa, distorta come nei Lager: in nessun luogo è stata più clamorosa la dimostrazione cui accennavo prima, la prova di quanto sia labile ogni coscienza, di quanto sia agevole sovvertirla e sommergerla.
Non stupisce che un filosofo, Jaspers, ed un poeta, Thomas Mann, abbiano rinunciato a spiegare l’hitlerismo in chiave razionale, ed abbiano parlato, alla lettera, di «dämonische Mächte», di potenze demoniache.
Su questo piano acquistano senso molti particolari, altrimenti sconcertanti, della tecnica concentrazionaria. Umiliare, degradare, ridurre l’uomo al livello dei suoi visceri. Per questo i viaggi nei vagoni piombati, appositamente promiscui, appositamente privi d’acqua (non si trattava qui di ragioni economiche). Per questo la stella gialla sul petto, il taglio dei capelli, anche alle donne. Per questo il tatuaggio, il goffo abito, le scarpe che fanno zoppicare. Per questo, e non la si comprenderebbe altrimenti, la cerimonia tipica, prediletta, quotidiana, della marcia al passo militare degli uomini-stracci davanti all’orchestra, una visione grottesca più che tragica. Vi assistevano, oltre ai padroni, reparti della Hitlerjugend, ragazzi di 14-18 anni, ed è evidente quali dovevano essere le loro impressioni. Sono questi, dunque, gli ebrei di cui ci hanno parlato, i comunisti, i nemici del nostro paese? Ma questi non sono uomini, sono pupazzi, sono bestie: sono sporchi, cenciosi, non si lavano, a picchiarli non si difendono, non si ribellano; non pensano che a riempirsi la pancia. È giusto farli lavorare fino alla morte, è giusto ucciderli. È ridicolo paragonarli a noi, applicare a loro le nostre leggi.
Allo stesso scopo di avvilimento, di degradazione, si arrivava per altra via. I funzionari del campo di Auschwitz, anche i più alti, erano prigionieri: molti erano ebrei. Non si deve credere che questo mitigasse le condizioni del campo: al contrario. Era una selezione alla rovescia: venivano scelti i più vili, i più violenti, i peggiori, ed era loro concesso ogni potere, cibo, vestiti, esenzione dal lavoro, esenzione dalla stessa morte in gas, purché collaborassero. Collaboravano: ed ecco, il comandante Höss si può scaricare di ogni rimorso, può levare la mano e dire «è pulita»: non siamo più sporchi di voi, i nostri schiavi stessi hanno lavorato con noi. Rileggete la terribile pagina del diario di Höss in cui si parla del Sonderkommando, della squadra addetta alle camere a gas e al crematorio, e capirete cosa è il contagio del male.
Convegno del Cdec a Roma
I dati della Shoah
Una rivoluzione in formato digitale
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 17.01.2015)
Nacque nel 1955 a Venezia per raccogliere materiale sulle persecuzioni antisemite e il contributo degli ebrei alla Resistenza. Compie quindi sessant’anni il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), che nel 1960 si trasferì a Milano e dal 1986 ha assunto la veste giuridica di fondazione.
La ricorrenza, che coincide con il settantesimo della Liberazione, vedrà il presidente del Cdec Giorgio Sacerdoti e la responsabile delle ricerche scientifiche, Liliana Picciotto, impegnati ai primi di febbraio negli Stati Uniti per presentare le attività in corso e i nuovi progetti, che proiettano questa istituzione all’avanguardia nel campo della condivisione dei dati sulla storia recente.
In particolare il Cdec è il primo istituto ebraico d’Europa ad aver adottato la tecnologia Linked open data (Lod), che apre prospettive inedite all’impegno che Liliana Picciotto definisce «la battaglia contro la dispersione delle fonti». In sostanza si tratta di una modalità di pubblicazione dei dati che amplifica e potenzia le opportunità di accesso alle informazioni e ai documenti presenti sul web, e che, consentendo il riutilizzo delle risorse, consente a studiosi e utenti della Rete di sviluppare nuove ricerche e applicazioni.
I Lod sono utilizzati da Google, per esempio, allo scopo di rendere le ricerche sempre più mirate e precise, o da Facebook per creare le relazioni fra amici. Ma sono anche quelli che hanno permesso alla Bibliothèque National de France di integrare i cataloghi bibliografici, degli archivi e le risorse digitali. In tutti e tre questi casi il collegamento dei dati non è più su base ipertestuale, bensì imperniato su una rete di parole-chiave che fungono da anello di giuntura fra gli elementi del web.
Il Cdec ha adottato questa tecnologia per un progetto che prevede innanzitutto l’integrazione delle proprie banche dati e la pubblicazione online di descrizioni inventariali e documenti digitali, a cominciare da quelli sul genocidio degli ebrei. Nella prima fase, l’anello di giuntura sono stati i nomi delle vittime della Shoah in Italia.
«Grazie ai Linked open data - spiega Laura Brazzo, responsabile dell’Archivio storico del Cdec e di questo progetto - abbiamo potuto compiere il fondamentale passaggio dal concetto di “nome” a quello di “persona”, e all’univocità che il concetto di persona racchiude in sé. Ad ogni persona (ogni vittima della persecuzione e deportazione dall’Italia nel periodo 1943-45) sono stati associati i dati che la identificano e la rendono unica: nome, cognome, luogo di nascita, genitori... E ciascuno di essi è come se fosse stato dotato di un codice fiscale che ne garantisce l’inequivocabilità. Per esempio, esiste soltanto una città di Roma con certe coordinate geografiche. Ebbene, la città di Roma è stata dotata di un codice di identificazione che ci permette di riconoscerla sempre come tale, indipendentemente dal contesto o dalla funzione per cui è stata utilizzata».
Il passo successivo è stato collegare le «persone» ai documenti: fotografie, inventari digitalizzati, videointerviste, documenti digitali. In questo modo con un’unica interrogazione si può sapere in quanti e quali documenti sono presenti informazioni su una certa persona.
Le varie fasi del progetto verranno illustrate nel corso del workshop internazionale «Linked Open Data & the Jewish Cultural Heritage» che si terrà a Roma, presso la Camera dei deputati, il 20 gennaio: un incontro che il Cdec ha organizzato insieme al suo partner per le nuove tecnologie, Regesta.exe, che ha realizzato l’intero lavoro di trasformazione dei dati, e all’Istituto di informatica e telematica del Cnr.
Nel corso dell’incontro verrà presentata anche l’anteprima del nuovo portale web, Cdec Digital Library, dal quale saranno accessibili non solo le descrizioni della biblioteca e degli archivi del Cdec, ma anche collezioni di documenti appositamente digitalizzati.
La Shoah nelle immagini di Hitchcock
Scoperto un anno fa, restaurato, emerge dagli archivi il filmato girato dal grande regista
di Paolo Mereghetti (Corriere della Sera, 15.01.2015)
L’idea era quella di fare un documentario «didattico» che ricordasse ai tedeschi quello che volevano non vedere: gli orrori compiuti nei campi di concentramento. Un film «politico», come si sarebbe detto oggi.
Ma eravamo nel 1945, la guerra era finita da pochissimo e l’alleato sovietico stava già diventando il nemico numero uno dell’Occidente: non si poteva caricare sulle spalle della Germania, almeno quella alleata di americani ed europei, un ulteriore senso di colpa. E così, nonostante a firmare quel documentario fosse stato chiamato Alfred Hitchcock, che vi aveva lavorato per sei settimane, tra giugno e luglio del 1945, il progetto era stato accantonato sine die e German Concentration Camps Factual Survey («Un’indagine fattuale sui campi di concentramento tedeschi», questo il titolo di lavorazione) fu archiviato insieme ai materiali ancora non montati nei depositi dell’Imperial War Museum di Londra, sotto la sigla F3080.
Alcune di quelle immagini erano poi state mostrate, oltre a quelle girate da altri registi che avevano accompagnato la marcia degli Alleati, come gli americani George Stevens e Samuel Fuller, ma le scene che Hitchcock aveva montato sono rimaste nascoste per settant’anni, finché André Singer - già produttore di Werner Herzog e regista in proprio - non ha ottenuto il permesso di lavorare sui materiali «F3080».
Ne è uscito un documentario sconvolgente, che per la prima volta mostra il lavoro fatto da Hitch, accompagnato dalla voce narrante di Helena Bonham Carter e intitolato Night Will Fall («La notte scenderà», citazione dalla serie Doctor Who : «Demons run when a good man goes to war / Night will fall and drown the sun / When a good man goes to war»).
È andato in onda sulla rete franco-tedesca Arte martedì 13 (col titolo Images de la libération des camps ) e verrà programmato dall’inglese Channel 4 sabato 24 febbraio. Augurandoci che presto arrivi anche in Italia.
Che cosa si vede nel documentario? Le immagini, in gran parte inedite, della liberazione di undici campi, tra cui di Bergen-Belsen, Dachau, Buchenwald, Ebensee, Mauthausen, Majdanek, filmate da quattro operatori militari: gli inglesi Mike Lewis e William Lawrie, l’americano Arthur Mainzen e il sovietico Aleksandr Vorontsos, intervistati da Singer insieme ad altri testimoni, sopravvissuti ai campi, e al pubblico ministero che parlò per l’accusa al processo di Norimberga.
Sfortunatamente non esistono riprese dell’incontro, avvenuto all’inizio degli anni Settanta, tra Hitchcock e il fondatore della Cinémathèque française Henri Langlois, che però nelle sue memorie riporta quello che gli aveva confidato il regista: «Alla fine della guerra, ho fatto un film che doveva mostrare la realtà dei fatti avvenuti nei campi di concentramento nazisti. Atroce. Era ancora più atroce del peggior film d’orrore. Nessuno lo ha voluto vedere. Ma quel film non mi ha più abbandonato».
Come mai proprio Hitchcock, che lavorava stabilmente a Hollywood dove aveva appena terminato Prigionieri dell’oceano e Io ti salverò era stato coinvolto in quel progetto? Il merito è tutto di Sidney Bernstein, co-fondatore nel 1925 della London Film Society, dove aveva stretto amicizia con il giovane Hitchcock, «infaticabile antifascista e militante contro l’antisionismo», collaboratore negli anni Trenta del ministero dell’Informazione e poi, nel 1954, tra i fondatori di Grenada Television.
Quando all’inizio del 1945 i primi campi sono liberati e le prime atroci immagini vengono inviate a Londra, Bernstein convince la Divisione guerra psicologica del Quartier generale delle forze di spedizione alleate a produrre un film «destinato in maniera specifica ai tedeschi, che fosse la prova inattaccabile delle loro atrocità». E Hitchcock accetta la proposta dell’amico, pronto a sobbarcarsi un viaggio in nave dagli Usa in Inghilterra dormendo - ha raccontato - «in un dormitorio con altre trenta persone». Segno che il lavoro lo interessava e infatti appena arrivato a Londra si mette al lavoro, insieme allo scrittore inglese Richard Crossman (che scrisse un primo trattamento) e al corrispondente di guerra australiano Colin Wills (che invece stese una vera e propria sceneggiatura).
Hitchcock da parte sua dedicò quasi tutto il suo tempo a guardare i materiali che arrivavano dall’Europa, insieme al montatore Peter Tanner. Il regista, forte della sua esperienza cinematografica, cercava soprattutto le riprese in continuo, le panoramiche, «perché nessuno potesse dire che quelle immagini erano state manipolate per falsificare la realtà». Un compito non facilissimo, visti i brevi caricatori delle cineprese 16mm in dotazione all’esercito, ma nel film di Singer ci sono molti esempi di quello che Hitchcock aveva selezionato e affidato a un primo montaggio.
Sono immagini strazianti, difficili da sostenere anche a settant’anni di distanza. E più ancora dei volti dei morti, scavati dalle piaghe e dalla fame o maciullati dagli aguzzini, sconvolgono le scene in cui i soldati tedeschi prigionieri sono costretti a caricare i corpi dei morti, li trascinano e li gettano nelle fosse comuni, come se si trattasse di manichini, perché i rischi delle epidemie (soprattutto tifo) rischiavano di propagarsi e non lasciavano spazio né tempo nemmeno per un po’ di pietà.
Poi, nell’agosto del ’45, le convenienze della politica fermarono il lavoro, Hitchcock tornò a Hollywood per girare Notorius - L’amante perduta e il materiale girato e in parte montato finì in uno scatolone dell’Imperial War Museum. È riemerso settant’anni dopo, con tutta la sua forza di sconvolgente testimonianza, a confermare quello che Bernstein andava continuamente ripetendo ai suoi collaboratori: «Un giorno capirete che tutto questo valeva la pena».
La Shoah dei bambini
Inghiottiti nei forni crematori, sfracellati contro i muri, centrati a colpi di pistola. Dagli atti del processo Eichmann tradotte le pagine relative alle vittime più giovani
di Elena Loewenthal (La Stampa, 01.12.2014)
Che la memoria sia un valore e ricordare un dovere è cosa ormai assodata. Un dogma che non si discute, valido in assoluto. Ma non sempre è stato così, neppure a proposito di quella memoria divenuta tale per antonomasia, tanto da siglare una giornata apposita. La Shoah non è sempre stata l’oggetto di una commemorazione pubblica, non è sempre stata il simbolo del dovere morale di ricordare, per evitare che succeda di nuovo. Anzi.
Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, di imperativo ne era in vigore un altro, di segno opposto: lasciarsi tutto alle spalle. Tornare a vivere. E per poterlo fare, per potersi svegliare ogni mattina e prendere sonno ogni sera senza lo sgomento di quel passato prossimo, sembrava necessario dimenticare. Quanto meno, tacere. Israele era allora il Paese con il più alto tasso di incubi notturni e urla dal sonno profondo. Ma i sopravvissuti tacevano, di giorno. Un po’ per continuare a sopravvivere, per non farsi distruggere dalla disperazione. Un po’ per l’indecifrabile vergogna di esserci ancora, mentre tutti gli altri erano morti.
Poi ci fu un evento cruciale, senza il quale la memoria non sarebbe diventata quello che è oggi. Nel 1960 Adolf Eichmann, la mente della Soluzione finale, viene individuato e catturato dagli israeliani in Sud America, dove conduce una vita perfettamente tranquilla. L’anno successivo s’inizia a Gerusalemme il suo processo, in una sala costruita all’uopo. Centinaia di sopravvissuti prendono posto sul banco dei testimoni, sotto gli sguardi della corte e dell’impassibile imputato. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo seguono le udienze. Molte sono trasmesse per radio. In Israele e nel mondo intero si ascoltano per la prima volta, da quelle vive ma straziate voci, i racconti della Shoah. In quei mesi, la memoria diventa qualcosa di diverso da ciò che era prima. Parole, sguardi, silenzi. Anche il tonfo del corpo svenuto di Yechiel De Nur, che ha voluto testimoniare con il nome di Ka-Tzetnik (abbreviazione di «prigioniero del campo di concentramento») seguito dal numero che ha tatuato sul braccio, e non ce l’ha fatta.
Livio Crescenzi, archeologo e traduttore di letteratura americana, sta da molti anni lavorando alla traduzione italiana di quel documento indispensabile che sono gli atti del processo.
Inspiegabilmente, nella mole financo ridondante di letteratura intorno alla Shoah di cui dispone e in cui ancora si profonde la nostra editoria, mancava questo tassello fondamentale. Forse perché si tratta di un lavoro immenso e minuzioso, che esige passione e commozione nel senso più alto del termine, il desiderio cioè di sentire e inevitabilmente soffrire, lavorando su quelle parole. Più che mai quando il tema sono i bambini della Shoah, come in questo secondo volume degli atti, pubblicato come il precedente dal benemerito editore Mattioli 1885 con il titolo Un fiore mi chiama (pp. 207, € 21,90) e una prefazione di Ernesto Galli della Loggia.
Sono pagine terribili. Non c’è altro modo per definirle. È una lettura che mette a dura prova, che ti provoca continuamente, che ti invita a ogni pagina a chiudere il libro, sbatterlo contro il primo muro, urlare che non è possibile. Eppure è così. Crescenzi ha metodicamente raggruppato le testimonianze per luoghi, momenti. Udienza per udienza. A partire dal ghetto di Varsavia dove più si era piccini più probabilità - per quanto scarsa - c’era di riuscire a contrabbandare un tozzo di pane di qua dal muro, sfuggendo alla sorveglianza. C’è la tacca su un altro muro, quello del dottor Mengele: sopra significava passare dai suoi esperimenti, sotto voleva dire essere troppo piccoli di statura, e finire immediatamente nelle camere a gas.
C’è un’infinità intollerabile di neonati strappati alle braccia delle madri e sbattuti per terra per fracassargli il cranio. Ridendo. C’è quel bambino rimasto un anno nascosto in cantina con la consegna del silenzio, che a distanza di tanto tempo ancora sussurrava invece di parlare, per paura. C’è anche il sedicenne che Eichmann uccise perché aveva rubato due ciliegie dal suo albero. Era in una squadra di lavori forzati al servizio «domestico» e fu probabilmente l’unico caso in cui la bestia nazista ammazzò qualcuno direttamente, con le proprie mani. Il suo avvocato difensore si accanisce contro questa testimonianza, perché tutta la sua strategia è basata sul paradosso di un capo d’accusa fondato sulla responsabilità di più di sei milioni di morti, e nessun (o quasi nessun) omicidio compiuto in prima persona.
Eichmann venne giustiziato il 31 maggio 1962 perché ritenuto colpevole di crimini contro l’umanità, nella piena consapevolezza che la pena, per quanto capitale, non era commisurata all’immensità della colpa. Momento cruciale della storia di tutti noi, chiave di volta del nostro approccio alla memoria, il processo Eichmann è anche, forse soprattutto, la resa di ogni possibile giustizia di fronte a un milione e mezzo di bambini inghiottiti dal fumo dei forni crematori, sfracellati contro il muro, centrati da un colpo di pistola, sepolti dentro una fossa comune.
Sobibor, viene alla luce l’ultimo tassello della Shoah
Dopo sette anni di scavi, ritrovata una delle camere a gas del Lager: le SS avevano cercato di distruggerne le tracce
di Maurizio Molinari (La Stampa, 18.09.2014)
Al termine di sette anni di scavi con gli strumenti più avanzati dell’archeologia, una task force del Museo Yad VeShem di Gerusalemme ha ritrovato nel sottosuolo della Polonia una delle camere a gas del campo di sterminio di Sobibor, contribuendo a portare alla luce un tassello della Shoah che i nazisti tentarono di occultare distruggendolo e piantandovi sopra nel 1943 un’intera foresta.
David Silberkland, capo delle ricerche a Sobibor, ha lavorato sulla base dei frammenti di testimonianze dei pochissimi sopravvissuti da uno dei Lager creati dai nazisti con l’unico scopo di mettere a morte il numero più alto di ebrei nei tempi più rapidi possibili. «Sobibor fu costruito nel 1942 dalla Germania nazista per portare a termine la totale eliminazione degli ebrei polacchi e in pochi mesi, assieme agli analoghi Lager di Treblinka e Belzec, sterminò quasi due milioni di ebrei» spiega Marcello Pezzetti, storico della Shoah nonché autore alla fine degli Anni Ottanta della scoperta della prima camera a gas di Auschwitz.
Il fine di Sobibor è unicamente la messa a morte degli ebrei e non c’è dunque un campo di lavoro a fianco della struttura di sterminio, come avviene ad Auschwitz e Majdaniek. Ciò significa che il campo è composto solo di quanto serve a uccidere: la rampa per i treni con i deportati, le camere a gas per uccidere gli ebrei arrivati e le fosse comuni per seppellirli. La durata media di sopravvivenza di un ebreo a Sobibor è stimata in un’ora e mezza. Gli unici che riescono a vivere più a lungo - poche settimane - sono i deportati usati dai tedeschi per far funzionare il Lager: svolgono tutti le mansioni che ad Auschwitz spettano ai «Sonderkommando» che fanno funzionare i forni crematori. I ritmi dello sterminio sono forsennati. «Sobibor è il buco nero della storia del mondo» riassume Pezzetti, perché «è qui che si comprende cosa fu davvero lo sterminio degli ebrei».
Inaugurato a maggio del 1942, ha 3 camere a gas che funzionano senza interruzione, i corpi delle vittime vengono sepolti e a giugno il ritmo dei treni è tale da far cedere il terreno sotto la ferrovia. Gli arrivi - la rampa accoglie 11 vagoni piombati - riprendono a pieno regime in ottobre e con l’inizio del 1943 le camere a gas raddoppiano, diventando sei. Nell’ottobre di quell’anno un gruppo di deportati ebrei russi - ex soldati dell’Armata Rossa - decide di tentare la rivolta unendosi ad altri prigionieri. I tempi per agire sono molto stretti ma riescono a sorprendere i tedeschi, fuggendo in 300. Solo 50 di loro sopravvivono, diventando gli unici testimoni esistenti del «campo di messa a morte» dove in una manciata di mesi perdono la vita 250 mila ebrei. La reazione dei tedeschi alla rivolta è di distruggere il Lager perché lo sterminio degli ebrei polacchi oramai è compiuto e la pressione dei partigiani cresce: Sobibor viene completamente distrutto - al pari di Belzec e Treblinka - le camere a gas sotterrate e migliaia di corpi riesumati per essere bruciati.
L’intento è cancellare ogni prova: per questo viene anche piantata una foresta di alberi sul terreno colmo di resti umani, con tanto di una falsa fattoria nominata «Sobibor» proprio per rendere non credibili le eventuali testimonianze dei pochissimi scampati. Il ritrovamento della camere a gas costituisce dunque uno dei risultati più importanti di Yad VaShem, il museo-memoriale della Shoah di Gerusalemme. «Le abbiamo trovate vicino a un pozzo dove i tedeschi avevano gettato resti umani e oggetti dei deportati, come un anello nuziale con la scritta rituale “At Mekudeshet Li” (Tu mi sei consacrata)», ha raccontato l’archeologo Yoram Haimi, confessando «sorpresa» per «le dimensioni delle camere a gas e il livello di preservazione degli ambienti».
Il rabbino e il Papa, l’alleanza mancata contro il nazismo
Riemergono i diari di David Prato, che nel 1936 incontrò Pio XI per chiedergli di fare causa comune di fronte alla marea montante del “neopaganesimo”
di Maurizio Molinari (La Stampa, 13.06.2014)
L’incontro fra un esperto d’arte di Sotheby’s e l’allievo di Renzo De Felice attorno a un manoscritto inedito consente di ricostruire una pagina sorprendente della storia europea: negli Anni Trenta del Novecento i rabbini europei guardavano al Vaticano di Pio XI come possibile fonte di protezione e tutela dall’antisemitismo «pagano».
L’esperto d’arte è Angelo Piattelli, romano trapiantato a Gerusalemme, già al servizio di Sotheby’s per la Judaica in Israele ed Europa, che nel 2003, durante una visita in casa di Jonathan Prato per discutere dei diari del padre David che fu rabbino capo d’Alessandria dal 1927 al 1936 e di Roma nel 1937-38 (e dopo la guerra dal 1945 al 1951), trova casualmente una pagina manoscritta ingiallita dove in cima si legge «Capitolo XVI - La missione in Vaticano in favore degli ebrei polacchi».
Piattelli trascrive oltre mille pagine dei diari e si rivolge a Mario Toscano, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma dove fu a lungo a fianco di Renzo De Felice, invitandolo a studiarne assieme le ricostruzioni degli incontri con Mussolini, Ciano e i rapporti con il Vaticano. È proprio Toscano a riassumere ora le novità contenute nell’inedito «Capitolo XVI» in un articolo su Mondo contemporaneo che esce quasi in contemporanea con uno studio di Piattelli sulla Rassegna mensile di Israel dedicato a David Prato.
Ciò che emerge è, anzitutto, la ricostruzione della missione di Prato a Roma in favore degli ebrei polacchi. Siamo nel 1936, Adolf Hitler è al potere da tre anni in Germania, e l’atmosfera di odio antiebraico spazza il Vecchio Continente. A Varsavia il Parlamento approva una legge che vieta la macellazione religiosa ebraica del bestiame e per oltre tre milioni di ebrei polacchi significa restare senza carne. Per Prato si tratta di un’«infamia» e il 25 febbraio 1936 riceve dal rabbino di Dublino, Isaac Herzog, la richiesta di chiedere aiuto a Pio XI.
«Sforzandomi di ragionare per trovare il modo di agire», scrive Herzog a Prato, «mi è venuto in mente che, in quanto nato in Italia e scelto per assumere la cattedra rabbinica romana, avrà conoscenze influenti ed altolocate che potrebbero raggiungere persino il Vaticano, quindi la prego di rivolgersi a loro affinché dal Vaticano provenga una direttiva riservata ai capi della Chiesa cattolica polacca».
Prato interpella i maggiori rabbini italiani dell’epoca - Gustavo Castelbolognesi, Adolfo Ottolenghi e Alfredo Sabato Toaff - esprimendo la convinzione che «il Vaticano ha un’enorme influenza sul governo polacco e potrebbe agire con speranza di risultato». Un’opinione sostenuta anche da Ottolenghi: «Il Vaticano ha una grande autorità religiosa internazionale». E il 17 marzo 1936 David Prato sbarca a Roma, ottenendo 48 ore dopo udienza in Vaticano, nel giorno del calendario che coincide con san Giuseppe. Varcata la soglia della Santa Sede, Prato manifesta stupore: «Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale».
Vede il cardinale Eugenio Pacelli, che nel 1939 diventerà Pio XII, e monsignor Domenico Tardini, sottosegretario di Stato di Pio XI. «Non mi sarei mai immaginato che mi ricevessero in un giorno di festa, è stato un colloquio interessantissimo» annota Prato nel diario, aggiungendo di aver ricevuto la «promessa di intervento immediato presso l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede». «Non potevo trovare comprensione più rapida e completa» osserva.
Così quando l’8 gennaio 1937 torna a Roma, il rabbino Prato fa recapitare un «reverente saluto a Tardini» e il 15 maggio 1938 incontra di persona Pacelli «per perorare la causa degli ebrei ungheresi» anch’essi alle prese con discriminazioni e sofferenze. Anche in questo caso Prato agisce con il consenso dei rabbini europei e italiani e parla della proibizione della macellazione rituale, come anche della normativa antisemita introdotta in Ungheria proprio in quelle settimane che introduce criteri proporzionali nella presenza ebraica nella società.
«Certo è che noi dovremmo curare i rapporti col Vaticano perché siamo in questo momento compagni di sventura» appunta Prato nel diario, individuando un terreno di convergenza di interessi con il Vaticano: «Quanto avviene nel mondo rappresenta il fallimento del Cristianesimo» a causa del «neo paganesimo che rimonta con la sua marea», e l’ebraismo «deve lottare, come già lottò, contro il paganesimo che non è affatto scomparso e che si ripresenta oggi sia pure sotto un nuovo aspetto ma sempre temibile per l’umanità».
«Questa è la nostra missione» aggiunge Prato, sottolineando la convergenza tra ebrei e Vaticano. Il canale di comunicazione tra il rabbino di Roma e la Santa Sede funziona ancora nel maggio 1938 - a pochi mesi dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia - grazie all’attenzione del Pontefice nei confronti dell’intolleranza religiosa e «della crescita del razzismo e della statolatria».
Per Toscano «Prato coglieva nel neopaganesimo avanzante un pericolo che minacciava insieme il mondo ebraico e quello cattolico», e il 18 maggio 1938 lo spiega all’esponente sionista Moshe Waldmann, formulando la convinzione che l’aggravarsi della spinta neopagana in Germania avrebbe provocato una maggiore attenzione del Vaticano nei confronti delle «richieste ebraiche».
Ma la situazione per gli ebrei in Europa precipita, Prato nel dicembre 1938 lascia l’Italia per rifugiarsi in Palestina e il pontificato di Pio XII, succeduto a Pio XI nel ’39, si sviluppa in un clima assai mutato. Ma «il nuovo rapporto, paritario, aperto e collaborativo del Vaticano con il mondo ebraico, vagheggiato da Prato in anni drammatici e terribili», conclude Toscano, «sarebbe sorto decenni più tardi, in un contesto drammaticamente e radicalmente mutato dalla Shoah e dalla nascita di Israele».
Saper usare la memoria unico antidoto all’orrore
di Tobia Zevi (l’Unità, 26 gennaio 2014)
Celebrando la Pasqua (Pesach), noi ebrei siamo tenuti ogni anno a osservare il seguente comandamento: «Comportati come se tu personalmente fossi uscito dall’Egitto». Ricordare l’esperienza della Liberazione dalla schiavitù non deve trasformarsi in un rituale ripetitivo e monotono, ma deve dare luogo a una riflessione profonda, introspettiva, sull’Egitto metaforico, e anche concreto, dal quale ogni Uomo deve affrancarsi. Il ricordo serve a condizionare l’esistenza e a migliorare il futuro insieme al nostro agire individuale e collettivo.
Questo ammonimento può essere utile ragionando sulla Giornata della Memoria. Istituita nel 2000 e inaugurata l’anno successivo, questa celebrazione si è dilatata nel tempo fino ad occupare l’intero mese di gennaio. Iniziative di tutti i tipi, scuole di ogni ordine e grado mobilitate per settimane, e poi convegni, pubblicazioni, trasmissioni televisive e film. Già negli anni passati alcune voci si erano levate per mettere in discussione tutto questo, ma il recente libretto di Elena Loewenthal Contro il Giorno della Memoria (Add editore) articola le critiche in modo certo provocatorio, ma utile, sistematico e sofferto.
Tre sono le questioni fondamentali: il Giorno della Memoria si è impropriamente trasformato in un «omaggio agli ebrei»; la tragedia della Shoah non viene percepita come una componente drammatica della propria memoria ma come una vicenda altrui che merita attenzione; l’enorme quantità di manifestazioni attorno alla Giornata può essere addirittura controproducente.
L’identità ebraica è sovente confusa con la storia della Shoah. Una dinamica plurimillenaria, fatta certo di terribili persecuzioni ma anche di straordinari esempi di cultura, progresso, coraggio e continuità di un popolo, viene invece ridotta al momento terribile della sua distruzione. Gli ebrei sono rinchiusi con la loro tradizione in questa pagina nera della Storia quando invece - per dirla con la Loewenthal - alla Shoah gli ebrei forniscono i morti, ma i protagonisti sono altri.
Anche il sionismo, movimento politico-culturale nato in Europa alla fine dell’Ottocento, sulla scorta dei vari risorgimenti romantici e nazionali, viene declassato a conseguenza indiretta e inconsapevole della Shoah. Noi ebrei - non solo i sopravvissuti, tutti quanti - siamo interpellati continuamente per raccontare la «nostra» Shoah, mentre Primo Levi spiegava che i sopravvissuti non possono raccontare l’orrore dei sommersi. Figuriamoci chi non c’era o non era ancora nato! E infatti in Israele la Shoah è evocata con un minuto immoto e silenzioso, rotto solo dal suono insistente di una sirena.
Questo malinteso ha come conseguenza che la storia dello sterminio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali e degli handicappati sia percepita come una storia delle vittime, e non dei carnefici e degli indifferenti, cioè coloro che resero materialmente e moralmente possibile la più grande tragedia della storia umana. La Memoria della Shoah appartiene agli ebrei, le vittime, e non all’Europa, che, stuprando la sua cultura ricchissima e millenaria, si è trasformata in un cimitero a cielo aperto. Con un esito paradossale: la Memoria che, ascoltando i latini, dovrebbe essere magistra vitae , non ci rende più vigili e accorti di fronte alle odierne manifestazioni di intolleranza, che purtroppo continuano a proliferare: basti pensare a quanto accade in Ungheria, ai teatri pieni di Dieudonné o anche agli insulti nei confronti della Ministra Cécile Kyenge.
Infine, la domanda fondamentale. La Giornata della Memoria ha accresciuto la consapevolezza del passato, in particolare quella dei giovani? Se ci soffermiamo sull’incredibile sequenza di risposte fornite dai concorrenti de L’eredità a Carlo Conti, dovremmo tristemente affermare il contrario.
E altrettanto raccontano i dati delle ultime indagini in proposito. Probabilmente si tratta di un’immagine troppo negativa, e non bisogna disconoscere l’impegno straordinario dei testimoni e di moltissimi insegnanti, pur privi di un «calendario civile» in cui contestualizzare la Giornata.
Il lavoro nei luoghi di apprendimento è fondamentale e non c’è alternativa allo studio rigoroso della storia, così come è evidente che la conoscenza diretta dei sopravvissuti alla Shoah ed esperienze come i viaggi della Memoria possono stimolare la sete di conoscenza.
Ma occorre non dare nulla per scontato. E non possono essere sottaciuti gli «effetti-paradosso» della Memoria: la diffusione sul web e nella pubblicistica di un antisemitismo travestito da critica all’«industria della Shoah»; l’aumento dell’ostilità nei confronti di Israele; il proliferare di una sub-cultura negazionista propalata come verità della minoranza.
Memoria e memorie
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.01.2014)
UN PAIO D’ANNI FA FUI INVITATO DALL’ASSOCIAZIONE BENE RUWANDA A PARTECIPARE AD UNA GIORNATA DI MEMORIA DEL GENOCIDIO DEL POPOLO TUTSI, nel ricorrere del suo anniversario. In quell’occasione ebbi modo di incontrare la signora Yolande Mukagasana, testimone del genocidio del suo popolo, militante della Memoria e candidata al Premio Nobel per la Pace.
Yolande nel genocidio ha perduto marito e figli, lei stessa si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di una donna Hutu. Incontrandola, rimasi profondamente impressionato dalla luce intensa del suo volto e dalle sue parole pacate e ferme nell’esprimere il dolore per l’ignobile opera di negazionismo che è stata avviata anche nei confronti del genocidio dei Tutsi.
Ebbene sì! Puo suonare incredibile ma il negazionismo non è rivolto solo contro il martirio gli ebrei, ma anche contro altre vittime di stermini. Mentre parlavo con Yolande Mukagasana, un singolare dettaglio mi colpì, il fatto che lei portasse al collo, come ciondolo, una vistosa stella di Davide. Vincendo il riserbo le chiesi perché indossasse quella stella e lei mi rispose: «Noi dobbiamo fare come gli ebrei!».
Evidentemente Yolande si riferiva al Senso della Memoria che ha permesso al popolo ebraico di non soccombere alla violenza, all’annientamento e all’oblio, ma di rispondere alle tenebre dell’odio con una cultura di conoscenza e di vita.
Per uscire da un equivoco molto diffuso, ovvero che l’istituzione del Giorno della Memoria sia ad usum degli ebrei, è bene chiarire con fermezza che non è così! Lo specifico ebraico della memoria vive nelle sinagoghe e nelle case di studio.
La teoria e la Pratica della Memoria ebraica nascono 3500 anni fa in occasione del primo scampato sterminio progettato nel deserto del Sinai dal re Amalek, il progenitore di tutti gli antisemiti irriducibili. A seguito di quell’evento viene consegnato ai b’nei israel, i figli di Israel, il monito «yizkhor!», (ricorderai!). Questa e la ragione del suo carattere originale ed irrinunciabile, 3500 anni di pensiero.
Il Giorno della Memoria deve servire all’Europa che, in misura maggiore o minore, ha nutrito e accolto nelle proprie fibre intime carnefici, collaborazionisti, delatori zone grigie ed indifferenti, deve indurre a riflettere criticamente pro bono della qualità del presente e del futuro sollecitando a porsi la grande domanda che non è «perché abbiamo fatto questo agli ebrei, ai rom, ai menomati, agli omosessuali, agli slavi, agli anti fascisti, ai testimoni di Geova», bensì «perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo potuto ridurci a questo infame degrado?».
Quanto agli ebrei devono capire che la memoria della Shoah non deve garantire primazie, ma deve illuminare tutti i genocidi e gli stermini, quelli di prima e quelli di dopo e portarli in primo piano, non relegarli sullo sfondo, inoltre bisogna capire che ogni uso strumentale, propagandistico, bassamente retorico della Shoah è il miglior modo per destituirla di verità e di universalità.
Shoah, la memoria difficile e le colpe degli italiani
Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria: in Italia è stata istituita con la legge numero 211 del 20 luglio 2000
Sul tema della memoria abbiamo messo a confronto le opinioni di due persone diverse per età e formazione: Furio Colombo, che ha scritto e firmato quella legge, e Silvia Truzzi, giornalista del Fatto
Lo spunto è un pamphlet di Elena Loewenthal, “Contro il giorno della memoria”, in questi giorni in libreria per le edizioni Add.
LUNEDÌ LA GIORNATA DEDICATA ALLE VITTIME DELL’OLOCAUSTO: UN DIALOGO SUL SENSO DELLA RICORRENZA, SUGLI USI E ABUSI DELLA STORIA CHE HANNO CARATTERIZZATO IL DIBATTITO PUBBLICO
FURIO COLOMBO Mi ha colpito la motivazione iniziale del libro di Elena Loewenthal. Che suona più o meno così: un bel giorno le istituzioni hanno un figlio e quel figlio è il Giorno della Memoria. Che assomiglia ai genitori in tutto: è retorico, noioso, ripetitivo, ricattatorio, ansioso di novità e spettacolo. Tutto ciò lo può fare perché lei immagina che le istituzioni partoriscano istituzioni. Questo però non è il caso del Giorno della Memoria, un’iniziativa solitaria, che per cinque anni ha tentato disperatamente di venire alla luce. È stato l’ultimo atto della legislatura 1996, mentre io avevo presentato la proposta all’inizio del mandato parlamentare.
La Loewenthal non tocca mai, nell’analisi della genesi del Giorno della Memoria, quello che per me è stato un presupposto fondativo: cioè che la Shoah è un crimine italiano. Quel delitto c’è stato, e l’Italia è stata un complice essenziale.
Vorrei precisare che la data del 27 gennaio è stata scelta perché Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, me l’ha chiesto con forza e persuasione. “Questa legge non può riguardare solo noi”, mi ha detto. “Il 27 gennaio comprende un numero più largo di perseguitati”.
Io avrei voluto il 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento nel ghetto di Roma. Se fosse stato scelto il 16 ottobre, questo libretto contro il Giorno della Memoria non avrebbe potuto essere scritto.
La mia ostinazione nel volere il 16 ottobre, tra l’altro, incontrò una forte ostilità dei miei colleghi parlamentari. Perché metteva a nudo quella verità di cui parlavo prima: la Shoah è un delitto italiano, che può avvenire a pochi passi dal Vaticano, senza che nessuno, o quasi, dica nulla.
Il 27 gennaio era più ecumenico. In The Holocaust in italian culture (tradotto da Bollati Boringhieri l’anno scorso con il titolo Scolpitelo nei cuori), Robert Gordon, docente di Modern italian culture a Cambridge, si occupa proprio del cammino della legge per il Giorno della Memoria in Italia. L’autore prende le mosse da un libretto che avevo pubblicato nel 1991 con l’Europeo, come primo esempio di lavoro in cui in Italia si afferma il diritto di Israele a esistere. Contemporaneamente - infuriava la Guerra del Golfo - Chiara Ingrao guidava colonne di manifestanti per la pace che bruciavano bandiere di Israele.
In quel libretto spiegavo le ragioni per cui l’Italia non aveva mai voluto vedere le proprie responsabilità nell’Olocausto, che sono anche nel discorso della Loewenthal. Ma sono precedute di vent’anni dalla prefazione che feci a The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue and Survival (1987, Nebraska University press) di Susan Zuccotti, in cui parlavo del rovesciamento che si è verificato nella cultura italiana, che a lungo ha celebrato la Resistenza ignorando la Shoah.
SILVIA TRUZZI Secondo la Fondazione che gestisce l’ex lager di Auschwitz sempre meno ragazzi tedeschi visitano il campo di concentramento. Lo Stern ha riportato un sondaggio, realizzato nel 2012 fra giovani tedeschi tra i 18 e i 29 anni: uno su cinque non sapeva dire cosa fosse accaduto ad Auschwitz.
Dieter Rossmann, responsabile dell’Istruzione per l’Spd, ha commentato: “Occorre mettere a confronto le giovani generazioni con il passato della Germania, affinché tali tragedie non si ripetano. La visita ad almeno un lager dovrebbe diventare obbligatoria”.
Racconto questo perché ho grandi perplessità sulla sacralizzazione della Storia e ancor più sull’idea di una memoria obbligatoria. Ricordare non è di per sé un rimedio contro i mali futuri: i genocidi avvenuti nel mondo dopo l’Olocausto (in Bosnia, per esempio) ne sono una prova. Ma soprattutto ogni imposizione, così come ogni censura, trova il proprio antidoto: l’obbligatorietà della memoria può essere controproducente.
Auschwitz è il toponimo dell’inverno della Storia, da solo è in grado di evocare l’intera operazione di sterminio nazista. Ho avuto occasione di visitare il lager con un gruppo di studenti, in occasione del 60esimo anniversario della Liberazione.
Ricordo questo tour - veloce, freddo in ogni senso, al seguito di una guida frettolosa che faceva lo slalom tra cataste di capelli e foto dei prigionieri - con un certo disagio. C’erano, quel giorno, molti capi di Stato, dunque è probabile che fosse una circostanza particolare. -Però ebbi la netta impressione che tutti quei riti appesantissero, in termini di retorica, il significato di quel momento. E creassero anche negli studenti una frustrazione per l’impossibilità, nel frastuono della cerimonia, di provare vera empatia rispetto al luogo dove si trovavano. È vera l’obiezione che avanza la Loewenthal, a proposito dell’eccesso di enfasi che sovraccarica il Giorno della Memoria.
FURIO COLOMBO L’educazione alla vita di persone giovani non ha ancora scoperto modi migliori che mostrare ciò che è accaduto prima di loro. Vedo i limiti che ci possono essere nella “gita” ad Auschwitz, anche perché per forza è una situazione di cameratismo scolastico. Però mi rendo conto anche della modestia degli altri strumenti: qualche buon film, qualche buon libro, ma pochissime possibilità di rendere evidente ciò che davvero è accaduto. Allora quelle visite sono un’approssimazione immensamente modesta del toccare con mano, ma se riuscissero anche solo un poco ad arginare il riflusso del negazionismo di fatto, sarebbe già un buon risultato.
La pedagogia non ha tantissimi strumenti a disposizione. Se le approssimazioni sono nel segno di non permettere che si faccia finta di nulla, credo che vadano tenute in considerazione. Non credo che queste gite dovrebbero essere obbligatorie, ma non c’è nulla di obbligatorio nemmeno nel Giorno della Memoria, che è un’indicazione. L’obbligatorietà, nella vita scolastica, di per sé è una mannaia. Vorrei però ricordare che Primo Levi accompagnò e fece da guida a un gruppo di studenti italiani in un suo ritorno ad Auschwitz, che esiste ancora in un film.
SILVIA TRUZZI C’è un altro passaggio, in Contro il giorno della memoria, che merita attenzione. Cioè quando l’autrice parla della “rimozione del lato oscuro che stava dietro al lieto fine”. E spiega che “ancora negli Anni Settanta, la celebrazione della memoria aveva per oggetto quasi esclusivo la Resistenza”. Ma è una cosa che, stando alle memorie liceali, è andata avanti per molto tempo: rammento i discorsi del 25 aprile, che disegnavano immancabilmente l’8 settembre come il momento di una scelta collettiva, del “tutti in montagna” e l’Italia come un Paese altro, dove quasi nessuno era stato fascista.
Finita la guerra, abbiamo semplicemente finto di averla vinta. Nel suo libro L’Italia del silenzio, Gianni Oliva riporta le parole di un grande storico liberale, Rosario Romeo: “La resistenza, opera di pochi, è stata usata da tanti per evitare di fare i conti con il proprio passato”. Senza contare che Una guerra civile di Claudio Pavone, esce nel ’91. Prima di allora l’espressione non esisteva, perché a lungo è stata proposta una rilettura del Ventennio in cui le responsabilità erano tutte del re e di Mussolini.
Sempre Oliva fa notare che nei manuali scolastici si racconta di quando, nel ‘31, Mussolini obbligò i professori universitari a giurare fedeltà al regime. Allora si ricordano i 12 che si rifiutarono di giurare, senza spiegare che i professori universitari quell’anno in Italia erano 1.848. Cioè a dire: i 12 non sono statisticamente rilevanti.
Il revisionismo e la rimozione sono soprattutto serviti per avvalorare, con David Bidussa, il mito degli italiani brava gente. E a dimenticare che nel passaggio alla Repubblica, una larghissima parte della classe dirigente ha mantenuto il posto che ricopriva durante il Ventennio.
FURIO COLOMBO Abbiamo attribuito alla Resistenza il compito di esentarci dalla responsabilità dal Fascismo, perfino per coloro che alla Resistenza non avevano partecipato: la famosa “zona grigia” di cui parla Enzo Forcella. La mancanza di epurazioni è dipesa molto dall’amnistia Togliatti: un saggio atto di governo, un pessimo atto di transizione verso la democrazia. È stato un esorcismo, un tentativo di far passare gli italiani per un popolo buono, “brava gente” appunto, sempre e da subito dalla parte giusta. Nessuno sembrava ricordare con quanto meticoloso scrupolo i fascisti di Salò si sono dati da fare per scovare e consegnare ai tedeschi ogni singolo cittadino italiano ebreo.
Come dimostra il Centro di documentazione ebraica di Milano, il numero d’italiani che hanno incassato cinquemila lire come premio per avere fornito informazioni che hanno portato all’arresto di concittadini ebrei, è molto alto. È vero che è accaduto il contrario, ma c’è anche questa verità. Bisogna poi ricordare che nel mezzo di una guerra che stravolgeva l’Europa, i treni diretti ai campi di sterminio partivano regolarmente, in orario. Magari qualche passeggero moriva, ma il viaggio non perdeva un vagone né una coincidenza. -All’organizzazione perfetta dello sterminio ha contribuito anche l’Italia. È questo che mi ha fatto dire - portando avanti l’iniziativa di istituire un Giorno della Memoria per prima cosa che la Shoah è un delitto anche italiano.
Benché ci siamo abituati, forse anche per disprezzo verso il regime di Mussolini, a presentare l’Italia come l’alleato straccione dei nazisti, resta il fatto che l’Italia era l’altra grande potenza: sconfitta la Francia, assediata l’Inghilterra e occupato tutto il resto tranne la Svezia, l’Italia era l’altra potenza dell’Asse. Senza la partecipazione italiana - formale: le leggi razziali introdotte nel 1939, e materiale: gli arresti - la persecuzione contro gli ebrei non sarebbe potuta avvenire.
Ci si poteva ribellare ai tedeschi? Lo dimostra l’esempio bulgaro. Il Re bulgaro era un Savoia - questo invece dimostra la capacità egemonica di quell’Italia stracciona - e le leggi razziali italiane furono mandate, per essere adottate, al Parlamento bulgaro. Il presidente del Parlamento ha immediatamente dichiarato: non faremo mai una cose del genere ai cittadini ebrei bulgari. Questo ci dice che avrebbe potuto non esserci una simbiosi di necessità tra Fascismo e razzismo: c’è stata per volontà del regime italiano.
* il Fatto, 24.01.2014
Il film che fece paura anche a Hitchcock
di Caterina Soffici (Il Fatto, 09.01.2014)
Londra Le scene sono così agghiaccianti che lo stesso Alfred Hitchcock ne rimase così turbato da abbandonare la sala di montaggio dei Pinewood Studios. Passò una settimana prima che il leggendario regista inglese maestro del thriller, abituato a inchiodare con i suoi film gli spettatori alla poltrona, prendesse il coraggio per tornare negli studi cinematografici fuori Londra a lavorare al film sugli orrori dei campi di sterminio nazisti.
La realtà, questa volta, era molto più tremenda della finzione. E il risultato è un filmato scioccante, in puro stile Hitchcock. Fuori campo c’è la voce dell’attore Trevor Howard, che sembra quella di Hitchcock, asettica e monotona, che sciorina dati e mostra grumi di corpi umani, cadaveri incartapecoriti trascinati dai soldati tedeschi per un braccio come manichini, buttati a migliaia dentro fosse comuni scavate con la ruspa. Uomini e donne così magri da non reggersi in piedi, che vagano come fantasmi e si scontrano tra loro. Era il 1945. Questi filmati mai visti prima, ripresi dalle truppe sovietiche e dagli inglesi, mostravano cosa era successo nei campi di concentramento. Più che le ciminiere e le camere a gas, qui si vedono esseri umani morti di fame e di stenti.
IL MONDO DOVEVA SAPERE e la grande macchina della propaganda alleata si era messa in moto per mostrare con immagini, anche le più crude, quanto erano buoni gli yankee e quanto erano stati cattivi i tedeschi. Hitchcock era stato chiamato dall’amico Sidney Bernstein per collaborare al progetto di documentario sulle atrocità dei tedeschi. Ma ci furono dei ritardi nella produzione e il film non fu mai proiettato perché a un certo punto i comandi alleati decisero che mostrare quelle atrocità sarebbe stato controproducente per il processo di pace e il nuovo clima di ricostruzione (e con il processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti che stava prendendo l’avvio).
Non è chiaro quanto Hitchcock abbia contribuito alla produzione, ma sicuramente il suo zampino è forte. “Non si saprà mai a chi appartengono quei corpi. Cattolici, luterani, ebrei: non potremo mai dargli un nome, sappiamo solo che sono nati, hanno sofferto e sono morti agonizzando in questi campi” recita la voce mentre le ruspe rivoltano montagne di cadaveri. Poi si vedono bambini, e sempre la voce fuoricampo: “Qualcuno è nato qui dentro, in circostanze che non voglio neppure immaginare. Dove sono i loro genitori? Qui (e si vedono corpi scheletrici trascinati per una gamba) o qui (e si vede la scena di una grande buca, piena di cadaveri) ”.
Il tono propagandistico del filmato è molto alto. Un soldato britannico parla nella telecamera: “Ora che ho visto questo so perché sono qui e perché ho combattuto”. E parimenti forte è la demonizzazione del nemico: cittadini e autorità della città di Weimar vengono portati nei campi di Buchenwald. Dice la voce fuoricampo: “Devono vedere per cosa hanno combattuto e perché noi li abbiamo combattuti”. I tedeschi arrivano sorridenti, come per una scampagnata, e poi rimangono ammutoliti di fronte all’orrore che viene posto sotto i loro occhi. L’idea di poter “rieducare” i cittadini tedeschi a suon di film non era destinata però a funzionare.
L’Independent, che dedica un lungo articolo all’Olocausto ritrovato di Hitchcock, racconta che Billy Wilder diresse Death Mills (nel 1945) dove mostrava le atrocità perpetrate dai tedeschi proprio con l’intento di mostrarle ai connazionali. Ma non funzionò, perché durante la proiezione la platea uscì dalla sala perché non riusciva a sostenere quell’orrore. Così il documentario di Hitchcock, Memory of the Camps, fu chiuso in un cassetto e 5 delle 6 pellicole furono depositate all’Imperial War Museum e lì dimenticate.
SOLO NEL 1980 IL FILMATO è stato trovato da un ricercatore americano in una latta arrugginita e la versione incompleta fu mostrata al Festival di Berlino nel 1984. Ma la qualità era scarsa e mancava la sesta bobina. Ora, finalmente, il film verrà proiettato nella versione originale pensata da Hitchcock. La pellicola è stata accuratamente restaurata dal-l’Imperial War Museum utilizzando sofisticate tecnologie digitali ed è stato recuperato anche il materiale mancante della sesta bobina.
È stato anche prodotto un nuovo documentario dal titolo Night Will Fall (Cadrà la notte), regista Stephen Frears. Entrambi verranno trasmessi dalla tv britannica nel 2015, in occasione dei 70 anni della fine della Seconda guerra mondiale e della liberazione dell’Europa dal nazismo. Pare che gli amanti di Hitchcock si stiano già interrogando su quanto la visione di quei filmati nel 1945 abbia poi influenzato la produzione del regista negli anni successivi e il suo modo di rappresentare la paura e il terrore.
Torna alla luce il film di Hitchcock sui lager
Ritrovata l’ultima bobina del documentario realizzato nei campi di sterminio
di Fabio Cavalera (Corriere della Sera, 09.01.2014)
LONDRA - L’ultima delle sei bobine era nascosta e dimenticata negli archivi del War Imperial Museum di Londra. Adesso che i curatori l’hanno ripescata e montata con le precedenti pellicole, diventa un nuovo film documentario sulle atrocità naziste nei campi di sterminio. È un lungometraggio inedito, nella sua forma completa, che porta la firma di sir Alfred Hitchcock e ne arricchisce la già straordinaria biografia. Interessante è la trama di questa scoperta.
La vita del maestro del brivido, londinese di nascita e morto in California nel 1980, s’incrocia con l’Olocausto a conclusione della Seconda guerra mondiale. Il regista si è trasferito a Hollywood e lavora a Notorious , uno dei suoi capolavori, con Cary Grant e Ingrid Bergman. Un amico, Sidney Bernstein, lo contatta per sondarlo sulla volontà di collaborare a documentare la vergogna della persecuzione e della eliminazione degli ebrei.
È il 1945, gli alleati liberano l’Europa, entrano nelle camere della morte di Hitler, si trovano davanti all’orrore che vogliono riprendere per mostrarlo al mondo e a quei tedeschi che attorno ai campi abitano ma che restano muti e indifferenti. L’ordine del presidente americano Eisenhower e del premier britannico Churchill è di mandare troupe di cameramen per riprendere la realtà dello sterminio e affidarne la narrazione a direttori prestigiosi.
Sidney Bernstein è una delle figure chiave della cinematografia britannica, antifascista, collabora con il ministero dell’Informazione ed è a capo della sezione film nella divisione «guerra psicologica» del comando alleato. È lui che chiama Alfred Hitchcock a Londra nel giugno del 1945. I due si sono già parlati e il regista ha dato indicazioni agli operatori dell’esercito su come vuole le inquadrature, le riprese lunghe, i dettagli da raccontare e visualizzare nel documentario. È il suo timbro.
Hitchcock s’imbarca per l’Inghilterra. Lo aspettano tre chilometri di riprese effettuate a Bergen Belsen, a Dachau, a Buchenwald, a Mauthausen. Materiale che va sistemato. Le immagini sono dure e violente. Ne resta impressionato a tal punto lo stesso Hitchcock che per una settimana evita di presentarsi nelle sale di montaggio. Ma alla fine il risultato è che ne escono sei bobine di dieci minuti ciascuna. Con Hitchcock collaborano Colin Wills, ex corrispondente di guerra, e Richard Crossman, che poi sarà personaggio di rilievo del laburismo.
Il film è pronto. Ma dopo l’estate del 1945 gli americani cambiano idea e convincono gli alleati a non diffonderlo: la sua proiezione e la sua divulgazione potrebbero essere controproducenti nel processo di ricostruzione della Germania e nella complessa opera di coinvolgimento del popolo tedesco. Spiegherà Sidney Bernstein: «Il nostro Foreign Office e il Dipartimento Usa decisero che essendo i tedeschi in uno stato di apatia dovevano essere stimolati e non costretti a cacciare il naso nelle atrocità commesse».
La pellicola va in archivio. Anzi, nelle cantine del War Imperial Museum. Fino a che nei primi anni 80 un ricercatore americano la rintraccia in un contenitore di metallo arrugginito. È un documento di straordinario valore: ne toglie la polvere e lo spedisce al festival di Berlino nel 1984 col titolo Memory of the Camps , Memorie dei campi. Però è incompleto. L’ultima parte della storia di questo film documentario è dei mesi scorsi. Uno dei curatori del Museo, Toby Haggith, ritrova i «pezzi» che mancano, ricuce e ristruttura la pellicola.
L’anno prossimo sarà il 70esimo anniversario della liberazione dell’Europa dal nazismo e il film di Hitchcock sull’Olocausto, con un titolo diverso, andrà nella sale e in tv. Proprio come il grande maestro avrebbe desiderato perché, per usare le sue parole, «la televisione riporta indietro il delitto e l’atrocità nelle case dove essi nascono».
Il caso Palatucci e la Shoah italiana
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2013)
La scoperta è brutale. Viene fuori che Giovanni Palatucci, commissario con incarichi speciali all’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume (allora città italiana e fascista) negli anni 1943-1945 non era affatto il protagonista di racconti, deposizioni, documenti, libri e film sul suo coraggio nel difendere e salvare migliaia di ebrei, per poi finire lui stesso a Dachau, dove è morto a 37 anni.
Era invece un informatore speciale degli uffici speciali di Hitler che tessevano per tempo la ragnatela di informazioni che avrebbe consentito ben poche fughe. È un colpo duro per Israele, che proprio quest’anno aveva iniziato, con il nuovo ambasciatore Naor Gilon, una speciale celebrazione dei Giusti italiani.
È un colpo duro per molte serie documentazioni esistenti. Ma è forse il momento in cui si rivela in pieno un aspetto scostante e difficile del dramma italiano: italiani come complici, non come Giusti che salvano a costo della vita. O almeno non tutti coloro finora celebrati.
Provo a raccontare. Nel 1987 un’importante casa editrice di New York, Basic Books (seguita l’anno successivo dalla Nebraska University Press) ha pubblicato il primo testo americano di livello accademico sulle leggi razziali italiane, la persecuzione, la deportazione, lo sterminio non solo ad opera dei tedeschi, ma anche dei fascisti e dei delatori italiani. L’autrice, Susan Zuccotti, era docente di Storia della Columbia University, nota per lo scrupolo della documentazione e ricerca. Il libro The Italian Holocaust, Persecution and Survival ha meritato quell’anno il National Jewish Book Award. È toccato a me scrivere l’introduzione.
In quelle pagine ho potuto dire i due problemi che hanno tormentato l’Italia (o meglio la coscienza pubblica e privata degli italiani) dopo la guerra: un lungo silenzio sulla Shoah italiana, al punto che persino i sopravvissuti hanno rinunciato a parlare per paura di non essere creduti, e in cui tutto lo spazio è stato occupato dal mito esclusivo della Resistenza.
E poi, a mano a mano che l’immenso problema emergeva, in brani di storiografia, documenti ritrovati e, finalmente nelle testimonianze raccolte, nella viva voce dei sopravvissuti, è cominciato un “riscatto” degli italiani, che in infinite storie sono apparsi come protettori, salvatori e garanti dei perseguitati. In questo modo, scrivevo, non c’era ancora stato un rendiconto della Shoah italiana.
Naturalmente tenevo conto di Primo Levi. Ma Primo Levi è diventato presto il simbolo dell’orrore concentrazionario nazista, non della persecuzione italiana. E così restava libero lo spazio per continuare a celebrare la grande umanità degli italiani.
Nasce di qui, da questo libro e da questa riflessione cominciata quando ancora, insieme con Edoardo Sanguineti, nel nostro liceo D’Azeglio di Torino abbiamo creato problemi ai nostri docenti (tutti antifascisti) perché volevamo parlare di leggi razziali prima che delle eroiche vicende della Resistenza, la mia ostinazione a istituire per legge un “Giorno della Memoria”.
La ragione è scritta nelle prime righe di introduzione alla legge: “Perché la Shoah è un delitto italiano”. Eppure anche nel libro di Susan Zuccotti, a pag. 218 e 219, la storia di Palatucci è narrata come quella di un eroe che sacrifica tutto e va a morire a Dachau per salvare dalla città di Fiume di cui è responsabile, quanti più ebrei è possibile.
Tutto falso, ci avvertono ora ricerche accurate. Dachau è la sventura di un funzionario caduto in disgrazia dopo avere servito al meglio nel compito di identificare, trovare, arrestare, consegnare cittadini ebrei, con destinazione esclusiva allo sterminio.
Alexander Stille, di questa materia studioso più che giornalista, ha indicato al New York Times tre ragioni: il desiderio cattolico di sbloccare la questione Pio XII esibendo il lavoro e l’impegno per gli ebrei di emblematiche figure di cattolici: la voglia continua e appassionata degli italiani (gli stessi della guerra d’Africa) di essere “buoni” e comunque migliori degli altri europei. E quel tipo di “pacificazione” dopo la Resistenza che ha avuto il merito di evitare la guerra civile, ma il torto di seppellire molti misfatti.
Mi sembra che Stille abbia ragione, e - conoscendo le fonti da cui ora viene accesa la luce sul mito di Palatucci - temo che la storia sia credibile. Ho detto temo perché in passato, e sulla base di ciò che sapevo, ne avevo scritto anch’io e mi piaceva l’immagine di un giovane funzionario, in questo Paese conformista e tutt’altro che anarchico, quando si tratta di stare al sicuro dalla “parte giusta”, un uomo che capisce subito e da solo che stava servendo leggi disumane e insensate.
Trovo una misera attenuante per l’ignoto funzionario Palatucci, diventato informatore speciale dei nazisti in Italia: non aveva esempi, non sentiva voci, nel senso di vere voci umane e note.
Controprova: ricorda qualcuno che mi sta leggendo o che discuterà queste note, un solo grande intellettuale o artista italiano, qualcuno con il microfono aperto e rapporti col mondo, che abbia detto una sola parola contro le leggi razziali italiane?
Temo che la caduta di Palatucci sia un colpo mortale alla celebrazione continua della grande umanità degli italiani. Esiste, certo che esiste. Ma non così come ci hanno detto.
Giovanni Palatucci se questo è un giusto
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 21 giugno 2013)
Ci eravamo illusi di essere diversi, migliori. Italiani brava gente, tutto sommato. Invece adesso scopriamo che anche Giovanni Palatucci, lo «Schindler italiano», era un collaboratore ligio dei nazisti, che non aveva salvato migliaia di ebrei dalla deportazione. Se la denuncia del Centro Primo Levi di New York verrà confermata, potrebbe diventare il colpo più duro alla narrativa nazionale sostenuta per ripulirci la coscienza dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Palatucci era nato nel 1909 in provincia di Avellino, e dal 1937 al 1944 era stato funzionario di polizia a Fiume, dove si occupava del censimento degli ebrei. Alla fine del 1944 il colonnello delle SS Kappler lo aveva fatto arrestare e internare a Dachau, dove era morto poco prima della Liberazione.
Dopo la guerra, a partire dal 1952, la sua storia era stata rilanciata dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che lo aveva descritto come un difensore degli ebrei. Tra le altre cose, aveva favorito la fuga in Palestina di un nutrito gruppo di perseguitati a bordo della nave Agia Zoni, ne aveva trasferiti molti nel campo di concentramento di Campagna dove poi si erano salvati, aveva distribuito documenti falsi e distrutto gli archivi identificativi di Fiume, per impedire ai nazisti di rintracciare le loro vittime.
Tutto questo aveva creato un mito e portato una serie di riconoscimenti: la Medaglia d’oro al merito civile dello Stato italiano, la menzione come «Giusto tra le nazioni» al museo Yad Vashem, e la proclamazione di martire da parte di Giovanni Paolo II.
I numeri non tornavano, però. A Palatucci veniva attribuita la salvezza di circa 5.000 ebrei in una regione, il Carnaro, dove al massimo ne vivevano poco più di 600. L’unica testimone che aveva confermato di essere stata aiutata da lui era una donna, Elena Aschkenasy, che il funzionario aveva ricevuto nel 1940.
Il Centro Primo Levi allora ha avviato delle ricerche, che secondo la direttrice Natalia Indrimi hanno portato a questa conclusione: «Si è trattato di creazione postuma di anime». In sostanza lo zio vescovo di Palatucci aveva avviato l’operazione di riscoperta, per far avere la pensione alla sua famiglia. Poco alla volta però la storia era lievitata, perché faceva comodo un po’ a tutti: alla coscienza degli italiani, ai cattolici, agli stessi ebrei che potevano riconoscere dei giusti anche tra i gentili. Così era nato il mito, che aveva convinto tutti.
Un gruppo di storici ora ha potuto vedere circa 700 documenti originali di Fiume, che non erano stati distrutti, ma erano rimasti nascosti negli archivi jugoslavi. Ne è emerso che Palatucci non era il capo della polizia locale, ma un vice commissario incaricato proprio di compilare le liste, e aveva continuato a fare il suo lavoro anche dopo l’armistizio del 1943, giurando fedeltà alla Repubblica di Salò. La nave Agia Zoni non era partita su sua iniziativa, mentre a Campagna erano stati trasferiti solo una quarantina di ebrei, e due terzi di loro erano finiti ad Auschwitz. Il censimento, poi, dimostra che a Fiume c’erano in tutto 398 ebrei, e 245 furono deportati. Nell’intero Carnaro erano al massimo circa 600, e quindi i numeri sono sicuramente esagerati. Quanto alla fine di Palatucci, Kappler lo fece arrestare perché aveva cercato di passare agli inglesi informazioni sulla città, non perché sospettava che avesse aiutato gli ebrei a fuggire.
Non è la prima volta che questi dubbi emergono, ma stavolta sono finiti sul New York Times , perché il Centro Primo Levi li ha comunicati con una lettera allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, che aveva inserito una sezione dedicata a Palatucci nella sua mostra «Some Were Neighbors: Collaboration and Complicity in the Holocaust».
La sezione ora è stata tolta, e anche lo Yad Vashem sta rivedendo i documenti, per decidere se togliere l’italiano dalle persone riconosciute come giuste. Lo stesso Vaticano è informato e il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, ha detto che uno storico è stato incaricato di riesaminare la questione.
Natalia Indrimi dice che condurre queste ricerche non è stato facile, perché «si tratta comunque di un giovane che fece una fine tragica». La direttrice esecutiva del Centro Primo Levi riconosce che «Palatucci probabilmente si trovava a disagio nella sua mansione, tanto è vero che aveva chiesto otto volte di essere trasferito». Questo però non significa che sia stato un eroe dell’assistenza agli ebrei. Il passaggio dei documenti agli inglesi «probabilmente rientra negli effetti del disfacimento della Repubblica sociale, ma la valutazione dei motivi compete agli psicologi, più che agli storici. Del resto Kappler non aveva motivo di mentire, e se l’arresto di Palatucci fosse stato davvero legato all’aiuto fornito agli ebrei, lo avrebbe detto».
La Indrimi non vuole usare queste informazioni per distruggere il mito degli italiani brava gente, che avevano fermato la mano ai nazisti: «Ognuno», dice, «è libero di credere quello che vuole. La vita intellettuale, però, è una delle colonne del nostro Stato laico, ed è importante che i fatti siano conosciuti».
Europa e Shoah, la legge del silenzio
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2013)
Come entra il parlare di Israele, qui, oggi, come voi mi avete chiesto, del mio libro dal titolo disperato La fine di Israele, che Il Saggiatore ha pubblicato nel 2007? Intanto vi sono grato di questo invito, e sono grato di questa vostra scelta. Di dichiarare il 27 gennaio il vostro giorno della memoria. Perché mi consente di ritrovare e collegare alcuni momenti della mia vita anche lontani tra loro, ma tutti legati da un filo che non si può rompere.
Uno avviene nella mia classe al liceo D’Azeglio, subito dopo la fine della guerra e il ritorno a Torino. In quel liceo, in quella classe, dove tutti i miei insegnanti avevano partecipato alla Resistenza o erano stati comandanti partigiani, noi studenti chiediamo, con inutile insistenza, ai professori: “Perché non si parla delle leggi razziali? Perché ci comportiamo come se non fossero mai esistite o fossero un episodio fra tanti di una guerra terribile?”. La risposta, detta o non detta, è sempre stata la persuasione che la Resistenza ci aveva liberato non solo dal fascismo ma da tutti gli orrori del passato.
Quando, molti anni più tardi mi trovo a narrare, come giornalista, la guerra dei Sei giorni, spostandomi tutto il tempo dalle alture del Golan al Sinai, dalla Giordania al Negev, da Gerusalemme a Suez, mi rendo conto, dall’immensità dell’attacco (tutto il mondo arabo in armi finanziato da tutto il petrolio in quel momento disponibile nel mondo) scende sul piccolo Stato con l’impegno di eliminarlo, e capisco due cose. La prima è che la vera colpa di Israele è di esistere. A quel tempo non c’era alcuna politica di Israele che potesse essergli imputata come espansionistica o aggressiva (dalle alture del Golan, se mai, addestrati cecchini siriani sparavano e uccidevano nelle finestre delle più vicine case israeliane, situate molto più in basso). La seconda è che non c’è un dopo Shoah, come c’è un dopoguerra, perché la spaventosa vicenda viene usata come una colpa (“le vittime sono diventate i carnefici”), come una conferma (“di chi è la colpa se gli ebrei sono tanto odiati?”) o come un inganno (l’intero movimento negazionista, dall’Europa agli Stati Uniti, fino alla continua invocazione del presidente iraniano Ahmadinejad persino di fronte all’Assemblea generale dell’Onu).
Ma nel “dopo Shoah” che non può venire si apre ben presto la questione del Sionismo. Fino al punto da equiparare il sionismo al razzismo in una risoluzione formale delle Nazioni Unite che resterà in vigore per un decennio senza particolari reazioni di tutti gli Stati membri, con l’eccezione degli Stati Uniti. L’Europa, Stati, governi, Unione, università e mondo della cultura, non ha mai dato segno di esistere a garanzia dello Stato di Israele o almeno della volontà e capacità di fermare e mediare il conflitto.
In Italia la questione del Sionismo (ovvero della ostilità e condanna del sionismo) è diventata subito politica, una bandiera sollevata, purtroppo, non solo dalla Destra ma anche dalla Sinistra. Infatti una parte della sinistra italiana ha preteso di ignorare che il mondo e la visione di Theodor Herzl (vedi il suo unico romanzo, Altneuland - Nuova Terra) era un sogno socialista del tutto simile, per il Medio Oriente, a ciò che il Manifesto di Ventotene è stato per l’Europa.
Quando, nel 1987, mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione al primo studio universitario americano sulle leggi razziali in Italia (The Italians and the Holocaust di Susan Zuccotti, Nebraska University Press) ho ripreso l’argomento che ha sempre orientato la mia vita pubblica e che mi avrebbe portato a scrivere, presentare, sostenere fino alla approvazione della Camera e del Senato italiani, la Legge che istituisce questo giorno, “il Giorno della Memoria”.
In Italia non può esserci un dopo Shoah perché la cultura del Paese non ha mai riconosciuto la sua parte di colpa. In Italia quel tremendo delitto è stato trasferito, come in un evento psicanalitico, alla responsabilità di altri, nazisti e tedeschi. L’Italia ha voluto vedere se stessa come un Paese vittima, dunque, non un Paese che, con il suo governo di allora, molti attivissimi partecipanti italiani, le sue leggi dettagliate e ignobili approvate all’unanimità e l’immenso aiuto del silenzio, è stata complice del delitto.
In quella introduzione ho scritto ciò che - alcuni anni dopo - avrei ripetuto nelle “considerazioni preliminari” che precedono i due articoli della Legge sul Giorno della Memoria: La Shoah è un delitto a cui l’Italia ha partecipato, e soltanto sapendolo e riconoscendolo può tentare di diminuire il senso della vergogna. L’Europa, pacificata al punto di diventare Unione Europea invece che teatro di ricorrenti massacri, è nata dai campi di sterminio, con i sentimenti, le immagini, le parole, l’indicibile esperienza che ci hanno lasciato cittadini fondatori di un mondo salvato, come Primo Levi ed Elie Wiesel. E uomini che hanno tentato la salvezza dei sommersi, come Raul Wallenberg e Giorgio Perlasca. Ma proprio per questo l’Europa, dove tutto è avvenuto con la immensa complicità del silenzio, non può fingere di non avere responsabilità per la sopravvivenza di Israele. Proprio questo ho voluto dire nel mio libro, La fine di Israele, con il suo titolo estremo. Ho voluto dire ciò che non può accadere. È l’unico passaggio - per l’Europa che della Shoah è stata protagonista e responsabile - di entrare nell’era sconosciuta del dopo-Shoah.
Non si può insegnare la Shoah ai bambini
Nell’anniversario della liberazione di Auschwitz, domenica 27 gennaio si commemorano le vittime dell’Olocausto. Parla lo storico Bensoussan
Di questa tragedia si parla troppo perché se ne parla male, in maniera compassionevole per le vittime
Invece si tratta di una grande questione politica e antropologica che rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale
di Alberto Mattioli (La Stampa, 22.01.2013)
Professore, il 27 è la Giornata della Memoria.
«È importante celebrarla. Ma bisogna avere ben chiaro che in realtà l’Unione Europea l’ha istituita per celebrare la rifondazione dell’Europa. L’unità europea è stata costruita sull’antinazismo e il simbolo del nazismo, ciò che lo differenzia dall’altro grande totalitarismo, il comunismo, è appunto la Shoah. È la Giornata della Memoria europea, non ebrea. È l’Europa dei lumi contro la notte della ragione».
Sulla memoria, la Francia ha ancora del lavoro da fare?
«L’idea della complicità di Vichy, dunque dello Stato francese, è recente. Nel ’73 fu uno storico americano, Robert Paxton, a pubblicare i primi studi sull’argomento. Ormai la tradizionale visione binaria Resistenza-collaborazionismo non regge più. In mezzo c’è una vasta zona grigia. All’inizio della persecuzione, la maggioranza dei francesi, e le élite in particolare, non protestarono affatto. Anche se è difficile valutare l’evoluzione dell’opinione pubblica in un regime dittatoriale, la svolta avvenne nel 1942 quando iniziarono le rafles, le retate. La caccia all’ebreo indignò molti francesi. Ma, in generale, è sbagliato avere una visione monocolore. La Francia non è stata solo Vichy e non è stata solo la Resistenza. E per fortuna circa tre quarti degli ebrei francesi si sono salvati».
Perché?
«Intanto perché la Francia è grande e fatta anche di foreste e di montagne. E poi non dimentichiamoci che la Francia del Sud, la cosiddetta zona libera, fu occupata solo per venti mesi. Infine, parte di questa zona fu occupata dagli italiani. I documenti tedeschi sono pieni di lamentele contro gli italiani che proteggono gli ebrei e addirittura li sottraggono alle retate della polizia francese».
Lei ha polemizzato con Nicolas Sarkozy che aveva proposto che ogni bimbo francese ricostruisse la storia di un bimbo ebreo deportato.
«Semplicemente, da storico ho fatto presente che l’idea era benintenzionata ma assurda. Non si può insegnare la Shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka. Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli. Si può, anzi si deve, insegnare loro cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza. Alle elementari puoi parlare di Anna Frank. Delle camere a gas, no».
Sulla memoria, c’è qualcosa che si potrebbe fare e non si fa?
«Forse avere ben presente che, dal punto di vista storico, la memoria è una trappola. La memoria non è la storia, è una religione. E non serve a ricordare, ma a dimenticare, perché è fatalmente selettiva. Per questo lo storico è disincantato e deve esserlo. Mi spiego con un esempio che non c’entra con la Shoah. Nel 1985 furono ricordati con grande riprovazione i 300 anni della revoca dell’editto di Nantes, quello che aveva concesso agli ugonotti la libertà di culto. Tre anni dopo, lessi il Code noir, cioè l’insieme delle leggi che regolavano la schiavitù nelle colonie francesi. Bene. Sa in che anno Luigi XIV l’aveva promulgato? Nel 1685. Solo che il suo terzo centenario non l’aveva ricordato nessuno».
Insomma, della Shoah si parla troppo?
«Se ne parla troppo perché se ne parla male. Cioè se ne parla in maniera compassionevole per le vittime, mentre la Shoah è un’enorme questione politica e antropologica. Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro. Antropologica, perché rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale. Lo capirono per primi certi intellettuali cattolici del dopoguerra, come Maritain, Claudel o Julien Green. Poi il tema è stato ripreso dagli Anni 70 con uno studio della Shoah che si è giovato di nuovi strumenti, per esempio la psicanalisi».
Ma a livello mediatico, lei dice, è troppo presente.
«C’è una saturazione della memoria. Il discorso sulla Shoah, sui giornali, nei film, in televisione, è talmente invadente e basato soltanto sul pathos da diventare banalizzante. La nostra è una società compassionevole, dove lo status di vittima è quello più ambito. Dunque ognuno vuole avere la sua Shoah. E Auschwitz viene continuamente evocato per situazioni completamente diverse. Fino al paradosso di paragonare sulla questione palestinese i nazisti di ieri agli israeliani di oggi, che è una bestialità».
Ultima domanda e anche personale. La Shoah non è un soggetto troppo duro per dedicarle la vita intera?
«È sicuramente un soggetto sconvolgente. Ci si salva con un humour nero che per i non addetti ai lavori potrebbe risultare scandaloso, politicamente molto poco corretto. È lo stesso che hanno i medici o chi è tutto il giorno e tutti i giorni alle prese con la sofferenza. Però vivere quotidianamente a contatto con la Shoah ti rende anche molto acuto sulla realtà di oggi. Ti si drizzano le antenne, stai più attento a quel che senti. E capisci che le parole sono sempre la prima tappa della tragedia».
*
In libreria
Molti, come sempre, i titoli che gli editori mandano in libreria in occasione del Giorno della Memoria. Tra gli altri segnaliamo:
Hans Keilson, Commedia in minore , Mondadori (p.136, € 10); Bruno Apitz, Nudo tra i lupi , Longanesi (pp. 461, € 18,60); Sam Pivnik, L’ultimo sopravvissuto. Una storia vera (Newton Compton, pp.326, € 9,90); Janusz Korczak, Diario del ghetto (Castelvecchi, pp. 118, € 14); Francesco Roat, I giocattoli di Auschwitz (Lindau, pp. 294, € 19,50); Lia Levi, Lungo il cammino delle stelle e Maria Konopnicha, Mendel di Danzica (entrambi Sipintegrazioni); Lena Muchina, Il diario di Lena (pp. 372, € 16,50); Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo (Bur, pp. 350, € 14,50); Fabio Amodeo e Mario José Cereghino, La lista di Eichmann (Feltrinelli, pp. 201, € 16); Göran Rosenberg, Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz (Ponte alle Grazie, pp. 354, € 15,80); Sami Modiano, Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (Rizzoli, pp. 280, € 18). Infine torna in versione fumetto, realizzato da Vincent Bailly e Kris e con prefazione di Walter Veltroni, il romanzo di Joseph Joffo Un sacchetto di biglie ( Rizzoli Lizard, pp. 128, € 15).
Saggi, diari, romanzi e memoir la biblioteca del Giorno della memoria
Dalla ricostruzione di Bensoussan alla fiction, ecco i titoli in uscita
di S. Nir. (la Repubblica, 24.01.2013)
Tra il 1939 e il ’45 il Terzo Reich, con la complicità di molti, ha sterminato sei milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. Volevano decidere chi doveva o non doveva abitare il pianeta segnando un capitolo, unico a tutt’oggi, teso a modificare la configurazione stessa dell’umanità.
Georges Bensoussan, uno dei maggiori storici contemporanei, direttore de la Revue d’histoire de la Shoah, ha scritto un’imperdibile Storia della Shoah (Giuntina, pagg. 165, euro 12): in poche pagine riesce a illuminare il processo che nel pieno della modernità ha fatto precipitare la Germania e l’Europa tutta nella volontà del genocidio.
L’americano Varian Fry scrisse Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti che esce ora per Sellerio (pagg. 311, euro 16) nel 1945. È la storia vera e coraggiosa di come egli stesso nel 1940, in missione segreta, raggiunse la Francia, in piena occupazione tedesca, con un elenco di rifugiati politici, intellettuali, ebrei ricercati dalla Gestapo che doveva aiutare a fuggire. Lo vedremo far uscire dalla Francia personaggi come Max Ernst, Golo e Heinrich Mann, Marc Chagall.
Primo Levi fu arrestato nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 1943 durante un rastrellamento contro i partigiani. Levi ha parlato poco di quei giorni in montagna, anzi li ha definiti «il periodo più opaco» della sua vita. Perché? Frediano Sessi ricostruisce quelle settimane ne Il lungo viaggio di Primo Levi. La scelta della resistenza, il tradimento, l’arresto. Una storia taciuta pubblicato da Piemme.
Tra le uscite per il Giorno della memoria (27 gennaio) vale la pena di segnalare anche Il Male dentro di Thomas Khune (Altana) un’indagine sulle dinamiche che hanno spinto donne e uomini tedeschi a giustificare e a volere lo sterminio degli “altri”. E ancora, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia di Bruno Maida (Einaudi), il racconto storiografico della distruzione che li colpì, e insieme alla ricostruzione del mondo di allora attraverso i loro occhi. Un’operazione che affronta anche lo storico israeliano che rilegge la sua deportazione ad Auschwitz a 12 anni in Metropoli della morte (Guanda). Ne Il diario di Lena di Lena Mouchina (Mondadori), invece, l’autrice racconta il suo diario pochi giorni prima dell’occupazione nazista di Leningrado.
Da ricordare Il nostro appuntamento. Una storia vera dell’israealiana Ellis Lehman e sua figlia Shulamith Bitran (Piemme), l’impossibile promessa d’amore di due giovani olandesi divisi dalla persecuzione nazista. Anche La sposa di Auschwitz (Newton Compton) di Millie Weber e Eve Keller racconta un amore sotto il nazismo. Riesce Nudo tra i lupi scritto nel 1950 nella Ddr da Bruno Apitz (Longanesi). Ponte alle Grazie ha tradotto Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz di Göran Rosenberg, bestseller in Svezia. Infine è uscito Quando finirà la sofferenza. Lettere e poesie da Theresienstadt (Lindau): 60 poesie scritte da Ilse Weber, ritrovate dal marito nel campo, e ora presentate dal figlio.
La memoria scolpita
di Roberto Brunelli (l’Unità, 15 gennaio 2013)
Adele sapeva che l’onda nera stava per arrivare. Ma non poteva fuggire, non voleva fuggire. Suo padre era invalido: non l’avrebbe mai lasciato da solo ad affrontare le Ss che stavano andando di casa in casa, a trascinare via i loro vicini di casa, i parenti, gli amici.
Adele venne inghiottita dai treni, come altri 2013 ebrei romani, rastrellati dagli uomini di Kappler: sei giorni dopo era ad Auschwitz. Forse. Perché Adele Ascarelli è morta «in luogo ignoto», come dice quel sanpietrino con la superficie d’ottone che ieri mattina è stato collocato davanti a quella che fino al 16 ottobre 1943, il «sabato nero» del Ghetto di Roma, era stata la sua casa, in piazza Mattei.
Ci sono i ragazzi di una scuola, che filmano con i loro Ipad e gli smartphone, ci sono alcune telecamere, c’è un’anziana signora per la quale viene sistemata una sedia accanto al civico numero tre. La signora era stata una vicina di casa, un’amica di Adele. Altri come lei si erano potuti nascondere altrove, e sono sfuggiti all’onda nera.
Davanti al numero tre di piazza Mattei c’è anche Guenter Demnig, l’artista berlinese che li ha inventati, questi «sanpietrini della memoria». Il suo abito di lavoro è composto da una ginocchiera extra-large, due comode scarpe pantofola che più tedesche di così non si può e un cappello verde a tese larghe. Lui li ha chiamati, vent’anni fa, Stolpersteine: che vuol dire pietre d’inciampo. Nel senso che tu, passante, sei costretto ad «inciampare» nella memoria: sono pietre di verità. A prova di revisionismo: qui chi è stato deportato ha vissuto, da qui è stato portato via, quel 16 ottobre ’43.
Sulla superficie di ottone ci sono i nomi, la data di nascita e di morte, quando è nota, ovviamente. Non tornò quasi nessuno di quei mille e passa ebrei del ghetto. Solo una donna e una ventina di uomini. Nessuno dei duecento bambini che i soldati della Wehrmacht portarono via.
Demnig non è venuto solo qui, nel Ghetto, intorno al Portico d’Ottavia, ieri e oggi: ha posto le sue pietre d’inciampo anche in via Flaminia, in via Garibaldi, in via Arenula, a Campo de’ Fiori, in via Marmorata, in via Giotto, in via Appia Nuova, in via Licia, in via Nicolò III, in viale delle Milizie, in viale Giulio Cesare, in via Chinotto, in via del Babuino.
Praticamente una mappatura della deportazione a Roma. E i nomi sulle pietre sono storie: Sonnino, Sperati, Piperno, della Seta, Pontecorvo, ancora Sonnino, una buona parte della famiglia Veneziani, Fiorentini, Mortero, Sperati.
Ognuno ha vissuto qui, e da qui è stato sradicato, gettato sui treni, ucciso nelle camere a gas. E ovviamente questa non è solo una storia del ghetto e di Roma. Gli Stolpersteine di Demnig oggi sono oltre 39mila, in mille località diverse, dal nord Europa all’Italia, dall’Olanda all’Ucraina. Per lui è l’impegno di una vita. Che va oltre la sua vita.
OPERAZIONE«STOLPERSTEINE»
Perché idealmente si tratterebbe di collocarne dieci milioni, di queste “pietre della memoria”: dieci milioni tra ebrei, deportati politici e razziali, rom e omosessuali. E proprio dai rom è partita l’operazione Stolpersteine: Demnig aveva sentito una signora dire che a Colonia, dove l’artista stava mettendo in piedi una installazione sulla deportazione di cittadini rom e sinti, non aveva mai abitato un solo rom. Lui ha voluto testimoniare, con i suoi sassi, il contrario. Ognuno di quelli che sono finiti ad Auschwitz, Bergen Belsen, Treblinka, Mauthausen o in qualsiasi altro lager doveva aveva la sua pietra.
«Pensi che all’inizio ho messo gli Stolpersteine illegalmente: a Berlino avevo cominciato nella Oranienstrasse, 51 pietre - racconta l’artista - Li ho messi in pieno giorno, ovvio. Ancora sto aspettando i permessi... ma ogni municipio da noi è una sorta di fortezza. Nessuno ci diceva di no: semplicemente i permessi affondavano nelle viscere della burocrazia. In tutta la Germania la stessa storia.
Finché un giorno non arrivò dal Sudafrica una lettera di un certo mister Robins. In realtà si chiamava Robinsky, e chiedeva che venissero poste le pietre per suo zio e la moglie. Aveva visto gli Stolpersteine ad Amburgo... Ma lo sa che a Monaco, per esempio, le autorità comunali continuano ancora oggi a negare i permessi?».
È già la quarta volta che Demnig porta i suoi Stolpersteine a Roma. Domani sarà a Prato e giovedì a Livorno.Ma oggi c’è qui Adachiara Levi, che con la sua associazione arteinmemoria ha curato questo nuovo ritorno dell’artista nella cosiddetta città eterna.
Ci sono i figli, i nipoti, i parenti di chi quel «sabato nero» è stato inghiottito dall’onda nera. Levi lo dice ai cronisti della televisione pubblica austriaca: «Collocare le pietre d’inciampo davanti alle case di chi è stato deportato è straordinario: è una forma discreta di memoria, ma anche fortissima, perché la radica nei luoghi a cui appartiene ed al tempo stesso sfugge ad ogni retorica monumentale». Per qualcuno degli altri di quelli che sono qui il significato degli Stolpersteine forse è più semplice: «Sentiamo di averli riportati a casa». Bentornata, Adele.
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)
Caro Augias,
vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. -Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei.
L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.
I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale.
Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. -Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz
La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.
Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).
Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
Le nostre colpe come cristiani
di Emma Fattorini (Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2009)
«La Shoah è l’anti-Sinai», così si è espresso Elie Wiesel: «Gli assassini erano battezzati, per lo più, erano stati educati nel cristianesimo: eppure uccidevano». È la prova, secondo il nobel per la pace, che il cristianesimo e la sua cultura non hanno saputo fermare il male. E la sua unicità non sta nella quantità o qualità del male che il cristianesimo non avrebbe saputo impedire, ma piuttosto, come dice Jean Dujardin nel suo L’eglise catholique et le peuple juif, nel fatto che la Shoah «distrugge il cuore stesso dell’etica biblica.. e può essere guardata come l’anti-creazione, la volontà di ritornare al caos iniziale, cioè a prima che la Parola di Dio donasse senso al mondo e all’uomo».
La Shoah si presenterebbe allora come «la sconfitta della religione cristiana». Eppure proprio perché raramente colgono una simile profondità teologica, le ricorrenti polemiche sui silenzi di Pio XII il più delle volte suonano comprensibili ma decisamente inadeguate rispetto all’interrogativo morale che le sottende.
La questione centrale, quella su cui dovremmo davvero tutti interrogarci, riguarda come e perché l’antigiudaismo cristiano abbia favorito, legittimato e avvallato l’antisemitismo. Occorre allora non attardarsi soltanto sulle singole scelte del papa, ma sul comportamento complessivo della comunità cristiana e cattolica per non tacere certamente l’aiuto concreto prestato alla salvezza di singoli ebrei, ma senza dimenticare le sue responsabilità nell’avere accreditato e favorito il diffuso comune sentire antiebraico che ha segnato la cultura europea degli ultimi due secoli. Ciò su cui occorre riflettere, insomma, è quanto l’accusa di deicidio abbia sedimentato e nutrito le pulsioni razziste novecentesche.
Solo così si capisce allora tutta l’importanza che riveste la radice teologica e di fede nel condannare il razzismo, quel grido lanciato da Pio XI prima di morire: «spiritualmente siamo tutti semiti». Non è legittimo per un cristiano essere razzista perché, non si stancherà di ripetere, ciò vorrebbe dire tradire la comune origine abramitica e spezzare l’indissolubile comunità di destino ebraico-cristiana.
Da quel momento del 1938, la condanna degli ebrei per motivi religiosi, fino ad allora sostenuta dalla chiesa cattolica, diventa altrettanto inaccettabile di quella per motivi di razza.
Del resto, più che le mitologie paganeggianti che molti vedrebbero nel nazismo, lo scopo di Hitler era quello di intaccare il cuore della rivelazione imponendo per legge alle chiese tedesche la soppressione e il vero e proprio ripudio dell’Antico Testamento, fino a costruire un Cristo ariano, come fece Arthur Rosenberg nel suo Mito del XX secolo messo all’indice dalla chiesa cattolica eppure accettato dalle chiese protestanti asservite al Fuerher, che voleva fondare, appunto, una nuova religione.
Il significato teologico della minaccia rappresentata dal nazismo sta nel volere tagliare la radice della tradizione cristiana, rinnegando il Vecchio Testamento. Operazione impossibile per la fede cristiana, come Joseph Ratzinger ha ben chiarito fin dal 1968 nella prima parte della sua Introduzione al cristianesimo, oggi riedita integralmente dalla Queriniana.
Tutto il pontificato di Wojtyla è segnato da questa consapevolezza teologica, prima ancora che storica. Nel giugno del 1979 si reca ad Auschwitz, nel 1998 a Mauthausen, nel 1999 a Majdanek, nel dicembre del 1993 Santa Sede e Israele firmano un accordo che porterà allo scambio degli ambasciatori e, infine, nel 2000, in una cerimonia tra le più significative del suo magistero, Giovanni Paolo II chiede perdono per le colpe della chiesa nei confronti degli ebrei. La beatificazione di Edith Stein segna il culmine, quando il papa dirà: «Ella è morta come figlia di Sion per la santificazione del Nome, ella ha vissuto la sua morte come Teresa Benedetta della Croce, benedetta dalla croce»
Shlomo Venezia, non perderemo la memoria
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2012)
Dopo Shlomo Venezia chi verrà a dire - in forma di testimonianza diretta e implacabile - ciò che è accaduto durante gli anni della persecuzione razziale (tedesca, italiana e di tutti i fascismi succubi) in Europa? Chi persuaderà coloro che adesso sono giovani e i giovani che non sono ancora venuti, che è veramente accaduto ciò che Shlomo Venezia ha raccontato ogni giorno, finché era vivo, quest’uomo grande e forte che era sopravvissuto ai due eventi spaventosi del campo di sterminio e del ricordo?
SHLOMO ERA la prova (che mancherà fra poco, con lo spegnersi degli altri pochi che sono ancora in grado di rendere questa tremenda testimonianza), di tre cose impossibili: che quel che è accaduto (sterminio di tutto un popolo, per ragioni dette senza vergogna e senza pudore “razziali”, ma anche in onore di macabro pregiudizio religioso, estesissimo, radicatissimo, sempre in vita, sulla morte di Cristo dovuta agli ebrei) che quel che è accaduto, è accaduto non come impulso bestiale, ma attraverso una meticolosa e perfetta organizzazione . Così perfetta che dovendo scegliere fra la morte di tutti gli ebrei e il rischio imminente di perdere la guerra, è stata data la precedenza al meticoloso e ben organizzato sterminio, fino all’ultimo campo e fino all’ultimo treno carico di vittime che riesce ancora ad attraversare per tempo l’Europa ormai devastata.
Infine chi dirà che tutto questo è un progetto di cultura, della più alta, nel cuore di un’Europa e si riteneva e ancora si ritiene la culla di tutto, che guardava, e ancora guarda, con benevola superiorità tutto il resto del mondo? Dice un proverbio americano che puoi ingannare tutti per poco tempo oppure qualcuno per lungo tempo, ma non tutti per sempre. Le leggi razziali e la loro esecuzione, complice un immenso silenzio di tutti (così poche le eccezioni che ogni tanto si contano e vi si rende omaggio, come a rari atti di eroismo) confutano questo detto del buon senso.
Tutti hanno partecipato o accettato la persecuzione totale degli ebrei per tutto il tempo, e il fatto è così enorme e incredibile che ci voleva il corpo, la presenza, la vita e la memoria di Shlomo e degli ormai pochi sopravvissuti come lui perché chi non c’era o non sapeva credesse, al di là dell’inverosimile e della favola più oscura che l’umanità si sia mai tramandata. Ha scritto Alessandro Piperno che dopo Shlomo e dopo coloro che sono ancora qui, pronti a testimoniare, non si potrà più pretendere che qualcuno ti creda.
Spero che abbia torto e per questo ho fatto in modo che esistesse, anche con l’aiuto di Shlomo, un giorno detto “il Giorno della Memoria”. Spero, ma condivido quella paura, che è fondata sul senso di ciò che si può e ciò non si può narrare. “Ricordo” non è la parola, non basta. Shlomo e gli altri hanno fatto la guardia ai morti del massacro più ignobile del mondo fino all’ultimo istante. Erano qui a dire, parlando al presente, “badate che succede, che li portano via, anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati, tutti, per sempre, con la visione della buona cultura e l’efficienza della perfetta organizzazione, e il pregiudizio ben radicato di una fede”.
SHLOMO è stato tra coloro che hanno voluto (assieme a Tullia Zevi) che il “giorno della memoria italiano” fosse il 27 gennaio (abbattimento dei cancelli di Auschwitz) come quello europeo, e non il 16 ottobre (la razzia notturna nel ghetto di Roma, a 500 metri dal Vaticano e senza alcun grido di indignazione), come nel mio primo progetto. Voleva un segno che comprendesse tutta l’immensa tragedia europea. Immensa perché ha travolto tutti. E i discendenti del complice popolo europeo, che ha taciuto dovunque, avranno più difficoltà dei figli di Shlomo a spiegare il silenzio o vile o indifferente o prudente dei loro beneducati bisnonni, rispettosi dell’autorità e delle leggi. Shlomo Venezia è morto, ma bisognerà disperatamente fare in modo, nel rimpiangerlo, che non una sola parola di ciò che ha detto nelle scuole, nelle case, in tutti i luoghi d’Italia in cui ha potuto parlare, vada perduto. Troppo spaventoso sarebbe il vuoto.
Addio Shlomo, l’ultimo sopravissuto di Auschwitz
di Oreste Pivetta (l’Unità, 2 ottobre 2012)
182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto -scrisse - con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili... Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline.
Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era.
Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo... Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda.
Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia - scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli - qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio.
Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno - disse - ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorresse, perché era certo che i giovani dovessero sapere
Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo
di Elena Loewenthal (La Stampa, 2 ottobre 2012)
Shlomo Venezia se n’è andato a 88 anni. Era nato a Salonicco dove, fino all’arrivo della furia nazista, viveva una delle più grandi e antiche comunità ebraiche d’Europa, annientata nei campi di sterminio. «Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda. Non si esce mai per davvero dal Crematorio», ripeteva spesso.
Se, come diceva Primo Levi, i sopravvissuti non hanno conosciuto la Shoah fino in fondo perché sono sfuggiti a quel destino di annientamento, Shlomo Venezia vi fu più vicino che mai: i tedeschi lo destinarono infatti al Sonderkommando, la squadra di prigionieri incaricata di condurre i convogli di ebrei alla distruzione. «A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri», scrive Levi ne I Sommersi e i Salvati.
Nell’universo dello sterminio, non c’è stata forse un’esperienza più terribile, più «completa». Nessuno ha conosciuto la macchina di Auschwitz meglio di loro, più da vicino. In pochissimi sono sopravvissuti alle squadre del Sonderkommando che si avvicendavano nel campo perché venivano eliminate a ritmo regolare, e per molto tempo nessuno di loro se l’è sentita di parlare perché pareva impossibile riuscire a raccontare una realtà così follemente crudele: «Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici», scrive ancora Primo Levi dialogando con uno di loro.
Per decenni il tormento ha costretto al silenzio anche Shlomo Venezia. Insieme alla moglie mandava avanti un negozietto di souvenir per turisti a Roma. All’inizio degli anni 90 ha cominciato a testimoniare e da allora l’ha fatto con tenacia e schiettezza, senza negare a chi lo ascoltava nulla dell’orrore che aveva vissuto. Raccontava l’inferno nel modo più diretto possibile e così aveva fatto anche per Roberto Benigni, che l’ha avuto come consulente preparando il suo film La vita è bella.
Da allora Venezia era stato nelle scuole, aveva testimoniato in pubblico, alla televisione. Parlava con una forza sconcertante, con un’energia vitale che rendeva ancor più obbrobrioso il confronto con la morte di massa di cui raccontava. E’ stato un testimone unico non solo perché veniva da quel buco nero dell’inferno, non solo perché lui dentro le camere a gas e nel forno crematorio ci era entrato migliaia di volte: anche per il coraggio di una parola franca, vibrante, senza eufemismi. Nel 2007 ha messo per iscritto la sua testimonianza in un libro intitolato «Sonderkommando Auschwitz» e pubblicato da Rizzoli
Shoah, quei nomi da ricordare
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 15 ottobre 2012)
La donna alta, elegante, dal piglio sicuro e attivo, che ha passato buona parte della vita a studiare lo sterminio degli ebrei, consegna un floppy disk all’uomo anziano vestito di nero, col grande cappello nero e la lunga barba bianca, che bambino di otto anni fu liberato dal campo di Buchenwald, orfano di genitori annientati a Treblinka. Sono Liliana Picciotto, 65 anni, 25 da storica al Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), e Yisrael Meir Lau, 75enne, presidente dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah più grande e importante del mondo, ex rabbino capo ashkenazita d’Israele.
Quando domani, alle 16.30, lei consegnerà nelle mani di lui il dischetto portato da Milano affinché il contenuto sia aggiunto all’imponente database israeliano, nel silenzio più assoluto il pensiero di molti andrà al 16 ottobre 1943. A quell’ora la retata al quartiere ebraico di Roma iniziata all’alba era finita: 1.200 esseri umani di ogni età erano stati arrestati, ne verranno poi deportati 1.020, ritorneranno in 17.
Nel dischetto ci sono i nomi del nostro «mondo scomparso», un elenco di 6.806 nomi che Yad Vashem chiedeva da tempo per pubblicarlo sul sito a cui si rivolgono studiosi e parenti delle vittime. Come spiega Liliana, la Fondazione Cdec ha voluto essere certissima dei dati: cognomi, date e luoghi di nascita di ognuno, compresi gli ebrei stranieri profughi nella Penisola, legami famigliari, città di residenza, località e giorno dell’arresto, se da parte delle autorità tedesche occupanti o delle milizie fasciste, quando ciascuno è stato deportato, verso quale campo, la sorte finale (notizie disponibili sul sito www.nomidellashoah.it).
«Di questi 6.806 uomini, donne, bambini e vecchi portati via sono tornati in 837», ricorda la Picciotto, «e bisogna aggiungere i 322 ebrei morti in Italia, assassinati come alle Fosse Ardeatine o suicidatisi per la paura. E ancora i circa duemila deportati da Rodi italiana, di cui spero presto saremo in grado di fornire a Yad Vashem la storia altrettanto scientificamente dettagliata».
C’è soddisfazione nella voce di Liliana, un orgoglio ben riposto se si pensa che quello del Cdec è probabilmente il database più accurato d’Europa. Per lei, e per coloro che l’hanno aiutata, ricostruire l’elenco e le circostanze degli arresti è stato «un imperativo etico portato avanti con determinazione per restituire a ognuno una identità e per costituire una specie di appello nominale alla nostra coscienza».
Non è e non deve essere un conteggio più o meno arido, bensì il ricordo - uno a uno, lentamente, nome per nome, suono per suono, viso per viso, sorriso per sorriso - di una generazione fatta sparire dai nazisti e dai fascisti. Sì, di quei nomi noi dobbiamo avere nostalgia. E l’Italia deve essere riconoscente a chi, come il Cdec, si impegna in un lavoro in cui memoria e storia s’incontrano e si fondono e la pietas si sposa alla ricerca scientifica. Ascoltare la voce triste e funerea dei documenti, la colonna prestampata alla voce «motivo dell’arresto», dove a mano i carcerieri scrivevano «per motivi razziali», come se fosse tutto spiegato con quella frase.
«Abbiamo ripercorso passo a passo l’itinerario delle persone prese nelle loro case, nei luoghi di fuga, per strada, nei rifugi, dopo essere state scoperte come ebree. Non è facile oggi capire che si poteva essere fuorilegge perché appartenenti a una data cultura o a una data religione. Come madre, ho sempre avuto difficoltà a spiegare ai miei figli il senso di quello che è successo agli ebrei d’Europa non molti anni fa, so solamente spiegare come tutto ciò sia accaduto, il meccanismo messo in atto per perseguitarli ed eliminarli dalla faccia della terra, ma non il perché».
La cerimonia allo Yad Vashem è resa ancora più dirompente dalla morte avvenuta giorni fa a Roma di Shlomo Venezia, uno dei pochi sopravvissuti a Auschwitz-Birkenau, uno dei pochissimi - l’unico in Italia, una dozzina in tutto il mondo - testimoni dei Sonderkommando, i gruppi di deportati costretti a rimuovere i cadaveri dalle camere a gas e portarli ai forni. Così da ora in poi la narrazione negazionista sarà più libera, alla menzogna non potranno più controbattere la voce, le parole, l’emozione, le lacrime di chi fu costretto a lavorare ai forni crematori. «Non è lontano il giorno in cui se ne andrà l’ultimo testimone. Proprio per questo è ancora più necessario studiare ogni singolo caso, darsi da fare affinché non ci siano né buchi di conoscenza né dubbi. È l’unica difesa che abbiamo».
Invece i negazionisti del forum italiano di Stormfront hanno accolto la notizia della scomparsa di Venezia con esultanza e hanno aperto una discussione dal titolo «Morto il falsario olo-sopravvissuto Shlomo Venezia!», («olo-sopravvissuto» significata scampato alla Shoah nel gergo neonazista, ndr) con irripetibili commenti accompagnati da oscene immagini di calici di vino e boccali di birra nel momento del brindisi. In Rete c’è dunque chi inneggia alla morte di Shlomo Venezia: tanto per non farci dimenticare che tutti gli arresti del dicembre 1943, del gennaio/metà febbraio 1944 furono compiuti dalla polizia italiana.
Questo negazionismo è tanto dilagante quanto impunito, ed è comunque palese una malcelata noia per la memoria. Tutto ciò ci parla ancora di odio antiebraico. E i siti italiani in stile Stormfront ci fanno «marameo». Così il dibattito, soprattutto tra storici, sulla opportunità o meno di una legge antinegazionista riprende corpo.
«Ho sempre resistito a norme che imbavaglino le espressioni che negano lo sterminio - dice Liliana Picciotto -, però questi signori godono di una tale impunità che l’ondata aumenta in maniera impressionante. E io penso alla salvaguardia della dignità degli ebrei. E penso soprattutto al fatto che se tra i giovani passa l’idea che nazismo e fascismo non hanno compiuto nulla di male, come faremo noi a educarli ai valori positivi dell’umanità, della cittadinanza e della solidarietà?». È con questi pensieri nel cuore che Liliana consegnerà quel floppy disk nelle mani del vecchio rabbino Meir Lau, che fu bambino in un lager.
Un chiarimento sul Giorno della Memoria
risponde Furio Colombo (il Fatto, 08.02.2012)
SPERO DI SÌ. È ciò che ho tentato di fare quando ho scritto e firmato la legge sul Giorno della Memoria. Tutti hanno sofferto in modo spaventoso durante la Seconda guerra mondiale scatenata, lei ricorderà, da tedeschi e italiani, da nazisti e fascisti. Dentro quella guerra che, dal 1939 al 1945, ha provocato 20 milioni di morti e distrutto quasi tutti i Paesi europei, compresi i colpevoli (Germania e Italia) c’è stata una guerra anche più terribile e implacabile, detta “leggi razziali”, una perfetta organizzazione di morte diretta esclusivamente contro gli ebrei di ogni cittadinanza, storia, vita, Paese.
Cosicché, per esempio, nella Varsavia occupata, i polacchi cattolici soffrivano molto, ma i polacchi ebrei venivano cercati casa per casa, cantina per cantina, rifugio per rifugio, ammassati nel ghetto, senza cibo o risorse di nessun genere, e poi le strade di accesso e le finestre verso la parte cristiana venivano murate in modo da impedire ogni contatto. Vi sono stati cristianissimi polacchi che hanno dato o rischiato la vita per nascondere alcuni di questi perseguitati.
Ma un dettagliato documentario tedesco del 1942 mostra i soldati tedeschi trincerati intorno al muro del ghetto di Varsavia con le armi puntate e cittadini che, passando alle loro spalle, notavano movimenti di abitanti del ghetto (quasi sempre bambini) che cercavano di uscire da fenditure del muro in cerca di cibo, in modo che i soldati, avvertiti, potessero prendere la mira e uccidere. Parlo di documenti, non di cinema, fatti veri e documentati che può visionare anche oggi in una piccola sinagoga non più usata per il culto, nei pressi di ciò che allora era un altro ghetto murato, quello di Cracovia.
Come forse ricorda, la fame, le malattie, l’estrema volontà di resistenza hanno portato alla insurrezione del ghetto di Varsavia e gli insorti sono tutti stati uccisi.
Intanto era in funzione il sistema dei campi di sterminio e, come certo ricorda, l’Italia ha fatto la sua parte. Prima le leggi razziali (quelle italiane, volute da Mussolini, votate all’unanimità dal Parlamento italiano di allora e firmate dal re d’Italia, unico re d’Europa a mandare a morte i suoi cittadini ebrei, fra cui alcuni suoi generali e alcuni decorati al valor militare), poi gli arresti di massa dovunque in Italia (sempre intere famiglie, dai neonati agli anziani, dai sani ai malati, nel silenzio di tutti gli altri italiani), Infine il trasporto nei campi di sterminio, il solo servizio per cui le ferrovie d’Europa hanno sempre funzionato.
“Monopolio”? Purtroppo, con sei milioni di cadaveri, fra cui un mare di bambini, si finisce per avere un triste e doloroso primato. Dovrebbe dare “fastidio”, come lei dice, per un’altra ragione: tanti, tantissimi, nella buonissima Italia hanno taciuto. Senza quei complici il delitto non poteva avvenire.
Un male senza banalità
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)
Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.
Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.
Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).
Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.
Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.
Antigiudaismo di massa
Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.
Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.
Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.
Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.
«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.
Il secolo della razza
Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.
La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.
E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.
Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).
Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.
La donna che ha riscritto il lager
di Tzvetan Todorov (la Repubblica, 27 gennaio 2012)
Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d’Algeria (1954-1962); combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall’altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim’ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d’Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un’abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell’ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All’inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l’anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell’ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l’autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all’interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l’esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d’Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisione è la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l’inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscrittura è una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall’introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell’uccisione di sua madre.
Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un’ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.Un esempio dell’impatto del vissuto sul sapere è fornito dall’analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all’interno del campo.
Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall’élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda.
L’esperienza del dopoguerra l’ha condotta a cambiare un’altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell’«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d’Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant’anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano.
I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell’autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi. Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l’irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po’ più di giustizia e un po’ più di verità.
Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d’umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest’ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L’idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d’altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento”.
In 32 fogli il dramma del lager
È l’opera di un internato di Auschwitz che nascose il suo fumetto in una bottiglia perché arrivasse a noi
di Andrea Tarquini Repubblica 24.1.12
Restarono per oltre sessant’anni nascosti in una bottiglia, come l’ultimo appello d’aiuto d’un naufrago, quei disegni che oggi tornano alla luce e ci documentano l’Olocausto in modo drammatico e straordinario. Trentadue schizzi, Auschwitz tramandato come in un reportage, quasi col genio giornalistico che ebbe al fronte in Spagna, e poi con gli Alleati, Robert Capa, l’ebreo ungherese, esule, inventore del fotogiornalismo, ma tutto tramandato solo con una matita, senza fotocamere Leica o Zeiss con cui scattare istantanee. Trentadue disegni, eccoli qui davanti ai nostri occhi di pronipoti smemorati dell’orrore. Sono stati trovati dai curatori del Museo di Auschwitz, l’istituzione internazionale che cura la memoria là a Auschwitz-Birkenau.
Era la fabbrica della morte costruita dalla Germania per ordine di Hitler nella Polonia che il Reich occupò e sognò di cancellare dal mondo. Un documento eccezionale, narra della Shoah fin nei minimi dettagli. Ci tacciono un solo particolare: chi fu mai il coraggioso che al rischio di essere eliminato nei modi più dolorosi e orrendi prese carta e matita per schizzare quelle immagini e lasciarle a noi posteri, sui semplici fogli d’un quaderno da disegno tenuti insieme da una spirale da cui uno a uno i disegni venivano strappati.
The sketchbook from Auschwitz, il libro degli schizzi di Auschwitz, si chiama questo documento eccezionale che ora il museo ha editato. Lo puoi comprare online oppure ordinandolo per telefono o per posta, basta rivolgerti al Memorial Museum Auschwitz-Birkenau (www. en. auschwitz. org). Riaprire gli occhi costa anche poco: 32 zloty, cioè circa 8 euro, è il prezzo del pamphlet curato da Agnieszka Sieradzka. Vale la pena, e ieri Spiegel online (www. spiegel. de) ha diffuso dieci delle trentadue immagini. Scorriamo i disegni dell’ignoto reporter-artista di Auschwitz, e il loro racconto. Affermare che facciano rabbrividire è poco. Nella prima vedi una folla enorme scendere dal treno merci piombato alla "Judenrampe", la rampa di scarico degli ebrei, quella dove finiva il binario davanti all’ingresso di Auschwitz 2-Birkenau. Quasi senti la locomotiva nazista "tipo 52" sbuffare dopo l’arrivo. Vedevano già la sinistra scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Soldati delle SS, il fucile Mauser 9 o il mitra MP 38 in pugno, li spingono nella fabbrica della morte.
Sono ancora ben vestiti, dignitosi da crema della borghesia europea, gli ebrei portati là a morire nei modi più orrendi. Vedi donne in cappotti o vestiti decorosi. Un signore anziano sfoggia baffi ben curati, cappello e giacca da sartorie di qualità. Ancor più elegante è un uomo sulla quarantina, abito impeccabile, fazzolettino elegante sulla tasca della giacca, cappello da passeggio e trenchcoat al braccio. Suo figlio, un bel bimbo sui quattro o sei anni vestito alla marinara, lo tiene per mano. In un disegno successivo, il numero due ben numerato come tutti prima di venir nascosto nella bottiglia della memoria dal disegnatore-cronista sconosciuto, l’idillio apparente finisce.
Arrivano le SS, strappano a forza il bimbo dalle braccia del padre. Invano il bimbo urla e piange, il disegno lo rende a perfezione. Le SS lo portano via, insieme a quel signore anziano dai baffi ben curati. È la prima selezione: vecchi, malati e bambini, inutili, perché incapaci di lavorare come forzati in condizioni disumane per la macchina bellica del Reich, vengono portati subito alle "docce", i locali sigillati dai cui sfoghi sul tetto non si diffondeva acqua, bensì il Zyklone-B, il gas letale prodotto dalla modernissima azienda modello IG Farben gloria della Germania. Nel disegno, il camion per portarli via verso l’ultimo destino è già pronto, l’autocarro d’ordinanza Opel Blitz della Wehrmacht (copia nazista del Dodge americano), sembra avere anche il motore già acceso.
Il racconto dell’orrore prosegue, una pagina schizzata dopo l’altra. Ma chi fu mai il deportato che ricordò il talento ed ebbe il coraggio di narrare tutto con i suoi disegni? Non lo sappiamo, forse non lo sapremo mai, dice Jarek Mensfelt, portavoce del Museo di Auschwitz. Il disegnatore misterioso lasciò solo una fragile traccia, un abbozzo di firma: "MM", scritto su ognuno dei disegni. Le iniziali, forse, ma vai a cercare tra i sei milioni e passa di vittime della Shoah. Il deportato "MM" non dedicò mai disegni a se stesso. Si preoccupò soltanto di nasconderli tutti insieme ben ordinati in una bottiglia, e di sotterrarla tra le fondamenta di una baracca del Lager. Forse nella sua genialità vitale e disperata ebbe un attimo di tempo per scegliere con cura il luogo del nascondiglio: la bottiglia era sotterrata proprio presso una baracca che sorgeva tra le camere a gas e i forni crematori numero 4 e numero 5. Fu scoperta per caso, nel 1947, da un altro ex deportato, Jozef Odi, che dopo la liberazione la consegnò ai custodi del museo. Odi continuò a lavorare per loro fino alla morte, adesso - tra i milioni di oggetti trovati nel territorio dell’orrore, là ad Auschwitz, o tra tutto quanto i nazisti sequestravano a chi scendeva dai treni - la bottiglia della memoria è stata riscoperta.
Il racconto continua, un disegno dopo l’altro. Vedi le SS caricare i più deboli, già magri oltre lo scheletrico, sui camion speciali dello "Haeftlingskrankenbau", il servizio medico per i deportati: chi non serviva più per produrre veniva finito con un’iniezione letale al cuore. Scorriamo ancora l’almanacco di Auschwitz: ecco chi ha tentato la fuga, e viene impiccato alla meglio con una corda appesa al tetto d’una baracca: efficienza, produttività, taglio ai costi erano il credo della fabbrica della morte. Oppure ecco immortalati i sadici e ben nutriti Kapò che con lo stivale spaccano l’osso del collo ai detenuti. O ancora il crematorio e le camere a gas, con fuori ufficiali SS che si godono la pausa d’una sigaretta mentre i loro sottoposti gettano salme sul pianale di carico di un camion, come fossero sacchi di patate. Fino a dettagli orridi del quotidiano: il timbro a fuoco del numero e del triangolo o di altri simboli sull’avambraccio.
Il documento è adesso online in tutto il mondo, perché ricordi. Mentre in una triste coincidenza uno studio ufficiale reso pubblico ieri dal vicepresidente del Bundestag (il Parlamento tedesco) informa che anche in Germania, tanti decenni dopo, l’antisemitismo «è enormemente diffuso in vasti strati della società, attraverso i ceti e nel cuore della società», non solo nelle violente, marginali frange neonaziste.
L’albo dei disegni di Auschwitz chiama a ricordare vigili, come un altro reperto del museo dell’ex Lager, quelle poche righe scritte e sotterrate vicino alla baracca della bottiglia dal deportato ebreo polacco Salmen Gradowski: «Caro scopritore futuro di queste righe, ti prego, cerca dappertutto, in ogni centimetro di terreno qui dove noi fummo. Qui troverai tanti documenti, ti diranno quanto è accaduto qui, tramanda tracce di noi milioni di morti al mondo che verrà dopo».
Quello spazio di libertà nell’orrore quotidiano
di Miguel Gotor (la Repubblica 24.1.12)
L’autore è ignoto, sappiamo solo che si firmava «MM». La mano è ferma e il tratto sicuro, attento a cogliere ogni dettaglio e a registrarlo sulla carta ruvida di un taccuino. Lo immaginiamo intento a disegnare nella penombra, nelle ore di riposo tra un turno e l’altro, con il capo chino e la schiena curva, il blocchetto di fogli poggiato sulle ginocchia irrigidite, il mozzicone di matita stretto tra le mani nere e incallite dalla fatica. I suoi schizzi furono ritrovati nel 1947 dentro una bottiglia, occultati nelle fondamenta di una baracca del campo di sterminio polacco di Birkenau, non lontano dai forni crematori IV e V. Il fatto che l’ultimo disegno sia incompleto lascia pensare che quello poteva essere un nascondiglio quotidiano, un anfratto tra i tavolacci di legno, per sfuggire alla sorveglianza dei Kapò.
E riprendere di volta in volta il lavoro, a ogni occasione possibile. Fino all’ultima volta, subito prima di un improvviso trasferimento o, assai più probabilmente, della morte.
Si tratta di un documento eccezionale in cui ogni segno rivela l’ardimento del disegnatore, in grado di infrangere, a rischio della propria vita, il divieto dei suoi custodi. Si scrive per ricordare, si scrive per resistere, si scrive per lasciare una traccia. E si disegna per le stesse ragioni, per sfidare la morte che ti bracca e riempire il tempo che separa da lei, per conservare uno spazio di intangibile libertà anche dentro il terrore, per aggirare il progetto totalitario dei nazisti, quello che angosciò e motivò Primo Levi al racconto: «tanto non vi crederanno». Per vincere l’oblio, la condanna peggiore, quella che rende la tua creaturale sofferenza senza comunicazione e senza testimonianza.
Non è la prima volta che dei disegni sopravvivono all’universo concentrazionario nazista e ce ne raccontano il raccapriccio. Sono celebri, ad esempio, quelli dei bambini rinchiusi nel campo di concentramento cecoslovacco di Terezin, i quali, sotto la direzione di un adulto, ingannavano il tempo che li separava dai forni crematori raffigurando scene della loro infanzia perduta o immagini della prigionia.
La peculiarità dei disegni di Birkenau è che sono certamente l’opera clandestina di un adulto. Sembrano fotografie in bianco e nero con un chiarissimo intento documentario: non c’è il lusso dell’astrazione, ma la necessità di un realismo estremo e angoscioso che raffiguri e informi. L’autore usa una matita e soltanto in alcuni casi aggiunge dei tocchi di colore: per evidenziare di rosso i tetti delle baracche e i mattoni delle costruzioni, per distinguere le fiamme dei forni crematori, per far risaltare la divisa scura di una SS o quella a righe blu di un Kapò.
In alcuni casi un unico foglio è diviso in due riquadri dallo stesso autore per distinguere scene diverse come se fosse un cartone animato dell’orrore. Evidentemente, la carta a disposizione non era molta, ma la voglia di raccontare tanta: l’esperienza della «rampa degli ebrei», ossia il capolinea dove i deportati arrivano in massa per essere subito divisi in sommersi e salvati, i vecchi e i bambini da una parte, gli uomini e le donne abili al lavoro dall’altra; la «casa della morte», ove si raffigurano i cadaveri trasferiti al forno crematorio, mentre una SS, in primo piano, inganna il tempo fumando una sigaretta; la condanna reiterata del comportamento dei Kapò e la brutale dimostrazione del loro dominio. Uno di questi è colto nell’atto di gettare in una pozzanghera un prigioniero e, in un altro riquadro, si vede ricompensato con del cibo speciale, mentre sullo sfondo i detenuti sono in fila per ritirare la zuppa di sempre. E ancora: il momento della selezione che separava i sani dai malati, una scena di tortura in cui un ebreo è legato attorno un palo e frustato sotto lo sguardo vigile delle SS; il vagone piombato, i prigionieri scheletrici avviati ai forni.
Non è solo la coincidenza topografica, ossia la contiguità del campo di Birkenau a quello di Auschwitz che fa pensare a Se questo è un uomo di Primo Levi. Le immagini sembrano le ideali quanto pertinenti illustrazioni di quel libro, e in una prossima edizione andrebbero pubblicate insieme perché riproducono una serie di scene e di momenti della vita quotidiana nei campi di sterminio che abbiamo già potuto leggere nelle pagine dello scrittore torinese.
Questi disegni sono riusciti a oltrepassare il filo spinato da cui hanno avuto origine per giungere misteriosamente sino a noi e sono la testimonianza di una vittoria della vita sulla morte, dell’ingegno umano sull’abisso delle coscienze, pezzi di carta, fragili e ingialliti dal tempo, che hanno saputo sopravvivere alle fiamme dell’inferno dei viventi.
Shoah: la storia e la memoria
di Furio Colombo (il Fatto, 22.01.2012)
"Dal viaggio della memoria non si esce indenni”. Comincio con questa frase il testo che sto dedicando alla Shoah (il 27 gennaio è il Giorno della Memoria) perché l’ho ascoltata con emozione in un film nuovo e diverso che proprio in questi giorni si può (si deve) vedere in Italia.
Cito altre frasi: “Se una storia non viene raccontata diventa qualcos’altro. E così ho scritto per te nella speranza che questa storia accompagni anche te. Siamo tutti figli della nostra storia”.
Il film è La chiave di Sara, l’autore è il poco noto Gilles Paquet-Brenner, che qui si rivela un grande regista, la storia si svolge in Francia nel 1942. E oggi, mentre guardiamo il film, la domanda non è “che cosa avresti fatto allora” (che, certo, ricorre continuamente) ma è: “che cosa farai adesso”, dopo avere saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto.
L’originalità della domanda fa del film un esperimento unico. Per arrivare a quell’espediente e ricollegare i tranquilli cittadini di oggi a un giorno dimenticato, anzi insignificante per quasi tutti (Parigi, 11 luglio 1942) basta la banale vicenda di un appartamento da ristrutturare. Ci pensa con bravura il marito architetto mentre la moglie, giornalista, ha da fare con la frase di un discorso dell’allora presidente Chirac. Deve ricostruire per il suo settimanale d’attualità il riferimento di Chirac al Vél d’Hiv e ai fatti tremendi che in quel Velodromo si sono all’improvviso verificati, portando arresti di massa di intere famiglie, detenzione, violenza, deportazione, una tragedia priva di senso che ha sconvolto, travolto e in gran parte ucciso, attraverso la deportazione, diecimila persone, un terzo bambini.
“La chiave di Sara” e la rimozione francese
LA GIORNALISTA del film nota alcune cose: nessuno dei suoi giovani e abili colleghi sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d’Hiv (come i parigini hanno a lungo chiamato per brevità il Velodromo d’inverno della città, fino alla dismissione). Non esiste una sola fotografia di diecimila persone ammassate per giorni, con i loro vecchi e i loro bambini, in uno stadio senza acqua e senza servizi igienici. Non esistono targhe o monumenti visibili (bisogna sapere e cercare). E una volta informati, i giornalisti nella redazione del settimanale di attualità, condannano la “cattiveria dei nazisti”. Tocca alla collega più anziana informarli: non i nazisti, i francesi.
“Noi, siamo stati noi”. È un delitto francese, e per questo Chirac chiedeva scusa. Chiedeva scusa a chi? Intanto il marito architetto sta ristrutturando a regole d’arte l’appartamento, che è sempre appartenuto ai suoi genitori e ai suoi nonni. Sempre? Bastano due generazioni per risalire a chi sapeva, e non ha mai pronunciato il nome ebreo di chi era stato strappato da quell’appartamento, rendendolo libero all’improvviso, in tempo di guerra, in piena Parigi.
È il segreto del film La chiave di Sara che ha questo di grande: il gioco terribile del “tu che cosa avresti fatto? ”si gioca adesso, e vi partecipa una famiglia parigina in cui nessuno è fascista e nessuno è antisemita, eppure deve decidere: si abita in quella casa espropriata con l’espediente della deportazione al Vél d’Hive poi ad Auschwitz, da cui, forse, nessuno di quella famiglia è tornato vivo? Non vi dirò di più del film (c’è di più e per questo va visto).
Ma i lettori si saranno accorti che, per la prima volta dopo dieci anni e tante discussioni (alcune nobili, alcune colte, alcune difficili da condividere) mi sono imbattuto in un regista e uno sceneggiatore che hanno proposto la domanda: perché il Giorno della Memoria? E hanno dato una risposta: Perché il giorno della memoria è adesso.
Per spiegare il mio sollievo devo riferirmi al saggio appena pubblicato da Valentina Pisanty, Abusi di Memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pag. 137, euro 16) a cui Il Fatto ha dedicato una pagina nei giorni scorsi.
La Pisanty scrive in apertura del suo saggio: “Da dove derivano tanto il fastidio che taluni provano nei confronti del Giorno della Memoria, quanto la carità pelosa con cui altri lo celebrano? Il difetto, si direbbe, sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. E ciò, si badi bene, non a ridosso degli eventi, quando gli italiani avrebbero potuto attingere ai ricordi vivi di uno sterminio appena perpetrato per interrogarsi sulle proprie responsabilità dirette, ma a distanza di decenni, quando la comunità commemorante cominciava a sentirsi sufficientemente estranea agli eventi in questione da poterli chiudere in una teca da museo. Come ha spiegato Maurice Halbwachs (1950) la memoria collettiva è sempre funzionale agli interessi, alle sensibilità, e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dai pensieri dominanti delle società a cui fanno capo”.
Questa lunga e disturbante citazione mi serve per far notare la vistosa incoerenza con quanto si può leggere, appena poche righe prima, nello stesso capitolo (il primo) del libro della Pisanty. Cito: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso frutto di incosciente faciloneria, piuttosto che una reale e diffusa intenzione omicida, ma un crimine anche italiano che, per decenni, gli italiani hanno spazzato via a copi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in Parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”.
Valentina Pisanty è studiosa al di sopra di ogni dubbio quanto alla qualità scientifica e alla integrità morale, più che mai sul tema della Shoah. Ma il problema è logico. Quando ho scritto e proposto la legge sul Giorno della Memoria (che ovviamente sarebbe stato stravagante chiamare “il Giorno della Storia”) ero esattamente, per età e generazione, una delle persone giovani (nel mio caso al tempodelliceo) che, “aridossodegli eventi” aveva chiesto invano agli insegnanti, tutti membri del Cln o di diverse componenti della Resistenza) di parlare della Shoah come “delitto italiano”.
Ho raccontato questo colpevole vuoto nella mia introduzione al primo testo americano sulle leggi razziali e la persecuzione italiana (Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, University of Nebraska Press, 1987,1992). E appena eletto deputato (1996) ho fatto ciò che non ho potuto fare a “ridosso degli eventi”. L’ho fatto ai nostri giorni, contro notevoli resistenze.
Il delitto italiano e la responsabilità
AVRÒ ESPRESSO “gli interessi della cultura dominante” o piuttosto l’ ossessione che non mi aveva mai abbandonato su ciò che potevo ancora testimoniare del tempo in cui ero vissuto, e soprattutto su ciò che avrebbero potuto fare i pochi sopravvissuti che erano ancora in grado andare nelle scuole a raccontare, a consegnare ai più giovani la loro “chiave di Sara”, come faranno anche alcuni di loro venerdì prossimo?
Ho detto ai miei colleghi deputati, nell’intervento finale con cui ho cercato di ottenere l’unanimità, che la Shoah era un delitto italiano, e l’ho fatto con la intenzione di negare per legge la presunta estraneità italiana allo sterminio degli ebrei. Ho chiesto ai deputati di ricordare che in quegli stessi banchi, in quella stessa Camera, centinaia di deputati italiani avevano votato all’unanimità le peggiori leggi razziali d’Europa, firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo. Dov’è l’errore se dico che mai Storia e Memoria hanno coinciso in modo così netto, facendo insieme da impedimento a un vuoto che molti vorrebbero ancora?
Gli equivoci della Memoria
di Valentina Pisanty e di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2012)
Caro Furio,
grazie della menzione e dell’occasione che mi dai per spiegare meglio una materia complicata di cui vorrei chiarire alcuni aspetti. Innanzitutto sgombero il campo da un possibile equivoco: quando ho suggerito che forse “il difetto sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia”, non intendevo affatto contestare l’importanza e la legittimità del Giorno della Memoria in quanto tale.
Ho seguito con partecipazione l’appassionata battaglia parlamentare con cui sei riuscito a far approvare la legge 211, rompendo decenni di silenzio sul razzismo fascista, e penso che il Giorno della Memoria abbia tuttora una rilevante funzione pedagogica da svolgere. Ciò che invece mi lascia perplessa è un diffuso equivoco di fondo sul senso di questa ricorrenza, che molti tendono a considerare come un’occasione celebrativa, nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione di una qualche identità collettiva (ma quale?). È questo, del resto, il senso delle altre ricorrenze prescritte dal calendario istituzionale, dove l’evento ricordato è edificante, se non addirittura gioioso: attributi evidentemente incompatibili con la storia delle persecuzioni razziali e della Shoah.
Forse l’equivoco si insinua già nella scelta della data del 27 gennaio, che da una parte fa pensare alla fine dell’incubo (qualcosa da “festeggiare”, dunque), e dall’altra stempera la specificità italiana dell’evento commemorato. Ricordo che in origine avevi proposto il 16 ottobre, e sarebbe interessante capire perché il Parlamento abbia bocciato questa data, ben più pertinente. La citazione di Halbwachs sugli usi politici della memoria evidentemente non getta alcuna ombra sulle intenzioni di una legge pensata come stimolo a studiare senza indulgenza i trascorsi razzisti di un paese che per lungo tempo si è consolato con il mito degli italiani brava gente. Ma le applicazioni della legge non sempre ne colgono o ne rispettano l’intenzione. Mi è sembrato perciò opportuno definire meglio i termini di una Memoria che - nel momento in cui diventa memoria critica, e non celebrazione stucchevole di non si capisce bene quale identità collettiva - confluisce sì nella Storia, come giustamente sottolinei.
Valentina Pisanty
Cara Valentina,
sono grato della tua attenta risposta che mi permette di aggiungere qualche precisazione e qualche notizia. Una notizia, è, per esempio, che la Memoria evocata dalla legge che ne prende il nome (“Giorno della Memoria”) per ragioni che potremo studiare e discutere, non ha mai dato luogo a “occasioni celebrative nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione”. C’è stata e c’è una risposta dei media, questo sì. Ma nessun movimento di autorità e istituzioni,come avviene invece, per esempio, per eventi militari o date di storia politica. Molti insegnanti sensibili e preparati ne parlano nelle scuole. Ma non mi risulta che vi sia mai stata una circolare ministeriale in proposito.
Quanto ai “viaggi della memoria” di molte scuole (se non sbaglio iniziati a Roma quando era sindaco Veltroni) sono ormai una tradizione bella, radicata e sporadica, iniziata prima della legge. Come vedi, glorificazione e celebrazione appaiono uno scampato pericolo. Resta il problema di parlare, e di invitare a parlare, di ciò che, certo in Italia, è stato a lungo taciuto. E c’era la necessità storica e politica di dichiarare per legge (questo è l’unicofrutto giuridico di quelle poche righe) che la Shoah è un delitto italiano.
Si tratta di una certificazione che chiude per sempre ogni dibattito sul fascismo. È vero, la data da me indicata nella prima stesura era il 16 ottobre, la notte del 1943 in cui 1017 cittadini italiani ebrei sono stati strappati dalle loro case a Roma da soldati tedeschi su indicazioni dettagliate della polizia italiana. Tutto ciò è avvenuto nel silenzio di Roma, a 500 metri dal Vaticano. E il treno italiano per Auschwitz ha viaggiato in orario per giorni e per notti con un carico umano che non è mai più ritornato.
La data non è stata cambiata dal Parlamento. Il 27 gennaio era già stato indicato come possibile "giorno della memoria " di tutta l’Unione europea e suggerito vivamente da Tullia Zevi, allora presidente delle Comunità Ebraiche italiane, per indicare, nella caduta dei cancelli di Auschwitz non la fine di un incubo (che finirà solo nel maggio successivo) ma la vastità del delitto che Auschwitz-Birkenau,piùdialtricampi, rappresentava: ebrei ma anche Rom, omosessuali e tanti fra coloro che avevano avuto il coraggio di opporsi. L’identità collettiva, Valentina, è quella di coloro che anche oggi dicono no, qualunque sia il rischio.
Furio Colombo
L’Europa non volle vedere il treno per i Lager
di Elena Loewenthal (La Stampa/TuttoLibri, 21.01.2012)
Auschwitz è il buco nero della nostra storia: una voragine cieca e incolore dopo la quale nulla è più come prima. Ma non è uniforme, l’oscurità di questo non luogo che sta dentro il nostro mondo, abita la nostra civiltà anche se preferiremmo tutti sbarazzarcene, fare come se non fosse mai successo. Il male non è mai uguale a se stesso, ha fantasia. Sorprende prima ancora di spezzare: sfida l’umanità a inventare. Auschwitz non è il male assoluto perché, e forse purtroppo, il male assoluto non esiste - c’è sempre qualcosa che è peggio, più crudele, più basso. E il buio di quel luogo, di quel tempo, di quell’orrore, conosce un’infinità di sfumature: come se il nero non fosse assenza di luce e colore, ma una gamma inesauribile di oscurità. Perché Auschwitz è stato il campo di sterminio, è stato le camere a gas, sono stati i forni crematori e l’umanità sfigurata nelle baracche e nelle adunate del mattino. I cumuli di capelli e di denti e di scarpe. Ma è stato anche altro. Non si può dare un voto al dolore e dire: questo è il più terribile, questo è peggio. Ma accostare, sì. Provare a immaginare. Immedesimarsi, malgrado una distanza abissale. Sapere che quell’inferno aveva molte facce, non una soltanto.
Auschwitz, dunque, è stato non solo laggiù, nella campagna polacca sulla quale la cenere dei forni ha continuato a depositarsi per molto tempo dopo, ancora. E’ stato anche nei luoghi di raccolta, meta dei rastrellamenti. Nei vagoni merci che attraversavano l’Europa in lungo e in largo, si fermavano nelle stazioni. Volendo, fra le fessure del legno, attraverso gli spioncini, si sarebbero visti occhi, scampoli di facce. Volendo, si sarebbero potuti ascoltare i lamenti, le voci. E invece, l’Europa si è fatta attraversare da questi treni come una pista di ghiaccio dove i pattini passano e lasciano una minuscola riga, che subito sparisce.
Sono tanti, i luoghi di mezzo della Shoah: là dove lo sterminio era presagio e certezza al tempo stesso. Là dove Auschwitz era ancora soltanto un’ombra, eppure pesante e feroce. Anticamere dell’inferno, ma anche inferni essi stessi. Ne Il vagone (Mondadori, traduzione di Marco Bellin, pp. 152, 10) Arnaud Rykner prova a fare il viaggio: accompagna l’ultimo treno di deportati in direzione Dachau, giorni e giorni di un tragitto che durerebbe molto meno, prolungato per seminare morte e sofferenza sui binari. La sua è un’operazione letteraria ardua, ai limiti dell’impossibile. Difficile dire se ci sia riuscito o meno. Come si fa a immaginare - e raccontare - quello che si è provato lì dentro? Rykner riesce soprattutto a dar conto dell’assurdo isolamento di quei convogli: se Auschwitz è un altro mondo, quei treni erano ancora in questo. Questo mondo li ha vergognosamente fatti passare, li ha digeriti nello stomaco della propria storia.
Prima dei vagoni merci, ci sono stati i rastrellamenti. Abbiate Pietà di mio Figlio (a cura di K. Taieb, D. Missika, Sperling e Kupfer, pp. 210, 17; pubblicato sulla scia del romanzo La chiave di Sara, di Tatiana de Rosnay, Mondadori, pp. 321, 17, ora anche film) riporta le lettere di alcuni fra gli ebrei rinchiusi al Vel d’Hiv a Parigi. Fra il 16 e il 17 luglio del 1942, 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (sì, bambini) vengono rastrellati e rinchiusi qui dal governo di Vichy, in attesa di essere deportati. Queste diciotto lettere sono piene di paura e raccomandazioni, di testamenti e quotidianità. E’ un libro terribile perché toglie il velo a una pagina francese rimasta piuttosto taciuta. «Miei cari Roland, Annie e Paule. Sono le 4 del mattino. Sono venuti a prenderci. Vi dico addio, mi pento di tutto il male che potrei avervi fatto e delle preoccupazioni che vi ho procurato. Sappiate che vi ho amato sopra ogni cosa, anche se non ho potuto dimostrarlo». Ancora una volta, al Vel d’Hiver la civile Europa mostra di cosa è stata capace: e mica solo i nazisti occupanti. No, non solo loro.
Ma prima di Auschwitz, prima dei treni della morte, prima dei rastrellamenti nelle metropoli d’Europa, c’è stata l’emarginazione. Due erano gli obiettivi: «tenere pulita» la società evitando il contatto con la stirpe «infetta». Ma soprattutto rintracciare gli ebrei più facilmente, uno ad uno. L’emarginazione è stata davvero l’anticamera dello sterminio. Anche se a volte, da quei luoghi recintati in cui gli ebrei furono rinchiusi, l’orrore sembrava lontano. Come allo Joods Lyceum di Amsterdam, dove Theo Coster è tornato qualche anno fa con un documentario e ora con un libro, "Dall’infame governo di Vichy a una gita scolastica con il cuore e la memoria insieme a Anna Frank", Rizzoli, pp. 178, 17,50. Ma perché omettere del tutto il nome del traduttore?). Una specie di gita scolastica con il cuore e la memoria, insieme ad Anne Frank e ai compagni che non ci sono più. E’ un libro quasi sereno, questo, ad ogni riga animato da un’assenza: quella di lei, in cui tutti i sopravvissuti si rispecchiano. Ma proprio questa apparente serenità, questi ricordi di scuola così simili a tanti altri eppure così immensamente distanti da una rievocazione «normale», fanno presto schiantare il lettore contro la realtà della storia, il silenzio di chi non c’è più.
Spogliati della propria umanità
di Zygmunt Bauman (Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2012)
Ognuna delle sei milioni di vittime del più grande genocidio dell’umanità aveva una storia da raccontare. Una storia raccapricciante, orripilante: una storia di umana disumanità verso esseri umani. Pochi, tra coloro che attraversarono quell’inferno, ebbero la possibilità di mettere per iscritto la loro storia, pochi seppero trovare parole adatte per descrivere orrori che il linguaggio umano non era pronto a rappresentare. Ancor meno numerosi furono coloro che riuscirono a consegnare le loro storie scritte a chi più che mai aveva e ha bisogno di ascoltarle: le generazioni post-Olocausto, ossia quelle generazioni che si trovarono gravate dall’onere di apprendere e trasmettere a loro volta ai propri figli la lezione di ciò che può fare la disumanità degli esseri umani quando è libera e senza controllo, oppure, ma è ancor peggio, quando è posta al servizio delle più vili, abiette e malvagie intenzioni. Tra coloro che riuscirono in questa impresa, e che contribuirono a far sì che i loro figli potessero sostenere quell’onere, vi fu anche Anna Hyndráková-Kovanicová.
Pienamente consapevole dell’importanza di quel che faceva, cercando di conservare ricordi che altrimenti sarebbero stati destinati a seguirla nella tomba, ella diede alla sua storia la forma di una Lettera ai figli... . La sua testimonianza è di inestimabile valore, per lo meno (o forse a maggior ragione) nella misura in cui chi è nato nel mondo post-Olocausto ha non poche difficoltà a immaginarsi il mondo che ella descrive e che testimonia.
L’inizio dell’orrore coincide sempre con un venir meno dell’umanità: un vuoto che si va ingrandendo e che si condensa sempre di più, sino a divenire palpabile come una nebbia che ammanta chi, con marchio infamante, si ritrova escluso dal consorzio umano, anticamera della distruzione. «Molte persone smisero di conoscerci: quelle più oneste guardavano dall’altra parte facendo finta di non vederci, soltanto pochissime persone avevano il coraggio di rischiare e ci salutavano per strada, anche solo con un cenno del capo». Questo muro apparentemente invisibile, ma quanto mai reale, di separazione spirituale si dimostrò avere effetti non meno devastanti rispetto ai muri di mattoni, cemento e filo spinato, sfacciatamente imponenti, duri e impenetrabili: «Quanto più a lungo uno restava lì», in quel luogo abbandonato dall’umanità, «tanto meno assomigliava a un essere umano».
Janina Bauman (moglie del sociologo, scrittrice polacca, morta a Leeds nel 2010, ndr), un’altra donna sopravvissuta agli orrori del l’Olocausto, notò nelle sue memorie che il compito più difficile per lei e per chi le stava intorno era «restare umani in condizioni disumane». Anna Hyndráková- Kovanicová spiega perché: i prigionieri di un mondo inumano si trovano costretti a guardarsi l’un l’altro con diffidenza angosciosa, le vessazioni e le umiliazioni cui sono sottoposti li spogliano, strato per strato, dell’armatura morale che protegge la loro umanità. «Se avessero conservato un po’ di umanità, forse non sarebbero sopravvissute a lungo in quelle condizioni».
Occorre leggere e rileggere queste testimonianze, e non bisogna chiedersi per chi suoni quella particolare campana. Essa suona per noi, che a nostra volta ci troviamo in un mondo non meno disumano. Noi, che abbiamo il compito di togliere la disumanità dal mondo, per la nostra salvezza, nostra e dei nostri figli dei figli dei nostri figli.
Il processo
Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt
Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un’esposizione a Firenze
di Susanna Nierenstein (la Repubblica, 19.01.2012)
Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi "Processo ad Hannah Arendt" la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l’11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l’11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina - dell’organizzatore prima dell’espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l’Europa occupata -, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l’avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann "la banalità del male". Il Male che Eichmann incarna non ha niente di "banale", come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo.
La visione della filosofa tedesca era senz’altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri "volenterosi carnefici" al genocidio.
Ecco invece subito nell’esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l’annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell’estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ’30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ’32. Nel Reich dal ’33, all’indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ’34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell’unità "Affari ebraici", dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania.
Alla conferenza di Wansee del ’42 che mise a punto il piano della "soluzione finale" fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati "i protagonisti, i papi del Reich" a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì "lo specialista" quando nel ’44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un "maestro" della spoliazione, dell’emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ’61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei "parassiti".
Cosa ci vide di "banale" Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l’autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l’antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l’aveva definito "ossessionato dalla questione ebraica"). Un quadro confermato anche dall’intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ’61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell’esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d’imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ’33 al ’45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l’avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un’identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ’33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.
STORIA
Così il Reich pianificò lo sterminio degli ebrei
esiste ancora una copia del protocollo
Il documento uscito dalla riunione segreta del 20 gennaio 1942 sulla "soluzione finale" fu trovato per caso dopo la sconfitta del nazismo, fotocopiato e riprodotto in vari testi didattici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece c’è. E Welt online ha pubblicato quelle agghiaccianti 15 pagine dattiloscritte
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI *
BERLINO - Esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista (Nsdap) e dell’amministrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Per decenni, è stato custodito come documento storico negli archivi dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri tedesco. Il documento fu trovato per caso, dopo la disfatta dell’Asse, da ufficiali delle forze armate americane, e consegnato ai giudici del processo di Norimberga, la grande istruttoria degli Alleati contro i criminali nazisti. Fu più volte fotocopiato e riprodotto in testi storici e scolastici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece eccolo qui: in quelle 15 pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, pubblicate da Welt online 1 (edizione digitale del quotidiano liberalconservatore vicino al governo Merkel) oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che spudoratamente affermano che l’Olocausto sarebbe stato inventato a posteriori dai vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati). Nossignore: tutto vero, confermato ancora una volta dalla lettura di quell’agghiacciante documento.
FOTO LE 15 PAGINE DEL PROTOCOLLO 2
Era il freddo 20 gennaio 1942 quando un gruppo di alti responsabili nazisti si riunirono in una bella, lussuosa villa nel quartiere elegante di Wannsee, nell’area sudovest di Berlino. "Geheime Reichsache!", cioè "top secret del Reich", dice il timbro in rosso in cima al documento. L’idea di redigere il protocollo della riunione e di stamparne trenta copie venne ad Adolf Eichmann, l’alto ufficiale delle SS che fu poi il progettista-ingegnere dell’esecuzione dell’Olocausto nei minimi dettagli anche tecnici, dal numero di treni-bestiame piombati alla cadenza delle esecuzioni di massa quotidiane col gas Zyklone-B in dosi ben calcolate prodotto dalla diligente, moderna azienda IG Farben, con colpi alla nuca, con criminali esperimenti "medici" in cui i deportati erano cavie destinate alla morte, fino alla "sinergia" con governi e polizie collaborazioniste esistenti ovunque tranne che in Polonia nell’Europa occupata dall’Asse.
Già alla riga tre del documento, come si vede nelle immagini, una piccola frase chiarisce di cosa si trattava in quell’incontro al Wannsee: "die Endloesung der Judenfrage", cioè "la soluzione finale del problema ebraico", in esecuzione degli ordini del Fuehrer Adolf Hitler e del vertice della tirannide, a cominciare dallo spietato, sadico capo delle SS, Heinrich Himmler. Il testo del protocollo, redatto da Eichmann, parla chiaramente di "evacuazione verso l’Est". Annotazioni d’accompagno scritte dal suo stretto collaboratore Reinhard Heydrich spiegano che si tratta "dell’esecuzione pratica della soluzione finale del problema ebraico".
Il protocollo su ordine di Eichmann fu dattiloscritto in trenta copie. Più tardi però, quando fu loro chiaro che la guerra da loro scatenata si sarebbe conclusa con la disfatta tedesca, i gerarchi nazisti, le SS, la Gestapo, tutti i singoli personaggi e istituzioni che ne avevano una copia, la distrussero. In marzo e aprile del 1945, il regime eliminò migliaia di documenti che contenevano le prove dei crimini contro l’umanità, in una corsa contro il tempo contro gli Alleati vittoriosi: a Ovest gli angloamericani di Patton, Eisenhower, Bradley e Montgomery, a est l’Armata rossa guidata dai marescialli Zhukov e Rokossovskij, le unità militari dell’Armia Krajowa polacca comandata dal governo in esilio a Londra e le divisioni polacche nelle forze armate sovietiche.
Distrussero tutte le copie, tranne una, la numero sedici. Sembra che un funzionario del ministero degli Esteri, convinto nazista, e giudicato anche rozzo e corrotto, Martin Luther, riuscì a conservarla nel sogno di compromettere il suo ministro, Joachim von Ribbentrop. SS e Gestapo scoprirono i piani di Luther, che fu internato a Sachsenhausen. Ma nessuno distrusse la copia. Che restò negli archivi sotterranei del ministero. Dopo la disfatta del "Reich millenario", i sovietici che avevano preso Berlino, setacciarono insieme a inquirenti Usa, britannici e francesi ogni archivio delle istituzioni naziste. Così quel protocollo finì in mano a Robert Kempner, un esule antinazista tedesco divenuto cittadino e ufficiale americano. Kempner non volle credere ai suoi occhi, e la trasmise subito a Telford Taylor, il giudice americano capo della Corte alleata che giudicò i capi del regime nazista a Norimberga. "Oh Dio, ma è un documento vero?", disse il giudice Taylor sotto shock, poi lo esaminò subito coi colleghi britannico, sovietico e francese.
Il processo di Norimberga si concluse con numerose condanne a morte. Alcuni dei capi del nazismo, come Hermann Goering, si suicidarono. Degli estensori del protocollo, uno era già caduto vittima dei suoi crimini, l’altro avrebbe reso conto più tardi al mondo del suo ruolo. Reinhard Heydrich fu il sadico governatore di Praga occupata, ogni giorno faceva affiggere nelle strade manifesti con le foto dei resistenti o dei sospetti assassinati. Un commando suicida della resistenza cecoslovacca si assunse l’incarico: si fece addestrare nel Regno Unito dalle truppe speciali britanniche, poi fu paracadutato presso Praga da aerei per missioni segrete della Royal Air Force. Uccisero Heydrich in un attentato, poi si tolsero la vita per non cadere prigionieri e non parlare sotto tortura.
Eichmann era fuggito in Argentina, ma il Mossad, l’efficientissimo servizio segreto dello Stato d’Israele intanto sorto, lo scovò, e in una straordinaria missione lo rapì e lo portò in Israele con un quadrimotore DC 4 cargo con false registrazioni di volo trasporto merci. Al processo a Gerusalemme Eichmann ammise freddo ogni colpa, senza mostrare alcun pentimento. Fu condannato a morte e impiccato. Ma la caccia agli ultimi criminali nazisti continua, guidata da Efraim Zuroff al Centro Simon Wiesenthal con la collaborazione dei servizi americani, israeliani, tedeschi e di altri Paesi. Quelle pagine ingiallite con il piano del più orrido crimine della Storia incoraggiano a ricordare, e a non smettere di ricercarli.
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
L’intervista ritrovata.
Il grande scrittore in una conversazione inedita del 1973 con un giovane studente. «Oggi “Se questo è un uomo” lo riscriverei completamente, per mettere in luce le responsabilità italiane nella Shoah»
Primo Levi «Dal fascismo ad Auschwitz c’è una linea diretta»
La politica:
«Il mio libro? Oggi verrebbe fuori una cosa completamente diversa: metterei in risalto il suo valore politico...»
Nel campo:
«Immagazzinavamo tutto voracemente, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri»
Invenzioni tricolori:
«Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana»
I giovani:
«Queste cose vengono sentite come arcaiche, come i garibaldini, come la rivoluzione francese, qualcosa di molto lontano...»
di Marco Pennacini (l’Unità, 26.01.2011)
Primo Levi, come mai ha voluto scrivere «Se questo è un uomo»?
«Perché ero appena ritornato dalla prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno che diventava ossessione.(...) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere tutto in una specie di tasca».
Allora vedevi già con un occhio più distaccato quel che ti succedeva...
«No, non era possibile. Nel lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina».
Che poi hai perso...
«L’ho persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa».
Certo.
«Ma era molto importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi, di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente, tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente vista trent’anni fa».
Le facce?
«Le facce. Tanto che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del canto di Ulisse... Jean...»
E questa discussione su Ulisse, si è svolta veramente?
«Non c’è niente di inventato nel libro. Non c’è nulla di inventato. non una parola.(...) L’unica autocritica che potrei fare è quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del libro».
Parli di “Se questo è un uomo”?
«Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso».
Ma lo scriveresti con le stesse intenzioni?
«No».
Come un documento?
«No: lo scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era. Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi... userei il mio libro come uno strumento».
Lo strumentalizzeresti, diciamo...
«Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta che parte dalle stragi di Torino del ’22, Brandimarte (capo delle squadre d’azione fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922, porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro. Nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22° reggimento fanteria della divisione Cremona, al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma, ndr), e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente».
Sì, c’è una continuità, ma hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no?
«Stiamo parlando di qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
Ah! è stata inventata in Italia...
«Le prime stragi fasciste sono italiane... sono torinesi». Pensavo che... «Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana».
Ho capito.
«Il fascismo è un brevetto italiano, eh!»
Purtroppo...
«Torinese, voglio dire. Insomma la strage del ’22.... Era una caccia, una caccia per le strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito...».
Sì, qualcosa...
«Brandimarte (...), è morto nel suo letto (...). È stato assolto per insufficienza di prove».
Sì, ma c’è tanta gente ancora che gira...
«Sì, veterani».
Sì,sì.
«Federali. Capi di gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in chiaro questa cosa (...). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
Allora diciamo che lo scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più...
«No, penso che non toglierei niente, però aggiungerei molto».
Ah! capisco, e perché non lo fai?
«Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (...)Come ti dicevo prima, che c’è una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (...)
A proposito di “Se questo è un uomo” e di “La tregua”: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa coscienza?
«Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo, testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite, appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti è abbastanza lontana nel tempo, ma... solo nel tempo è lontana»... (...)
Con che spirito l’hai scritta “La tregua”?
«Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla così come io l’avevo vista».
Il cancello della memoria
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2011)
Se il “giorno della memoria” dedicato alla Shoah (27 gennaio) è inutile, che dite, lo lasciamo perdere? Dopotutto viviamo in un paesaggio di detriti, pirateria, malefatte e vergogne, che non sono solo italiane - come a volte esasperati crediamo - ma rovesciano conseguenze dolorose, o la morte, su esseri umani indifesi, nel mondo povero, ma anche nel cuore del mondo ricco. Nessuno ti dice di voler dimenticare. Piuttosto ti dicono: in un mondo così, a cosa servono le cerimonie. O meglio: altre cerimonie, oltre quelle che celebriamo da sempre, con poca persuasione e molta distrazione in ciò che resta della comune vita pubblica? Forse qualcuno ricorderà che l’istituzione della legge che celebra il “giorno della memoria” è la sola iniziativa che sono riuscito a portare a conclusione in anni di vita parlamentare. Ho scritto e firmato e proposto il brevissimo testo subito dopo essere entrato in Parlamento, nel 1996; ho speso tutti gli anni di una legislatura a cercare l’unanimità per una legge senza carichi finanziari, esclusivamente simbolica; ho dovuto farmi strada fra chi voleva parlare, invece, di gulag, foibe, e coloro che giudicavano la legge inutile. Finalmente, nel 1999, giunto il momento del dibattito e dei discorsi finali, ho potuto dire alla Camera che in ogni seggio di quell’Aula ogni deputato presente (355), nel 1938 aveva votato “sì” senza eccezioni e astensioni quando erano state presentate da Mussolini le leggi razziali.
HO DETTO ai miei colleghi che il nostro voto oggi non poteva cambiare nulla. Ma se avessimo tutti votato “sì”, avremmo almeno lasciato un segno di repulsione per il rito macabro che si era compiuto tra applausi e grida di “viva il Duce” in quella stessa Aula e che aveva fatto dell’Italia uno dei carnefici di migliaia di cittadini ebrei, insieme a milioni di ebrei d’Europa, le vittime, sfregiando per sempre il volto di questo Paese. E così la legge sul “giorno della memoria” è stata votata all’unanimità dalla Camera dei Deputati nel 1999 (solo voto unanime della XIII legislatura) ed è diventato legge della Repubblica il primo luglio 2000, dopo l’approvazione (non unanime) del senato. Poiché il primo “giorno della memoria della Repubblica italiana è stato il 27 gennaio del 2001, in questi giorni si compiono i 10 anni di questa iniziativa. Tenterò, da persona che se ne è assunta la responsabilità, di affrontare le tante perplessità ed obiezioni. Prima vorrei dire le ragioni che hanno reso obbligatorio, per me, scrivere e battermi per quella legge. Il percorso comincia in una classe del liceo D’Azeglio di Torino. I nostri insegnanti erano stati tutti protagonisti della Resistenza, laici, cattolici, comunisti. Edoardo Sanguineti e io, in quella classe, abbiamo organizzato una piccola rivolta quando ci siamo accorti che non veniva mai proposto l’argomento delle leggi razziali fasciste. E abbiamo cominciato a formare un punto di incontro tra ragazzi che volevano sapere e parlare e ragazzi sfuggiti alla deportazione, a volte unici superstiti di una famiglia inghiottita dai campi.
Tanti anni dopo mi sono ricordato di quel gruppo, quando la collega della Columbia University, Susan Zuccotti, che stava per pubblicare il suo libro sullo sterminio degli ebrei in Italia (“The Italians and the Holocaust”, Nebraska University Press, 1988), mi ha chiesto di scrivere la prefazione. In quella prefazione (ripresa nella traduzione italiana) ho potuto dire che molti italiani antifascisti, che hanno lasciato il loro nome nella storia della liberazione dal fascismo e dal nazismo hanno avuto e diffuso la persuasione che la Resistenza avesse cancellato le malefiche pagine delle leggi razziali e della loro spesso feroce esecuzione, creando l’immagine di un’Italia vittima, tutta, di dittatura, occupazione e aguzzini tedeschi, che si riscatta con la liberazione.
Nasce così la cancellazione della responsabilità italiana nella campagna di distruzione del popolo ebraico che ha portato discriminazione, persecuzione e morte in tutta Europa sotto due bandiere, quella tedesca e quella italiana.Resta anzi la legittima domanda, tenuto conto dell’immagine di grande potenza dell’Italia in quegli anni: avrebbe potuto, la Germania, da sola, imporre in tutta Europa la sua politica razziale e omicida? La risposta non è nei tanti italiani, compresi generali e funzionari, che si sono opposti. È nei tanti che, negli uffici, nelle scuole, nelle case, nella vita cittadina, hanno dato una mano per identificare e arrestare e hanno collaborato con la finzione di non vedere e di non sapere. Questa persuasione tragica e vera, la Shoah è un delitto italiano, è all’origine della legge così come è stata scritta. Infatti, nella sua prima versione, il mio testo indicava come “giorno della memoria” quel 16 ottobre del ’43 a Roma: 1017 cittadini romani, dai neonati agli infermi, prelevati nella notte dal Ghetto, cuore della città a meno di mille metri dal Vaticano, quasi tutti sterminati ad Auschwitz. È un delitto atroce, ma anche un delitto perfetto. Gli esecutori sono soldati tedeschi. Strade, indirizzi, nomi, sono a cura della polizia fascista. La città dorme, il Vaticano tace.
Il “giorno della memoria” della legge di cui sto parlando è adesso il 27 gennaio, giorno in cui i soldati russi hanno abbattuto i cancelli di Auschwitz e scoperto per la prima volta l’orrore di un campo di sterminio. Infatti il 27 gennaio è il “giorno della memoria” in molti paesi europei. La data infatti permette di includere, come in un abbraccio della memoria, i perseguitati politici, i militari italiani che non hanno voluto combattere a fianco dei nazisti, gli omosessuali, i rom, anch’essi vittime di persecuzione e sterminio. La domanda più frequente, che viene spesso da persone che non rifiutano la memoria, ma rifiutano il rischio di imposizione, è: “perché una legge?”. E ti raccontano del modo annoiato e automatico con cui certe scuole improvvisano il loro “giorno della memoria”; ti ricordano che tutte le feste statali diventano cerimonie ritualizzate, con molta retorica e nessuna vera partecipazione. Non era meglio lasciare tutto all’iniziativa spontanea? Risponderò che nel Paese meno incline alle celebrazioni per legge, gli Stati Uniti, dove non si sono mai visti carri armati nelle strade per celebrare la loro festa della Repubblica (il famoso 4 luglio) le poche celebrazioni nazionali sono tutte stabilite per legge, (Memorial Day, Labor Day, Indipendence Day e, dal 1968, il Martin Luther King Day).
RISPONDERÒ che, se in Francia ci fosse un giorno della memoria, sarebbe più difficile in quel Paese dedicare, come è stato fatto, il 2011 allo scrittore antisemita Celine. Risponderò che l’antisemitismo è sempre molto vitale e molto attivo. Lo dimostrano eventi quotidiani, come gli attacchi volgari e stupidi al Diario di Anna Frank, come la recente pubblicazione, in un sito americano, di una lista di ebrei da “tenere d’occhio” negli Usa, nel mondo e anche in Italia; lo dimostra la confusione continua tra la politica di un governo israeliano ed gli ebrei del mondo, lo dimostra il fatto che persino la piccola gerarchia più o meno ex fascista che occupa posti nel Comune di Roma dice e diffonde espressioni di odio antiebraico da Repubblica di Salò.
Una legge non è una diga, è solo una piccola bandiera piantata sulla terra di un passato spaventoso. Non consola. Ma incoraggia (come per fortuna accade) studenti e insegnanti di molte scuole italiane ad essere i nuovi testimoni.
Prima e dopo la Shoah: tutte le responsabilità italiane
di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 25.01.2011)
Alcuni storici sostengono oggi la necessità di riscrivere la storia della persecuzione e dello sterminio degli ebrei d’Europa in modo «integrato» , mettendo insieme documenti d’archivio di parte nazista e fascista, che rendano conto dei fatti prodotti dagli esecutori e dai loro apparati militari e civili, e la voce delle vittime, non solo sulla base delle testimonianze postbelliche (deposizioni nei tribunali, interviste, memorie ecc.); ma soprattutto utilizzando diari, lettere, annotazioni scritte durante lo svolgersi degli avvenimenti. Così ha fatto recentemente Saul Friedländer (con il suo Gli anni dello sterminio, Garzanti 2009), restituendo al lettore uno sguardo sulla storia più coinvolto, perché dentro le parole, le paure, i drammi e la vita in generale di chi non poteva prevedere forse nemmeno il domani.
Ed è certo questo un modo di fare la storia che si oppone a coloro che vorrebbero riscrivere la vicenda del nazismo e del fascismo dando voce solo ai persecutori (siano essi semplici soldati SS o ufficiali e alti gerarchi). Così accade che lo spazio aperto per questa storia vista e ricostruita con gli occhi e la voce delle vittime sia ancora molto ampio, per qualità dei racconti e delle ricostruzioni, ma soprattutto per la possibilità offerta al lettore di cogliere appieno il «sentimento» degli accadimenti, nella loro profonda e articolata complessità. Mario Avagliano e Marco Palmieri, con il nuovo libro Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945 (Einaudi, pagine 388, € 15) si collocano in questo solco della ricerca. Non solo: il loro libro estende il «dovere della memoria» a tutto il periodo della persecuzione, dalle leggi razziste del 1938 alla liberazione dei lager e al ritorno dei deportati del 1945.
La caduta nel cosiddetto «cono d’ombra della Shoah» dell’Italia viene riportata alla fase della persecuzione dei diritti (quando nel 1938 gli ebrei italiani persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in patria come italiani), in stretta continuità con quella, seguita all’ 8 settembre del 1943, della persecuzione delle vite. Un continuum storico che accusa il fascismo non solo nella sua espressione rinata sotto la forma della Repubblica sociale italiana. Le lettere, i diari, le annotazioni private, scritti per lasciare una traccia degli avvenimenti (ai famigliari dispersi, agli amici) e del proprio passaggio in terra (per quegli ebrei con destinazione Auschwitz posti di fronte a una deportazione che si preannunciava fin da subito foriera di una grave minaccia alla vita) rendono con forza, evocativa ed emotiva, il trascorrere dei minuti e dei giorni di quei terribili anni. E si coglie sia l’illusione di un possibile cambiamento (per coloro che videro nelle leggi razziste del 1938 un accanimento che sperarono non avesse un seguito concreto e tanto meno drammatico), sia il dramma di una lacerazione con la comunità di una patria che non riconosceva più i suoi figli di «razza ebraica» ; sia la disperazione di chi, pur nella scelta della Resistenza, si percepiva diviso, non più capace di progetti per il futuro, anche quando la morte non spaventava e prevaleva il coraggio della gioia.
I documenti «privati» pubblicati da Avagliano e Palmieri, in gran parte per la prima volta, o recuperando testi per lo più introvabili e dispersi, ci propongono un autoritratto della vita degli ebrei sotto il fascismo a tinte forti.
Suddivisi in capitoli a carattere tematico o cronologico, consentono anche di ripercorrere in modo agevole e puntuale l’intera storia della persecuzione antiebraica in Italia tra il 1938 e il 1945; e rimandano il lettore, direttamente, senza mezze misure alle colpe del fascismo italiano, a partire dalla campagna di propaganda antisemita, fino alla caccia all’uomo, che fece seguito all’istituzione dei campi di internamento fascisti, e alla collaborazione diretta con i nazisti negli arresti e nelle deportazioni. Tra gli altri capitoli, quello riferito agli ebrei nella Resistenza, insieme a quello della partenza verso i lager e al difficile ritorno alla vita, ci sembrano fortemente carichi di suggestioni e di riflessioni con richiami all’attualità. Molto utile l’introduzione storica che traccia, riferendosi a una ampia bibliografia, una sintesi dei maggiori avvenimenti che portarono il fascismo a collaborare allo sterminio nazista.
La Giornata della Memoria contro il negazionismo ancora diffuso
Autore: Colombo, Furio
Claudia Mura intervista il promotore della “giornata della memoria” per il giornale online Tiscali, 26 gennaio 2010
Furio Colombo: "La Giornata della Memoria contro il negazionismo ancora diffuso"
Il 27 gennaio del 1945 venne liberato il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Cinquantacinque anni dopo in Italia si celebrò la prima Giornata della Memoria, per rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto e come monito alle future generazioni. La legge 211, che ha istituito e ufficializzato questo anniversario fu tenacemente voluta dall’allora deputato Furio Colombo per ricordare le vittime della carneficina e gli uomini giusti che vi si opposero.
Al protagonista di quella battaglia civile chiediamo oggi, a 10 anni di distanza, quale peso abbiano queste celebrazioni e quanto siano utili.
“C’è da essere soddisfatti per il solo fatto che, a 10 anni dalla legge, la Giornata della Memoria esista ancora. Un’occasione così fragile, affidata alle mani dei cittadini e delle istituzioni che la possono usare per fare sì che davvero quel ricordo non muoia. C’è da essere contenti che sia ancora così viva una giornata che, per il solo fatto che c’è ancora, è utile.”
Dimenticare è un pericolo. Quali altri rischi intravede da parte di chi non ritiene degne di memoria le vittime dell’Olocausto?
“Il negazionismo è ancora molto diffuso, ma c’è anche la Chiesa cattolica, il cui Papa ha riammesso nel rito ufficiale quella preghiera del venerdì che invoca la ‘conversione’ degli ebrei, ha revocato la scomunica dei lefebvriani e alimentato la polemica sul vescovo negazionista. Posizioni negazioniste sono pubblicamente espresse e tollerate. All’Università di Roma La Sapienza c’è un docente di queste idee che ancora insegna. La tentazione di dire che non è successo niente c’è ancora.”
Cosa ha prodotto l’istituzione di questa giornata?
“Fra le altre cose ha prodotto una pubblicistica più obiettiva. Prima moltissima gente che sapeva della Shoa e che la giudicava criminale, credeva che si trattasse di un male cha ha colpito fuori dall’Italia. L’Italia non è mai stata comunista ma è stata fascista. Mussolini non era solo un alleato dei nazisti e il fascismo è stato l’altro grande promotore delle leggi razziali. La Giornata della Memoria è servita a ricordaci che, in Europa, solo due paesi votarono le leggi razziali: l’Italia e la Germania.
Ci racconti come è nata la Legge 211.
“Il 20 gennaio del 2000 alla Camera feci un discorso nel quale chiesi che la legge istitutiva della Giornata della Memoria fosse approvata all’unanimità perché, dissi, ‘noi sediamo nei banchi di chi quelle leggi ha approvato all’unanimità’. Fu un delitto italiano e per questo serviva una legge italiana.”
C’è una generazione che ancora deve fare i conti con le sue colpe quindi?
“In questi giorni esce un libro, L’alba ci colse come un tradimento, in cui l’autrice, Liliana Picciotto, dimostra che la grande maggioranza degli ebrei deportati e mai più tornati sono stati arrestati e identificati da italiani.”
Ogni celebrazione ufficiale rischia di diventare retorica, come arginare questo rischio?
“Una legge come questa non è per gli ebrei ma per i non ebrei. Loro ricordano, siamo noi che abbiamo bisogno di una norma per farlo. Come si ricordano le proprie glorie, si devono ricordare i propri misfatti. Non si tratta di alzare una bandiera. Non c’è qualcuno che è stato molto buono, ma qualcuno che è stato molto cattivo. E qui c’è un rischio minore di essere retorici.”
Da cosa dobbiamo ancora guardarci?
“Dal silenzio. Il complice fondamentale dello sterminio nazi-fascista è stato il silenzio, anche quello di Pio XII. Il silenzio aiuta questi crimini e non bisogna mai tacere di fronte alle violazione dei diritti. La ‘caccia al negro’ di Rosarno è avvenuta ai giorni nostri e un giorno potrebbe toccare a noi ciò che oggi sembra non riguardarci.”
Sopravvissuti all’Olocausto, reduci russi, politici, studenti
Insieme nel campo divenuto museo, a 65 anni dalla liberazione
Auschwitz, preghiere e ricordi
per celebrare il giorno della Memoria
VARSAVIA - Ci sono gli ex internati del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, i reduci dell’Armata rossa che 65 anni fa liberarono il campo, studenti da tutta Europa, e molte personalità politiche, tra cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Insieme nel luogo che è divenuto il simbolo del ricordo dell’1,1 milione di vittime dell’Olocausto, nel giorno della Memoria che coincide con l’anniversario della liberazione del campo.
Le sirene di Auschwitz risuoneranno di nuovo alle 14,30 per marcare l’inizio delle cerimonie in quello che fu il più grande campo di sterminio installato dai nazisti nella Polonia occupata. I partecipanti alle commemorazioni si raccoglieranno davanti al memoriale di Birkenau per recitare il kaddish (la preghiera ebrea dei morti) e preghiere ecumeniche e per ascoltare i discorsi ufficiali. Tra il 1940 e il 1945, circa 1,1 milioni di uomini, donne e bambini, di cui un milione di ebrei provenienti da tutta Europa, sono morti in questo luogo.
In mattinata, il Congresso ebraico europeo terrà una conferenza a Cracovia, nel sud della Polonia a circa cinquanta chilometri dal campo, a cui il presidente americano Barack Obama inverà un messaggio video. In contemporanea, i ministri europei dell’istruzione rifletteranno sui metodi di insegnamento ai giovani delle lezioni di Auschwitz.
In questa che l’Onu ha dichiarato universalmente Giornata della memoria, verrà anche inaugurata una mostra in Russia sulla liberazione del campo, che è l’unico tra i campi di sterminio nazisti ad essere stato preservato così come fu abbandonato dai nazisti in fuga di fronte all’avanzata dell’Armata rossa. Oggi è divenuto un museo, tornato di recente nelle cronache per il trafugamento dell’insegna di ferro posta all’ingresso ("Il lavoro rende liberi"), poi ritrovata. Altri campi installati in Polonia, come Sobibor, Treblinka o Belzec, vennero completamenti distrutti dai nazisti.
Il museo di Auschwitz, che comprende le circa 300 baracche in cui vivevano reclusi gli internati e le camere a gas in cui vennero sterminati, è stato visitato da 1,3 milioni di persone nel 2009.
* la Repubblica, 27 gennaio 2010
Torino, 1938 "Montalcini sospesa"
di Massimo Novelli (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
È il 18 ottobre del 1938 quando il rettore Azzo Azzi, in base alla legge del 5 settembre di quell’anno, decreta che «la dott. Levi Rita, Assistente volontaria alla Clinica delle malattie nervose e mentali della R. Università di Torino, è sospesa dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI».
Il futuro premio Nobel per la medicina, che di lì a poco sarà costretta a emigrare in Belgio, è una delle vittime nel mondo accademico delle leggi razziali, appena promulgate da Mussolini e da Vittorio Emanuele III. Il documento della sua cacciata dall’insegnamento e dalla ricerca, così come altre carte della vergogna fascista e monarchica, è custodito presso l’Archivio storico dell’Università di Torino. Da domani sarà esposto in Prefettura, nell’ambito di una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia.
Molte altre, però, sono le testimonianze, poco note, della pulizia etnica che i fascisti compirono nelle Università nei confronti del personale di "razza ebraica", nel sostanziale silenzio della maggior parte degli altri docenti. Una seconda esposizione, in questo caso proprio all’Archivio storico dell’ateneo torinese (s’intitola "A difesa della razza" e apre domani), propone leggi, circolari e decreti emanati da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, che chiariscono in che modo il razzismo italiano divenne una materia d’insegnamento, oltre che di lavoro ordinario d’ufficio, da sbrigare senza porsi problemi di sorta. È il caso della nota ministeriale del 20 ottobre ‘40, inviata al rettore di Torino a proposito dell’istituzione di «un nuovo posto di ruolo presso codesta Facoltà di Scienze». Da Roma, Bottai scrive di ritenere «opportuno avvertire che tale posto, come risulta anche dai lavori preparatori della legge, deve intendersi riservato all’insegnamento dell’Antropologia oppure ad altro insegnamento razziale». Due anni prima, l’11 giugno ‘38, sempre il ministro, che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella caduta di Mussolini, rende noto di avere disposto che «nelle sessioni di esami sia osservata netta separazione studenti razza ariana da studenti razza ebraica ed sia data precedenza gruppo studenti ariani negli esami orali».
La burocrazia della persecuzione, che sfocerà nella deportazione nei lager, non si differenzia nella forma da qualsiasi altro atto ministeriale. Anche quando, il 14 ottobre ‘38, nel comunicare i nominativi dei professori torinesi sospesi «si fa riserva d’integrare l’elenco coni i nomi di coloro che, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, eventualmente dovranno essere considerati di razza ebraica e come tali sospesi anch’essi dal servizio». Intanto ne facevano le spese «Cino Vitta, Giuseppe Samuele Ottolenghi, Santorre Zaccaria Debenedetti, Giorgio Falco, Arnaldo Momigliano, Alessandro Terracini, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Gino Fano». E poi «Amos Foà, Luciano Jona, Renato Segre, Marcello Foà, Leonardo Herlitzka, Renzo Olivetti, Sergio Bachi, Raffaele Lattes, Alberto Vita, Vittorio Giulio Segre, Roberto Bolaff, Rita Levi, Walter Momigliano, Mario Nizza, Paolo Ravenna».
27 GENNAIO GIORNO DELLA MEMORIA
Data: 2010-01-26
Autore: Gherush92
Il Giorno della Memoria non può essere solo una ripetitiva rappresentazione delle vittime cui vene richiesto di spiegare il motivo della loro perscuzione.
Il Giorno della Memoria dovrebbe essere soprattutto lo studio e il ricordo dei persecutori e delle loro motivazioni e teorie storiche, fino ad oggi. Per questo Gherush92 intende lanciare una campagna dal titolo "dalla Croce alla Shoah" per la raccolta di documenti e informazioni sulle persecuzioni del razzismo cristiano contro ebrei, rom, popoli indigeni, omosessuali, disabili, donne, dissidenti ed eretici.
Eccovi un esempio.
Angelo Roncalli, nunzio apostolico di Pio XII a Istanbul, il 4 settembre 1943, in piena occupazione nazista, a proposito delle domande che giungevano sempre più pressanti al Vaticano affinché si adoperasse per facilitare l’uscita degli ebrei dal territorio italiano, scriveva al cardinal Maglione, Segretario di Stato, la terribile lettera riportata che rappresentò la condanna a morte per molti ebrei. La storia ci ricorda che la carità della Santa Sede non costituì alcuna speranza per gli ebrei europei e in particolare per quelli del ghetto di Roma che ad un mese dalla lettera di Roncalli furono deportati per finire nei forni crematori nazisti.
Sulla base di questo ed altri documenti dovrà essere valutata la responsabilità diretta e indiretta di Roncalli, nunzio apostolico in Turchia, del Cardinale Maglione, Segretario di Stato del Vaticano, e di papa Pacelli detto Pio XII Pontefice e Capo del Vaticano in attività di crimini contro l’umanità per aver condiviso la responsabilità della deportazione degli ebrei.
Fonte del documento sotto riportato: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324.
324. Le délégué apostolique à Istanbul Roncalli au cardinal Maglione
Rap. Nr. 4344 (A.E.S. 6077/43. orig.)
Instanbul, 4 septembre 1943
Demande d’une démarche en faveur des Juifs Italiens; doutes du Délégué sur l’utilité d’une immigration en Palestine.
Faccio seguito al mio devoto rapporto n. 4332 in data 20 agosto u.s. trasmettendo altre domande che mi vengono sottoposte a favore di israeliti.
La seconda di queste intende ad ottenere l’intervento della Santa Sede perché sia facilitata l’uscita di numerosi ebrei dal territorio italiano: e modifica le altre già fatte nelle mie note precedenti ai numeri 1, 3, 4, 5.
Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando al farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito.
Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico.
Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia.
Da: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324, nel database G92db di Gherush92.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA. UNA TRISTE FARSA - di Gherush92
Malintese memorie
di Valentina Pisanty (il manifesto, 27 gennaio 2010)
Sul «giorno della memoria» circolano alcuni malintesi. Tra essi, l’idea che si tratti di una celebrazione, nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione di una qualche identità collettiva. È questo, del resto, il senso delle altre ricorrenze prescritte dal calendario istituzionale, dalle festività religiose agli anniversari della repubblica, dove l’occasione commemorativa svolge una funzione eminentemente epidittica (la comunità celebrante si stringe attorno alla messa in discorso di valori condivisi, o presentati come tali), e l’evento ricordato è edificante, se non addirittura gioioso. Attributi evidentemente incompatibili con la storia delle persecuzioni razziali e della Shoah, ma talora la forma del rito ne condiziona i contenuti, ed ecco che ci si accinge ad adempiere gli obblighi della memoria con il vago disagio di chi non sa bene cosa sta commemorando e perché.
L’equivoco si insinua sin dalla scelta della data del 27 gennaio. Tra i tanti possibili eventi luttuosi e ignominiosi che hanno costellato la storia del razzismo nazifascista, la legge n. 211 del 20 luglio 2000 eleva l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz a simbolo dell’intera esperienza concentrazionaria. La liberazione del campo, la raccolta delle macerie, la conta dei morti, la promessa solenne che «mai più»: non proprio un happy ending, ma quantomeno la fine di un incubo (la cui durata a dire il vero si protrae oltre l’ingresso dell’armata rossa nel lager polacco).
Tuttavia, se si guarda alla Shoah dallo sbocco del tunnel, la tentazione è di girarsi dall’altra parte e di correre verso la luce ovvero, per uscire dalla metafora, di celebrarne la fine anziché ricordarne gli inizi. Si rischia così di dirottare l’attenzione dalla Shoah intesa come evento storico - esito documentabile di un intreccio complesso di pulsioni xenofobe sbrigliate, di orgogli nazionalistici, di opportunismi politici, di responsabilità individuali e collettive - alla Shoah intesa come mito fondativo, dispositivo creatore di sensi ulteriori a seconda degli usi che di volta in volta se ne fanno.
Da qui, alcune possibili derive banalizzanti e sacralizzanti: spettacolarizzazioni della memoria, solidarietà intempestive e discorsi ufficiali proferiti dai più improbabili portavoce dell’antifascismo, letture provvidenzialistiche del genocidio, e via dicendo. Da qui anche il fastidio che taluni provano nei confronti del «giorno della memoria», erroneamente interpretato come l’ennesimo pretesto mediatico per intavolare dibattiti sugli ebrei e sulla loro problematica identità.
Il ruolo che ebbe la propaganda
In effetti il senso della legge è o dovrebbe essere tutt’altro. Lungi dal celebrare alcunché, si tratta di prescrivere agli europei in generale, e agli italiani in particolare, il compito di studiare ciò che in passato si era preferito non guardare, «in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa». L’obiettivo non è solo di onorare le vittime, di ricordare i giusti o di riconoscere le colpe dei carnefici (non ci vuole molto sforzo), ma di cercare di capire come la Shoah sia avvenuta «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Date queste premesse, mi chiedo se non sarebbe stato più incisivo indicare, come momento di riflessione collettiva, l’origine del fenomeno che ha portato alla catastrofe, ovvero l’emanazione delle leggi razziali che nell’autunno del 1938 allontanarono con accanimento crescente (e nell’indifferenza generale) gli ebrei dalla vita pubblica.
Se poi si considera che il «giorno della memoria» si rivolge principalmente agli studenti, sarebbe stato forse coerente scegliere, come evento da ricordare, la promulgazione del decreto legge 1779 del 15 novembre che integrava in un testo organico i provvedimenti per escludere gli ebrei dalle scuole e dalle università. Non sarà l’inizio della storia del razzismo in Italia, visto che forze xenofobe e antisemite operavano indisturbate già da tempo, ma è lì che il piano si inclina irrimediabilmente. Quando il regime comincia a legiferare contro una parte dei suoi cittadini, privandoli dei diritti fondamentali e rendendoli inermi di fronte a ogni genere di sopruso, è a quel punto che gli astri del razzismo, per così dire, si allineano.
Si sa che la propaganda giocò un ruolo importante nelle politiche razziste, rafforzando stereotipi,
rispolverando antichi pregiudizi, confezionando pseudo-argomenti per dimostrare come le leggi
razziali fossero conformi alle Leggi della Natura. Certo, è difficile capacitarsi che ci fosse qualcuno,
all’epoca, disposto a prestare seria attenzione a simili assurdità, data la rozzezza argomentativa di
gran parte di questo materiale. Basta sfogliare le pagine di un fascicolo qualsiasi della Difesa della
razza, con la sua galleria di mostri (corpi deformi, scimmioni e cannibali africani, anti-uomini
bolscevichi, avvoltoi giudei col becco grondante sangue...) la cui funzione retorica era di far
risaltare per contrasto le virtù estetiche e morali della presunta stirpe ario-romana, per sperimentare
(si spera) un misto di incredulità e di indignazione che di primo acchito può tradursi in una risata
distanziante o in un moto di disgusto, ma che lascia uno strascico di interrogativi su cui forse vale la
pena soffermarsi.
Com’è possibile che queste cose siano state dette e fatte? Come mai non sono state respinte lì per lì
tra gli sghignazzi generali? Con quali atteggiamenti venivano recepite, quali dissonanze
producevano nelle menti meno sprovvedute e, di converso, quali effetti esercitavano sugli allievi di
«tutte le scuole del Regno» a cui una circolare di Giuseppe Bottai prescriveva l’acquisto e la lettura
della rivista di Interlandi, Almirante & co?
Può darsi che, in tempi di regime, la propaganda venisse prodotta e ricevuta con una buona dose di cinismo e di scetticismo e che - a parte quei pochi fanatici che veramente credevano nella necessità impellente di ripulire la «pura razza italiana» dalle scorie dell’ebraismo e di altre razze e sottorazze contaminanti - per il resto degli italiani «La difesa della razza» e altre pubblicazioni dello stesso tenore giocassero un ruolo ideologico marginale. Resta il fatto che, attraverso la ripetizione martellante di stereotipi razzisti disseminati nei discorsi politici, nei giornali e nelle riviste, nella letteratura di consumo, nei racconti per l’infanzia, giù giù sino alle canzoni e alle cartoline coloniali, la cultura di regime fornì, se non altro, un pretesto a coloro che, tra il 1938 e il 1943, scelsero di non vedere, o di non preoccuparsi di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi. Se il «giorno della memoria» ha a che vedere con una qualche identità collettiva, è l’identità dei razzisti, dei furbi, dei pavidi e dei menefreghisti, cioè la nostra (o una della nostre).
Detto questo, chiediamoci quale funzione abbia da assolvere una giornata di studio specificamente dedicata alla Shoah in Italia. A ricordare gli eventi, innanzitutto, visto che sino alla metà degli anni Novanta si è parlato poco e malvolentieri dell’aspetto più scomodo della storia del fascismo (risale al 1994 la prima mostra italiana dedicata al razzismo fascista). Oltre alla funzione storica, però, il senso della ricorrenza è - o dovrebbe essere - di mantenere vivi gli anticorpi, tenuto conto che il razzismo non è solo un fantasma del passato, come dimostrano in modo esemplare i recenti fatti di Rosarno, e perciò andrebbe combattuto giorno per giorno con strumenti critici adeguati.
Come arginare l’intolleranza
Su questo punto, però, è legittimo un margine di perplessità. Per sconfiggere il razzismo una volta per sempre è davvero sufficiente smontare gli stereotipi (alcuni dei quali si aggirano tra noi pressoché immutati dai tempi dei difensori della razza: si pensi agli stereotipi del negro e dello zingaro per esempio)? Certo che no, e sarebbe pia illusione culturalista pensare il contrario. Si analizzino pure i discorsi razzisti, se ne evidenzino i paralogismi, si smascherino tutte le distorsioni e le menzogne della razza: tutt’al più si convincerà chi è già persuaso, e tra compagni antirazzisti ci si scambierà delle gran pacche sulle spalle. Casomai con l’aiuto degli strumenti analitici si potrà controbattere alle dottrine dei nuovi razzisti (i negazionisti, i differenzialisti, gli odierni teorizzatori di un occidente tenuto sotto scacco non si capisce bene da chi), decostruendone gli sragionamenti, ma non si scalfirà minimamente il substrato pulsionale su cui simili teorie attecchiscono, un’intolleranza selvaggia tanto più pericolosa quanto meno può essere tenuta a freno con argomenti razionali.
L’intolleranza c’è. Sarebbe compito della politica contenerla, affrontando gli squilibri sociali,
economici e culturali che la alimentano. Nell’attesa, ai ragazzi a cui il «giorno della memoria» si
rivolge va spiegato (possibilmente anche gli altri giorni dell’anno) come il razzismo sia fondato su
meccanismi psichici elementari, come attinga a materiali sedimentati nella cultura, come nonostante
tutto gli stereotipi non muoiano mai, come tramite essi un atto di aggressione possa mascherarsi da
misura difensiva, come le legittime frustrazioni di una comunità possano essere artatamente deviate
sul capro espiatorio di turno, come lo sfruttamento dei più deboli si giovi di simili manipolazioni, e
come la situazione precipiti nel momento in cui chi sta al potere decide di avvalersi di questi
dispositivi arcinoti per rafforzare il proprio consenso.
La Rai nel "Giorno della Memoria"
"Si poteva dire no" i cinquanta fascisti che salvarono gli ebrei
Col documentario presentato anche il film di Negrin "Mi ricordo di Anna Frank"
di Silvia Fumarola (la Repubblica, 22.01.2010)
L’abisso della crudeltà e il coraggio di chi non voltò la testa: la Rai celebra la Giornata della Memoria, mercoledì su RaiUno, con il film di Alberto Negrin Mi ricordo di Anna Frank e il documentario 50 Italiani di Flaminia Lubin, sulle storie di diplomatici, militari e gerarchi che salvarono migliaia di ebrei dai campi di concentramento. «Il ruolo della tv è essenziale per la Giornata della Memoria. Un grande impegno che pone problemi: come si può mantenere viva la memoria facendo in modo che l’inondazione di immagini, messaggi e parole non si riduca a una banalizzazione?», si chiede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ospite alle anteprime alla Settimana della Fiction Rai a New York, con il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici e il presidente della Rai, Paolo Garimberti.
«Eichmann, che è un genio del male - spiega Di Segni - sa che quando il numero delle vittime supera le centinaia diventa statistica e perde l’aspetto umano. Per questo il caso di Anna Frank è stato importante perché l’enormità del male è visto attraverso la storia di una singola persona, un’unica vittima simbolica». Nel film di Alberto Negrin prodotto da Fulvio Lucisano, interpretato dalla tredicenne Rosabell Laurenti Sellers, con Emilio Solfrizzi nel ruolo di Otto Frank, il padre di Anna, e Moni Ovadia in quello del Rabbino, spicca la figura Miep Gies (Bakonyi Csilla), la donna che nascose la famiglia Frank e salvò il diario di Anna, morta la scorsa settimana a 100 anni.
La storia è ispirata al libro di Alison Leslie Gold basato sulla commovente testimonianza di Hanneli Goslar, la grande amica di Anna. «Rappresentare lo sterminio è impossibile - spiega Negrin - si possono restituire solo i sentimenti. Nella storia di Anna contano le domande. Quelle dei bambini: "Perché tanta cattiveria?", e l’interrogativo del rabbino al comandante del campo: "Dov’è finita la tua coscienza?"».
Il documentario 50 Italiani prodotto da Francesco Pamphili racconta invece come esponenti di spicco del regime fascista, militari e diplomatici (fra cui il console Guelfo Zamboni, il commissario Guido Lo Spinoso e il sottosegretario al ministero degli Esteri, Giuseppe Bastianini), salvarono oltre 50 mila ebrei nei Balcani e a Salonicco, sottraendoli alle deportazioni con ogni mezzo, producendo documenti falsi come il "permesso di cittadinanza provvisorio". «50 Italiani fa capire che si poteva disobbedire agli ordini - osserva il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici - Far vedere uomini che hanno agito secondo coscienza smentisce quella che è stata la litania al processo di Norimberga: "Dovevamo eseguire gli ordini"».
di Paola Zanca (il Fatto, 16.01.2010)
Nel 2002, da leader di Alleanza nazionale e vicepremier, aveva lasciato a bocca aperta deputati e senatori presentandosi alla celebrazione del Giorno della Memoria. L’Olocausto? Disse: “Una mostruosità”.
Ora da presidente della Camera, Gianfranco Fini chiama per la prima volta a parlare nell’aula di Montecitorio una persona che con la politica e il potere non ha niente a che fare. Non è uno acaso. È Elie Wiesel, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz ancora in vita, premio Nobel per la Pace, che da cinquant’anni, con le armi dei libri, combatte la sua battaglia contro “i nemici della memoria”. Finora, alla Camera avevano parlato solo capi di Stato, rappresentanti di istituzioni: Papa Wojtyla, il re di Spagna Juan Carlos. Fini ha alzato il telefono, chiamato New York e proposto a Wiesel, che dagli anni Sessanta vive in America, di venire in Italia a ricordare quell’orrore.
Il Giorno della Memoria si celebra da dieci anni: per ricordare lo sterminio e le persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti si sono organizzate mostre, visite istituzionali, concerti, proiezioni, iniziative nelle scuole. A proporre la sua istituzione, nel gennaio del 2000, fu il deputato Furio Colombo. La data scelta fu il 27 gennaio, la stessa in cui nel 1945 vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz. “Si era molto discusso, a destra, se non fosse il caso di parlare anche di foibe e di gulag - ricorda Colombo - Io allora spiegai al Parlamento che foibe e gulag sono orrendi delitti, ma la Shoah è un delitto italiano: senza la partecipazione italiana, il progetto tedesco non avrebbe mai potuto diventare europeo. È vero che ci furono generali e comandanti, come Giorgio Perlasca, che salvarono anziché condannare, ma ricordo anche che le leggi razziali furono approvate all’unanimità. Per questo - prosegue il deputato Pd - nel 2000 chiesi all’aula di comportarsi allo stesso modo nel voto sulla legge che istituiva il Giorno della Memoria. Devo dire che la mia implorazione fu accolta.
L’invito a Wiesel è il coronamento di questo percorso: la Giornata diventa così importante non solo per il paese, per i giovani, per le scuole, ma anche per il Parlamento che ascolterà la testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti ancora viventi”. Wiesel, nato in Romania nel 1928, fu deportato assieme alla famiglia, perché ebreo. Ad Auschwitz condivise la prigionia con Primo Levi, poi finì a Buchenwald dove gli americani lo trovarono, stipato in mezzo ad altri mille ragazzini, quando entrarono nel campo. Un mese fa, dopo il furto dell’insegna di Auschwitz, scriveva: “In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria”. Il pomeriggio del 27 lo ricorderà ai nostri parlamentari. Anche a chi ogni tanto ha la memoria corta.
intervista a Elie Wiesel
Il Nobel per la Pace, che ha curato la postfazione al libro "Io sono l’ultimo ebreo", parla oggi in Parlamento
IL GIORNO DELLA MEMORIA
Wiesel: "L’eterna battaglia contro i negazionisti"
"Noi sopravvissuti all’Olocausto e l’orrore di chi cancella la storia"
"L’antisemitismo è uno dei pregiudizi più antichi Ed è ancora molto presente"
"Auschwitz fa parte di un’altra Creazione, fatta solo di chi uccide e chi muore"
"È importante che il mondo civile non dimentichi, per capire il perché del male assoluto"
"Le leadership politiche hanno doveri morali. Oggi più che mai serve una visione etica"
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 27.01.2010)
«Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire». Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l’Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi?
«Rivedo ancora oggi ogni episodio. L’arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come "Untermenschen", come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com’era possibile sopravvivere a questo sentimento?
«Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un’altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di "to kill and to die", di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco?
«Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all’Est. Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari. Non ce lo aspettavamo. I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti per l’Olocausto. Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi?
«Io non credo nella colpa collettiva. Solo i colpevoli sono colpevoli. Sono testimone, non giudice. Certo, purtroppo la Resistenza, l’opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari. Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste. E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all’esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria?
«Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano. E’ una giornata importante per tutto il mondo civile. Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l’orrore assoluto accadde. E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l’oblìo significa tradimento. Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime. E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E’ anche il pericolo posto dal negazionismo?
«Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni. E’ il negazionista numero uno: nega in pubblico l’Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele. Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l’umanità e all’odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga?
«Esiste già il Tribunale internazionale dell’Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l’Olocausto?
«In Europa la situazione è migliorata. Gli Stati Uniti sono all’avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele. In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema. Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita. Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita. Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l’Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di "voltare pagina"?
«Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l’Olocausto sono più numerosi che mai. In America, e non solo, non c’è una scuola in cui la Shoah non sia materia d’insegnamento. Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv. Sono ottimista sulla capacità di ricordare. Ma c’è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L’antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa. Quanto è grave la minaccia?
«Sono trend pericolosi. Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d’indifferenza. Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945. Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell’antisemitismo. E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune. Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei. Poi c’è un violento, ingiusto odio verso Israele. Il bisogno di un capro espiatorio non è morto. E tocca sempre agli ebrei. Intanto, per esempio, dell’eccezionale efficienza dell’aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell’antisemitismo e dell’oblìo o no?
«Lo spero. In alcuni paesi l’Ungheria, l’Ucraina, ma anche paesi dell’Europa occidentale vediamo trend pericolosi. Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti. Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali. Non possiamo separare la politica dalla morale. Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L’antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo?
«L’antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia. Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano. Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson. Quanto sono pericolosi?
«Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica. Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione. Parliamo di un negazionista dell’Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».
Ma così si riaprono antiche ferite
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2009)
La contemporaneità delle due notizie è da ritenersi casuale, ma colpisce ugualmente. In Polonia, alcuni criminali rubano da Auschwitz la scritta-simbolo della Soluzione finale, «Arbeit macht frei». In Vaticano, Papa Ratzinger firma il decreto che avvia Pio XII sulla strada della beatificazione. Un increscioso affronto simbolico alla memoria della Shoah coincide con un clamoroso riconoscimento canonico delle "virtù eroiche" di chi era pontefice durante lo sterminio degli ebrei
Nei giorni scorsi, le due notizie hanno provocato reazioni differenti. Il furto compiuto in Polonia ha suscitato l’unanime riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, che ha tirato un grande sospiro di sollievo quando si è saputo che l’insegna era stata ritrovata. Il decreto firmato in Vaticano ha invece diviso. Da una parte gli apologeti di Pio XII, fieri che Ratzinger abbia rotto gli indugi e fiduciosi di vedere Pacelli elevato presto agli altari. Dall’altra parte i critici di Pio XII, inquieti che la decisione vaticana offenda le comunità ebraiche e penalizzi il dialogo interreligioso. In realtà, la doppia notizia di questi giorni andrebbe sottratta sia al tempo troppo rapido delle news, sia al riflesso quasi pavloviano delle contrapposte appartenenze. Andrebbe consegnata a un’analisi più distesa, a una riflessione più storica. Si scoprirebbe forse, a quel punto, che non tutto il male viene per nuocere.
Lo sciagurato furto di Auschwitz ha offerto una testimonianza straordinaria di come la Polonia stia cambiando. Nelle quarantotto ore intercorse fra il trafugamento dell’insegna e il suo ritrovamento, il paese natale di papa Wojtyla - amico vero degli ebrei - è stato colpito da un trauma collettivo. Di là dalla mobilitazione poliziesca per identificare e arrestare i responsabili del furto (a quanto sembra, non immediatamente legati a circoli neonazisti), la Polonia si è dimostrata compatta nel vivere l’episodio criminale come un terribile memento dei suoi trascorsi di nazione antisemita
Pochi anni fa, la pubblicazione di un libro di storia che sottolineava il volenteroso contributo dei polacchi alla Soluzione finale del problema ebraico (Jan T. Gross, I carnefici della porta accanto, Mondadori 2002) aveva suscitato reazioni piccate e scomposte nella Polonia dei fratelli Kaczynski e di Radio Maryia. Oggi, l’antisemitismo che tuttora alligna in alcuni settori della società polacca ha dovuto inchinarsi alle passioni e alle ragioni di una nazione altrimenti matura e civile. Quanto alla prospettiva di un’elevazione agli altari di Papa Pacelli, non c’è dubbio che si tratti di una faccenda carica d’implicazioni gravi. Lo attestano i segnali di protesta che si vanno levando - oltreché dalle comunità ebraiche - dagli ambienti cattolici più impegnati sul fronte dell’ecumenismo. La decisione di Joseph Ratzinger minaccia di riaprire ferite che ci si poteva augurare rimarginate per sempre grazie all’impegno di Karol Wojtyla.
Eppure, anche nel caso del decreto vaticano su Pio XII non tutto il male viene per nuocere. Perché qualunque cosa la Chiesa cattolica voglia decidere riguardo alla beatificazione di un papa, la collettività intera ha ancora bisogno di studiare, di ragionare, di sapere intorno alla questione del rapporto fra carnefici, vittime e spettatori della Shoah.
La storia guadagna poco da un approccio di tipo giudiziario, da una dialettica secca colpevole/innocente. E tanto meno guadagna la storia della Shoah, che tra il bianco e il nero conobbe infinite gradazioni di grigio. Pio XII non va trasformato nell’unico responsabile di quella che fu l’indifferenza diplomatica - o, peggio, il calcolo politico -anche delle maggiori potenze impegnate nella guerra contro il nazismo. Dal 1941 al ’45, il silenzio di Churchill e di Roosevelt (per tacere di Stalin) fu altrettanto assordante del silenzio di Papa Pacelli
Ciò detto, il Vaticano potrebbe ben guardare alla vicenda di cattolici i quali, durante la Soluzione finale, mostrarono di possedere "virtù eroiche" assai più sviluppate che quelle di Pio XII. Uno per tutti: Jan Karski, eccezionale figura di messaggero della Resistenza polacca presso i governi alleati. In un giorno d’agosto del 1942, questo giovane uomo vide lo spettacolo inenarrabile del ghetto di Varsavia, e da allora ebbe una sola idea fissa: far sapere al mondo che gli ebrei venivano sterminati. Le torture dei nazisti non lo fermarono. Fra il ’43 e i1 ’44 Karski fu a Londra, fu a Washington, bussò a tutte le porte di tutti i potenti della coalizione antihitleriana. Non fu creduto, ma non smise di battersi per salvare - se non la vita degli ebrei - almeno la coscienza del mondo. Lui sì che andrebbe fatto santo, santo subito. Sergio Luzzatto insegna storia moderna all’Università degli studi di Torino
Il papa dei troppi silenzi
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2009)
Santo no. Anche se appare un leader importante della Chiesa del Novecento. Pio XII, che papa Ratzinger sta portando sugli altari, resta una figura controversa. Difficile presentarlo come simbolo e modello da seguire. È bastato che Benedetto XVI firmasse il decreto sulle “virtù eroiche” di Eugenio Pacelli (ultimo passo, oltre al riconoscimento di un miracolo, prima della beatificazione ufficiale) perché esplodesse nuovamente la crisi fra Ratzinger e il mondo ebraico. Il Papa dovrebbe recarsi in visita alla Sinagoga il 17 gennaio, ma ora tutto è in forse. Già l’anno scorso, proprio a causa dell’esaltazione di Pio XII fatta da Ratzinger, l’assemblea rabbinica italiana aveva cancellato la tradizionale giornata d’incontro cattolico-ebraica.
Faticosamente si era riallacciato il dialogo e adesso arriva la nuova gelata. Dietro le quinte sono in corso negoziati molto tesi perché il Vaticano garantisca che la beatificazione di Pacelli non abbia luogo almeno nel 2010 assieme a quella di Karol Wojtyla.
Continua a pesare su Pio XII l’atteggiamento di diplomatica prudenza di fronte all’Olocausto, quel “silenzio” che gli fu rimproverato dal drammaturgo Rolf Hochhuth nell’opera teatrale “Il Vicario”, che nel 1963 si conquistò risonanza mondiale. Ancora oggi i maggiori rappresentanti dell’ebraismo gli rimproverano di non avere detto una parola quando i nazisti rastrellarono a Roma, quasi sotto le finestre del Palazzo apostolico, e oltre mille ebrei che vennero deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943.
Negli ultimi vent’anni l’immagine di papa Pacelli è rimasta schiacciata sulle vicende della Shoah, paradossalmente dopo che nell’immediato dopoguerra esponenti ebraici di primo piano come il premier israeliano Golda Meir lo avevano elogiato come difensore delle vittime dell’Olocausto. In effetti immaginare Pio XII tollerante verso il nazismo o peggio suo complice - secondo la tesi adombrata nel titolo del libro “Hitler’s Pope - Il Papa di Hitler” dello scrittore britannico John Cornwell - è una falsità. Pacelli aveva orrore di Hitler e dell’ideologia neopagana e razzista del nazismo. Negli archivi sono state trovate anche tracce di un suo cauto, ma convinto appoggio ai tentativi di circoli dell’establishment tedesco di eliminare il Führer. Né si può dimenticare l’impulso da lui dato a istituzioni e conventi cattolici per salvare in ogni modo un numero grandissimo di ebrei.
E tuttavia, nella stagione cruciale del duello mortale ingaggiato tra il nazifascismo e lo schieramento antifascista, divenuto poi in guerra il fronte degli alleati, Eugenio Pacelli è rimasto vittima di una concezione tutta politica e diplomatica della sua missione. Era preoccupato di salvaguardare per la Santa Sede una posizione al di sopra delle parti nel conflitto mondiale, preoccupato di garantire i diritti della Chiesa cattolica tedesca attraverso il Concordato offertogli da Hitler, preoccupato di mantenere per la Germania una funzione di baluardo nei confronti del bolscevismo, convinto di scegliere il male minore non chiamando per nome la bestiale persecuzione degli ebrei nell’intento di salvarli dietro le quinte.
Così Pio XII non ha saputo essere all’altezza del momento storico. Quanto più negli ultimi cinquant’anni è cresciuta la consapevolezza internazionale del carattere radicalmente disumano della Shoah tanto più appare chiaro che Pio XII ha mancato nel ruolo profetico che dovrebbe svolgere un “vicario di Cristo”. Ci sono tappe precise che testimoniano dei fallimenti di papa Pacelli, non riscattati dalla sincerità delle sue intime angosce. Come segretario di Stato vaticano Pacelli preme nel 1933 sul partito cattolico tedesco Zentrum affinché voti i pieni poteri a Hitler, prologo della dittatura organica. A Pacelli interessava ottenere il concordato con il Terzo Reich. Eppure i cattolici del Zentrum e i socialdemocratici avevano voti abbastanza per impedire l’approvazione della legge, ma Pacelli, diffidente della democrazia e avverso ai socialdemocratici, volle altrimenti. Subito dopo la conferenza episcopale tedesca fu costretta ad abrogare i suoi precedenti pronunciamenti antinazisti. E quando si verificò il gigantesco pogrom antiebraico della Notte dei Cristalli, la Chiesa stette in silenzio.
Appena eletto pontefice Pacelli mise nel cassetto il progetto di un’enciclica contro l’antisemitismo, progettata dal suo predecessore Pio XI. Non condannò decisamente la violazione della neutralità di Belgio e Olanda da parte delle truppe tedesche. Suscitò amarezza nei cattolici polacchi, che non si sentirono abbastanza difesi. Non denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, pur mandando messaggi chiari di simpatia e solidarietà al popolo ebraico usando un linguaggio allusivo. È in questo quadro che si situa il tragico silenzio sul rastrellamento dei 1021 ebrei romani nel 1943. Silenzio osservato, nella sua ottica, per aiutare le vittime.
Papa Wojtyla, nel suo viaggio in Germania nel 1996, elogiò i vescovi olandesi che avevano protestato pubblicamente contro le persecuzioni antisemite. La reazione nazista fu spietata, ma la citazione di Giovanni Paolo II rivelò eloquentemente che il pontefice polacco riteneva che dinanzi all’“Anticristo” non bisognasse fermarsi a fare di conto tra profitti e perdite.
Pio XII stesso sapeva che il suo silenzio sarebbe stato giudicato. Lo documenta l’interessante biografia di Andrea Tornielli (Mondadori). Tormentato, ne parlò già nell’ottobre del 1941 con l’allora nunzio Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII. E appelli a levare profeticamente la sua voce gli vennero da personalità cattoliche francesi come Mounier e Mauriac, da Edith Stein, dal gesuita tedesco Friedrich Muckermann che già negli anni ‘30 si chiedeva perché la Chiesa si fermasse alla “tattica” e non denunciasse il nazismo con la stessa forza con cui combatteva il bolscevismo.
E così i silenzi di Pacelli hanno finito per oscurare anche il suo ruolo rilevante all’interno della Chiesa dopo la guerra. A studiarlo attentamente, il suo pontificato mostra importanti aperture nell’incoraggiare gli studi di esegesi biblica. È lui a dare un primo placet alle teorie evoluzioniste di Darwin come “ipotesi” accettabili. È lui ad autorizzare nei paesi del nord le messe nelle lingue nazionali. Lui a occuparsi per primo della regolamentazione delle nascite attraverso l’osservanza dei periodi fecondi e infecondi della donna. Lui, persino, a progettare un Concilio che mai si terrà. Poi c’è il capitolo della politica italiana, ma questa - come direbbe Kipling - è un’altra storia.
Nazisti d’Europa
Dopo lo sfregio di Auschwitz viaggio tra le formazioni dell’estrema destra
Ecco chi sono i nuovi fanatici
E dove vogliono arrivare
Sono giovani, si collegano attraverso Internet e definiscono la Shoah un bluff
Partiti e partitini, poi skinhead, ultrà, picchiatori di strada. Si stima siano oltre 250 mila
Chi sono i ladri profanatori di Auschwitz? Perché hanno colpito? Una galassia di gruppi xenofobi e neonazisti cresce dalla Spagna alla Polonia, fino alla Russia. Si tratta di movimenti frammentati che cavalcano nazionalismo e localismo. Ecco una fotografia delle formazioni razziste che guardano al Terzo Reich
di Paolo Berizzi (la Repubblica, 21.12.2009)
Chi sono e da dove muovono i ladri profanatori di Auschwitz? Perché hanno colpito? «È una dichiarazione di guerra», dice secco Avner Shalev, direttore del museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per capire le sue parole bisogna guardare la fotografia della "scena" nazionalista, neonazista e antisemita che sta montando in Europa. Un vento che soffia con forza dall’Est: dalla Polonia all’Ungheria fino all’ex Unione sovietica. Una galassia complessa e frammentata. Che si ispira direttamente al Terzo Reich (anche nei simboli: svastiche, croci runiche e diagonali, sigle e anagrammi e caratteri pangermanici). Che cavalca nazionalismo e localismo per approdare a derive antisemite.
In nome della battaglia anti-mondialista. Da lì a definire la Shoah e i forni crematori un "bluff" ebraico, il passo è breve. Il network neonazista estende i suoi confini dal cuore della Germania alla Francia, dalla Spagna "falangista" ai paesi scandinavi, dall’Inghilterra ai nuovi laboratori dell’Est, Polonia, Ungheria, Romania, dalla Grecia a Cipro passando dall’Italia e risalendo fino alla Russia. «Si sta diffondendo un nuovo-vecchio odio verso gli ebrei, che è poi di fatto una continuazione - ragiona Cono Tarfusser, già procuratore capo di Bolzano, oggi giudice della Corte criminale internazionale dell’Aia - . È un sentimento viscerale e al tempo stesso vuoto, messo in giro dalle formazioni nazionaliste a forte impronta xenofoba. La novità non è tanto che l’ostilità non va più solo contro gli immigrati, gli omosessuali, le minoranze etniche e religiose ma anche contro gli ebrei - quelli di oggi e quelli di ieri. La novità - spiega - è che la società, con la sua assenza di cultura, non riesce più a mettere degli argini naturali in grado di isolare questa gente, di sottrargli spazio, terreno di coltura».
Tarfusser a Bolzano ha creato un pool di magistrati anti-naziskin, la nuova "Gioventù hitleriana" che si muove in Alto Adige. «Preoccupa, oltre al qualunquismo rabbioso di queste bande, la precoce età dei militanti, che agiscono perché trovano spazi politicamente fertili. Disagio sociale, crisi economica, globalizzazione degli Stati e immigrazione: tutti elementi che i partiti e le organizzazioni paranaziste sfruttano per fare proseliti. Oggi, e dalla fine del comunismo, questo fenomeno ha dimensioni importanti soprattutto nell’Est». Partiti e partitini, e poi skinhead, hammersin, bonhead, ultrà, picchiatori di strada. Si stima siano oltre 250 mila i militanti neonazisti in Europa. Altri 50 mila nella sola Russia. La rete di collegamento è Internet. E guai a chiamarsi nazisti.
In Polonia spopola la Lega delle famiglie polacche, l’alleanza dei partiti nazionalisti che ha eletto presidente della Repubblica Lech Kaczynski. Determinante per la vittoria al ballottaggio del 2007 è stato l’aiuto di Radio Maryja, un’emittente clericale, anti-comunista ma soprattutto anti-semita (più volte condannata dallo stesso Vaticano) che si rivolge a due milioni di elettori. La Polonia confina a ovest con la Germania e a sud con Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Npd (partito nazional democratico tedesco, fondato 45 anni fa da ex appartenenti al partito socialista del Reich tedesco) di Ugo Voight continua a piazzare suoi rappresentanti nei lander. Nonostante la maggior parte della popolazione lo definisca un partito filo-nazista, razzista e anti-semita.
Ancora Europa centrale. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia: tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo, oggi nella Ue. A Bratislava l’estremismo antisemita è stato sdoganato al governo dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico. «La fine del comunismo ha fatto saltare il tappo che comprimeva l’estrema destra, allora era marginale ma oggi cresce più che da ogni altra parte», spiega Giuseppe Scaliati, autore del saggio La destra radicale in Europa (Bonanno editore). A Budapest i 7 mila adepti della Guardia Ungherese sfilano in centro in uniforme nera, sventolando i gagliardetti delle "Croci frecciate" alleate di Hitler. Evocano l’Olocausto, sognano una "soluzione finale alla questione zingara", affrontano la polizia in violenti scontri nelle strade di Praga. Zingari e rom sono finiti anche nel mirino dei romeni di Noua Dreapta (Nd), gli estremisti che si rifanno alla Guardia di Ferro dell’anti-semita Corneliu Zelea Codreanu (attiva negli anni ‘30). Giovani, camicie nere o verdi, si considerano la più importante organizzazione neo-legionaria della Romania. «Vogliamo risvegliare le coscienze avvertendo dei pericoli che minacciano il popolo romeno», tuona il leader 30enne, Tudor Ionescu. L’opera di proselitismo si è allargata agli immigrati che vivono in Italia (Padova, Roma). Come quella dei partiti oltranzisti cresciuti nell’ex Jugoslavia. In Serbia e Croazia il "nostalgismo" per i vecchi leader nazional socialisti fautori della pulizia etnica si mischia all’insofferenza verso le lobby ebraiche. «Sono le zone balcaniche il laboratorio privilegiato dei nuovi nazisti - ragiona Saverio Ferrari, Osservatorio democratico sulle nuove destre - una cinghia di raccordo tra i movimenti dell’Europa occidentale e quelli dell’Est. I neofascisti italiani hanno rapporti intensi con le organizzazioni di questi paesi».
La Russia. Sarebbero oltre 50mila, secondo fonti di polizia, i militanti neonazisti attivi nell’ex impero sovietico. Solamente San Pietroburgo conta 20 mila skinhead. Autori di aggressioni contro cittadini stranieri, al grido di "la Russa ai russi". "Unità nazionale russa", "Gruppo socialismo nazionalista-potere bianco": sono le due sigle più importanti. Accanto ai picchiatori di Combat 18, quelli dei video coi pestaggi e le parate naziste su Youtube. Nel 2007 ne girò uno drammatico: neonazisti che decapitano un prigioniero caucasico ("negro", poiché originario del Caucaso). La firma: i nazionalsocialisti di "Rus" (termine usato dai neonazi per definire la madre patria). Altri partiti di riferimento sono il Partito nazionale del popolo (15mila militanti, la metà sotto i 22 anni) e il Partito liberal democratico di Vladimir Zhirinovsky, già vice presidente della Duma, il parlamento russo, costretto nel 2003 ad ammettere le sue origini ebraiche.
Fanno paura i Nazional socialisti di Konstantin Kasimovsky, riferimenti all’ideologia hitleriana, per simbolo una croce nera che richiama il labarum cristico (PX). Si sa che le gesta dei capi vengono sempre ammirate. In Inghilterra, dopo l’aggressione del leader del British national party Nick Griffin ai danni di un insegnante ebreo, è cresciuta l’intolleranza verso la popolazione di origine israeliana. Come in Francia, dove il Front national di Jean Marie Le Pen dopo la flessione seguita all’exploit elettorale del 2002 (17,79%), sta risalendo la china. In Spagna avanzano i neonazisti della Falange, che fanno breccia tra i giovanissimi. In Grecia Alleanza patriottica ha eletto il proprio leader in parlamento, e gli estremisti di Laos e Albadoro vogliono bissare l’edizione 2006 di Eurofest, una Woodstock neonazista. Poi ci sono quelli che non dissimulano. In Svezia sta tornando di moda il Partito del Reich nordico, fondato nel 1956 e ancora guidato dal battagliero Assar Oredsson. Scendendo a Sud, riecco gli oltranzisti austriaci del Bzoe di Jorg Haider, partito che ancora governa in Carinzia. Informative dei servizi tedeschi parlano di gruppi neonazisti attivi sul confine tra Austria e Germania. Meta di riferimento: Branau, la città natale di Hitler.
Infine l’Italia. Che non si fa mancare niente. Compreso un disciolto (da poco) Movimento dei lavoratori ispirato al Partito nazional socialista dei lavoratori (nel 2006 riuscì a far eleggere dei consiglieri nelle province di Varese, Como e Novara). Anche da noi l’arcipelago dell’estrema destra antimondialista è frammentato. Da una parte Forza Nuova (il leader Roberto Fiore è segretario generale del Fronte nazionale europeo, la casa comune dei partiti europei di estrema destra); dall’altra il circuito Casa Pound, che si ispira al poeta antisemita Ezra Pound. A Casa Pound aderisce anche Cuore nero, circolo neofascista milanese. Agosto 2008, copertina di "Doppio Malto", la fanzine ufficiale di Cuore nero: uno skinhead che brinda con un boccale di birra. Sullo sfondo, la "porta dell’inferno" del lager di Auschwitz. La scritta "Il lavoro rende liberi" - che allora era ancora al suo posto - fu sostituita da una più commerciale, e vergognosa, insegna. "Birrificio Cuore nero". A proposito.
Obama: «Ahmadinejad dovrebbe visitare Buchenwald» *
Barack Obama è arrivato a Buchenwald. Dopo lo storico discorso Cairo il presidente degli Stati Uniti ha fatto tappa in Germania, primo appuntamento del tour europeo. E la scelta di Obama è stata proprio la visita insieme ad Angela Merkel dell’ex campo di concentramento nazista dove morirono 56mila persone.
Visita poi per i soldati ospitati nel centro medico di Landstuhl, dove vengono portati i militari americani feriti in Iraq, prima di proseguire alla volta della Francia, dove parteciperà alle cerimonie per il 65mo anniversario dello sbarco di Normandia.
Le parole più significative pronunciate sono state sui rischi legati alle posizioni negazioniste. «Ahmadinejad dovrebbe visitare Buchenwald», è stata infatti l’esortazione di Barack Obama al presidente iraniano, che ieri per l’ennesima volta aveva definito l’Olocausto «un grande inganno». «Non tollero chi nega la storia», ha detto il presidente americano in una intervista rilasciata alla NBC prima di visitare l’ex campo di concetramento nazista il presidente americano.
Il presidente Usa in Germania dopo lo storico discorso del Cairo sui rapporti con l’Islam colloquio con la cancelliera Merkel prima della visita al lager dove ha incontrato Wiesel
Obama a Buchenwald: "Ahmadinejad venga qui"
"Non ho pazienza con chi nega la storia". E sul Medio Oriente: "Soluzione a due Stati"
DRESDA - E’ la Germania la prima tappa europea del viaggio di Barack Obama oltreoceano, dopo il passaggio mediorientale con lo storico discorso tenuto ieri al Cairo, rivolto al mondo islamico. Il presidente americano Barack Obama ha incontrato oggi il cancelliere tedesco Angela Merkel a Dresda. Una giornata densa di significati simbolici, che culmina con la visita al campo di concentramento di Buchenwald, dove Obama incontra il premio Nobel per la pace Elie Wiesel e riprenderà il tema della Shoah. A questo proposito, in un’intervista prima della visita, il presidente ha lanciato una prima stoccata al leader iraniano Ahmadinejad. Alla domanda se il presidente iraniano avesse qualcosa da imparare dalla sua visita, Obama ha risposto: "Dovrebbe venirci di persona. Non ho pazienza per chi nega la storia. E la storia dell’Olocausto non è cosa su cui si possa discutere".
La Merkel si è recata presso l’albergo dove alloggia il capo della Casa Bianca e i due leader hanno poi visitato insieme il Gruenes Gewolbe, nel Castello di Dresda, il museo d’Europa più ricco di tesori. Poi, in una conferenza stampa congiunta, hanno riaffermato che per il Medio Oriente, tema al centro del successivo faccia a faccia dopo il tour di Obama culminato nel discorso del Cairo, c’è bisogno di "una soluzione a due Stati".
Il processo di pace. "Il discorso di Obama è molto importante", ha detto la cancelliera tedesca, Angela Merkel, nel corso della conferenza stampa congiunta con il presidente Usa, riferendosi al discorso del Cairo. Obama ha ribadito che "è adesso il momento" di agire per arrivare a una pace in Medio Oriente "basata sui due Stati", quello israeliano e quello palestinese. E ha aggiunto che con il suo discorso al Cairo gli Usa hanno creato "il clima" e lo spazio per far ripartire i negoziati, ma ora spetta alle parti compiere "scelte difficili" perché l’America non può fare la pace da sola. Merkel ha aggiunto che con l’amministrazione Usa si è creata "un’opportunità unica per far ripartire il processo di pace".
Dialogo con l’Iran. Gli Stati Uniti, ha spiegato il presidente, sono pronti ad avviare "un dialogo serio" con l’Iran che dovrà essere portato avanti in collegamento con il "5+1", il gruppo di mediatori formato dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania. "Dobbiamo evitare una corsa agli armamenti in Medio Oriente", ha sottolineato il presidente Usa.
La questione Guantanamo. Il capo della Casa bianca ha parlato anche di Guantanamo, una "questione spinosa" non solo per gli Usa ma "a livello internazionale", per risolvere la quale "ci vorrà del tempo". E ha precisato di non aver chiesto né ricevuto dalla Germania alcun impegno riguardo alla custodia dei detenuti. Ma gli Stati Uniti hanno chiesto all’Ue di "aiutare e lavorare con noi" per arrivare alla chiusura del carcere. Obama ha aggiunto come Guantanamo sia divenuta una "struttura simbolo" che però "non rappresenta le nostre tradizioni, i nostri ideali, il nostro stato di diritto". Merkel ha ricordato come il suo governo sia sempre stato "in favore della chiusura della struttura": "Continueremo a dialogare per cercare una soluzione, sono certa che la troveremo".
Crisi e settore auto. Nel colloquio fra i due leader si è parlato anche di crisi economica "riaffermando la necessità di non accettare il protezionismo", bisogna "garantirci che manterremo aperte le frontiere". Allo stesso tempo Obama - senza fare nomi - ha aggiunto di essere "felice di vedere la soluzione della situazione qui in Germania" del settore automobilistico. "Non è facile aiutare la ristrutturazione del settore" ma "spero che vedremo stabilizzarsi e tornare forti" le industrie interessate. Il capo della Casa Bianca ha detto di aver visto "qualche progresso" nei tentativi di riportare stabilità alla economia mondiale, e di avere concordato con Merkel che occorre "lavorare insieme strettamente" per continuare questi progressi.
La visita a Buchenwald. Il momento di maggior impatto della giornata è stata la visita di Obama al lager nazista di Buchenwald, il più grande campo di concentramento sul suolo tedesco, dove morirono 56mila prigionieri, di cui circa undicimila ebrei, e altre decine di migliaia prigionieri di guerra sovietici e prigionieri politici.
Oltre che dalla Merkel e dal premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto, Obama è stato accompagnato nella visita del campo di concentramento anche da Bertrand Hertz, un altro sopravvissuto ora presidente del Comitato internazionale degli ex internati di Buchenwald-Dora. I quattro hanno deposto una rosa bianca sul monumento che ricorda "tutte le vittime" del campo di sterminio. Obama ha chinato lievemente la testa, in raccoglimento, prima di allontanarsi dal memoriale.
Nel discorso tenuto nel campo, Obama ha ricordato: "L’indignazione per quanto è avvenuto non è diminuita". Parlando accanto alla Merkel, Obama ha ripreso il riferimento al presidente iraniano e ai negazionisti della Shoah, ricordando che "alcuni negano ancora che l’Olocausto sia mai avvenuto", e che "è necessario essere vigili contro la diffusione del male ai nostri tempi". Alla Merkel poi, un particolare omaggio: "Non deve essere facile guardare al proprio passato con tanta chiarezza, e la capacità di far sì che non possa accadere di nuovo". La cancelliera, dal canto suo, rendendo omaggio a tutte le vittime, ha ricordato: "Qui a Buchenwald, vorrei sottolineare un obbligo che ricade su noi tedeschi, come conseguenza del nostro passato: dobbiamo difendere i diritti umani, dobbiamo difendere lo stato di diritto e difendere la democrazia. Dobbiamo combattere contro il terrorismo, l’estremismo e l’antisemitismo. E soltanto con la consapevolezza delle nostre responsabilità potremo lottare per la pace con i nostri amici alleati negli Stati Uniti e nel resto del mondo".
Obama ha proseguito la visita del campo ascoltando le spiegazioni del Nobel Wiesel, il cui padre è morto a Buchenwald tre mesi prima della liberazione del campo nel 1945. Il presidente Usa ha una connessione familiare col campo: il pro-zio materno Charlie Payne, in Europa con le truppe americane, fu tra i liberatori di un campo satellite di Buchenwald. Tornò sconvolto dalla esperienza. L’uomo, che ha 84 anni, vive a Chicago. Non a caso, Merkel ha parlato di un viaggio la cui natura "è altamente simbolica". Infine il capo della Casa Bianca visiterà l’ospedale militare americano di Landstuhl, dove vengono curati soldati feriti provenienti da Iraq e Afghanistan. In serata sarà in Francia, dove domani parteciperà alle celebrazioni per il 65esimo anniversario dello sbarco in Normandia. Il tour si concluderà con un weekend a Parigi.
Negazionismo
Storia e significato di una idea senza fondamento scientifico
Una corrente di pensiero che non ha nulla di "scientifico", come pretende, ma che è invece un’ideologia, meglio una setta religiosa
Il vescovo lefebvriano Williamson riporta d’attualità
le tesi di chi sostiene che la Shoah non ha mai avuto luogo
Gli assassini della memoria che cancellano l’Olocausto
I ripetuti assalti alla verità dei cosiddetti "revisionisti"
hanno dimostrato la necessità di
non permettere che la memoria venga cancellata
di Bernardo Valli (la Repubblica, 03.02.2009)
I sostenitori del negazionismo cercano di dare basi scientifiche alle loro tesi. Perlomeno lo sostengono. Il loro principale obiettivo è di dimostrare che il genocidio degli ebrei non è mai avvenuto. L’Olocausto sarebbe un mito, creato al fine di favorire gli interessi degli ebrei nel mondo, e giustificare la nascita e la difesa di Israele; sarebbe una colossale invenzione tesa a screditare, a demonizzare, la Germania di Hitler.
Oggi le tesi dei negazionisti, dei quali la maggiore espressione è l’Institute for Historical Review, fondato da Dave McCalden (ex membro del National Front) alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti, affermano con argomentazioni variabili secondo i "ricercatori":
1) che non sono mai esistite camere a gas per uccidere gli ebrei e che se sono esistite servivano, stando ad alcuni, per sterminare i pidocchi di cui Auschwitz era infestato;
2) che i nazisti non si proponevano di uccidere gli ebrei, ma semplicemente di rinchiuderli nei campi;
3) che il numero degli ebrei morti durante la Seconda guerra mondiale è di gran lunga inferiore a quanto si denuncia.
Questi, in sintesi, i principi su cui si basa il negazionismo. Ai quali si devono aggiungere molte altre affermazioni più specifiche, o "scientifiche", contenute in una vasta pubblicistica o espresse durante il congresso (o nel periodico) dell’Institute for Historical Review. Cito, a titolo di esempio, soltanto alcuni degli argomenti usati dai negazionisti in testi presentati come saggi di revisionismo storico. Secondo il Leuchter Report l’inesistenza delle camere a gas sarebbe provata dall’assenza di residui di cianuri negli ambienti di Auschwitz- Birkenau destinati allo sterminio. È inoltre impossibile credere, secondo i negazionisti, che gli inservienti, anche se dotati di maschere, potessero entrare subito, come si racconta, nelle camere a gas dove giacevano fino a millecinquecento cadaveri, senza che essi stessi venissero uccisi a loro volta dai miasmi letali. In quanto al cielo di Auschwitz, dalle fotografie aeree fatte dagli americani, non risulterebbe nascosto da una costante nuvola di fumo nero uscito dai forni crematori, come viene descritto. E le immagini dei prigionieri scarnificati, riprese sempre dagli americani? Lo stato di quei prigionieri sarebbe dovuto all’abbandono, senza cibo e medicine, per giorni e giorni, in seguito allo sfaldamento del fronte tedesco. Insomma Auschwitz sarebbe «una truffa».
Non c’è bisogno di sottolineare che, nonostante le pretese, il negazionismo non abbia nulla di scientifico e neppure scalfisca gli studi e le testimonianze dirette sulle tecniche di sterminio nei campi di concentramento nazisti.
Il negazionismo è un’ideologia. Meglio ancora, si è di fronte a una setta religiosa, come diceva lo storico francese Pierre Vidal-Naquet, precisando che si trattava di una setta simile a quella che «Weber opponeva con ragione alla Chiesa». È un’opposizione settaria al culto dominante. Vidal-Naquet ricorse a quella definizione quando si presentò il caso di Roger Garaudy: un professore di filosofia via via convertito al protestantesimo, poi al comunismo (diventando un dirigente del Pcf), poi al cattolicesimo e infine all’islam. Approdato a quest’ultima religione, Garaudy abbracciò e difese pubblicamente le tesi negazioniste, compiendo un’altra tappa nella sua agitata vita spirituale o ideologica. Fu singolare il sostegno, altrettanto pubblico, che gli dette l’Abbé Pierre, considerato da molti francesi un santo vivente. In seguito l’Abbé Pierre si corresse e si capì che il suo era stato un eccessivo e irresponsabile slancio d’amicizia.
Pierre Vidal-Naquet fu uno dei primi ad affrontare i negazionisti (emersi negli anni Settanta) con una serie di articoli raccolti in un libro: Gli assassini della memoria (Viella 2008). Egli rifiutò tuttavia di dibattere faccia a faccia con loro. Non erano interlocutori accettabili.
Specialista dell’antica Grecia e impegnato con passione nel denunciare la tortura durante la guerra d’Algeria, Vidal-Naquet non aggirava i problemi. Come storico e come ebreo scandiva l’atteggiamento verso la Shoah in tre distinti momenti. Alla Liberazione nessuno si era interessato ai deportati ebrei. Si era poi passati a un interesse esclusivo, specifico, per il genocidio di cui erano state le vittime. E c’è stata a questo punto - ed è il terzo momento - una sacralizzazione della Shoah, a suo parere rischiosa: perché la Shoah non deve essere considerata un culto, suscettibile di creare un anti-culto, ossia un’eresia. Né deve essere uno strumento politico. È un genocidio che, insieme agli altri (quello simultaneo degli zingari, quello precedente degli armeni a opera dei turchi, o quello successivo nel Ruanda), deve impegnare gli storici, cui spetta di tener viva la memoria. Vidal-Naquet era contrario alla legge che condanna chi nega i crimini contro l’umanità, perché può far apparire i negazionisti come dei perseguitati. Si può capire, e condividere, il rigore di Vidal-Naquet, quando sottolinea il rischio implicito nella sacralizzazione o nell’uso politico della Shoah, ma è comprensibile, o addirittura inevitabile, che questo avvenga poco più di mezzo secolo dopo, quando i ricordi sono ancora vivi e sono mantenuti tali, anzi sono arroventati, dalla tragedia mediorientale.
I negazionisti vogliono essere considerati dei revisionisti. Una qualifica cui non credo abbiano diritto. Non è revisionista l’intellettuale impegnato a contrastare la realtà, concretamente provata, di un fatto storico, la cui veridicità non richiede supplementi di indagine. Il revisionismo ridefinisce il giudizio su un evento, ne dà un’interpretazione diversa, non ha come fine la sua cancellazione. La storiografia è una continua revisione. Il negazionismo è dettato da un’ideologia.
Per evitare che la scomparsa di testimoni viventi favorisca le tesi negazioniste, Claude Lanzmann ha realizzato con anni di lavoro il suo documentario di nove ore sulla Shoah, basato non sulle immagini ma su una straordinaria e sconvolgente serie di testimonianze dirette, destinate a restare quando si passerà definitivamente dalla memoria alla storia.
Se si scorrono le liste dei partecipanti al congresso dell’Institute for Historical Review si trovano i nomi di Carlo Mattogno, il negazionista italiano più noto, di Bradley Smith, fondatore del CODOH (Comitato per un aperto dibattito sull’Olocausto), di David Irving, autore di Hitler’s War, libro che ha mobilitato tanti tribunali, e di Robert Faurisson, il professore dell’Università di Lione, diventato un autore di riferimento per molti negazionisti. Nel 1992, durante un raduno negazionista in Germania, Irving dichiarò che la camera a gas ricostruita ad Auschwitz era un falso fabbricato dopo la guerra. Nel 2000 il tribunale britannico che trattò la causa per diffamazione intentata da Irving alla storica Deborah Lipstadt, sentenziò che il querelante, ossia Irving, aveva distorto e falsificato l’evidenza storica ed era un antisemita.
Il francese Robert Faurisson usufruì del singolare sostegno di Noam Chomsky, illustre linguista, figlio di un professore di ebraico, intellettuale libertario e nemico di tutti gli imperialisti. Chomsky fece infatti la prefazione al libro di Faurisson (Mémoire en defense contre ceux qui m’ accussent del falsifier l’histoire) in cui si immagina, tra l’altro, una dichiarazione di guerra a Hitler da parte della comunità ebraica mondiale, e dove si dice che Hitler, il quale aveva imposto agli ebrei di portare la stella gialla a partire da sei anni, si preoccupava molto di più della sicurezza dei soldati tedeschi che degli ebrei.
Chomsky precisava nella prefazione di non avere letto il libro, e, in sostanza, di volere soprattutto difendere la libertà d’opinione, quale che sia. Vidal-Naquet scrisse pubblicamente a Noam Chomsky. Gli disse che poteva sostenere il diritto del peggior nemico alla libertà d’opinione, se non domandava la sua morte e quella dei suoi fratelli. Ma che lui, Chomsky, non aveva il diritto di prendere un falsario e di ridipingerlo con i colori della verità. A questo equivaleva infatti la sua prefazione. Più tardi Chomsky non sconfessò quanto aveva scritto, ma l’uso che ne era stato fatto. E chiese che la prefazione non fosse pubblicata. Ma era troppo tardi. Era già in libreria. Pochi mesi dopo Robert Faurisson veniva condannato, per la prima volta, per «contestazione di crimine contro l’umanità».
Lo sterminio senza fine
Perché dicono che la macchina di morte non è esistita
La vera finalità del rifiuto delle prove è
la convinzione che i sopravvissuti non siano credibili,
perché sono ebrei e dunque per natura dicono il falso
di David Bidussa (la Repubblica, 03.02.2009)
Che cosa significa negare un fatto storico? E perché, nello specifico, il negazionismo include una forma di antisemitismo? La prima riguarda la dimensione della morte nei campi; la seconda chiama in causa il giudizio sull’identità dei sopravvissuti.
Di che si discute quando qualcuno afferma che non sono esistite le camera a gas e che, più in generale, quei morti "non sono morti"? Consideriamo i numeri (un dato che costituisce un’ossessione per i negazionisti). I numeri dello sterminio riferiti ad Auschwitz sono stati riepilogati da Jean-Claude Pressac nel suo libro Le macchine dello sterminio (Feltrinelli 1994).
Questi i numeri che Pressac riporta: ebrei gasati non iscritti, da 470 mila a 550 mila (l’oscillazione riguarda il numero complessivo degli ebrei ungheresi gasati); corrispondono ai deportati trasportati ad Auschwitz e selezionati già sulla rampa di arrivo; detenuti iscritti deceduti (ebrei e non ebrei) 126 mila: ovvero quelli sopravvissuti alla prima selezione sulla rampa e poi, gasati per malattia, debilitamento...; prigionieri di guerra sovietici, 15 mila; diversi (di cui soprattutto zingari), 20 mila.
Complessivamente dunque stiamo parlando di una quantità di persone gasate tra i 631 mila e i 711 mila. Nessuno di questi numeri è stato contestato dai negazionisti. Nessuno di loro ha mai risposto a Pressac. Questa cosa non fa pensare?
Ma la retorica negazionista non riguarda solo i numeri. La ricostruzione storica di un fatto, non è mai fondata su un solo documento o su un corpo di documenti limitati a un punto. Indagare un fatto implica assumere l’intera filiera all’interno del quale si colloca. La storia non è mai l’astrazione di un particolare. La storia si studia solo assumendola "a parte intera".
E dunque ai dati forniti da Pressac, vanno aggiunti: i deportati sterminati in tutti gli altri campi (di sterminio, Treblinka, Majdanek, Sobibor, per esempio; o di concentramento: Dachau, Mauthausen...); quelli che vengono catturati, rinchiusi nei campi di transito, e che lì muoiono; quelli che sono trasportati in vagone e muoiono nel viaggio; tutti coloro che sono uccisi prima della scena del campo di sterminio: per esempio i fucilati nell’estate 1941, durante l’occupazione militare in Unione sovietica e quelli uccisi dai reparti di polizia speciale (per esempio i 260 mila sterminati in Polonia tra il 1940 e il 1944 dal Battaglione 101 come racconta Christopher Browning nel suo Uomini comuni, Einaudi).
Negare le camere a gas, dunque, è funzionale a un obiettivo concreto: dichiarare che quella macchina complessiva di morte non sia mai esistita.
Nello sterminio non c’è una parte per il tutto, c’è il tutto. E proprio con quel pacchetto complessivo si tratta di confrontarsi. Il primo atto del negazionismo è preliminare alla sua affermazione sulle camere a gas.
Consiste nell’eliminare tutti i particolari e tutte le componenti che renderebbero insostenibile la tesi finale. La macchina dello sterminio nazista non è la camera a gas. Quello è il livello ultimo di un lungo percorso. All’interno di ciascun passaggio si uccidono individui, si sterminano interi gruppi famigliari o intere comunità locali. Lo sterminio preesiste alle camere a gas.
Quella retorica tuttavia non si limita a negare un fatto provato. Infatti essa contesta non solo le prove, ma le testimonianze di chi sostiene l’esistenza nelle forme e nei modi dello sterminio. Anzi il vero obiettivo del rifiuto delle prove è la convinzione che i sopravvissuti non abbiano diritto di parola. Quel diritto non viene riconosciuto ai sopravvissuti perché la loro natura - e non la loro esperienza - li rende incredibili. Secondo i negazionisti, infatti, essi non sono credibili e non devono essere creduti non perché ciò che dicono si sarebbe dimostrato fondatamente falso, ma perché la loro identità ebraica li qualifica come pericolosi sovvertitori dell’ordine e perché la loro natura li rende "perfidi". Credereste mai ai nemici irriducibili? Alla fine, dunque, per i negazionisti quei testimoni sono non credibili perché sono ebrei e dunque per natura, raccontano il falso e lo raccontano perché il loro obiettivo sarebbe la conquista fraudolenta del potere.
Lungi da non essere mai avvenuto, lo sterminio per i negazionisti non è mai finito. È ideologicamente giustificato perché si basa sull’adesione all’ideologia che l’ha predicato e poi praticato. Alla fine lo si nega, per poter avere l’opportunità di completarlo.
Religione millenaria
Le radici di un odio
La religione millenaria dell’antigiudaismo oggi
rialza la testa e riunisce davanti alle bandiere
bruciate giovani di destra e di sinistra
Il peso della tradizione nelle posizioni del Vaticano
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 03.02.2009)
La millenaria religione dell’antigiudaismo, la madre ormai riconosciuta dell’antisemitismo moderno, dà segni di ripresa davanti a quell’annebbiamento della memoria che sta seppellendo le vittime della Shoah e il senso di colpa dell’Occidente cristiano. Oggi i movimenti giovanili di estrema sinistra si incontrano con quelli di estrema destra sulle piazze dove bruciano i vessilli con la stella di David e davanti alle sinagoghe imbrattate di una vernice rossa che chiede ancora l’antico sacrificio del sangue ebraico.
Di fronte a questo ritorno di fiamma antisemita è opportuno comprenderne, non tanto o non solo le ragioni che attraversano la società civile, quanto quelle che si riscontrano all’interno della chiesa.
Cos’è infatti la negazione dell’Olocausto da parte del vescovo "lefebvriano" Richardson se non anche la manifestazione indiretta di un problema che ha coinvolto e continua a coinvolgere la parte più tradizionale del clero?
La gerarchia ha comunque le sue esigenze che la democrazia non può comprendere. L’emergere dell’aggettivo "ecclesiale" a fianco e in sempre più evidente contrasto con l’antico aggettivo «ecclesiastico» e la loro lotta per affiancare in modo esclusivo il sostantivo "Chiesa" sono stati i segni che anche il più distratto degli osservatori ha potuto cogliere nei decenni scorsi, intorno al concilio e subito dopo: in questo problema di linguaggio si è resa evidente la tensione fra il momento comunitario e creativo dal basso della vita religiosa cristiana e il momento gerarchico e autoritario di un corpo dove la proprietà esclusiva della parola e il controllo del messaggio sono "ab antiquo" il monopolio dell’autorità ecclesiastica.
Per questo la soluzione del problema dello scisma lefebvriano appare complicata e non vicina. Coinvolge in prima istanza la sorte del concilio Vaticano II. L’"aggiornamento" conciliare dette voce alla necessità di un corpo sacrale arroccato nella immobilità della tradizione di aprirsi a un mondo moderno lungamente considerato come una realtà da tenere lontana se non da maledire nel suo complesso.
A chi guardi questa vicenda dall’esterno si offrono poi altri motivi di riflessione e di preoccupazione: la situazione attuale dei rapporti col mondo mussulmano offre una insperata occasione di riscossa alla religione dei crocifissi sanguinanti e delle crociate contro i mussulmani in nome della quale monsignor Lefebvre continuò fino alla fine a promuovere in Vaticano il riconoscimento di quelle santità mistiche e antimoderne sorte nelle province più chiuse della Francia reazionaria negli anni della Comune e della Grande Guerra.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
CONGRATULAZIONI AI MAESTRI DI PERSUASIONE!
(per chi ancora ci vuole credere)
Abili, ingegnosi, geniali, spiazzanti, perspicaci e intraprendenti.
Ogni gesto è piena dimostrazione e prova della capacità di convincere e persuadere. Sono protagonisti, interpreti geniali, artisti incommensurabili. Creano e disfano, tessono e intrecciano, montano e ricompongono una storia lunga 20 secoli.
Ogni volta la manovra è calcolata: l’azione, le reazioni, le conclusioni finali. Onore ai persecutori. Sono innumerevoli gli esempi, citiamo solo l’ultimo per rendere chiaro il procedimento, lo svolgersi delle cause e delle conseguenze del gesto.
A due giorni dalla Giornata della Memoria assistiamo alla revoca della scomunica dei vescovi lefrebvriani. Fra questi l’antisemita Williamson, noto negazionista della Shoah, coadiuvato da “padre” Floriano Abrahamowicz. Questa azione provoca ad arte indignazione in tutto il mondo. Alla ovvia richiesta di una presa di posizione chiara e netta la risposta non è la cancellazione dell’azione “involontariamente” (il papa non sapeva del negazionismo di Williamson, sostengono scioccamente alcuni) intrapresa con un’altra equivalente e contraria (per es. il ritiro della revoca), bensì una dichiarazione generica di fratellanza che nasconde le responsabilità, dirette o indirette, del cristianesimo nella Shoah e nell’antisemitismo.
Dalla dichiarazione di fratellanza emerge tutto e il contrario di tutto: dall’ antisemitismo al “fratelli maggiori”, dal negazionismo al riconoscimento della Shoah. Non è altro che l’arte di manipolare le genti con un guazzabuglio di cose dette e non dette, che spinge verso l’inquinamento delle prove e la ricerca continua della conversione. Il tutto senza assumere mai una responsabilità diretta.
Ci si accontenta, dunque, di una generica indignazione, di una generica dichiarazione di fratellanza simulata per un gesto di misericordia verso i vescovi lefrebvriani, e questo mette tutto a posto, fino al prossimo passo, la prossima manovra. Né l’indignazione né l’irritazione scalfiscono infatti il significato e la portata manipolatrice ed evangelizzatrice dell’intera operazione.
Ci sembra evidente che tale metodo mistificatorio, che prevede un’azione offensiva e una successiva dichiarazione paternalistica rassicurante, non potrà nascondere la portata antisemita della beatificazione di Pio XII, il papa della Shoah.
In tutto ciò dov’è il dialogo tanto osannato e ricercato fino all’umiliazione ?
Il negazionismo e la sua riabilitazione non sono dialogo, non sono generici atti di fratellanza, non sono una semplice opinione. Il negazionismo e la sua riabilitazione sono una teoria scientifica, ben articolata, radicata in ambienti cattolici e cristiani, sempre in espansione. L’indignazione del momento, pur comprensibile, non risolve il problema, non ne dà una valutazione organica e risolutiva e non ha conseguenze sulle decisioni prese, che conservano sempre un carattere di irreversibilità.
Al di là di tutto l’azione di riabilitare un antisemita rimane un’azione antisemita. Le chiacchiere di contorno non servono, in particolare non servono a cancellare l’azione antisemita.
Noi chiediamo che l’atto di riabilitazione di Williamson, rappresentante antisemita del cristianesimo, venga ritirato senz’altro. Questo è l’unico modo per confrontarsi in modo corretto e fattivo. In alternativa, che la polemica non si esaurisca nello squallore del cosiddetto dialogo.
Questa azione può avere come conseguenza la riduzione della sicurezza dei cittadini ebrei in Europa. Noi riteniamo, pertanto, che in questa azione si possa ravvisare apologia di reato e di violazione di diritti umani e che debba essere denunciata al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU e della UE.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
gherush92@gherush92.com
Al Quirinale consegna delle medaglie agli ex deportati o agli eredi
Incontri, proiezioni, letture, iniziative e manifestazioni in tutta Italia
27 gennaio, una Giornata per non dimenticare
Viaggi della memoria ad Auschwitz e Birkenau
Un giovane palestinese sul treno da Firenze: "L’uomo da quegli orrori non ha imparato"
di RITA CELI *
ROMA - Il 27 gennaio di 64 anni fa le avanguardie dell’Armata Rossa aprivano i cancelli di Auschwitz, liberando i pochi superstiti e mostrando al mondo gli orrori di un lager dove erano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici e prigionieri di guerra. Per non dimenticare la Shoah e le vittime innocenti uccise ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento domani, 27 gennaio, sarà celebrata la Giornata della memoria, istituita nel 2000 per ricordare - soprattutto ai giovani - i milioni di uomini, donne e bambini messi a morte dai nazisti. Numerose le iniziative, a cominciare dalla consegna al Quirinale delle medaglie agli ex deportati o agli eredi, per proseguire nel corso della giornata con concerti, proiezioni, testimonianze, conferenze, letture e manifestazioni in tutta Italia.
Quirinale, medaglie a ex deportati. Una cerimonia solenne al Quirinale apre la Giornata della memoria. Il sottosegretario Gianni Letta, a nome del governo, consegnerà medaglie d’onore ad alcuni ex deportati civili e militari che furono internati nei lager nazisti o ai loro eredi per onorare i sopravvissuti e le vittime di un dramma che coinvolse centinaia di migliaia di italiani (40mila civili e 650mila militari deportati: nove su dieci non fecero ritorno, 50mila i soldati uccisi nei campi di sterminio). Cerimonie analoghe si svolgeranno contemporaneamente in diverse città alla presenza delle autorità locali.
Convegno alla Camera. Alle 15 nella Sala della Lupa di Montecitorio si terrà il convegno "Memoria: dalle testimonianze dirette al museo della Shoah", aperto dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Interverranno: Gianni Alemanno, Piero Marrazzo, Nicola Zingaretti, Walter Veltroni, Renzo Gattegna, Leone Paserman, Goti Bauer, Marcello Pezzetti, Luca Zevi, Giorgio Maria Tamburini. Il convegno sarà anche l’occasione per presentare il progetto del Museo nazionale della Shoah, sulla via Nomentana a Roma, la cui inaugurazione è prevista per il 2011.
Il viaggio in treno da Milano. Oltre 900 giovani delle scuole superiori di Milano e della Lombardia hanno affrontato il lungo viaggio in treno dalla stazione Centrale di Milano fino a quella di Auschwitz. I ragazzi arrivati a destinazione sono rimasti in silenzio di fronte all’atrocità evocata dalla scritta "Arbeit Macht Frei" (il lavoro rende liberi) che ancora campeggia sul cancello d’ingresso del campo di sterminio nazista. Orrore amplificato davanti alle camere a gas, agli oggetti delle vittime, ai nomi e dopo la visita a Birkenau, dove i quattro forni crematori hanno funzionato a pieno ritmo fino agli ultimi giorni della guerra.
Sul treno anche gli studenti di Parma. Su uno dei due treni della memoria partiti da Milano, organizzati da Cgil, Cisl e dalla Provincia di Milano, tra gli oltre 1200 passeggeri sulla via per Auschwitz - tra cui 300 lavoratori e pensionati - anche un gruppo di studenti di Parma che hanno affidato a Parma-Repubblica.it il loro diario di viaggio corredato di foto e racconti. Un viaggio collettivo verso i campi di sterminio, dove sono previste visite, cerimonie, confronti organizzati con l’obiettivo di "formare nuovi testimoni".
Arabi e cristiani in viaggio da Firenze. Un treno della memoria è partito anche da Firenze, organizzato dalla Regione Toscana, con a bordo 800 persone tra studenti delle scuole superiori e giovani di diversi paesi che frequentano le università toscane. Una ragazza marocchina con il chador, un palestinese che studia a Firenze per diventare artista nella sua terra, un esponente della comunità rom. "Questo viaggio è importante per conoscere dal vivo i luoghi dove l’uomo ha commesso orrori, ma sono consapevole che l’uomo da quegli orrori non ha imparato" commenta Remzt, 22 anni, palestinese della città vecchia di Gerusalemme.
Gli appuntamenti in tv. Numerose le occasioni per ricordare la Giornata della memoria sul piccolo schermo, a cominciare da RaiTre che domani alle 11 trasmette in diretta la cerimonia dal salone dei Corazzieri del Quirinale. Questa sera Retequattro alle 23.20 propone il film tv Il processo di Norimberga. Sempre su RaiTre, questa sera a mezzanotte Linea notte ospiterà Anna Foam, autrice del libro Diaspora, storia degli ebrei nel ’900. Domani si comincia alle 8.05, ancora su RaiTre, con la seconda puntata de La storia siamo noi, dal titolo La soluzione finale, alla ricerca delle radici ideologiche e politiche della Shoah (mercoledì la terza parte). Sempre sulla terza rete Rai alle 13.10 va in onda Un treno per Auschwitz, il documentario di Carlo Lucarelli e Paola De Martiis dedicato al viaggio in treno di 600 studenti da Carpi al lager. RaiUno alle 14.10 ripropone la fiction Exodus - Il sogno di Ada, protagonista Monica Guerritore, dedicata alla storia di Ada Sereni che ha dedicato la sua vita a organizzare l’espatrio di migliaia di ebrei verso la Palestina. Nell’arco della giornata Rainews 24 propone interviste a scrittori, storici, testimoni, sopravvissuti e l’inchiesta esclusiva Bombardate Auschwitz: l’ordine che non fu dato. Sempre domani Retequattro trasmette alle 21.10 Il pianista, il film di Roman Polanski con Adrien Brody, il musicista la cui vita fu sconvolta dalla guerra e dall’invasione nazista. Sky Cinema 1, invece, ricorda lo sterminio trasmettendo in esclusiva alle 21 il film Il diario di Anna Frank, una recente trasposizione del celebre diario.
Roma, le iniziative alla Casa della memoria. Proiezioni di film, documentari, testimonianze e interviste, conferenze, letture e presentazioni di libri organizzati alla Casa della memoria e della storia, a Roma. Domani dalle 11 alle 24 nel locale Qube, appuntamento con La memoria degli altri - Il giallo e il rosa. Shoah e Homocaust, due genetiche per uno sterminio, evento ideato da Davide Pavoncello per ricordare le discriminazioni e persecuzioni che ebrei e omosessuali subirono durante il nazismo. Al Complesso del Vittoriano alle 17 il ministro per i Beni e le attività culturali, Sandro Bondi, interverrà all’iniziativa promossa dal suo ministero che prevede lettura di brani sulla Shoah da parte di alcuni studenti delle scuole medie superiori, con l’intervento di Paola Pitagora, e la presentazione del volume Il libro della Shoah italiana di Marcello Pezzetti, coordinata da Bruno Vespa con gli interventi dell’autore, del ministro Bondi e di quello dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, del sottosegretario Carlo Giovanardi e dei rappresentanti delle comunità ebraiche italiane.
Venezia, un mese per non dimenticare. Anche quest’anno Venezia celebra la ricorrenza della Giornata della memoria scegliendo di promuovere molteplici appuntamenti distribuiti nell’arco di un mese, sostenendo occasioni di approfondimento culturale e iniziative d’arte e spettacolo sensibili ai valori di una "memoria condivisa" da non rimuovere, specie nei suoi capitoli meno conosciuti come la persecuzione nazista dei disabili, degli zingari, degli omosessuali e degli oppositori politici. Spicca la presenza di Moni Ovadia, che ha dato il via a una serie di eventi al teatro Goldoni tra cui la prima del suo ultimo lavoro teatrale Senza confini, ebrei e zingari. Tra le iniziative più toccanti la Fiaccolata delle memoria, la silenziosa marcia che partirà domani da Chirignago, in terra ferma, e sarà accompagnata dalle testimonianze di coloro che allo sterminio nazista sono sopravvissuti.
Cuneo, Bob Geldof in concerto. Incontri culturali, momenti di confronto e di riflessione a Cuneo. Nella mattinata di martedì, alle 12, in prefettura consegna delle medaglie d’onore ai deportati nei lager nazisti. Alle 16.30 dalla sinagoga di Contrada Mondovì partirà un trekking della memoria, con tappe al monumento alla Resistenza, al santuario degli Angeli e poi a Borgo San Dalmazzo dove centinaia di lumini ricordano le vittime della Shoah al Memoriale della deportazione, nei pressi della stazione ferroviaria. Alle 21 al teatro Toselli l’ottava edizione del Concerto della memoria con Bob Geldof, artista già candidato al premio Nobel per la pace e organizzatore di grandi eventi mondiali come il Live Aid e il Live 8.
Trieste ricorda dalla Risiera di San Sabba. A Trieste la giornata del 27 gennaio si apre alle 9.30 con la marcia silenziosa degli ex deportati dalle carceri del Coroneo alla Stazione centrale, dove sarà deposta una corona del Comune a ricordo della partenza dei convogli verso i campi nazisti. Alle 11 alla Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio sul territorio italiano, si svolgerà la cerimonia solenne mentre tre esposizioni approfondiranno le storie legate alle deportazioni nazifasciste: le opere di Mario Moretti, militare italiano deportato dal 1943 al 1945 in Polonia e Germania, una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia e una sul diario di Nicolò Chiucchi, cittadino istriano deportato a Dachau.
In Toscana spettacoli e riflessioni. Un nuovo museo per la documentazione, canti sacri, spettacoli teatrali e momenti di riflessione sono le iniziative organizzate in Toscana. A Prato domani sera è in programma nella chiesa di Lammari a Capannori il concerto di Antonella Ruggiero dedicato alla musica ebraica. Massa celebrerà il giorno della memoria con una seduta solenne del Consiglio Regionale nel Palazzo Ducale. Le scuole di Chiusi (Siena) saranno invece coinvolte in incontri con un sopravvissuto di un lager, Bruno Toppi, e assisteranno anche alla proiezione del film Il bambino col pigiama a righe. A Firenze il tradizionale concerto del 27 gennaio organizzato dal Maggio Musicale fiorentino sarà dedicato quest’anno alla "notte dei cristalli". Durante il concerto, in programma al Piccolo teatro del Maggio, saranno proiettati filmati e foto d’epoca con l’obiettivo di proporre una riflessione sul tema.
Bologna, teatro e commemorazioni. Deposizioni di corone, incontri musicali, tavole rotonde, spettacoli teatrali e consigli congiunti di Comuni e Province sono in programma in tutta l’Emilia Romagna. A Bologna le celebrazioni si aprono al Museo ebraico con l’inaugurazione della mostra Carlo Levi - Il prezzo della libertà. Al quartiere San Donato, invece, andranno in scena gli spettacoli teatrali ispirati al saggio di Hannah Arendt La banalità del male replicati nei licei Copernico, Minghetti e Galvani. Martedì saranno deposte delle corone davanti alle lapide presso lo stadio Dall’Ara in memoria di Arpad Weisz, atleta ebreo morto ad Auschwitz che fu allenatore del Bologna negli anni Trenta, al monumento dei martiti in piazza Nettuno, al cippo dei caduti in Certosa, alla lapide davanti alla Sinagoga e ai monumenti ai deportati omosessuali e zingari, uccisi dai nazi-fascisti.
Genova ricorda vittime omosessuali. In occasione della Giornata della memoria il programma di iniziative del Comitato Genova Pride presenta nella sala espositiva della Regione Liguria la mostra interattiva Omocausto, organizzata dal Gruppo Giovani del comitato Arcigay L’Approdo.
Le iniziative in Puglia. Numerose le iniziative in Puglia, a cominciare dalla consegna, domani mattina in prefettura a Bari, delle medaglie d’onore ai cittadini italiani, civili e militari, deportati e internati nei lager nazisti. Il Piccinniensemble con la direzione del maestro Valfrido Ferrari, terrà un concerto a Santeramo in colle. A Foggia la Città del cinema ha curato la proiezione, domani mattina, del film Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman.
L’università della Calabria. "Toccare, vedere, sentire: comprendere l’altro", questo il tema scelto dall’Università della Calabria con un nutrito programma di iniziative organizzate con il Conservatorio Giacomantonio di Cosenza, con la fondazione Ferramonti che prevede una visita al Campo di concentramento di Tarsia, e con il Movimento delle donne e l’Arcigay.
* la Repubblica, 26 gennaio 2009 - ripresa parziale.
Dura presa di poszione del presidente dell’Unione delle comunità italiane Renzo Gattegna
"Ci auguriamo che prenda una decisione sul vescovo antisemita"
Gli ebrei: "Infame negare la Shoah
la Chiesa deve intervenire" *
ROMA - La remissione della scomunica dei vescovi lefebvriani "è una questione che deve essere tenuta separata dalle opinioni storiche. La prima è un fatto interno alla chiesa su cui non abbiamo niente da dire, sulle tesi negazioniste, invece, abbiamo molto da dire perchè sono un’infamia". Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna torna sulla polemica tra Vaticano e mondo ebraico suscitata dalla decisione di Papa Benedetto xvi di riabilitare quattro vescovi lefebvriani. Nei giorni scorsi la comunità ebraica aveva parlato di una Chiesa "contaminata" da affermazioni antisemite, oggi Gattegna rincara la dose e chiede una esplicità presa di distanza del Vaticano dalle parole di monsignor Williamson (uno dei riabilitati) che ha sostenuto tesi negazioniste sulla Shoah.
"In questo momento - spiega Gattegna - siamo attenti osservatori delle decisioni che la chiesa prenderà in merito a chi sostiene tesi negazioniste. Ci auguriamo che ci sia una smentita di queste tesi che chiarisca ogni dubbio a riguardo".
Critico anche il presidente della comunità ebraica di Milano, Leone Soued. "Il ritiro della sua scomunica - dice Soued - porta a un momento di riflessione ma la Chiesa ha immediatamente chiarito che è un reintegro soltanto nella sua veste religiosa e non tanto con riguardo alle sue idee personali, prima fra tutte la negazione della Shoah". La decisione, comunque, "deve portare - sottolinea Soued - a una profonda riflessione nei rapporti con la Chiesa, che ultimamente sono stati difficili ma devono assolutamente continuare".
* la Repubblica, 26 gennaio 2009
Le radici dell’ Olocausto
di SUSANNA NIRENSTEIN (la Repubblica, 26.01.2009)
Una genealogia della Shoah. La traccia arditamente Georges Bensoussan nel suo Genocidio. Una passione europea (Marsilio, pagg. 388, euro 21), individuando i semi già attivi nell’Ottocento e nel Settecento, i secoli della ragione e del progresso, da cui è nata la pianta totalitaria e omicida del Novecento. Un’operazione complessa, anche se lui stesso avverte, riprendendo un proverbio cinese, come «conoscere la fine non aiuti a comprendere l’inizio». Ma troppo grande è lo sconcerto per la distruzione degli ebrei nel cuore del mondo occidentale e questa opera di archeologia alla ricerca delle fonti della barbarie è generosa e piena di spunti.
Andando a ritroso dunque, tre sono i filoni che lo storico delle idee, già autore di un monumentale lavoro sul sionismo a cui è stato conferito a Parigi il "Prix Mémoire de la Shoah", segnala ed esplora: la natura di guerra totale del primo conflitto mondiale, concepita dai suoi protagonisti, primi fra tutti i tedeschi - ma non solo -, come una via per "l’igiene del mondo" da percorrere attraverso tutti i mezzi possibili (la Germania vi introdusse gas, campi di concentramento dove affamare e picchiare i prigionieri, utilizzo dei cadaveri per riempire i fossati...).
Una visione, argomenta Bensoussan, resa possibile (e qui andiamo di nuovo all’indietro) dal darwinismo sociale sviluppato nell’XIX secolo che indica via via classi, gruppi (i malati), popoli, razze inferiori che devono soccombere: teorie nate all’interno dell’anti-illuminismo da cui derivano in generale un colonialismo predatore e razzista (vedi la soppressione degli Herrero, piuttosto che degli armeni), l’eugenetica della sterilizzazione dei malati gravi (già votata ad esempio nella Repubblica di Weimar).
L’antisemitismo infine: che Bensoussan giustamente associa all’antigiudaismo coltivato e agito secolarmente dalle Chiese cattolica e protestante, radicato sì nell’idea del "popolo deicida" ma, fin dalla fine del I millennio, evoluto in una dimensione razziale come dimostra l’ossessione per la purezza del sangue che perseguitò gli ebrei anche se convertiti.
Monsieur Bensoussan, dunque per lei esiste una sorta di gestazione unica, intellettuale ma non solo, dello sterminio biologico degli ebrei d’Europa. È così?
«No, non esiste una causalità lineare che conduca alla Shoah. Non esistono delle "cause". Ma un terreno culturale che prepara gli intelletti e li condiziona».
La prima matrice del "disastro" è la Prima Guerra Mondiale, ma non tanto per il risentimento e la sete di riparazione che lasciò in Germania, quanto per come venne concepita e condotta.
«Fu una tappa verso la guerra totale che non distinse tra militari e civili. Questa concezione del conflitto come "igiene del mondo" si coniugava con il sogno di un’umanità sottomessa unicamente alle leggi della scienza. Non fu appannaggio della sola Germania che però, per prima in Europa, ha introdotto alcune forme di annientamento totale. Ed è sempre la Germania che fin dal 1925 ha accolto l’insegnamento dell’igiene razziale nelle università tedesche»
La Germania durante la Prima Guerra concepì già l’Europa orientale come il suo "spazio vitale", il lebensbraun nazista, abitato solo da barbari e primitivi?
«Da tempo la Germania, attraverso le Leghe pangermaniste nate alla fine del XIX sec., pensava l’Est come un suo spazio naturale di espansione. Il disprezzo verso gli slavi era radicato. Allo scoppio del conflitto lo sguardo dei tedeschi su di loro è come quello del colonizzatore bianco che sbarca in Africa. Slavi ed ebrei gli appaiono popoli degenerati. Gli ebrei, per di più, vengono percepiti come pericolosi, specie dopo l’enorme flusso migratorio che li aveva condotti in Germania e Austria nell’ultima parte dell’Ottocento».
Nel riavvolgimento di questo nastro dell’orrore, lei rammenta lo sterminio degli Herrero (nelle colonie africane tedesche), ma più in generale il capitolo del colonialismo come un’altra tappa verso la concezione dell’esistenza di sotto uomini la cui vita non aveva alcun valore. E parla molto della responsabilità del darwinismo sociale. Ci può spiegare meglio?
«Ci fu un uso distorto della scienza. I successi ottenuti dalla biologia non furono sinonimi della costituzione del biopotere che considera l’uomo innanzitutto un essere vivente e non pensante, segnando così la fine della sua centralità. Anche se il darwinismo sociale e razziale ha impregnato i paesi sviluppati di quest’epoca, solo alcuni di loro hanno spazzato via le barriere etiche che fondano la nostra civiltà».
Al di là dei principi di selezione e sterminio che presero piede in Europa tra Ottocento e Novecento, cosa scattò perché questi divenissero realtà massificata, Shoah?
«L’idea di selezione, ovvero di sterminio, è all’origine di un razzismo moderno che si basa su studi scientifici distorti. Quest’idea è inseparabile dall’Europa della rivoluzione urbana e industriale e del colonialismo che rimette in discussione l’eredità biblica e dell’Illuminismo per giustificare la sua impresa di dominio. Se si dimentica questa realtà, il trionfo del nazismo appare come un incidente incomprensibile. Come un sotto prodotto del periodo 1914-1918, della pace di Versailles o della Depressione. Una spiegazione davvero riduttiva anche se quei fatti storici hanno contribuito a tessere il dramma. Ma senza quel contesto anti-illuministico che in Germania assunse una forma più violenta che altrove, senza il movimento völkisch, il pangermanesimo, il luteranesimo non si capirebbe Hitler. E nemmeno senza lo studio della tradizione di obbedienza all’autorità, qualunque essa sia, o delle strutture del potere e della famiglia che caratterizzano la società tedesca. Nessuna spiegazione vale senza genealogia, che non costituisce da sola una interpretazione: perché il nazismo resta una rottura nella tradizione politica dell’Occidente. Fare l’archeologia del disastro non deve nascondere questa verità».
Dal Settecento all’anno Mille e prima, sono le Chiese a portare lo stendardo della demonizzazione di ebrei, omosessuali, streghe...
«Ogni piccolo europeo si è nutrito fin dalla più tenera età di un antigiudaismo dottrinario che si è depositato strato dopo strato negli intelletti. Un gruppo esiste solo a condizione di espellere da sé il proprio odio per proiettarli su un gruppo-vittima. I lebbrosi, gli ebrei, i devianti sessuali e le donne, costituiscono delle declinazioni di un’identica cultura del diavolo».
C’è differenza tra antigiudaismo e antisemitismo?
«Il termine antisemitismo fu coniato nel 1879 in Germania, e lascia intendere che esista una razza semita, quando invece esistono solo delle lingue semitiche. È una versione secolarizzata della giudeofobia. L’antisemita cammina nel solco della tradizione antiebraica della Chiesa, dalla quale si discosta appena. Se il rigetto basato sulla fede lascia una porta aperta all’ebreo perseguitato, il rifiuto basato sulla razza chiude tutte le vie d’uscita. Il sangue non si può cambiare. Rimane il fatto che dal XV secolo, la tradizione spagnola, l’interrogativo sull’ascendenza famigliare del convertito costituisce il primo passo verso il razzismo moderno».
Perché la teoria cospirativa che ha perseguitato l’ebreo europeo oggi è passata, più o meno tale e quale, nel mondo islamico?
«Numerosi modelli anti-ebraici propri del mondo cristiano sono passati oggi al mondo musulmano che nel XIX secolo ignorava l’accusa del crimine rituale, dell’avvelenamento dell’acqua, del complotto. Sono stati introdotti dalle congregazioni cristiane, e infatti allora erano gli arabi cristiani i più ostili agli ebrei. Ma le frustrazioni e i risentimenti che i paesi arabi islamici svilupperanno nei confronti del mondo occidentale nel XX secolo favoriscono la cristallizzazione di un potente antisemitismo. L’assenza di una rivoluzione illuministica, in grado di cambiare le mentalità che continua a ignorare la secolarizzazione e la laicità, rafforzata da un sentimento di umiliazione di una cultura a lungo dominatrice, sono elementi che spingono a non sopportare l’idea che l’"ebreo", creatura disprezzata, si emancipi dalla condizione di dhimmi, inferiore, a cui era relegato negli stati musulmani. La sua "uguaglianza" è vissuta come un’arroganza insopportabile. Il sionismo e Israele verranno a sovrapporsi a questo sentimento di umiliazione, dando il colpo di grazia a questo ethos dominatore. Così come l’hitlerismo aveva fatto dell’ebreo lo specchio dello smarrimento esistenziale dello spirito tedesco, e al contempo l’opposto della propria identità, il musulmano di oggi ha bisogno di Israele per esprimere le proprie contraddizioni verso il mondo moderno».
Quanto è pericoloso tutto questo?
«La letteratura politica di quel mondo, penso a Hamas e Hezbollah in particolare, all’Iran, è un incitamento al genocidio. Se preferiamo dar retta a quel potente bisogno che ha l’essere umano di essere rassicurato, ci si può persuadere che "tanto le cose finiranno per sistemarsi". Ma la storia è tragica e radicale».
Le voci dalla memoria
Le iniziative per il 27 gennaio,
Giornata del Ricordo della Shoah
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera 18.01.2009)
Furono novemila gli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento, quasi tutti ad Auschwitz-Birkenau. Per 15 anni lo storico Marcello Pezzetti è andato alla ricerca degli ultimi sopravvissuti e li ha convinti a ridestare nella loro mente le immagini di un viaggio agghiacciante: 105 testimonianze in presa diretta, delle quali ha lasciato intatto il sapore dialettale della gente comune e perfino alcuni accenti ironici paradossali. Ne è venuto fuori un libro, edito da Einaudi, unico nel suo genere che rende ancor più sconvolgente la realtà dell’Olocausto. Eccone alcuni stralci.
Marcello Pezzetti s’accende una sigaretta e mostra la scatola dei cerini, «non uso accendini né altro, porto sempre con me questi, e sa perché? Per Martino Godelli. Lui lavorava alla Rampa di Auschwitz-Birkenau, dove si fermavano i vagoni e avveniva la selezione verso il gas e i crematori: la Shoah è là». Sfoglia rapidamente le pagine, «ecco cosa dice Godelli: "Sapevo quando era un trasporto italiano, perché vedevo i cerini per terra. I cerini ce li hanno solo gli italiani, non esistono in nessun’altra parte del mondo. Allora mi allontanavo...”».
Bisogna vederlo, Marcello Pezzetti, mentre alza lo sguardo dal libro cui ha dedicato quindici anni e centocinque interviste, «Il libro della Shoah italiana», le lacrime agli occhi. È forse il massimo esperto al mondo di Auschwitz, storico del centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano (Cdec), tra l’altro insegna al Master di Roma Tre e allo Yad Vashem, è stato consulente di Spielberg e Benigni, è direttore del museo della Shoah che si sta costituendo a Roma, è autore con Liliana Picciotto del film «Memoria», nel ’99 ha scoperto la prima camera a gas nazista dove sorgeva una villetta di contadini polacchi. Sa tutto. Ma ora dice: «Non lo immaginavo neanche. Per me non è stato facile. Anche adesso è insopportabile. Racconto Auschwitz attraverso i loro occhi. Ed è peggio di quanto si possa credere. Molto peggio».
Nessun libro di storia, in nessun Paese, ha mai raccontato la Shoah così. E nessun romanzo. Lo stesso Primo Levi stava ad Auschwitz III e non vide mai Birkenau, il cuore della Shoah: Birkenau, «il bosco delle betulle», il campo di sterminio dove morirono un milione e 300 mila persone, di cui 1 milione e 100 mila ebrei. Il primo convoglio dall’Italia vi giunse il 23 ottobre ’43 da Roma, dopo la retata del 16 ottobre: su 1.020, tornarono 16 uomini e una donna. Dei 45 mila ebrei italiani ne vennero deportati un quinto, circa novemila, quasi tutti qui. E ora questo libro raccoglie le voci degli ultimi centocinque sopravvissuti, rintracciati per quindici anni in giro per il mondo, sessanta donne e quarantacinque uomini intervistati e filmati. Nel frattempo molti sono morti. Gran parte di loro non aveva mai raccontato. «Questo è un pezzo d’Italia. La gente non se ne rende ancora conto. Per questo non ho messo filtri: i romani parlano in romanesco, i triestini in triestino... Per la prima volta ci sono anche gli ebrei italiani di Rodi».
Una narrazione collettiva che si fa epos. Le testimonianze sono state scomposte e raccolte per argomenti: il mondo «prima», la vita quotidiana, il rapporto col fascismo uguale a quello degli altri italiani, e poi le leggi razziali, l’occupazione, Fossoli e la deportazione, Auschwitz e gli altri campi di sterminio, il ritorno, il dolore muto e i sensi di colpa. «Non c’è il lieto fine. Non c’è».
Ogni capitolo ha una brevissima scheda storica, poche righe. Poi la parola passa alle vittime. Voci che non offrono risposte facili. C’è la Chiesa indifferente e la Chiesa che aiuta. Gli italiani che salvano e i delatori, con nomi e cognomi. La «spontanea umanità di un popolo d’antica civiltà», come scriveva Hannah Arendt, e le miserie del nostro Paese.
Soprattutto c’è il racconto polifonico dall’interno di Birkenau. Cose mai lette: come le parole di Mengele sulla Rampa, l’inganno osceno del «campo di riposo» per i «vecchi» («dai 40, 45 anni»), quelli con l’aria malata, le donne con i bambini o incinte, «o anche così, senza nessun motivo »: tutti nelle camere a gas. E poi i Krematorium, gli «esperimenti» medici, il Kinderblock dei bimbi, l’orrore quotidiano del campo. «Questo te la fa vivere, la storia. Tu la vivi, la storia. È pazzesco ma è così». È un libro che toglie il sonno e dal quale non ci si può staccare. Un libro che va letto. Anche se si piange. Anche se talvolta, incredibilmente, si ride fra le lacrime per lo spirito dei sopravvissuti. In questa pagina riportiamo alcune voci, una goccia del mare.
Ma tra i tanti c’è una persona di cui parlare: il più piccolo ebreo deportato dall’Italia, figlio di Marcella Perugia, che nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, all’indomani del rastrellamento del ghetto e il giorno prima della partenza. Forse non arrivò neppure a Birkenau. Forse entrò nella camera a gas con la mamma. È rimasto senza nome. Il libro è dedicato a lui.
LE ORIGINI
«Siamo romani, di generazione in generazione. Io sono nato a Panico, cioè a dire a Vicolo delle Vacche. Era niente di meno che la casa appresso dove abitava papa Pio XII. Io, la generazione mia, abbiamo una discendenza di duemila anni... sono duemila anni che sono ebreo, e romano!» (Leone Di Veroli)
«Mio padre era medico e mio nonno era un giurista che proviene da Parenzo. Io frequentavo solamente ebrei di un ceto borghese, ma piuttosto alto». (Ottaviano Danelon)
(A Rodi) «Eravamo sei sorelle e un fratello. Parlavamo lo spagnolo, perché noi deriviamo dall’Inquisizione della Spagna». (Rosa Levi)
«Credevo soltanto in Dio fortemente, ma istruzione nun c’ho avuta. Se ci voleva cinque, dieci lire al giorno per mangiare, come potevo studiare l’istruzione? Mio padre era religioso, che il sabato nun lavorava pure, perché è peccato lavorare il sabato. Lavoravo io». (Raimondo Di Neris)
(A Biella) «Pensa, non avevi i regali di natale, a natale!» (Luciana Nissim)
(A Trieste) «Andavamo in tempio, ma no jerimo tanto inteligenti quela volta. L’ebraico no me ’ndava in testa: ciapà tante bachetàde, mama mia! Non me ’ndava e non me ’ndava, che Dio me pardoni! (Rachele Mustacchi)
«Premetto: nella via dove ero io ci adoravano; a scuola, invece, dicevano che noi avevamo ammazzato Gesù Cristo». (Romeo Salmoni)
I RAPPORTI COL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI
«Ero in un collegio nazionale a Tivoli. Fui avanguardista, avevo anche i gradi, smontavamo e montavamo il fucile, la mitragliera, facevamo i campi Dux e che altro... ero un fanatico del passo romano, di quella camicia nera! Nacqui e vissi in regime». (Eugenio Sermoneta) «Io fui tolto dalla scuola Metastasio di Roma. E così è stato e così fu, come diceva il faraone. Tanta amarezza, perché nun esiste che l’altri andavano a scuola e io no». (Giacomo Moscato)
«Mi ricordo il discorso di Trieste di Mussolini, ero sotto il palco, dove c’è guardia del corpo, tutti neri, e subito davanti era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: «Butì fora Levi!» E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: «Basta, qui siamo finiti!». (Italo Dino Levi)
I CATTOLICI
«C’avevo du’ sorelle. Dopo il 16 ottobre le hanno portate al convento di San Pancrazio, a Monteverde. Le hanno vestite da monaca e si son salvate». (Raimondo Di Neris) «Aspettavamo che succedesse qualche cosa, perché eravamo sotto il naso del Vaticano e il gruppo era composto di donne e bambini, perché i omini, chi s’era dato ai partigiani, chi s’era nascosto. Essendo tutte donne e bambini, aspettavamo la voce del Vaticano». (Settimia Spizzichino)
IL VIAGGIO
«Entrati nel vagone, abbiamo dato il posto vicino alle pareti alla gente anziana, perché potessero sedersi appoggiando la schiena; noi invece, i più giovani, ci siamo messi in mezzo. Di notte, ricordo che volevo andare da mia madre e non ci sono mai riuscita, perché per terra eran tutto corpi che cominciavano a gridare». (Elena Kugler)
«L’aria era irrespirabile, perché queste persone vecchie, fra cui una signora amputata, non riuscivano ad arrivare fino al buco per defecare, quindi c’erano escrementi dappertutto. Le feci... bisognava raccoglierle e portarle con un pezzo di legno in questo buco, ma rimaneva impregnato e quindi era una cosa paurosa». (Alessandro Kroo)
«Non direi che ci fosse la possibilità di scappare. Loro avevan detto: "Se qualcuno scappa, passeremo per le armi tutto il vagone!" Quindi c’era un controllo reciproco». (Luciana Nissim)
L’ARRIVO
«Siamo arivati ’a matina presso a Birkenau. Se vedevano migliaia in fila che andaveno, cantaveno canzoni che io nun capivo, andavano a lavorà ne le fabbriche. Poi se sentivano le urla dei cani e quando si sono aperti i vagoni... qualcuno cascava per tera, donne anziane, vecchi. Spartivano i bambini da le madri, il fratello dai fratelli, venivan divisi tutti. e noi ci presenro a bastonate e bisognava seguire il gruppo fino a l’entrata del campo». (Mario Spizzichino)
La nuova didattica voluta dalla Regione. Oltre 250 i progetti. E un volume ricostruisce la mappa dei deportati
In Toscana l’antirazzismo è ora materia scolastica
di Marco Gasperetti (Corriere della Sera, 18.01.2009)
Materia nuova. Vecchio nemico da combattere. Con un pensiero forte: studiare il razzismo, come la matematica, l’italiano e la storia. Nelle scuole toscane la «nuova didattica» partirà quest’anno grazie a un progetto della Regione Toscana presentato in estate al meeting antirazzista di San Rossore nel triste anniversario delle leggi razziali promulgate a Pisa settanta anni fa. Non solo teoria e chiacchiere, ma prassi e soldi (5 milioni di euro), un piano pragmatico, insomma, per un’offerta formativa che può coprire il 20% dell’orario scolastico. Psicopedagogia dell’antirazzismo. «Con l’obiettivo di far crescere insieme conoscenze ed esperienze culturali diverse - spiega il presidente della Regione, Claudio Martini - e cancellare per sempre odiosi luoghi comuni ». Analisi del Dna alla mano, oggi gli scienziati sono uniti nell’affermare che la razza umana è unica, senza differenze. «È grazie anche a loro che nelle nostre scuole si insegnerà la non differenza razziale e si smentirà chi afferma il contrario - spiega Martini -. E poi si parlerà di dialogo e convivenza comune e della società multietnica. Che non è qualcosa di ineluttabile da subire, ma una grande risorsa. Anche per il nostro paese».
L’insegnamento nelle scuole non è un’iniziativa isolata. Su razzismo, xenofobia e intolleranza, la Toscana lavora da anni e quest’anno sono più di 250 le iniziative culturali ed educative in cantiere. Con uno sguardo al passato e alla memoria. E a quella strada ferrata che da Firenze porta ad Auschwitz. Da sei anni il «treno della memoria » accompagna ogni anno centinaia di studenti nel campo di sterminio nazista. E da sei anni i ragazzi raccontano di aver imparato da quel viaggio più di mille lezioni. Ha scritto Francesca, 16 anni: «In quel campo, tra le baracche e il filo spinato, la mia anima di adolescente è stata trafitta. Per sempre. Mai più, vi prego, mai più».
Si riparte il 25 gennaio. Stazione di Santa Maria Novella: 500 studenti, 100 insegnanti. Visite ai campi di Auschwitz-Birkenau, concerti nella sinagoga Tempel di Cracovia, incontri con i deportati. E poi l’evento più emozionante davanti al Memoriale, dove ogni studente pronuncerà il nome di una vittima del campo. «Non è solo un rito o una celebrazione - dice l’assessore all’Istruzione, Gianfranco Simoncini -. Il treno è una staffetta della memoria. Oggi ci sono questi ragazzi, domani ce ne saranno altri, tutti saranno uniti dallo stesso ricordo, dalle emozioni intense». Educazione del fare e del partecipare.
C’è anche una terza via alla lotta al razzismo: quella storica. Enzo Collotti, professore emerito di storia contemporanea all’Università di Firenze, tra i massimi esperti internazionali di nazismo, fascismo e Resistenza, ha realizzato con la Regione un lavoro sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei dalla Toscana. Callotti è entrato negli archivi di Stato e ha pubblicato un’opera che non ha eguali. I suoi libri sono lì, pronti a essere consultati, oggi e per sempre. Un monumento all’antirazzismo, un inno alla tolleranza.
GIORNO DELLA MEMORIA: TRE PROBLEMI *
Giorno della memoria
di Stefano Levi Della Torre
La “Giornata della memoria” non può seguire un corso lineare. Mentre si estingue la generazione dei testimoni, cambiano gli interlocutori, la loro ricezione e le loro domande. Ci rivolgiamo soprattutto ai giovani, alle scuole, e con l’immigrazione cambiano la composizione culturale, le mentalità e le sensibilità delle società europee. Si infiammano i rapporti tra maggioranze e minoranze, e le rispettive pretese identitarie entrano in competizione. La stessa integrazione degli ebrei, già tradita dalle persecuzioni del xx secolo, si misura ora coi problemi dell’integrazione di altri gruppi e di altre comunità. Le memorie competono con le memorie, e lo statuto di “vittima”, che è andato crescendo di peso nell’immaginario simbolico, è sempre più conteso per la sua valenza identitaria e politica.
1. Memoria e globalizzazione
Lo sguardo spontaneamente eurocentrico con cui leggiamo Auschwitz è un ostacolo crescente alla comunicazione della memoria a chi viene da altre storie, da altre geografie, da altre tragedie. Ciò persino in ambito ebraico: per gli ebrei provenienti dall’Iran, o dalla Libia, o dalla Turchia, Auschwitz ha una risonanza diversa che per gli ebrei d’Europa. A maggior ragione ciò avviene per i non ebrei. Sempre più Auschwitz si espone al confronto con altri contesti, altri stermini, altri genocidi, nello spazio e nel tempo.
Il concetto di unicità della Shoà è scosso dalle associazioni di idee e di immagini degli interlocutori, che sanno di altre stragi, o ne fuggono. È d’altra parte un concetto già viziato quando chiuda la Shoà in se stessa, specie a sé ed esclusiva, muta all’insegnamento se autoreferenziale, autistica, restia a misurarsi con altre tragedie (sia pure minori) del mondo. Più fecondo il motto di Primo Levi, implicita critica dell’unicità esclusiva: È successo, dunque può di nuovo succedere. E infatti, se non adesso per noi, per altri. Più che un fatto unico, la Shoà è il culmine di una catena senza fine. Questo è il paesaggio che dobbiamo mostrare, per ribaltare la competizione tra le vittime in solidarietà e reciproco riconoscimento tra le vittime.
2. Il nazismo come “questione ebraica”
La memoria dello sterminio nazista tende a specificarsi sempre più come “memoria ebraica”, e la Shoà sempre più si presenta come metonimia del Nazismo, la parte per il tutto, riassunto esauriente che oscura nel suo orrore estremo ogni altro aspetto: l’aggressione e la guerra, la re-introduzione in Europa dello schiavismo di massa (tema attualissimo), la strage di milioni di oppositori politici, civili e militari...
La Shoà, in quanto crimine contro gli ebrei, votati con gli zingari non allo sterminio ma propriamente al genocidio, tende ad oscurare nella sua specificità ebraica il suo stesso carattere di crimine contro l’umanità. (Recentemente, un assessore ben intenzionato di Rieti adottò per una meritoria campagna per l’occupazione il motto Il lavoro rende liberi, che gli suonava bene e del quale non ricordava la storia: fu chiesta scusa agli ebrei, non all’umanità). È come se gli ebrei, per “quota di maggioranza”, avessero assunto l’esclusiva di Auschwitz, e Auschwitz fosse diventato il monumento al narcisismo dolente degli ebrei; è come se agli ebrei, per il prestigio simbolico (cristico?) di vittime designate, fosse conferito il privilegio di giudici della storia. Ma il privilegio è un’arma a doppio taglio, funesta per gli ebrei, come la storia insegna.
Il termine Shoà, assunto a metonimia dei crimini nazisti, rischia di far del Nazismo una questione ebraica, a cui gli altri possono assistere magari con partecipazione, ma dall’esterno, da spettatori. E in definitiva come giudici terzi tra ebrei e nazisti.
3. Vittime e carnefici: la giornata della memoria come tribunale della storia
Perché il mondo conosca se stesso (Primo Levi): giustamente la memoria della persecuzione e dello sterminio vuole essere un insegnamento sul prodursi di un male storico. Ma in forma più o meno esplicita parla anche del bene, quanto meno dei principi elementari (non uccidere, non fare ad altri... ecc.) che hanno ispirato chi allora salvò delle vite e che stanno alla base del nostro giudizio di condanna dei crimini nazisti.
Ora, una domanda inevitabile e sempre più diffusa nel cuore e sulla bocca degli interlocutori è, come è noto, questa: come mai nel conflitto israeliano-palestinese (ora anche libanese) le vittime sono diventate carnefici?
A parte ogni analisi storica e politica di un conflitto asimmetrico ma non unilaterale, dei diritti e dei torti reciproci, ecc,a questa domanda è consuetudine rispondere (in forma indignata o dialogante) secondo il registro del male: la violenza (o, per chi preferisce, gli “abusi di legittima difesa”) che Israele esercita nei territori occupati non è confrontabile con Auschwitz: si utilizza, così, l’incommensurabile per aggirare in realtà la domanda. La quale ha un’altra faccia, meno esplicita, che si muove sul registro del bene, dove i criteri non sono messi alla prova dell’estremo, ma della dignità elementare: come applicate a ciò che riguarda voi quei principi semplici, in base ai quali giudicate ciò che è male?
È una domanda a cui sempre meno si potrà sfuggire. In virtù di Israele che ha conferito all’essere ebrei anche una responsabilità politica che inevitabilmente si espone al giudizio, sempre meno gli ebrei potranno valersi del prestigio morale e simbolico delle vittime innocenti. E la “Giornata della memoria”, per la sua stessa natura di momento non solo informativo ma anche giudicante, si ritorcerà da giudizio su altri a giudizio anche sugli ebrei.
Se non saremo all’altezza di rispondere adeguatamente alla domanda su vittime/carnefici, essa rifluirà sul passato modificando come un revisionismo diffuso e interiore la percezione stessa di ciò che è stato. E se il Nazismo verrà riassunto come “questione ebraica”, la Shoà si ridurrà a un corto circuito, a un “regolamento di conti” tra ebrei e nazisti a cui “gli altri” potranno assistere con il sollievo di un’estraneità a entrambe le parti, con la presunzione della propria innocenza e con la tranquilla coscienza di giudici terzi.
* Fonte: LA POESIA E LO SPIRITO
Shoah. Quando non ci saranno più testimoni
Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria. Un libro di David Bidussa affronta la retorica
ufficiale del genocidio ebraico e il ruolo della storia
Questa data non è il giorno della commemorazione dei morti, ma del ricordo per i vivi
Tutto è successo perché il sistema consentiva la non responsabilità individuale
Anticipiamo una parte del libro di "Dopo l’ultimo testimone" (Einaudi, pagg. 136, euro 10) da oggi in libreria
di David Bidussa (la Repubblica, 16.1.2009)
Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire «Mai più!» né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori. (...)
Nel Giorno della memoria non ci interroghiamo dunque sui sopravvissuti o sui testimoni diretti, ma su noi stessi, venuti dopo, e che da quell’evento siamo segnati, qualunque sia il nostro rapporto individuale e familiare con esso. Sia che siamo figli delle vittime, dei carnefici o di quella ampia fascia di zona grigia, di mondo degli spettatori, che si trova in mezzo. Insieme a noi, ci sono i testimoni culturali, ovvero gli autori della produzione storiografica, figurativa, letteraria, cinematografica, che accompagnano l’estrinsecazione delle testimonianze dei sopravvissuti.
In sostanza non c’è da attendere un domani, più o meno lontano, per chiedersi che cosa faremo dopo che l’ultimo testimone sarà scomparso. Quel passaggio si è già consumato. Del resto, a riprova, la notizia della morte - avvenuta il 17 giugno 2008 - di Henryk Mandelbaum, l’ultimo sopravvissuto in Polonia del «Sonderkommando» del campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau, non ha modificato il quadro emozionale, non ha segnato nella coscienza pubblica un «prima» e un «dopo».
Si è inaugurata l’età della postmemoria, una stagione che obbliga a confrontarsi con le domande che questa condizione pone rispetto alla conservazione di un certo passato e sugli strumenti che noi abbiamo per indagarlo, comprenderlo e rappresentarlo. La nostra attualità è attraversata da diversi scenari che rischiano di trasformare quest’attenzione in una nuova eclissi.
Il primo riguarda i tempi della memoria. Il ricordo del genocidio ebraico ha avuto tempi lunghi prima di rendersi autonomo e «visibile» nella coscienza pubblica. Ha avuto un suo risveglio a partire dagli anni ’80, sull’onda anche della spettacolarizzazione dovuta a Holocaust (il serial televisivo che nel 1978, negli Stati Uniti come in Europa, ha inaugurato una nuova stagione nella percezione del genocidio ebraico). Da allora quel tema è stato al centro della discussione pubblica, anche «riscoprendo» le domande di chi a lungo e con pazienza aveva indagato intorno all’evento nell’indifferenza generale. L’esempio più evidente è proprio nell’opera unanimemente oggi riconosciuta come la più esaustiva, ovvero la monografia di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, composta in solitudine, ignorata negli anni ’50, pubblicata nel 1961 nell’indifferenza generale e infine «scoperta» nel 1985.
Tornerò più in dettaglio su Hilberg, ma è importante sottolineare come la ricerca storica talora viva di vita propria e non solo di spettacolarizzazione o di rapporto con le domande che la discussione pubblica suscita. Quelle domande riguardano lo spessore, la fisionomia, l’estensione e la tipologia della «zona grigia», una questione che resta in eredità a chi viene dopo e che, soprattutto, non ha il fascino né della celebrazione dell’eroe, né della consolazione della vittima. La storiografia quando ha un valore civile non consola, bensì pone domande, e probabilmente è anche per questo che nonostante tutti dichiarino di amare la storia, di provare per essa un interesse quasi morboso, poi tengono la storiografia a distanza.
Ci sono opere che bruciano ancora per le domande che pongono e perché rispetto a esse l’insorgenza morale non serve. E in ogni caso non è solo una questione morale. È una problematica che coinvolge il sentimento politico e, più generalmente, la mentalità diffusa, specie nel caso italiano.
Infatti, intorno al concetto di zona grigia, soprattutto nel modo in cui si è radicata quest’immagine nel senso comune in Italia, è venuta costruendosi una filosofia politica. L’espressione «zona grigia», creata da Primo Levi e originariamente riferita a coloro che nell’esperienza del Lager rappresentano l’area dei privilegiati nella complessa sociologia e gerarchia degli schiavi, nella storiografia sulla Resistenza e sulla guerra civile ha avuto uno slittamento di significato ed è perciò venuta a designare quella parte di popolazione che passivamente non si è schierata con nessuna delle due parti in campo. Una condizione inizialmente vissuta con disagio e poi, lentamente, rivendicata con orgoglio (...)
Il secondo scenario riguarda la centralità delle vittime. Nel corso degli ultimi due decenni la dimensione della vittima ha assunto una nuova fisionomia. Se a lungo la questione degli sterminî è stata pensata in relazione al termine di trauma - e dunque il problema e l’attenzione rispondevano all’esigenza di individuare strategie volte al recupero o al reinserimento -, la dimensione della vittima tende ora a essere presentata come una condizione non mutabile. La vittima nella comunità entra in ragione della violenza che ha subito e dunque per questo trova spazio e rispetto. Ma lentamente quella condizione si estende e genera un nuovo diritto: nello spazio pubblico comincia ad affermarsi la convinzione che solo presentandosi come vittime si avrà diritto alla giustizia.
È un meccanismo che lentamente dimentica il presupposto da cui era partito, legato all’eccezionalità, alla condizione estrema del sopravvissuto, ed estende così all’infinito la realtà traumatica. Trasforma una condizione fisica, oggettiva, in una psicologica.
L’effetto è la ripresa del meccanismo vittimario, che non è solo appannaggio dei sopravvissuti, ma anche e sempre più di coloro che hanno una visione paranoica della realtà, ossessionati dall’idea di forze potenti che agiscono contro la propria gente. Un’affermazione del processo di produzione delle vittime che elimina la dimensione storica e fattuale del suo realizzarsi in termini di atti, conflitti, figure, circostanze (e dunque non indaga su chi siano i persecutori, non descrive le azioni dei carnefici, bensì destoricizza perché riconduce a sé tutta la vicenda) e spiega, ad esempio, perché paradossalmente la richiesta di riflessione sulle vittime, che pure esigerebbe una maggior produzione di analisi storica, chiami in causa altre piste di indagine - la psicologia, la psicoanalisi, la teologia - ma significativamente eviti la storia sociale e si guardi bene dall’affrontare la storia dei comportamenti.
Paradossalmente, solo portando al centro le figure dei carnefici o della macchina dello sterminio, quella domanda di storia ha avuto la possibilità di sostenersi.
Nello specifico è stato da una parte La banalità del male di Hannah Arendt ad aprire questa possibilità, proprio perché al centro del libro non erano poste le vittime ma la macchina distruttiva, e successivamente si è aggiunto il saggio di Christopher Browning, Uomini comuni, che ha consentito una nuova stagione di indagine culturale, storica e sociale sugli sterminî. In tutti e due i casi il cuore dell’indagine riguarda la sfera dei carnefici e degli esecutori, la macchina burocratica come luogo produttivo della storia. Un nuovo aspetto che chiama in causa la nostra quotidianità ma che, di nuovo, evitiamo di mettere al centro della nostra riflessione, sulle forme del consenso, o su come si produce la morte di massa nell’età della tecnica. Un evento che evoca il principio della cooperazione industriale. La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso prodotto perché migliaia di individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale.
Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra individui. Il genocidio ebraico, come ricorda lo storico Pierre Vidal-Naquet, è un evento possibile, e realizzabile, perché basato sullo stesso principio organizzativo: un sistema che consente la non responsabilità individuale nello sterminio.
Giorno della Memoria 2009
venerdì 23 gennaio, ore 9.00
Teatro Derby
Via Mascagni, 8 - Milano
CONVEGNO INTERNAZIONALE
LA MEMORIA E L’ATTUALITA’ DEI GIUSTI
COME VEDERE IL NEMICO CON GLI OCCHI DELL’AMICO
In occasione del Giorno della Memoria 2009, Ga.Ri.Wo. (Comitato per la Foresta Mondiale dei Giusti) e l’UGEI (Unione Giovani Ebrei Italiani) promuovono, con la collaborazione dell’Unione delle Comunità ebraiche e della Comunità ebraica di Milano, il Convegno internazionale “La memoria e l’attualità dei Giusti. Come vedere il nemico con gli occhi dell’amico”, per indicare l’esempio morale dei Giusti alle nuove generazioni. Al Convegno interverranno autorevoli personalità internazionali, sia del mondo accademico che impegnati nella battaglia per la tutela dei diritti umani e nel dialogo per la riconciliazione nella società civile.
Programma
Saluti
Manfredi Palmeri, Presidente del Consiglio Comunale di Milano.
Claudia De Benedetti, Vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche d’Italia.
Interventi
Gabriele Nissim
Scrittore e presidente Ga.ri.wo., autore del libro Il tribunale del bene.
Robert Satloff
Storico e direttore del Washington Institute for Near East Policy (WINEP), autore del libro Tra i Giusti - Storie perdute dell’Olocausto nei paesi arabi.
Raymond Kevorkian
Storico, docente all’Université Paris-VIII-Saint-Denis, direttore della Bibliothéque Nubar Armena, autore del libro, Le Génocide des Arméniens (Broché) Odile Jacob · 2006.
Raf Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano.
Svetlana Broz
Scrittrice, direttrice di Ga.ri.wo. Sarajevo, autrice del libro I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco, edizioni Erickson, Gardolo, 2008.
Daniele Nahum
Presidente Unione Giovani Ebrei d’Italia.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
Diversità e Sicurezza Culturale
Una risorsa contro l’Antisemitismo e il Razzismo
SHOAH E FALCE E MARTELLO
Non dimentichiamo di dire la verità ai nostri studenti al di fuori di meschini intenti demagogici
Qualcuno, durante la visita al campo di sterminio di Auschwitz, ha proposto di eliminare il simbolo della falce e martello dal Padiglione Italiano e ha sostenuto che in quel monumento si è utilizzato l’orrore del nazismo per coprire il comunismo e usare la falce e martello come simbolo positivo. Chi ha detto questo ha insultato le stesse vittime che è andato ad onorare fra cui gli autori di quel monumento.
Chiariamo subito un punto: la falce e martello e un simbolo positivo e non c’e da scandalizzarsi. Può darsi che la proposta di eliminare i simboli del comunismo o dei regimi totalitari sia pienamente giustificata dalla storia ma in ogni caso tutto questo non ha nulla a che vedere con Auschwitz, con lo sterminio degli Ebrei, con la Shoah e il prezzo da pagare per manipolare la storia sono demagogia e opportunismo.
La falce e martello e il simbolo del movimento operaio e della classe lavoratrice e rappresenta l’unita tra i lavoratori agricoli e industriali. Fu condiviso dalle organizzazioni socialiste e comuniste anche ebraiche e sioniste ed e stato per molti sinonimo di liberazione. La falce e martello e stato il simbolo del socialismo e del comunismo divenendo emblema dei partiti politici e, più tardi, dei paesi del socialismo reale. La falce e martello e rappresentata in numerosi altri simboli ancora vigenti, come ad esempio la bandiera di stato austriaca.
Ma, in particolare ad Auschwitz, la falce e martello ricorda l’Armata Rossa che ha liberato il campo il 27 gennaio del 1945, data oggi celebrata ogni anno come Giornata della Memoria; la falce e martello è anche il simbolo delle donne e degli uomini, comunisti e socialisti, che sono stati perseguitati politici dai nazi-fascisti e sono morti nei campi; la falce e martello ricorda anche i 20 milioni di morti russi che hanno combattuto contro i nazi-fascisti.
E’ inaccettabile fare della falsa ideologia in un luogo della memoria o raffrontare con faciloneria il nazismo al comunismo e non e vero che la memoria appartiene a tutti gli schieramenti politici perché appartiene ad un solo schieramento: ad Auschwitz esiste la memoria dei perseguitati che ricorda le vittime massacrate e la memoria dei persecutori che ricorda cristiani, fascisti e nazisti con i rispettivi simboli della croce, della croce celtica e della croce uncinata. Queste semplici e veritiere considerazioni non hanno niente a che vedere con gli schieramenti ideologici o politici attuali.
Ad Auschwitz la falce e martello rappresenta, volente o nolente, la liberazione e i liberatori e, ad onore di verità, invece di eliminare falce e martello, come qualcuno ha suggerito, bisognerebbe rimuovere le croci, incomparabile simbolo della persecuzione antiebraica in tutti i secoli.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
gherush92@gherush92.com
Segue un brano di Primo Levi da La Tregua:
Il disgelo
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi e lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidita dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Cosi per noi anche l’ora della liberta suono grave e chiusa, e ci riempi gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piu sarebbe potuto avvenire di cosi buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed e questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa e una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volonta di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Percio pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.
Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi.
Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un «triangolo rosso», un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i «politici» tedeschi erano assai raramente ospiti dell’infermeria, in cui d’altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l’unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria.
Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall’arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia. Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gemelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato. Arthur per l’ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto «vieux dégoutant» e «putain de boche»; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorita, aveva preso l’abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l’unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l’unico situato nelle vicinanze di una stufa.
Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalita del Lager, altre sfumature non c’erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosita né l’occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di liberta.Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla liberta ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte.
Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.
...
Il mattino ci portò i primi segni di liberta. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggi come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pieta e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunzio che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e la per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e meta della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima liberta, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «Il lavoro rende liberi».
Oggi e domani incontro internazionale a Mauthausen nel 63 esimo
anniversario della liberazione del campo di concentramento austriaco
Lettera di Napolitano ai giovani
"Ricordare la Shoah è un dovere"
Lungo messaggio scritto ai giovani italiani in pellegrinaggio
"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario"
ROMA - "Cari giovani, trasmettere da una generazione all’altra la memoria del nostro passato non è un rito che si tramanda. E’ un dovere che si ha il dovere di adempiere...". E’ un dovere, quindi, ricordare sempre e comunque e possibilmente con la stessa intensità e indignazione che la Shoah ha sterminato sei milioni di ebrei. Le centinaia di giovani italiani che oggi e domani partecipano nel campo di prigionia nazista di Mauthausen alla giornata del ricordo delle vittime del nazismo saranno "accompagnati" in questo viaggio da una lettera-messaggio del presidente Giorgio Napolitano.
L’incontro internazionale avviene nel 63 esimo anniversario della liberazione dei prigionieri del lager e, simbolicamente, nel luogo dove del campo dove è custodita l’urna con le ceneri trovate il 5 maggio 1945 all’interno dei forni di Mauthausen. Nel campo di concentramento austriaco, costruito nel 1938, e in quelli adiacenti, furono uccise oltre 100.000 persone. Il 5 maggio 1945 venne raggiunto da una truppa di carri armati americani: la data viene da allora ricordata come Giornata della liberazione. La due giorni ha carattere ecumenico. Sono previsti gli interventi del vescovo della diocesi di Linz, monsignor Ludwig Schwarz, dal metropolita greco-ortodosso Michael Staikos e dal vescovo evangelico Michael Bünker. La commemorazione proseguirà con un discorso del cancelliere federale Alfred Gusenbauer e gli interventi di Hans Marsalek, ex-prigioniero del lager e del presidente del "Comité International de Mauthausen", Walter Beck di Praga. Poi mostre, libri e altri interventi.
La lettera del presidente Napolitano sarà letta ai ragazzi italiani nel momento del raccoglimento. Una tempistica che farà risaltare ancora di più il contenuto del messaggio profondo e importante che il Presidente ha voluto scrivere a questi ragazzi.
"La Shoah tragedia immane". "Cari giovani, la vostra partecipazione all’incontro internazionale di Mauthausen vi porta molto lontano dalla realtà odierna dell’Europa unita, dell’Europa di pace e armonia fra i popoli, in cui voi avete la fortuna di vivere. Eppure, non è molto il tempo trascorso da quando questo era un luogo di sterminio di moltitudini di esseri umani: donne e uomini che venivano trasportati da ogni parte d’Europa in questo e in altri lager nazisti per trovarvi la morte, come animali condotti al macello. La Shoah, l’eliminazione di tutti gli Ebrei, decisa e realizzata dalla Germania nazista con l’appoggio dei regimi suoi alleati, fu una tragedia immane - si legge ancora nella lettera di Napolitano- che non ha precedenti nella storia d’Europa. Le vittime furono 6 milioni".
Non si può accettare ciò che è stato. "Non e’ facile per voi accettare ciò che è stato - scrive ancora il presidente della Repubblica - trovare una risposta alle domande che in questo luogo e in questo momento vi ponete. Sappiamo bene ciò che voi oggi vi chiedete, perchè, prima di voi, noi ci siamo posti le stesse domande. Come ciò è potuto accadere? Come è potuta scaturire, dall’interno della nostra antica civiltà, e come può essersi imposta a popoli di grandi tradizioni culturali, una tale dottrina di morte?". Ed ancora, "come puo’ essere stata organizzata una tale gigantesca macchina operativa per l’annientamento preordinato di milioni e milioni di persone, private della loro identità umana ancor prima che della loro vita?".
Levi e Wiesel. Napolitano sottolinea che "sia Primo Levi che Elie Wiesel hanno detto: comprendere è impossibile; conoscere è necessario. Questo- osserva il presidente della Repubblica- è il compito amaro, angoscioso, che voi oggi affrontate. Vi è stato proposto, e voi avete accettato di compiere, questo pellegrinaggio, nella convinzione che occorre conoscere il passato, affinchè esso non possa ripetersi".
Il dovere della memoria. Secondo il capo dello Stato, "trasmettere da una generazione all’altra la memoria del nostro passato non è un rito che si tramanda. E’ un dovere che si ha il dovere di adempiere. Non dimenticate- si legge ancora- che fu la scoperta dei campi di concentramento e di sterminio, insieme con lo spettacolo delle immani distruzioni belliche, e il ricordo delle decine di milioni di morti provocate dai conflitti del secolo, che spinse i sopravvissuti, di tutte le nazioni, a dire: mai piu’ guerre tra noi".
Un’opera che va completata. Subito dopo la scoperta dei campi, appena mezzo secolo fa, continua il Presidente, "ebbe inizio l’opera non facile di costruzione di nuove istituzioni di pace, ancora incompiute, ma oramai estese a quasi tutti i popoli del nostro continente. Toccherà a voi - e’ l’esortazione finale ai giovani in visita a Mauthausen - nel corso della vostra vita, il compito di completare l’opera; e quello, forse ancora piu’ difficile, di portare, con impegni ed azioni concrete, in un mondo ancora insanguinato da troppi conflitti, il nostro messaggio di pace".
* la Repubblica, 17 maggio 2008
Quelle leggi razziali "italiane"
di ELENA LOEWENTHAL (La Stampa, 8/9/2008)
Le vie delle parole sono, talvolta, imperscrutabili. Nel linguaggio della politica, che si fa alla giornata su improvvisazione dettata dalle circostanze e ciononostante lascia il segno, l’aggettivo irrituale ha ormai un che di scostante. Designa qualcosa di quasi inammissibile, secondo le regole del gioco. Le parole pronunciate qualche giorno fa dal presidente Napolitano dando il via al Quirinale alle celebrazioni per il Giorno della memoria, riportano invece alla valenza positiva di questo termine. Nel contesto di una ricorrenza che è ormai il (troppo) capiente contenitore di cerimonie monotone e parole che a forza di ripeterle suonano a vuoto, il suo breve discorso è stato decisamente irrituale. Ma nel senso migliore e soprattutto più profondo che l’aggettivo porta con sé: quello di uscire dagli schemi del rito per entrare nel contesto del significato, rammentando all’Italia le sue leggi razziali. La memoria non è di per sé terapeutica. Come diceva Primo Levi, il fatto che sia accaduto non azzera, anzi moltiplica le probabilità che accada di nuovo. La memoria non è uno scudo inossidabile, di fronte al male. È una necessità, forse un tributo a chi non c’è più. Ma di per sé non serve affatto, se non a risvegliare sentimenti inesprimibili. La percezione della storia attraverso la memoria è invece istruttiva: guardare al passato per capire che cosa e come siamo. Da dove veniamo, insomma. E il presidente Napolitano ci ha ricordato che l’Italia di oggi viene anche dall’infamia delle leggi razziali.
Gli italiani amano denigrarsi, sparlano del proprio Paese e delle sue disfunzioni con un narcisistico compiacimento. Guai però a toccarne gli aspetti più profondi, il «carattere nazionale», dentro il quale vige tenace l’immagine degli italiani «brava gente». Quasi incapaci di far male a una mosca, e quando capita è per cause di forza maggiore. Eppure, a dispetto di questo inossidabile stereotipo, settant’anni fa esatti questo Paese è stato capace di sfoderare una legislazione razziale che non fu seconda a nessuno. Nemmeno alla Germania nazista, se restiamo sul piano dei documenti giuridici con cui la storia si racconta.
«Leggi che suscitarono orrore negli italiani rimasti consapevoli della tradizione umanista e universalista della nostra civiltà», ha ricordato il presidente Napolitano parlando delle leggi razziali del 1938 come mortali apripista della Shoah. È tutto terribilmente vero. Il censimento degli ebrei italiani che nell’agosto di quell’anno fu l’astuta premessa per una applicazione «a tappeto» delle leggi razziali emanate nell’autunno successivo, costituì dopo l’8 settembre 1943 un comodo strumento per i tedeschi a caccia di stücke («pezzi» come loro chiamavano i deportati) per i vagoni merci, i campi di sterminio, i forni crematori.
Le leggi razziali, in cui «Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia - imperatore d’Etiopia» decreta e firma i provvedimenti insieme con Mussolini, sono un vero monumento all’infamia. Stabiliscono una serie di restrizioni che vanno dal divieto di contrarre matrimonio misto a quello di firmare manuali scolastici, proibiscono agli ebrei italiani di avere dipendenti, di essere dipendenti di enti statali, banche, assicurazioni, di prestare servizio militare, possedere terreni e aziende. Pretendono, con brutale ottusità, di definire l’appartenenza ebraica in termini di sangue (art. 8, comma a: «È di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica») con paradossale precisione (comma c: «È considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre»).
Queste leggi, tanto spietate quanto assurde, non furono un meteorite precipitato sul ridente pianeta Italia da una remota e maligna regione siderale. Furono il prodotto di forze congiunte: il regime fascista, la consenziente monarchia (i cui degni eredi, forse perché non hanno più nessun regio decreto da firmare, si son dati allo sport, con risultati davvero eccellenti nel lancio di boutades) e il popolo italiano. Stretto nelle maglie di questa orribile storia, che tuttavia è proprio la sua.
Quando l’autore israeliano aveva sette anni scoppiò la guerra che travolse la sua famiglia.
Affrontò il dolore con il silenzio. Poi scelse di scrivere
Un passato che scotta
La Shoah e il potere della parola
"Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all’altro, tutti carichi di un’immensa paura che non sapevano dove lasciare"
"Una sera ero così sperso che mi misi a scrivere su un pezzo di cartone i nomi dei miei genitori: come per miracolo li riportai alla vita"
di Aharon Appelfeld *
Comincerò da me stesso. Sono nato nel 1932 nell’Europa dell’Est.Avevo sette anni quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre fu assassinata, fui separato da mio padre e, dopo essere fuggito dal campo, trascorsi gli anni di guerra nel sottobosco della malavita ucraina. Provengo da una famiglia abbiente e di larghe vedute, fedele ai principi della civiltà. Brusco fu il passaggio dal mondo del diritto e della legalità a quello opposto, e richiese un rapido adattamento. Una tale esperienza biografica non può certo dirsi unica: i bambini sopravvissuti alla Shoah hanno storie simili alla mia. La questione che si pose allora e che tale è rimasta, sta in questi termini: come si fa ad affrontare un’infanzia del genere? E ad un altro livello: quale potrà mai essere il significato di un’esperienza tanto terribile?
Come si fa a condurre una vita degna, dopo un’esperienza di questo tipo? O, come mi ha detto una volta un amico, anch’egli un sopravvissuto: chi è stato in campo di concentramento non riesce ad accomodarsi in poltrona e sorseggiare il tè del pomeriggio come se niente fosse, come se non fosse stato laggiù.
Nel 1945, alla fine della guerra, avevo tredici anni. Che fare? Dove dirigermi? Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all’altro, tutti carichi di un’immensa paura che non sapevano dove abbandonare, come liberarsene. Le grandi catastrofi ci lasciano pesanti e ammutoliti. Come si fa a dire alcunché di fronte alla morte di un uomo, e a maggior ragione davanti a un cumulo di cadaveri? Nulla di che stupire, se allora le parole mancassero, quasi non se ne dicessero. La parola, in fin dei conti, è destinata a colmare le nostre necessità esistenziali; eppure tace quando si avvicina agli abissi dell’animo, e a maggior ragione se si tratta di immensità metafisiche. Erano colmi, sì, quegli abissi: ma nessuno aveva ancora inventato gli strumenti capaci di far risalire quel che si era annidato laggiù, in fondo. Di quei tempi di marce interminabili, ricordo volti indecifrabili e passi pesanti, ma non una domanda, non un interrogativo su ciò che era appena successo: come se il silenzio fosse la sostanza del mondo. Del resto, che cosa può esserci da dire di fronte alle forze irrazionali e irrefrenabili, del terrore? Era tutto così inconcepibile, da zittire non solo la parola ma anche il dolore.
Mi ritrovai orfano, e non solo di papà e mamma. Valori e convinzioni sembravano tutt’a un tratto avventati, quasi ridicoli di fronte ai mostri umani che ci avevano tormentato. Quale potrà essere il tuo mondo, d’ora in poi? Sprofonderai nel pozzo del pessimismo, in quello del cinismo, tradirai i principi dei tuoi genitori, che coltivavano l’umanesimo liberale, tradirai la fede dei tuoi nonni, vissuti con una religiosità tollerante e moderata, tradirai anche gli zii comunisti che avevano dato la vita per il riscatto dell’uomo?
In una di quelle cupe sere in cui mi sembrava che il ghetto e il campo non mi avrebbero abbandonato mai più, che avrei continuato per sempre a trascinarmi dietro quella solitudine di orfano, smarrito in un mondo che aveva smarrito i propri valori, ebbene quella sera mi misi a scrivere su un pezzetto di cartone i nomi dei miei genitori, quelli dei nonni e degli zii e dei cugini. Ero così sperso che volevo, attraverso la scrittura, accertare che quei nomi fossero esistiti, che la famiglia da cui provenivo non fosse una finzione, parto della fantasia.
Allora, come per miracolo, scrivendo i loro nomi li riportai alla vita: me li ritrovai davanti, proprio come li rammentavo. Per un attimo non fui più un orfano ma un ragazzino circondato da persone che gli volevano bene. Ero talmente felice che nascosi il pezzo di cartone dentro la fodera del mio cappotto, come fosse stato la chiave di uno scrigno pieno di preziosi segreti. Da quel momento, ogni volta che la solitudine o l’angoscia mi mordevano, tiravo fuori quel pezzo di cartone, leggevo ciò che vi stava scritto e rivedevo i genitori che avevo perduto.
La scrittura non è magia ma, evidentemente, può diventare la porta d’ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l’interiorità. Ma una lunga strada separava quel brandello spiegazzato di cartone sul quale avevo annotato i nomi dei miei familiari, dalla scrittura vera e propria. Tutto quello che avevo scoperto lungo gli anni di guerra stava chiuso dentro di me, era un macigno scuro: ogni volta che ripensavo a ciò che avevo passato nel ghetto, nel campo e nei boschi, le immagini che affioravano in me non erano meno terrificanti di quanto non lo fosse stata la realtà. Per non affrontare quegli incubi scappavo via di corsa, cercando di staccarmene. Ma questo metodo funzionava solo in parte. Il passato, anche il più tremendo, non si congeda mai facilmente.
In termini generali, diciamo che la letteratura racconta delle storie. Ma quelle degli scampati ai campo e ai boschi, non erano storie. Piuttosto, un cumulo di braci crepitanti che al solo toccarle ustionavano. Che cosa c’è da raccontare, qui? Forse, raccontare quel terrore è una profanazione.
Quanto tempo è durata, quell’angoscia. Le peregrinazioni per l’Europa terminarono nel 1946, quando arrivai in Palestina. Nella Palestina del 1946 c’era un’atmosfera pionieristica. Questo slancio mirava a costruire un ebreo nuovo, spogliato delle paure del passato e rivolto al presente, al futuro. Il passato ebraico era considerato una sorta di maledizione, da cui affrancarsi: sullo sfondo di questi ideali pionieristici, l’esperienza del passato - i ghetti e i campi - , era carica di un’onta che andava cancellata, e il più in fretta possibile. All’atto pratico, come si fa a estirpare dall’anima tutto quello che si è attraversato durante cinque lunghi anni, ed innestarvi al suo posto un idillio pastorale? Come si fa a dimenticare una parte importante della propria vita? Alcuni lo fecero, ma quella rimozione costò loro un caro prezzo. Una persona senza passato, foss’anche un passato terribile e infame come quello, è una persona menomata. Senza contatto con i genitori e gli avi, senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono, si è solo un corpo vivo, ma senza un’anima.
La mia giovane vita incontrò però anche delle luci. Lavoravo nei campi, imparai ad amare le piante e gli alberi, e c’erano momenti in cui avevo il presentimento che la terra avrebbe guarito le mie ferite, che sarei diventato un vero e proprio contadino, come tutti gli altri che non avevano conosciuto la guerra.
Di notte, solo con me stesso, scrivevo delle lettere a mia madre. Sapevo che era stata trucidata, e tuttavia mi crogiolavo in quest’affetto. Le lettere erano una serie di minuzie insignificanti, dettate dalla mia quotidianità. Avevo l’impressione che se per chissà quali vie le mie lettere le fossero arrivate, ne sarebbe stata felice. Notte dopo notte, quella mia frenetica attività di scrittura mi riportava al mondo che un tempo era stato il mio.
(Traduzione di Elena Loewenthal)
* la Repubblica, 07.05.08.
Stasera, alla Reggia di Venaria di Torino, serata in onore degli ospiti della Fiera del Libro dove lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld terrà, alle 20, una lectio magistralis che qui anticipiamo in parte. Domani, invece, alle dieci di mattina, inaugurazione ufficiale della Fiera alla presenza del Presidente della Repubblica.
Una questione di memoria
di Furio Colombo *
Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.
Ma andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).
Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.
Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.
Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.
Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.
L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».
Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».
Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.
colombo_f@posta.senato.it
* l’Unità, Pubblicato il: 02.02.08, Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.38
BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE *
Quasi sei decenni ci separano dai giorni in cui le armate alleate raggiunsero i campi di sterminio nazisti restituendo la liberta’ ai pochi prigionieri scampati al massacro: da allora la memoria della Shoah rappresenta un elemento costitutivo dell’identita’ per una parte cospicua degli ebrei. Ormai la generazione dei testimoni diretti (su entrambi i versanti: quello delle vittime e quello dei persecutori) va estinguendosi.
Ma anche gli ebrei della nuova generazione, apparentemente estranei alla paura, affrancati - tanto nella diaspora quanto in Israele - dalle ansie degli antenati, continuano a confrontarsi con la memoria della Shoah, condannati a ritornarvi lungo la propria cronistoria, nelle proprie associazioni mentali, nelle proprie decisioni morali, nei codici di comportamento. "Una mia amica, sopravvissuta come me alla Shoah - scriveva Doris Papier in una lettera da Herzliya (Israele) al "Jerusalem Post" nel dicembre 1990 -, ha visitato recentemente la localita’ nella quale erano vissuti e dove vennero assassinati i miei famigliari. Il luogo non e’ lontano da Rovno, in Ucraina. Mentre si trovava la’, la mia amica registro’ con una cinepresa la boscaglia in cui migliaia di ebrei furono passati per le armi".
E soggiungeva: "Quando vidi il filmato rimasi inorridita nell’osservare che un po’ ovunque, sul terreno, affioravano le ossa delle vittime e, inoltre, che la popolazione del luogo andava frugando fra i resti umani alla ricerca di denti d’oro e di oggetti di valore". (...) "Trovo quasi incredibile che per tutto questo tempo nulla sia stato fatto dalle autorita’ sovietiche e/o ucraine per porre rimedio a tale situazione".
Oswiecim, in Polonia ("Auschwitz" in tedesco). Qui, nell’agosto 2000, viene inaugurata la discoteca "System", nella quale ogni fine settimana si danno appuntamento centinaia di giovani. La nascita della discoteca innesca l’ultima di una lunga serie di diatribe che, per tutto il secondo dopoguerra, hanno avvelenato i rapporti tra polacchi ed ebrei: la malcelata invidia dei primi, che non si sono sentiti abbastanza considerati nel ruolo di vittime del nazismo, l’antisemitismo strisciante dei governi comunisti di Varsavia, l’atteggiamento a volte ostile verso gli ebrei della Chiesa cattolica di Polonia e, soprattutto, il destino di Auschwitz, l’uso e la tutela di un luogo che la tragedia della Shoah ha inscritto per sempre nella storia degli ebrei e nella coscienza del mondo. La "pista da ballo sopra le tombe" - come viene definita la discoteca dai suoi critici - riaccende la guerra per la memoria della Shoah: una vicenda conflittuale fatta di simboli, di controversie religiose e strumentalizzazioni politiche, le cui radici vanno cercate nelle pieghe profonde della storia d’Europa, recente e meno recente.
Gia’ negli anni Ottanta un convento di carmelitane, che si era insediato entro il perimetro dell’ex campo di sterminio, fu trasferito al di fuori dei fili spinati in seguito alle proteste delle comunita’ ebraiche. Nel 1996, gruppi di pressione ebraici ottennero che fosse annullato il progetto di costruzione di un centro commerciale, mentre nel 1998 vennero rimosse trecento croci in legno piantate ad Auschwitz dagli attivisti del "Movimento per la salvezza del popolo polacco", un gruppuscolo ultranazionalista che fa dell’antisemitismo e del radicalismo religioso il proprio cavallo di battaglia. Nel 2000, a chiedere l’immediata chiusura della discoteca "System" scese in campo nientemeno che il Centro Wiesenthal di Vienna.
Spesso gli ebrei vengono rimproverati di fare di Auschwitz, della Shoah un mito, un monumento. A ben vedere le cose non stanno esattamente cosi’. Per i sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai piu’ che un monumento rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine.
Innanzitutto e’ impossibile dimenticare che la Shoah ha inghiottito sei o sette milioni di persone: approssimativamente la meta’ degli ebrei europei, ossia circa un terzo degli ebrei del mondo, fra i quali un milione e mezzo di bambini. Ma soprattutto, nella Shoah e’ andata distrutta una civilta’, quella degli ebrei dell’Europa centro-orientale. Dell’antico scenario fisico entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunita’ estremamente vitali e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri, i libri, gli oggetti rituali e d’uso quotidiano, le carte: documenti di una storia durata poco meno d’un millennio. Pagine della storia degli ebrei, certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d’Europa e - vorrei aggiungere - della storia dell’intera umanita’.
Come ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, docente alla Columbia University di New York, la necessita’ di ricordare e’ divenuta piu’ urgente da quando hanno alzato la voce "coloro che fanno a brandelli i documenti, gli assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, i cospiratori del silenzio, coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera, possono cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne rimanga solo il cappello". Quella che ci risulta intollerabile e’ l’idea che persino i crimini piu’ atroci possano cadere nell’oblio. In sostanza, il bisogno di ricordare riguarda il male.
Da piu’ parti si sostiene che, in quanto "male assoluto", la Shoah sia qualcosa di indicibile, di irrappresentabile. Si tratta, in questo caso, di un’opinione che non condivido. Ritengo infatti che anche il lavoro di coloro che fanno storiografia avrebbe uno spessore molto inferiore se non potesse fare riferimento proprio alle narrazioni dei testimoni diretti, dei deportati, di coloro la cui vita e’ stata barbaramente stroncata, dei sopravvissuti. Come si sa, la testimonianza personale e’ fragile, parziale, incompiuta; tuttavia essa esprime il vissuto, unisce soggettivita’ e oggettivita’, individuale e collettivo, pubblico e privato. Ai fini della conservazione e trasmissione della memoria, il racconto individuale offre spunti e risorse di una vitalita’ unica, insostituibile: basti pensare alle narrazioni e alle riflessioni preziosissime di un grande testimone quale fu Primo Levi.
In un mondo sempre piu’ orientato a rimuovere e a banalizzare il male - qual e’ il mondo in cui viviamo -, e’ importante che un sano impegno pedagogico dia vita a strategie educative capaci di offrire alle generazioni piu’ giovani il senso concreto di un legame tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di offesa ai diritti umani, di eccidi di massa che accadono oggi, pur con tutte le differenze rispetto alla Shoah.
Il ricordo del male passato, pero’, non puo’ e non deve ridursi a retoriche manifestazioni in chiave celebrativa: una sorta di illusori compensi postumi elargiti alle vittime e ai loro eredi. Manifestazioni di questa natura sono i prodotti di una memoria statica, capace soltanto di dare corso a rievocazioni del male che, per essere meramente commemorative ed esorcistiche, rivelano una radicale sterilita’. Da esse occorre distinguere le forme di una memoria dinamica, preoccupata di tenere viva la consapevolezza del male al fine di favorire, semmai, la progettazione di un futuro diverso e migliore. Infatti il ricordo dell’orrore, seguito dalla rituale invocazione "cio’ non deve accadere mai piu’", appare destinato a rimanere privo di reale efficacia quando non si saldi a un’interrogazione argomentata e analitica circa il presente e non si apra con spirito critico e creativo alla progettualita’.
Alla fine del 1997 Sergio Romano pubblico’ in Italia un saggio che, a onta del tenore benevolo del titolo e dell’orgoglioso "laicismo liberale" ostentato dall’autore, apparve subito abbondantemente farcito dei piu’ abusati luoghi comuni antiebraici. L’autore pretendeva di spaziare in lungo e in largo nella storia degli ebrei fino a giudicarne lapidariamente la religione: un "catechismo fossile (’duecentoquarantotto precetti affermativi e trecentosessantacinque precetti negativi’, ricorda il rabbino Toaff) di una delle piu’ antiche, introverse e retrograde confessioni religiose mai praticate in Occidente".
Fra le numerose bizzarrie proposteci da questo pamphlet, occupa un posto centrale la tesi, non priva di malizia, secondo la quale il genocidio degli ebrei d’Europa si sarebbe ormai trasformato, per l’opinione pubblica dell’Occidente (cristiano), in una sorta di ricatto permanente.
Nell’imputare tale fatto al culto ebraico della memoria, Romano articola le sue argomentazioni nei termini seguenti: "[Il genocidio] e’ diventato il peccato del mondo contro gli ebrei, una colpa incancellabile di cui ogni cristiano dovrebbe chiedere perdono quotidianamente, il nucleo centrale della storia del XX secolo. Grazie a questa prospettiva storica, ogni paese e ogni istituzione vengono giudicati per il loro ruolo in quella vicenda e finiscono, prima o poi, sul banco degli accusati". Dopo avere elencato varie stragi analoghe o paragonabili per dimensioni o crudelta’ (lo sterminio armeno, le vittime dello stalinismo, del colonialismo, della seconda guerra mondiale, dei conflitti interetnici in Bosnia o in Ruanda), Romano lamenta che, mentre la memoria di questi e altri massacri "impallidisce e si appanna, l’’olocausto’ continua ad agitare le coscienze". Insomma, "non e’ piu’ un episodio storico da studiare nelle particolari circostanze in cui quelle vicende ebbero luogo".
Di fronte alla ricerca storica, afferma Romano, molti ambienti ebraici si rivelano animati da una "ostilita’ iniziale" dettata, fra l’altro, dal "timore che gli studi storici finiscano per ’storicizzare’ il genocidio riducendolo, prima o dopo, ad una gigantesca ’notte di San Bartolomeo’". Con l’attribuire agli ebrei, in buona sostanza, la colpa di collocare la Shoah in una dimensione teologica e metastorica, Romano avanza l’ipotesi che la "strategia della memoria" sia stata per lo Stato d’Israele "una straordinaria arma diplomatica, una preziosa fonte di legittimita’ internazionale". Inoltre, secondo Romano, tale strategia e’ "il terreno su cui l’ebraismo e la sinistra possono incontrarsi e collaborare", consentendo agli ebrei di "tenere in vita una sorta di ’comitato permanente di vigilanza antirazzista’".
E’, questa di Romano, un’ipotesi semplicistica e fuorviante poiche’, oltre a recuperare alcuni "topoi" del "connubio giudaico-comunista" tanto cari alla pubblicistica fascista degli anni trenta, ha il torto di enfatizzare il sostegno offerto allo Stato d’Israele dalle comunita’ della diaspora e di sottolineare oltre misura la volonta’ d’Israele di tenere viva, nel proprio esclusivo interesse di Stato, la memoria del genocidio: riducendo in tal modo il grande esame di coscienza che il mondo continua a compiere di fronte alla Shoah a una meschina macchinazione politica degli ebrei.
Circa gli usi della memoria della Shoah che si sono andati facendo in Israele lungo l’arco dei decenni, l’analisi piu’ compiuta, equilibrata e, nello stesso tempo, severamente problematica, e’ a mio avviso quella condotta da Tom Segev - un valido giornalista e storico israeliano - in Il settimo milione. Osservatore molto attento e sottile delle dinamiche complesse e talvolta contraddittorie che si registrano all’interno della classe politica e della societa’ israeliane, Segev rammenta che "Israele e’ diverso dalla maggior parte degli altri paesi del mondo perche’ ha la necessita’ di giustificare, agli occhi altrui e ai propri, il diritto all’esistenza". L’Olocausto, spiega Segev, "e’ la conferma definitiva della validita’ della tesi sionista secondo cui gli ebrei possono vivere nella sicurezza e godere pienamente dei diritti dei quali usufruiscono gli altri popoli soltanto in uno Stato autonomo e sovrano, capace di difendersi.
Eppure, di guerra in guerra, si e’ visto chiaramente che al mondo ci sono molti altri luoghi in cui gli ebrei sono piu’ al sicuro che in Israele. Non solo: l’Olocausto e’ stato un’innegabile sconfitta per il movimento sionista, che non e’ riuscito a convincere la gran parte degli ebrei del mondo a stabilirsi in Palestina quand’era ancora possibile".
"Secondo alcuni", ricorda Segev, "sarebbe meglio che gli israeliani dimenticassero l’Olocausto, dal momento che ne traggono insegnamenti sbagliati". E nel menzionare taluni dei rischi che il culto della memoria comporta, egli osserva correttamente che "la scuola e le celebrazioni ufficiali alimentano spesso lo sciovinismo e l’idea che lo sterminio nazista giustifichi qualsiasi azione purche’ giovi alla sicurezza di Israele, compresa la repressione della popolazione palestinese nei Territori occupati". Tuttavia, dichiara alla fine l’autore, gli israeliani "non possono e non devono dimenticare [l’Olocausto]. Quello che devono fare e’ trarne conclusioni diverse. L’Olocausto chiede a tutti noi di tutelare la democrazia, combattere il razzismo e difendere i diritti umani. Conferma e rafforza la legge israeliana che impone a ogni soldato di non obbedire a un ordine palesemente illegittimo. Certo non sara’ facile inculcare gli insegnamenti umanistici dell’Olocausto finche’ Israele lottera’ per difendersi e per giustificare la propria esistenza. Ma farlo e’ essenziale".
E’ chiaro che il rapporto fra memoria della Shoah e storia e’ particolarmente complesso, giacche l’elaborazione dei lutti provocati dalla tragedia e’ lunga e dolorosa. Faccio senz’altro mia la preoccupazione di non cadere in "eccessi di memoria", che rischierebbero di schiacciare sul passato la progettazione di un qualsiasi avvenire. Ne’ intendo qui negare che in ambito ebraico siano oggi presenti, tanto in Israele quanto nella diaspora, gruppi politici e frange sociali disposti a fare della Shoah un uso strumentale onde giustificare forme di sciovinismo miope e arrogante, pericolose derive fondamentaliste e grette chiusure di natura confessionale.
Tuttavia, il piccolo universo degli ebrei continua, nel suo insieme, a essere ricco di interne tensioni, di una vivacissima dialettica, di spinte e controspinte, e presenta connotazioni complesse, diversificate e troppo difficili da cogliere perche’ sia consentito accostarsi a esso con un approccio del tipo di quello adottato da Sergio Romano. Forse l’urgenza con la quale Romano preme per "storicizzare" la Shoah rivela una sotterranea ansia di "archiviazione", tesa a liquidare una memoria troppo ingombrante per i tanti europei che, pur di sentirsi innocenti, cercano di "chiamarsi fuori" in vari modi, per esempio ponendo lo sterminio a esclusivo carico della defunta ideologia nazista.
Il vero problema, a mio avviso, e’ quello di conciliare il compito morale di evitare che il passato cada nell’oblio con l’impegno a operare perche’ le nuove generazioni si possano costruire un futuro vivibile e decente, da condividere responsabilmente e fraternamente con tutti i figli degli uomini. In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono gia’ tracciate.
Mi riferisco, in primo luogo, all’esperienza di Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme: un’istituzione che, fin da quando vide la luce nel 1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i "giusti", ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita si prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei "giusti" hanno permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza nell’umanita’. Per numerosi ebrei e per i loro figli e nipoti e’ stato possibile ritornare nei paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo avere saputo di uomini e donne che si erano comportati diversamente. In tal modo i "giusti" sono diventati il tramite di un riavvicinamento tra le vittime della violenza e i popoli che li hanno oppressi.
In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust Dialogue Group: un’associazione internazionale creata all’inizio degli anni Novanta da Gottfried Wagner - pronipote di Richard e figlio "degenere" dell’attuale direttore del Festival di Bayreuth (in Germania) - e da Abraham Peck, direttore amministrativo e dei programmi dell’Archivio ebraico-americano di Cincinnati (negli Stati Uniti). Le iniziative di questo gruppo mirano non gia’ a ricomporre le memorie della Shoah - ancor oggi profondamente divise - in una fittizia unita’ sotto l’etichetta di una "comune memoria" (un’operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia), bensi’ a dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia necessario, di reciproco riconoscimento, di dialogo appunto, tra i figli di coloro che la Shoah l’hanno subita e i figli di coloro che, invece, l’hanno architettata e inflitta. Un dialogo, dunque, tra persone nate dopo lo sterminio.
Uno dei membri ebrei del gruppo, lo psichiatra newyorkese Yehuda Nir, ha pubblicato un’autobiografia che e’ stata tradotta in nove lingue. In un’introduzione all’edizione olandese, composta con un pensiero rivolto in particolare agli studenti, Nir interpella idealmente Gottfried Wagner con parole che esprimono tutt’intera la tensione e la fatica di un lavoro congiunto di ricostruzione morale e psicologica, portato avanti con estrema delicatezza dagli uni e dagli altri attori di questo dialogo straordinario: "Gottfried, io ti vedo come un rappresentante di questo [nuovo] mondo. Tu sei l’anti-Lohengrin, che non nasconde il suo passato e dice: ’Per favore, Yehuda, chiedimi che cos’hanno fatto i miei genitori’. In modo sincero ti definisci un figlio dei persecutori, un tedesco nato dopo la Shoah. Hai affermato di essere legato alla storia della Germania. Non chiedi perdono. Tutto cio’ che desideri e’ impegnarti in un dialogo per capire che cosa e come e’ successo, e se e’ possibile evitare che possa accadere di nuovo. Sei un tedesco che vuole aiutare a creare un mondo in cui noi ebrei possiamo prendere in considerazione il perdono".
*NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 347 del 27 gennaio 2008 [Riproponendo nuovamente queste pagine finali del suo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, nuovamente ringraziamo di cuore Bruno Segre per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio a suo tempo ampi stralci da questo suo utilissimo libro, la cui lettura vivamente raccomandiamo. ...]
Giorno della Memoria perché
di Furio Colombo *
Ricordate quando è stato istituito il Giorno della Memoria (la legge 211, in data 20 luglio 2000), approvata all’unanimità dalla Camera dei Deputati e a maggioranza dal Senato? L’intestazione di quella legge diceva: «Istituzione del “Giorno della Memoria”, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». A quel tempo tanti avevano pensato che questa legge riguardasse il passato. Oggi, mentre l’Italia, questo 27 gennaio, vive per la sesta volta il suo "giorno della memoria" ci sono notizie, non tutte buone, di cui è bene tenere conto. Non sono notizie che riguardano il passato. Sono notizie di oggi e qualcuna di esse indica il futuro. Quel futuro appare oscuro e confuso, e vale la pena - proprio oggi - di parlarne.
La prima notizia è che in questi ultimi tempi si è lavorato in modo molto intenso, abile e di successo, a svergognare l’Antifascismo, la Resistenza e i presunti delitti di chi ha combattuto il fascismo, che era uno dei due pilastri europei delle leggi razziali. Senza l’Italia, e dunque senza il fascismo, la Germania di Hitler, indicata spesso per convenienza come il solo colpevole, non avrebbe potuto imporre il suo piano di sterminio a uomini, donne e bambini ebrei in tutta l’Europa occupata. Per un simile delitto occorreva un complice. Quel complice è stato Mussolini. E il suo regime. E i suoi uomini. Molti esecutori di quella complicità hanno tranquillamente continuato le loro vite e carriere nell’Italia del dopo-fascismo. I nomi di alcuni, tristemente conosciuti tra le vittime italiane della Shoà e tra gli antifascisti che li hanno combattuti e sono morti in quel tempo (conosciuti per il loro zelo persecutorio, per la loro bravura nel consegnare più vittime ai nazisti) appaiono adesso, nella nuova letteratura che accusa la Resistenza, fra gli "innocenti" delle "vendette" accadute dopo la Liberazione.
Questo sgretolamento della memoria, a cui alcuni hanno alacremente lavorato, spiega l’evento incredibile di vedere sventolare bandiere di Israele accanto a bandiere fasciste con croce celtica, in una manifestazione politica a Roma, lo scorso dicembre. Il fatto ha colpito molte persone, che non hanno mai dimenticato il nesso fissato dalla Storia tra fascismo, leggi razziali, la consegna dei cittadini ebrei italiani nelle mani dei persecutori tedeschi da parte dei persecutori fascisti, la costante collaborazione ai viaggi verso i campi di sterminio. Tale evento - quelle bandiere accostate in una stessa manifestazione - è stato reso possibile da un vero e proprio disastro mediatico, che ha colpito l’Italia negli ultimi anni e nel quale sono stati travolti alcuni punti di riferimento essenziali, non solo l’antifascismo, ma il rapporto stretto o di coincidenza tra lotta antifascista e militanza politica dell’Ebraismo italiano durante il fascismo. Tale vuoto di memoria è tanto più grave se si considera che chi continua a portare in piazza bandiere con le croci celtiche e i segni vistosi di appartenenza al fascismo, dichiara apertamente - non solo con quei segni, ma con esplicita propaganda - di non avere abbandonato nulla del legame e della fede fascista, della accettazione delle sue leggi. E apertamente aggiunge al credo intatto del passato il negazionismo del presente.
Ma, accanto a questa causa, resta viva e operante - in tutti i suoi effetti negativi - una evidente concausa. Essa è il permanere, e talvolta rafforzarsi, di un sentimento antiebraico, che si esprime con forza contro Israele, da parte di persone, gruppi, stati d’animo e nodi di cultura (anche a livello di responsabilità politica) che vengono dalla tradizione politica della Resistenza e sono legate all’Antifascismo. È ritornata presto - con i momenti peggiori della Guerra Fredda - la denuncia del "sionismo" (sogno e progetto di creare una patria degli ebrei mentre essi erano perseguitati nel mondo) come un tetro complotto internazionale basato sulla potenza, sulla ricchezza e sulla ricerca di dominio.
Fuori dall’Italia il mondo ha avuto le sue colpe, se si pensa alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, votata a maggioranza e rimasta in vigore per anni, che - nel mezzo dell’epoca delle informazioni di massa e della grande diffusione, anche al livello non specialistico, degli studi storici - ha dichiarato uguali razzismo e sionismo, ovvero le vittime e i carnefici di Auschwitz. Ma l’amputazione dei legami profondi fra l’Antifascismo e il mondo ebraico è avvenuto soprattutto in Italia, ed è particolarmente grave perché è una doppia negazione: delle ragioni di esistenza dello Stato di Israele; e della storia dell’Antifascismo italiano, di gran lunga il più ricco, in tutta Europa, di partecipazione militante ebraica, dall’impegno intellettuale alla pratica del combattimento.
Se è vero che "il Giorno della Memoria" è dedicato non agli ebrei vivi, che non dimenticano, non ai milioni di morti di un popolo che non cerca celebrazioni, ma a tutti i cittadini del nostro Paese, e specialmente ai più giovani, perché non cadano nelle trappole delle tre propagande - quella della Guerra Fredda, quella delle mistificazioni mediatiche che tendono a deformare o cancellare la Resistenza, e quella persistente e tenace dell’antisemitismo dei secoli - allora può essere utile ricordare a tanti italiani il più rigoroso e completo studio internazionale sulla Shoah italiana, pubblicato nel 1987 da Basic Books, a New York, successivamente da Columbia University Press e Nebraska University Press negli anni Novanta, in Italia dall’editore Mondadori The Italian Olocaust, opera della storica della Columbia University Susan Zuccotti.
L’ultimo e più vasto capitolo di quel libro, dal titolo I migliori di una generazione: gli ebrei italiani e l’Antifascismo, è un documento saggio, che ricostruisce - dall’inizio agli ultimi giorni della Resistenza - la partecipazione degli ebrei italiani alla lotta contro il fascismo, iniziata molto prima delle leggi razziali, da figure note e celebri nel mondo (Rosselli, Colorni) a nomi che nessuno ricorda più come Franco Cesana, escluso a sette anni dalla sua scuola elementare di Bologna, ucciso dai nazisti a tredici anni, mentre combatteva, insieme al fratello Lelio, con una formazione partigiana sugli Appennini emiliani. I compagni di lotta che erano vicini a lui quando è stato colpito lo hanno sentito recitare morendo la sua preghiera: "Shemà Israel, A-donai E-lohenu, A-donai Echad" ("Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, unico Dio"). E forse, per la prima volta, nella Resistenza italiana è risuonata l’invocazione a Israele. Sulla sua tomba, nel cimitero di Bologna, c’è scritto: "Il più giovane partigiano d’Italia". È un titolo d’onore, che non dovrebbe essere dimenticato da coloro che - tra le fila dei discendenti ed eredi della Resistenza - credono e dicono che Israele è una invenzione degli americani per gli interessi dei ricchi e delle lobby ebraiche del mondo.
Eppure in Israele - il Paese che non era ancora nato, ma era già la rappresentazione fisica di un sogno - sono emigrati ebrei antifascisti italiani, come Enzo Sereni, mentre il fratello Emilio, tra arresti, fughe e prigioni, diventava organizzatore della lotta armata e poi militante del Partito Comunista Italiano, membro dell’Assemblea Costituente e senatore della repubblica italiana liberata dal fascismo.
A un altro grande antifascista ebreo italiano - che dopo tredici anni di carcere ha presieduto l’Assemblea Costituente italiana e firmato la Costituzione - è toccato dire, mentre tutto il mondo arabo tentava di distruggere il neonato stato di Israele: «Sarebbe ben strano che, contro ben cinque Paesi arabi (Egitto, Libano, Siria, Giordania, Iraq) il popolo ebraico si trovasse senza voce. Quanto a me, non ho dimenticato gli orrori degli stermini di massa degli ebrei d’Europa, i mucchi di cadaveri, le centinaia di migliaia di famiglie smembrate, distrutte, ridotte in cenere; la carneficina spaventosa sulla quale il governo nazista progettava di costruire la sua selvaggia religione razziale».
Siamo nel 1948. I cancelli di Auschwitz sono stati abbattuti soltanto tre anni prima. Ma, invece di essere fresca, la memoria dell’Antifascismo era già appannata dalla contrapposizione dura e ottusa della Guerra Fredda. La memoria della Resistenza stava interpretando se stessa soltanto come "guerra di liberazione", e più dall’occupazione tedesca che dal fascismo. Basti ricordare che i dieci firmatari italiani del vergognoso "Manifesto della razza" hanno vissuto il meglio delle rispettive carriere accademiche (lo ricorda l’importante libro di Franco Cuomo I dieci, Baldini, Castoldi, Dalai, 2005) dopo la Liberazione, nell’Italia tornata democratica. Basti ricordare che Primo Levi, all’inizio, nella Torino di Einaudi, non aveva trovato editore per il suo splendido e tragico Se questo è un uomo.
Sono passati decenni prima che la Shoah diventasse memoria, non solo per i sopravvissuti. L’ostacolo più grave e brutale non è stato il negazionismo, non solo. Ma la necessità della propaganda sovietica della Guerra Fredda di separare Israele dall’Antifascismo italiano e dalla Resistenza europea. Nel vuoto c’è spazio per le scorrerie dell’antisemitismo, che ha - come tutti sanno - anche una sua profonda radice nella cultura cristiana. Oggi - e questa è la notizia più importante da aggiungere a quelle che ci porta "il Giorno della Memoria" - i pezzi del tremendo gioco del dopo-Shoah si saldano.
Il capo di uno Stato ricco di armi e di petrolio - l’Iran - compie due gesti nello stesso tempo: nega e ridicolizza la Shoah. E annuncia "la cancellazione dello Stato di Israele". È la dimostrazione che l’incubo degli israeliani non era la conseguenza e l’ostinazione a tornare di un brutto sogno. È la dimostrazione dell’aggancio fra passato e presente, fra Shoah e distruzione del Paese degli ebrei, fra antisemitismo e nuovo progetto di morte. È la dimostrazione dell’errore grave di lasciare solo Israele per poi giudicarlo duramente quando si difende «in modo sproporzionato». Forse è difficile che ci sia una misura giusta per combattere l’incubo e lo sbandieramento, sotto la porta della tua casa, dell’annuncio di sterminio per chi viene da una recente memoria di sterminio.
So che molte di queste affermazioni appaiono dure e polemiche. Ma è giusto che lo siano nel "Giorno della Memoria". Fare i conti con il "Giorno della Memoria" sta diventando difficile anche per il gioco irresponsabile che ne fanno le destre del mondo. Esse annunciano lo scontro di civiltà, la fine della politica, l’inizio della guerra senza fine. Ma vale la pena di aprire con coraggio la discussione (usando le stesse parole di Terracini), se serve a rimettere ordine nei ricordi del mondo (la sinistra del mondo), che un tempo si è battuto per la libertà, il rispetto, la dignità umana. Dunque, prima di tutto contro le ignobili "Leggi per la difesa della razza". Dobbiamo dichiarare che nulla è finito e nulla è mutato di quella lotta.
* l’Unità, Pubblicato il: 27.01.07, Modificato il: 27.01.07 alle ore 11.17
Shoah: la «normale» cronaca di un orrore
di Furio Colombo *
Temo che persino le parole di Anna Arendt siano insufficienti o addirittura inadatte. Ciò che si vede in queste immagini intollerabili e indimenticabili è la normalità.
Non la normalità delle immagini che testimoniano di una immensa e scrupolosa e implacabile rete organizzativa, di una perfetta macchina burocratica capace di portare sistematicamente alla morte lungo un percorso di umiliazione, spogliazione, separazione, offesa, dolore.
No, «la normalità» la constatate con agghiacciante chiarezza, fotografia dopo fotografia. Manca ogni sentimento umano ma anche ogni vibrazione emotiva di qualunque tipo (persino l’odio è assente) dalla parte di chi ha scattato accuratamente, professionalmente, con scrupolosa qualità, le fotografie.
È da questa parte dell’obiettivo, quello del funzionario o del soldato fotografo, che si sente, si vive la vera portata della tragedia. Noi diciamo «comportamento mostruoso». Ma, in realtà, parliamo della pacata e bene organizzata «normalità» di un tempo che è troppo vicino a noi per non sconvolgerci.
«Sconvolgimento» (nel senso di repulsione ma anche di radicale incapacità di comprendere, al modo in cui si «comprendono» anche le peggiori pagine della storia) vuol dire rendersi conto che tutto ciò è avvenuto qui, in Europa, nel cuore caldo di una cultura alta e unica generata da tutti, patrimonio di tutti, che all’improvviso si è spaccata mostrando una spietata e tranquilla lama di morte. Con essa una parte della cultura del mondo si è messa di buona lena a organizzare lo sterminio di un’altra parte di se stessa.
Il fremito di disorientamento, disagi e - diciamo pure - con il tipo di ansia che ha in se il seme nero dell’angoscia, scatta con questa domanda che non ti fai ad alta voce, non la formuli neppure ma ti porti dentro: se le radici del male non sono bestialità o sussulto disumano, ma accurato progetto disegnato «fra noi», dentro la nostra cultura comune, che cosa ci dice che guerra, sconfitta e chiusura dei due ripugnanti regimi - nazista e fascista - abbia estirpato la radice del male, e ripulito (garantito) il futuro? Più guardi queste foto più le vedi «normali», scattate da persone normali, buoni professionisti con un occhio attento anche ai piccoli cenni e gesti e modi quotidiani di vita, tanto che alcune immagini hanno un che di intimo e le persone fotografate mentre arrivano, ancora con i loro vestiti e i loro bambini, al binario della morte, erano certo vicini di vita e vicini di casa, di diploma, di scuola.
Ecco la domanda che pulsa sgradevole e contro ogni desiderio di guardare soltanto il passato.
Dove, come, quando, sono state tagliate le radici del male, se chi ha scattato le migliaia di immagini semplici, quotidiane, insopportabili dell’ Album Auschwitz non era che un cittadino come noi, una persona al lavoro, medio- colta, con una buona coscienza civica e delle leggi, buona condotta, famiglia regolare, probabilmente amata, e quasi sempre una chiesa da frequentare?
C’è un punto di appoggio o di certezza che ci aiuti a uscire da questo incubo freddo, che non è l’attesa ossessiva di un ritorno ma una nuova spaccatura omicida, in un tempo che potrebbe essere questo o il prossimo tempo? C’è stato un confine-barriera, un confine-muro, e, se si, dove passa, in che modo ci protegge?
***
Le fotografie di Album Auschwitz sono state organizzate lungo un percorso che forse era lo stesso scrupolosamente seguito dalla efficiente burocrazia al lavoro. Al principio, se non fosse così evidente la presenza di militari armati (ma non speciali unità assassine, solo regolari soldati di un grande paese civile), se non fosse così sorprendente la presenza sui binari di vagoni bestiame e carri merce, le scene potrebbero essere quelle di una folla ordinata di uomini, donne, bambini nel corso di un trasferimento che è eccezionale solo per la quantità di persone, soprattutto famiglie.
Le persone sono intatte negli abiti, nei volti, nei gesti, nello stare accanto o nello scostarsi, più con incertezza che con paura. Certo, c’è qualcosa di strano, sui cappotti o le giacche degli uomini, o i vestiti delle signore o gli abiti dei bambini: la stella che - noi sappiamo - era gialla, ma in queste foto in bianco e nero è soltanto molto visibile. Si capisce che indossarla e mostrarla è già da tempo un fatto quotidiano.
Più avanti si nota che soldati e ufficiali devono avere un progetto, ma alcune immagini li ritraggono in conversazione con i viaggiatori. Improvvisamente, fra i gruppi di «viaggiatori» e le fila di militari, compare, di schiena, l’immagine incongrua, sul momento inspiegabile, di un uomo con la divisa a righe dei prigionieri. Da quel momento accade qualcosa che trasforma in una sorta di misteriosa emergenza che prima sembrava una strana, indecifrabile attesa. La folla viene messa in movimento. E se osserviamo bene le foto notiamo, dopo alcune immagini in cui tutto appare mischiato (soldati e civili, adulti e bambini, uomini e donne) ma nell’atto di seguire istruzioni, che le fotografie, sempre nitide, sempre scrupolosamente eseguite, ci mostrano solo uomini e ragazzi, solo donne e bambini, in gruppi separati. Intanto i volti si fanno segnati, gli abiti logori, le teste rasate, i bambini da soli. E poi, sempre attentamente osservate dagli obiettivi di fotografi bravi e professionali, le figure di uomini con le divise a righe, di donne con la camicia da prigioniere, di bambini con i loro fagotti. I fotografi non chiudono gli occhi, non hanno secondi pensieri, fanno il loro lavoro e basta. La testimonianza terribile di Album Auschwitz è questa.
I mandanti sono stati dichiarati dal mondo criminali, il loro regime di morte e di sterminio è stato rovesciato, i loro bunker espugnati, il mondo liberato.
Ci sono i nostalgici, ci sono i negazionisti, ci sono gli infatuati del «dimenticare per riprendere la strada insieme». Ci sono coloro che sono preoccupati di inondarci di storie e notizie su come, a volte, sono stati trattati male i pochi carnefici identificati.
Eppure non è in quella direzione che punta l’ansia. Negazionisti, nostalgici e rivisitatori del passato sono tenuti a bada da documenti come questi e dalla intelligenza del mondo.
L’ansia punta sugli scrupolosi fotografi, sugli operosi impiegati, sugli attivi esecutori di ordini nel calmo svolgimento di una non controversa osservanza di impegni, attenti a non crearsi problemi, attenti a non irritare il potere comunque si manifesti, sapendo che, nel compiacerlo senza irritanti domande, c’è sempre un premio.
I più sono ancora in giro. Sono un mondo intatto che serve con attenzione il bene o il male senza mettersi di traverso e non fanno caso al segno disturbante e provocatorio della stella gialla su tutti quegli esseri umani, vicini di casa, di lavoro, di vita. È un’ansia fastidiosa, ma è meglio tenerla viva. Ci aiuterà a distinguere il momento in cui non si può e non si deve tacere, proprio mentre tutti taceranno.
* l’Unità, Pubblicato il: 26.01.08, Modificato il: 26.01.08 alle ore 8.41
ALCUNI APPUNTI PER LA DIDATTICA DELLA SHOAH
di CLOTILDE PONTECORVO:
1. Evitare la rappresentazione realistica dell’orrore. Utilizzare invece le
rappresentazioni mediate, offerte da monumenti, musei, testi letterari,
opere d’arte.
2. Evitare resoconti troppo analitici e raccapricccianti.
3. Evitare quindi anche il racconto di eventi, che possano essere troppo
persecutori.
4. Adeguare le proposte alle possibilita’ di comprensione e di empatia degli
allievi, che sono variabili in funzione dell’eta’ e della maturita’
psicologica.
5. Favorire lo sviluppo di somiglianze e differenze con i perseguitati di
allora: in questo ambito possono darsi dei processi di identificazione e a
questo scopo si possono usare le storie delle vicende di bambini (quali
quelle raccontate da Lia Levi) o di ragazzi, per quegli aspetti meno
angosciosi e piu’ comprensibili: ad esempio, il dover celare la propria
identita’, il dover trovare un rifugio per nascondersi, l’essere costretti a
lasciare la propria casa e affrontare delle fughe un po’ avventurose.
6. Far vivere in modo reale qualche aspetto della discriminazione: quella
che e’ sempre in agguato in qualsiasi gruppo nei confronti dei diversi o in
generale del gruppo estreaneo, ed ha luogo facilmente anche nei gruppi di
bambini piccoli, oltreche’ di ragazzi. Va anche ricordato che c’e’ stato
qualcuno che si puo’ avvantaggiare (economicamente o socialmente: vedi
esclusione dalle scuole, dalle universita’, dagli uffici pubblici) della
discriminazione contro gli ebrei o altri "diversi".
7. Collegare questa esperienza alle discriminazioni di allora e di adesso,
nei confronti degli ebrei, ma anche degli altri, attuali "diversi".
8. Ricordarsi che tutti i cattolici nel nostro paese, bambini e adulti,
ricevono una prima informazione (gia’ molto distorta) sugli ebrei come
popolo antico, attraverso le vicende della vita e soprattutto della morte di
Gesu’: questa e’ stata (per secoli) la base di quell’antigiudaismo cristiano
bimillenario, magistralmente ricostruito e condannato da Jules Isaac e da
noi narrato assai bene da Cesare Mannucci (libro molto utile per qualsiasi
insegnante italiano).
9. Consentire ai bambini e ai ragazzi (di qualsasi eta’) di esprimere tutti
i loro dubbi e interrogativi sulle cose (per molti versi incredibili) che
sono loro raccontate. A partire dalle loro domande farli discutere tra loro
quanto piu’ liberamente possibile. Va ricordato che su questa tematica,
possono entrare in gioco pregiudizi, a volte trasmessi direttamente o
inconsapevolmente dal linguaggio (si pensi alla connotazione negativa del
termine "ebreo" o "giudeo", erratamente associato a Giuda Iscariota, o
"rabbino", cosi’ come e’ usato negli stadi italiani).
10. Far riflettere i bambini e in modo particolare i ragazzi piu’ grandi
sulla funzione della memoria, che e’ in parte individuale (basta fare una
piccola esercitazione su un ricordo personale, magari dell’estate
precedente), in parte familiare o del gruppo-classe, ma in parte anche
collettiva e pubblica: questo del resto e’ uno dei significati di questa
giornata che non a caso si chiama "della memoria": come ricordo collettivo
del fattore unificante della Repubblica Italiana e della piu’ vasta Europa
libera, che sono nate dalla lotta contro il fascismo e il nazismo, e quindi
dal rifiuto di ogni discriminazione, di tipo razziale o etnico. Alla memoria
collettiva servono i luoghi (i ghetti, i campi di sterminio, ad esempio), i
monumenti, le opere d’arte, i musei.
11. Collegare l’antisemitismo al razzismo, che allora venne alimentato (in
Italia) dalle vicende della guerra d’Etiopia: si veda la mostra e il volume
su "La menzogna della razza". Puo’ essere efficace citare la frase di
Einstein, che a chi gli chiedeva qual era la sua razza, rispondeva: "razza
umana". Ai ragazzi piu’ grandi puo’ essere offerta anche una storia
culturale essenziale del razzismo e dell’antisemitismo, nei loro sviluppi
piu’ recenti in Francia, in Germania, e in Europa in genere.
12. E’ essenziale che gli insegnanti - qualunque sia l’eta’ dei bambini -
dedichino a questa tematica (quando l’hanno gia’ definita tra loro) un
incontro con i genitori dei loro allievi, per informarli del loro programma
e per coinvolgerli, laddove sia possibile: possono esserci ancora dei nonni
che sono in grado di portare delle testimonianze significative, attraverso i
loro ricordi. Ma possono esserci anche posizioni contrarie e presenza di
pregiudizi: e’ bene essere preparati, facendo riferimento alla legge dello
Stato, che ha istituito la giornata dalla memoria, approvata dal Parlamento
italiano all’unanimita’.
Negazionismo, l’Onu approva la condanna *
È contro il negazionismo la prima risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 2007. L’organo plenario delle Nazioni Unite ha approvato venerdì una testo, presentato dagli Stati Uniti e appoggiato da altri 103 paesi, che deplora «senza riserve» chi nega l’Olocausto, e incita «tutti gli Stati membri a rifiutare senza riserve ogni negazione, totale o parziale, della Shoah come evento storico, e ogni attività volta a tal fine». Nel testo viene sancito l’appoggio dell’Organizzazione a programmi di istruzione negli Stati membri finalizzati a combattere «i tentativi di minimizzare l’importanza dell’Olocausto».
Il riferimento implicito è all’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, ai continui interventi revisionisti del presidente e alla conferenza da lui organizzata a Teheran lo scorso dicembre, alla quale avevano partecipato sedicenti storici e studiosi provenienti da tutto il mondo, con l’intenzione di negare, o quanto meno limitare notevolmente, la verità storica della Shoah e lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti. E proprio dall’Iran è arrivata la prima presa di distanza dalla risoluzione Onu, con il rappresentante della Repubblica Islamica che ha ricordato che «il genocidio non deve essere manipolato a scopi politici», e ha condannato esplicitamente lo Stato di Israele, che avrebbe «sfruttato il suo passato per giustificare i crimini contro i palestinesi».
Le risoluzioni dell’Assemblea Generale non hanno valore vincolante nei confronti degli Stati membri, a differenza di quelle del Consiglio di Sicurezza. Ma «con questo voto l’Assemblea mette il suo peso morale e politico dietro le parole della carta delle Nazioni Unite, un’organizzazione nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto». Queste le parole del rappresentante statunitense Alejandro Wolff, alle quali hanno fatto eco quelle del portavoce della missione Usa Richard Granell: «Vogliamo che sia perfettamente chiaro che minimizzare o negare l’importanza dell’Olocausto è inconciliabile con l’appartenenza all’Onu». Secondo il segretario generale dell’Organizzazione, il sudcoreano Ban Ki Moon, «questa condanna riflette l’opinione prevalente della comunità internazionale». In una dichiarazione diffusa al Palazzo di Vetro, Ban ha ribadito la sua convinzione che «la negazione di fatti storici come l’Olocausto è inaccettabile», auspicando che «questo principio fondamentale sia rispettato sia a parole che nei fatti».
Il testo approvato dall’Assemblea fa riferimento a un’altra risoluzione approvata dallo stesso organo il 1 novembre 2005, quella con cui si decise di istituire il 27 gennaio come giornata speciale per la commemorazione delle vittime della Shoah (ricorrenza che in Italia è ufficializzata con una legge già dal 2000).
* l’Unità, Pubblicato il: 26.01.07, Modificato il: 26.01.07 alle ore 19.04
Appelli
Contro gli apologeti del negazionismo *
Indirizzandosi al Rettore dell’Università di Teramo, Mauro Mattioli e al Preside della Facoltà di Scienze Politiche Adolfo Pepe, un nutrito gruppo di storici «in quanto studiosi e in quanto cittadini» hanno firmato un appello che esprime preoccupazione per quanto sta avendendo nell’ambito del master coordinato da Claudio Moffa, che è «diventato da tempo una tribuna dove si spaccia per legittima critica alla politica dello Stato di Israele la negazione della Shoah; dove si attribuisce a quelli che il grande antichista Pierre Vidal Naquet ha definito: ’gli assassini della memoria’, i negatori dell’Olocausto, lo statuto di ’storici’; dove si consigliano ai corsisti iscritti al master stesso, quali sussidi didattici, le opere di Carlo Mattogno, autore di testi in cui si mette in dubbio l’uso criminale delle camere a gas di Auschwitz; dove si organizzano convegni, come quello alla metà di aprile scorso, in cui, nascondendosi sotto il drappo, quanto mai improprio in quell’occasione, della ’libertà di parola’ sono state prese le difese dei negazionisti, considerati quali ’storici che negano uno o più tasselli della versione ’ufficiale’ dello sterminio degli Ebrei nella II guerra mondiale». Ci pare - continuano i firmatari - che la tendenziosità abbia prevalso su qualunque minimo criterio di scientificità, svilendo così anche la credibilità di un importante ateneo italiano. Non per caso, sempre in nome di una malintesa «libertà di parola», il 18 maggio è annunciata, presso la Facoltà di Scienze Politiche una conferenza di Robert Faurisson, ex professore di letteratura francese noto sostenitore delle tesi che negano lo sterminio degli ebrei.»
* il manifesto, 16.05.2007
"LA STAMPA": FOTOGALLERY - LA GIORNATA DELLA MEMORIA NEL MONDO (2007)
La Shoah in rete *
Alcuni siti utili sul Giorno della Memoria:
Il Giorno della Memoria
Sito curato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) con foto, testimonianze e calendario delle iniziative per regioni
Deportati
Sito dell’Associazione Nazionale degli Ex Deportati
Survivor of the Shoah. Visual History Foundation
Sito della celebre fondazione istituita nel 1994 da Steven Spielberg
ANPI
Sito dell’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia
Deportazione
Sito a cura dell’ANPI di Roma, sul portale di storia italiana «Storia del XXI secolo»
Risiera di San Sabba
Sito ufficiale del campo di sterminio italiano di San Sabba
La Memoria degli Altri
Sito del progetto «La memoria degli altri», organizzato dalle associazioni Opera Nomadi, Altromondo e E.T.I.C.A.
Scuola e Shoah
Pagine del Ministero della Pubblica Istruzione dedicate alla Shoah
Binario 21
Sito del comitato «Binario 21-Milano Centrale»
Museo Virtuale delle Intolleranze e degli Stermini
Sito dell’AMIS (associazione per il museo delle intolleranze e degli stermini), realizzato in collaborazione con la regione Lazio e il Comune di Roma
Olokaustos
La storia dell’Olocausto dal 1933 a oggi
A forza di essere vento
Presentazione dell’iniziativa «A forza di essere vento», promossa dall’EDA (cooperativa editoriale anarchica) per commemorare il porrajmos di rom e sinti
Fossoli
Sito della fondazione ex campo di Fossoli
* l’Unità, Pubblicato il: 25.01.07, Modificato il: 25.01.07 alle ore 16.04
L’infaticabile custode della memoria
La scomparsa a Torino di Bruno Vasari. Sopravvissuto al lager di Mathausen, è stato l’infaticabile promotore di centri studi sulla deportazione nazista di ebrei e prigionieri politici italiani
di Enzo Collotti (il manifesto, 05.08.2007)
Con la scomparsa di Bruno Vasari, morto a Torino il 20 luglio, non è venuto meno soltanto un esponente di primo piano dell’antifascismo storico, un militante azionista della Resistenza, un reduce dalla deportazione politica nei campi di concentramento nazisti. È scomparso un protagonista di una politica della memoria in Italia. Nato a Trieste nel 1911, trasferitosi già prima della guerra a Torino, è stato nel dopoguerra tra gli animatori della vita culturale della metropoli piemontese.
Alto dirigente della Rai, personalità dotata di non comuni capacità comunicative, di viva sensibilità culturale, di grande tatto e finezza nei rapporti umani, Vasari univa nella sua persona il tratto garbato e severo che gli veniva dalla tradizione di una educazione sobria e rigorosa come quella appresa nella natia città giuliana alla scuola di maestri come Giani Stuparich, al quale avrebbe dedicato pagine di grande intensità (raccolte in volume nel 1999), e la tenacia di chi si sente responsabile e investito di una vera e propria missione. Univa tratti ottocenteschi, si vorrebbe dire risorgimentali, ad una volontà realizzatrice e ad una capacità propositiva che spesso lo facevano apparire molto più giovane dell’età che inesorabilmente avanzava. Infaticabile testimone
Fu tra i primissimi memorialisti della deportazione: il suo asciutto ma preciso resoconto del lager, Mauthausen bivacco della morte, ristampato dalla Giuntina nel 1991, uscì nella prima edizione nell’agosto del 1945, a tre mesi dalla liberazione, tanto avvertiva l’urgenza di raccontare, come scriveva, «la tremenda gara di resistenza che ciascuno di noi aveva ingaggiato con la Germania». Testimone e memorialista in persona prima, ha speso la sua esistenza nel dopoguerra per organizzare la memoria degli anni bui aggregando quante più forze, tra i compagni della deportazione ma anche soprattutto fra i giovani, fossero disponibili ad assecondare il suo ideale progetto culturale.
Riprendendo il tema caro a Primo Levi della vergogna di non essere morti, nel 1982 in occasione di uno dei suoi tanti interventi così ebbe a sintetizzare quella che è stata la filosofia della sua esistenza: «Per liberarsi dal complesso di essere sopravvissuti e di avere eventualmente fruito del privilegio della cultura (...) l’unico modo è lavorare intensamente, prodigarsi con tutte le forze per evitare che il massacro dei Lager nazisti possa ripetersi, per divulgare la storia di quei tempi amari e operare nel presente per abbattere le barriere di odio fomentatrici di guerra».
Intrecciò costantemente il ricordo della propria personale esperienza con la fedeltà ai compagni caduti e l’obbligo di trasformare la memoria della deportazione non in sterile reducismo ma in fattore di cultura e di consapevolezza civile. Al convegno di Carpi del 1985, da me promosso, pronunciò parole che come poche altre riflettono lo spirito con il quale aveva tratto la lezione di Mauthausen: «Funziona il Lager - ebbe a dire -, ove si abbia la rara ventura di sopravvivere, pur nella breve, lunghissima in rapporto alle sofferenze, prigionia, da corso accelerato di politica».
Mettendo a frutto anche le relazioni influenti che aveva potuto instaurare nella sua funzione di dirigente di un’azienda accreditata come la Rai nell’ambiente torinese, si fece promotore di innumerevoli iniziative per coltivare la memoria della Resistenza e della deportazione non soltanto facendosi garante nei confronti degli erogatori di fondi ma partecipando direttamente all’elaborazione di progetti di ricerca; egli stesso fu una forza aggregatrice, aperto come pochi alla fiducia nei confronti dei giovani e facendo da ponte fra questi e gli uomini della sua generazione, convinto che soltanto associando la memoria dei deportati e l’elaborazione critica di una generazione più giovane si potesse alimentare un patrimonio culturale e di conoscenze destinato a radicarsi durevolmente nella nostra coscienza civile.
La città che non dimentica
Vice presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ed deportati) e presidente della sua sezione piemontese, sodale di Primo Levi, fece degli ex deportati piemontesi il centro di aggregazione di una attività editoriale e di ricerca che non trova analogo riscontro in altre parti d’Italia, a partire da quel convegno del 1983 che sin dal titolo Il dovere di testimoniare, impostava un impegno di lavoro e un programma di presenza civile. Ispiratore e consigliere, Vasari è stato compartecipe di tutte le iniziative culturali dell’Aned piemontese, appoggiandosi al Dipartimento di storia dell’Università di Torino e a una leva di ricercatori di qualità non comuni. In quel contesto nacque, unico in Italia, l’Archivio delle storie di vita degli ex deportati residenti in Piemonte e successivamente quel volume La vita offesa a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla (1986), che resta tuttora un modello insuperato di raccolta e di utilizzazione dei ricordi degli ex deportati.
Non è qui il luogo per ricordare tutti i convegni, i seminari e le pubblicazioni rese possibili da quegli incontri. L’attivismo di Vasari, il suo timore di arrivare troppo tardi a fare conoscere da quali prove tremende erano usciti gli uomini che hanno restituito dignità e libertà al nostro paese, non era mai connotato di pessimismo; al contrario era rischiarato da note di speranza e dalla sua vena lirica, perché forse un giorno anche Vasari entrerà in una antologia poetica della deportazione. Ricordo tra i tanti incontri vissuti insieme un suo intervento all’Università di Cosenza in cui, rispondendo ad una domanda apparentemente stravagante di una giovanissima studentessa - «Voi nel Lager sognavate? e che cosa sognavate?» -, diede una lezione di autentica poesia, espressione dei valori che avevano aiutato a vivere e ad alimentare la resistenza dei deportati. Vorrei augurarmi che qualcuno abbia registrato quelle parole e che un giorno potremmo rileggerle.
Un’opera che manca
Se un’ossessione aveva Vasari era che nulla andasse perduto di ciò che si diceva nei convegni e negli incontri che promuoveva; il tentativo di sottrarsi a questo impegno lo trovava implacabile. Ma credo che tutti noi che siamo stati coinvolti nelle sue iniziative gli siamo ancora debitori di qualcosa. Da anni perseguiva l’obiettivo di riuscire a fare varare un’opera che manca in Italia e che non è certo di facile realizzazione, quale una storia generale della deportazione, affidata ora a Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli, della quale si dovrebbe avere tra non molto una prima anticipazione.
Una esistenza piena, senza soste. Non a caso il libro-intervista sulla sua vita che licenziò nel 2001 reca emblematicamente il titolo Il riposo non è affar nostro.
Negare la Shoah sarà reato. La legge il Giorno della Memoria Lo annuncia il ministro Mastella *
Nel prossimo consiglio dei ministri del 27 gennaio, che coincide con la celebrazione della Giornata della memoria, sarà approvato dal governo un disegno di legge che penalizza il negazionismo della Shoah, l’olocausto degli ebrei. Mastella ha proposto all’Ue di istituire il reato di negazionismo di etnogenocidi, reato in cui entrerebbe a far parte anche il massacro degli armeni in Turchia, dove è stato assassinato il giornalista che sfidava la legge che ancora lo nega
«Bisogna tenere alto il livello di guardia contro ogni rigurgito di antisemitismo». con queste parole, il ministro della giustizia, Clemente Mastella, annuncia la presentazione al prossimo consiglio dei ministri del 27 gennaio, che coincide con la celebrazione della Giornata della memoria, di un disegno di legge contro il diritto di negare la Shoa, olocausto degli ebrei. In una nota diffusa dal suo dicastero, il Guardasigilli aggiunge: «Il ddl, che sarà approntato ascoltando le comunità ebraiche, assume un rilievo fondamentale per tutte le minoranze. negare che quei fatti sono avvenuti significa che quello che è stato documentato è falso. É quindi un offesa alla memoria e alla storia». Il presidente dell’Ucei, Renzo Gattegna, ricevuto ieri in delegazione nel dicastero di via Arenula, ha spiegato che i testimoni diretti dell’Olocausto via via non ci saranno più. per questo un ddl è importante «quando l’aspetto emotivo dell’olocausto perderà vigore e bisognerà rafforzare l’elemento culturale con un particolare impegno verso le nuove generazioni». Il Guardasigilli si augura ora che «ci sia la collegialità del governo nel sostenere questo disegno di legge perché- spiega- alcune cose non siano ostaggio di false memorie. Sono convinto- conclude- che riabilitare le verità storiche è una priorità non un vezzo culturale». Secondo Mastella, «oltre che ricordare, ci pare giusto anche determinare condizioni per le quali non si possa ricadere da parte di nessuno in tentazione. E non considerare questo fenomeno di antisemitismo come un rigurgito marginale».
Pochi giorni fa lo stesso Mastella a Dresda per un vertice con gli altri ministri degli Interni e della Giustizia a livello europeo ha lanciato un appello affinché il negazionismo della Shoah diventi reato in tutti i paesi dell’Unione Europea. Mastella aveva lanciato l’idea incontrando la sua omologa Brigitte Zypries. In molti paesi il negazionismo è già un reato di opinione: in Germania, in Francia, in Israele e recentemente anche in Austria. In Austria in particolare si è sviluppato un forte dibattito su questo tema a partire dall’arresto nel novembre scorso dello storico negazionista David Irving per i discorsi da lui pronunciati nel 1989 a Vienna in cui sosteneva la sua tesi che mette in dubbio l’esistenza stessa delle camere a gas. Considerato agli inizi della carriera come una delle più brillanti promesse della storiografia britannica, Irving - che oggi ha 67 anni - ha costruito il suo teorema alla fine degli Anni Sessanta sostenendo che Hitler almeno fino al 1943 non sapeva nulla dei forni e non diede mai l’ordine formale di sterminare gli ebrei. Lo storico inglese ha anche annunciato di aver cambiato idea, «dopo avere consultato archivi sovietici». Ma poi ha ribaltato di nuovo la sua versione. È stato comunque condannato a 3 anni di prigionia per apologia del nazismo. Dopo la sentenza del giudice di Vienna però molti storici, opinionisti e alcuni sondaggi hanno criticato l’idea di istituire processi contro i negazionisti perché in questo modo si rischierebbe di dar loro risalto, avvalorando l’impressione che ci sia una sorta di "verità proibita" e trasformando i negazionisti in "martiri".
In Francia recentemente ha fatto molto discutere anche l’istituzione di un reato d’opinione per i negazionisti del genocidio armeno da parte dei turchi. Il genocidio del popolo armeno non viene riconosciuto dal governo di Ankara e questo è uno dei motivi di maggiore frizione nella Ue nella prospettiva di un ingresso della Turchia nell’Unione. I negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa sono iniziati nel 2005 ma questo processo è attualmente "congelato" proprio per la mancata osservanza da parte di Ankara di 8 dei 35 precetti di Bruxelles, tra cui la questione del riconoscimento di Cipro e il rispetto degli standard sui diritti umani e la non persecuzione delle minoranze. Ora una condanna del negazionismo etnico, così come vorrebbe Mastella, adottata come direttiva europea metterebbe un pesante, forse insormontabile, macigno sull’ingresso della Turchia nella Ue.
Finora la Corte Europea ha solo sentenziato sul negazionismo, inteso come studio con metodologie pseudo scientifiche dell’olocausto degli ebrei, che questo studio non può essere tutelato o finanziato, perché esula dal diritto di libertà di opinione in quanto si basa sulla falsificazione di prove storiche e scientifiche.
* l’Unità, Pubblicato il: 19.01.07 Modificato il: 19.01.07 alle ore 16.41
La Storia non si fa con le leggi
di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 20.01.2007)
Proibire il negazionismo per legge è sbagliato. La proposta del ministro Mastella segnala un’inquietante rincorsa delle istituzioni a recintare i percorsi della memoria e della storia e si inserisce in un’ossessiva proliferazione di «leggi memoriali» che veramente rischia di favorire più l’oblio che il ricordo. Troppe contraddizioni, troppa enfasi celebrativa, troppe tradizioni inventate, troppe scorciatoie rispetto alla realtà storica e, soprattutto, troppi morti a cui chiedere la legittimazione delle proprie posizioni politiche attuali.
È una realtà: chiamare le leggi a sancire delle verità storiche alimenta un corto circuito tra quelle che sono le ragioni della ricerca storica e quelle dell’uso pubblico della storia, una commistione in cui la storia troppe volte viene utilizzata come un nodoso randello da abbassare sulla schiena degli avversari. In Francia l’abuso di leggi memoriali ha provocato polemiche furibonde e si è risolto in una sorta di boomerang culturale e politico. Nel 2005 ci fu la legge del 23 febbraio che sollecitava i manuali di storia adottati nelle scuole a dare un giudizio positivo sulla colonizzazione francese nell’Africa del Nord.
Il provvedimento aveva almeno tre precedenti molto significativi: la legge Gayssot (13 luglio 1990) contro il negazionismo, quella del 29 gennaio 2001 che riconosceva il genocidio degli armeni a opera dei turchi, la legge Taubira (21 maggio 2001) che definiva la schiavitù e la tratta negriera «un crimine contro l’umanità».
Nel dibattito che ne seguì si fece un’opportuna distinzione che vale la pena riprendere. Riconsideriamo la disposizione transitoria della Costituzione italiana che vieta la ricostituzione del partito fascista o la legge austriaca sulla base della quale è stato recentemente arrestato lo storico negazionista Irving: si tratta di provvedimenti emanati nell’immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1948, quando le ferite belliche ancora bruciavano; per l’Italia si trattava di erigere un argine legislativo contro ogni proposito di rivincita del fascismo; per gli austriaci di fare i conti con la pagina più oscura della loro storia che li aveva portati ad accogliere con entusiasmo il nazismo. Quelle leggi non intendevano certificare la storia: semplicemente rendevano esplicite le basi politiche («mai più il fascismo», «mai più il nazismo») sulle quali nascevano le nuove repubbliche democratiche uscite dagli incubi delle dittature.
Del tutto diverso è il caso di leggi che arrivano mezzo secolo dopo gli eventi, quando su quegli stessi eventi si sono depositate le verità ben più credibili e attendibili della ricerca storica, quando quei crimini sono stati condannati non solo dalle memorie e dai ricordi dei sopravvissuti, ma anche e soprattutto dai documenti e dalle prove raccolte dagli storici. Tornando alla Francia, poco tempo fa è scomparso un grande storico come Vidal Naquet. Nella battaglia contro i negazionisti usò tutto il peso del suo rigore filologico, attaccandoli sul terreno strategico della critica delle fonti, smascherandone i falsi e le manipolazioni. Nella sua ultima polemica contro Irving, parlò del «disonore di falsificare una materia che si conosce». Fu un giudizio inappellabile, una sentenza contro Irving più esemplarmente fondata di quella emessa da qualsiasi tribunale.
Shoah - Opinioni a confronto *
Noi storici contro la legge che punisce chi nega la Shoah
Storici contro la legge che punisce i "negazionisti"
da "l’Unità" del 23 gennaio 2007
Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l’esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria. Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell’attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall’autorità statale (l’«antifascismo» nella Ddr, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l’idea, assai discussa anche tra gli storici, della «unicità della Shoah», non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L’Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative. La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all’odio razziale, all’apologia di reati ripugnanti e offensivi per l’umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste.
Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.
Marcello Flores, Università di Siena; Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley; Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne; David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli; Bruno Bongiovanni, Università di Torino; Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza; Gustavo Corni, Università di Trento; Alberto De Bernardi, Università di Bologna; Tommaso Detti, Università di Siena; Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata; Maria Ferretti, Università della Tuscia; Umberto Gentiloni, Università di Teramo; Paul Ginsborg, Università di Firenze; Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa; Giovanni Gozzini, Università di Siena; Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II; Mario Isnenghi, Università di Venezia; Fabio Levi, Università di Torino; Giovanni Levi, Università di Venezia; Sergio Luzzatto, Università di Torino; Paolo Macry, Università di Napoli Federico II; Giovanni Miccoli, Università di Trieste; Claudio Pavone, storico; Paolo Pezzino, Università di Pisa; Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza; Gabriele Ranzato, Università di Pisa; Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza; Mariuccia Salvati, Università di Bologna; Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze.
IL negazionismo è un crimine contro l’Umanità e come tale va punito
di Ettore Lomaglio SIlvestri
In questi giorni ho letto diverse opposizioni alla proposta lanciata dal ministro della Giustizia italiano di rendere la negazione della Shoah un reato punibile penalmente.
Io ho sostenuto tale iniziativa ritenendo fondamentale la tutela della Verità anche a livello penale, ma le considerazioni e la rilevanza degli oppositori mi hanno fatto riflettere sull’opportunità di tale mio appoggio.
Non ritengo di essere infallibile, anzi probabilmente sono la persona meno adatta a dare giudizi o pareri su tali argomenti, ma in quello che faccio ci metto il cuore e l’anima, la stessa che mi porta a scrivere dei versi di profonda sofferenza su quello che è stato.
Debbo quindi ripensare tale mio appoggio ad un’iniziativa non per la sua negatività, ma perché ritengo che un crimine come il negazionismo, per quello che comporta in termini di Male sia precedente che potenziale, possa essere assimilato a un crimine contro l’Umanità stessa.
Per cui ritengo, invece, che negare la Shoah, probabilmente il più documentato crimine dell’uomo contro l’uomo, molto di più di tutti gli eventi che storicamente noi diamo per certi pur essendo precedenti e giunti a noi per la maggior parte per tradizione e non per testimonianza diretta, debba essere considerato Crimine contro l’Umanità alla pari del genocidio, e come tale punito.
Chiunque nega ciò che è stato storicamente documentato e provato e testimoniato, e che stato sistematicamente compiuto dai volenterosi carnefici di Hitler, per lo sterminio di chi era diverso dal concetto di "ariano" e quindi ebreo, testimone di geova, omosessuale, zingaro, criminale politico ecc.ecc., e tutto ciò che ne deriva, deve essere giudicato da una Corte internazionale di Giustizia.
Deve essere posto di fronte all’evidenza dei fatti, deve essere portato a riconsiderare quanto detto e a pensare alle conseguenze di quanto da lui affermato.
Se persiste nella negazione deve essere condannato in base al peso delle sue negazioni, affinché si renda conto del Male Assoluto che esse comportano.
La sua deve essere una condanna morale e storica, perché l’essere umano non deve macchiarsi dello stesso male che punisce, e quindi non con la pena di morte né con la tortura né con la detenzione inumana.
Che l’Italia e i Paesi delle Nazioni Unite si facciano carico di questa iniziativa.
La Pace rende liberi!!!
Ettore Lomaglio SIlvestri
via Lecco 22
24035 CURNO BG
Io ho visto
dentro i tuoi occhi
la morte
che consumava
milioni di corpi
lasciati marcire
al freddo
di Auschwitz,
ho visto
dentro i tuoi occhi
l’immagine
dell’odio umano
che corrompeva
la sua dignità
all’insano
fuoco di Auschwitz.
Io ho visto
nei tuoi occhi
le infinite lacrime
che bagnavano
le ossa esposte
al fetido
cielo di Auschwitz.
Milioni di ebrei
diventati cenere
o pasto per gli avvoltoi
per colpa di bionde
iene naziste
con i baffi
al posto del cuore.
Ma nel tuo cuore
ho visto
ancora tanta bontà,
E’ quella
che solo chi
ha conosciuto
il male assoluto
può donare.
9 marzo 2005
Dedicata ad un mio amico che si è salvato da Auschwitz
— In memoria di Abbas al Shalhoub di anni uno, deceduto a Cana per mano degli israeliani, insieme a tutti gli altri bambini che, come lui, non hanno nessuna colpa del male dei grandi.
IO VIVO IN PACE E VOGLIO LA PACE
Ettore Lomaglio Silvestri
promotore del comitato Amico di Emergency traduttore junior per l’Emergenza Libano dei Traduttori per la Pace
* www.ildialogo.org, Mercoledì, 24 gennaio 2007
DEMOCRAZIA E NEGAZIONISMO
LIBERTA’ DI PAROLA. Si può mentire sulla storia?
di Stefano Rodotà (la Repubblica/Diario, 26 gennaio 2007)
Lo sappiamo. "Ne uccide più la lingua che la spada", "le parole sono pietre", "i cattivi maestri"... Ma il passaggio dalla saggezza popolare, dall’indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è complicato, e può risultare distorcente.
Hanno ragione gli storici con il loro Manifesto di critica alla proposta del ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un problema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia della galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una tensione morale.
Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero certamente, dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all’articolo 21 della nostra Costituzione, all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma siamo di fronte anche a interrogativi che riguardano il ruolo della politica, la distribuzione di poteri e responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche sociali, l’uso corretto dello strumento giuridico. E tutto questo deve essere anche valutato tenendo conto che nel mondo tira una brutta aria di censura, che si coglie subito considerando le molte manifestazioni di fastidio verso Internet, che si ritiene veicolo di contenuti inaccettabili. Se Popper aveva chiamato la televisione "cattiva maestra", molti sono inclini a ritenere che la Rete come maestra sia pessima. Sottolineo questo punto perché l’introduzione di un reato (o di una aggravante) di negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre opinioni ritenute socialmente non accettabili.
Le critiche degli storici non sono soltanto sacrosante nel segnalare i rischi per tutti di una "verità di Stato", che può tirarsi dietro un’etica di Stato e altro ancora. Sono rafforzate da molti altri elementi, a cominciare da quelli tratti dall’esperienza dei paesi che già hanno introdotto il reato di negazionismo e che, malgrado ciò, continuano a conoscere manifestazioni gravi di antisemitismo e presenze politiche di gruppi variamente espressivi di spiriti nazisti. L’Austria ha condannato David Irving, ma non era riuscita a evitare Haider.
Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi.
Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno radici culturali e sociali profonde, che non possono essere recise con un gesto formale. L’approvazione di una norma, anzi, può trasformarsi in un alibi o in un diversivo.
Vi è un problema grave, gravissimo come il negazionismo? Ma io ho le carte in regola e la coscienza pulita: ho usato lo strumento giuridico più potente, la definizione di quel comportamento come reato. E quindi avverto meno, faccio diventare secondaria quella che, invece, è la vera strategia di contrasto: l’informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. Voto in Parlamento una legge e mi salvo l’anima. E poi, se qualche gruppetto intriso proprio di quelle convinzioni mi serve per vincere le elezioni, non esito a farlo entrare nella mia coalizione. La vera lotta al negazionismo passa attraverso la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze e alla tentazione di non condannare alcune manifestazioni perché "minori", attraverso l’intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d’ogni suo argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.
Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia del fascismo a impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie a una azione politica e culturale che ha avuto nell’antifascismo un riferimento forte, che ne ha fatto un valore simbolico e un criterio di valutazione dei comportamenti, isolando soggetti politici ed impedendo anche che i contatti, più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero legittimazione pubblica. So bene di dire cose che non sono in sintonia con lo spirito dei tempi. Ma le cose sono andate proprio così. E forse anche gli eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi tenacemente li volle fuori dall’arco costituzionale e, così facendo, impedì loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad approdare in qualche modo ai lidi della democrazia.
La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e moralmente condannabili. L’alt agli estremismi non passa attraverso leggi speciali. Lo ha visto bene il rabbino Elio Toaff, con la memoria di chi ha conosciuto i guasti prodotti da questo uso delle norme.
Il Governo e il Parlamento non possono ritenere che il problema si risolva dislocandolo in un’altra area istituzionale, facendolo divenire un affare dei giudici. Vi è una sapiente, e non nuova, schizofrenia istituzionale in tutto questo. Si scaricano sui giudici conflitti sociali e culturali, e poi ci si lamenta che i giudici hanno troppo potere, che "fanno politica". E che altro dovrebbero fare, quando la politica non fa la sua parte?
Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del negazionismo, né paura della libertà. L’impegno nella ricerca, l’interminata fatica della critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai suoi concittadini americani: «I mali della democrazia si curano con più democrazia».
Negazionismo è spesso antisemitismo
Per questo va sanzionato in Europa, specie nei Paesi che collaborarono allo sterminio degli ebrei. La proposta Mastella segue l’appello di Angela Merkel
di BRUNELLO MANTELLI*
Non ho firmato il comunicato steso da Marcello Flores, Simon Levis Sullam ed Enzo Traverso, e sottoscritto da circa 150 colleghi storici, di critica all’ipotesi, enunciata dal ministro Mastella, di rendere reato penale la negazione della Shoah. Molti ragionamenti presenti in quel testo e negli interventi apparsi sui quotidiani possono apparire condivisibili e convincenti, e tuttavia mi sembrano peccare di astrattezza. Credo che esista una fondamentale differenza tra il discutere di questo tema in Paesi che la Shoah non l’hanno conosciuta direttamente né tantomeno vi hanno dato un contributo attivo, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia, e invece parlarne in quegli Stati che si sono fatti parte attiva nel perseguitare gli ebrei d’Europa e dal 1941 nello sterminarli: la Germania, l’Austria (l’Anschluß non autorizza gli austriaci a considerarsi semplicemente le «prime vittime del nazionalsocialismo»), l’Italia (tralascio per brevità i casi analoghi slovacco, romeno, ungherese, e così via).
Alla Shoah l’Italia diede un contributo decisivo
Dal 1938 l’Italia monarchico-fascista perseguitò duramente gli ebrei italiani e stranieri, e dopo l’8 settembre la Repubblica Sociale Italiana (composta da italiani, compresi i «ragazzi di Salò») diede un contributo decisivo nell’arrestare, concentrare, deportare quasi 9 mila ebrei verso Auschwitz (e oltre 26 mila non ebrei verso Mauthausen, Dachau, Ravensbrück). Per questo credo la questione non possa non suonare diversamente se posta da noi, così come nella Repubblica federale tedesca. È opportuno che questo Paese e i suoi cittadini imparino a provare vergogna per ciò che i suoi governanti di allora commisero, nell’indifferenza e spesso con l’appoggio dei cittadini non ebrei. La proposta di legge, se si limiterà a dire che è reato negare la storicità della Shoah non sarà sufficiente, rischiando di assecondare la tendenza diffusissima a scaricare la colpa su qualcun altro: «La deportazione e la Shoah l’han fatta i nazisti» è discorso frequente; «l’Italia è fuori dal cono d’ombra della Shoah» è frase scritta, sciaguratamente, da un grande storico quale fu Renzo De Felice. Ma se nel testo saranno richiamate le precise responsabilità dell’Italia monarchico-fascista prima, della Repubblica sociale italiana dopo, nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei in Italia, allora anche la norma giuridica potrà dare un contributo a far diventare questo Paese un po’ più consapevole.
La libertà di opinione non c’entra
Vorrei far notare che: a) la proposta del ministro Mastella si richiama alla proposta lanciata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, presidente pro tempore dell’Ue, secondo la quale tutti gli Stati membri dell’Unione dovrebbero dotarsi di una legislazione analoga a quelle vigenti nella stessa Brd, in Austria e in Francia; b) nessuno può ritenere che Germania, Austria e Francia non siano Stati di diritto, democratici, rispettosi dei diritti dei cittadini (e la questione è all’ordine del giorno anche nella Confederazione elvetica); d) che c’entra la libertà di opinione con la manifestazione pubblica di affermazioni che portano un chiaro segno antisemita? e) Il negazionismo è una forma di antisemitismo, posto che in discussione non è il fatto che si discuta attorno ai «perché», ai «come», al «dove», al «quando» e nemmeno al «quanto» in merito alla distruzione degli ebrei d’Europa, ma il fatto che lo si neghi puramente e semplicemente; f) è la negazione pura e semplice dell’evento che a mio giudizio è opportuno sanzionare, qui in Europa, dove la distruzione fu effettuata, e in particolare negli Stati che di tale distruzione furono agenti attivi.
*Professore di Storia Contemporanea Università di Torino
* La Stampa, 26/1/2007
SHOAH,CARCERE FINO A 12 ANNI PER CHI FA APOLOGIA *
ROMA - L’introduzione nel codice penale del reato di "istigazione a commettere crimini contro l’umanità e di apologia dei crimini contro l’umanita", punito con il carcere da tre a 12 anni. E’ questa la principale novità della bozza di ddl preannunciato dal ministro della Giustizia Clemente Mastella per punire i negazionisti della Shoah. Il testo, composto di sette articoli, è stato trasmesso dal dicastero di Via Arenula a Palazzo Chigi per l’esame in pre-consiglio dei ministri. Il ddl risulta all’ordine del giorno della riunione del consiglio di domani.
ANSA » 2007-01-24 21:09
SHOAH: CDM APPROVA ALL’UNANIMITA’ DDL MASTELLA
Roma, 25 gen. - (Adnkronos) - Il ddl Mastella sul negazionismo e’ stato approvato all’unanimita’ dal Consiglio dei Ministri. Lo si apprende da fonti ministeriali.
Pene fino a 3 anni per chi diffonde idee sulla superiorità razziale e fino a 4 anni per chi commette o incita a commettere atti discriminatori
Sì del Consiglio dei ministri al ddl Mastella Le idee antisemite saranno reato
Viene istituito un Osservatorio sull’antisemitismo in Italia e il finanziamento di un programma di educazione sulla Shoah *
ROMA - Chi nega l’Olocausto potrebbe essere perseguito penalmente. Ecco quel che prevede il disegno di legge - sei articoli in tutto - presentato dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, approvato oggi all’unanimità dal Consiglio dei ministri, un provvedimento che tuttavia non fa riferimento diretto al negazionismo della Shoah ma si riferisce, in generale, "ai delitti di istigazione a commettere crimini contro l’umanità e di apologia dei crimini contro l’umanità".
Il progetto amplia e rende più severe le norme per quanti propagandino la superiorità razziale, e quanti commettano, o incitino a commettere, atti persecutori. Il ddl prevede che venga punito con una pena sino a tre anni chiunque diffonda idee sulla superiorità razziale e prevede una pena dai sei mesi a quattro anni per chiunque commetta o inciti a commettere atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o compiuti a causa del personale orientamento sessuale o dell’identità di genere.
Nel ddl Mastella non compare alcun riferimento specifico al negazionismo della Shoah, come invece era stato ipotizzato in una prima stesura del testo. Il ddl di fatto reintroduce le norme del 1993, previste dal decreto Mancino sulla discriminazione per motivi razziali, etnici nazionali o religiosi che erano state depenalizzate dalla legge sui reati di opinione votata nel 2006 sotto il governo Berlusconi.
Con le nuove modifiche alla legge 2006, dunque, si torna al passato. Basterà semplicemente "diffondere", pur senza fare "propaganda", idee antisemite o sulla superiorità e l’odio razziale per essere perseguiti. In questo senso, dipenderà dall’interpretazione che daranno i magistrati alle nuove norme - viene fatto notare da tecnici del ministero della Giustizia - se le idee o le esternazioni di storici o opinionisti negazionisti della Shoah possono considerarsi o meno diffusione delle idee fondate sulla superiorità o l’odio razziale.
Infine, il disegno presentato dal Guardasigilli prevede che gli assegni vitalizi per i perseguitati politici e razziali non incidano sui limiti di reddito. E’ quindi ora possibile il riconoscimento dell’assegno e della pensione sociale indipendentemente dal reddito. Il ddl include il finanziamento di un programma internazionale di educazione sull’Olocausto.
* la Repubblica, 25 gennaio 2007.
il caso
Quei 107 bimbi provenienti da Roma morti nel lager (Avvenire, 16.01.2007)
«Anatomia di una deportazione» è un libro curato dall’Archivio storico della Comunità ebraica di Roma (in uscita da Guerini ed Associati) che ricostruisce la deportazione da Roma dei primi ebrei italiani ad opera dei nazisti. Il 24 ottobre 1943 ad Auschwitz, morirono fra l’altro 107 bambini che avevano meno di 5 anni. Erano partiti dalla Stazione Tiburtina in 1015 e 819 furono subito mandati nelle camere a gas. Il rastrellamento del 16 ottobre fu condotto nel ghetto e anche nel resto della capitale. I tedeschi usarono le liste stilate dalla Questura dopo le leggi razziali. Nel libro anche i verbali di Kappler sui 50 chili d’oro presi agli ebrei, oro ritrovato dagli alleati in Germania.
homi bhabha
Il passato che non vuole passare, il futuro che non vuole aspettare
Il multiculturalismo di ascendenza liberale tratta le identità come stati sovrani. E questo accade quando la globalizzazione erode la sovranità Trasmissione culturale, eredità globale, interlocuzione, parzialità, ibridazione. La «politica della morte» nell’era del terrore e dell’errore. Toccare il trauma fra orgoglio e vergogna. La prospettiva di Homi Bhabha sul presente in transizione
di Ida Dominijanni e Brett Neilson (il manifesto, 12.12.2006)
«Non c’è alcun documento della civiltà che non sia al contempo un documento della barbarie». Ritornando su questo giudizio di Walter Benjamin, Homi Bhabha, ospite d’onore al convegno sul meticciato organizzato giovedì scorso al Centro di studi americani di Roma, ha parlato del rapporto fra ambivalenza della trasmissione culturale, ambivalenza strutturale dell’esistenza personale e politica nel mondo globale, costruzione di una società ibridata alternativa al multiculturalismo identitario di marca liberal-pluralista. La tensione fra trasmissione di civiltà e «trasmissione barbarica» che i monumenti comunicano evoca la tensione fra «appropriazione carica di orgoglio e alienazione carica di vergogna» che sentiamo nei confronti delle narrative storiche da cui proveniamo: l’elaborazione di questa tensione è un passo necessario per fare spazio a un’eredità globale che le decostruisca e le superi. Homi Bhabha sviluppa il suo ragionamento a partire da una sua recente visita allo Zeppelinfeld di Norimberga. Ma poiché siamo a Roma, tanto vale ripercorrerlo a partire dall’Ara Pacis di Augusto, da poco riaperta al pubblico nel nuovo padiglione di Richard Maier, molto discusso dal punto di vista architettonico, meno dal punto di vista del messaggio memoriale.
La Pax Augustea sigla il passaggio dalla Repubblica all’Impero romano, dopo una lunga era di guerre. Guardando l’Ara Pacis con gli occhi di oggi viene da chiedersi: ci sarà mai un monumento che segni la fine della «endless war», come tu stesso l’hai chiamata, nell’Impero globale di oggi? E come te lo immagineresti?
E’ proprio dei monumenti siglare la fine delle guerre. Ma nel portarne la memoria, essi ne perdono l’essenziale: trascendono in una idealizzazione eroica il vissuto della violenza e della sofferenza. C’è un narcisismo dei monumenti, che risponde al bisogno di autocelebrazione dei sopravvissuti. Un memoriale della endless war in cui siamo precipitati con l’11 settembre, ammesso che essa avrà mai appunto una fine, dovrebbe restituirne le caratteristiche specifiche. Una guerra che da ambo le parti assume la forma di una guerriglia, e che da ambo le parti ha come obiettivo principale i civili: i cittadini comuni, che continuano a vivere «normalmente» sotto l’ingiunzione di lavorare, produrre e consumare, e che rischiano di esplodere mentre tutto viene deciso in nome della loro sicurezza. Degli orrori e dei dolori di questa guerra abbiamo già molti documenti: le foto di Abu Ghraib, delle atrocità di Saddam Hussein, degli ostaggi sgozzati, dei danni collaterali dei willing, dei musei saccheggiati, di Donald Rumsfeld che liquida tutto col suo «stuff happens». Un monumento dovrebbe restituire questa particolare condizione dei civili, di una vita quotidiana «normale» che è diventata obiettivo e posta in gioco.
Nella tua conferenza hai parlato del rapporto fra «trasmissione barbarica» e costruzione di una «eredità globale». Tema cruciale, perché invita a ripensare la globalizzzaione come un processo che non riguarda solo il presente e il futuro, ma anche il passato, o il passato anteriore.
Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente. Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta del mondo globale, per l’altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani». Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.
Guardiamo appunto al nostro presente. Oggi, tu dici, sono in atto due forme di «trasmissione barbarica»: l’islamizzazione tramite terrorismo e la democratizzazione tramite guerra. Che sono anche due forme di quella che tu definisci «politica della morte». Aldilà dell’evidenza, cosa intendi precisamente per «politica della morte»?
Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah Arendt , che la politica sia costruzione della polis, llegame, interlocuzione, in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte, si entra nell’età del terrore e dell’errore, in cui il potere per un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l’altro rischia continuamente la fallacia nell’uso delle informazioni. Una situazione storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza e responsabilità.
D’accordo, ma la politica della morte è da sempre l’altra faccia della politica della vita: tanatopolitica e biopolitica vanno assieme, diceva Derrida...
...e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che segna l’era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing zone fatta di razzismo e esclusione. E’ bene però individuare il salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap il valore della vita. Nell’Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del mondo era: siete in grado di mettere l’individuo al di sopra della comunità? Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura dell’altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole: «la tua cultura vuole uccidermi?». E’ quello che chiamo complesso securitario.
C’è la politica della morte, e c’è la morte della politica. Mentre vige questa politica della morte che tu descrivi, in molto dibattito filosofico-politico si parla sempre più insistentemente di «fine della politica». C’è un rapporto secondo te fra queste due rappresentazioni, «politica della morte» e «fine della politica», e quale?
Per me, come dicevo poco fa, la politica della morte è la morte della politica. Ma con «fine della politica» - un tema che mi pare tipico del contesto italiano, un po’ come la «fine del romanzo» - credo che si faccia riferimento a un grappolo più ampio di questioni: fine della partecipazione, manipolazione della rappresentanza, perdita della trasparenza democratica, illegalità, corruzione, fine dello stato. Tutti processi realmente in atto. Tuttavia, prima di decretare la fine della politica bisogna uscire dalla rappresentazione classica del teatro della politica come dinamica stato-antistato. Negli ultimi decenni, soggetti non statali e transnazionali, dal femminismo ai movimenti sull’Aids e la politica sanitaria, hanno modificato quel teatro portando nella sfera pubblica questioni prima confinate nella sfera privata. Nella fine della politica, c’è dunque anche una politica che comincia, incentrata su domande etiche.
Questo ricorso supplementare all’etica però è a sua volta tipico del dibattito anglosassone, e talvolta suona come un modo per evitare i problemi della politica...in che rapporto stanno scelta etica e decisione politica?
Etica e politica vanno assieme, sono, più che intrecciate, incastrate. L’etica non è un’aggiunta della politica, come i comitati etici nominati dai parlamenti in crisi: l’atto politico presuppone la scelta etica, e la scelta etica fa parte del teatro della politica. E la nostra posizione nel presente, fra il passato che non passa e il futuro che non aspetta, la intendo come posizione etica e politica.
Questa posizione tuttavia, nel tuo discorso, è strutturalmente caratterizzata dall’ambivalenza, termine che tu prendi dichiaratamente dalla psicoanalisi. Nella tua lezione al festival di filosofia di Roma dello scorso maggio, hai detto che il lessico della politica è troppo stretto e va arricchito e modificato con categorie esterne. L’ambivalenza è una di queste?
Sì. L’ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale, tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell’ambivalenza invece non c’è sintesi, c’è solo il lavoro continuo dell’elaborazione e dell’interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale ha molto a che fare con il modo di pensare l’identità, la parzialità, le differenze, il multiculturalismo.
Perché?
Perché nell’accezione liberale prevalente il multiculturalismo si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza, il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani. Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell’identità e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non ci sono culture che si muovono compattamente l’una contro l’altra: ci sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni, economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all’opera nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità, ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.
La pratica centrale che tu indichi per entrare in questa complessità è quella dell’interlocuzione. L’interlocuzione va intesa anche come inter-locazione?
A febbraio presenterò What does a terrorist want?, un libro che sostiene che con i terroristi bisogna interloquire, differentemente da quanto fanno i governi occidentali e da quanto facevano Thatcher e Reagan con Mandela quando lo bollavano come terrorista. L’interlocuzione non è il dialogo habermasiano, che presuppone un orizzonte di riferimento comune. Nell’interlocuzione non ci sono fondamenti condivisi, la situazione è disgiuntiva, inuguale, non del tutto traducibile; l’interlocuzione non si basa su una lingua comune, ma su un trauma della lingua che domanda a tuttti e due gli interlocutori, il carnefice e la vittima, di cambiare il proprio lessico.
Quali sono le sedi di questa pratica dell’interlocuzione? Quando accenni a delle istituzioni cos’hai in mente? L’università, l’Onu, il Wef...?O dobbiamo inventarne di nuove?
Non pensavo solo a nuove istituzioni, dobbiamo cominciare dai luoghi che già frequentiamo...ad esempio, noi stiamo facendo questa intervista per il manifesto, con un linguaggio diverso da quello canonico dei giornali. C’è una proliferazioni di istituzioni, corti di giustizia, sedi di eleborazione collettiva in cui si sperimentano forme di interlocuzione: in Ruanda, gli hutu e i tutsi hanno respinto il dispositivo che gli era stato proposto e hanno tirato fuori i loro tappeti per disegnare il territorio della riconciliazione.
«We must love one another or die»: che cosa significa politicamente il verso di Auden che hai citato nella tua conferenza? Una politica dell’amore contro la politica della morte?
Parlo di amore sociale, alleanza, solidarietà: il ventaglio complesso di identificazioni che l’amore suscita. Dal sisma della sovranità possono nascere nuove forme di affiliazione, tenute assieme non dalla razionalità del politico ma dall’intero lessico degli affetti che impronta la nostra esistenza pubblica e privata, le sue ambivalenze, il processo interminabile della loro elaborazione.
SCHEDA
Postmodernità
Da Bombay a Boston, i luoghi di Homi Bhabha
Homi K. Bhabha, figura eminente degli studi post-coloniali e della traduzione culturale, è direttore dello Humanities Center dell’università di Harvard. Nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha studiato nella sua città e poi a Londra, Princeton, Chicago. E’ autore fra l’altro di «The Location of Culture» (Routledge 1994, trad. it. «I luoghi della cultura», Meltemi 2001),in cui articola la teoria dell’ambivalenza inscritta nel rapporto colonizzatore-colonizzato e l’idea che la produzione culturale nello scenario post coloniale si situi in uno spazio ibrido, liminale, di continua negoziazione dell’identità. Ha curato il volume «Nation and Narration» (Routledge 1990, trad. it. «Nazione e narrazione», Meltemi 1997). Di prossima pubblicazione sono «Measure of Dwelling» (Harvard University Press) e «The Right to Narrate» (Columbia University Press). A marzo del 2005, in occasione della riedizione per la Grove Press de «I dannati della Terra» di Frantz Fanon, Bhabha ha pubblicato sulla «Chronicle Review» un saggio sull’intellettuale martinicano intitolato «Is Frantz Fanon Still Relevant?» Con W. J. T. Mitchell, il direttore di «Critical Inquiry»,ha inoltre curatola raccolta «Edward Said: Continuing The Conversation» (Chicago University Press, 2005). E’ stato più volte in Italia, invitato dal Festival della Filosofia di Roma 2005, all’Università Roma 3 e al convegno della Fondazione Basso dov’è stata raccolta questa intervista.
Un solo male: il nazicomunismo
Resta da capire, pur ormai nell’abbondanza delle fonti, di cui Il mio cammino è solo l’ennesimo tassello, come non si riesca fino in fondo a smitizzare la grandezza del comunismo. Neppure di fronte a esempi lampanti, l’apologeta convinto rinuncia a questa utopia che ha prodotto più di cento milioni di morti nel Novecento.
Soprattutto riesce ancora difficile, l’equiparazione del fenomeno Gulag ai lager nazisti. Come se un male assoluto potesse avere una gradazione differente solo perché differenti le finalità con cui è stato compiuto: da un lato, il progetto di sterminio di una razza, dall’altra il progetto di sterminio di un popolo. Senza sminuire la portata storica della Shoa, oggi il rimontante antisemitismo, fomentato guarda caso da frange della sinistra ex comunista o altromondista, dimostra come si saldino i due poli e possano essere ricompresi in un unico sostantivo: il nazi-comunismo.
L’uso di questa categoria potrebbe finalmente annullare le velleità dei (purtroppo) tanti che ai giorni nostri continuano a salvare il comunismo in nome dell’idea che lo ha mosso. Il termine "comunista" sarebbe, allora, al pari di "nazista" un aggettivo dequalificante da abbandonare e non una bandiera da sventolare con gioiosa protervia, un marchio infame da nascondere e non la felice evoluzione ipotizzabile per ogni democrazia.
Quando nel 1998 fu pubblicato il Libro nero del comunismo di Stéphan Courtois, Norberto Bobbio rilasciò un’intervista a l’Unità, in cui auspicava questo processo di identificazione. Il filosofo torinese diceva: "La ragione dichiarata di questa contabilità (quella presente nel Libro nero... ndr) è di farla finita una volta per sempre di distinguere, rispetto alla vastità del crimine, il comunismo dal nazismo. Ci sarebbe, se mai, da domandarsi - e gli autori indubbiamente lo fanno - perché questa distinzione sia stata fatta e ne sia seguita non soltanto una attenuazione delle responsabilità dei regimi comunisti, ma anche una sopravvivenza del comunismo". E ancora: ". . .non c’è paese in cui sia stato instaurata un regime comunista, ove non si sia imposto un sistema di terrore. Possono variare i meccanismi dell’esercizio del terrore, la quantità e la qualità delle vittime, ma è dovunque, ripetiamo pure con forza, dovunque, identica la spietatezza, l’arbitrarietà e l’enormità dell’uso della violenza per mantenere il potere". E più oltre: "Questo universalismo dispotico appartiene alla natura stessa del comunismo storico. Se è così, e il libro offre una prova ineccepibile che è così, non ci si può non porre la domanda se la forma dispotica del potere non sia connaturata all’essenza stessa del comunismo. Coloro che ne tentano una difesa, hanno un bel dire: "Il comunismo storico è stato una forma degenerativa del comunismo ideale". Ma come mai questa degenerazione è avvenuta sempre e dappertutto?".
La ragione di questo, per ora, non accettato raffronto tra comunismo e nazismo è forse nella falsità che ha ispirato e talora ancora ispira gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo. Sosteneva Sartre di essere più sensibile all’uso che la borghesia fa delle rivelazioni sui campi di concentramento piuttosto che alla loro esistenza vera e propria.
Liberamente tratto da :"Gulag l’inferno del comunismo" di Angelo Crespi
Caro Biasi
continui a guardarti allo specchio ... e non capisci!!! Vedi che stai parlando delle tue ’origini’ ... e dei tuoi ’fratelli’: il "nazicomunismo" di cui parli (servendoti di altri) è figlio dei "faraoni" e dei "cattolici-romani"!!! Mi dispiace: sei stato educato e allevato nella casa dei faraoni e dei cattolici-romani e di "mammasantissima" ... e non fai niente per svegliarti e uscire dallo "stato di minorità". Neghi l’evidenza ... e io non posso far altro che esortarti ancora una volta a ritornare in te stesso... a ri-leggere (non dico tanto, ma almeno) la novella di Pirandello (Un "goj", 1918)!!! .... e, poi, la Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ (la COSTITUZIONE). Ricordalo. Forse ... vedrai brillare un po’ di luce dalle Montagne della nostra Italia, e ti renderai conto finalmente che un altro - non quello di Egitto o di Roma !!! - "Natale" è possibile!!!
W o ITALY. Viva San Giovanni in Fiore. VIVA L’ITALIA.
M. saluti e buon Natale.
Federico La Sala
Viva viva viva l’Inghilterra
pace, donne, amore e libertà
viva viva viva l’Inghilterra
ma perché non sono nato là?...
Mah chissà...
W l’Inghilterra di Claudio Baglioni
Buon Natale anche a te, Federico caro. Biasi
Per negare la Shoah
di Furio Colombo *
Sappiamo tutti ciò che sta avvenendo in questi giorni a Teheran. Sotto la finzione grottesca del convegno universitario, si è aperto un processo alla Shoah. Il presidente della Repubblica dell’Iran, Ahmadinejad, ha già anticipato il senso di ciò che sta accadendo, dunque ha già fatto circolare la velina della sentenza che attende di avere: la Shoah è un’invenzione della cultura europea, succube del complotto ebraico.
Avevano bisogno di un grande pretesto per occupare la Palestina e lo hanno inventato, con la consueta malevola astuzia. La stessa dei Protocolli dei Savi di Sion, la stessa del sangue dei bambini cristiani da essi versato (nella interpretazione di Ahmadinejad si tratta di sangue islamico). La stessa del deicidio. È molto importante ciò che sta per accadere a Teheran. Perché fa venire brutalmente alla luce ciò che si dice e non si dice, si pensa ma si nega, oppure inquina - non notato, come una fonte infetta - la persuasione di molti che credono di discutere di politica ma non sanno su quali fondamenta appoggiano le loro riflessioni, o antagonismi, o proteste.
Quando il tema è Israele, in tanti parlano di occupazione da sessant’anni, mostrando così di considerare occupazione anche la terra assegnata dall’Onu al nascente Stato degli Ebrei, mostrando di considerare la data della fondazione di quello Stato come l’inizio di un potere usurpato.
Quando la discussione è sulla difesa di Israele, sui modi in cui tenta di tener testa al terrorismo e alla ostilità che lo circonda, due riferimenti tornano spesso: i perseguitati sono diventati persecutori. E anche: la persecuzione (ovvero la Shoah) non è una buona ragione per occupare la terra degli altri. In altre parole, per quanto sia stata grave, la Shoah è una tragedia che riguarda l’Europa e non la Palestina. L’obiezione sulla indifferenza che rasenta l’antisemitismo o lo rappresenta, viene sdegnosamente respinto dicendo che in questi casi non si parla di ebrei. Si parla di Israele e di Israeliani.
Agli Israeliani si imputano delitti che sono tutti nella tradizione antica e profonda del pregiudizio che rende costantemente speciali le colpe degli ebrei.
Muoiono purtroppo bambini in tutte le guerre. Ma i bambini vittime delle azioni militari israeliane sono esibiti in televisione, corpicino per corpicino, in insopportabili sequenze come non avviene per il Darfur (duecentomila bambini fra le vittime di un immenso genocidio, molti sepolti vivi, in due anni), come non avviene per tutti gli altri conflitti che disgraziatamente insanguinano il mondo.
Gli iracheni restano «resistenti» anche quando fanno saltare uno scuolabus, una intera scuola o fanno strage di intere famiglie per ragioni religiose. Rapide sequenze mostrano i piccoli cadaveri sotto mucchi di coperte e lenzuola insanguinate. In Libano le vittime dei soldati israeliani venivano mostrate scoperte, bambino per bambino, come se fossero stati colpiti uno per uno, di proposito.
Le vittime di Israele sono poveri. Israele (come tutti gli ebrei) è ricco e non solo occupa, ma domina e sfrutta. In questo modo viene cancellato l’immenso potere del petrolio (e delle armi) di Iran e Arabia Saudita, oltre al sostegno militare della Siria che, attraverso Hezbollah, sta lavorando a riconquistare il controllo del Libano. Costi quello che costi, in vite umane, il controllo del Libano da parte di Hezbollah e della Siria, con illimitati fondi iraniani, è il normale susseguirsi dei drammi quotidiani che accadono dovunque nel mondo. Invece Israele se sta fermo occupa. Se si muove è un arrogante conquistatore. Se reagisce a migliaia di missili le cui rampe sono state disseminate dovunque vi siano donne e bambini, è assassino. Se erige un muro contro le stragi nelle sue strade, è «apartheid» e «muro della vergogna», benché da allora non vi siano più state stragi.
Quando una nonna o un bambino imbottiti di tritolo cercano di passare a un «check point» israeliano (il bambino per fortuna si è salvato) si tratta di notizie drammatiche ma isolate. Nessuno le usa per far capire perché i «check point» israeliani siano così tanti, così lenti e - fatalmente - così odiosi per tanti pacifici palestinesi, che stanno soltanto andando a scuola o al lavoro. A nessuno viene in mente che, come i libanesi, ogni giorno vengono mandati a fare da scudi umani.
Ieri a Gaza tre bambini sono stati uccisi come vendetta trasversale di Hamas contro uno dei collaboratori chiave di Abu Mazen, il presidente palestinese. È un evento terribile perché non è guerra, e non è errore imperdonabile. È assassinio. Un assassinio deliberato di bambini. Ma è una notizia breve, senza corpi esibiti, parte di vicende della turbolenta vita quotidiana. Non sono stati gli israeliani a uccidere quei bambini.
Adesso, con la sua iniziativa, Ahmadinejad ha tolto di mezzo ogni possibilità di dividere un argomento dall’altro: gli israeliani sono fuori posto perché sono ebrei, sono occupanti perché hanno creato un complotto e sono nemici perché gli ebrei tentano da sempre di prendere il controllo del mondo.
Interessante apprendere che tra i partecipanti di Teheran c’è un signore americano di nome David Duke. È stato "Grand Wizard" (capo supremo) del Ku Klux Klan (la storica organizzazione del razzismo americano che combatte i neri e gli ebrei). Duke, negli anni Ottanta, ha tentato di farsi eleggere senatore nelle file del partito repubblicano.
Ma l’America, neppure ai tempi di Ronald Reagan, era il posto in cui un personaggio (che avrebbe sfilato fra gli applausi con la bandiera celtica il 2 dicembre per Berlusconi) può schierarsi insieme alla destra. La destra lo ha rifiutato benché fosse in testa ai sondaggi del suo Stato. E ha preferito perdere contro un candidato democratico e antirazzista. Bene, Duke sarà a Teheran per discutere di Shoah e di diritto degli ebrei ad avere il proprio Stato fondato dalle Nazioni Unite. È bene forse non dimenticare che il Ku Klux Klan e il fondamentalismo cristiano americano considerano le Nazioni Unite uno strumento dell’ebraismo nel mondo.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.12.06 Modificato il: 12.12.06 alle ore 13.01
Il pretesto della Shoah
di Arrigo Levi (La Stampa, 12/12/2006)
La Conferenza di Teheran sull’Olocausto - o meglio, contro l’Olocausto, da definirsi una invenzione malvagia degli Ebrei, a danno del mondo islamico e dei Palestinesi in particolar modo - ha suscitato tra noi una reazione di violento rigetto, per diverse ragioni. La più ovvia è la inaccettabilità della tesi «negazionista» da parte di quei Paesi, oggi membri dell’Unione Europea, che hanno visto scomparire la quasi totalità dell’ebraismo europeo.
Un insieme di comunità che erano parte integrante e viva della storia europea, prima e dopo l’Emancipazione. Gli Ebrei, prima della Shoah, in Europa c’erano: in Polonia, in Germania, in Francia, in tutti i territori dominati dai nazisti, dopo la Shoah, non ce n’erano quasi più. Erano milioni, ne sono rimasti decine di migliaia; in alcuni Paesi, quasi nessun ebreo è rimasto in vita. L’Europa ha perso una delle nazioni che avevano contribuito a creare la sua civiltà. Non occorrono studi, ricerche, nemmeno testimonianze, per essere consapevoli di quello che è stata la Shoah.
La Conferenza di Teheran, vista con gli occhi degli Europei (non solo degli Ebrei), è una immensa insensatezza, e questa è la prima ragione della condanna di tutti i governi dell’Occidente. Ma vi è un’altra ragione. Il fatto è che negare la Shoah appare come la premessa del rifiuto non già di riconoscere lo Stato d’Israele, ma di ammetterne l’esistenza: la Shoah è un’invenzione; dunque, è giusto cancellare lo Stato d’Israele dalla faccia della Terra. Così è stato detto.
Il mondo arabo islamico aveva detto no all’esistenza d’Israele per molti decenni. Finché un giorno i due maggiori Stati confinanti, l’Egitto e la Giordania, dopo aver fatto la guerra (anche più d’una), decisero di fare la pace con lo Stato ebraico; e Arafat, capo dei Palestinesi, si convinse che era utile anche al suo popolo riconoscere Israele, come premessa necessaria della nascita di uno Stato palestinese.
Fare la pace fra i due popoli insediati sulla stessa terra si è poi rivelato un compito tremendamente difficile, ancora incompiuto. Ma questa è un’impresa che non è stata e non può essere abbandonata. Tutti i sondaggi d’opinione dimostrano, da anni, che la grande maggioranza dei Palestinesi, come la grande maggioranza degli Israeliani, è favorevole alla coesistenza dei due Stati. Perfino il capo di Hamas, Khaled Meshal, offre ora a Israele una tregua di dieci anni: è difficile non interpretare questo come il primo passo verso un negoziato. Le pressioni su Israele da parte di tutti i governi occidentali (compresa l’America, che ha assolutamente bisogno di ritrovare credibilità presso il mondo arabo-islamico), affinché il governo israeliano dia il via libera ai negoziati, non appena sia giunta, da parte palestinese, una chiara apertura - che ancora non c’è, ma potrebbe essere vicina - sono e saranno molto forti. Il processo di pace potrebbe allora ripartire.
Ma non ci sarà nessun negoziato se Israele sarà sotto la minaccia di una sorta di nuova Shoah da parte di una potenza islamica, o di una coalizione di forze politiche arabo-islamiche, che, presto o tardi, sarà probabilmente anche in possesso di armi nucleari, o dei mezzi per costruirle.
Senza pace fra Israeliani e Palestinesi, il nostro orizzonte politico continuerà ad essere sovrastato dalla minaccia di un grande conflitto, a noi vicino, e in cui finiremmo per essere coinvolti. L’Italia, l’Europa, vogliono la pace col mondo arabo; hanno rapporti di pace col mondo arabo e islamico, e si impegnano seriamente per la pace, mettendo persino a rischio la vita di migliaia di loro soldati per consolidare la pace su uno dei fronti del conflitto, quello israelo-libanese. Se uno Stato della regione rifiuta l’esistenza della Shoah come premessa del rifiuto dell’esistenza d’Israele, minaccia anche la nostra pace.
Questa è la ragione di fondo per cui l’Europa ha paura del convegno di Teheran; respinge non solo l’assurda negazione di un evento tremendo che ha dominato la nostra storia, ma il fatto che esso sembra anticipare una nuova Shoah: quanti popoli ne sarebbero vittime?
GIORNO DELLA MEMORIA: LA STORIA
Khaled Abdelwahhab Salvò gli ebrei dai nazisti. Ed era un arabo
Il suo nome sarà presto a Yed Vashem
di ELENA LOEWENTHAL (La Stampa, 27.01.2007 - 8:46)
Vashem, il memoriale alla Shoah che si trova a Gerusalemme, è un bosco: un grappolo di colline fitte di alberi, diversi per specie e misure. Ognuno ricorda un «giusto fra le genti» che, a rischio della propria vita e non per denaro ma per umanità, ha salvato un ebreo durante la Shoah. Anche uno soltanto, perché come dicono tanto un adagio ebraico quanto il Corano, «chi salva una vita salva il mondo intero». Fra quasi ventimila nomi (e alberi) polacchi, italiani, tedeschi, francesi, olandesi, figurerà presto anche quello di Khaled Abdelwahhab, il primo arabo a ottenere questo riconoscimento della memoria. La pratica è avviata e procede con l’esame delle testimonianze: lo Yad Vashem è infatti anche un immenso archivio storico.
Ventitrè ebrei debbono la vita a quest’uomo e a suo padre, che li nascosero nel loro uliveto in Tunisia, al riparo dai nazisti. Sia Khaled sia Anny Boukris, che svelò questa storia, non ci sono più. Il suo racconto era animato da una gratitudine mai spenta per quella famiglia di proprietari terrieri arabi che rischiò la vita ospitando lei, i suoi cari e altri correligionari in un frantoio nel villaggio di Tlelsa finché non arrivarono gli inglesi. Abdelwahhab dopo la guerra visse a New York e Parigi, e morì nel 1997, a ottantasei anni. La sua storia è stata raccolta da Robert Satloff, studioso e direttore dell’istituto per i «Near East Studies» di Washington, in un libro appena pubblicato, «Among the Righteous».
Mentre in Italia si discute intorno alla legge Mastella, mentre alle Nazioni Unite è appena passata una risoluzione di condanna del negazionismo storico - non senza una prevedibile dissociazione da parte dell’Iran -, c’è una storia che è ancora tutta da scoprire, e per questo sembra viva anche se le sue voci, come quella di Khaled e Anny, tacciono per sempre. Fra il giugno del 1940 e il maggio del 1943 i nazisti arrivarono in Africa: all’epoca qui vivevano circa un milione e mezzo di ebrei. Come in Europa, questi paesi videro collaborazionisti e spettatori passivi, ma vi fu anche chi si ribellò all’orrore aiutando e nascondendo le vittime della caccia nazista. Se non che, in nome di una strategia politica dell’omertà, il fronte arabo militante contro Israele ha scelto, almeno sino ad oggi, una negazione tout court dello sterminio ebraico, considerato un pretesto per l’«intrusione» dello stato ebraico entro l’universo islamico.
Tale rimozione della Shoah ha spazzato via per anni tante piccole, grandi storie di salvezza. Di questa «congiura del silenzio» in nome di una battaglia totale contro lo stato ebraico, ha fatto le spese sino ad ora quella memoria di giustizia e umanità che orienta i passi fra le colline dello Yad Vashem, guida gli occhi sulle targhe di marmo grigio con tutti quei nomi. Dopo Khaled Abdelwahhab, proprietario terriero di Tunisia e (gaudente) cittadino del mondo, eroe e «giusto» in contumacia suo malgrado, molte altre storie come questa sono destinate a riaffiorare dalla retorica della negazione. Per mettere finalmente radici fra le colline di Gerusalemme.
L’INTERVISTA Parla lo storico Korn leader della comunità ebraica tedesca
"Rubarci la Storia il crimine più grave"
di ANDREA TARQUINI (la Repubblica,11.12. 2006)
BERLINO - La conferenza di Teheran minaccia di rafforzare in tutto il mondo il revisionismo storico e correnti antisemite. Lo dice Salomon Korn, vicepresidente della comunità ebraica tedesca, autore di libri sulla storia contemporanea dell’ebraismo.
Quanto è pericolosa l’iniziativa di Ahmadinejad?
«Il pericolo del revisionismo è più vecchio di Ahmadinejad. Le persone bene informate non saranno influenzate dalla conferenza. Ma il pericolo è un altro. C’è una tendenza generale a storicizzare l’Olocausto: ridurlo a un Passato che non ha un ruolo e un’influenza nel presente. Una conferenza del genere, organizzata per la prima volta da uno Stato membro delle Nazioni Unite, può rafforzare molto questa tendenza».
Quanto sono pericolosi questi circoli, il movimento revisionista?
«E’ piuttosto pericoloso. Perché quanto più il 1945 si allontana nel tempo e nella memoria, tanto più cresce e si diffonde questa tendenza».
Quanto è vasto il movimento revisionista?
«E’ più vasto e diffuso di quanto non ci si immagini. Sfugge alle statistiche. Se in Europa in media l’antisemitismo coinvolge il 20 per cento della popolazione, vuol dire che correnti sottocutanee si muovono negli animi e nelle nostre società. C’è gente specie in Germania e negli ex paesi che collaborarono con la Germania che non vuole più sentir discutere dell’Olocausto perché per loro è imbarazzante. Magari parenti furono coinvolti. Oppure quella memoria disturba il nazionalismo. Si produce cioè un antisemitismo che nasce dal rifiuto del peso del senso di colpa. Sentimenti incoraggiati dall’iniziativa di Ahmadinejad».
Chi finanzia il movimento revisionista?
«Ci sono molti finanziatori. E quando partiti neonazisti entrano in parlamenti anche regionali, come la Npd in Germania, incassano i contributi pubblici. Flussi di denaro esistono ovunque: Europa, Usa, Medio Oriente. Ma il tema del momento è un altro. Il fatto che Ahmadinejad ormai agisce secondo il classico modello dell’antisemitismo. Prima si toglie agli ebrei la dignità, poi le loro proprietà, poi la loro esistenza di esseri umani. Lui con la conferenza sta compiendo un passo in più: togliere agli ebrei la loro Storia. Nessun antisemita lo aveva mai fatto».
Come nasce il revisionismo?
«Dalla diffusa voglia di sentirsi popolo superiore, popolo eletto. Fu tipica del nazionalismo tedesco ma non solo. E’un trend generale e pericoloso».
Il pericolo è maggiore in Germania o altrove?
«Più forte è la democrazia, minore è il pericolo. La Germania nell’insieme è una stabile democrazia. Ma ha un grosso problema storico: negli ultimi secoli ha subìto almeno sei catastrofi storiche - dal 1806 alla fine dell’Impero nel 1918, dalla fine di Weimar, alla catastrofe del Terzo Reich, alla divisione del paese dopo il 1945. Scosse che hanno impedito alla coscienza nazionale di svilupparsi».
TEHERAN, SUMMIT SULL’OLOCAUSTO *
TEHERAN - Storici negazionisti come Robert Faurisson, rabbini tradizionalisti ebrei con trecce e abiti neri che si oppongono all’esistenza di Israele, tedeschi che si ribellano al ’’complesso di colpa’’ del loro popolo. Ci sono anche loro tra le decine di partecipanti ad una conferenza ’revisionista’ sull’Olocausto apertasi oggi a Teheran tra le proteste dell’Occidente.
Tra i 42 relatori, in rappresentanza di 23 Paesi, c’e’ anche un italiano, Leonardo Clerici, nipote del futurista Marinetti, convertito all’Islam sciita e sostenitore della Repubblica islamica. Ma l’ambasciatore italiano, cosi’ come i suoi colleghi europei, ha rifiutato l’invito ad essere presente.
Scopo di questa conferenza, dice il ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki, e’ ’’aprire la strada a nuove ricerche per appurare se l’Olocausto e’ vero o falso’’, dopo che lo scorso anno il presidente Mahmud Ahmadinejad aveva definito ’’un mito’’ lo sterminio degli ebrei. All’entrata della sala del convegno campeggiano libri quali un commento sul Mein Kampf di Andrew Linklater, o ’Miti della fondazione di Israele’ di Roger Garaudy, con una svastica che in copertina.
La rassegna bibliografica continua con le opere presentate ai giornalisti da diversi partecipanti. C’e’ un ’Hitler e gli ebrei erranti’ dalla scrittrice malese Zariani Abul Rahman, la quale afferma che al massimo sono state duecentomila le vittime del massacro, e comunque ’’i Nazisti avevano legami con gli Ebrei e sono stati finanziati da banche ebraiche’’. Un testo intitolato ’Specchio dei fatti’ e’ mostrato alle telecamere dal suo autore, il tedesco Herbert Hoff, che dice di essere riuscito a spiegare ’’perche’ l’Olocausto non puo’ essere avvenuto’’. Un altro tedesco, lo psichiatra Benedict Frings, che sfoggia una cravatta decorata con un’aquila e la scritta ’Deutschland’, spiega che la conferenza e’ ’’il primo passo verso la guarigione del complesso di colpa’’ del suo popolo. Un complesso che ha impedito ai tedeschi di ’’difendere i loro interessi, al punto che da noi arrivano ogni sorta di stranieri, compresi disoccupati e criminali’’.
In sala un gruppetto, fra cui ancora qualche tedesco, applaude e ride insistentemente alle battute di Faurisson, che nega l’ordine di Hitler di sterminare gli ebrei e l’esistenza delle camere a gas. ’’Anche Primo Levi, che era un chimico - sottolinea - ha detto di non credere a questa diceria’’. ’’Ahmadinejad ha ragione - continua Faurisson - l’Olocausto e’ un mito. E’ una menzogna che ha permesso una gigantesca truffa politica e finanziaria a vantaggio di Israele e del Sionismo internazionale’’. E ’’i campi di sterminio - aggiunge - sono un’invenzione degli Americani’’. Anche chi invece afferma che lo sterminio c’e’ stato, come l’anziano rabbino americano Arnold Cohen, condanna Israele - di cui nega per motivi religiosi il diritto all’esistenza - affermando che sfrutta questo evento per compiere a sua volta ’’un altro Olocausto’’ contro i Palestinesi. Del resto, dice ancora Cohen, gli stessi Sionisti ’’hanno cooperato con i Nazisti negli anni ’30 per portare Ebrei in Palestina e durante la guerra, mostrando insensibilita’, non hanno aiutato gli Ebrei in Europa, anche quando potevano’’. Un’accusa che ritorna, con durezza ancora maggiore, nelle parole di un altro rabbino americano, David Weiss: ’’I Sionisti hanno sacrificato vittime innocenti alla loro causa, e hanno anche provocato varie uccisioni’’.
STUDENTI CONTESTANO AHMADINEJAD
Un gruppo di studenti ha contestato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad all’università Amir Kabir, a Teheran, gridando slogan contro di lui. "Morte al dittatore", ha urlato parte degli studenti tentando di attaccare la tribuna da dove Ahmadinejad stava pronunciando un discorso. La maggioranza degli studenti però, aggiunge la fonte, "hanno lanciato slogan a sostegno del presidente". Tra i due gruppi sarebbe quindi scoppiata una rissa. Ahmadinejad ha comunque concluso il suo discorso.
Alcuni studenti hanno dato alle fiamme fotografie di Ahmadinejad, mentre un gruppo di ragazze ha fatto cadere e mandato in pezzi una telecamera della televisione di Stato. "Gli Americani - ha risposto a questi gesti Ahmadinejad - devono sapere che anche se veniamo bruciati mille volte, non faremo marcia indietro nemmeno di un centimetro dai nostri principi".
Quando ha sentito gli slogan di ’Morte al dittatore’, il presidente iraniano ha risposto: "Per anni abbiamo combattuto contro la dittatura (dell’ex Scià, ndr) e per i prossimi mille anni nessuno potrà costituire una dittatura in Iran, nemmeno in nome della libertà". Quando poi Ahmadinejad ha sottolineato "gli sforzi del governo per la giustizia e la lotta alla corruzione", diversi studenti gli hanno risposto gridando in corò: "E’ una menzogna, è una menzogna".
ANSA » 2006-12-11 09:10