Il Giorno della Memoria sul web
Il 28 gennaio, a partire dalle ore 10:30, il nostro sito * trasmetterà in diretta la testimonianza di Liliana Segre e il concerto degli allievi del Conservatorio ....
Binario 21
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Fonte: Il Sole-24 Ore (cliccare sulla zona rossa).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Shoah. Quando la luna splendeva sopra il sonderkommando
L’esperienza dei prigionieri costretti a collaborare allo sterminio costituisce un abisso dentro l’abisso, in cui la lotta per la sopravvivenza raggiunge la violenza assoluta
di Raul Gabriel (Avvenire, sabato 23 gennaio 2021)
La vicenda del sonderkommando non è La vita è bella o la colonna sonora un po’ zuccherosa di Schindler’s list. Non si può disinnescare con la retorica che maschera la nostra indifferenza. Non è come siamo soliti immaginare le storie, con un inizio, uno svolgimento e una fine, su cui siamo ansiosi di piazzare la morale per fare bella figura. Questa storia non ha né una fine né una morale. È una abnorme finestra mistica sull’abisso in superficie, l’abisso dell’ordinario. Ogni morale qui è sospesa perché nessuno è in grado di farsene carico.
Su questa terra è esistita una realtà creata e nominata dai nazisti sonderkommando. Gruppi di deportati il cui compito era supportare le SS nelle operazioni di sterminio. Sconvolgente. Sabbia mobile di una meditazione interdetta e senza sfogo, sempre sul punto di abbandonare, sempre tenuta in vita da una domanda che parte dalle viscere ma non arriva da nessuna parte. La storia del sonderkommando, come un giudice inappellabile, chiama in causa l’ipocrisia umana fatta sistema. Il sonderkommando è la prova della nostra ineludibile contiguità con il male che puntualmente tentiamo di negare.
Un male apparentemente inspiegabile, così al limite da risultare impossibile allo sguardo, anche da lontano, se non si vuole diventare statua di sale. La mia visita ad Auschwitz di due anni fa, nata dal caso, ha generato in me una scossa irriducibile che mi ha condotto nel tempo verso il sonderkommando.
A prima vista il sonderkommando sembra delineare una categoria di chimere ignobili. Peggio dei carnefici. Primo Levi li definisce corvi neri, da uomo riflessivo e mite quale me lo immagino. Il sonderkommando, il non classificabile, portatore di un fardello di colpa su cui è meglio non esprimersi perché sembra sporcare tutto ciò che tocca.
Il sonderkommando però non erano corvi. Erano uomini. Non erano i carnefici. Erano vittime. Private dei diritti delle vittime. Private del diritto di compiangersi. Quello che succedeva nel sonderkommando e attraverso il sonderkommando era il punto limite dell’umanità. Eppure è stata quotidianità per migliaia di esseri umani. A volte di una umanità che lascia sgomenti. Il sonderkommando. In bilico costante sulla voragine di un passaggio tragico, orrendo, mistico. Pensato e realizzato dagli uomini, ma oltre l’uomo. Ad alcuni è stato imposto di stare sulla porta dell’inferno che è oltre l’apparenza, pure brutale, di quel rito.
Non molto tempo fa ho trovato il libro che raccoglie gli scritti furtivi di Salmen Gradowsky, seppelliti a Birkenau nella speranza che qualcuno, un giorno, li avrebbe trovati: Sonderkommando, diario di un crematorio di Auschwitz, 1944.
Un grido soffocato di esistenza, rivendicazione di una umanità la cui perdita si rinnova ogni momento. -Gradowsky è stato membro del sonderkommando di Auschwitz per parecchi mesi. La sua unica possibilità di dirsi umano si è aggrappata al racconto del suo incomprensibile giorno ordinario. Di cui è stato vittima e operaio, nel punto critico della storia e del mondo. Perché si voleva sopravvivere, anche ad Auschwitz. Il punto critico era un percorso breve e assoluto, concentrato di morte. I membri del sonderkommando celebranti. I nazisti, i veri carnefici, hanno immaginato il sonderkommando come disumanizzazione definitiva.
Quello di Gradowsky è un testo mistico. Attraverso le sue parole semplici, a tratti anche poetiche, mi sono affacciato a una finestra di cui non posso avere immagini, odori, suoni. Per fortuna. Quelle poche righe mi hanno come sospeso nel compiersi di quel rito mostruoso e ordinario, senza risposta, soluzione o redenzione. Il passaggio dal camion alla svestizione, alla camera a gas e quindi al forno è fatto di persone, è fatto di gesti.
Gradowsky è costretto dalla maledetta sopravvivenza ad assistere e celebrare il martirio di persone come lui, nella speranza contraddittoria e ossessiva che qualche loro gesto eroico potesse scardinare il meccanismo di distruzione, soccorrendo la sua fatale impotenza. È lì, ma non comprende. La dissociazione tra il gesto meccanico e la sua umanità in agonia è lancinante. Lo stupore, la rassegnazione, la disperazione, la menzogna. Il tempo della trasformazione industriale dell’uomo in cenere è la notte, illuminata da una luna che splende sempre e comunque su vittime e carnefici, senza preferenze. Pensando all’infamia dei compiti atroci del sonderkommando, siamo tutti pronti a giurare che noi non lo avremmo fatto. È un esempio meschino di sdegno ipocrita e vigliacco, il primo a voltare la testa di fronte ai soprusi di ieri e di oggi. La verità è che nessuno può dire cosa avrebbe fatto sotto la minaccia di passare per il camino, in condizioni di deprivazione della volontà.
Nell’immaginario comune, almeno lo era per me, non ci si chiede molto sulle camere a gas. Si pensa che quando uno vi entrava la catena del dolore era finita. Non è così. Arrivare alla camera a gas non era la fine dell’inferno. La camera a gas era il gradino più basso di un incubo ancora tutto da vivere. La camera a gas era feroce, terrificante. Schiacciati nel buio insieme a centinaia di altre persone i cui corpi diventavano l’ultimo strumento di morte. Lì dentro la lotta era tremenda. Quando, terminate le grida, veniva aperta, l’indistricabile groviglio di corpi trovava i più robusti in alto, morti cercando di sfuggire al gas che si diffondeva dal basso, dopo aver calpestato e schiacciato i più deboli, bambini, donne, anziani. Era una colpa questa? No. Su questo non può esservi dubbio.
La pietà prevale su ogni giudizio quando l’uomo è posto così all’estremo da non riconoscersi. Per il sonderkommando vale lo stesso. Se non era una colpa cercare l’aria schiacciando gli altri non è stata una colpa cedere alla sopravvivenza. Anche questo è un uomo.
Il santo, l’eroe, sono l’eccezione. Che non può essere richiesta come attestato del minimo di dignità umana. Perché decreterebbe la condanna definitiva della maggior parte di noi. Gli scritti di Gradowsky hanno un livello di umanità spiazzante che stride in modo insopportabile con la realtà da cui provengono. Il sonderkommando parla di noi, anche se non vogliamo sentirlo dire. La loro infinita disgrazia è un monito che ci permette di guardare dentro un po’ di più senza pagarne il prezzo. Gradowsky non mi fa rabbia né orrore. Gradowsky mi fa tenerezza, una tenerezza ormai inutile. Ma tenerezza.
Tenerezza per lui, per tutte le vittime, per il genere umano, per me. Non è una risposta. È l’inizio di una domanda. Inizio della trasformazione di ciò che è stato distruzione in fonte di vita, ispirazione, rigenerazione, senza cui ogni memoria, ogni celebrazione, sono profondamente, irrimediabilmente inutili.
L’ultima testimonianza in pubblico di Liliana Segre
di Liliana Segre
All’età di novant’anni, Liliana Segre ha scelto di ritirarsi dalla sua ormai trentennale opera di testimonianza sul periodo storico che va dalle leggi razziali ai lager. L’ha fatto con un ultimo discorso tenuto alle ragazze e ai ragazzi ospiti dello studentato della Cittadella della Pace di Rondine (Arezzo), il 9 ottobre 2020, dov’è stata anche inaugurata l’Arena di Janine, intitolata alla ragazza francese che Liliana guardò andare alle camere a gas senza salutarla, ma il cui ricordo non l’ha mai abbandonata.
Un racconto che parte da sé e tesse un filo continuo tra l’esperienza personale e la grande storia, tra il passato e ciò che è in gioco nel presente, tra il suo vissuto e le condizioni di chi vive i drammi storici di oggi. Senza che mai la narratrice dimentichi di essere una donna, la donna di pace che è diventata.
(La redazione) *
N.B. Nella seconda metà del discorso c’è una pausa di parecchi secondi: non è né la fine dell’intervento, né un guasto.
Liliana Segre ricorda Piero Terracina
“Ci legava una fratellanza silenziosa”
da "Moked" (08/12/2019 - 10 כסלו 5780 )
“Con Piero Terracina ci legava una fratellanza silenziosa, tra noi non servivano parole. E ora che non c’è più mi sento ancora più sola”. Con tenerezza e dolore la senatrice a vita Liliana Segre ricorda il legame con Piero Terracina, sopravvissuto come lei ad Auschwitz e scomparso in queste ore all’età di 91 anni. “Noi ci conoscevamo da reduci. Lui era stato nel Lager degli uomini e io in quelle delle donne ovviamente. Però ogni volta che ci siamo incontrati, le tante volte che ci siamo incontrati, sentivamo proprio una fratellanza, qualcosa che ci univa. Tra me e lui, come con tanti altri come noi, non c’era bisogno di parlare. Noi dovevamo parlare agli altri ma tra di noi non c’era bisogno di farlo”, il ricordo di Segre a Pagine Ebraiche. “La sua scomparsa mi colpisce molto. So che lui era molto amato e diceva sempre: ‘io non ho avuto una famiglia ma ho avuto così tante persone che mi hanno voluto bene, che mi sono state vicine, di amici, che è andata bene così. Non c’era stato bisogno di avere moglie e figli, per lui era stata stupenda l’amicizia di cui aveva goduto”. “Ora mi sento più vecchia e più sola”, le parole di Segre che, anche nel segno dell’amico Piero Terracina, ribadisce il suo impegno “a continuare a parlare d’amore. Questa è la cosa migliore, quella che mi sento”.
Il Magistero di Liliana
di Moni Ovadia (il manifesto, 20.01.2018)
Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni e mezzo e sopravvissuta all’inferno del famigerato lager nazista da cui uscì a 15, è stata una dei grandi testimoni della Shoà: il 19 gennaio 2018 il Presidente Sergio Mattarella, l’ha nominata Senatrice della Repubblica a vita.
Conosco bene Liliana, la considero un’amica e penso che anche lei mi consideri tale. Ho conosciuto anche l’amore della sua vita intera, diventato suo marito, Alfredo Belli Paci, si incontrarono giovanissimi e si innamorarono per sempre. Belli Paci fu un Ufficiale dell’Esercito del nostro paese, uno di quei soldati che salvarono l’onore dell’Italia rifiutando di aderire alla barbarie nazifascista di Salò. Era un bell’uomo, sopra il metro e ottanta, che ti toccava profondamente per il garbo e la grazia con cui si esprimeva.
Quando uscì dall’internamento pesava 32 chili ma quando parlava di Liliana e del suo calvario, si schermiva per sminuire le proprie sofferenze rispetto a quelle patite dalla moglie.
Liliana è una donna straordinaria, forte, schietta, coraggiosa.
Mi è capitato alcune volte di accompagnarla nel suo magistero di rendere testimonianza nelle scuole, in particolare in occasione delle Giornate della Memoria.
In queste circostanze - l’hanno ascoltata fino a settemila studenti per volta - Liliana racconta la sua storia con un eloquio nitido, fermo e inciso, la sua terrificante esperienza e lo sforzo di sostenere la grande emozione che ho percepito - perché seduto accanto a lei -, non ha intaccato mai il cammino di una parola che doveva toccare i cuori ma anche le menti.
Liliana dichiara sempre il suo obiettivo, minimale ma vitale, far sorgere da quella moltitudine di giovani almeno tre «candele della Memoria».
Per candele della Memoria intende luci dell’anima e della mente che raccolgano da lei il testimone per dare presente e futuro al dovere di ricordare e assumersi l’impegno etico di suscitare altre «candele» per le generazioni future, di generazione in generazione.
Il culmine del suo racconto, è la parte che riguarda il primo momento della liberazione. Approssimandosi le forze dell’Armata Rossa al lager di Auschwitz, i carnefici dettero avvio alle marce della morte. Facevano camminare gli internati ancora in grado di farlo di lager in lager, con l’intento di sfinirli e di farli morire durante le marce forzate.
Ma a un certo punto si udirono crepitare le mitragliatrici sovietiche a poche centinaia di metri, e i super uomini nazisti, presi dal panico, si misero in mutande e gettarono divise e armi lontano da sé. Il più terrorizzato, racconta Liliana, fu lo spietato ufficiale delle SS che dirigeva l’ultimo campo; aveva così paura, il superuomo, che lasciò cadere la sua pistola.
Liliana la raccolse, avrebbe potuto ammazzarlo come un cane, aveva visto mille volte sparare a bruciapelo alla testa di un internato, ma dopo qualche istante la gettò pensando: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice. Da quel momento sono stata libera».
Ho visto sui giovanissimi volti scendere lacrime copiose in silenzio.
Molto si potrebbe dire su questa figura di donna eccezionale, ma oggi è meglio soffermarsi almeno su un significato reale e simbolico della presenza a vita di Liliana Segre nel Senato, l’impegno dell’intero parlamento e delle istituzioni, a espungere da ogni aspetto della vita pubblica ogni cellula di fascismo e di nazismo in tutte le sue forme, nostalgiche, vecchie, nuove, nuovissime.
Non ci sono fascismi diversi, ce n’è uno solo ed è peste nera.
Missione testimone: la numero 75190 è senatrice a vita
Ieri la telefonata del presidente Mattarella
“La mia pelle racconta l’orrore di Auschwitz”
di Paolo Colonnello (La Stampa, 20.01.2018)
Liliana Segre, 87 anni, neo senatrice a vita della Repubblica, è una signora d’altri tempi: gentile e apparentemente fragile. In realtà è una delle donne più forti e lucide che sia mai capitato di conoscere. Del resto non si sopravvive a una deportazione in un carro bestiame, a un campo di concentramento come Auschwitz, allo sterminio dei propri genitori, degli amici, all’indifferenza del ritorno, alle cicatrici indelebili della persecuzione, se non si ha nell’anima un filo d’acciaio. Che poi è quello che hanno tutti coloro che scelgono di essere testimoni del proprio tempo. Così Liliana si batte da anni per la «memoria», perché nessuno dimentichi l’orrore delle leggi razziali, degli stermini nazisti, dello zelo fascista.
Certo non se l’aspettava la telefonata del Presidente, ieri mattina: «Un fulmine a ciel sereno. Ero già stata contattata per andare a Roma il 25 e così celebrare al Quirinale la giornata della Memoria. Poi ho risposto al telefono: “Buongiorno, sono Mattarella”. Gli ho detto: “Aspetti che prima mi siedo...”. Non sapevo neanche che potesse nominare 5 senatori a vita...». La casa di Porta Magenta piano piano si è riempita di gente. Ma Liliana non si è fatta travolgere.
Che memoria può esistere nel mondo dell’effimero, delle verità che scompaiono per lasciare il posto a chi si fa strada tra la menzogna? «Questo è un mondo pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo, in molti casi. Certo, non sono molto ottimista, ma è una battaglia che non si può smettere di combattere. È la mia missione: me la sono data 30 anni fa, dopo aver trascorso 45 anni in silenzio, dal ritorno dal campo di sterminio».
E qui la voce si fa sottile. Perché a 13 anni, dopo essere respinta dalla Svizzera, portata con suo padre, a San Vittore, nella stessa strada in cui era nata; infine al famigerato «binario 21» della Centrale, da cui partivano i treni della morte e dove ora c’è il Memoriale della Shoah, la memoria di Liliana è stata incisa nella carne, come il numero di Auschwitz sul suo braccio sinistro: «Per la vergogna di chi lo ha fatto: numero 75190. Non lo toglierei per nessuna ragione al mondo. Perché in fondo io sono quel numero».
Un numero che per anni ha destato curiosità nella gente ma che Liliana non aveva mai la forza o la voglia di spiegare. «Perché dopo essere tornata da quel tormento, mi accorsi che ero da sola: eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo vista più...”». Come se fosse partita per una malattia che poi in fondo di questo si tratta: una malattia dell’umanità. «Poi a un certo punto ho deciso che dovevo ricordare che ero matura per mettermi davanti ai ragazzi senza parlare mai di odio o di vendetta per raccontare una storia italiana».
Eppure, c’è ancora qualcuno che parla di “razza bianca”, che effetto le fa? «A me la parola razza mette sempre ansia. Voglio credere che sia stato “un lapsus” perché non posso credere altrimenti». In Europa c’è un ritorno delle destre estreme, la preoccupa? «Sì, primo perché ho sempre creduto nei ricorsi storici e poi perché nella mancanza totale di valori di oggi il rischio è ritrovarsi un Hitler al potere senza rendersene conto. Io faccio la mia parte, che ognuno faccia la sua».
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
Esempio vivente - Mattarella nomina la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’antisemitismo, senatrice a vita
di Leonardo Coen (Il Fatto 20.01.2018)
Sono passate da poco le undici del mattino. Liliana Segre è ancora a casa, si sta preparando per le cerimonie del primo pomeriggio - la posa di alcune “pietre d’inciampo” per ricordare le vittime del nazifascismo - quando squilla il telefono di casa. È la “batteria” del Quirinale: “Il presidente della Repubblica desidera parlarle”.
Liliana ignora per quale motivo. Forse vogliono coinvolgerla in qualche manifestazione ufficiale legata alla Giornata della Memoria, sabato 27 gennaio. Si sbaglia. Mattarella le annuncia che ha deciso di nominarla senatrice a vita. Alla Segre manca il respiro, per l’emozione. Lo ringrazia e assicura quale sarà il suo impegno: “Porterò in Senato la voce degli umiliati dalla Patria che amavano, cercherò di perpetuare la memoria, contrastare il razzismo, costruire un mondo di fratellanza, comprensione e rispetto, in linea coi valori della nostra Costituzione finché avrò forza a raccontare ai giovani l’orrore della Shoah, la follia del razzismo, la barbarie della discriminazione e della predicazione dell’odio”.
Mattarella si convince che la sua è stata una scelta coraggiosa, opportuna e anche politicamente significativa: la nomina della Segre, una personalità di altissimo profilo, in fondo può essere letta anche come una ferma presa di posizione contro chi voleva stravolgere Senato e Costituzione. Per Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Fondazione Memoriale della Shoah, “vedremo finalmente sedute in Parlamento l’etica, la morale, la Storia”.
La notizia “mi ha colto completamente di sorpresa”, dirà subito al figlio Luciano Belli Paci. Vuol subito far sapere che la sua nomina non è stata sponsorizzata dai partiti, “non ho mai fatto politica attiva... sono una persona comune, una nonna con una vita ancora piena di interessi e impegni”. Ma è consapevole che lei è vista come una sorta di baluardo contro le pericolose derive razziste, xenofobe e antisemite che crescono nel Paese. Lei è una sopravvissuta dell’Olocausto - non suo padre Alberto, col quale venne deportata ad Auschwitz:
“Certamente il presidente ha voluto onorare, attraverso la mia persona, la memoria di tanti altri in questo anno 2018 in cui ricorre l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Sento su di me l’enorme compito, la grave responsabilità di tentare almeno, pur con tutti i miei limiti, di portare nel Senato le voci ormai lontane che rischiano di perdersi nell’oblio.
Le voci di quelle migliaia di italiani, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che nel 1938 subirono l’umiliazione di essere degradati... che furono espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società dei cittadini di serie A”. Non ha mai dimenticato. Liliana, il giorno che le impedirono di entrare a scuola. Aveva otto anni.
E la colpa d’essere nata ebrea. La discriminazione tolse voce e identità: gli ebrei vennero perseguitati, braccati, deportati per la “soluzione finale”. La Segre vuole che non ci si dimentichi mai di loro, di chi non ha più tomba, di chi è svanito nel vento: “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare”. Certo, “non dimenticando e non perdonando - l’ho sempre fatto - ma senza odio e spirito di vendetta: sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”.
Oggi, per esempio, l’attendono gli studenti del liceo Carducci. A loro, come da lustri e lustri, dirà che è nata a Milano il 10 settembre 1930, che i suoi genitori si chiamavano Alberto Segre e Lucia Foligno, che abitava in corso Magenta al numero 55. Che il 7 dicembre del 1943, insieme al padre a due cugini, tentò invano di riparare in Svizzera, aiutati da qualche contrabbandiere. Ma la “barca era piena”, dissero impietosi gli svizzeri che la ricacciarono indietro. L’arrestarono il giorno dopo a Selvetta di Viggiù, poi la trasferirono al carcere di Como e da qui a San Vittore. Ci rimase 40 giorni. Il 30 gennaio del 1944 la misero col padre dentro un vagone piombato. Il convoglio partì dal famigerato Binario 21. Oggi, quel luogo è diventato un Memoriale. L’anno scorso l’hanno visitato 26 mila studenti.
Addio Memoriale degli italiani
Giornata della Memoria. Il direttore del museo di Auschwitz dopo un preciso ultimatum ha dato l’ordine di smantellare l’opera d’arte del Blocco 21 inaugurata nel 1980 dedicata agli italiani deportati e morti
di Beatrice Andreose (il manifesto, Alias, 23.01.2016)
Quando Luigi Nono compose la sua opera per il Memoriale italiano che nel 1980 venne inaugurato ad Auschwitz, la commentò in questo modo «Non è una musica facile. È una musica dolorosa. L’unico consiglio che mi sento di darvi prima dell’ascolto: spegnete la luce, massimo silenzio, chiudete gli occhi». Un silenzio accorato, certo non quello dell’abbandono in cui versano le stanze che ospitavano l’opera e che da qualche mese si presentano ormai desolatamente vuote. Cancello sbarrato e memoria calpestata, dunque, per i nostri connazionali deportati e morti ad Auschwitz.
Sino al 2011 i visitatori potevano visitare l’opera realizzata da alcuni tra i più importanti nomi della cultura italiana del Novecento tra cui gli architetti dello studio milanese BBPR (Lodovico Belgiojoso, Ernesto Rogers, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi) che avevano lavorato assieme a Primo Levi per i testi, Pupino Samonà per i dipinti, Nelo Risi per la regia e Luigi Nono per le musiche. Una morte lungamente annunciata, quella del Memoriale italiano.
L’ultimo capitolo è dell’aprile 2014 quando il direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau Dr Piotr M.A.Cywinski nella sua missiva all’Aned (l’Associazione degli ex deportati nei campi nazisti che del memoriale è titolare) e all’Ambasciatore d’Italia a Varsavia Riccardo Guariglia intimava un vero e proprio ultimatum per lo smontaggio del Memoriale dal Blocco 21. Chiedeva in modo perentorio una nuova installazione più conforme alle disposizioni definite dal Consiglio internazionale di Auschwitz. In sostanza il revisionismo polacco chiedeva che la Shoah oscurasse l’antifascismo esigendo che venissero rimossi i simboli comunisti e quella falce e martello che il Parlamento dal 2009 aveva messo fuori legge.
L’accusa era che si trattava di «un’opera d’arte fine a se stessa, priva di valore educativo». Poco graditi soprattutto il racconto dell’ascesa del nazi-fascismo, del collaborazionismo, del razzismo di Stato, del ruolo delle multinazionali tedesche (soprattutto la Bayer). Per la Polonia era inopportuno ricordare oltre all’olocausto ebreo anche quello dei prigionieri politici comunisti, degli omosessuali, dei rom e dei disabili che trovarono la morte ad Auschwitz.
E così, tra il silenzio ed il disinteresse assordanti dei governi italiani che si sono succeduti dal 2007 ad oggi e dopo anni di resistenze solitarie prima dell’Aned, poi del mondo accademico e artistico italiano capeggiato dall’Accademia di Belle Arti di Brera, nel maggio di quest’anno i tecnici e i restauratori dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure hanno smontato l’opera per trasferirla nello spazio Ex3 del quartiere Gavinana a Firenze, destinato a diventare Polo della memoria e centro di un museo diffuso sulla deportazione.
«Mai avrei voluto vedere le immagini dei restauratori che smontano pezzo per pezzo il Memoriale italiano - commenta Dario Venegoni, presidente ANED - Ricordo ancora lo sforzo immane da noi sostenuto quasi 40 anni fa per progettare, finanziare e allestire quell’opera nel Blocco 21 del campo; ricordo la generale commozione il giorno dell’inaugurazione, a cui io ero presente con mia madre ed un centinaio di altri ex deportati e familiari giunti appositamente dall’Italia. Che l’opera alla quale hanno lavorato così illustri autori sia smontata fa male al cuore. Nonostante ciò nell’aprile 2005 abbiamo raggiunto un accordo per il suo spostamento a Firenze, il pericolo era che venisse chiuso e disperso» conclude rispondendo così ad alcune critiche di cedimento rivolte da più parti all’Aned.
A battersi per la conservazione in loco del memoriale anche l’arch. Gregorio Carboni Maestri autore nel 2013, assieme all’arch. Emanuela Nolfo, del progetto Glossa che proponeva una nuova contestualizzazione del Memoriale». Auschwitz, svuotata di qualsiasi contenuto politico, secondo Primo Levi è un luogo tragicamente destinato a diventare inutile, perché non spiega alle nuove generazioni alcunché. Diventa solo «un tragico evento».
Questo evento - spiega Carboni Maestri- è fatto invece da elementi precisi, che vanno analizzati e compresi, uscendo dalla balla dell’uomo malvagio che ha ipnotizzano una nazione e ucciso milioni di vittime per il semplice gusto di farlo. Ad Auschwitz va spiegato da dove veniamo e verso dove andremo, da cosa nasce la barbarie. E la barbarie nasce solo da un elemento: dalla sconfitta del mondo del lavoro, come intuì Rosa Luxembourg. Quella vicenda ne fu la prova, oggi ne vediamo la tragica conferma, giorno dopo giorno.
La storiografia di regime odierna preferisce una narrativa di Auschwitz alla «Schindler List», manichea e ingenua, con un «cattivo» (Hitler) e delle «vittime inerti» (i soli ebrei, «apatici») in modo che nessuno capisca, in definitiva, alcunché uscendo da quel campo di sterminio. Solo scossi dall’orrore, per poi essere incapaci di vedere l’orrore odierno o i possibili Auschwitz futuri. In modo che nessuno capisca che il nazifascismo nacque (e rinascerà) dalla sconfitta del mondo operaio, che lo stesso fu sconfitto solo dalla lotta vittoriosa di milioni di sovietici, dalle lotte dei partigiani, degli operai in sciopero a Sesto, degli operai statunitensi e inglesi al di là e al di qua dell’oceano che, soli, hanno sopportato lo sforzo di guerra in Regno Unito e Stati Uniti».
A battersi contro lo smantellamento anche l’associazione Gherush92 che in una nota commenta «Al pari delle azioni belliche che mirano alla demolizione di mausolei ed antichi monumenti, anche le manipolazioni storico-politiche come la deportazione del nostro Memoriale, possono disintegrare la memoria delle vittime del Nazifascismo e della Shoà e abbandonare - come anziani archeologi a difesa di antichi monumenti - i partigiani e i deportati e, con loro, la Resistenza Italiana».
Per vedere la storia del memoriale, il suo smontaggio ed il trasferimento l’Aned da appuntamento il pomeriggio del 27 gennaio alla Casa della Memoria di Milano. Gherush92 invece propone il 27 gennaio alle 10 al Centro Russo di Scienza e Cultura di Roma la conferenza «Come l’Armata Rossa liberò Auschwitz». Sarà presentato il progetto «Auschwitz Liberation» e si analizzerà la liberazione del campo di sterminio da parte dell’Armata Rossa.
Fuori dall’Europa
di Gad Lerner (la Repubblica, 28 gennaio 2013)
Cosa aspetta il Ppe a liberarsi di questo impenitente ammiratore di Mussolini? Cos’altro manca per riconoscere che non è solo ignoranza storica se Berlusconi ha profanato col suo delirio revisionista la cerimonia milanese in ricordo della Shoah, prima di appisolarsi soddisfatto?
L’uomo che vent’anni fa sdoganò, con abile calcolo politico, il neofascismo italiano, ancor oggi alla presidenza della Regione Lazio ricandida quel Francesco Storace di cui ricordiamo le maledizioni contro Gianfranco Fini, colpevole di aver reso omaggio in Israele al memoriale degli ebrei sterminati dal nazifascismo. Mentre in Lombardia vorrebbe cedere il comando al segretario di un partito xenofobo e antieuropeo, Roberto Maroni, che da ministro dispose la raccolta delle impronte digitali dei bambini rom.
Prima di liquidarla come ennesima gaffe (con solita smentita), conviene ascoltarla e riascoltarla testualmente la dichiarazione rilasciata ieri di fianco al binario 21 da cui partirono verso Auschwitz i trenimerci dei deportati. Rivelatore è l’impulso di Berlusconi a comprendere le motivazioni del regime fascista: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora...». Ancor più netta è l’identificazione con «un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
D’accordo, c’è il delirio personalistico di un uomo che si ricandida per la sesta volta consecutiva a capo dell’Italia, immedesimandosi nel mito del Ventennio. Ma proprio per questo Berlusconi avverte la necessità di addomesticare la storia. Quasi che assolvendo quel Mussolini che, prima delle leggi razziali, «aveva fatto bene», gli venisse più facile chiedere poi agli italiani di chiudere un occhio anche sulle proprie, di malefatte.
Per questo ci vengono nuovamente propinate, sfregiando la Giornata della Memoria, le favole su una «connivenza non completamente consapevole» del fascismo nella persecuzione degli ebrei.
Fino a pretendere indulgenza per il Duce che promulgò le leggi razziali e ordinò la deportazione nei campi di sterminio, cui sarebbero da addebitarsi «responsabilità assolutamente diverse» rispetto a quelle di Hitler. Provo un senso di vergogna a commentare simili affermazioni; pur sapendo che lo stereotipo degli “italiani brava gente” è duro a morire in un paese che per reticenza e pavidità culturale delle sue classi dirigenti (Chiesa compresa) non ha fatto con la dovuta severità i conti con le sue responsabilità storiche.
Ormai è dimostrato incontrovertibilmente che il regime fascista aveva sprigionato il suo antisemitismo già ben prima del 1938, l’anno delle leggi razziali. Così com’è risaputo che il nazionalsocialismo tedesco aveva tratto ispirazione dalla dittatura mussoliniana, di cui era un alleato naturale.
Ma la destra di Berlusconi si nutre di questa teoria giustificazionista dei due tempi, secondo cui sarebbe esistito un fascismo buono, prima, e un fascismo cattivo poi. Non a caso gli manifestava benevolenza già dieci anni fa, quando doveva pur essere più lucido: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Il Duce mandava la gente in vacanza al confino», affermava.
Dimenticati in una sola boutade gli assassinii politici, i Tribunali speciali, la soppressione delle libertà democratiche che avevano preceduto le leggi razziali. Altro che «Mussolini per tanti altri versi aveva fatto bene».
Ma più ancora che il falso storico, colpisce il degrado morale rivelato da Berlusconi quando ci invita a comprendere la scelta di Mussolini alle prese con la forza di quell’alleato tedesco che pareva destinato a conquistare l’Europa intera.
Ascoltiamolo di nuovo testualmente: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora. Certamente il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. E dentro questa alleanza ci fu l’imposizione della lotta...» - qui Berlusconi esita un attimo sull’uso osceno della parola “lotta”, prima di aggiungere - «... e dello sterminio contro gli ebrei. Quindi il fatto delle leggi razziali è la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
Dobbiamo ritenere che, date le circostanze, per necessità, per convenienza, anche lo “statista” Berlusconi potrebbe subire simile “imposizione” da dittatori criminali contemporanei? Noi sappiamo bene che il Duce era razzista e antisemita in proprio, senza bisogno dell’incoraggiamento di Hitler. Ma a Berlusconi che vuole ignorarlo, e si sforza di entrare nei panni di Mussolini, dovremmo forse concedere una tale infame esitazione?
Shoah, don Barbareschi: innamoratevi della libertà di Paola D’Amico in “Corriere della Sera” - Milano - del 31 gennaio 2012
«Sono un prete di Milano, un prete vecchio, ma non ho ancora accettato di essere un vecchio prete. A voi ragazzi dico: innamoratevi della libertà. Il primo atto di fede che un uomo deve fare è nella sua capacità di essere una persona libera». Per la prima volta don Giovanni Barbareschi, 90 anni, prete partigiano e antifascista, «Giusto tra le nazioni» per aver contribuito a mettere in salvo oltre duemila ebrei perseguitati, prigionieri alleati e antifascisti italiani, ieri alle 18 ha messo piede nei sotterranei della stazione Centrale. E al Binario 21, dove si sta realizzando il Memoriale della Shoah, ha incontrato Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione, ai campi di concentramento, e dal ’96, insieme ai giovani della Comunità di Sant’Egidio, «testimone» di quegli orrori. C’è silenzio e commozione nelle navate di cemento armato, ancora per metà cantiere, mentre parla don Barbareschi. Negli anni della guerra, spiega, «ho fatto solo quello che un uomo libero avrebbe fatto. Si deve essere liberi dentro per vivere ogni giorno da uomo». Lo ascoltano in silenzio i 400 ragazzi, studenti, insegnanti, scout raccolti nell’immenso spazio in costruzione.
E l’emozione continua nel canto di un musicista rom, Jovica Jovic, che richiama la memoria del Porrjamos, lo sterminio dei Rom e dei Sinti, rinchiusi, gasati e bruciati insieme alle migliaia di ebrei e ai deportati politici. «È il testamento di mio padre - spiegherà l’uomo, quando gli applausi che hanno accolto la breve performance si saranno spenti -. Lui, che a 16 anni finì in un campo di sterminio, compose questa canzoncina e, poi, sopravvissuto alla immensa tragedia continuò a cantarla. Suonava e piangeva. E a noi bambini che ignoravamo il dramma dell’Olocausto diceva: meglio che voi non sappiate cos’è la sofferenza. Ma io non posso dimenticare».
La commemorazione organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, come da sedici anni in questo luogo, ben prima che fosse istituita la Giornata della Memoria, si trasforma in un grande momento di raccoglimento. Ci sono il rabbino emerito Giuseppe Laras, il presidente della Comunità ebraica Roberto Jarach, e il rabbino Alfonso Arbib, che scuoterà anch’egli la platea di oltre quattrocento persone qui raccolte, in piedi, al freddo. Racconta di quando il faraone per inseguire gli ebrei fuggiti dall’Egitto preparò da sé il suo carro. «L’odio folle distrugge l’andamento normale delle cose - ha spiegato Arbib -. Così l’impegno folle dei nazisti che andò oltre la razionalità». Di questo bisogna fare memoria sempre: «Per combattere l’antisemitismo bisogna riuscire ad agire sull’emozione, sui sentimenti. Ricordare che esiste un elemento irrazionale».
Canti, testimonianze, musica, applausi: il Memoriale non deve essere un museo ma un luogo vivo, avevano chiesto i promotori dell’opera. E la comunità di Sant’Egidio l’ha, infatti, trasformato in palcoscenico.
Online la lista degli ebrei finiti nei lager
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 26.01.2012)
Sono online da oggi, all’indirizzo www.nomidellashoah.it. Adulti, anziani e bambini, maschi e femmine. Sono i nomi e i dati anagrafici dei circa 7.200 ebrei italiani che vennero deportati dai nazisti durante l’occupazione tedesca dell’Italia tra il 1943 e il 1945.
In grande maggioranza perirono nei lager, meno di un migliaio riuscirono a salvarsi: «A differenza di quanto hanno fatto siti analoghi realizzati in altri Paesi (Israele, Francia e Olanda), abbiamo deciso di mettere sul Web anche i dati dei sopravvissuti, perché furono comunque perseguitati e deportati» precisa Liliana Picciotto, autrice del Libro della Memoria (Mursia) che costituisce la base da cui è partita questa iniziativa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) per il giorno che celebra l’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici, il 27 gennaio 1945. Mancano al momento gli ebrei dell’isola greca di Rodi (all’epoca possedimento italiano), che furono deportati in massa: sono altri 2.000 nomi che dovrebbero aggiungersi nel corso del 2012: «In agosto siamo andati a Rodi e abbiamo raccolto i dati: si tratta solo di avere il tempo di elaborarli».
Sempre quest’anno l’elenco delle vittime italiane sarà consegnato, nel corso di una cerimonia ufficiale, al sacrario israeliano dell’Olocausto, dove è stato allestito, all’interno del sito www.yadvashem.org, il Database of the Shoah Names Victims, in cui si possono già consultare i dati di circa tre milioni di persone sterminate.
Il sito italiano si apre con una schermata di circa ottanta nomi, scritti in corsivo: «È il nostro omaggio alle vittime - spiega Liliana Picciotto - una sorta di monumento digitale. Ogni giorno la homepage cambierà, con nuovi nominativi in ordine alfabetico, fino a completare l’elenco. Poi si ricomincerà da capo. Invece alla maschera di ricerca per trovare i singoli individui abbiamo dato una forma sghemba, in modo da esprimere il senso di disagio che si prova di fronte a un crimine così immenso: c’è anche la copertina del Libro della Memoria, come segno di riconoscimento nei confronti dell’editore Mursia, che si prese molti anni fa l’impegno di pubblicare il mio lavoro».
Di ogni vittima si trovano la data, il coniuge, il luogo d’arresto e quello di deportazione. Per una parte è disponibile anche la fotografia. «Il sito - precisa Liliana Picciotto - non è rivolto soltanto agli studiosi, che potranno facilmente accedere ai nostri dati da ogni parte del mondo, ma anche ai parenti dei deportati, nella speranza che possano fornire ulteriori notizie sui loro cari e magari foto di famiglia in cui siano effigiati, per arricchire la documentazione e dare ancora di più il senso di quella spaventosa tragedia».
La bambina del binario 21
di Fabio Poletti (La Stampa, 27 gennaio 2010)
Il viaggio di Liliana Segre non è ancora finito. Anche se oggi ha ottant’anni, i capelli candidi, gli occhiali che le danno un’aria da anziana signora finalmente in pace, si sente ancora «la nonna di me stessa», come racconta nel film di Andrea Jarach «Binario 21».
Su quel binario nei sotterranei bui della stazione Centrale, a Milano, dove per decenni sono rimaste assopite coscienze insensibili a offese mostruose, Liliana Segre è tornata ieri. E anche se non era la prima volta, per lei, è stata un’occasione speciale. C’è venuta per inaugurare quel monumento, si spera inchiodato per sempre a un binario morto - un vagone piombato, il filo spinato là in alto -, che ricorda quelli che non tornarono da Auschwitz e i troppi che nei campi vennero deportati partendo dalla stazione di marmo lucido che Mussolini volle a dimostrare la «grandezza dell’Impero».
Era una bambina, Liliana Segre, quando partì. Aveva tredici anni e non sapeva ancora che essere ebrea, anche se italiana, fosse una colpa grave. Su quel treno, il 30 gennaio 1944, erano in seicentocinque. Quattrocentosettantasette tra i quali suo padre furono uccisi all’arrivo ad Auschwitz.
Altri 108 morirono prima della liberazione e dell’arrivo dei russi. Alla fine della guerra torneranno in venti. Troveranno per anni porte chiuse, insensibili al dolore e alla memoria. La prima stesura del libro di Primo Levi «Se questo è un uomo» venne rifiutata dagli editori. Liliana Segre aspetterà cinquant’anni, prima di farsi «memoria» da sé.
«Oggi al binario 21 ho chiesto a tutti che si alzassero in piedi. Non volevo che onorassero solo chi, come me, è sopravvissuto ai campi. Volevo che si ricordassero di quelli che non sono più tornati. Sono arrivata a ottant’anni per vedere questo momento. Spero di avere la forza di esserci anche tra due, quando sarà finito il monumento» dice lei, che si sente una voce tra tante: identica a quella che avrebbero avuto quei 6 milioni di deportati se fossero tornati a casa. Ebrei, antifascisti, antinazisti, omosessuali, comunisti, prigionieri politici, zingari, onorati e finalmente ricordati con una legge voluta dal Parlamento solo nel 2000. Una legge che finalmente istituisce il 27 gennaio, data in cui vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria».
«Questo è un Paese dalla memoria corta. È sempre fastidioso fare i conti con il proprio passato. Per anni i libri di storia si sono fermati alla prima Guerra mondiale. Il silenzio è stata una costanza. L’indifferenza è molto peggio della violenza», dice oggi Liliana Segre. Parole simili a quelle usate per raccontare cosa accadde un giorno di dicembre, quando tradita da una guardia di confine svizzera che la ricaccia in Italia insieme al padre, venne reclusa a San Vittore nel braccio degli ebrei voluto dalle leggi razziali. Ricorda un giorno da bambina, Liliana Segre, nel libro scritto da Emanuela Zuccalà «Sopravvissuta ad Auschwitz»: «A calci e pugni fummo caricati su un camion e portati alla stazione Centrale. La città era deserta. I milanesi non provarono alcuna pietà per noi: restarono in silenzio dietro le loro finestre».
Adesso, invece, i milanesi ricordano. Nei sotterranei bui della stazione ci sarà un monumento per non dimenticare. Dal binario 21 ogni anno - e anche oggi - partono treni verso Auschwitz carichi di studenti delle scuole superiori. «Qualche volta sento dire che ci sono le “gite” ad Auschwitz. Io, quei viaggi, preferisco chiamarli pellegrinaggi. Sono utili, è chiaro. Ma un po’ mi dispiace quando sento che nel programma è compresa anche la discoteca la sera, perché la gita non diventi troppo pesante per i ragazzi».
Dopo cos’ha visto e vissuto, adesso che ha ottant’anni, Liliana Segre non ha più tempo per diplomatici giri di parole. Il vento dell’oblio non la tocca. Ma davanti a polemiche che ogni anno spuntano dal calendario e da memorie distorte si è fatta meno sensibile. Negare certe pagine del diario di Anna Frank perché troppo crude la scuote come la leggerezza di chi parla a vanvera di Olocausto: «Mi è capitato di leggere romanzetti in cui si raccontava di Auschwitz... Fare diventare di moda la Shoah è come negarla».
Solo ai negazionisti, agli ostinati che non credono a quell’orrore, Liliana Segre non vuole rispondere: «Non è importante quello che io penso di loro. Vorrei sapere cosa loro pensano di me. Cosa pensano di quella bambina che salì su un treno al binario 21 e che, di quel giorno, ricorda allora ogni immagine, ogni odore, ogni voce».
Milano-Auschwitz
di Furio Colombo (il Fatto, 27.01.2010)
C’è un sotterraneo alla Stazione centrale di Milano, una immensa stanza segreta che riproduce tutto quello che vedete di sopra, al piano dei treni e della grande tettoia di ferro e di vetro che, ancora adesso, fa sentire la tensione del viaggio. Capisci che l’avventura comincia nell’arco di luce che si vede verso il fondo, dove i treni diventano una linea che va verso il mondo. Anche sotto, nella immensa stanza segreta, ci sono binari. Vanno verso un punto lontano, che non rivela niente, solo altre gradazioni di buio. Qui senti che sei lontano dal cielo come se questo luogo fosse una fenditura profonda. Pochi metri tra sopra e sotto, ma la distanza è infinita. Sopra siete liberi, sotto no. Come in una strana, torbida fiaba, essere qui è una condanna. Così è stato ogni giorno, ogni settimana in un periodo maledetto della nostra storia. Noi siamo su un lastrone di cemento al binario 21. Siamo testimoni di un delitto italiano di cui sono restati tutti i segni e tutte le impronte.
Dal binario 21 partivano i treni, mentre Milano viveva la sua difficile vita di guerra, la borsa nera, lo sfollamento, il treno per venire al lavoro e tornare in campagna per essere più al sicuro, quel tanto di solidarietà che nasce sempre nei momenti difficili. Non per tutti. Una bambina che è passata sul marciapiede buio del binario 21, in quel misterioso piano di sotto racconta: “Dopo l’arresto ci avevano rinchiuso a San Vittore, con ladri e malfattori. Quando ci hanno messi in marcia verso la stazione donne, uomini, vecchi, bambini, in uno strano corteo, soltanto i detenuti di San Vittore hanno gridato “coraggio”, hanno capito l’assurdo, ci hanno dato quel che avevano da mangiare e per stare caldi.
Nelle strade di Milano non se ne è accorto nessuno, nessuno si è voltato”. E’ la voce di Liliana Segre che ha fatto da guida alla stanza sotterranea, ha mostrato che pietre, cemento, umido, buio e binari ci sono ancora. Ecco il binario 21. Da qui, dalla stazione italiana, con personale italiano e scorta italiana, partivano i treni Milano-Auschwitz. Qui spingevano sui vagoni gli ebrei italiani destinati a morire. Qui il 26 gennaio, decimo anniversario del Giorno della Memoria, Marco Szulc, figlio della Shoah, ha posto la prima pietra del Memoriale italiano. Milano, piano sotterraneo, binario 21. Ci sono ancora i vagoni.
BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE *
Quasi sei decenni ci separano dai giorni in cui le armate alleate raggiunsero i campi di sterminio nazisti restituendo la liberta’ ai pochi prigionieri scampati al massacro: da allora la memoria della Shoah rappresenta un elemento costitutivo dell’identita’ per una parte cospicua degli ebrei. Ormai la generazione dei testimoni diretti (su entrambi i versanti: quello delle vittime e quello dei persecutori) va estinguendosi.
Ma anche gli ebrei della nuova generazione, apparentemente estranei alla paura, affrancati - tanto nella diaspora quanto in Israele - dalle ansie degli antenati, continuano a confrontarsi con la memoria della Shoah, condannati a ritornarvi lungo la propria cronistoria, nelle proprie associazioni mentali, nelle proprie decisioni morali, nei codici di comportamento. "Una mia amica, sopravvissuta come me alla Shoah - scriveva Doris Papier in una lettera da Herzliya (Israele) al "Jerusalem Post" nel dicembre 1990 -, ha visitato recentemente la localita’ nella quale erano vissuti e dove vennero assassinati i miei famigliari. Il luogo non e’ lontano da Rovno, in Ucraina. Mentre si trovava la’, la mia amica registro’ con una cinepresa la boscaglia in cui migliaia di ebrei furono passati per le armi".
E soggiungeva: "Quando vidi il filmato rimasi inorridita nell’osservare che un po’ ovunque, sul terreno, affioravano le ossa delle vittime e, inoltre, che la popolazione del luogo andava frugando fra i resti umani alla ricerca di denti d’oro e di oggetti di valore". (...) "Trovo quasi incredibile che per tutto questo tempo nulla sia stato fatto dalle autorita’ sovietiche e/o ucraine per porre rimedio a tale situazione".
Oswiecim, in Polonia ("Auschwitz" in tedesco). Qui, nell’agosto 2000, viene inaugurata la discoteca "System", nella quale ogni fine settimana si danno appuntamento centinaia di giovani. La nascita della discoteca innesca l’ultima di una lunga serie di diatribe che, per tutto il secondo dopoguerra, hanno avvelenato i rapporti tra polacchi ed ebrei: la malcelata invidia dei primi, che non si sono sentiti abbastanza considerati nel ruolo di vittime del nazismo, l’antisemitismo strisciante dei governi comunisti di Varsavia, l’atteggiamento a volte ostile verso gli ebrei della Chiesa cattolica di Polonia e, soprattutto, il destino di Auschwitz, l’uso e la tutela di un luogo che la tragedia della Shoah ha inscritto per sempre nella storia degli ebrei e nella coscienza del mondo. La "pista da ballo sopra le tombe" - come viene definita la discoteca dai suoi critici - riaccende la guerra per la memoria della Shoah: una vicenda conflittuale fatta di simboli, di controversie religiose e strumentalizzazioni politiche, le cui radici vanno cercate nelle pieghe profonde della storia d’Europa, recente e meno recente.
Gia’ negli anni Ottanta un convento di carmelitane, che si era insediato entro il perimetro dell’ex campo di sterminio, fu trasferito al di fuori dei fili spinati in seguito alle proteste delle comunita’ ebraiche. Nel 1996, gruppi di pressione ebraici ottennero che fosse annullato il progetto di costruzione di un centro commerciale, mentre nel 1998 vennero rimosse trecento croci in legno piantate ad Auschwitz dagli attivisti del "Movimento per la salvezza del popolo polacco", un gruppuscolo ultranazionalista che fa dell’antisemitismo e del radicalismo religioso il proprio cavallo di battaglia. Nel 2000, a chiedere l’immediata chiusura della discoteca "System" scese in campo nientemeno che il Centro Wiesenthal di Vienna.
Spesso gli ebrei vengono rimproverati di fare di Auschwitz, della Shoah un mito, un monumento. A ben vedere le cose non stanno esattamente cosi’. Per i sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai piu’ che un monumento rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine.
Innanzitutto e’ impossibile dimenticare che la Shoah ha inghiottito sei o sette milioni di persone: approssimativamente la meta’ degli ebrei europei, ossia circa un terzo degli ebrei del mondo, fra i quali un milione e mezzo di bambini. Ma soprattutto, nella Shoah e’ andata distrutta una civilta’, quella degli ebrei dell’Europa centro-orientale. Dell’antico scenario fisico entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunita’ estremamente vitali e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri, i libri, gli oggetti rituali e d’uso quotidiano, le carte: documenti di una storia durata poco meno d’un millennio. Pagine della storia degli ebrei, certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d’Europa e - vorrei aggiungere - della storia dell’intera umanita’.
Come ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, docente alla Columbia University di New York, la necessita’ di ricordare e’ divenuta piu’ urgente da quando hanno alzato la voce "coloro che fanno a brandelli i documenti, gli assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, i cospiratori del silenzio, coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera, possono cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne rimanga solo il cappello". Quella che ci risulta intollerabile e’ l’idea che persino i crimini piu’ atroci possano cadere nell’oblio. In sostanza, il bisogno di ricordare riguarda il male.
Da piu’ parti si sostiene che, in quanto "male assoluto", la Shoah sia qualcosa di indicibile, di irrappresentabile. Si tratta, in questo caso, di un’opinione che non condivido. Ritengo infatti che anche il lavoro di coloro che fanno storiografia avrebbe uno spessore molto inferiore se non potesse fare riferimento proprio alle narrazioni dei testimoni diretti, dei deportati, di coloro la cui vita e’ stata barbaramente stroncata, dei sopravvissuti. Come si sa, la testimonianza personale e’ fragile, parziale, incompiuta; tuttavia essa esprime il vissuto, unisce soggettivita’ e oggettivita’, individuale e collettivo, pubblico e privato. Ai fini della conservazione e trasmissione della memoria, il racconto individuale offre spunti e risorse di una vitalita’ unica, insostituibile: basti pensare alle narrazioni e alle riflessioni preziosissime di un grande testimone quale fu Primo Levi.
In un mondo sempre piu’ orientato a rimuovere e a banalizzare il male - qual e’ il mondo in cui viviamo -, e’ importante che un sano impegno pedagogico dia vita a strategie educative capaci di offrire alle generazioni piu’ giovani il senso concreto di un legame tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di offesa ai diritti umani, di eccidi di massa che accadono oggi, pur con tutte le differenze rispetto alla Shoah.
Il ricordo del male passato, pero’, non puo’ e non deve ridursi a retoriche manifestazioni in chiave celebrativa: una sorta di illusori compensi postumi elargiti alle vittime e ai loro eredi. Manifestazioni di questa natura sono i prodotti di una memoria statica, capace soltanto di dare corso a rievocazioni del male che, per essere meramente commemorative ed esorcistiche, rivelano una radicale sterilita’. Da esse occorre distinguere le forme di una memoria dinamica, preoccupata di tenere viva la consapevolezza del male al fine di favorire, semmai, la progettazione di un futuro diverso e migliore. Infatti il ricordo dell’orrore, seguito dalla rituale invocazione "cio’ non deve accadere mai piu’", appare destinato a rimanere privo di reale efficacia quando non si saldi a un’interrogazione argomentata e analitica circa il presente e non si apra con spirito critico e creativo alla progettualita’.
Alla fine del 1997 Sergio Romano pubblico’ in Italia un saggio che, a onta del tenore benevolo del titolo e dell’orgoglioso "laicismo liberale" ostentato dall’autore, apparve subito abbondantemente farcito dei piu’ abusati luoghi comuni antiebraici. L’autore pretendeva di spaziare in lungo e in largo nella storia degli ebrei fino a giudicarne lapidariamente la religione: un "catechismo fossile (’duecentoquarantotto precetti affermativi e trecentosessantacinque precetti negativi’, ricorda il rabbino Toaff) di una delle piu’ antiche, introverse e retrograde confessioni religiose mai praticate in Occidente".
Fra le numerose bizzarrie proposteci da questo pamphlet, occupa un posto centrale la tesi, non priva di malizia, secondo la quale il genocidio degli ebrei d’Europa si sarebbe ormai trasformato, per l’opinione pubblica dell’Occidente (cristiano), in una sorta di ricatto permanente.
Nell’imputare tale fatto al culto ebraico della memoria, Romano articola le sue argomentazioni nei termini seguenti: "[Il genocidio] e’ diventato il peccato del mondo contro gli ebrei, una colpa incancellabile di cui ogni cristiano dovrebbe chiedere perdono quotidianamente, il nucleo centrale della storia del XX secolo. Grazie a questa prospettiva storica, ogni paese e ogni istituzione vengono giudicati per il loro ruolo in quella vicenda e finiscono, prima o poi, sul banco degli accusati". Dopo avere elencato varie stragi analoghe o paragonabili per dimensioni o crudelta’ (lo sterminio armeno, le vittime dello stalinismo, del colonialismo, della seconda guerra mondiale, dei conflitti interetnici in Bosnia o in Ruanda), Romano lamenta che, mentre la memoria di questi e altri massacri "impallidisce e si appanna, l’’olocausto’ continua ad agitare le coscienze". Insomma, "non e’ piu’ un episodio storico da studiare nelle particolari circostanze in cui quelle vicende ebbero luogo".
Di fronte alla ricerca storica, afferma Romano, molti ambienti ebraici si rivelano animati da una "ostilita’ iniziale" dettata, fra l’altro, dal "timore che gli studi storici finiscano per ’storicizzare’ il genocidio riducendolo, prima o dopo, ad una gigantesca ’notte di San Bartolomeo’". Con l’attribuire agli ebrei, in buona sostanza, la colpa di collocare la Shoah in una dimensione teologica e metastorica, Romano avanza l’ipotesi che la "strategia della memoria" sia stata per lo Stato d’Israele "una straordinaria arma diplomatica, una preziosa fonte di legittimita’ internazionale". Inoltre, secondo Romano, tale strategia e’ "il terreno su cui l’ebraismo e la sinistra possono incontrarsi e collaborare", consentendo agli ebrei di "tenere in vita una sorta di ’comitato permanente di vigilanza antirazzista’".
E’, questa di Romano, un’ipotesi semplicistica e fuorviante poiche’, oltre a recuperare alcuni "topoi" del "connubio giudaico-comunista" tanto cari alla pubblicistica fascista degli anni trenta, ha il torto di enfatizzare il sostegno offerto allo Stato d’Israele dalle comunita’ della diaspora e di sottolineare oltre misura la volonta’ d’Israele di tenere viva, nel proprio esclusivo interesse di Stato, la memoria del genocidio: riducendo in tal modo il grande esame di coscienza che il mondo continua a compiere di fronte alla Shoah a una meschina macchinazione politica degli ebrei.
Circa gli usi della memoria della Shoah che si sono andati facendo in Israele lungo l’arco dei decenni, l’analisi piu’ compiuta, equilibrata e, nello stesso tempo, severamente problematica, e’ a mio avviso quella condotta da Tom Segev - un valido giornalista e storico israeliano - in Il settimo milione. Osservatore molto attento e sottile delle dinamiche complesse e talvolta contraddittorie che si registrano all’interno della classe politica e della societa’ israeliane, Segev rammenta che "Israele e’ diverso dalla maggior parte degli altri paesi del mondo perche’ ha la necessita’ di giustificare, agli occhi altrui e ai propri, il diritto all’esistenza". L’Olocausto, spiega Segev, "e’ la conferma definitiva della validita’ della tesi sionista secondo cui gli ebrei possono vivere nella sicurezza e godere pienamente dei diritti dei quali usufruiscono gli altri popoli soltanto in uno Stato autonomo e sovrano, capace di difendersi.
Eppure, di guerra in guerra, si e’ visto chiaramente che al mondo ci sono molti altri luoghi in cui gli ebrei sono piu’ al sicuro che in Israele. Non solo: l’Olocausto e’ stato un’innegabile sconfitta per il movimento sionista, che non e’ riuscito a convincere la gran parte degli ebrei del mondo a stabilirsi in Palestina quand’era ancora possibile".
"Secondo alcuni", ricorda Segev, "sarebbe meglio che gli israeliani dimenticassero l’Olocausto, dal momento che ne traggono insegnamenti sbagliati". E nel menzionare taluni dei rischi che il culto della memoria comporta, egli osserva correttamente che "la scuola e le celebrazioni ufficiali alimentano spesso lo sciovinismo e l’idea che lo sterminio nazista giustifichi qualsiasi azione purche’ giovi alla sicurezza di Israele, compresa la repressione della popolazione palestinese nei Territori occupati". Tuttavia, dichiara alla fine l’autore, gli israeliani "non possono e non devono dimenticare [l’Olocausto]. Quello che devono fare e’ trarne conclusioni diverse. L’Olocausto chiede a tutti noi di tutelare la democrazia, combattere il razzismo e difendere i diritti umani. Conferma e rafforza la legge israeliana che impone a ogni soldato di non obbedire a un ordine palesemente illegittimo. Certo non sara’ facile inculcare gli insegnamenti umanistici dell’Olocausto finche’ Israele lottera’ per difendersi e per giustificare la propria esistenza. Ma farlo e’ essenziale".
E’ chiaro che il rapporto fra memoria della Shoah e storia e’ particolarmente complesso, giacche l’elaborazione dei lutti provocati dalla tragedia e’ lunga e dolorosa. Faccio senz’altro mia la preoccupazione di non cadere in "eccessi di memoria", che rischierebbero di schiacciare sul passato la progettazione di un qualsiasi avvenire. Ne’ intendo qui negare che in ambito ebraico siano oggi presenti, tanto in Israele quanto nella diaspora, gruppi politici e frange sociali disposti a fare della Shoah un uso strumentale onde giustificare forme di sciovinismo miope e arrogante, pericolose derive fondamentaliste e grette chiusure di natura confessionale.
Tuttavia, il piccolo universo degli ebrei continua, nel suo insieme, a essere ricco di interne tensioni, di una vivacissima dialettica, di spinte e controspinte, e presenta connotazioni complesse, diversificate e troppo difficili da cogliere perche’ sia consentito accostarsi a esso con un approccio del tipo di quello adottato da Sergio Romano. Forse l’urgenza con la quale Romano preme per "storicizzare" la Shoah rivela una sotterranea ansia di "archiviazione", tesa a liquidare una memoria troppo ingombrante per i tanti europei che, pur di sentirsi innocenti, cercano di "chiamarsi fuori" in vari modi, per esempio ponendo lo sterminio a esclusivo carico della defunta ideologia nazista.
Il vero problema, a mio avviso, e’ quello di conciliare il compito morale di evitare che il passato cada nell’oblio con l’impegno a operare perche’ le nuove generazioni si possano costruire un futuro vivibile e decente, da condividere responsabilmente e fraternamente con tutti i figli degli uomini. In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono gia’ tracciate.
Mi riferisco, in primo luogo, all’esperienza di Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme: un’istituzione che, fin da quando vide la luce nel 1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i "giusti", ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita si prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei "giusti" hanno permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza nell’umanita’. Per numerosi ebrei e per i loro figli e nipoti e’ stato possibile ritornare nei paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo avere saputo di uomini e donne che si erano comportati diversamente. In tal modo i "giusti" sono diventati il tramite di un riavvicinamento tra le vittime della violenza e i popoli che li hanno oppressi.
In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust Dialogue Group: un’associazione internazionale creata all’inizio degli anni Novanta da Gottfried Wagner - pronipote di Richard e figlio "degenere" dell’attuale direttore del Festival di Bayreuth (in Germania) - e da Abraham Peck, direttore amministrativo e dei programmi dell’Archivio ebraico-americano di Cincinnati (negli Stati Uniti). Le iniziative di questo gruppo mirano non gia’ a ricomporre le memorie della Shoah - ancor oggi profondamente divise - in una fittizia unita’ sotto l’etichetta di una "comune memoria" (un’operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia), bensi’ a dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia necessario, di reciproco riconoscimento, di dialogo appunto, tra i figli di coloro che la Shoah l’hanno subita e i figli di coloro che, invece, l’hanno architettata e inflitta. Un dialogo, dunque, tra persone nate dopo lo sterminio.
Uno dei membri ebrei del gruppo, lo psichiatra newyorkese Yehuda Nir, ha pubblicato un’autobiografia che e’ stata tradotta in nove lingue. In un’introduzione all’edizione olandese, composta con un pensiero rivolto in particolare agli studenti, Nir interpella idealmente Gottfried Wagner con parole che esprimono tutt’intera la tensione e la fatica di un lavoro congiunto di ricostruzione morale e psicologica, portato avanti con estrema delicatezza dagli uni e dagli altri attori di questo dialogo straordinario: "Gottfried, io ti vedo come un rappresentante di questo [nuovo] mondo. Tu sei l’anti-Lohengrin, che non nasconde il suo passato e dice: ’Per favore, Yehuda, chiedimi che cos’hanno fatto i miei genitori’. In modo sincero ti definisci un figlio dei persecutori, un tedesco nato dopo la Shoah. Hai affermato di essere legato alla storia della Germania. Non chiedi perdono. Tutto cio’ che desideri e’ impegnarti in un dialogo per capire che cosa e come e’ successo, e se e’ possibile evitare che possa accadere di nuovo. Sei un tedesco che vuole aiutare a creare un mondo in cui noi ebrei possiamo prendere in considerazione il perdono".
*NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 347 del 27 gennaio 2008 [Riproponendo nuovamente queste pagine finali del suo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, nuovamente ringraziamo di cuore Bruno Segre per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio a suo tempo ampi stralci da questo suo utilissimo libro, la cui lettura vivamente raccomandiamo. ...]
E l’attore presenta "Binario 21" uno spettacolo dal poema di Yitzhak Katzenelson che ora è diventato libro +dvd
Ovadia: urlo di dolore, dai lager a Rosarno
di Anna Bandettini (la Repubblica, 22.01.2010)
ROMA. «È un poemetto in 17 canti che per lucidità, rabbia, disperazione non è paragonabile a nessun altro. È un urlo che incarna la tragedia vissuta dagli ebrei nel suo svolgersi, senza infingimenti. E senza speranza. È una cosa che squassa l’anima. Un grido di dolore che oggi è contro tutti i genocidi. Da Auschwitz a Rosarno». Moni Ovadia torna a parlare di Olocausto: inevitabile per chi come lui, ebreo sefardita, ha nei confronti delle proprie radici e della propria storia un sentire particolare, la conoscenza e l’emozione giusti per capirla, per farne un monito contro i razzismi di oggi.
Lo fa con l’oratorio Binario 21. Il canto del popolo ebraico massacrato, tratto dall’omonimo poema di Yitzhak Katzenelson, che ora ha trasformato (per la Promomusic) in un libro e un dvd molto speciale perché vi si vedrà la registrazione, a firma di Felice Cappa, dello spettacolo in un luogo simbolo come il binario 21, il luogo della Stazione Centrale di Milano dove gli ebrei italiani partivano per essere deportati nei lager e dove il 26 gennaio, vigilia della Giornata della Memoria, verrà posta la prima pietra del Memoriale della Shoa. Non solo: lo spettacolo è stato registrato davanti a una sola spettatrice, Liliana Segre, «testimone unica - spiega l’attore - perché Liliana è una donna che ha attraversato quell’inferno», spiega.
E "quell’inferno" in Binario 21 è descritto in un oratorio duro e senza redenzione, carico di rabbia, pieno di dolore. Katzenelson, che era stato un intellettuale socialista, vivace animatore della vita culturale polacca, lo maturò proprio durante la Resistenza nel ghetto di Varsavia, dove perse moglie e figli. «Fu fatto fuggire proprio per raccontare al mondo la vita lì dentro, cosa vi succedeva. Scrisse in Francia questo poema, unico perché è la voce di un testimone simultaneo della tragedia. Quando fu poi arrestato, si dice, che prima di morire ad Auschwitz, seppellì il suo poema nei pressi di un albero. È l’ultimo Giobbe della storia dell’umanità», dice Ovadia.
«Questo oratorio per me è un monito: voglio farmi testimone per far sì che il giorno della Memoria non diventi il giorno della falsa coscienza, di chi visita Auschwitz e poi deporta gli africani. L’Olocausto riguardò milioni di slavi, rom, sinti oltre che di ebrei. Guai a togliere alla Shoa il suo valore universale. Io voglio cantare la grande battaglia che toccò agli ebrei per tutti quelli che subiscono altri genocidi, per quanti ancora oggi sopportano la malapianta dell’intolleranza. Da Auschwitz a Rosarno».
Segre e i suoi cento anni di Resistenza al fascismo
di Massimo Novelli (Il Fatto, 23.05.2018)
Un secolo di vita, ma soprattutto un secolo di resistenza ai fascismi vecchi e nuovi, all’oscurantismo clericale e civile, ai pregiudizi di razza e di censo, alla violenza del potere. L’avvocato torinese Bruno Segre compirà cento anni tra qualche mese. Partigiano di Giustizia e libertà, uomo di legge e giornalista (dal 1949 dirige il periodico libertario L’Incontro), scrittore e politico (è stato capogruppo socialista, negli anni Settanta, al consiglio comunale di Torino), Segre festeggerà il suo centenario davvero formidabile il 4 settembre. Cento anni, dunque, trascorsi da alfiere indomito della libertà, della pace, della laicità e dei diritti civili, dall’obiezione di coscienza al divorzio.
Molti sanno, o se non altro dovrebbero sapere, che l’avvocato Segre difese nell’agosto del 1949 il primo obiettore di coscienza italiano, Pietro Pinna, davanti a un Tribunale militare. Così come sono conosciute le sue battaglie per il divorzio. Assai meno noto è che, tra l’estate e l’inverno del 1938, l’allora giovanissimo Segre fu il solo nel nostro Paese, assieme all’ex deputato socialista Giulio Casalini, a osteggiare apertamente le leggi razziali fasciste volute da Mussolini, e varate il 17 novembre, in una serie di articoli apparsi su una rivista regolarmente pubblicata in Italia. Si chiamava L’igiene e la vita, usciva a Torino, e l’aveva fondata il citato Casalini, un medico di Vigevano.
In quei mesi del 1938, come Renzo De Felice ha messo in luce nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, la stragrande maggioranza degli italiani rimase indifferente alle leggi razziali. Tacquero quasi tutti gli stessi ebrei italiani; soltanto uno di loro, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, espresse tragicamente la sua protesta contro “l’assurda malvagità dei provvedimenti razzisti” suicidandosi a Modena (si buttò dalla Ghirlandina) nel novembre del 1938. E furono silenti o complici del regime gli intellettuali, salvo Benedetto Croce, che espresse il suo “ribrezzo” per l’antisemitsmo nazifascista in una lettera ripresa dal Palestine Post. Pochi altri, da Massimo Bontempelli a Filippo Tommaso Marinetti, ad alcuni cattolici, non nascosero l’avversione alla vergognosa legislazione avallata da Casa Savoia e dal re Vittorio Emanuele III. Ma un conto era il dissenso per lettera, un altro manifestarlo sulle colonne di un giornale non clandestino.
Segre e Casalini, invece, rischiando il carcere o il confino, ebbero il coraggio di scrivere pubblicamente. Su L’igiene e la vita misero in discussione il preteso fondamento storico e scientifico delle leggi, ossia l’esistenza di una presunta razza pura italiana, di origine ariana, come sostenevano gli accademici autori del Manifesto sulla Razza, pubblicato il 14 luglio del 1938 su Il Giornale d’Italia e in altri quotidiani.
Furono soprattutto gli interventi di Segre a mettere in rilievo che le affermazioni contenute nel manifesto “esprimono un punto di vista estremamente soggettivo. Si tratta di affermazioni dogmatiche la cui enunciazione scientificamente lascia molto a desiderare, e che prospettano una situazione diversa assai nei suoi sviluppi storici”. Firmati con lo pseudonimo di Sicor, gli articoli di Segre, all’epoca studente universitario, e di Casalini, che parteggiavano inoltre per la pace (“il fine dei popoli non può essere la guerra”, scrisse l’ex deputato del Psi), non passarono naturalmente inosservati. Come ricorda l’avvocato, “il giornale di Casalini venne sequestrato e soppresso per avere manifestato opinioni antirazziste”.
Certo è che, ha detto più volte Segre, “ancora oggi mi colpisce il fatto che a levarsi contro le leggi razziali non furono gli intellettuali, i giuristi, gli scienziati, i professori universitari, ma un vecchio socialista, che purtroppo nel dopoguerra venne coinvolto in un grave scandalo edilizio, e uno studente quale ero io, uno che aveva appreso dalle lezioni ascoltate all’Ateneo torinese come l’Italia fosse stata un crogiolo di popoli, una molteplicità di genti, altro che purezza di una ‘razza’ sola!”.
La scure della censura fascista non tardò a calare sul giornale. Dai documenti conservati all’Archivio di Stato di Torino, si può apprendere che già il 7 ottobre Dino Alfieri, ministro della Cultura Popolare, inviava ai prefetti un telegramma in cui si invitava a “disporre sequestro rivista L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini numero 9 del di settembre ultimo scorso per atteggiamento antirazzista”. Il 9 di novembre, il prefetto di Torino rispondeva: “Disposto sequestro n. 10-11 del periodico L’igiene e la vita ottobre-novembre diretto da Giulio Casalini stampato Tipografia Mittone per trattazione problema razzista non conformemente direttivo Governo Nazionale”. Francesco Mittone, nonno del noto avvocato Alberto Mittone, era stato lo stampatore de Il Grido del Popolo di Antonio Gramsci e di alcune opere di Piero Gobetti; la sua tipografia venne più volte perquisita dai poliziotti e dai fascisti.
Per il giornale di Casalini e Segre, pertanto, i giorni erano contati. “Tenuto conto”, affermava il prefetto di Torino, “che la rivista mensile L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini e stampa (sic) dalla tipografia Mittone - corso Principe Oddone 34, Torino - tiene atteggiamento antirazzista; che per tale motivo si sono dovuti adottare provvedimenti di sequestro; viste le leggi sulla stampa periodica, testo unico della legge comunale e provinciale e quella della legge di Pubblica sicurezza”, il 3 febbraio del 1939 decretava “la soppressione del periodico mensile L’igiene e la vita“. Il Questore di Torino fu “incaricato dell’esecuzione del presente decreto che dovrà essere notificato al direttore responsabile del periodico”. La rivista cessò le pubblicazioni. E a lungo sarebbe calato il sipario anche sul coraggio del giovane Bruno Segre e del medico socialista Giulio Casalini, due italiani da onorare e da ricordare nei libri di Storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932. Un saggio di Giorgio Fabre, in "Quaderni di storia", riapre la questione.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala