Mussolini razzista nascosto da De Felice
di Roberto Roscani *
Millenovecentotrentotto. L’anno delle leggi razziali. L’anno in cui il fascismo dà al razzismo e all’antisemitismo una dimensione teorica e politica definitiva. Ad agosto, per iniziativa diretta di Mussolini esce La difesa della razza.
A pagina cinque, subito dopo la presentazione della rivista diretta da Telesio Interlandi, un articolo con un titolo apparentemente anodino: Razza e percentuale. Quaranta righe secche e soprattutto anonime per cancellare un libro a suo modo famoso, i Colloqui con Mussolini firmato da Emil Ludwig e datato 1932.
Sei anni prima Mussolini aveva detto al giornalista che nell’Italia fascista non c’era antisemitismo, che «razza ... è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento». Ora questa pagina vuole rovesciare quelle affermazioni: «Fermiamoci sulla data: 1932. Da allora molti avvenimenti sono accaduti... uno di essi li sovrasta tutti: il nuovo impero di Roma. E il secondo è che l’antifascismo mondiale è di pura marca ebrea».
Chi è, nel 1938, l’anonimo difensore del Mussolini del 1932? Semplice è Mussolini. La certezza ce la dà un saggio di Giorgio Fabre che sta per uscire sul numero 65 dei Quaderni di storia (in libreria a giorni). L’autore (due anni fa era uscito per Garzanti il suo Mussolini razzista) ha rintracciato all’Archivio centrale dello Stato il manoscritto originale completo persino del titolo che il Duce fece avere a Interlandi proprio mentre La difesa della razza stava uscendo dalla tipografia.
Fin qui siamo davanti ad un mistero risolto, ad una attribuzione certa di un articolo importante per valutare la partecipazione e l’interesse di Mussolini alla campagna razzista. Ma il mistero risolto ne apre un altro: quel manoscritto originale è nel fondo pervenuto all’archivio da Renzo De Felice, o meglio da una donazione ad opera della vedova De Felice di poco posteriore alla scomparsa dello storico. Qui la domanda è ovvia: De Felice (autore di una fondamentale storia degli ebrei in Italia, studioso del fascismo, biografo di Mussolini) ha avuto lungamente in mano questo testo e non lo ha reso noto né utilizzato e anzi ha polemizzato con quella ossessione che colse «storici e pubblicisti da strapazzo, giornalisti desiderosi di mettersi in vista che andarono riesumando dalla stampa di quindici-venti anni prima articoli, accenni, spesso vaghissimi e privi di sostanziale valore» per dimostrare il razzismo originario del fascismo. Ecco: il testo mussoliniano (proprio perché certamente del Duce e perché anonimo) è la prova che proprio Mussolini fu il primo artefice della campagna per dare sostanza politica e «un passato» al razzismo del fascismo e del suo capo.
Ma torniamo al testo del 1938. Mussolini destruttura e smentisce il testo di Ludwig del 1932 (che pure era stato riscontrato, riletto e vistato pagina per pagina da Mussolini) individuando le affermazioni scomode e capovolgendole. Aveva detto che «non esiste una razza pura», ora dice che «esistono non di meno razze nettamente individuate nei loro caratteri somatici e morali». E poi torna su quella frase in cui aveva sostenuto che il concetto di razza era per «il 95% sentimento» (a proposito il titolo si riferisce proprio a questa frase) e dopo aver detto che le percentuali sono state «aggiunte dal giudeo Ludwig» continua: «rimane il fatto che la razza esiste sotto l’aspetto biologico e quello sentimentale, cioè spirituale, perché anche il sentimento è una realtà».
Poi il punto più duro da smentire: Mussolini nel 1932 aveva detto che l’antisemitismo non esiste in Italia. Come rovesciare questo argomento? Così: «Allora 1932. Ma da allora ad oggi è sorto il “semitismo” nel mondo e in Italia... Anche in questa questione delle razze, vi è nel pensiero di Mussolini, al di sopra delle necessità tattiche di governo, una coerenza fondamentale». Eccola, la rivendicazione di coerenza nell’antisemitismo che sembrerebbe opposta a quella storicizzazione e a quel paradossale rovesciamento secondo il quale la responabilità dell’antisemitismo fascista sarebbe del semitismo degli ebrei.
Colpisce nella ricostruzione che Giorgio Fabre accompagna a questo ritrovamento, un elemento: Mussolini scrive l’articolo per il primo numero di una rivista che ha fortemente voluto e che, attraverso gli strumenti della propaganda, sostiene e promuove. Lo scrive anonimo e fa di tutto perché resti anonimo: l’unico che conosce per certo l’autore di Razza e percentuale è Telesio Interlandi nelle cui mani è stato consegnato e che ha forse fermato le rotative per inserirlo nel giornale. Il quotidiano di cui è direttore lo riprodurrà, ma anch’esso anonimo e dopo che il testo è uscito, sempre anonimo, sulle pagine del Messaggero. È un articolo di autodifesa e probabilmente proprio per questo sarebbe stato troppo imbarazzante dichiararne la paternità. Ma è anche l’articolo che dà il via a quella campagna di «ricerca» delle radici antisemite del fascismo che De Felice irride e che invece Mussolini aveva suscitato e (anonimamente) rivendicato.
Torniamo quindi al secondo «mistero». De Felice non può (sostiene nel suo saggio Giorgio Fabre) non aver riconosciuto nel manoscritto di Razza e percentuale l’articolo uscito sulla Difesa della razza. Non sappiamo esattamente in che data questo testo sia giunto nelle mani dello storico. Sappiamo però che faceva parte di un fondo di autografi che De Felice vendette all’Archivio centrale dello Stato. Per essere esatti egli ne cedette solo una parte, ripromettendosi di consegnare il resto del materiale quando avesse finito la monumentale (e solo parzialmente compiuta) biografia di Mussolini. La trattativa per la vendita avvenne all’inizio degli anni novanta. De Felice aveva pubblicato nel 1988 il suo Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo e nel 1993 (quando il fondo era stato già consegnato con l’esclusione di un bel numero di manoscritti tra cui questo) ne uscì una nuova edizione senza alcun sostanziale cambiamento. «L’articolo - commenta Fabre - rimase quindi sconosciuto a tutti, storici e grande pubblico». E forse nessuno, dopo, ha pensato che l’archivio De Felice potesse essere anche un archivio mussoliniano. Trattamento diverso De Felice riservò ad altri documenti sul razzismo come ad esempio le carte inviategli da Marcello Ricci, uno degli estensori del Manifesto della razza (le consegnò per la cura e la pubblicazione ad un suo allievo, Mario Toscano, essendo lui ormai gravemente malato). Ma Razza e percentuale no. Eppure (o forse per questo) era proprio il testo che lo avrebbe costretto ad una revisione radicale della tesi di fondo che lo storico ha costruito attorno al tema del razzismo fascista. Ovvero quella di un antisemitismo tutto d’opportunità e di occasione, senza un passato, senza radici nella biografia e nel pensiero di Mussolini. Ma ora De Felice non c’è più: restano i dubbi, senza spiegazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.03.07, Modificato il: 11.03.07 alle ore 14.47
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA
FLS
Storia.
Debre Libanos, il vero volto dell’Italia fascista
La strage compiuta nel ’37 dagli uomini del generale Graziani è un’eredità con la quale risulta difficile fare i conti. Un libro indaga i fatti e i decenni di tentativi di occultare tanta ferocia
di Andrea Riccardi (Avvenire, giovedì 23 gennaio 2020)
Debre Libanos è il più importante monastero d’Etiopia: è il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri veramente originali, maturati lungo i secoli. Il cristianesimo etiopico è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani. [...] -A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos. L’ha fatto solo qualche studioso coraggioso, come Angelo Del Boca, che ha ricostruito gli aspetti oscuri della guerra d’Etiopia.
In questo libro (Debre Libanos 1937) lo storico Paolo Borruso ripercorre non solo la vicenda della strage, ma anche il tempo in cui viene dimenticata e accantonata, per la resistenza degli ambienti e delle istituzioni italiane del secondo dopoguerra, per la volontà radicata di non ridiscutere il mito degli italiani «brava gente» e di dare un’immagine edulcorata del fascismo. In realtà, la politica coloniale del fascismo è rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva.
Debre Libanos ha rappresentato il culmine e il simbolo della disumanizzazione degli italiani nel conflitto etiopico e nella successiva repressione. [...] Quello che avvenne a Debre Libanos nel 1937 è una sequenza drammatica, degna dei più gravi episodi della seconda guerra mondiale. Fu una strage voluta e non casuale. I comandi italiani ebbero coscienza che si trattava di un atto veramente grave, che poteva scuotere la sensibilità delle truppe. Tanto che utilizzarono anche le truppe coloniali (musulmane) nella strage dei monaci e nella distruzione della chiesa e delle residenze monastiche, per evitare di urtare i cristiani (italiani o coloniali) con l’assassinio dei religiosi innocenti. Successivamente alla strage, senza deflettere da una logica di crudeltà continuata con altre uccisioni e con le deportazioni nei campi di concentramento, le autorità italiane provarono a nascondere l’accaduto o almeno a minimizzarlo: operazione impossibile, perché la realtà parlava. Del resto erano eloquenti di per sé le rovine della chiesa e degli insediamenti monastici.
Lo studio della vicenda di Debre Libanos non può esimersi dal chiedersi perché fosse necessaria tanta ferocia. Tale spietatezza ha avuto come risultato politico lo spingere gli etiopici su posizioni di resistenza, com’è avvenuto durante il governo coloniale del maresciallo Graziani.
Perfino Mussolini, che aveva appoggiato le crudeltà del maresciallo, si accorse che si trattava di una politica sbagliata e si vide costretto a cambiare la linea del governo coloniale, promuovendo viceré il duca d’Aosta. Questi, in controtendenza, s’im- pegnò invece in una politica di valorizzazione delle strutture sociali locali e di pacificazione con la Chiesa etiopica. Tuttavia la crudeltà era, in qualche modo, «necessaria », per come la conquista etiopica era avvenuta e per l’impronta totalitaria del regime, rivelatasi chiaramente nell’impresa coloniale. Potrà sembrare un’affermazione paradossale: la crudeltà era necessaria, perché il fascismo con questa guerra agiva in modo totalitario e mostrava il suo volto totalitario.
Si doveva sradicare la società etiopica, che aveva una struttura elaborata, connessa a uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fondata su stratificazioni storico-religiose. Ma come farla tornare indietro a essere solamente una terra di colonia, senza identità e storia? Per questo era necessario distruggere e sradicare. Si doveva fare del mondo etiopico quasi una «tabula rasa», incapace di resistere alla dura dominazione coloniale italiana.
Così anche il governo del duca d’Aosta (che pure rappresentò una pausa di respiro dopo le repressioni di Graziani) era destinato al fallimento. Il consueto sguardo bonario e autoassolutorio sulle storie italiche, magari abituato a indulgere sull’inefficienza italiana, nasconde la strategia che presiede alla conquista fascista dell’Etiopia: distruggere un mondo che aveva una dignità (con tutti i suoi limiti, la sua instabilità tradizionale e le sue arretratezze).
Questo mondo aveva il suo punto di forza nella connessione tra una monarchia consacrata religiosamente e la Chiesa etiopica: il monastero di Debre Libanos rappresentava questa connessione «sacra» con la sua storia e la sua presenza. [...]
La strage dei cristiani di Debre Libanos colpisce anche perché gli ufficiali e i soldati italiani venivano da un paese cattolico, che nel 1929 aveva riaffermato la sua cattolicità con i Patti del Laterano. E, proprio durante l’impresa etiopica, era emerso il consenso cattolico attorno al regime.
Tanto che Mussolini si disse soddisfatto per l’atteggiamento del clero e dell’episcopato nella guerra d’Etiopia: «altamente commendevole dal punto di vista patriottico et morale», scriveva ai prefetti nel 1935. Il consenso cattolico, come il cattolicesimo delle truppe e dell’ufficialità, non frena gli atti anticristiani sugli etiopi e i loro luoghi santi.
È un altro interrogativo interessante: come fu possibile tutto questo? C’è un capitolo della propaganda di guerra che riguarda specificamente il cristianesimo degli etiopi e che venne alimentato dai cattolici italiani, vescovi, religiosi e missionari. -La Chiesa etiope, la cosiddetta Chiesa täwahedo - ne ha scritto la storia in modo tanto documentato e ampio Alberto Elli -, dipendeva dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, nonostante la sua autonomia; ma era considerata scismatica dalla Chiesa cattolica. Ci fu una propaganda del disprezzo nei confronti dei cristiani etiopi e delle loro istituzioni ecclesiastiche, condotta dai religiosi cattolici. Fu un modo di legittimare dal punto di vista religioso la conquista italiana dell’Etiopia, ma anche di screditare agli occhi degli italiani la Chiesa etiopica, il suo personale, la sua liturgia e i suoi ambienti. [...] credo che la Chiesa italiana abbia aspettato troppo tempo a prendere coscienza di questa storia, che l’ha vista - certo non attivamente, ma convintamente - sullo scenario di una guerra e di operazioni repressive, solidale con il regime nell’opera di discredito dell’altro etiopico, a cui si negava persino la qualità di cristiano. In realtà, scrivendo del martirio cristiano nel XX secolo, ho sentito anni fa la responsabilità di parlare dei caduti di Debre Libanos come di «nuovi martiri» del Novecento. Tali infatti mi sembrano essere.
Naturalmente la responsabilità prioritaria delle stragi fu del governo, delle istituzioni e delle forze armate d’Italia. Dopo la guerra, furono bloccati i processi contro i principali responsabili, Graziani prima di tutto, ma anche il generale Pietro Ma-letti, che fu l’esecutore dei crimini a Debre Libanos.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio agli ex combattenti etiopici contro l’Italia fascista ad Addis Abeba, proprio nel luogo dove avvenne l’attentato a Graziani nel 1937. Ma stiamo ancora aspettando dalle istituzioni e dalle forze armate una presa di coscienza ufficiale sulla strage di Debre Libanos e le complessive repressioni del 1937. Quella strage rappresentò il culmine dell’assurdo in un processo di «imbarbarimento» dei soldati, necessario a condurre una lotta a oltranza per la distruzione delle strutture tradizionali e nazionali dell’Etiopia. [...]
La guerra italiana agli etiopici, all’impero cristiano e alla sua Chiesa, mostra con tutta evidenza il volto brutale del fascismo. Mette in luce anche la miopia di tanta parte del cattolicesimo, irretito nel nazionalismo (seppure Pio XI fosse critico sulla guerra fascista). In quegli anni, l’impasto di violenza coloniale, totalitarismo, razzismo (e poi di antisemitismo) rivela la realtà di quello che il fascismo è veramente stato e di come andava diventando col passare degli anni di dittatura.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Ex - "Impero"...
ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
1927- Il Discorso dell’Ascensione di Benito Mussolini
di Luigi Benevelli (Psychiatry on line Italia, 1 febbraio, 2019)
Il 26 maggio 1927, festa religiosa dell’Ascensione, il Duce Benito Mussolini tenne alla Camera dei Deputati un discorso poi detto “dell’Ascensione” nel quale esaltò il "numero come potenza", esaminò la situazione del popolo italiano dal punto di vista “della salute fisica e della razza” e passò in rassegna il nuovo assetto amministrativo dando, infine, “le direttive politiche generali attuali e future dello Stato”. Il discorso fu importante perché declinò i tratti delle politiche razziali del Regime.
Il Fascismo adottò una eugenetica quantitativa di stampo pronatalista. Le politiche per la salute della razza italiana erano state formalmente inaugurate con l’Istituzione dell’Opera nazionale Maternità e Infanzia (O.N.M.I.) - legge 10 dicembre 1925, n. 2277- vero e proprio asse portante dell’eugenetica del Regime[1].
L’O,N.M.I. rispondeva all’esigenza del Fascismo di affermare la propria concezione della donna-madre (per la "modernizzazione della maternità") e seguire l’educazione delle giovani generazioni fin dalla prima infanzia: all’istituzione dell’ONMI seguirà quella dell’Opera Nazionale Balilla (1926), che confluirà nel 1937 nella Gioventù Italiana del Littorio. I 5.700 istituti che in Italia si occupavano di maternità e infanzia soffrivano di scarsità di risorse: per ovviare a tale situazione si era stata decisa la tassa sul celibato “alla quale forse in un non lontano domani potrebbe far seguito la tassa sui matrimoni infecondi”.
Nel 1926 fu messo fuori legge l’aborto, in quanto “crimine contro lo Stato”, e venne vietata qualsiasi propaganda in favore di metodi anticoncezionali.
Grande era la preoccupazione per la denatalità, se si escludeva la Basilicata, alla quale Mussolini tributava il suo “plauso sincero perché essa dimostra la sua virilità e la sua forza, [...] evidentemente non ancora sufficientemente infettata da tutte le correnti perniciose della civiltà contemporanea”, in primis l’urbanesimo industriale che porta alla sterilità delle popolazioni e la piccola proprietà rurale. Per non parlare della “infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia!!”.
Mussolini riportò i dati fornitigli dalla Direzione Generale di Sanità del Ministero dell’Interno, diretta dal prof. Alessandro Messea[2], per i quali le malattie sociali erano in preoccupante sviluppo. Per contrastarne la recrudescenza annunciò che era stata intensificata la “difesa sanitaria alle frontiere marittime e terrestri della Nazione”[3], ci si era occupati “dell’igiene scolastica, dei servizi antitubercolari, della lotta contro i tumori maligni, della vigilanza sugli alimenti e le bevande, delle opere igieniche”. Erano comunque da registrare alcuni successi, fra cui rilevante era la scomparsa della pellagra a causa della quale si erano registrati 198 morti ancora nel 1922. Rilevanti invece rimanevano le cause di morte per tubercolosi (59.000 nel 1925). Forte preoccupazione causava l’alcoolismo: al riguardo erano già state chiuse 25.000 delle ben 187.000 osterie aperte in Italia, mentre “Anche la mortalità per pazzia è in aumento e in aumento il numero dei suicidi”.
[1] L’ONMI, amministrata da un consiglio centrale con sede a Roma, dirigeva e coordinava le attività delle proprie istituzioni locali, diffuse in modo capillare sul territorio nazionale. L’organizzazione era piramidale: al Consiglio Centrale rispondevano le Federazioni provinciali, le quali a loro volta controllavano l’operato dei Patronati comunali, alla base. Le cariche erano quadriennali.
A livello comunale, oltre ai medici specialisti nello staff dell’ONMI entravano di diritto l’ufficiale sanitario, il direttore didattico o un maestro e un sacerdote. I ’"patroni" e le "patronesse" (che comparivano nella titolatura di "patronato comunale") erano generalmente scelti tra esponenti della vita locale, di solito indicate dal Sindaco, che avessero fatto esperienze nelle attività assistenziali.
Con l’istituzione dell’ONMI le politiche per l’infanzia e la famiglia passarono dalla beneficenza, per gran parte a gestione privata, all’assistenza pubblica controllata dallo Stato. Si affermò la sanitarizzazione di tutto il personale, costituito da specialisti in pediatria (professione ufficializzata nel 1932), ostetricia (nel 1937 il termine ostetrica prende il posto di levatrice), otorinolaringoiatria, dermosifilopatia e, in seguito, neuropsichiatria infantile.
[2] Alessandro Messea (1862-1949), medico , allievo di Bizzozzero a Torino, si dedicò allo studio della microbiologia e della parassitologia. Operò nella Sanità Pubblica della cui Direzione generale fu responsabile dal 1924 al 1930.
[3] Erano stati “derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall’Oriente malattie contagiose; quell’Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo...”.
1938-2018 Un libro dello storico Enzo Collotti. Qui una sintesi della prefazione
Leggi razziali, una scelta di Mussolini. Ottant’anni fa la vergogna antisemita
Non vi furono pressioni naziste per l’adozione di misure contro gli ebrei
Colpire persone del tutto innocenti fu una scelta consapevole del regime
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 16.11.2018)
Che cosa può significare per un adolescente andare a scuola, come ogni giorno, ed essere rifiutato? «No, per te la scuola è chiusa - non solo oggi, ma per sempre». Così, senza alcun motivo plausibile; né per un provvedimento disciplinare, né tanto meno per aver commesso un reato. Semplicemente perché «sei ebrea!», «sei ebreo!». È capitato, nell’autunno del 1938, agli ebrei italiani che improvvisamente furono cacciati dai banchi di scuola, espulsi dalle aule universitarie. Coloro che passarono indenni per le successive sciagure, descrissero quell’evento come un trauma violento e inesplicabile. Primo Levi parlò di «fulmine», un termine frequente in altre testimonianze. Il che rende bene la drammaticità, ma anche la sorpresa e lo sconcerto.
Ciò avveniva nell’Italia fascista di Mussolini che, attraverso un decreto del 5 settembre 1938, firmato dal ministro Bottai, conquistò una triste e ignobile supremazia: fu la prima nazione a espellere le «persone di razza ebraica» dalle scuole di ogni ordine e grado, nonché dalle università e dalle accademie. Il decreto valeva per gli studenti come per gli insegnanti. Pur avendo emanato nel 1935 le leggi razziste di Norimberga, la Germania nazista introdusse solo un paio di mesi dopo l’Italia un’analoga misura.
Già questo deve far riflettere su quella singolare narrazione che ha dominato per decenni e si è radicata profondamente nell’immaginario collettivo italiano. Le cosiddette «leggi razziali» del 1938 sarebbero state l’esito di una imposizione della Germania che intimava di perseguitare gli ebrei italiani. Mussolini, invece, non avrebbe voluto altro che «discriminare non perseguitare», come proclamava uno slogan allora famoso. Se negli studi più recenti questa subdola narrazione è stata criticata e del tutto sconfessata, il mito degli Italiani «brava gente» è pur sempre duro a morire. Non è difficile intuire perché. Oltre a lavare con un colpo di spugna la coscienza della nazione, contrabbandando l’apparenza innocua di un fascismo tutt’al più «servile», questo mito ha avuto il vantaggio di rimuovere la «questione ebraica» in Italia. Come se non fossero mai esistiti né antisemitismo né antiebraismo.
Oltre a ripercorrere con chiarezza la storia delle leggi promulgate dal fascismo italiano per discriminare e perseguitare gli ebrei, il libro di Enzo Collotti Il fascismo e gli ebrei, in edicola domani con il «Corriere», richiama la nazione alla sua storia e alle sue responsabilità, delineando il contesto in cui quei provvedimenti furono emanati.
Pur pubblicato per la prima volta nel 2003, questo lavoro resta un punto di riferimento imprescindibile in un filone di studi che si è andato estendendo. E mette l’accento proprio sull’intento di costruire anzitutto una «scuola fascista», la cui rilevanza era strategica per trasformare la cultura del Paese.
Gli ebrei erano cittadini italiani. In tal senso le leggi contro di loro furono una ferita inferta alla cittadinanza, un precedente grave e allarmante; sebbene non tutti i diritti fossero stati revocati, gli ebrei vennero di fatto espulsi dalla nazione. Molti di loro furono tanto più sorpresi, perché si sentivano profondamente italiani. Basti pensare al ghetto di Roma, sede della comunità ebraica più antica della diaspora, cuore della città. Proprio gli ebrei romani avevano più di altri salutato con gioia l’unità nazionale per le libertà di cui avrebbero goduto. La costruzione, tra il 1901 e il 1904, del Tempio Maggiore, quasi al centro del ghetto, fu il suggello di un’assimilazione compiuta. Ma lo era davvero?
Il criterio. L’essenza ebraica fu identificata nel sangue al quale si attribuirono tratti immutabili
Nel contesto italiano, come in quello di altri Paesi europei, restava aperta la «questione ebraica». Si doveva considerare l’ebraismo una religione? Come lo è il cristianesimo? Quest’idea aveva promosso l’emancipazione: gli ebrei avrebbero potuto essere cittadini - italiani, tedeschi, francesi, ecc. - nella sfera pubblica, esercitando il proprio culto in privato. Si sarebbe trattato allora solo di un’uguaglianza di diritti. Sennonché gli ebrei erano anche un popolo con una lunga storia. Da qui nasceva, nella modernità, il topos dello «Stato nello Stato». La questione non era solo religiosa, ma anche politica. Se appartenevano a un popolo altro, gli ebrei erano allora «nemici» all’interno della nazione, tanto più temibili e pericolosi perché si spacciavano per quello che non erano, si facevano passare per tedeschi o per italiani, mentre erano «stranieri».
Questi logori cliché tornarono, anzi, ad accendersi, allorché si coniugarono con l’antisemitismo di stampo più prettamente politico. La Germania anticipò i tempi e dette, per così dire, l’esempio, mostrando che era possibile legiferare contro una parte dei propri cittadini che non avevano commesso alcun reato. Ma fu appunto solo un esempio e, tutt’al più, uno stimolo. Non esistono prove e documenti che testimonino un intervento tedesco nelle scelte della politica fascista. Per emanare le leggi antiebraiche occorreva, però, definire l’«ebreo». Tale definizione si sarebbe rivelata non solo ardua e problematica, ma alla fin fine impossibile. Chi si era convertito al cristianesimo non avrebbe forse dovuto essere considerato cristiano? E che dire poi dei figli di coloro che erano battezzati da una o più generazioni? Malgrado tutto l’acqua del battesimo non sembrava, però, sufficiente a lavare il sangue.
Questa era stata la lezione delle prime leggi razziste, promulgate a Toledo il 5 giugno 1449. Grazie alla «purezza del sangue», più importante di quella della fede, vennero prese misure contro i marrani, ebrei convertiti più o meno forzatamente al cristianesimo, distinti così dai cristiani di «pura origine». Già allora si andarono chiudendo le porte della fratellanza universale, mentre cominciò l’ossessione per la genealogia. L’essenza ebraica fu identificata nel sangue, fluido così vitale e corporeo, così occulto e ineffabile, nel quale si credette di scorgere gli immutabili tratti ebraici, impossibili da emendare. Nessuna conversione avrebbe mai potuto guarire quel «male incurabile», dal cui contagio era necessario preservarsi. La teologia ricorreva alla politica e, viceversa, la politica alla teologia.
L’esordio. Il primo provvedimento fu espellere studenti e insegnanti da scuole e università pubbliche
Questa singolare metafisica del sangue restò anche in seguito alla base delle leggi razziste. Come se davvero il sangue fosse criterio di purezza. Si comprende perciò l’imbarazzo della Chiesa di fronte alle leggi del 1938, che in Italia vietavano i «matrimoni misti», un imbarazzo messo tuttavia a tacere. Ma si comprende anche la difficoltà di definire l’«ebreo», che non ebbe altro esito se non una raccapricciante aritmetica che contava il quarto, il settimo, il decimo di sangue impuro. Lo scopo fu dapprima quello di discriminare e separare, quindi di espellere e, alla fin fine, eliminare. Il diritto, che avrebbe dovuto garantire la protezione dei cittadini, fu piegato a quell’impresa violenta di potere.
Via le pensioni agli ebrei vittime delle leggi razziali e ai perseguitati dal fascismo per motivi politici
di Andrea Carugati (La Stampa, 29.10.2018)
Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell’Economia, con effetto immediato.
E così, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre. Persone che hanno avuto diritto a questo vitalizio come «gesto riparatore» per aver perso il lavoro o il diritto di andare a scuola dopo il 1938, o perché costretti a fuggire all’estero.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese. Una sforbiciata che rientra nella spending review che il governo ha attuato per fare cassa e trovare le coperture per la manovra. Ma che colpisce per il suo valore simbolico. Anche perché - questo il fondato timore dell’Unione delle comunità ebraiche italiane - non si tratterebbe di una riduzione dell’assegno, ma di una vera e propria cancellazione. La legge varata nel 1955 porta il nome del senatore comunista Umberto Terracini, e per circa trent’anni ha riguardato prevalentemente i perseguitati politici. Poi, dal 1986, grazie a un intervento della Corte costituzionale, nella commissione governativa che eroga gli assegni è stato inserito anche un rappresentante delle Comunità ebraiche. Da allora l’accesso a questo istituto si è diffuso anche tra gli ebrei italiani, sia quelli che hanno vissuto gli anni delle persecuzioni sia -in via indiretta- i coniugi e gli orfani con un reddito annuo sotto i 17 mila euro.
Una procedura non semplice. Gli aventi diritto devono fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938. Documenti vecchi di decenni e difficili da reperire.
Tra gli ebrei italiani la notizia ha suscitato un forte sconcerto. La presidente dell’Ucei Noemi Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria. Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
L’obiettivo di questo «appello morale» è arrivare a un ripensamento da parte della maggioranza, almeno in fase di esame parlamentare del decreto. C’è tempo infatti fino a Natale prima della definitiva conversione in legge. E per evitare che partano le raccomandate in cui lo Stato informa i perseguitati che, dal 2018, non si sente più in dovere di riparare l’immenso danno che hanno subito. Neppure con un piccolo assegno.
Vergogna firmata a San Rossore
Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati a partire dal 1938, con l’obiettivo di colpire soprattutto la minoranza ebraica residente in Italia. Benito Mussolini le annunciò il 18 settembre di quell’anno durante un comizio a Trieste; il 5 settembre, il re Vittorio Emanuele III aveva firmato la prima legge in difesa della razza nella tenuta regia di San Rossore, a Pisa.
Con queste norme la popolazione ebraica fu gradualmente estromessa dai diritti sociali e civili: insegnanti, impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione furono licenziati; gli studenti vennero esclusi dalle scuole e si stabilì il divieto, per tutti gli ebrei, di sposare persone “di razza italiana”. Le leggi impedivano anche agli imprenditori discriminati di possedere aziende con più di 100 dipendenti, oltre che di avere la proprietà di terreni e fabbricati che superavano certe dimensioni. Le leggi razziali, precedute, come contesto culturale, dal Manifesto della Razza, restarono in vigore fino al 1944.
* Il Fatto, 29.10.2018
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel ’38
La Sant’Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della “razza ariana” nei lavori degli allievi di oggi
di Giorgio Meletti (Il Fatto, 29.10.2018)
Giulio Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra all’Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D’Achiardi: “Di famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi sento particolarmente fiero della nomina”. Pochi mesi dopo D’Achiardi lo sospende dall’insegnamento “ai sensi” del Regio Decreto 5 settembre 1938, n. 1390 “sulla difesa della razza”. Racah si crede fiorentino ma il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi e Wolfgang Pauli.
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica degli atenei: “Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né l’insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata”.
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un fermo no: “Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939”.
La memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore Sant’Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli studenti della Sant’Anna e della Normale di studiare la storia dei venti professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: “I protagonisti ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza”. Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie indagini anziché da un professore. E riproponendo - in una intensa giornata di studio voluta dalle tre Università pisane - il variopinto mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero Sraffa (l’amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta aria: “Oggi, o si è ebrei, o non lo si è - non c’è via di mezzo”. Primo Levi ha consolidato il concetto: “Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera”.
Naftoli Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di medicina legale, se l’è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di Gomel (nell’attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all’Università. Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla loro patria, l’Italia:
Le leggi razziali non sono state solo una questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide Guadagni dell’Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano (Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette in conto l’essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943 viene arrestato dalla polizia di Salò.
All’inaugurazione dell’anno accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller, Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido, compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: “Un ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati dall’insegnamento per motivi razziali”. Furono materialmente allontanati dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che “il Prof. Ciro Ravenna e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si hanno avuto più notizie”. Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c’è scritto “agronomo”. Sulla memoria c’è molto da fare. Siamo solo all’inizio.
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
Alle preoccupazioni del 28enne tedesco già fuggito dal nazismo il professore replicava: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma gli dispiaceva
di G. Me. (Il Fatto, 29.10.2018)
“Carissimo, ho parlato giorni addietro a Gabetti di un valentissimo giovane, il Dott. Cristaller [sic] che accetterebbe volentieri un lettorato tedesco in Italia. (...) È ebreo, ma appoggiatissimo da Heidegger, di cui è allievo”. È il 2 ottobre 1933, mancano cinque anni alle leggi razziali ma - con buona pace del partito “non volevano ma Hitler...” - essere ebreo in Italia è già un dannato problema.
Paul Oskar Kristeller ha 28 anni e ha lasciato la Germania: uno dei primi atti del nazismo è cacciare gli ebrei dall’Università. È un raffinatissimo studioso di filosofia. È ebreo ma bravo. Cinque anni dopo sarà bravo ma ebreo. Il professor Ernesto Codignola segnala il giovane al suo maestro Giovanni Gentile che se lo prende alla Scuola Normale di Pisa, di cui è direttore. Gentile è un fascista della prima ora, ministro dell’Istruzione e artefice della riforma della scuola. Un grande intellettuale che naviga nella dura realtà politica. Non condivide le teorie razziste ma tace. Aderirà alla repubblica di Salò e nel 1944 sarà ucciso da partigiani comunisti.
Kristeller, secchione patologico, a Pisa sembra felice. “Posso constatare, non senza commozione, che il suo paese mi dà un’ospitalità e un aiuto amichevole che mi ha rifiutato la mia propria patria”, scrive a Gentile, ma forse è solo diplomazia. Un collega della Normale, Luigi Baccolo, lo intuisce: “Tutti vedevamo nascere l’alba di una nova epoca, ma solo Kristeller vedeva il sangue di quell’alba”. Si prepara per Kristeller un nuovo esilio, e Laura Grazioli, studentessa di chimica alla Normale, ricostruisce la sequenza drammatica di paura e vigliaccheria.
Gentile incita Kristeller a ottenere la cittadinanza italiana, va a Roma per intercedere presso il Duce che gli dice no. Il 14 luglio 1938, viene pubblicato il Manifesto della razza. Kristeller è angosciato: “Sono parecchio preoccupato per ciò che leggo adesso sui giornali, Vi sarei grato di sentire il vostro parere in proposito”. Il filosofo dell’attualismo minimizza: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma al vicedirettore della Normale Gaetano Chiavacci scrive: “Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller”.
Ad agosto l’editore Sansoni respinge la monografia di Kristeller su Marsilio Ficino perché è arrivato il divieto di pubblicare autori ebrei. Chiavacci pone a Gentile la questione delle teorie razziali: “Dovremo assistervi passivi?”. Gentile risponde con l’attualismo. Il 29 agosto ottiene udienza da Mussolini, gli chiede di chiudere un occhio sul filologo ebreo. Si illude. Scrive trionfante: “Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini”.
Ma arrivano le leggi razziali. L’8 settembre Gentile scrive al Duce: “Eccellenza, nel colloquio che lunedì scorso Vi compiaceste di accordarmi, mi diceste di non toccare a Pisa il Kristeller. Questi invece mi pare ricada sotto il decreto di ieri, che espelle dal Regno tutti gli stranieri di razza ebraica (...). Vi prego vivamente, per mia norma, di farmi sapere se posso o no trattenere, e nel caso positivo in che modo, questo povero diavolo come lettore di lingua tedesca nella Scuola Normale Superiore. Vogliate scusarmi. Vostro Giovanni Gentile”.
Gli risponde il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, pisano: “In relazione alla lettera da Voi diretta al DUCE in data 8 settembre u.s., Vi comunico che, giusta Superiori disposizioni, è stato consentito al Prof. Kristeller, israelita straniero, di risiedere in Italia fino alla scadenza del termine massimo stabilito dal R.D.L. 7.9.1938, n° 1381. Il DUCE, inoltre, ha disposto che al medesimo venga elargita la somma di L. 5000 per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”.
Kristeller va in America. Gentile pensa alla Normale e cerca un docente che lo sostituisca. Scrive a Codignola: “Spero bene che non sia né israelita, né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi diede sempre tanto da fare”.
Kristeller se ne va col suo punto nero a insegnare alla Yale e alla Columbia. Morirà a 94 anni lasciandoci una negazione quasi beffarda dell’attualismo gentiliano: “Il passato resta reale anche dopo che è scomparso dalla scena. È compito dello storico tenerlo vivo e dare giustizia anche a sconfitti e dimenticati”.
Per non dimenticare.
Viaggio nell’Italia delle leggi razziali
di Roberto I. Zanini (Avvenire, martedì 23 ottobre 2018)
«Vagoni merci chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla». La citazione è di Primo Levi, da Se questo è un uomo. Nella mostra multimediale voluta dal presidente Sergio Mattarella in alcune sale del Quirinale è pronunciata dalla voce narrante dell’attore Francesco Pannofino. Sottolinea uno dei passaggi più intensi: quello che il visitatore vive dall’interno di un vagone riscostruito con i piedi collocati su binari che vanno idealmente a collegarsi alla strada ferrata proiettata sulla parete in un video d’epoca, che conduce nel campo di Auschwitz attraverso il cancello principale.
Stiamo parlando di “1938: l’umanità negata. Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz”, mostra inaugurata ieri pomeriggio dal capo dello Stato alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che resterà aperta fino al 27 gennaio, Giorno della memoria.
Una mostra storica che utilizza con efficacia le moderne tecniche multimediali di ’realtà aumentata’. Ideata, scritta e curata da Giovanni Grasso e dal fisico Paco Lanciano (lui preferisce parlare di «realtà emotivamente orientata »), noto al grande pubblico per i suoi interventi scientifici a SuperQuark e autore di tutte le ricostruzioni ’virtuali’ delle trasmissioni di Piero Angela, è finanziata dal Miur e si avvale della collaborazione del Memoriale della Shoah di Milano, di Rai Storia, Istituto Luce e Treccani.
Un’iniziativa che, come hanno spiegato gli autori, è soprattutto diretta ai giovani e alle classi scolastiche con l’idea di offrire loro un’efficace ricostruzione, facendo anche intuire emotivamente il contesto di ’normalità’, sempre riproponibile, in cui si sono collocati quei fatti. Lo spunto è ancora una citazione di Levi da Se questo è un uomo: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre».
Ecco allora la suggestione del treno merci che entra fra le baracche di Auschwitz, ma soprattutto ecco la soluzione narrativa costruita sulla vita di due famiglie italiane, una ebrea e l’altra cattolica, delle quali sono giunte fino a noi le pellicole con le quali i due padri (Francesco cattolico, Bruno ebreo) hanno realmente documentato le ’quotidiane vite di normalità’ nella Roma fra gli anni Venti e Trenta: le mogli Giovanna e Sara, i figli Paolo, Anna e Daniele, il lavoro, la scuola... Un po’ come succederebbe oggi con le foto e i video fatti col telefonino, ma in bianco e nero.
Una storia che nella prima sala della mostra inizia con proiezioni su schermi che avvolgono il visitatore. E le prime immagini sono quelle che documentano le colonne di giovani soldati che vanno verso il fronte il 24 maggio 1915. Ragazzi da tutta Italia, cattolici, ebrei, protestanti, atei, che combattono per tre anni fianco a fianco e fraternizzano. Nel sangue e nel dolore di quelle trincee, si è sempre detto, si è costruita l’unità d’Italia.
E fra quei ragazzi in marcia, ripresi di spalle, la ricostruzione di Grasso e Lanciano estrae i volti di due che, casualmente si girano verso la macchina da presa. Sono loro i nostri Francesco e Bruno.
Due italiani fra tanti. Due italiani che dopo il 4 novembre 1918 tornano a casa e negli anni che seguono sono impegnati nella ricostruzione del Paese, due italiani che dopo la Marcia su Roma, come quasi tutti, diventano fascisti senza rendersi conto fino in fondo di quanto accade davvero in Italia e in Europa.
Due italiani dalle vite pressoché parallele, ma che dal 1938 in poi divergono spaventosamente così che Francesco e Bruno diventano nemici in forza di legge con la sequenza crescente fra settembre e novembre delle cosiddette leggi razziali. Poi ancora una guerra, l’armistizio, il rastrellamento nel ghetto di Roma dove vengono presi anche Bruno e la sua famiglia. La mostra racconta, facendola rivivere immersivamente, una sequenza di fatti che per quelle due famiglie ebbe un epilogo del tutto inatteso e che ancora oggi si stenta a crederlo come razionalmente possibile. «Le azioni compiute erano mostruose ma chi le compì era pressoché normale», scrisse a riguardo Hannah Arendt. E non mancano, con i filmati autentici, suggestivi documenti storici e prima pagine di giornale che collocano quelle vicende nel tempo e nello spazio raccontando, come ha detto Mattarella, «una lezione terribile» che invita a essere sempre vigili di fronte ai «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo presenti nelle nostre società e in tante parti del mondo».
A chiudere il percorso, nell’ultima sala, una delle tre copie autentiche della Costituzione italiana con le firme, in data 27 dicembre 1947, di Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini; quella spesso sottostimata conquista politica e sociale che all’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel 2019 è previsto che la mostra diventi itinerante, poi dovrebbe trovare una collocazione definitiva. Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, ’Binario 21’, ha spiegato a riguardo che si spera in una sistemazione definitiva in locali limitrofi alla Fondazione.
Dibattito
Una pagina di storia spesso ignorata poichè dimostrava l’adesione del popolo italiano al fascismo. Ecco perché a ottant’anni di distanza sono ancora diversi i nodi da sciogliere
Ancora aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani Quale fu la diffusione dell’antisemitismo negli anni di propaganda antiebraica
LEGGI RAZZIALI. La memoria negata
di ANNA FOA (Avvenire, 23.10.2018)
Ottant’anni fa, il regime fascista emanava quelle che sono passate alla storia con il nome di leggi razziali, anche se sarebbe preferibile definirle “leggi razziste”.
L’annuncio ufficiale fu dato dal duce stesso a Trieste il 18 settembre 1938, nella piazza dell’Unità d’Italia, affollatissima e plaudente. Il 5 agosto di quell’anno era uscito il primo numero de La difesa della razza, la rivista razzista ad amplissima diffusione diretta da Telesio Interlandi, con un giovane Giorgio Almirante come segretario di redazione. La rivista scriveva in apertura: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. [...] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofi che o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano nordico».
Nel luglio, il Manifesto della Razza, firmato da un certo numero di scienziati ma opera in gran parte dello stesso Mussolini, aveva gettato le basi teorichedi questa svolta.Cominciava l’emanazione delle leggi di discriminazione contro gli ebrei. Il primo settore a essere colpito fu quello della scuola, già all’inizio di settembre, con l’espulsione di studenti e docenti dalle scuole di ogni ordine e grado. Seguirono i provvedimenti contro gli ebrei stranieri: la perdita della cittadinanza italiana per chi l’avesse acquisita dopo il 1919, l’espulsione. Nel 1940, con l’entrata in guerra, gli ebrei stranieri sarebbero stati rinchiusi in campi di internamento appositamente creati. In un susseguirsi di leggi, norme e disposizioni successive, la perdita da parte degli ebrei dei diritti conquistati con l’Emancipazione era sancita per legge. Altre disposizioni non avevano riscontro nel periodo pre-emancipatorio, come il divieto di matrimonio tra “ariani” ed ebrei, sia pur convertiti. Ottant’anni fa, quindi. Oggi ce ne ricordiamo e celebriamo questo anniversario non solo come l’inizio delle sciagure del mondo ebraico italiano, ma come la distruzione definitiva da parte del fascismo dell’Italia nata dal Risorgimento e fondata sull’uguaglianza dei suoi cittadini. Un problema dell’Italia tutta, quindi, e non degli ebrei soltanto.
Ma quanto e come ce ne siamo ricordati in questi ottant’anni? In realtà, la memoria delle leggi del 1938 non ha seguito lo stesso percorso di quella della Shoah. Se quest’ultima ha avuto anch’essa delle difficoltà a costruirsi e ad affermarsi, almeno per i primi quindici anni dopo il 1945, quella delle leggi del 1938 è ancora più tarda. Solo dopo cinquant’anni, nel 1988, si moltiplicano gli studi sulle leggi razziali, sul loro contenuto, sul contesto in cui sono state emanate, sulla loro messa in atto. -Le ragioni di questo ritardo sono diverse. Innanzitutto, il confronto con la Shoah: è evidente che la persecuzione dei diritti, così è stato chiamato il periodo tra il 1938 e il 1943, e quella delle vite, con l’arresto, la deportazione e i campi di sterminio, sono entità incommensurabili. Auschwitz non è paragonabile alla perdita del posto di lavoro e nemmeno, per quanto traumatica sia stata, alla cacciata dei bambini ebrei dalle scuole. Solo più tardi si è arrivati achiarire il ruolo fondamentale che avrà il censimento degli ebrei del 1938, deciso dal regime contemporaneamente al varo delle leggi, per l’avvio dell’individuazione degli ebrei, del loro arresto, della loro deportazione.
Le liste create nel 1938 e periodicamente aggiornate, presenti in questure e prefetture, sono servite dopo il settembre 1943 ai nazisti per rintracciare e arrestare gli ebrei. Durante l’intermezzo del governo Badoglio, nessuno ha ordinato agli uffici di distruggerle o almeno di nasconderle. Solo alcuni funzionari lo hanno fatto, spontaneamente e a loro rischio e pericolo. La persecuzione dei diritti, tanto meno grave di quella delle vite, poteva quindi, nel dopoguerra, anche essere considerata di secondaria importanza.
Inoltre, il ricordo delle leggi del 1938 metteva in discussione l’immagine prevalente nel dopoguerra e oltre di un’Italia ligia al fascismo per paura o conformismo, non per convinzione, in cui i delitti di sangue, gli stermini e i massacri erano stati opera non dei fascisti ma dei nazisti. Dare troppa enfasi alle leggi del 1938 voleva dire introdurre l’idea del consenso al fascismo, un’idea che per essere pienamente accettata nell’Italia repubblicana ha dovuto passare attraverso vie strette e affrontare numerose contraddizioni. Non ultima quella del primo sostenitore dell’ampio consenso italiano al fascismo, Renzo De Felice, che ha minimizzato invece le leggi razziali e soprattutto la loro esecuzione, mentre eraquello un nodo che se affrontato avrebbe potuto consolidare l’immagine del consenso italiano al fascismo. Un consenso, certo, gravido di responsabilità e di colpe.
Poi, il problema di spiegare una svolta effettivamente poco comprensibile, il passaggio del fascismo all’antisemitismo. In un primo momento, uno dei temi affrontati è stato proprio questo: perché Mussolini ha emanato le leggi del 1938? Provata l’inesistenza di una richiesta di Hitler al suo alleato italiano, non si poteva che ricorrere a spiegazioni più generali: il razzismo portato dalla guerra d’Etiopia, la convinzione di Mussolini che il razzismo hitleriano e l’esaltazione della razza ariana rappresentassero l’accesso alla modernità, al nuovo mondo vittorioso prospettato da Hitler. Molto si è discusso anche del ruolo giocato dal dittatore: era personalmente antisemita? Questioni marginali, credo, di fronte alla firma del duce, accanto a quella del re in fondo al decreto di istituzione delle leggi razziste.
Di qui, il dibattito, tuttora vivo, sulla data d’inizio della politica razziale del fascismo: il 1938? Il 1937 o il 1936? O addirittura il 1929, con il Concordato con la Chiesa? Credo sia necessario mantenere il fuoco dell’attenzione non su sporadici casi di antisemitismo ma sulla preparazione e la messa a punto della legislazione antisemita vera e propria, cioè sul 1937. Un altro dei temi maggiormente all’attenzione tanto della storiografia che del pubblico è stato quello della reazione della Chiesa all’emanazione della legislazione razziale. Una reazione che fu concentrata soprattutto sulla questione dei matrimoni misti, senza che nemmeno su questo punto la Chiesa riuscisse però a ottenere alcun risultato rilevante. Nonostante compromessi e ambiguità, il conflitto tra razzismo e Chiesa fu radicale. Fra l’altro, fra il 1938 e il 1943, in seguito al prevalere dell’ideologia della razza, la tradizionale politica cattolica volta a favorire le conversioni finì per essere attaccata dall’ala più estrema del fascismo come un tentativo ebraico di minare dall’interno la compattezza della razza italica (..).
Quella che ancora resta aperta è la questione dell’effettiva presa che il razzismo introdotto dalle leggi ha avuto sulla mentalità degli italiani. Quale fu la diffusione dell’antisemitismo nei sette anni di martellante propaganda antiebraica lanciata dallo Stato fascista? Si è parlato di indifferenza, e poi, nel 1943, di trasformazione, in molti casi, dell’indifferenza in pietà e sostegno. Ma quanti invece accolsero le leggi non con indifferenza ma con convinzione e fervore e passarono senza contraddizioni dal razzismo indotto dalla propaganda alla caccia concreta all’ebreo lanciata dalla Rsi? Non abbiamo molte fonti a documentare questa questione, anche perché nel dopoguerra razzismo e antisemitismo sono divenuti e restati a lungo tabù. Ora questo tabù si è assai indebolito, e il razzismo non è più un’ideologia da nascondere e viene proclamato da molti a voce sempre più alta, anche se, per ora, non ancora contro gli ebrei. Sarebbe forse il caso che noi storici ci occupassimo di analizzare più a fondo il modo in cui il veleno delle leggi del 1938 si è diffuso nell’animo degli italiani e i suoi guasti di lungo periodo. Non solo per illuminare il passato, ma anche per capire il presente.
1938, lo Stato italiano contro gli ebrei
Non solo Mussolini, il parlamento e il re ma anche i volenterosi carnefici del regime
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 13.10.2018)
La responsabilità delle leggi razziali antiebraiche introdotte a partire dal 1938 è certo di Mussolini, del parlamento fascista (alla Camera dei Deputati 340 voti favorevoli, 0 contrari) e di Vittorio Emanuele III; quest’ultimo successore sul trono di Carlo Alberto, che novant’anni prima aveva dato lo Statuto (tutti i regnicoli sono eguali dinanzi alla legge) e riconosciuto a ebrei e valdesi i diritti civili. Tra leggi e circolari l’espulsione degli ebrei dalla vita sociale fu progressiva e alla fine completa. L’impulso politico che aveva prodotto le leggi e le circolari ministeriali richiese atti di esecuzione.
La macchina della vergogna
In particolare, per l’espulsione degli ebrei dai posti che occupavano nelle professioni liberali e nella pubblica amministrazione, furono necessari atti amministrativi individuali per ciascuno dei colpiti. Molti organismi, molte persone furono quindi coinvolti e parteciparono all’opera.
Alla ricostruzione dell’esecuzione delle leggi razziali e all’identificazione di coloro che ne furono vittime si sono dedicati gli autori di due recenti studi. Il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense hanno da poco pubblicato un volume sull’allontanamento di magistrati e avvocati ebrei. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, per Il Mulino, pubblicano ora
Il censimento
Si tratta di circa 720 funzionari ebrei (56 dei quali sarebbero poi finiti nei campi di concentramento nazisti). Vi fu un censimento innanzitutto, con richiesta a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici di fornire indicazioni sulla loro razza, discendenza, religione. Tutti dovettero rispondere (e risposero) e quindi, applicando complessi criteri, fu compilato l’elenco di coloro che dovevano ritenersi ebrei. Prima di essere cacciati, molti dipendenti pubblici, magistrati, avvocati ebrei scelsero di dimettersi o di cancellarsi dagli albi degli avvocati. Furono 14 i magistrati esclusi dall’Ordine giudiziario. Ogni posto «liberato» fu occupato da un dipendente non ebreo.
Si tratta di volumi che non solo coltivano il ricordo di chi fu colpito e la memoria dell’infamia dello Stato, ma anche consentono di non limitare e, per così dire, esaurire l’esecrazione con la condanna dei massimi responsabili politici. È infatti necessario allargare lo sguardo e chiedersi come fu possibile la rapida, solerte esecuzione di simili leggi, nella sostanziale indifferenza della società e dei colleghi delle vittime. E poi chiedersi come reagirebbero oggi la società italiana e le sue varie istituzioni, dovesse mai riprodursi una situazione di tanto grave ingiustizia delle leggi.
Una prima risposta richiama il peso schiacciante della dittatura e l’eliminazione dell’indipendenza della magistratura e dell’autonomia dell’avvocatura. I Consigli dell’Ordine degli avvocati erano stati progressivamente privati di competenze e sostituiti dal Sindacato fascista.
Una formula brutale
Ma a quel contesto istituzionale, da cui oggi siamo tanto lontani, va aggiunta la posizione della legge nel diritto e nella cultura giuridica di quel tempo: la legge indiscutibile, nessuna istanza superiore alla legge, cui richiamarsi per metterla in discussione. L’unica alternativa alla applicazione della legge era la sua violazione, oppure, sporadicamente, sforzi interpretativi e limitativi di cui in qualche caso fece uso la magistratura.
Quelle leggi e quelle introdotte nella Germania nazista e in altri Stati europei, poi concluse con la Shoah, hanno messo in crisi nel dopoguerra la pretesa di indiscutibilità delle leggi. Dopo l’esperienza nazista vi fu chi come Gustav Radbruck, il filosofo del diritto tedesco, riprese l’idea di un diritto al di sopra delle leggi, rispetto al quale le leggi positive possono tradursi in torto legale e quindi da non applicare. La riflessione filosofica è poi divenuta una realtà normativa, quando in Italia e in gran parte d’Europa si affermò la superiorità della Costituzione sulle leggi. Venne poi resa concreta la responsabilità degli Stati rispetto ai diritti fondamentali, con le Carte internazionali e particolarmente, in Europa, con la Convenzione europea dei diritti umani e la sua Corte.
Il criterio che si riassume nella brutale formula dura lex sed lex è oggi inammissibile. Non è più necessario il coraggio di rifiutare l’applicazione di una legge ingiusta, incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo. Ora, qualunque sia la forza del legislatore, qualunque sia l’atteggiamento dell’opinione pubblica, per tutti e in primo luogo per i giudici sarebbe un dovere sottoporre una simile legge a uno scrutinio superiore, quello fondamentale della giustizia.
Il libro, l’elenco
E lo Stato si piegò alla razza
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
Memoria. Ottant’anni dopo, un libro di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo con l’elenco delle persone cacciate (il Mulino)
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.10.2018)
Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così... Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità. Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno, scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo “in folio” sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine - molte pagine, talvolta, per intero - sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”, “Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata (...) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell’Interno il 5 settembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d’Italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione, corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino...» senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
Il registro , scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato. (...) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai “liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì» .
Fascismo razzista
Il giorno che gli ebrei scoprirono di essere nemici degli italiani
di Alberto Sinigaglia (La Stampa, 15.09.2018)
Il 18 settembre 1938 a Trieste Mussolini tenne un discorso tremendo contro gli ebrei. Per la prima volta giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re Vittorio Emanuele III aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio sinistro al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana», estremo frutto del «manifesto» dei dieci scienziati pubblicato il 14 luglio sul Giornale d’Italia.
Il duce calcolò il momento, il luogo, le parole. Avvertì importanti giornali stranieri. Scelse la città più internazionale, prossima a confini incandescenti: l’Austria invasa dal Reich, la Cecoslovacchia in pericolo, a giorni la Conferenza di Monaco. Scelse la terza comunità ebraica dopo quelle di Roma e di Milano, che contava ebrei fascisti e irredentisti. Andò a gridargli in faccia che l’ebraismo era «un nemico irreconciliabile», che si decideva per loro una «politica di separazione».
Le «soluzioni necessarie» non sarebbero tardate: via dai libri di testo quelli scritti o curati da ebrei; via i bambini dalle scuole pubbliche e gli studenti dalle università; via i padri, le madri e i nonni dalle cattedre accademiche, dai giornali, da assicurazioni, banche, notai, pubblico impiego; spogliati della divisa coloro che avevano combattuto per l’Italia e ancora la servivano in armi; vietati i matrimoni con ariani.
Il capo del fascismo lanciò due precisi messaggi a chi lo considerava emulo di Hitler e a chi difendeva gli ebrei: «Sono poveri deficienti» quanti credono «che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o, peggio, a suggestioni»; «il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di oltre frontiera (...) e i loro improvvisati amici (...) non ci costringano a mutare radicalmente cammino».
Un operatore cinematografico ufficiale filmò tutto. Paolo Gobetti alla fine degli Anni 70 avrebbe acquistato la pellicola da un collezionista per l’Archivio storico della Resistenza da lui fondato con Franco Antonicelli a Torino. Vi si vede e ascolta il solito Mussolini tonitruante quella mattina in una Piazza Unità d’Italia imbandierata a festa e gremita di popolo, che acconsentiva, applaudiva, urlando di entusiasmo e invocando il suo nome. Dal punto di vista della propaganda fascista, un risultato perfetto: i termini, il tono, l’attore, la scena. Perché il cinegiornale dell’Istituto Luce mostrò soltanto l’inizio del discorso e poco più? Fu il regime a censurarlo? E per quale strategia il dittatore, pur tornando spesso al tema razziale, non dedicò agli ebrei altri discorsi di quella forza, anzi evitò di nominarli?
Il silenzio di Mussolini li ingannò: furono in molti a illudersi, a non cercare riparo oltreoceano, a non poter immaginare che, comunque cittadini italiani, da altri italiani sarebbero stati consegnati ai nazisti e avviati ai Lager. Poiché quel destino fu segnato dal «discorso di Trieste», il Polo del ’900 e l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte hanno pensato che ad aprire le manifestazioni torinesi in memoria delle leggi razziali nulla fosse più efficace di quelle immagini e di quel sonoro: un grumo di odio, disprezzo e «chiara, severa coscienza razziale», certo inattuale, ma salutare alla memoria.
“Occorre una coscienza razziale per stabilire non solo differenze ma superiorità nettissime”
di Benito Mussolini (La Stampa, 15.09.2018)
È questa, o Triestini e Triestine, la quarta volta che ho la ventura, l’onore e la gioia di rivolgervi la parola. La prima fu nel dicembre del 1918, quando nell’aria della vostra città e nelle vostre anime c’era ancora, visibile e sensibile, la vibrazione del grande evento che si era compiuto con la Vittoria. [...]. Dopo molti anni torno fra voi e sin dal primo sguardo ho potuto riconoscere il grande, il poderoso balzo innanzi compiuto dalla vostra, dalla nostra Trieste.
Non sono venuto tra voi per rialzare il vostro morale, così come gli stilopennivori d’oltre monte e d’oltre mare hanno scioccamente stampato. Non ne avete bisogno, perché il vostro morale fu sempre altissimo. (...) Sono venuto per vedere ciò che avete fatto e per vedere altresì come sia possibile di bruciare rapidamente le tappe per giungere alla mèta. Sono venuto per ascoltarvi e per parlarvi. (...)
Triestini!
Vi sono dei momenti nella vita dei popoli in cui gli uomini che li dirigono non devono declinare le loro responsabilità, ma devono fieramente assumerle in pieno. Quello che sto per dirvi non è soltanto dettato dalla politica dell’Asse Roma-Berlino, che trova le sue giustificazioni storiche contingenti, né soltanto dal sentimento di amicizia che ci lega ai Magiari, ai Polacchi e alle altre nazionalità di quello che si può chiamare lo Stato mosaico numero due. Quello che sto per dirvi è dettato da un senso di coscienza che vorrei chiamare, più che italiano, europeo.
Quando i problemi posti dalla storia sono giunti ad un grado di complicazione tormentosa, la soluzione che si impone è la più semplice, la più logica, la più radicale, quella che noi Fascisti chiamiamo totalitaria. Nei confronti del problema che agita in questo momento l’Europa la soluzione ha un nome solo: Plebisciti. Plebisciti per tutte le nazionalità che li domandano, per le nazionalità che furono costrette in quella che volle essere la grande Cekoslovacchia e che oggi rivela la sua inconsistenza organica. Ma un’altra cosa va detta: ed è che, ad un certo momento, gli eventi assumono il moto vorticoso della valanga, per cui occorre far presto, se si vogliono evitare disordini e complicazioni. Questo bisogno del far presto deve essere stato sentito dal Primo Ministro britannico, il quale si è spostato da Londra a Monaco, messaggero volante della pace, perché ogni ritardo non affretta la soluzione, ma determina l’urto fatale. Questa soluzione sta già, malgrado la campagna di Mosca, penetrando nel cuore dei popoli europei.
Noi ci auguriamo che in queste ultime ore si raggiunga una soluzione pacifica. Noi ci auguriamo altresì che, se questo non è possibile, il conflitto eventuale sia limitato e circoscritto. Ma se questo non avvenisse e si determinasse, pro o contro Praga, uno schieramento di carattere universale, il posto dell’Italia è già scelto.
Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. IL perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto.
L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili, nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati ed inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino. [...]
Ma per noi Fascisti la fonte di tutte le cose è l’eterna forza dello spirito, ed è per questo che rivendico a me il privilegio di realizzare quello che fu l’ideale bisecolare della vostra città, l’Università completa nei prossimi anni. Padova, che fu per secoli il solo Ateneo delle genti venete, nel suo vigilante patriottismo comprende, e sarà Padova che offrirà il gonfalone alla neoConsorella giuliana.
Triestini e Triestine!
Dopo quanto vi ho detto io vi domando: C’è uno solo fra voi di sangue e di anima italiana che possa per un solo istante dubitare dell’avvenire della vostra città unita sotto il simbolo del Littorio, che vuol dire audacia, tenacia, espansione e potenza? Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No, Roma è qui. È qui sul vostro Colle e sul vostro Mare; è qui nei secoli che furono e in quelli che saranno; qui, con le sue leggi, con le sue armi, e col suo Re.
Mai prima tanta violenza e livore in un proclama
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa 15.09.2018)
L’odio si crea, l’odio si insegna. A Trieste, davanti una folla immensa, Mussolini attacca per la prima volta apertamente gli ebrei italiani e «l’ebraismo internazionale». Fino a quel momento, le sue rare uscite sul tema dell’antisemitismo e del razzismo sono state dichiaratamente critiche. In un discorso del 1934, ha addirittura schernito «talune dottrine d’oltralpe» riferendosi al razzismo nazista. La svolta del regime è cominciata già dal 1937, con l’inizio della campagna di stampa antiebraica. Ma è a Trieste che Mussolini si espone personalmente con un discorso che è un violentissimo attacco, ma anche un capolavoro retorico.
Per la prima volta, «l’ebraismo mondiale» viene indicato come «un nemico inconciliabile» del fascismo. Per la prima volta l’opinione pubblica italiana scopre di avere un nemico.È un passo importantissimo, fondamentale: fino al 1938, nonostante la campagna di stampa partita l’anno precedente, gli ebrei sono stati insultati ed attaccati, anche in maniera pesante, ma mai con questa virulenza e livore, e soprattutto mai da figure di primo piano del regime.
Inoltre Mussolini qui non spiega in alcun modo perché gli ebrei sono dei nemici e suggerisce, invece, che il regime è «costretto» a difendersi da un nemico pericoloso e aggressivo. Il fascismo è giusto e generoso, ma nonostante ciò è attaccato dall’interno (gli ebrei italiani) e dall’esterno (l’ebraismo internazionale).
Come tutte le dittature, il fascismo ha bisogno di presentare al «popolo» dei «nemici» contro i quali mobilitarsi, e le conseguenze funeste di questa politica si vedranno durante l’occupazione nazista, quando i fascisti più radicali aiuteranno le SS nelle deportazioni. Il percorso dell’esclusione e della persecuzione, e la retorica dell’odio contro il «nemico» ebreo, voluto da Mussolini con un cinismo rivoltante, comincia da questo discorso.
I giudici e “le leggi abominevoli”, molti grigi esecutori e pochi eroi
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa, 15.09.2018)
Il ruolo dei giudici nell’applicazione della legislazione razzista è scandagliato nel volume «Razza e inGiustizia», meritoriamente pubblicato dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consiglio nazionale forense in collaborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e presentato ieri in Senato.
Dal 1923 il fascismo aveva limitato l’indipendenza dei magistrati, degradandoli a «funzionari»: il governo ne decideva promozioni e trasferimenti; nominando i capi delle corti, influiva sulle sentenze. Ai giudici di rango inferiore erano imposti camicia nera e saluto fascista. Chi dimostrava «atteggiamenti incompatibili con le generali direttive politiche del governo» era dispensato dal servizio. I reati politici erano sottratti alla magistratura e devoluti a un tribunale speciale. Il Csm era non era più eletto dai giudici, ma designato dal potere esecutivo e ridotto a organo consultivo del ministro. Nel 1941 la tessera del partito sarebbe diventata requisito per l’esercizio della professione.
In questo contesto, non stupisce che il 17 novembre 1938, quando Vittorio Emanuele III firmò il regio decreto 1728 che poneva le basi giuridiche della discriminazione cancellando il principio di eguaglianza tra i «regnicoli» sancito dall’articolo 24 dello Statuto albertino, il contagio nel mondo giuridico fosse già diffuso. Alti magistrati, avvocati di fama e accademici di prestigio contribuivano alla rivista «Il diritto razzista». In generale, la magistratura si adeguò. Prevalse - chi per paura, chi per viltà - la zona grigia, l’ossequio formale a quelle che Calamandrei definì «leggi abominevoli».
I venti magistrati che aderirono fieramente al razzismo antiebraico furono posti al vertice della piramide giudiziaria, salvo riciclarsi in ranghi ancor più elevati dopo la Liberazione. Gli ebrei erano sfiduciati. Fino al 1943 solo 60 fecero ricorso contro provvedimenti discriminatori.
Ma ci fu una parte dei giudici che invece praticò, sotto diverse forme, una resistenza. L’epurazione di 18 magistrati ebrei fu immediata, all’insegna della «purezza razziale dell’intero apparato».
Una forma di resistenza fu quella di chi cercò di limitare, quando non di vanificare, gli effetti delle leggi razziali con una puntigliosa, creativa e cavillosa interpretazione del proprio ruolo. Scrive Giovanni Canzio, ex presidente della Cassazione: «Mentre in Germania i giudici applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia almeno una parte dei giudici interpretava analoghe norme rifacendosi ai principi generali dell’ordinamento, sì da interporre un qualche argine di legalità formale al controllo assoluto messo in atto dal regime».
L’articolo 26 del regio decreto del 1938 attribuiva la competenza esclusiva e insindacabile in materia al ministro dell’Interno, che era lo stesso Mussolini; una legge del 1939 istituiva commissioni speciali, i cosiddetti «tribunali della razza» affidati ad alti magistrati fascistizzati e quindi sostanzialmente emanazione del regime.
Nonostante ciò, alcuni magistrati civili e amministrativi si ritagliarono un ruolo, operando una distinzione: al ministro la decisione «in merito a chi fosse ebreo», ai giudici quella sul godimento dei diritti civili e politici e sullo stato delle persone. Un campo assai vasto: dal lavoro alla famiglia, dal patrimonio all’impresa. Per altro verso, si sostenne un’applicazione restrittiva di leggi considerate eccezionali e si rigettò l’idea, all’epoca (solo?) diffusa, di interpretare il diritto «alla luce del comune sentimento popolare».
La dottrina più autorevole e illuminata - Calamandrei, Galante Garrone, Jemolo - teorizzò il carattere politico, più che la portata giuridica, delle leggi razziali, spiegando che «il concetto di razza è estraneo all’ordinamento italiano». Nel 1939, in una causa in materia di filiazione, la Corte d’appello di Torino (presidente Domenico Riccardo Peretti Griva) rivendicava la propria competenza «a conoscere dell’appartenenza a razza determinata» di un cittadino quando necessario a determinare i limiti della capacità giuridica.
La parte della magistratura schierata col regime non tacque. Giulio Ricci, primo presidente della Corte torinese, contestò l’orientamento con due circolari, che denunciavano l’elusione delle disciplina discriminatoria e paventavano responsabilità dei magistrati fuori linea. Ma Consiglio di Stato e Cassazione difesero i giudici dissidenti, motivando che le deroghe all’autonomia della giurisdizione non potessero essere oggetto di interpretazione estensiva.
I giudici amministrativi annullarono la revoca del nulla osta all’iscrizione universitaria disposta dal ministro degli Esteri nei confronti di un tedesco di origine ebraica. La Corte dei conti restituì la pensione a un’anziana signora. Fu, quello giudiziario, un eroismo sottile e cocciuto che va ricordato. E coltivato.
Non solo gli ebrei. Così morì lo Stato
Commento di Anna Foa (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Nell’autunno 1938 il regime fascista emanò una serie di leggi, le cosiddette "leggi razziali", seguite da ulteriori circolari e disposizioni, che introducevano radicali discriminazioni fra i cosiddetti appartenenti alla "razza ariana" e i non ariani, in particolare gli ebrei. All’epoca, gli ebrei presenti in Italia erano 47.000, di cui 10.000 circa stranieri. Un ebreo ogni mille "ariani", quindi.
Le leggi razziali si abbatterono come un fulmine a ciel sereno sul mondo ebraico italiano, partecipe in larga misura del consenso generale al regime fascista. Le mille disposizioni con cui le leggi colpivano gli ebrei erano inaspettate, anche se fra il 1936 e il 1937 non erano mancate avvisaglie di una possibile svolta razzista, e se il sempre più stretto avvicinamento alla Germania hitleriana appariva a molti preoccupante.
Anche dopo l’emanazione delle leggi, però, il mondo ebraico italiano non ebbe piena consapevolezza della portata della catastrofe. Prevalse l’idea che poco a poco tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, mentre molti tentavano la strada delle domande di "discriminazione" per meriti fascisti o altro, ossia l’esenzione individuale dalle norme razziste, per lo più respinte dal regime e che comunque non sarebbero riuscite più tardi ad evitare la deportazione dei "discriminati". Anche tra gli antifascisti, tranne poche voci, scarsa fu la consapevolezza della gravità di quanto accaduto. Il mondo stava precipitando verso la catastrofe e le leggi razziste furono generalmente sottovalutate anche dagli oppositori del regime. Fra gli "ariani" pochissimi reagirono.
Certo, c’era una dittatura che già si era sbarazzata dei suoi oppositori col carcere, l’esilio, il confino. Ma i non ebrei fecero tesoro della propaganda razzista diffusa a piene mani dal regime. I professori delle Università furono pronti ad occupare le cattedre liberate dai colleghi ebrei, gli insegnanti cacciarono da scuola gli studenti ebrei senza mostrare rammarico, un trauma rimasto nella memoria di quei bambini a tutt’oggi. Chi continuava a avere rapporti con gli ebrei era definito "pietista".
Nessuno allora comprese che con queste leggi era definitivamente morto lo Stato creato dal Risorgimento. Che la ferita più grande le leggi l’avevano inferta non agli ebrei, ma all’Italia.
Soltanto Bontempelli disse no
1938-2018. Il paradosso dello scrittore che non si adeguò all’antisemitismo e fu poi sanzionato come fascista
Su 896 docenti universitari, fu l’unico a rifiutare la cattedra di un ebreo espulso
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 29.08.2018)
E solo Massimo Bontempelli disse no. Ottant’anni dopo, a rileggere la storia infame dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» firmati dal re Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore il 5 settembre 1938 («la data della vergogna per la cultura italiana», ha scritto lo storico Giovanni Belardelli) spicca il silenzio assordante degli 895 docenti universitari su 896 che dissero sì. E accettarono servili e contenti (quando non sgomitarono per contendersi il bottino) quelle cattedre regalate loro grazie alla espulsione dei professori ebrei.
Una pagina nera. Diventata nerissima quando, a guerra finita, i docenti espulsi, costretti all’esilio o scampati ai campi di sterminio, chiesero di riavere il loro posto. E si trovarono davanti a una montagna tale di ostacoli burocratici, accademici e politici (dice tutto il titolo del decreto del 27 maggio 1946: «Riassunzione in ruolo di professori universitari già dispensati (sic!) per motivi politici e razziali») che molti preferirono nauseati lasciar perdere, altri rimasero là dove si erano rifugiati e qualcuno si uccise per il doppio rifiuto. Come il biologo Tullio Terni, che si tolse la vita con una fiala di cianuro il 25 aprile 1946, primo anniversario della Liberazione. Alla vigilia di quel decreto firmato dal diccì Guido Gonella che, scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan nel libro La doppia epurazione (il Mulino, 2009), non voleva «turbare gli equilibri dati al momento della fine del conflitto».
Equilibri che chi aveva approfittato della «manna» (così la chiamò Ernesto Rossi) dell’espulsione di tutti quei docenti e di altri 727 studiosi ebrei buttati fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, ringhiosamente difese, rivolgendosi perfino alla magistratura neo-democratica per non restituire il posto arraffato grazie alle leggi fasciste. Una vergogna tale, ricorderà Giorgio Israel ne Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime (il Mulino, 2010), che dopo decenni era «assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivavano un’adorazione intatta!».
Basti ricordare, come fece anni fa sul «Corriere della Sera» Paolo Mieli, il matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 scriveva: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l’intervento giudaico» e solo sette anni dopo, ricordando il matematico Guido Fubini morto esule nel 1943 a New York, «ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro “gli stolti, infami provvedimenti razziali”, da lui a suo tempo applauditi e ora definiti “eterna vergogna”».
«La reintegrazione dei docenti ebrei», ha scritto Pierluigi Battista ricordando l’esempio pisano, «fu registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza». Una vergogna rimasta a lungo velata, fino ai libri di denuncia come L’università italiana e le leggi antiebraiche di Roberto Finzi (Editori Riuniti, 1997) e altri ancora.
Ecco, in questo impasto di orrori, furbizie, omertà, complicità e ipocrisie che infettarono l’università italiana a cavallo tra il «prima» e il «dopo» le leggi razziali, la guerra perduta e la lotta di Liberazione, Massimo Bontempelli pagò dazio due volte. Prima perché marchiato dai fascisti come «idiota e carogna», poi perché bollato dagli «antifascisti» (compresi certi convertiti dell’ultima ora) come un «voltagabbana» dal passato destrorso.
Nato a Como nel 1878, studente anarchico («fui orgoglioso di portare qua e là pacchi di manifesti sovversivi»), laurea in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e in Lettere con una sull’endecasillabo, docente, poeta, interventista, corrispondente di guerra, collaboratore del Fascio politico futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tessera del Partito fascista fatta insieme col suo amico Luigi Pirandello (dirà: «Mai fatto vita di partito; anzi fino al 1948 non ero mai stato iscritto ad alcuno: il fascista non conta, non era un partito, era un’anagrafe»), cominciò a staccarsi dal regime nel 1936, dopo la guerra d’Abissinia. La prova? «Molti episodi documentatissimi», scriveranno anni dopo vari intellettuali (dal critico Luigi Baldacci al poeta Eugenio Montale, dal musicista Goffredo Petrassi al pittore Renato Guttuso) indignati per una feroce critica a Bontempelli di Mario Picchi, che sull’«Espresso» aveva scritto d’una «miserabile coscienza morale» per poi rincarare: «Artista piccolino, fascista grandicello».
«Bontempelli è stato vittima d’un trattamento disonesto e di un abuso», scriverà Carlo Bo. «Eppure nei famosi vent’anni del periodo fra le due guerre è stato uno degli spiriti più vivi e attenti ai moti della società italiana».
Certo è che diede prova d’aver la schiena dritta almeno in due momenti chiave. Il primo, dicevamo, quando fu l’unico (unico!) docente a rifiutare il dono di una cattedra «per chiara fama» rapinata a un ebreo, nel suo caso il grande Attilio Momigliano. Il secondo quando, nel novembre di quel 1938, ricordò Gabriele d’Annunzio, davanti ai gerarchi convenuti a Pescara, denunciando «il nuovo costume intonato al feticismo della violenza». Denuncia che gli costò non solo gli insulti di Achille Starace («Ho tolto la tessera all’accademico Bontempelli perché più idiota e carogna di così si muore»), ma l’ostracismo totale: vietata la ristampa dei suoi libri, vietato chiedergli conferenze... Più l’imposizione del domicilio coatto: Venezia. Ma solo per sopire lo scandalo.
«Fu il periodo più bello della sua vita», scriverà Bo nel suo ricordo dopo la morte, definendolo «un prosatore stupendo» e «il più libero e nello stesso tempo più depurato del secolo». «Nel palazzo sul Canal Grande che lo ospitava diventò per la parte più responsabile della cultura italiana un riferimento, un piccolo faro d’indipendenza». Cosa che non gli bastò, anni dopo, a evitare l’umiliazione più grande della sua vita.
Scampato dopo l’8 settembre 1943 alla condanna a morte decretata contro di lui dai nazisti per un libro del 1919 contro la Germania, sopravvissuto alla guerra, candidato a Siena col Fronte delle sinistre alle elezioni del 1948, Massimo Bontempelli fu eletto al Senato, ma subito trascinato davanti alla Giunta per le elezioni. Gli rinfacciarono d’aver firmato nel 1935 un pezzo intitolato Milizia santa su un’antologia (Oggi) di letture per le scuole medie contenente, come tutti i libri dell’epoca, parole d’esaltazione per il regime e il Duce. Antologia, tra l’altro, che lo scrittore aveva delegato, secondo il critico Franco Petroni, «a un perseguitato dal fascismo, che aveva bisogno di fare un po’ di soldi e non poteva firmare col proprio nome».
Un peccato secondario, rispetto a quelli dei tanti razzisti riciclati come il fisiologo Sabato Visco, che era stato «capo dell’ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop», o il giurista Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza (e destinato perfino alla presidenza della Corte costituzionale), o l’ex segretario di redazione della «Difesa della razza» Giorgio Almirante (eletto in quella stessa tornata) e altri ancora.
Eppure fu lui, che Bo definiva «tutto fuor che uno scrittore impegnato e questo perché la sua fantasia non accettava nessun legame con la realtà», ad essere buttato fuori dal Senato come fascista. Il solo che, dopo quelle leggi infami sull’università, aveva avuto il fegato e la dignità di dire no.
Italiani che tradivano ebrei italiani in fuga
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 07.08.2018)
C’è anche l’arresto di Liliana Segre, ex deportata e senatrice a vita, tra le vicende rievocate nel libro di Franco Giannantoni La Shoah, delitto italiano (Edizioni Amici della Resistenza, pp. 285, e 13) frutto di minuziose ricerche sul caso di Varese. Nel dicembre 1943 la ragazza, allora tredicenne, e il padre Alberto (poi morto ad Auschwitz) erano riusciti a raggiungere la Svizzera, ma furono respinti da un ufficiale filotedesco della guardia confinaria elvetica. Poi furono i finanzieri italiani che li spogliarono di ogni bene e li consegnarono ai nazisti.
E qui veniamo al punto doloroso e rimosso su cui insiste la documentata ricostruzione di Giannantoni. A fronte dei nostri connazionali che si adoperarono per offrire soccorso agli ebrei braccati, troviamo la fauna variegata di coloro che collaborarono alla persecuzione: le spie prezzolate e quelle occasionali, magari mosse da rancori personali; gli appartenenti alle strutture poliziesche della Repubblica sociale fascista; i solerti burocrati che si adeguarono alle direttive dei tedeschi. Altro che «italiani brava gente», ammonisce Giannantoni: sarebbe ora di guardare in faccia i lati peggiori del nostro passato.
Mattarella mette in guardia dal razzismo
“Veleno che penetra ancora nella società”
Il Capo dello Stato: anche i rom e i sinti tra le vittime delle Leggi Razziali del fascismo. Salvini: basta parassiti
di Francesco Grignetti (La Stampa, 26.07.2018)
Era il 26 luglio 1938, ottanta anni fa: il Duce riceveva in pompa magna a palazzo Venezia alcuni tra gli scienziati più illustri d’Italia per la consegna del Manifesto della razza. A rileggerlo, c’è da rabbrividire: «La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana... Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Fu la premessa delle leggi razziali. E ieri Sergio Mattarella ha voluto ricordare quel passaggio orribile della nostra storia. «Questa presa di posizione - afferma il Capo dello Stato - rimane la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità».
Parla del passato, Mattarella, ma in tutta evidenza parla anche dell’oggi perché il virus del razzismo è sempre più forte anche oggi. Non è un caso che Mattarella rievochi la crudeltà verso le popolazioni africane nelle nostre colonie, la persecuzione dei cittadini di religione israelita e la caccia spietata a rom e sinti. «Quelle mostruose discriminazioni sfociarono nello sterminio, il porrajmos, degli zingari», dice il Presidente sulla scorta di un dossier che La Stampa ha potuto consultare negli archivi del Quirinale. Guai allora a dimenticare le scelte che gli italiani compirono nel 1938. «Il veleno del razzismo - conclude Mattarella - continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri».
E se non sfugge la coincidenza tra questa ricorrenza e l’animosità della maggioranza giallo-verde nei confronti di stranieri e zingari, il ministro Matteo Salvini svicola con eleganza. «Il Presidente Mattarella - dice - con le sue parole ricorda un passato che non dovrà mai più tornare. È folle e fuori del mondo ritenere una razza superiore a un’altra». Ma intanto, a proposito dei Rom, usa toni brutali: «In Italia ci sono 150 mila persone rom ma i problemi sono limitati a 30 mila che si ostinano a vivere nell’illegalità. Il problema è questa sacca parassitaria».
Fanfani e padre Gemelli firmarono contro gli ebrei
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
A firmare il Manifesto della razza furono 10 scienziati, alcuni notissimi come Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Roma, o Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia alla stessa Università. I loro nomi sono noti, anche se poi alcuni cercarono di sottrarsi alla responsabilità, e qualche storico ha ritenuto che le loro firme fossero state in qualche modo «sollecitate» dal regime, visto che era stato Mussolini stesso a ispirarne parole e concetti.
Grave fu però la corsa di tanti intellettuali, ben 330, ad aggiungere la propria firma a quello che chiaramente era un passaggio ispirato dal Duce. Uno fu padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un altro, il giovane professore di Storia economica Amintore Fanfani. Oppure il poeta Ardengo Soffici, lo scrittore Giovanni Papini, il giornalista Mario Missiroli, il critico cinematografico Luigi Chiarini.
A dare spazio alle teorie del razzismo italiano nacque una rivista specifica, La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi, giornalista distintosi per le campagne antisemite promosse sulle pagine del giornale Tevere e per un libro dal titolo Contra Judeos. Caporedattore era Giorgio Almirante.
Fin dal 1926 respingimenti e allontanamenti forzati
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
È una pagina semi-ignorata della storia italiana, la persecuzione degli zingari che il regime portò avanti fin dal 1926 con respingimenti e allontanamenti forzati di Rom e Sinti stranieri. Il Viminale diramò circolari per «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica per le caratteristiche abitudini di vita».
Furono coinvolte le forze di polizia e le prefetture dell’Istria e del Friuli, in particolare, nel tentativo di sbarrare la strada ai gitani dei Balcani che nel loro nomadismo tentavano di entrare in Italia. E siccome a loro volta la polizia del confinante Regno di Jugoslavia si rifiutava di accettarli, sono accertati i respingimenti clandestini a opera della Guardia di Finanza presso certi valichi di frontiera incustoditi.
Con il 1938, Mussolini si convinse che occorreva la pulizia etnica degli zingari nelle regioni di confine, in quanto tutti potenziali spie del nemico. Furono fatti rastrellamenti e deportazioni. Dall’Istria e dal Trentino gli zingari furono portati al confino in Sardegna. Il 20 ottobre 1942 il nuovo prefetto istriano Berti poteva dichiarare che con le ultime deportazioni in Istria non c’era più un solo Rom. I confinati si poterono allontanare dall’isola soltanto dopo il 1945.
Un richiamo necessario per un Paese smemorato
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa, 26.07.2018)
Sono parole molto forti quelle che vengono dal Presidente della Repubblica, una delle poche autorità morali ancora riconosciute dalla stragrande maggioranza della società italiana. E forse era ora. Non esiste nessun mito più radicato nella nostra opinione pubblica di quello degli «italiani brava gente»; sebbene sia stato sfatato dagli storici, il concetto che gli italiani siano stati, anche durante il fascismo, fondamentalmente «buoni» è duro a morire.
Se anche si dice che il fascismo «sbagliò» nell’emanare le leggi antiebraiche, è opinione comune che queste furono applicate «all’acqua di rose», e che in fondo gli ebrei «non se la passavano tanto male». Nulla di più falso. La persecuzione fu durissima, e colpì ogni aspetto della vita degli ebrei italiani, rendendo loro impossibile lavorare, avere amici non ebrei, accedere a una istruzione superiore. La persecuzione, anche se non sfociò in un massacro operato direttamente dagli italiani, fu estremamente dura, e dopo l’occupazione tedesca fu la necessaria premessa al collaborazionismo fascista, e alla deportazione e allo sterminio di oltre 7000 cittadini italiani di fede ebraica.
Ma il Presidente richiama l’attenzione anche sulla sorte di sinti e rom. Chi ricorda che anche loro sono stati vittime del razzismo fascista? Chi conosce i campi di concentramento di Boiano e Agnone, dove centinaia di «zingari» furono rinchiusi durante la guerra, considerati come soggetti pericolosi per la patria italiana? Chi sa che le condizioni in quei campi erano difficilissime?
Tutto questo ha voluto ricordare Mattarella. È un richiamo duro, amaro da mandare giù, ma necessario. Necessario per un Paese che, oltre a essere smemorato, sembra continuare negli errori del passato.
Storia d’Italia. Il manifesto del Duce che aprì le porte alla persecuzione degli ebrei
Il 15 luglio 1938 il regime fascista pubblicò il documento di discriminazione razziale da cui nacquero le leggi antisemite
di Roberto Festorazzi (Avvenire, 10 luglio 2018)
[FOTO] I dieci punti del Manifesto in difesa della razza
Il 15 luglio 1938, ottant’anni fa, la pubblicazione del “Manifesto della razza” inaugurò in Italia l’antisemitismo di Stato. Allineandosi alla Germania, Mussolini scelse di adottare provvedimenti di discriminazione razziale, che aprirono le porte alla futura persecuzione. Prima di tutto, occorre domandarsi: il Duce era personalmente nemico degli ebrei?
La lunga e pacifica coabitazione, nei primi anni del regime, tra fascisti e comunità israelitica nazionale, nonché la circostanza - tutt’altro che priva di significato anche politico - che il dittatore fu per anni succubo della sua amante e consigliera Margherita Sarfatti, di origini giudaiche, ha indotto taluni a ritenere che le leggi introdotte nel 1938 fossero più dettate da esigenze di realpolitik (in sostanza, per compiacere Hitler), che non ispirate a intimi convincimenti personali.
In realtà, Mussolini condivideva gli stereotipi, largamente circolanti in tutte le società occidentali dell’epoca, sulla pericolosità degli ebrei, in quanto tali, e il suo animo era ricoperto da una fitta vernice di pregiudizio razziale, in senso lato. Le cause remote dell’acuirsi del contrasto tra ebrei italiani e fascismo debbono farsi risalire addirittura alla fine degli anni Venti. Fu proprio la Sarfatti, a quell’epoca, a individuare nei circoli sionisti presenti nella Penisola un focolaio di antifascismo e una sorgente di incomprensione. Il suo ragionamento era molto semplice, e certo condiviso dal Duce: i sostenitori, in Italia, della costruzione dello Stato di Israele privilegiavano le ragioni della propria causa “nazionale”, rispetto alla lealtà verso la Patria fascista. Dunque, si trattava di “rinnegati”. Nonostante una tale reciproca diffidenza, se non una vera e propria ostilità, tra gli esponenti sionisti e il regime, covasse sotto la cenere, fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra il dittatore e la comunità israelitica furono, almeno ufficialmente, corretti.
Ma, già nel 1933-34, l’antisemitismo, dentro la stampa e il Partito nazionale fascista, cessò di rappresentare una posizione marginale, limitata a pochi forsennati, come Giovanni Preziosi, direttore del mensile “La vita italiana”. Cominciarono a profilarsi i fautori di una campagna di sistematica aggressione nei riguardi della componente ebraica della società italiana. I più agguerriti esponenti di questa corrente erano Telesio Interlandi, direttore del quotidiano romano “Il Tevere”, e Roberto Farinacci, capofila dell’intransigentismo nonché fondatore e proprietario del suo organo di stampa, “Il Regime Fascista”.
Farinacci, dalle colonne del giornale, nel maggio del 1933, dopo aver reiterato violente accuse contro l’internazionale e la finanza ebraica, giunse ad auspicare l’introduzione in Italia di un “numero chiuso” per gli israeliti. Mussolini, da parte sua, mentre da un lato condannava ancora ufficialmente le teorie hitleriane sulla superiorità della “razza ariana”, dall’altro tollerava questi attacchi. Ma, in breve tempo, non si sarebbe più limitato ad osservarli: ne avrebbe incoraggiato l’intensificazione e l’estensione. Probabilmente, ragioni di prudenza, sulle prime, gli consigliarono di circoscrivere il “tiro” e di autorizzare soltanto Farinacci, Interlandi, Preziosi e pochi altri estremisti, a condurre in proprio la campagna antisemita a mezzo stampa.
La posizione di Mussolini cominciò ad evolversi soltanto nella seconda metà del 1936, quando iniziò a vedere nella politica sanzionista decretata dalla Lega di Ginevra contro l’avventura italiana in Etiopia, l’espressione irriducibilmente ostile dell’internazionale ebraica. Una sorta di “spectre”, che aveva una quinta colonna, tra gli ebrei antifascisti presenti in Italia, o tra gli esuli, come Carlo Rosselli, assassinato, insieme al fratello Nello, in Francia, nel giugno del 1937.
Si registrò in tal modo l’ulteriore acuirsi dei toni con cui Farinacci, dal “Regime Fascista”, non si limitò più a dirigere il fuoco contro i sionisti italiani, ma, più in generale, contro tutti gli ebrei che vivevano nella Penisola. Il 12 settembre 1936, un articolo di fondo non firmato, e dunque attribuibile al ras di Cremona, dal titolo “Una tremenda requisitoria”, prese lo spunto da un discorso pronunciato, al congresso nazionalsocialista di Norimberga, da Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Questi aveva denunciato come nella Francia del Fronte Popolare e nella Spagna sconvolta dalla guerra civile, tutti i capi del “sovversivismo” fossero ebrei. -Farinacci andò dunque all’affondo: «Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono un’infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nella scuola, non hanno svolto opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo che può suscitare qualche sospetto. Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo dell’internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?».
Già nel corso del 1937, Mussolini decise di attuare il “giro di vite”, con l’emanazione di una legislazione razzista. In tal modo, sulla stampa di regime, si assistette a un crescendo di invettive, e agli emuli italiani di Goebbels fu concesso di dilagare, a briglia sciolta, nella rappresentazione mostrificata del “nemico” per eccellenza. Si introdusse la distinzione tra gli “italiani ebrei” (ossia i lealisti con accertati meriti patriottici, in cima ai quali vi erano gli iscritti al partito) e gli “ebrei italiani”, vale a dire i sionisti e gli antifascisti. In seno alla comunità israelitica venne seminata discordia. Da un lato vi erano le organizzazioni ufficiali che raccoglievano la pluralità di anime e di correnti del giudaismo nazionale. Dall’altra il regime incoraggiò la nascita del filofascista Cire (Comitato degli italiani di religione ebraica), che si prestò a divenire strumento di disarticolazione della comunità. Il Cire chiese infatti di abolire, non solo la stampa israelitica ma anche di sciogliere la Face (Federazione delle associazioni culturali ebraiche) e l’Adei, che raggruppava la componente femminile. Era iniziata la corsa verso il baratro.
Segre e i suoi cento anni di Resistenza al fascismo
di Massimo Novelli (Il Fatto, 23.05.2018)
Un secolo di vita, ma soprattutto un secolo di resistenza ai fascismi vecchi e nuovi, all’oscurantismo clericale e civile, ai pregiudizi di razza e di censo, alla violenza del potere. L’avvocato torinese Bruno Segre compirà cento anni tra qualche mese. Partigiano di Giustizia e libertà, uomo di legge e giornalista (dal 1949 dirige il periodico libertario L’Incontro), scrittore e politico (è stato capogruppo socialista, negli anni Settanta, al consiglio comunale di Torino), Segre festeggerà il suo centenario davvero formidabile il 4 settembre. Cento anni, dunque, trascorsi da alfiere indomito della libertà, della pace, della laicità e dei diritti civili, dall’obiezione di coscienza al divorzio.
Molti sanno, o se non altro dovrebbero sapere, che l’avvocato Segre difese nell’agosto del 1949 il primo obiettore di coscienza italiano, Pietro Pinna, davanti a un Tribunale militare. Così come sono conosciute le sue battaglie per il divorzio. Assai meno noto è che, tra l’estate e l’inverno del 1938, l’allora giovanissimo Segre fu il solo nel nostro Paese, assieme all’ex deputato socialista Giulio Casalini, a osteggiare apertamente le leggi razziali fasciste volute da Mussolini, e varate il 17 novembre, in una serie di articoli apparsi su una rivista regolarmente pubblicata in Italia. Si chiamava L’igiene e la vita, usciva a Torino, e l’aveva fondata il citato Casalini, un medico di Vigevano.
In quei mesi del 1938, come Renzo De Felice ha messo in luce nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, la stragrande maggioranza degli italiani rimase indifferente alle leggi razziali. Tacquero quasi tutti gli stessi ebrei italiani; soltanto uno di loro, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, espresse tragicamente la sua protesta contro “l’assurda malvagità dei provvedimenti razzisti” suicidandosi a Modena (si buttò dalla Ghirlandina) nel novembre del 1938. E furono silenti o complici del regime gli intellettuali, salvo Benedetto Croce, che espresse il suo “ribrezzo” per l’antisemitsmo nazifascista in una lettera ripresa dal Palestine Post. Pochi altri, da Massimo Bontempelli a Filippo Tommaso Marinetti, ad alcuni cattolici, non nascosero l’avversione alla vergognosa legislazione avallata da Casa Savoia e dal re Vittorio Emanuele III. Ma un conto era il dissenso per lettera, un altro manifestarlo sulle colonne di un giornale non clandestino.
Segre e Casalini, invece, rischiando il carcere o il confino, ebbero il coraggio di scrivere pubblicamente. Su L’igiene e la vita misero in discussione il preteso fondamento storico e scientifico delle leggi, ossia l’esistenza di una presunta razza pura italiana, di origine ariana, come sostenevano gli accademici autori del Manifesto sulla Razza, pubblicato il 14 luglio del 1938 su Il Giornale d’Italia e in altri quotidiani.
Furono soprattutto gli interventi di Segre a mettere in rilievo che le affermazioni contenute nel manifesto “esprimono un punto di vista estremamente soggettivo. Si tratta di affermazioni dogmatiche la cui enunciazione scientificamente lascia molto a desiderare, e che prospettano una situazione diversa assai nei suoi sviluppi storici”. Firmati con lo pseudonimo di Sicor, gli articoli di Segre, all’epoca studente universitario, e di Casalini, che parteggiavano inoltre per la pace (“il fine dei popoli non può essere la guerra”, scrisse l’ex deputato del Psi), non passarono naturalmente inosservati. Come ricorda l’avvocato, “il giornale di Casalini venne sequestrato e soppresso per avere manifestato opinioni antirazziste”.
Certo è che, ha detto più volte Segre, “ancora oggi mi colpisce il fatto che a levarsi contro le leggi razziali non furono gli intellettuali, i giuristi, gli scienziati, i professori universitari, ma un vecchio socialista, che purtroppo nel dopoguerra venne coinvolto in un grave scandalo edilizio, e uno studente quale ero io, uno che aveva appreso dalle lezioni ascoltate all’Ateneo torinese come l’Italia fosse stata un crogiolo di popoli, una molteplicità di genti, altro che purezza di una ‘razza’ sola!”.
La scure della censura fascista non tardò a calare sul giornale. Dai documenti conservati all’Archivio di Stato di Torino, si può apprendere che già il 7 ottobre Dino Alfieri, ministro della Cultura Popolare, inviava ai prefetti un telegramma in cui si invitava a “disporre sequestro rivista L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini numero 9 del di settembre ultimo scorso per atteggiamento antirazzista”. Il 9 di novembre, il prefetto di Torino rispondeva: “Disposto sequestro n. 10-11 del periodico L’igiene e la vita ottobre-novembre diretto da Giulio Casalini stampato Tipografia Mittone per trattazione problema razzista non conformemente direttivo Governo Nazionale”. Francesco Mittone, nonno del noto avvocato Alberto Mittone, era stato lo stampatore de Il Grido del Popolo di Antonio Gramsci e di alcune opere di Piero Gobetti; la sua tipografia venne più volte perquisita dai poliziotti e dai fascisti.
Per il giornale di Casalini e Segre, pertanto, i giorni erano contati. “Tenuto conto”, affermava il prefetto di Torino, “che la rivista mensile L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini e stampa (sic) dalla tipografia Mittone - corso Principe Oddone 34, Torino - tiene atteggiamento antirazzista; che per tale motivo si sono dovuti adottare provvedimenti di sequestro; viste le leggi sulla stampa periodica, testo unico della legge comunale e provinciale e quella della legge di Pubblica sicurezza”, il 3 febbraio del 1939 decretava “la soppressione del periodico mensile L’igiene e la vita“. Il Questore di Torino fu “incaricato dell’esecuzione del presente decreto che dovrà essere notificato al direttore responsabile del periodico”. La rivista cessò le pubblicazioni. E a lungo sarebbe calato il sipario anche sul coraggio del giovane Bruno Segre e del medico socialista Giulio Casalini, due italiani da onorare e da ricordare nei libri di Storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932. Un saggio di Giorgio Fabre, in "Quaderni di storia", riapre la questione.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
La via tutta italiana al razzismo fascista
Alcune considerazioni a 80 anni dalla promulgazione delle Leggi razziali. Fenomeno politico diffuso, decisamente ratificato con la sua inclusione nella legislazione del paese. Antecedenti: i progetti di una revisione degli equilibri nell’area balcanica. E l’impresa etiope del 1935-1936
di Claudio Vercelli (il manifesto, 23.01.2018)
Sulla dirompenza che l’insieme di norme e di disposizioni giuridico-amministrative conosciute come «leggi razziali» ebbero sulla società italiana si è iniziato a scrivere soprattutto in anni recenti. È un segno, a modo suo, della tardiva attenzione attribuita ai diversi significati e agli effetti di lungo periodo generati dall’introduzione, durante il 1938, di un collaudato dispositivo istituzionale di stigmatizzazione, discriminazione e poi di persecuzione. Efficace, purtroppo, nei suoi devastanti effetti. Tali norme, infatti, entrarono pesantemente in gioco nelle dinamiche dell’evoluzione collettiva del Paese, determinandone per alcuni aspetti i suoi successivi sviluppi. In altre parole, la questione del razzismo di Stato è risultata senz’altro catastrofica per l’ebraismo italiano ma, non di meno, ha condizionato anche la parte restante della popolazione.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE e la legittimazione di prassi vessatorie nell’età dello Stato moderno regola, infatti, non solo le condotte delle minoranze ma anche gli atteggiamenti della maggioranza. A tale riguardo, le leggi del 1938 si sono rivelate efficienti strumenti di uniformazione e disciplinamento della società italiana, consegnandola ad un’illusoria unitarietà, quella che sembrava derivare dalla stigmatizzazione delle diversità, identificate come fattori di alterazione dell’ordine collettivo. Ci si è quindi ripetutamente interrogati sulle radici del razzismo fascista. Con esso, del maturare nel corso del tempo del suo antisemitismo, da originaria posizione variamente sostenuta e condivisa da una parte degli esponenti del regime, così come fra gli intellettuali a esso organici, a fenomeno politico diffuso, ratificato definitivamente con la sua inclusione nella legislazione del Paese.
Significativi sono in merito gli studi di Michele Sarfatti, di Giorgio Israel e Pietro Nastasi, di Roberto Maiocchi, di Francesco Cassata, di Marie Anne Matard-Bonucci, solo per richiamare alcuni nomi, anche nella diversità dei loro giudizi. Alcuni aspetti risultano decisivi. Un primo dato da considerare è la maturazione e la cristallizzazione del rapporto tra fascismo politico e razzismo di Stato, in una dialettica di rafforzamento reciproco.
Nell’autonomia che le istituzioni regie, e con esse di una parte delle amministrazioni pubbliche, preservarono nel corso del Ventennio, un ingrediente di crescente importanza nella formulazione di una politica del regime per accreditarsi nella sua soggettività fu l’articolazione di una formulazione razziale delle questioni geopolitiche, sia rispetto agli interlocutori europei che, soprattutto, nelle dinamiche interne al Paese. Il rapporto con il nazismo, da questo punto di vista, non si pose mai nei termini di una concessione formale alle esigenze di Berlino. Piuttosto, si trattava di una collaborazione competitiva, dove la tematica razzista era un fattore di accrescimento e valorizzazione delle proprie istanze.
La vecchia e inconsistente formula giustificazionista, che leggeva le leggi del 1938 come il risultato di una subordinazione alle logiche dell’Asse, non ha peraltro mai considerato la complessità e la stratificazione, nel corso del tempo, del tema razzista in Italia. I cui fondamenti risalgono, per alcuni aspetti, alle stesse impostazioni positiviste del secolo precedente, trovando tuttavia il punto di svolta nel trasformarsi da motivi culturali a politiche pubbliche.
STORICAMENTE, non c’è solo il fondamentale antecedente della radicalizzazione impressa dall’impresa etiope del 1935-1936. Prima ancora, infatti, pesò il confrontarsi con i progetti di una revisione degli equilibri nell’area balcanica, di cui Mussolini era un attore di primaria grandezza. Una sorta di spinta italiana verso l’Est, che individuava l’altra sponda dell’Adriatico come spazio elettivo per l’espansione egemonica del Paese. Ciò facendo, introduceva da subito il tema del rapporto con le popolazioni slave, intese come soggetti subalterni agli interessi di Roma.
IL CORREDO razzizzante era quindi immediatamente dietro l’angolo, avendo trovato già nel brutale fenomeno del «fascismo di confine» dei primi anni Venti, e nell’italianizzazione forzata delle popolazioni risiedenti nei territori della penisola istriana, un repertorio di motivi e una plausibilità di riscontri. D’altro canto, il tema del razzismo fascista, nel corso di tutta la sua esistenza, si pone nella logica ossessiva dei confini, sia geografici che simbolici.
È l’idealizzazione di un’integrità da ripristinare, quella del corpo della nazione, corrotto da stili di vita e sistemi di relazioni interpersonali basati sulla promiscuità e sul «permissivismo» delle condotte borghesi. Ma è anche simbolizzazione di una dimensione accrescitiva, quella da garantire agli spazi fisici del Paese, nel 1936 transitato ad effimero «Impero». Le politiche dell’immaginario hanno un grande peso in queste dinamiche e concorrono a creare una sorta di sistema mitopoietico, dove la menzogna della razza diventa affermazione di una cognizione alternativa, quella che si alimenta del reiterarsi della sua stessa falsità, divenendo pregiudizio di senso comune.
È IN QUESTO MENTRE che il percorso di nazionalizzazione delle masse abbandona l’individualismo liberale per consegnarsi all’uniformazione degli spiriti e dei corpi, nel nome di un nuovo ordine collettivo, basato sull’omologazione di stili di vita, atteggiamenti, aspettative e condotte. Il tema pseudo-salutista e igienista, che coniugava caserma a palestra, moschetto a disciplina, comando a controllo non datava di certo al solo fascismo, essendo una delle componenti dei fantasmi viriloidi delle subculture nazionaliste. Il regime diede però a esso spessore e legittimazione, cercando di ispirare una via italiana al razzismo, sia del punto degli studi scientifici e accademici sia sul piano delle politiche pubbliche.
L’EQUAZIONE tra fascismo storico e razzismo è quindi più che mai pertinente, celebrandosi sotto i paradigmi della modernità e della progettazione sociale. I quali reclamavano un’opera di sistematica rielaborazione del rapporto di cittadinanza, ora identificato anche in un legame di ordine biologico. Tutto l’impianto delle leggi del 1938 demanda a quest’ultimo elemento, palesandone la centralità per la stessa identità politica fascista. Con l’approssimarsi della guerra il regime optò apertamente per questo indirizzo, trovando in esso nuovi motivi di rigenerazione, soprattutto dinanzi alla prospettiva di un impegno bellico che richiedeva, per essere sostenuto, di dotarsi di una carica propulsiva sul piano ideologico. Tutto ciò non si consumava peraltro in assenza di compartecipazioni.
Le oggettive responsabilità della Corona, e delle istituzioni non fasciste che le ruotavano intorno, si concentra soprattutto nella politica di condivisione che fu realizzata con solerzia dagli apparati pubblici. La premura con la quale le amministrazioni dello Stato regio si adoperarono per tradurre le norme astratte in vincoli concreti, indica la loro reale disposizione di fondo. A essa, infatti, si ricollega la compromissione politica della casa regnante, che fu protagonista nel processo di accelerazione impresso dal regime. Non si trattò di omissione e neanche di cedimento bensì di collusione, dentro una dinamica di rinegoziazione dei rispettivi ambiti di potere, confidando che la guerra avrebbe distribuito benefici a quanti vi avrebbero preso parte come attori di prima fila.
LE LEGGI RAZZIALI del 1938, quindi, sono semmai un punto di arrivo e non di partenza, come la rilettura revisionista intende invece continuare ad accreditare. Non costituiscono un errore ma una scelta ponderata nel corso del tempo, cercando di presidiare e rafforzare il proprio ruolo nel nuovo scenario europeo che andava configurandosi. Segnano la traiettoria ideologica e operativa del fascismo ma anche il livello di compiacente collusione delle istituzioni pubbliche nei suoi confronti. Non abbiamo quindi a che fare con un fenomeno residuale ma piuttosto dell’assunzione integrale della dottrina fascista nella sua intima essenza, quella per l’appunto razzista. La qual cosa, nel momento in cui ci dice che il regime mussoliniano è consegnato al passato, ci interroga tuttavia sulla persistenza e sul ripetersi di alcuni suoi inquietanti motivi di fondo, non importa se sotto nuove e raffazzonate spoglie.
Roma cancella le vie di chi aderì al “Manifesto della razza”
di Ariela Piattelli (La Stampa, 22.01.2018)
Via i nomi di chi aderì al Manifesto della razza dalle strade di Roma. Lo ha promesso la sindaca Virginia Raggi in un’intervista per il documentario “1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani” di Pietro Suber. Il Campidoglio ha avviato l’iter che in tempi brevi porterà alla cancellazione dei nomi degli scienziati che, aderendo al documento dove si elencano i principi razzisti del regime fascista e alla base delle leggi razziali, contribuirono alla totale emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica, creando anche le condizioni che portarono alle deportazioni nazifasciste. «Abbiamo avviato procedure e verifiche per rinominare strade e piazze intitolate a coloro che sottoscrissero il Manifesto della razza - annuncia Raggi nel documentario -. Dobbiamo cancellare queste cicatrici indelebili che rappresentano una vergogna per l’Italia. Questo può essere anche un esempio per tanti altri Comuni che hanno strade intitolate e questi personaggi».
Sono almeno quattro le vie e i larghi nel comune di Roma titolati agli scienziati di cui i nomi compaiono sotto il famigerato manifesto: largo Nicola Pende (a cui a Noicottaro, nel Barese, è dedicata anche una scuola), via e largo Arturo Donaggio e via Edoardo Zavattari. Un cambiamento che a Raggi serve, in un’epoca di recrudescenze, per sottolineare come l’antifascismo sia un valore per la Capitale: «Roma condanna le leggi razziali, la nostra città è orgogliosamente antifascista. Utilizzeremo ogni strumento disponibile per combattere quei rigurgiti di violenza e discriminazione che non vogliamo tollerare».
Il documentario, che uscirà in occasione dell’anniversario degli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali, si concentra sulle testimonianze degli ebrei perseguitati, dei presunti delatori e degli ex fascisti: «Uno degli aspetti più interessanti è quello della memoria, - spiega il regista - ci siamo interrogati anche su cosa è rimasto del fascismo, visti i rigurgiti a cui assistiamo. Siamo andati nei luoghi di pellegrinaggio dei nostalgici. Negli ultimi anni c’è stato un boom di visite alla tomba di Mussolini a Predappio e ci ha colpito il gran numero di ragazzi che scrivono sul libro delle visite messaggi nostalgici. E’ un dato di ignoranza storica molto allarmante. Così ci è venuta l’idea di chiedere alla sindaca Raggi se in occasione di un anniversario così importante non fosse il caso di intervenire anche sulla memoria di chi ha aderito al manifesto e a cui sono titolate le strade».
La produzione del film ha lavorato settimane prima di ottenere l’intervista. Il documentario, oltre a raccogliere testimonianze e documenti, interviene sulla realtà: «Per un mese abbiamo dialogato con il Campidoglio - spiega Dario Coen, che produce il documentario assieme a Blue Film - Hanno accettato la proposta perché una via intitolata a questi personaggi è un omaggio che loro non meritano».
L’ordinario fascismo delle ragazzate
di Luca Baldissara (Il Mulibo, 28 novembre 2017)
Non c’è quotidiano o sito d’informazione che nei giorni scorsi non abbia ripreso la notizia del saluto fascista col quale un calciatore ha esultato sul campo di calcio di Marzabotto, esibendo la t-shirt con la bandiera della Repubblica di Salò indossata sotto la maglia della squadra. Al gesto fascista - presumiamo programmato, a meno che il giovane non sia solito indossare magliette con l’effige saloina e non sia affetto dalla sindrome di Stranamore - segue l’ormai usuale e collaudata ritualità: indignazione (dell’Anpi e dell’amministrazione comunale in primis, poi di vari esponenti politici), scuse goffe e poco credibili del protagonista (avrebbe inteso salutare il padre in tribuna), presa di distanza della squadra e della società (immaginiamo la vestizione tenuta nascosta dell’aspirante saloino nella nota segretezza dello spogliatoio), denuncia da parte della destra degli eccessi d’attenzione strumentale delle “maestranze antifasciste” (così le ha definite Forza Nuova), espiazione in forma di visita al sacrario delle vittime.
Atti del genere non sono nuovi, tutt’altro. Anzi, dobbiamo riconoscere che dal 2005 - quando l’allora giocatore della Lazio Paolo Di Canio più volte sotto la curva dei tifosi compì questo stesso teatrale gesto (e non era la prima volta) - sono ricorrenti e sempre più frequenti. Intendiamoci: l’indignazione è sacrosanta. E doverosa - quanto, assai probabilmente e sulla base di precedenti simili, priva di esiti giudiziari concreti - è la denuncia per apologia di fascismo a norma della legge Scelba del 1952 da parte dei carabinieri. Condivisibili pure le parole - non troppe, in verità - di condanna ed esecrazione del gesto.
Questa procedura rituale fondata sulla sequenza colpa (il gesto), condanna (l’indignazione pubblica), assoluzione (le scuse e l’atto riparatore) ha probabilmente a che fare con le modalità esteriori della confessione/assoluzione di un cattolicesimo volgarizzato nelle sue forme esteriori, ma ha certo molto di più a che vedere con il moralismo sarcasticamente criticato da Charles Baudelaire nei suoi Diari intimi: ⪻Tutti gli imbecilli della Borghesia che pronunciano continuamente le parole: immorale, immoralità, moralità nell’arte e altre bestialità mi fanno pensare a Louise Villedieu, puttana da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre, dove non era mai stata, si mise ad arrossire, a coprirsi la faccia, e tirandomi a ogni momento per la manica, mi domandava davanti alle statue e ai quadri immortali come si potessero esporre pubblicamente simili indecenze⪼.
Nel senso che il rituale conformista con cui gesto dopo gesto, saluto romano dopo saluto romano, si rinnova la pubblica esecrazione non appare in grado di cogliere le ragioni di questo infittirsi di comportamenti inneggianti il fascismo, né tantomeno di evitarne il ripetersi. Anzi, sembra ipocritamente e moralisticamente distogliere lo sguardo, proprio come Louise Villedieu, dalle sconcezze che prendono forma e visibilità.
C’è infatti da chiedersi se i sempre più numerosi saluti a braccio teso nel calcio non costituiscano tanto il problema in sé, quanto piuttosto la spia di un nuovo senso comune, sempre più solido e sempre più diffuso, che, insieme ad altre manifestazioni esteriori di fascismo (dall’intitolazione di strade e piazze alla gestione di “spiagge fasciste”, alle bandiere di Salò sventolate in cima alle Apuane), sempre più spesso evoca il fascismo quale dimensione “altra”, autentica, di valori ormai perduti in questa società senza bussola, materialista e in crisi di identità.
Vi saranno, certo, i nostalgici del passato. E vi saranno i convinti assertori dell’ideologia fascista in tutte le sue forme e declinazioni. Ma vi è anche, e soprattutto, chi in questa rappresentazione di fascismo intravvede la difesa di identità minacciate dai tumultuosi processi di mutamento del presente, l’attenzione per gruppi sociali abbandonati a se stessi dalle istituzioni e dalla sinistra, il rigore contro una classe politica che appare corrotta nel suo insieme, la concretezza di contro alle tante vuote ed ipocrite parole, la prospettiva potenziale di una solidarietà comunitaria contro il cosmopolitismo vacuo e astratto dei buoni sentimenti. Una società confusa, incerta, preoccupata, attraversata dall’ansia del futuro cerca risposte credibili. E sempre più la credibilità sembra fondarsi nella semplificazione, mentre ogni richiamo alla complessità del presente appare una forma di inganno, una truffa retorica. La logica binaria del pensiero - e della propaganda - di destra sembra dunque più sincera, più fondata, più autentica. La recente affermazione elettorale di CasaPound a Ostia è solo l’ultimo indicatore in ordine di tempo di tale fenomeno.
Ma che cosa in Italia - pur in un contesto europeo del fenomeno - ha reso possibile questa plausibilità del discorso fascista? Il fatto che dopo il 1989-91, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, dopo l’implosione del sistema dei partiti e la scomparsa del Pci, il fascismo è stato “normalizzato”, reso un regime tra i regimi. Certo, esso è stato ricompreso in una famiglia autoritaria e totalitaria di cui erano parte allo stesso titolo il nazismo quanto il comunismo, quasi si trattasse di un virus che nella parte centrale del Novecento ha colpito taluni Paesi e diffuso rapidamente la malattia. Ma nella sua quotidianità il fascismo, a parte alcuni eccessi, peraltro condivisi appunto con altri regimi dell’epoca, ha in fondo governato il paese come altri governi in precedenza avevano fatto e altri avrebbero fatto in seguito. Violenza e repressione, antidemocrazia e aggressività nazionalista, erano presentati come frutto dei tempi, più che tratti distintivi. Tale visione politico-culturale di un fascismo normalizzato a partire dagli anni Novanta si è accompagnata anche alla sua banalizzazione nel discorso pubblico, consentendo ad esempio di descrivere Mussolini come “un grande statista”.
Tutto ciò mentre la volontà di costruire un’Europa capace di ricomprendere le due Europe, dell’Est e dell’Ovest, con le loro storie così diverse, conduceva a inventare una comune (e inesistente) identità antitotalitaria, indebolendo sistematicamente quella cultura dell’antifascismo che aveva rappresentato l’unico cemento coesivo di classi dirigenti politicamente divise al loro interno, consentendo loro di costruire la democrazia rappresentativa di massa nell’Europa occidentale, Italia compresa. Indebolito e delegittimato l’antifascismo, da allora sono andati rapidamente riemergendo lo sciovinismo, il nazionalismo, l’elitismo classista, il corporatismo sociale.
In Italia, dove la fine del bipolarismo ha coinciso con la fine del sistema dei partiti sorto con il crollo del fascismo, il passaggio alla cosiddetta “Seconda Repubblica” ha visto non solo l’indebolirsi, come in tutta Europa, della cultura dell’antifascismo, ridotto a un astorico antitotalitarismo, a una generica lotta per la libertà, dove fascismo e comunismo venivano accostati (ci si ricorda ancora del dibattito Fini-Violante sui ragazzi di Salò?). Ma ha identificato nello stesso sistema ciellenistico dei partiti antifascisti (la partitocrazia) l’origine del clientelismo e della corruzione che ne avrebbero provocato il crollo. Cosicché, critica e decostruzione dell’antifascismo hanno corrisposto allo sdoganamento del fascismo, non tanto nei suoi termini immediatamente politici (che pure non sono mancati), quanto nella sua ordinaria banalizzazione e normalizzazione. Così che qualcuno ha potuto immaginare un fascismo quale forma di anticomformismo, di possibile risposta all’inanità e alla corruzione delle classi dirigenti e del ceto politico.
Se Berlusconi nel 2005 poteva dunque sorridere al gesto di Di Canio, giudicandolo ⪻un ragazzo per bene, non è fascista⪼, il cui gesto era fatto ⪻solo per i tifosi, non per cattiveria⪼, così oggi Salvini, commentando il fatto di Marzabotto, può dichiarare che ⪻fa molti più danni la legge Fornero di un saluto al Duce⪼ e che ⪻uno può salutare col braccio teso o col pugno chiuso, rappresentano lo stesso autoritarismo, hanno lo stesso valore. Non torneranno più né il fascismo, né il comunismo⪼. Così Morris Battistini, il capogruppo dell’opposizione in consiglio comunale a Marzabotto, può sostenere che ⪻da moderati e liberali quali siamo, esprimendo una ferma condanna verso l’esibizione di una maglietta che soprattutto in questo territorio non andava portata, non riteniamo però utile un linciaggio mediatico che ha il sapore di vetrina politica⪼.
Insomma, sono ragazzate. Come ha scritto il giovane calciatore dal braccio teso, un’azione compiuta ⪻con leggerezza, senza pensare alle conseguenze⪼. Del resto, come Giacomo Matteotti ricordava a Giolitti nella seduta della Camera del 31 gennaio 1921, con questi termini il questore di Bologna aveva bollato l’assalto fascista alla Camera del lavoro.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
Federico La Sala
Il nuovo fascismo artificiale
di Furio Colombo (Il Fatto, 26.11.2017)
Il fascismo è dividere il mondo in due, segnato dai nostri confini, che devono essere sempre chiusi. La fede nella frontiera evoca subito il suo sigillo, la morte. Di cui ti dicono spesso che sarà “bella”. È sempre il primo premio del grande concorso “amare la Patria”. Una volta chiusi dentro, non ci possono essere che patrioti e traditori. Patrioti sono i custodi delle frontiere e traditori sono coloro che non apprezzano la claustrofobia inevitabilmente generata dal fascismo. Per stare in casa il fascismo celebra continuamente il passato, vero e inventato, e sempre pagato in vite umane. Tenta di proibire parole e gesti che possano evocare altre lingue, culture, Paesi, insomma “lo straniero”. Non genera cultura.
Ma quando si manifesta, come è accaduto in Italia tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, il fenomeno non è mai che il fascismo diventi cultura. Accade, al contrario, anche in grandi numeri e per valori apprezzabili, che la cultura diventi fascista. Ciò spiega perché la cultura italiana, quasi al completo, e con rarissime eccezioni, abbia accettato il razzismo (le leggi razziali contro i cittadini italiani ebrei, inclusi personaggi di grande notorietà e riconosciuto valore) o abbia scrupolosamente taciuto, come di fronte ad una opzione perfettamente normale.
La chiave di brutale svolta del fascismo avvenuta con la durezza e la gravità delle leggi razziali, è stata spesso interpretata come una imitazione-sottomissione alle ossessioni hitleriane del potente alleato tedesco. La ragione invece è detta con chiarezza nel Manifesto italiano per la difesa della razza, firmato da figure mediocri (alcune celebri, a quel tempo) che ha portato un insulto non cancellabile al Paese Italia e alla sua storia, ma ci dà notizie chiare e corrette del fascismo. La prima notizia è nel punto che afferma: “Oggi possiamo dire che esiste una razza pura italiana”, nel punto che chiarisce che “in nessun modo si potrà permettere che si attenti alla purezza della razza italiana”.
E nell’articolo che precisa in modo fermo, come fondato, allo stesso tempo, su una verità scientifica provata e su una certificazione storica non discutibile, che gli ebrei che vivono in Italia in nessun modo possono essere definiti, considerati o accettati come italiani.
Qui l’esame post mortem del fascismo rivela il suo punto generatore: il nemico. È indispensabile, in una visione del mondo a confini chiusi, non solo il nemico pronto a invadere se non sei abbastanza rigido alle frontiere. Ma anche un nemico interno in grado di falsificare la razza, di alterare la stirpe, di intaccare la sacralità unica della religione, di creare pericolose condizioni di meticciato.
Tutto ciò purtroppo ci porta ai giorni nostri e li spiega. Spiega anche ciò che sta accadendo in Italia e in Europa. Chiamiamo “populismo” le svolte brutali, avvenute in molti Paesi dove, lavorando con persistente pazienza e diffusione di notizie false, sulla paura della immigrazione, si è riusciti a trasformare la paura in panico e poi il panico in chiusura e difesa dei confini, e vero razzismo, fino all’agghiacciante spettacolo delle centinaia di migliaia di polacchi che si esibiscono, rosario in mano, in una paurosa e minacciosa dichiarazione di guerra agli “stranieri” che invadono (non uno in Polonia, che del resto rimane antisemita anche senza ebrei).
Ricordiamo che il fenomeno aveva già dato notizie di sé con la foresta di croci che aveva cominciato a moltiplicarsi intorno ai campi di Auschwitz e Birkenau, come per esorcizzare tutto quel sangue ebreo in quella terra polacca. Ci è voluto un papa polacco (Giovanni Paolo Secondo) per porre fine allo spettacolo premonitore.
Adesso tocca a noi il coraggio di riconoscere che, nonostante il nazismo ungherese e il fascismo polacco, la drammatica rivelazione di un brutale cambio di regime culturale sul dramma dell’immigrazione, è avvenuto in Italia. È avvenuto quando improvvisamente le navi del volontariato (Ong) che hanno salvato fino a poco fa decine di migliaia di profughi dalla morte in mare, sono state accusate, indagate e allontanate. La tecnica che dovrebbe aprire gli occhi alla civiltà è stata ottenuta con modalità dello spionaggio bellico. Vi mostrano le immagini in cui qualcuno (dalla parte dei trasporti dei profughi) fa segnali a qualcuno (navi Ong) di accostarsi in un punto favorevole, per evitare che tanti cadano in mare e tanti anneghino.
Con questa prova di accordi con la malavita (che è ciò che le croci rosse del mondo fanno tutto il tempo) si è sgombrato il mare e si sono riempiti i lager libici descritti come centri di morte dall’Onu. Ecco, si è formato un fascismo artificiale. I pezzi di disumanità sono gli stessi, anche se ognuno assicura che continua la democrazia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932. Un saggio di Giorgio Fabre, in "Quaderni di storia", riapre la questione. Una nota di Roberto Roscani
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932 ...
Risorgimento italiano: Ebraismo, Antisemitismo. Una nota di Gramsci: *
In una recensione («Nuova Italia» del 20 aprile 1933) del libro di Cecil Roth (Gli ebrei in Venezia, Trad. di Dante Lattes, Ed. Cremonese, Roma, 1933, pp. VII-446, L. 20) Arnaldo Momigliano fa alcune giuste osservazioni sull’ebraismo in Italia.
Questa tesi, storicamente esatta nella sua essenza, è da confrontare con quella di un altro ebreo, Giacomo Lumbroso nel libro I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII, 1796-1800, Firenze, Le Monnier, 1932, in 8°, pp. VIII-228 (e in proposito vedi «Critica» del 20 marzo 1933, pp. 140 sgg.). Che nei moti popolari registrati dal Lumbroso ci fosse qualsiasi traccia di spirito nazionale è un’allegra trovata, anche se tali mori siano degni di studio e di interpretazione. In realtà essi furono popolari per modo di dire e solo per un aspetto molto secondario e meschino: il misoneismo e la passività conservatrice delle masse contadine arretrate e imbarbarite. Presero significato dalle forze consapevoli che li istigavano e li guidavano più o meno apertamente e queste forze erano apertamente reazionarie e antinazionali o anazionali. Solo recentemente i gesuiti hanno preso a sostenere la tesi dell’italianismo dei sanfedisti che solo «volevano unificare l’Italia a modo loro». [...]
In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni accennate dal Momigliano, che la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione fra loro e costituivano la forma italiana più caratteristica di residuo medioevale e feudale. Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi la nascita di uno spirito laico, non solo distinto ma in lotta col cattolicismo, dovesse negli ebrei avere come manifestazione una loro nazionalizzazione, un loro disebreizzarsi, pare chiaro e pacifico. Ecco perché può esser giusto ciò che scrive il Momigliano, che la formazione della coscienza nazionale italiana vale a caratterizzare l’intero processo di formazione della coscienza nazionale italiana, sia come dissoluzione del cosmopolitismo religioso che del particolarismo, perché negli ebrei il cosmopolitismo religioso diventa particolarismo nella cerchia degli Stati nazionali.
* A. Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 15 (II) § (41). Cfr. anche Arnaldo Momigliano, Pagine ebraiche, Einaudi, Torino, 1987, pp. 241-242.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
STORIA E STORIOGRAFIA: IL MITO DELLA ROMANITÀ E DELLA GRECITÀ E LA BIOLOGIA. LA PUNTA DI UN ICEBERG. ...*
I greci sono davvero figli di Agamennone e Ulisse: lo dice il dna
Nature riscrive la storia dell’Egeo usando i dati del Dna dei tempi di Ulisse e di Minosse. Ma fra gli studiosi è dibattito: il genoma non aggiunge nulla di nuovo rispetto a quanto scritto da Omero ed Erodoto
di ELENA DUSI *
L’analisi del Dna permette di ricostruire le migrazioni delle popolazioni antiche. Uno studio pubblicato su Nature oggi entra nei dettagli della storia greca, tracciando l’albero genealogico degli abitanti dell’Egeo dall’età del bronzo a quella odierna. Il genoma di 19 scheletri antichi dissepolti a Creta, nella penisola ellenica o nella Turchia dell’ovest è stato messo a confronto con quello di oltre 2mila individui di oggi. Il risultato - non sorprendente - è che i greci moderni sono figli di Agamennone: buona parte del loro Dna coincide con quello dei micenei, mentre più ridotto è il grado di parentela con i minoici. Sia il Dna di Minosse che quello di Ulisse derivano per tre quarti dal genoma dei primi agricoltori dell’Anatolia occidentale. Da lì, gli antichi uomini dell’età del bronzo (epoca che va dal 3.300 al 1.200 a.C.), avrebbero occupato l’Egeo e Creta. I micenei, in più, mostrano un legame più recente con i popoli delle steppe del Caucaso.
Ricostruzioni come queste sono preziose per dipanare la storia, ad esempio, di alcuni popoli primitivi. Ma di fronte a una civiltà raccontata da Erodoto e Omero, cosa hanno da dire le sequenze di geni sfornate dai computer ultrapotenti del Max Planck Institute, dell’università di Washington o da quella di Harvard? L’articolo di Nature ha aperto un dibattito fra gli esperti su quale possa essere il ruolo della genetica nello studio della storia.
"I risultati confermano quel che si sapeva già” è l’esordio (diplomatico) di Lorenzo Perilli, che insegna filologia classica all’università di Roma Tor Vergata. "Ribadiscono che il miracolo greco non esiste. L’immagine di un popolo che risplende nel suo isolamento, nata fra il ‘700 e l’800, non ha nulla a che vedere con la realtà. Minoici e micenei avevano, come è naturale, legami non solo commerciali, ma culturali e di parentela con le popolazioni vicine". L’origine di una civiltà così raffinata come quella minoica, nel terzo e secondo millennio avanti Cristo, resta avvolta nel mistero anche dopo l’analisi genetica. "Occorrerebbero fonti scritte, molte più di quelle che abbiamo. E purtroppo il Dna non potrà dirci molto a questo proposito" dice Perilli.
Il viaggio degli agricoltori anatolici verso est avvenne - conferma Nature - nel Neolitico. Ovvero diversi millenni prima della fioritura delle civiltà minoica e micenea. L’idea di risalire alle radici di queste migrazioni usando il Dna è venuta a George Stamatoyannopoulos, genetista dell’università di Washington con la passione per la storia. "Da più di un secolo circolano idee controverse sulle origini dei greci" spiega. "C’è l’ipotesi dell’Atena Nera, secondo cui la civiltà classica avrebbe origini afroasiatiche. E c’è l’ipotesi dello storico tedesco Fallmerayer, che nel 19esimo secolo scrisse che i discendenti degli antichi greci si erano estinti nel medioevo". Altre idee sostenevano che i micenei fossero una popolazione straniera arrivata forse da nord, estranea all’ambiente dell’Egeo. E che i minoici avessero un livello di cultura troppo elevato (inclusa una scrittura mai decifrata) per essersi sviluppato fra le rive di Creta. Forse - si arrivò a suggerire - erano i figli di una civiltà molto avanzata che decise di abbandonare la madrepatria.
Queste teorie vengono squalificate dal Dna. "Ma nessuno ci credeva ormai più" chiosa Perilli. "La realtà - spiega Giovanni Destro Bisol, antropologo della Sapienza di Roma - è che questi grandi progetti di genomica stanno soppiantando le ricerche sul campo". Ormai i grossi laboratori come quelli coinvolti nello studio di Nature hanno apparecchiature capaci di sequenziare un intero genoma umano in poche ore. "Hanno una potenza di fuoco enorme, non c’è che dire" prosegue Destro Bisol. "I loro risultati sono estremamente precisi. Ma si è creata una sorta di oligopolio, con pochi grandi laboratori che dominano il campo. I gruppi di ricerca che non hanno grandi risorse vengono tagliati fuori. Questo non è necessariamente un bene nella scienza".
Se Mario Capasso dell’università del Salento, presidente dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, giudica "comunque utili gli apporti della genetica, anche se in questo caso non aggiungono molto a quel che sapevamo già", più perplesso di dichiara Luciano Canfora, filologo classico dell’università di Bari e saggista: "Sono scettico, ma non sono Don Ferrante, non mi intendo dell’argomento e mi auguro fervidamente di essere contraddetto. Facciamo però l’esempio della peste di Atene. Fu narrata da uno dei più grandi storici, contagiato lui stesso, eppure ancora oggi gli scienziati dibattono su quale fosse esattamente la natura dell’epidemia. Quanto ai resti del Dna, che conservazione possono avere dopo tanti millenni?".
Il più critico nei confronti della genetica applicata al Minotauro è sicuramente Mario Torelli, archeologo e accademico dei Lincei. "Una volta, durante un convegno sulla Magna Grecia, arrivai quasi alle mani con un famoso genetista, Luigi Luca Cavalli Sforza" ammette. "Nel Mediterraneo, in epoca paleolitica, ci sono stati spostamenti enormi di popolazioni. E’ successo di tutto, e penso che le informazioni che ci arrivano dalla genetica siano irrilevanti. La storia è un’altra cosa”.
Non aggiungerà nulla di nuovo, ma il Dna degli antichi greci aiuta a fare ordine in un quadro - quello della storia dell’Egeo - dove teorie e ipotesi non sempre scientifiche si sono sovrapposte per secoli. "Le origini della civiltà micenea e greca sono state collegate fin dall’800 alla diffusione dei popoli indoeuropei". Dove per indoeuropei possiamo leggere anche ariani.
"Soprattutto in passato, il concetto è stato molto dibattuto” spiega ad esempio Marco Pacciarelli, che insegna preistoria e protostoria all’università di Napoli Federico II. Una delle tesi suggerite dagli scienziati di Nature è che la piccola differenza fra il genoma dei micenei rispetto a quello dei minoici nasca da una migrazione dall’est dell’Europa. “A parere degli autori questo confermerebbe l’ipotesi, avanzata in passato ma accolta all’inizio con scetticismo, che la lingua indoeuropea parlata dai micenei fosse arrivata in Grecia da qui" spiega Pacciarelli. "Secondo questa teoria, che risale a Marija Gimbutas, un gruppo di pastori e guerrieri delle steppe, sia pur minoritario, sarebbe riuscito a imporre il suo idioma. Della lingua dei minoici, infatti, si sa poco. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che non fosse indoeuropea".
E che gli antichi greci non fossero ariani biondi e con gli occhi azzurri è confermato anche da Nature, che li descrive scuri di occhi e di capelli, con la pelle chiara. Come oggi. E come in fondo li ritraeva l’arte dell’epoca.
*
Sul tema, si cfr.:
la recensione del lavoro di Johann Chapoutot, "Il nazismo e l’antichità", nello "Speciale/Terzo Reich" (Alfabeta-2, 27 luglio 2017): Nazisti antiquari, non filologi di Roberto Danese, con due mie note.
Federico La Sala
’Quando c’era Lui’: una guida alle bufale storiche sul fascismo
di LEONARDO BIANCHI *
Il duce ha inventato le pensioni, ci ha regalato la tredicesima, ha reso grande l’Italia e non era razzista. Anche no.
A partire dal caso della "spiaggia fascista" di Chioggia, per poi passare alla proposta di legge di Emanuele Fiano o alle dichiarazioni (fraintese) di Laura Boldrini sui monumenti del regime, questo luglio ci siamo confrontati praticamente ogni giorno sul fascismo e la sua eredità.
Per alcuni commentatori, l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il Ventennio e dunque è destinata a essere perennemente attraversata da pulsioni nostalgiche o antidemocratiche. Dall’altro lato episodi come quello di Playa Punta Canna sono definiti innocue "goliardate," e insieme a derubricazioni di questo tipo continuano a resistere le argomentazioni più o meno revisioniste-del tipo che nel Ventennio, comunque la si pensi, qualcosa di buono è stato fatto; o che comunque non era così malaccio come ci hanno sempre fatto credere.
Quest’ultimi sono dei refrain che si sentono da tempo immemore, ma che con l’avvento dei social stanno vivendo una sorta di seconda epoca d’oro.
In particolare, proprio in concomitanza con le polemiche delle ultime settimane, sul FascioFacebook (e non solo) hanno ricominciato a girare una serie di miti e leggende sulle grandi conquiste sociali ed economiche del fascismo-conquiste che sono contrapposte alla contemporaneità, e servono sostanzialmente a dire: "Vedete? Mentre i politici di adesso non fanno un cazzo, LVI le cose le faceva sul serio!"
Visto che tali bufale riaffiorano di continuo-e dimostrano un’incredibile persistenza proprio perché distorcono verità storiche e le mescolano con la disinformazione-ho pensato di mettere in fila quelle che hanno avuto più successo e risonanza.
Quella di Mussolini che ha creato da zero il sistema pensionistico di cui godremmo tutt’ora è senza dubbio la bufala più persistente e di successo, al punto tale che un anno fa Matteo Salvini ha dichiarato: "Per i pensionati ha fatto sicuramente di più Mussolini che la Fornero. [...] La previdenza sociale l’ha portata Mussolini."
In realtà, non è proprio così. Come si può agevolmente verificare sul sito dell’INPS, la previdenza sociale nasce nel 1898 con la creazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Si trattava di un’"assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori."
Nel 1919 l’iscrizione alla Cassa diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori. Vent’anni dopo, il regime promuove varie misure previdenziali, tra cui le assicurazioni contro la disoccupazione, gli assegni familiari e la pensione di reversibilità. La pensione sociale, tuttavia, è istituita solo nel 1969-ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini.
Un’altra leggenda che circola molto (soprattutto sotto Natale) è la seguente: se abbiamo un mese di stipendio in più è merito esclusivo della magnanimità di Mussolini. Anche in questo caso, tuttavia, la storia è diversa.
Nel Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro del 1937 venne effettivamente introdotta una "gratifica natalizia." La mensilità in più era tuttavia destinata ai soli impiegati del settore dell’industria; e non ad esempio agli operai dello stesso settore, che anzi si videro aumentare le ore di lavoro giornaliero fino a 10, e 12 con gli straordinari non rifiutabili.
Come scritto in questo post, insomma, si trattava di una misura "in piena linea con quelle che erano le normali politiche dell’epoca fascista, in una società [...] bloccata sul corporativismo basato non sul diritto per tutti, ma sul privilegio di pochi gruppi e settori."
La vera tredicesima è stata istituita prima con l’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946, e poi estesa a tutti i lavoratori con il decreto 1070/1960 del presidente della Repubblica.
Nell’immagine qui sopra, si ricorda enfaticamente che il "Governo Fascista" raggiunse il pareggio di bilancio nel 1924, praticamente grazie alla lotta contro gli sprechi e alla riduzione delle tasse. Morale della favola: con tutte le tasse che ci sono adesso, invece, i conti dello Stato non tornano mai. Ergo: la Casta è inetta, ci soffoca con la pressione fiscale, e dunque si stava meglio prima.
Ora, il pareggio di bilancio fu effettivamente raggiunto (nel 1925, e non nel 1924). Ma come tutte le disinformazioni che si rispettino, si evita accuratamente di dire cose successe prima e dopo il raggiungimento di quel traguardo.
L’artefice fu il ministro delle finanze e dell’economia, Alberto De Stefani. Dal 1922 in poi, l’economista spinse per la liberalizzazione dell’economia, cercò di contenere l’inflazione, ridusse la spesa pubblica e la disoccupazione. La sua politica di "neoliberismo autoritario" era però vista di cattivo occhio sia dalla parte più radicale del fascismo, che soprattutto da latifondisti, industriali e grandi capitalisti.
Non a caso, nel luglio del 1925 venne destituito dopo aver presentato ripetutamente le dimissioni; e da lì in poi iniziò ad assumere posizioni sempre più critiche (non in senso democratico o antifascista, ovviamente) nei confronti del regime e della sua nuova politica economica che-tra la Grande Depressione, l’autarchia e tutto il resto-portò il paese allo sfascio. Per citare un articolo che si è occupato di smontare il messaggio implicito di questo mito, "un modello che è crollato su se stesso non è il miglior modello."
Anche la storia della prodigiosa ricostruzione del Duce dopo il terremoto del Vulture (in Lucania) del 23 luglio 1930 è piuttosto ricorrente.
La fonte primaria, ripresa dai siti di estrema destra e replicata in vari meme, è un articolo del Secolo d’Italia pubblicato dopo il terremoto che l’anno scorso ha colpito il centro Italia. In esso si sostiene che in appena tre mesi si costruirono 3.746 case e se ne ripararono 5.190, e si infila pure il commento agiografico "altri tempi, ma soprattutto altre tempre..."
Il dato è però parziale e decontestualizzato. Come si può verificare dal sito dell’INGV, nell’ottobre del 1930 furono ultimate "casette asismiche in muratura corrispondenti a 1705 alloggi" e "riparate dal genio Civile 2340 case." Solo nel settembre del 1931-a operazioni ultimate-si raggiunge la cifra indicata nell’articolo, che corrisponde a 3.746 alloggi in 961 casette. Insomma: i numeri sono comunque rilevanti per l’epoca, ma non è semplicemente vero che in appena tre mesi fu ricostruito tutto da zero.
In questa immagine, rivolta a tutti quelli che "NON L’AMMETTERANNO MAI," si sostiene con la forza di una bella scritta in maiuscolo che il fascismo avesse reso l’Italia-tra le varie cose-"una nazione faro per scoperte scientifiche."
Nei primi anni del regime però, come ricostruisce dettagliatamente questo articolo sulla Treccani, il governo "aveva sostanzialmente ignorato tutte le questioni connesso con l’organizzazione della struttura di ricerca scientifica," che rimaneva quella dell’Italia liberale ed era carica di problemi. Nel 1923 venne avviato il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche), la prima struttura deputata a svolgere ricerca "su temi di interesse generale." La sua attività fu subito caratterizzata dalla penuria dei finanziamenti, segno della "scarsa fiducia nel nuovo ente che ancora nutriva Mussolini."
Col passare degli anni, nonostante i proclami e la propaganda, il CNR non divenne mai incisivo e non produsse nulla di significativo, soprattutto perché la sua unica indicazione di ricerca era quella per l’autarchia-un’indicazione troppo generica. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, poi, "allontanò in modo generalizzato i più giovani tra ricercatori, assistenti, tecnici di laboratorio e, in breve tempo, il lavoro scientifico rallentò fino alla quasi totale paralisi."
Nel 1938, a riprova di quanto al fascismo non fregasse nulla della scienza, l’ambiente scientifico italiano era stato travolto dal più infame e antiscientifico degli atti politici del regime: la promulgazione delle leggi razziali. Il che mi porta all’ultima leggenda che ho scelto per compilare questa lista.
Con ogni probabilità questa è la mistificazione più odiosa, che fa leva sul radicato stereotipo del "bravo italiano" e del "cattivo tedesco."
Se è vero che in un primo momento i rapporti tra gli ebrei e il fascismo furono "normali," e lo stesso Mussolini-nel libro Colloqui con Mussolini-disse che "l’antisemitismo non esiste in Italia," le cose cambiarono progressivamente con la torsione totalitaria del regime e sfociarono infine nelle persecuzioni.
La maggior parte della storiografia è ormai concorde sul fatto che l’antisemitismo e le leggi razziali non furono introdotte per imposizione della Germania-il Manifesto della razza, ad esempio, pare che sia stato scritto dallo stesso Mussolini.
Piuttosto, come sostiene lo storico Enzo Collotti, la "spinta a una politica della razza nel fascismo italiano" da un lato era "iniziativa e prodotto autonomo" del regime-specialmente dopo il 1933 e l’affermazione del nazismo-e dall’altro era una scelta "connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale."
Lo stesso discorso si può fare con la "civilizzazione" delle colonie, che si pone in perfetta continuità con quanto detto sopra. Secondo Collotti, la guerra d’aggressione contro l’Etiopia nel 1935 è stata "l’occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell’Italia fascista"; e dopo la conquista del paese-mai completata fino in fondo-"fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid."
Dire che il fascismo non era un regime razzista è negare una delle sue caratteristiche fondamentali. Se si porta all’estremo questo ragionamento, si finisce col dire che il fascismo non era fascista. E non penso che al Duce farebbe molto piacere, no?
* FONTE. VICE.COM, Jul 24 2017 (RIPRESA SENZA IMMAGINI E SENZA NOTE).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "LOGO" DI MUSSOLINI. Le radici dell’Eu-ropa e il "fascismo" (di tutte le ispirazioni). Il "gioco" di ogni progetto e "duce" autoritario è stato sempre questo: "AF-FASCInARE" E "AG-GIOGARE" IL POPOLO. NELLO AJELLO ed EMILIO GENTILE fanno il punto.
ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore Napoletano, 11 Marzo 2017)
Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti.
Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti.
Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia.
Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni.
Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.
Mario Avagliano
SUL TEMA, NEL SI SITO, SI CFR.:
“MADDALENA SANTORO E -- "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (S. Urso).
L’infanzia militarizzata tra i banchi
«Educati alla guerra» di Gianluca Gabrielli, per ombre corte. Il programma fascista per vigilare sul «destino della razza»
di Girolamo De Michele (il manifesto - 7.3.2017)
In un libro di letture per le classi terze dei centri rurali dall’emblematico titolo L’aratro e la spada del 1940 si trova questa poesia: «Dieci mesi: quattro denti / fermi nitidi lucenti; / quattro punte da cacciare / già nel pan che mamma affetta; / quattro spade da mostrare / al nemico che ti aspetta».
In pochi versi si addensa un’intera filosofia di vita «completamente immersa nella lotta per l’esistenza contro i nemici che sono sempre in agguato minacciosi»: così, in Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (ombre corte, pp. 128, euro 13) commenta Gianluca Gabrielli, già autore di importanti studi sull’educazione scolastica fascista. Il tema dei denti come arma è, del resto, rilevante: dalle letture reazionarie del darwinismo che vedevano nella dentizione il segno di quell’animalità irrazionale che mostra il retaggio della bestia si passa alle dottrine fasciste (si pensi a Gehlen), che vedono nelle istituzioni il solo freno possibile all’ingovernabilità degli istinti.
GABRIELLI HA IL MERITO di mostrare come il programma fascista di «vigilare il destino della razza, curare la razza a cominciare dalla maternità e dall’infanzia» (Mussolini) si sia concretizzato in peculiari dispositivi disciplinari che iscrivono razzismo e nazionalismo entro un bio-potere che prendeva in gestione l’intera popolazione sin dalla prima infanzia, assicurando non solo la disciplina, ma soprattutto la regolazione della vita. Ma anche, che il fascismo si è servito di immagini, discorsi, propagande che prendono le mosse con la guerra di Libia e la Grande Guerra: in questo modo, attraverso la designazione dell’altro come nemico connotato in senso razziale, si è assicurata, per dirla con Foucault, «la funzione della morte nell’economia del bio-potere in base al principio che la morte degli altri equivale al rafforzamento di sé stessi in quanto razza o popolazione». Aver richiamato l’attenzione sull’ordine del discorso razzistico della Grande Guerra rimosso - meglio: forcluso - dall’identità italiana è uno dei molti meriti di questo volume.
DALLE COPERTINE di quaderni e diari alle esercitazioni paramilitari nelle scuole, dalla quotidianizzazione di oggetti come le maschere antigas e le bombe a mano, di giochi di guerra e di decaloghi differenziati per genere - il balilla deve sapere che «la Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina», laddove la piccola italiana impara che «la patria si serve anche spazzando la propria casa» - si concretizzano la «democratizzazione» (Hobsbawn) e la «banalizzazione» (Mosse) della guerra: la guerra e la morte sono presenze costanti, dunque «banali», nella tempo dell’infanzia.
Ancor più che l’intuibile militarizzazione del gioco e delle attività sportive, è nei piccoli oggetti quotidiani che si mostra la pervasività del disciplinamento. Esemplare è il caso dei ricostituenti per l’infanzia (il celebre Ovomaltina), che in principio costituiscono «una specie di risposta riflessa della borghesia verso i propri figli», messi in pericolo dal contatto con le classi sociali più povere; in seguito le loro réclame machiste in stile futurista mostrano che l’infanzia è divenuta oggetto di interesse per lo Stato, e che il disciplinamento investe anche l’estetica del corpo: un sussidiario per la quinta classe sottolinea, infatti, che «la bella forma del nostro corpo è data dunque dai muscoli e un atleta si distingue dalla forte muscolatura. Il corpo del poltrone è invece floscio, molle, brutto a vedersi», e conclude, rivolgendosi al balilla: «Tu come diventerai?».
Questo pregevole studio ci mostra, insomma, che il fascismo non è solo un regime storicamente determinato con un inizio e una fine: è un ordine del discorso che non cessa con la caduta del Regime. E dunque, la lotta contro il fascismo è lotta contro il suo ordine del discorso: questo significa valorizzare quelle lotte svalutate come «lotte per i diritti» che invece individuano nel rovesciamento dell’ordine simbolico maschile, eterosessuale, bianco, occidentale il loro punto di attacco.
D’ALTRO CANTO, non va dimenticato che lo stesso socialismo ottocentesco (ma anche staliniano) non è stato immune da derive razzistiche: lo è stato solo quando ha posto il principio della trasformazione delle condizioni economiche come principio di trasformazione dello Stato (si veda l’ultima lezione del corso di Foucault Bisogna difendere la società).
Se al livello dei processi economici si sostituisce il discorso populistico, alla lotta di classe il «popolo che s’è rotto i coglioni» e la politica del vaffa, il razzismo riemerge. E libri come questo diventano ancora più urgenti e attuali.
Nazismo
La «cultura» della purezza razziale
La concezione che portò allo sterminio di massa fu attuata non solo da Hitler e dal partito, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi e giornalisti
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.10.2016)
Nel 1945, diciotto medici tedeschi di un ospedale pediatrico furono processati dal tribunale di Amburgo, su iniziativa delle truppe di occupazione britanniche, perché accusati di aver assassinato con iniezioni letali cinquantasei bambini malati. Il direttore dell’ospedale respinse l’accusa di «crimine contro l’umanità» perché tale crimine, disse agli inquirenti britannici, «non può essere commesso che contro uomini, mentre gli esseri viventi di cui dovevamo occuparci non possono essere qualificati come “esseri umani”». Cinque anni dopo, i giudici assolsero gli imputati affermando di «aver creduto alla legalità dei loro atti».
Inizia con questo episodio un’ampia indagine dello storico francese Johann Chapoutot sul modo di pensare e di agire dei nazisti, ricostruito con una folta documentazione di oltre milleduecento libri e articoli pubblicati durante il regime nazista negli ambiti più vari, dai testi ideologici alla letteratura pedagogica, dal diritto alla medicina, dalla biologia alla filosofia, dall’antropologia alla storia e alla geografia, con l’aggiunta di una cinquantina di film prodotti dal Terzo Reich. Dall’indagine, suddivisa per temi, emerge un’elaborata e coerente concezione nazista del mondo, che fu messa in pratica durante i dodici anni del dominio hitleriano. Il nazismo attuò così una rivoluzione culturale oltre che politica, per istituire un diritto, una morale, un’etica e una religione esclusivamente tedesche, fondate sulla superiorità biologica della razza germanica, e per inculcare nel popolo tedesco l’imperativo categorico di preservare la purezza del sangue, che era l’essenza della sua superiorità su tutte le altre razze.
Milioni di tedeschi si convinsero che per preservare l’integrità e la salvezza della razza germanica, era necessario eliminare con la sterilizzazione o l’eutanasia le persone afflitte da mali ereditari; impedire la contaminazione biologica con altre razze; invadere i Paesi dell’Europa orientale per conquistare spazio vitale alla razza germanica e sottomettere gli slavi come schiavi.
E soprattutto si convinsero della necessità inevitabile di una spietata guerra razziale contro gli ebrei, fino alla loro totale eliminazione, perché da seimila anni l’ebreo era il nemico naturale del popolo tedesco, un pericolo mortale per la sua purezza e la sua integrità, come il bacillo della tubercolosi per un corpo sano e vigoroso.
Per molti decenni dopo la fine del regime hitleriano, la concezione nazista del mondo è stata considerata dagli storici una paccottiglia di farneticanti elucubrazioni, esibite da folli criminali per adornare con arcaici miti una sfrenata libidine di potere, che alla fine si sfogò con una barbarica guerra di conquista e con il sadico sterminio organizzato di oltre cinque milioni di ebrei. La follia, la barbarie, il sadismo apparivano motivi sufficienti per spiegare storicamente la criminalità del nazismo, alimentata anche dall’avidità di un capitalismo imperialista che per due volte nell’arco di trent’anni aveva tentato di dare l’assalto al potere mondiale provocando due guerre mondiali.
Comune a queste interpretazioni, osserva Chapoutot, era la «disumanizzazione dei protagonisti del crimine nazista», ma in tal modo, aggiunge, «facendo di loro dei soggetti estranei alla nostra comune umanità, noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, insomma su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro», confortandoci al pensiero che «l’idea secondo la quale noi potremmo condividere qualcosa con gli autori di tesi e crimini così mostruosi ci ripugna».
Pur se legittima, tale ripugnanza ci induce però a eludere questioni fondamentali della nostra storia e del nostro tempo, perché le idee della concezione nazista del mondo erano solo in minima parte originaria produzione dei nazisti: «Né il razzismo, né il colonialismo, né l’antisemitismo, né il darwinismo sociale o l’eugenismo sono nati tra il Reno e Memel». Inoltre «la Shoah avrebbe provocato un numero molto minore di vittime se non ci fosse stato lo zelante concorso di poliziotti e di gendarmi francesi e ungheresi», insieme a «innumerevoli nazionalisti baltici, volontari ucraini, antisemiti polacchi, alti funzionari e uomini politici pervasi da volontà di collaborazione». Come lo furono, in Italia, politici, funzionari e intellettuali fascisti.
Vi erano tuttavia movimenti culturali tedeschi che fin dall’Ottocento avevano diffuso con convinzione le idee sopra citate, e la loro presenza favorì il successo della concezione nazista, che dopo il 1933 fu messa in pratica con ossessiva tenacia non solo da Hitler e dal partito nazista, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi, ideologi e giornalisti, con l’ausilio del cinema di finzione e del cinema documentario. Milioni di tedeschi, sia persone di elevata cultura sia gente comune, si convinsero che gli ebrei tramavano da seimila anni per distruggere il popolo tedesco, inquinandolo con incroci di sangue e con idee disgregatrici, come il cristianesimo, il diritto romano, l’individualismo, l’universalismo, l’umanitarismo, il liberalismo, il socialismo, il bolscevismo. Queste idee minavano le virtù, la morale, l’etica, le tradizioni e l’integrità della comunità germanica.
Fu la concezione nazista del mondo, diffusa con martellante, capillare, pervasiva propaganda quotidiana, a trasformare milioni di uomini e donne, non predestinati alla follia né al crimine, in zelanti esecutori della persecuzione e dello sterminio. Ogni tentazione alla pietà fu anestetizzata con l’invocazione della necessità di agire con mezzi spietati per annientare i nemici della razza germanica che da seimila anni tramavano per annientarla.
Conoscere il modo di pensare e di agire dei nazisti considerandoli uomini cresciuti e vissuti in contesti particolari, con un proprio universo di significati e di valori, è il compito proprio dello storico, afferma Chapoutot. Ciò non attenua affatto la mostruosità delle idee e dei crimini nazisti: anzi, rende ancora più consapevoli della sua gravità, perché nulla esclude che tale mostruosità possa ripetersi, con altre idee e in altri contesti, nell’azione di altri uomini convinti che essa sia necessaria per salvare la propria comunità.
Il nazismo non ha passato? Prendiamoci quello di Sparta
Così il Terzo Reich venerò (e falsificò) l’antichità classica per teorizzare la millenaria unità razziale di greci, romani, tedeschi
di Massimiliano Panarari (La Stampa, Tutto Libri, 08.07. 2017)
La fabbricazione del mostro fu accompagnata da un fittissimo dibattito. Un lavoro che vide saldarsi la febbrile attività di tutto un arcipelago intellettuale e la ricerca di pilastri ideologici da parte del nazismo, e che iscrisse nel dna sottoculturale del Terzo Reich un’autentica adorazione per la classicità.
Un’antichità greco-romana naturalmente immaginaria, reinventata all’insegna di una delle varie operazioni di falsificazione della storia compiute dal brodo di coltura e dalle uova del serpente da cui scaturì il nazionalsocialismo, e che venne istituzionalizzata in maniera massiccia dall’hitlerismo perché la relazione con il passato, il luogo temporale e simbolico delle «sacre» origini, risulta fondativa (come mostrano, per esempio, le politiche artistiche, totalmente impermeabili, a differenza di quelle dello stesso fascismo, rispetto a qualunque espressione della modernità).
Il retaggio del sangue, difatti, insieme al differenzialismo biologista, doveva servire a smantellare i messaggi e il progetto dell’Illuminismo. L’eredità aveva la funzione di contrastare le «pretese» della libertà e di forgiare l’uomo nuovo del regime, perseguito per via fisiologica attraverso l’eugenismo e il biologismo (e la «zootecnia di Stato»). Da cui l’invenzione della tradizione del nordicismo, nella quale vennero inserite in maniera coatta anche la Grecia e Roma, all’insegna della «favola bella» (implementata nel film horror dello sterminio del «diverso») di un indogermanesimo ariano che si era propagato per il globo, partorendo anche le civiltà della classicità.
Partendo non dall’India, bensì dalle terre della Germania del nord: ex septentrione lux, come sosteneva ossessivamente, rovesciando il paradigma hegeliano della civiltà che da Oriente si dirigeva a Occidente, il potentissimo ideologo del Terzo Reich Alfred Rosenberg, e come proclamava la dottrina nordicista di Hans Günther, il razziologo ufficiale della Nsdap (il partito nazionalsocialista dei lavoratori).
Il Führer disprezzava i germani li considerava troppo primitivi a confronto di Atene o Roma
Ne Il nazismo e l’Antichità, il giovane e rinomato storico della Sorbona Johann Chapoutot (membro dell’Institut universitaire de France e commentatore del quotidiano Libération) prosegue il suo lavoro di ricostruzione del gigantesco edificio ideologico che ha sorretto il nazismo.
In questo volume lo fa dall’angolazione di un funzionale immaginario classicista al quale contribuirono teorie immonde, dottrine strampalate (come quella, ricolma di occultismo, su Atlantide, peraltro presto emarginata) e una cieca e sanguinaria volontà di potenza, e in cui si giocava l’opportunismo delle carriere di gerarchi in competizione tra loro provenienti da una galassia di organizzazioni (come la Società Thule e le altre sette del nazismo magico).
Una vasta opera di genealogia quella compiuta dallo studioso, che restituisce un quadro estremamente articolato, dal momento che tutte le discipline della «governamentalità biopolitica» - dalla «scienza delle razze» a quella preistorica, dall’antropologia alla propaganda, dalla pedagogia all’estetica, dalla geopolitica alla «scienza giuridica» - vennero messe al servizio del radicamento nel popolo nazificato dello stereotipo di un antico Mediterraneo nordico.
Sebbene con ragguardevoli divergenze di vedute nelle alte sfere: come nel caso del conflitto che contrappose il Führer, pieno di disprezzo nei confronti dei germani considerati troppo primitivi a confronto dei venerati greco-romani (nelle cui lande mediterranee, come «spiegava» la teoria dei climi, il «genio nordico» aveva trovato condizioni meteorologiche più favorevoli per essere rigoglioso), e il germanomane Heinrich Himmler, a cui rispondevano gli archeologi-Ss (resi popolari dagli scontri cinematografici con Indiana Jones) dell’Anhenerbe, la «società di ricerca dell’eredità ancestrale» (fortemente influenzata dall’esoterismo), sguinzagliata ai quattro angoli d’Europa a caccia delle supposte tracce primigenie della razza ariana.
E negli anni Trenta e Quaranta, mentre il filo-elleno Heidegger si dedicava al ripristino dell’originario «pensiero dell’essere» presocratico, i circoli accademici si applicavano alla narrazione di un «Platone nordico», teorico di uno Stato razzista totalitario e di una comunità organicista, una sorta di «filosofo-re» precursore di Hitler, l’autentico «pensatore ufficiale» (perfino più di Nietzsche, come scrive Chapoutot) di quel Terzo Reich che coincideva con la «seconda Sparta».
Un progetto totalitario che si appropria di arti plastiche battaglie, eroi leggendari
Un repertorio sterminato quello del «discorso delle origini», che andava dall’architettura imperiale all’imperialismo come riedizione della colonizzazione romana, fino al nichilismo della catastrofe pensato come grande spettacolo e ultima coreografia che, di fronte all’offensiva del «giudeo-bolscevismo» e del «Cristo-bolscevismo», doveva spronare all’odio razziale e a una possibile futura vendetta contro ebrei e nazioni liberali. Continuando, così, sino all’atto finale il parallelo tra Roma e il Reich.
I 12 professori che 85 anni fa rifiutarono il giuramento fascista
Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 apparve il regio decreto n. 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, il licenziamento.
di Marcello Ravveduto *
Nella vulgata nazionale sono molti i passaggi storici del fascismo noti al grande pubblico: dalla marcia su Roma, all’assassinio di Matteotti e dei fratelli Rosselli, dalla guerra d’Etiopia alle leggi razziali, dall’alleanza con Hitler alla caduta del regime, dalla Repubblica di Salò alla fucilazione di Mussolini, con l’esposizione del cadavere a Piazzale Loreto.
Non da tutti, invece, è conosciuta una vicenda minore (paragonata ai maggiori misfatti) accaduta 85 anni fa. Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 è pubblicato il regio decreto n. 1227. Il dispositivo è stato voluto dal ministro per l’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, ispirato dal filosofo Giovanni Gentile, a cui il dittatore ha affidato il compito di edificare le fondamenta culturali del fascismo. In apparenza è “solo” uno dei tanti provvedimenti del regime fascista che vuole imporre nuove regole di controllo all’ordinamento universitario. Ma se leggiamo l’articolo 18 ci rendiamo conto che si tratta di un vero e proprio attacco all’autonomia dell’accademia:
«I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio».
S’impone a tutti i docenti un giuramento di fedeltà al fascismo. In precedenza esisteva un giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, mai rifiutato dai professori, salvo che nella Roma del 1870, in polemica con la conquista da parte dei Savoia. Già nel 1925, agli esordi della dittatura, c’era stato uno scontro tra fascisti e antifascisti in merito all’autonomia delle Università. Il 21 aprile (nel giorno del compleanno di Roma) Giovanni Gentile, su esplicita richiesta di Mussolini, si fa promotore di un manifesto degli intellettuali organici in cui si afferma la volontà di superare tramite il fascismo - che si presenta come azione, ma anche come «atteggiamento spirituale» - l’idea di un’Italia decadente, dal dilagante individualismo e dalla vita pubblica asservita al “particulare”. Duecentocinquanta sono i sottoscrittori del manifesto fascista.
La risposta degli intellettuali antifascisti è immediata: il 1˚ maggio su "Il Mondo", Benedetto Croce pubblica il suo "Manifesto”, in sintonia con le più importanti voci della cultura europea, esprimendo preoccupazione e sdegno verso chi tradisce l’autonomia della cultura e «pretenderebbe piegare l’intellettualità a funzioni di instrumentum regni». Il gruppo dei firmatari dell’appello crociano sarà molto ampio e, come riconosce la stessa stampa fascista, ben più autorevole di quello avversario. Ma soprattutto, gli atenei di tutta Italia sottoscriveranno compatti la protesta.
Dopo sei anni, con l’avanzare della fascistizzazione dello Stato e del conformismo sociale e civile, la situazione è completamente mutata. Quando nell’ottobre dello stesso anno i docenti saranno chiamati a rispettare la cogenza del giuramento non vi sarà nessun moto di indignazione: solo 12 professori su 1225 rifiutano l’atto di sottomissione al regime (in realtà qualcuno ne conta 16 o 17).
Chi erano questi coraggiosi scienziati? Francesco Ruffini, Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi della Vida, Edoardo Ruffini Avondo, Fabio Luzzatto.
«Ho un’invincibile ripugnanza per il bel gesto! (...) Se potessi scivolare via con un qualsiasi pretesto, la cosa mi sarebbe assai più facile». Così scrive Edoardo Ruffini, il più giovane tra i professori che respingono il giuramento, nel momento in cui prende la drammatica decisione. Nessuno di loro è un pericoloso sovversivo, né hanno la stessa estrazione sociale, fede o cultura: gli altoborghesi si mescolano ai figli di commercianti, gli ebrei agli anticlericali e ai cattolici devoti, i repubblicani ai monarchici. Sono nient’altro che uomini dal radicato civismo, dalla forte moralità e dotati certamente, questo sì, di un’indole ribelle e poco incline al conformismo imperante. A cominciare da Gaetano De Sanctis che - come il padre ufficiale papalino renitente a dichiararsi fedele a una Roma ormai capitale d’Italia - ritiene il giuramento una menomazione della sua libertà interiore. O come l’anziano Bartolo Nigrisoli, che all’età di 73 anni non si scompone all’idea di essere allontanato dalla cattedra di chirurgia: «Giuramento simile io non mi sento di farlo e non lo faccio», esclamerà in piena coscienza.
Eroica è la figura di Mario Carrara, assistente e genero di Cesare Lombroso (di cui eredita la cattedra di antropologia criminale), che con imperturbabile purezza intellettuale scrive al ministro: «Abituato all’attribuire al giuramento la serietà dovuta, non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, finalità politiche alla mia attività didattica». Il rifiuto di aderire all’articolo 18 del regio decreto è il primo manifestarsi di un crescente sentimento antifascista che in seguito lo porterà in carcere. Il prestigioso docente festeggerà il suo settantesimo compleanno nel carcere "Nuove" di Torino dove per tanti anni i detenuti lo hanno visto impegnato nella sua attività scientifica.
Nei giorni successivi la propaganda fascista commenta beffarda il gesto di diniego. “Il popolo toscano”: «Undici su milleduecentoventicinque. Fa ridere! Sinceramente vorremmo che fossero altrettanti i malati in confronto ai sani, i rachitici a paragone con i fisicamente robusti, i deficienti con gli intelligenti, i disonesti di fronte ai virtuosi...». “Il Bargello”: «Fuori dalle nostre Università, fuori dai nostri laboratori, fuori dall’Insegnamento Italiano, fuori, fuori!». “Il Popolo di Lombardia”: «Confidiamo nell’erompente fede fascista dei gruppi universitari. È fatale che i giovani, nel campo della passione politica, siano all’avanguardia e insegnino moltissime volte la strada agli anziani».
La conseguenza per tutti è l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Alcuni vanno all’estero, altri rimangono e saranno reintegrati dopo la caduta del fascismo. Se volessimo trovare un minimo comune denominatore tra i 12 ribelli dovremmo notare che 9 su 12 sono di origine piemontese e hanno vissuto o insegnato all’Università di Torino. Hanno invece origine ebrea (o vivono in ambiente di cultura ebraica) 5 dei 12. Le discipline interessate sono: Diritto (Ruffini padre e figlio, Luzzatto); Storia del cristianesimo e antica (Buonaiuti, De Sanctis); Filosofia (Martinetti); Storia dell’arte (Venturi); Orientalistica (Levi della Vida); Medicina (Carrara, Nigrisoli); Chimica (Errera); Matematica (Volterra).
Gaetano Salvemini, che dopo l’arresto nel ’25 lascia l’Italia rinunciando alla cattedra di Storia moderna all’Università di Firenze con una lettera molto dura nei confronti del Rettore («la dittatura fascista ha soppresso ... quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia ... perde ogni dignità perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante ...»), rimarrà molto deluso sia della scarsa adesione al rifiuto, sia della modesta reazione internazionale, sia del fatto che fra i 12 non ci sono professori di Storia contemporanea o di Italiano, e nemmeno socialisti. Eppure, come tanti altri faranno, anche lui cercherà di giustificare quelli che hanno piegato il capo.
Del resto sulla questione del giuramento si apre immediatamente un dibattito contrastante che coinvolge professori, intellettuali e politici. Per esempio, pur da posizioni antifasciste distanti fra loro, Croce e Togliatti esprimono la stessa opinione: i professori devono giurare per non lasciare le Università in mano ai fascisti. L’orientamento espresso dal capo del comunismo italiano e dal massimo esponente del liberalismo spinge molti docenti non fascisti o apertamente antifascisti ad accettare l’esercizio di sottomissione. Concetto Marchesi (Letteratura latina all’Università di Padova), militante comunista, dopo una prima decisione negativa, pubblicamente annunciata, accetta con dolore (e vergogna) di giurare, seguendo l’indicazione di Togliatti. Piero Calamandrei (Diritto all’Università di Firenze) e Luigi Einaudi (Economia all’Università di Torino) giurano per non abbandonare l’Accademia ai fascisti. Giuseppe Levi (Anatomia all’Università di Torino) dopo un primo annuncio negativo, decide con dolore di giurare per non abbandonare gli allievi.
Molti provano a separare la pratica burocratica dal proprio sentire come se fossero in uno stato di sospensione mentale. Alessandro Levi (Filosofia del diritto all’Università di Parma) e il cugino Tullio Levi Civita (Meccanica Razionale all’Università di Roma) si consultano e concludono di accettare perché il giuramento non tocca il loro insegnamento. Anche Edoardo Volterra (Diritto romano all’Università di Parma - figlio del matematico Vito che non ha giurato) specifica che l’atto dovuto non inciderà sul suo insegnamento. Giacomo Devoto (Glottologia all’Università di Padova) dichiara, invece, che il giuramento non ha valore per lui ma gli serve per continuare a lavorare. Gioele Solari (Filosofia del diritto all’Università di Torino, maestro di Norberto Bobbio) e Arturo Carlo Jemolo (Diritto canonico all’Università di Bologna) giurano con dolore per motivi economici.
E la Chiesa? Come si comporta il Vaticano nei confronti del giuramento che costringe anche i professori cattolici ad «adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista»?
Pio XI, contrario al giuramento, concepisce un’interessante proposta di compromesso: i professori cattolici possono giurare, ma con riserva (non è chiaro se mentale o esplicita e dichiarata) di non contraddire i principi cattolici. Dà quindi incarico al rettore della Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli, di trattare con Balbino Giuliano e Mussolini l’esclusione dal giuramento dei soli professori dell’Università Cattolica. La deroga è concessa, ma con un’altra riserva (da parte del regime fascista): si proponga a tutti i professori della Cattolica un giuramento volontario. Tutti giurano volontariamente (con la riserva indicata da Pio XI), tranne quattro professori, fra i quali spicca lo stesso padre Agostino Gemelli.
Tra i ribelli solo Mario Carrara e Francesco Ruffini provano ad organizzare due tentativi di protesta. Il primo giunto a Ginevra nel novembre del 1931 stende, con il cognato Guglielmo Ferrero (che ha sposato l’altra figlia di Lombroso), un appello di protesta indirizzato all’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale operante a Parigi nell’ambito della Società delle Nazioni. Grazie all’ampia rete di relazioni che i due mantengono all’estero, in pochi mesi si raccolgono numerose adesioni. Quasi milletrecento i firmatari tra insegnanti, giornalisti, intellettuali. Tra essi Miguel de Unamuno, docente a Salamanca, John Dewey della Columbia University, Bertrand Russel. Le condanne sono nette. Il filologo Albert Dauzat parla di «una ignominia», "The Economist" del 26 dicembre riguardo i dodici scrive che «il mondo deve portare ad essi gratitudine per la testimonianza agli ideali di libertà e dell’onestà intellettuale».
La stampa fascista contrattacca. La petizione degli intellettuali è definita «ridicola», «illecita», «arbitraria ingerenza», «infantile insolenza». "Il Messaggero" considera le reazioni internazionali «un’intrusione molesta» nelle «cose di casa nostra». "La Gazzetta del Popolo" vede nella difesa dei dodici obiettori l’adesione tenace ad antiche e superate tradizioni «secondo cui le università statali sono luoghi dove ancora sopravvivono i diritti medievali dell’immunità, dell’asilo e della libertà per studenti in sciopero e professori contestatori». Alla fine la Società delle Nazioni, nonostante le molteplici sollecitazioni, decide di non intervenire dichiarandosi incompetente.
Il 6 novembre 1931 Albert Einstein, sollecitato dall’amico Francesco Ruffini (il più illustre dei renitenti - già ministro dell’Istruzione), scrive al responsabile del dicastero della giustizia italiano Alfredo Rocco: «(...)la ricerca della verità scientifica, distaccata dagli interessi pratici della vita quotidiana, dovrebbe essere sacra per qualsivoglia potere statale, ed è sommo interesse di ognuno che gli onesti servitori della verità vengano lasciati in pace. È senz’altro nell’interesse dello Stato italiano e della sua reputazione nel mondo». Rocco, invece di rispondere personalmente, incarica uno dei suoi allievi. Ad Einstein non resterà che annotare nel suo diario: «Eccellente risposta in tedesco, ma la cosa resta comunque una idiozia da gente incolta», e poi profeticamente: «Bei tempi ci aspettano in Europa».
Cosa rimane oggi di quel gesto epico ed eretico? Quanti docenti delle nostre Università, dopo la lezione del fascismo, si comporterebbero allo stesso modo dei dodici antenati di fronte a una dittatura? Una cosa è certa i dodici assunsero sulle loro spalle le insipienze, le paure e le velleità dei colleghi silenti e lo fecero con estrema modestia al punto da convivere con la disperante sensazione di non essere stati all’altezza della situazione, di avere vissuto un momento importante da uomini normali, anzi «mediocri», dirà Levi Della Vida. Avrebbero potuto fare di più? Date le condizioni storiche non credo. A mio avviso proprio perché non hanno vissuto quella scelta come un gesto pubblico esemplare, ma come una volontà intima di non svendere la propria dignità personale, dovendo rinunciare all’insegnamento (e al reddito), rappresentano un’anticipazione di quella rivolta morale, individuale prima che collettiva, che usiamo chiamare Resistenza; per questo oggi e sempre è giusto tramandarne con rispetto i nomi e il ricordo.
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano
Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale, 07 Lug 2016)
Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto.
Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato.
Davvero è successo?
Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia?
Davvero l’Italia è peggio di Boko haram?
Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia.
Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
“Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura.
Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista.
A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound . E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso. Sul luogo dell’omicidio a Fermo, il 7 luglio 2016. - Cristiano Chiodi/Sandro Perozzi, Ansa Sul luogo dell’omicidio a Fermo, il 7 luglio 2016. (Cristiano Chiodi/Sandro Perozzi, Ansa)
Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre.
Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere.
L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”.
In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.
Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini....
La macchina del razzismo
Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”.
Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata.
Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”.
Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Il senso dell’onnipotenza
Dagli Usa a Fermo. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza
di Alessandro Portelli (il manifesto, 08.07.2016)
Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere - la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere....”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno... E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso - condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere.
Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.
E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.
In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità - fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.
I confini del Mein Kampf
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 16.06.2016)
HO LETTO la prefazione che lo storico contemporaneista Francesco Perfetti (Luiss, Roma) antepone per una dozzina di pagine al volume. Nonostante le dichiarate simpatie politiche del professor Perfetti, la presa di distanza dallo scritto di Hitler è abbastanza netta anche se un tema così sanguinoso avrebbe meritato ben altro approfondimento. Una cautela editoriale comunque fragile. Il volume riproduce in anastatica l’edizione fascista pubblicata (Bompiani) tra il 1934 e il 1937.
C’è la breve prefazione allora scritta ad hoc dal Fuhrer e una “Vita di Adolf Hitler” redatta con molta enfasi. Il tono di questi contributi stabilisce la vera temperatura del volume delineando la figura di un eroe, come del resto l’asservimento dell’Italia fascista al Reich imponeva. Nulla quindi a che vedere con le cautele storico-critiche di ben altra serietà adottate in Germania dopo lungo dibattito.
Non so perché il direttore de Il Giornale abbia preso una decisione di tale gravità. Sono state fatte molte ipotesi che vanno dalla simpatia personale per quei giorni al calcolo elettorale in vista dei ballottaggi. Si tratta di illazioni e non ho elementi per commentarle. So per certo che pubblicare un volume che ha avuto un tale peso criminale nella storia umana comporta una responsabilità morale (come sottolinea anche la signora Heymann) che la frettolosa edizione italiana, a voler essere benevoli, ignora: il 1937 è l’anno che precede la promulgazione delle leggi razziali il cui fondamento si trova in queste pagine.
Mein Kampf in edicola, scherzare con il fuoco
L’iniziativa de Il Giornale. La scelta di Sallusti non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili. Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
di Enzo Collotti (il manifesto, 14.06.2016)
La trovata de Il Giornale di distribuire il Mein Kampf per aumentare le vendite è semplicemente indecente. Non si capisce se è una trovata spregiudicata o se vuole essere un ammiccamento morboso ad uso di un pubblico sicuramente non avvezzo a bocconi così forti.
Certo non è una lettura neutrale, e il proposito di farne l’introduzione ad una serie di pubblicazioni sul nazismo non rende l’idea meno perversa. Essa sfrutta l’appeal che continua ad avere il Führer in virtù dell’attrazione del mostro ma senza fornire gli strumenti per neutralizzarlo.
È un po’ scherzare con il fuoco, come se in un frangente in cui tornano virulenti populismi e razzismi nelle più diverse matrici ci fosse ancora bisogno di normalizzare l’orrore offrendolo in pasto agli ignari lettori fuori dal contesto in cui il Führer lo concepì e a distanza di quasi un secolo dalla sua originaria pubblicazione.
Un anacronismo, si direbbe, se non fosse che c’è ancora qualcuno che pensa a pulizie etniche, a muri di separazione, a gerarchie di razza, ad egoistici esclusivismi e che potrebbe trovare in un simile oggetto incoraggiamento e argomenti.
Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo uscito dalla sconfitta, dalla catastrofe economica e dalla demoralizzazione e che prometteva con freddo calcolo l’assassinio di milioni di esseri umani, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
Il fatto singolare è che mentre in Germania, come cercheremo di spiegare in altra sede, si procede con cautela a ristampare con un’edizione «critica», corredata da un autorevole e anche troppo pignolesco commento di accompagnamento, il testo incriminato, in Italia senza troppi complimenti lo si distribuisce quasi gratuitamente e senza troppo curarsi della sua correttezza non dico filologica ma neppure logica.
Si tratti di una consapevole provocazione o di una operazione mirata e sicuramente male architettata, l’iniziativa de Il Giornale non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili che sono messe a confronto con uno dei capolavori del pensiero perverso senza essere necessariamente preparati a svelenirne il contenuto.
Sarebbe vano invocare censure, dovremmo contare solo sulle capacità di ciascuno di esercitare la propria censura interna e di avere una cultura e un’educazione storica e politica superiori a quella dei media che insieme al buon senso insidiano la buona fede e la curiosità dello sprovveduto lettore attratto dall’apparente novità nel singolare quanto orrido messaggio.
Mein Kampf
Non è un libro normale, è un inno allo sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 14.06.2016)
Hitler non si addice alle edicole. La scelta di «regalare» Mein Kampf come allegato deve essere condannata con grande fermezza da una società civile. Quali che siano i motivi reconditi che possono aver spinto il Giornale a diffondere il libro di Hitler, si tratta di una scelta gravissima, irragionevole e ingiustificabile.
Questo fatto - come ha dichiarato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme - è «senza precedenti». Non stupisce che la stampa internazionale abbia dato rilievo alla notizia. Dalla Frankfurter Allgemeine a Die Welt e al Washington Post , per citare solo alcune testate, lo sconcerto è unanime. E ci si chiede come mai, nell’Italia di oggi, Hitler possa tornare a essere popolare.
Il «regalo» è giunto sabato scorso - per gli ebrei alla vigilia di Shavuot, la festa in cui si ricorda il dono della Torah, il Libro dei libri. Triste coincidenza, dunque, che nelle edicole di un Paese europeo, coinvolto nello sterminio, girasse la «Bibbia del nazismo». Né si può sorvolare su una coincidenza inquietante: solo pochi giorni fa è stata finalmente approvata la legge contro il negazionismo.
Vuoi per richiamo morboso, vuoi per banale interesse, nelle edicole l’allegato è esaurito. Questa sarebbe una operazione culturale? Distribuire il secondo volume del testo di Hitler, intitolato La mia battaglia , nella vecchia edizione Bompiani del 1937? Non è una edizione critica: non ci sono né note, né commenti. Non può farne le veci la breve e discutibile introduzione di Francesco Perfetti, il quale sembra ignorare il successo ottenuto, persino nel mondo accademico tedesco, dall’«antisemitismo della ragione» propugnato da Hitler. L’edizione critica, pubblicata in Germania nel gennaio del 2016, è costituita da due volumi di 2.000 pagine e corredata da ben 3.500 note.
Ma arriviamo al punto. I campioni dell’ultraliberalismo hanno gridato alla censura e si sono appellati alla necessità di leggere Hitler come «documento storico». Qui è bene chiarire: Mein Kampf non è un libro come un altro. Non può essere paragonato ad altri libri antisemiti che hanno propagato e propagano ancor oggi le teorie del complotto. Mein Kampf è il libro che contiene il primo progetto di sterminio planetario del popolo ebraico.
Chi lo ha letto lo sa. E sa giudicare la gravità incommensurabile di quelle pagine che preludono all’annientamento. Per Hitler gli ebrei sono gli «stranieri», che cancellano i confini - quelli geografici e quelli tra i popoli. Distruggono gli altri per dominare il mondo; la loro «vittoria» sarebbe «la ghirlanda funeraria dell’umanità», decreterebbe la fine del cosmo. Il pericolo maggiore viene indicato nella possibile fondazione di uno «Stato ebraico». Perché non ci deve essere luogo alcuno, per gli ebrei, nel mondo. Di qui l’annientamento.
Dare allora queste pagine da leggere senza una guida critica? Certo che occorre conoscere Mein Kampf . E chi responsabilmente si occupa della Shoah lo legge e lo fa leggere. Non era necessario che il Giornale degradasse la cultura italiana per avvertirci che il male si deve conoscere. Noi il male non lo dimentichiamo. Ma siamo convinti che uno studio critico, come quello che d’altronde già si compie in molte università e scuole italiane, sia la strada giusta per conoscere il passato e per guardare con più consapevolezza al futuro.
Leggere il Mein Kampf apre gli occhi
Il volume è utile per capire che il centro delle emozioni dell’estrema destra non è essere forti, ma la paura di essere deboli. Il senso di inferiorità spinge a voler dominare gli altri anche attraverso il terrore
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 14.06.2016)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf. Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo.
Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle. Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf. Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf, questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale. Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla. Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf.
Leggi razziali
I paradossi nella tragedia
Milano, nei documenti depositati dalla Prefettura all’Archivio di Stato le storie della discriminazione prima della Shoah, tra infamie e accomodamenti
di Alberto Mattioli (La Stampa, 10.03.2016)
Ci sono gli elenchi dei beni confiscati nelle case, minuziosissimi, in cucina dieci pentole e in bagno dodici asciugamani. Ci sono le istruzioni dettagliate per i competenti uffici sull’applicazione pratica delle leggi razziali del 1938. Ci sono gli elenchi dei conti correnti e delle cassette di sicurezza di proprietà degli ebrei, trasmessi dalle banche. Ci sono le domande di restituzione dei beni confiscati, per quelli che riuscirono a fuggire in tempo o a sopravvivere.
E soprattutto ci sono 52 cartelle di fascicoli personali, più di seimila persone, intere famiglie, con i ricorsi contro l’accertamento della razza o le domande di «discriminazione» degli ebrei accertati, concesse per meriti militari o di militanza fascista o eccezionali, con un richiedente che domanda di poter tenere a servizio la domestica ariana perché accudisca l’anziana bambinaia ebrea (concesso) e un’altra che non l’ottiene perché un rapporto della Pubblica Sicurezza rivela che il figlio è stato visto portare garofani rossi sulla tomba di Anna Kuliscioff.
La colf ariana
La peggior infamia della storia unitaria italiana diventa una faccenda burocratica, un affastellarsi di carte, verbali di perquisizioni, richieste di pareri, scriventi uffici, domande che si rimpallano i Carabinieri, la Questura, la Prefettura e il ministero dell’Interno, Direzione generale per la Demografia e la Razza. Un perfetto incubo amministrativo, Kafka in ufficio, il male in triplice copia.
Sono 78 faldoni di documenti che, passati i settant’anni di legge, la Prefettura di Milano ha «versato», come si dice in linguaggio archivistico, all’Archivio di Stato di Milano, che oggi alle 17 li presenta con una piccola mostra e un convegno cui partecipano, fra gli altri, il nuovo direttore, Benedetto Luigi Compagnoni, e la paleografa Alba Osimo, docente alla Scuola di Archivistica, che ha letto e catalogato la maggior parte dei documenti. Che poi saranno a disposizione degli studiosi, di chi vuole cercare le tracce di un parente o semplicemente di chi vuole avere un’idea di come nacque la tragedia.
Nulla sulla deportazione e lo sterminio: siamo nella fase precedente, quella della discriminazione, della persecuzione burocratica, della perdita del lavoro, della cacciata dalle scuole e dalle università, dalla Pubblica amministrazione e dalle Forze armate.
In queste carte ci sono infinite storie. Prendete il dottor Segre Enrico di Remo, milanese, abitazione e studio in via Mario Pagano 14, quello che fa con successo la domanda per poter tenere la colf. Sappiamo che si salvò, perché fece poi la domanda di restituzione dei beni. E sappiamo che riuscì a scappare in Svizzera, perché nel suo fascicolo c’è anche una busta aperta. Dentro, una chiave arrugginita, troppo piccola per essere quella di casa e troppo semplice per una cassetta di sicurezza (un tiretto? la buca delle lettere?) e una lettera scritta a mano da una delatrice che si firma con nome e cognome, perfettamente leggibili ma che non riportiamo perché fa ribrezzo scriverli. Racconta, la signora, che il dottor Segre è oltreconfine, lo sanno tutti, e che l’appartamento è vuoto e disponibile, ma la portinaia non fa salire nessuno, il vicino e l’amministratore di condominio le tengono bordone, e insomma con tutto il bisogno di case che c’è perché non aprire questa. E conclude così: «È ora di smetterla con queste vigliaccherie».
Salvo per i denti guasti
Poi, come in ogni tragedia che si rispetti, ci sono le storie paradossalmente buffe. A un altro dottore, Arturo Serena, ne toccano addirittura due. Era un ebreo milanese arrestato a Varese, dove molti andavano per poi passare in Svizzera. L’8 gennaio 1944 - anno XXII, un medico provinciale dalla firma illeggibile va a visitarlo in carcere e stende un rapporto su carta intestata dalla quale (al Nord c’è la Repubblica di Salò) sono stati sommariamente cancellati lo stemma dei Savoia e la «R.» di Regia Prefettura. Il dottore trova che l’ebreo è stato «operato due anni fa di tonsillectomia bilaterale», insomma gli hanno tolto le tonsille, e avrebbe bisogno di fare anche l’appendicite. E «ha inoltre una dentatura parecchio guasta». Stupefacente la conclusione: «Le condizioni di salute del cennato (sic) soggetto non lo rendono idoneo a sopportare il regime del campo di concentramento».
Fuga dalla cantina
E infatti, incredibilmente, il dottor Serena non ci va. Finisce invece ricoverato nella clinica «La quiete» di Varese, di proprietà svizzera. Qui, e siamo al 29 gennaio, i questurini vanno a fare una retata, come da ineffabile gergo poliziesco del verbale, «per prelevare gli ebrei ivi ricoverati onde associarli alle locali carceri giudiziarie, da dove alle ore 16 a mezzo torpedone avrebbero dovuto partire alla volta di Milano». Trovano Serena, gli ingiungono di seguirlo. Il medico chiede di poter almeno prendere gli abiti al piano di sotto. «Il V. Brigadiere Sabbatelli gli acconsentì di scendere dando in consegna alla Gsc. Stasi Alceste il Serena».
Però manca la valigia dove metterli. Serena chiede di andare nello scantinato a prendere un po’ di carta per avvolgerli, lo Stasi Alceste gli dà il permesso controllando prima che non ci siano uscite. Ma «dopo quattro o cinque minuti non avendo lo Stasi visto risalire il Serena, si allarmò precipitandosi nel sotterraneo e purtroppo constatò, con sua grande meraviglia, che nel sotterraneo vi era un’uscita che dava all’esterno, da dove il Serena si era dileguato». Ecco, che il Serena sia riuscito a dileguarsi, dopo settant’anni, ci riempie ancora di gioia.
Italiani in Africa, non solo con Mussolini
Novecento. «L’urlo contro il regime» di Leila El Houssi, per Carrocci: c’erano anche antifascisti in Tunisia
di Gabriele Proglio (il manifesto, 19.11.2015)
Un libro di duecentotrenta pagine per raccontare la Tunisia degli antifascisti italiani tra le due guerre: è L’urlo contro il regime di Leila El Houssi (Carocci, pp.232, euro 22). Frutto di un’approfondita ricerca in numerosi archivi italiani, francesi e tunisini, il volume ricostruisce i passaggi fondamentali della vicenda antifascista in Tunisia. «L’obiettivo - spiega El Houssi - è di mettere alla prova l’attendibilità dell’immagine diffusa sinora, che ha dipinto la numerosa collettività italiana nel paese nordafricano, durante il periodo fascista, totalmente fedele al regime di Roma».
Albert Memmi ha acutamente fatto notare come gli italiani in Tunisia vissero una dimensione altra, non appartenendo né ai colonizzati né ai colonizzatori. Andrien Salmieri ha declinato questo posizionamento in un’altra prospettiva: quella dell’europeità degli italiani, e, al contempo, della loro adesione culturale al mondo arabo. El Houssi recepisce queste tesi: nel primo capitolo, ricostruisce, le vicende della migrazione italiana nell’antica terra di Berberia.
Numerosi sono gli eventi che minano i diritti degli italiani in Tunisia: il decreto del 1883, emanato dal bay, con l’estensione della giurisdizione francese ai tunisini e agli europei; quello del 1887 sulla cittadinanza accordata ai richiedenti residenti in Tunisia; l’accordo delle Convenzioni, siglato tra Parigi e Roma nel 1896, che prevedeva la salvaguardia degli interessi italiani in Tunisia per contro a una dichiarazione italiana di non ostruzionismo nei confronti dell’amministrazione francese nel paese nordafricano.
Superato anche lo snodo del primo conflitto mondiale, la rivendicazione dell’italianità arriva col fascismo. È Mussolini a usare come volano propagandistico la condizione degli italiani in Tunisia. La strategia del fascismo è di occupare ogni spazio disponibile, operando - chiarisce El Houssi - un controllo sistematico dei connazionali attraverso l’invio da Roma di rappresentanti del partito e del governo incaricati di preservare l’italianità e di stimolare il patriottismo della comunità italiana».
Fin dal 1924, due sono le componenti che si oppongono al fascismo: quella liberale e quella comunista. El Houssi ricostruisce in modo capillare le vicende che ruotano intorno a questi gruppi, non trascurando di studiarne la composizione sociale e i mondi culturali di provenienza. Dalla trama emergono, una dopo l’altra, le vicende di moltissimi antifascisti come Giulio Cesare Barresi, Antonio Casubolo, Renato Gallico, Gianpaolo Finidori.
A partire dal 1928 l’atmosfera si surriscalda con gli attentati antifascisti alla sede dell’Unione, testata fedelissima al fascismo. Nel 1930 viene costituita la filiale della Lidu (Lega Italiana dei diritti dell’uomo) ove confluiscono vari raggruppamenti antifascisti. Il presidente, Giulio Cesare Barresi, stabilisce dei contatti con il Partito Socialista e con i sindacati; con la Concentrazione antifascista incontrando, a Parigi, Carlo Rosselli, Claudio Treves, Luigi Campolonghi e Emilio Lussu. Intanto, continuano le intimidazioni e le denunce dell’Ovra.
Sul fronte antifascista, tra il 1930 e il 1932, aumenta lo sforzo propagandistico: nasce La Voce Nuova che di lì a poco si fonderà con l’Eco d’Italia, organo della Concentrazione. Nel luglio del 1932 la sede della testata è assaltata da un gruppo di fascisti in cerca di informazioni sul direttore, Vincenzo Serio. Un’altra redazione, quella dell’Unione, è oggetto di attentati dinamitardi, pare costruiti ad hoc dalla polizia politica italiana per screditare gli antifascisti. Dal 1932 al 1933 il tema a tenere banco, su cui si gioca tra l’altro l’intesa Destur-fascismo, è quello dei Musulfranc, ossia dei musulmani naturalizzati francesi con tensioni sociali che sboccheranno in scontri, nel boicottaggio dei prodotti francesi e nell’emanazione dei decreti scellerati (aprile del 1933), con conseguente sospensione di tre giornali. Il 7 gennaio 1935 è la data dell’accordo Mussolini-Laval. Con esso il fascismo, scrive El Houssi, «baratta gli italiani in Tunisia» in cambio dell’assenso francese alla penetrazione in Etiopia. Gli antifascisti, in particolare i comunisti, si mobilitano contro la politica coloniale italiana. Nel 1936 due eventi caratterizzano le vicende tunisine: la salita al potere in Francia del Front Populaire e il colpo di stato di Franco in Spagna. Le piazze si riempiono e aumenta l’attività giornalistica. Nascono nuove organizzazioni, come l’Unione popolare italiana e il Circolo popolare Garibaldi. Nel 1937, i fascisti fanno il primo morto: un comunista, Giuseppe Miceli, viene assassinato il 20 settembre da un gruppo di cadetti italiani della «Colombo» e «Vespucci» intenzionati a colpire il Circolo Popolare Garibaldi. In un clima sempre più rovente, in seguito alla sospensione dell’attività sindacale voluta dal residente Ahmed Pacha, arriva a Tunisi Velio Spano il cui compito è valutare la situazione del gruppo comunista di origine italiana. Nel 1939 giunge a Tunisi anche Giorgio Amendola: deve fondare una nuova testata, il Giornale.
Poi, con la firma del patto tedesco-sovietico i comunisti vengono espulsi dalla Lidu e si ritrovano isolati. Con la dichiarazione di guerra di Mussolini alla Francia, il 10 giugno 1940, gli italiani, tutti gli italiani, vengono rastrellati e deportati nei campi di Sbeitla, Ain Sefra, Souk Aras e Kasserine.
In conclusione, L’urlo contro il regime è un ottimo saggio, importante per la documentazione storica ma anche per le analisti interpretative fornite. El Houssi centra quindi l’obiettivo: mostra tutte le sfaccettature politiche e sociali degli italiani in Tunisia, leggendo le vicende antifasciste con una molteplicità di sguardi, ossia tenendo conto tanto degli avvenimenti tunisini, quanto degli accadimenti internazionali.
La scelta della Corte costituzionale: il busto del presidente antisemita resta qui
Respinta la richiesta di rimuovere l’opera che ricorda Gaetano Azzariti. Perché? Non si può sapere
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 29.03.2015)
I l busto non si tocca: si sono proprio arroccati, i giudici della Corte costituzionale, in difesa del «loro» Gaetano Azzariti, il fascistissimo presidente del Tribunale della Razza riciclato da Togliatti e poi premiato nel 1957 (tutti smemorati) con la presidenza della Consulta. No, no e no: nessuna revisione. Nonostante spunti fuori una lettera dell’ex vicepresidente della Corte che due anni fa chiedeva già la rimozione del busto. Un atto d’accusa durissimo.
Scriveva Paolo Maria Napolitano il 16 novembre 2012 che l’uscita del libro di Barbara Raggi «Baroni di razza» imponeva che la figura di Azzariti fosse rivista. Per cominciare ricordava il giudizio di Renzo De Felice, il massimo studioso del fascismo, su quel «tribunale» infame voluto dal Duce per concedere a capriccio la patente di quasi ariano o di ebreo che avrebbe poi separato i salvati e i sommersi ad Auschwitz: «Se tutta la legislazione antisemita era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra; essa infatti non si fondava che sull’arbitrio più assoluto...».
Più ancora, in quegli «anni tragici e grotteschi», la «Corte» guidata da Azzariti che da oltre un decennio era l’uomo forte del ministero della Giustizia fascista (e le leggi razziali non poteva scriverle certo un maestro elementare come Mussolini) finì per diventare «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro. E ciò mentre il rigore della legge e delle innumerevoli disposizioni ad essa connesse si abbatteva sempre più pesante su quegli ebrei che non volevano o non potevano piegarsi alla sopraffazione e al ricatto» .
Insomma, scriveva ai colleghi il giudice Napolitano nella scia di De Felice, a prescindere dal funzionamento del «tribunale» (i cui atti guarda caso sono tutti spariti) Azzariti «presiedette, fino alla caduta del fascismo, una commissione di natura politica, pienamente integrata della logica della persecuzione degli ebrei». E certo il Duce non gliel’avrebbe affidata se lui non fosse appartenuto alla «ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime e se non avesse condiviso, almeno nelle linee generali, l’aberrante logica della “difesa della razza”».
Ora, chiedeva in quella lettera il giudice della Consulta, se Azzariti avallò l’«orrenda mutilazione dei diritti» di chi non poteva dimostrare di non essere ebreo e se presiedendo quel «tribunale» condivise «la folle e vergognosa logica» della legislazione razziale perché mai il suo busto deve avere l’onore di restare esposto nel corridoio nobile della Corte costituzionale? Non c’è neppure «un motivo di carattere generale» perché «non vi sono i busti di tutti i presidenti». A farla corta, chiedeva Napolitano, togliamolo. Richiesta respinta. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto...
L’uscita mesi fa del saggio di Massimiliano Boni «Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale», ha però riacceso sotto la cenere la brace della polemica. Tanto più grazie a certe citazioni. Come un discorso del futuro presidente della Corte tenuto molto prima che Palmiro Togliatti, scegliendolo come braccio destro, gli desse una ripulita col detersivo di marca Pci: «La diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». E non era una sbandata giovanile: aveva allora 61 anni .
Così, dopo aver raccontato la storia ai lettori del Corriere , quando abbiamo saputo della lettera di Napolitano per due anni tenuta sotto silenzio, abbiamo chiesto ufficialmente alla Consulta il verbale, in teoria pubblico, della riunione della Corte amministrativa in cui la proposta di togliere il busto fu respinta. Risposta gentilissima del Segretario generale: il verbale c’è, ma occorre «sottoporre all’Ufficio di Presidenza della Corte la questione per l’autorizzazione necessaria». L’altro giorno, finalmente, ecco la risposta definitiva: «La Corte costituzionale corrisponde volentieri alla Sua richiesta di informazioni e Le conferma di essersi in effetti espressa, nella seduta del 12.12.2012, sulla proposta del giudice Paolo Maria Napolitano, decidendo di non rimuovere, allo stato, il busto di Gaetano Azzariti».
Grazie dell’informazione che avevamo già, ma il misterioso verbale? Boh...
Cosa sia successo nella riunione che ha partorito quella striminzita risposta, ovviamente, non si sa. Ma la Corte manda a dire: il busto del giudice fascista e razzista, troppo tardi demolito dagli storici, sta bene dove sta. Perché? Perché sì.
Degli intellettuali italiani
il viaggio nel fascismo
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 08.02.2015)
Caro Muratori,
Le consiglio la lettura del libro di Mirella Serri (Gli intellettuali che vissero due volte) pubblicato dalle edizioni Corbaccio dieci anni fa. È uno spaccato della vita intellettuale italiana nel corso di un decennio, dal 1938, l’anno dell’accordo di Monaco che regalò a Mussolini un grande consenso, e il 1948, l’anno delle prime elezioni politiche e del duello fra la Democrazia cristiana e il Fronte democratico popolare, un’alleanza dei socialisti di Pietro Nenni con i comunisti di Palmiro Togliatti.
Se il lettore avesse la pazienza di ricostruire, con l’aiuto di Mirella Serri, il percorso individuale degli intellettuali, scoprirebbe che molti collaboratori delle maggiori pubblicazioni culturali del regime figurano, dieci anni dopo, fra i sostenitori del Fronte. Tutti opportunisti e voltagabbana? Nel regime vi furono parecchi «stipendiati» e beneficiati. Ma un giudizio troppo drastico sarebbe ingeneroso e storicamente sbagliato. Il regime aveva i suoi porti franchi («Primato» di Giuseppe Bottai, le riviste di Leo Longanesi e Mario Pannunzio) in cui esistevano alcuni margini di libertà.
Molti intellettuali non esitavano a criticare il regime in conversazioni private, ma erano piuttosto frondisti che oppositori. Altri detestavano i ras e i gerarchi, ma riponevano le loro speranze in Mussolini. Altri ancora, come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, credevano in un fascismo di sinistra in cui la corporazione avrebbe gradualmente sostituito la proprietà privata. Per questi ultimi, in particolare, il passaggio al comunismo fu sentito come il ritorno alla purezza ideologica di una forza politica che aveva smarrito la strada stringendo patti di convenienza con agrari e industriali.
L’intera questione divenne ancora più difficilmente decifrabile quando molti intellettuali, dopo la caduta del fascismo, cedettero alla tentazione di riscrivere il loro passato per esibire un certificato di immacolato antifascismo. Trovarono un complice in Togliatti, desideroso di ingrossare le file del partito e disposto a dimenticare il passato dei nuovi convertiti. Qualche intellettuale, come Ruggero Zangrandi, cercò di raccontare il proprio percorso in un libro intitolato Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Ma molti altri preferirono tacere. Peccato. Le loro confessioni ci avrebbero aiutato a capire meglio quei tempi.
Quando la feccia si presenta in tivù
di Antonio Padellaro (il Fatto, 04.03.2015)
Nel 1938, Telesio Interlandi pubblicò il primo numero del quindicinale La difesa della razza e ne stampò 95 mila copie che andarono rapidamente esaurite. Un successo editoriale che durò fino al 1943 e che ebbe, per così dire, la funzione di fare venire a galla l’antisemitismo che albergava in una parte degli italiani. Così, quando cominciò la persecuzione degli ebrei, molti girarono la testa e qualcuno fu indotto a pensare: in fondo se la sono cercata. Quello che succede in Italia a proposito dei rom richiama quello schema, per ora (ma solo per ora) nella forma farsesca adatta ai nostri tempi.
Lunedì sera, a Piazza pulita, Gianluca Bonanno parlamentare europeo, leghista, girovago dei talk show dove vende la sua merce avariata, ha definito rom e zingari “feccia della società”. Una parte del pubblico ha battuto le mani e il conduttore Corrado Formigli, collega che stimo, ha detto: “È un applauso di cui mi vergogno”. Spiegando poi: “Bonanno è qui perché riflette un pezzo di Paese che la pensa come lui”.
Nelle due frasi, entrambe vere, c’è il micidiale cortocircuito che sta resuscitando il mostro. Abbiamo un Salvini, e i suoi tristi epigoni che raccattano voti dando voce agli istinti più bassi: contro i clandestini che sarebbe meglio abbandonare tra le onde e contro i nomadi brutti, sporchi e cattivi. E abbiamo la Tv che in crisi di ascolti li corteggia e legittima presso milioni di persone la feccia che rappresentano. Purtroppo, vergognarsi non basta più.
Sostenitori dello sterminio
Italiani brava gente?
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.01.2015)
Ecco un libro urticante, soprattutto per i nostri connazionali ancora ben disposti a cullarsi nel «mito del bravo italiano». Ma per capire se un popolo è stato davvero più umano di altri, occorre certificarne il comportamento nei momenti decisivi della sua storia. Per far questo, Simon Levis Sullam focalizza la propria attenzione sul biennio 1943-45, crogiolo dell’Italia repubblicana. La sua analisi - tanto rigorosa quanto sobria, malgrado il tema dolorosissimo - s’articola lungo tre assi.
Innanzitutto, il libro offre un diorama capillare delle complicità italiane nello sterminio degli ebrei, attingendo alle ricerche più aggiornate. Benché molti siano tuttora persuasi che il nostro Paese sia rimasto fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto, Levis Sullam documenta al di là di ogni ragionevole dubbio il ruolo determinante ricoperto nel genocidio dagli apparati dello Stato: partito fascista, Guardia Nazionale Repubblicana (carabinieri inclusi), forze di polizia, questure, prefetture, Ispettorato generale per la razza. Senza il loro concorso, difficilmente l’«invasore» tedesco avrebbe potuto eliminare 8.869 ebrei residenti in Italia (6.746 dei quali deportati fuori dai nostri confini).
In quest’infamante casellario non mancano neppure i vari «delatori» partoriti dalla società civile, e il clero, che talvolta sostenne e omaggiò i carnefici (con buona pace di quanti oggi strologano sull’«Occidente cristiano e giudaico», come se fosse un’endiadi storicamente fondata).
Lo sguardo di Levis Sullam spazia lungo tutto lo Stivale. Dalla Svizzera «frontiera della speranza» (su cui erano appostate occhiute guardie di confine italiane) alla Firenze della famigerata Banda Carità, sino a Fossoli, il campo di transito verso Auschwitz gestito interamente da nostri connazionali.
Ma l’autore torna spesso sulla sua città, Venezia, fra le «capitali» della Rsi. La sera del 5 dicembre ’43 l’ex Serenissima fu teatro di una delle maggiori «razzie» di ebrei da parte di militi «repubblichini», nelle stesse ore in cui un giovane e promettente pianista italiano, Arturo Benedetti Michelangeli, teneva un concerto alla Fenice (musiche di Scarlatti, Liszt, Brahms - Variazioni sopra un tema di Paganini -, Beethoven - Sonata op. 111 -, Rachmaninov e Weiss).
In secondo luogo, questo libro viviseziona la «zona grigia» degli uomini comuni nell’ingranaggio dello sterminio. Siamo nel cuore di tenebra del 1943-45, dove non spiccano soltanto collaborazionisti ideologicamente temprati, ma emergono anche solerti burocrati, portinai famelici, colleghi rancorosi, gendarmi ingolositi dai beni ebraici confiscati. Del resto, la delazione è «uno dei fondamenti della guerra civile», perché riguarda «i vicini prossimi, persino intimi». Fu praticata, ahimè, anche da alcune «vittime ebree», divenute a loro volta «esecutori del genocidio», come il triestino Mauro Grini (poi ucciso a San Sabba) e Celeste di Porto, una diciottenne popolana residente nel Ghetto di Roma. D’altra parte, l’Olocausto fu una catena di montaggio talmente parcellizzata che gli stessi attori non sempre furono consapevoli degli effetti reali (le camere a gas) delle proprie azioni persecutorie. Però l’«agnosticismo» di molti, in buona o cattiva fede, impedì il sedimentarsi di minuscoli granelli di sabbia in grado di inceppare anche il più oliato dei meccanismi.
Infine, terzo punto, il dilemma della rimozione di un passato tanto ingrato e impunito (nessuno sarà mai processato per aver partecipato alla politica antiebraica italiana, dal ’38 in poi). Levis Sullam lamenta la melensa retorica dei «giusti», oggi debordante, come se la storia fosse disseminata di salvatori di ebrei.
Ma in realtà costoro furono soltanto una goccia, rispetto al mare magnum dei carnefici. Come mai questi ultimi caddero nell’oblio? Da un lato, prevalse l’Italia moderata, con la sua memoria indulgente del ventennio e del «buonuomo Mussolini» (secondo il brillante pamphlet di Indro Montanelli uscito nel ’46). Dall’altro, come abbiamo appreso dagli studi di Guri Schwarz, giocò la ritrosia della stessa comunità ebraica a calcare la mano sulle responsabilità nostrane. Forse concorsero, in questa rinuncia, il legittimo desiderio d’integrarsi nuovamente, nonché l’imbarazzo per il genuino fascismo di molti ebrei, prima del voltafaccia del duce.
Fatto sta che ancor oggi il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, nelle sue pubblicazioni ufficiali, loda il diffuso rifiuto sin dal ’38 dell’antisemitismo, «estraneo alle tradizioni italiane», nonché lo «spirito caritatevole» dimostrato verso gli ebrei dopo l’8 settembre ’43. Accadde invece l’esatto contrario: con le leggi razziali, l’antisemitismo italico - tutt’altro che peregrino - ottenne un formidabile riscontro nella società, mentre dopo l’Armistizio almeno la metà degli arresti di israeliti furono effettuati dai volenterosi carnefici di Mussolini. Alla faccia del «buonuomo»!
Domande scomode sull’antisemitismo
di Riccardo Franco Levi e Alberto Melloni (Corriere della Sera, 21.01.2015)
«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo traportando alla fossa comune il cadavere di Somogyi, il primo dei morti tra i nostri compagni di camera... Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati...». Così, nelle prime pagine de La tregua , Primo Levi descrive la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz.
A settanta anni esatti di distanza, il 27 gennaio, come avviene ormai da quattordici anni in base alla Legge n.211 del 20 luglio 2000, si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo»), «dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». «Affinché simili eventi non possano mai più accadere».
La realtà non sempre si adegua alla norma, foss’anche alla più giusta tra di esse, specie quando ultra vires sostituisce il problema del risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare. Ma se ci fosse stato ancora bisogno di ricordare quanto e come l’odio antiebraico non sia sparito e non sia stato espulso dalle viscere profonde della società e degli uomini, a suonare l’allarme e a risvegliare le coscienze ci hanno pensato i terroristi di Parigi, allungando con il massacro al supermercato kosher, nelle ore di preparazione dello Shabbat, la scia di sangue e di morte che avevano iniziato a tracciare con la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo.
A tanto orrore ha risposto l’enorme, emozionata partecipazione alla marcia che ha percorso e bloccato Parigi e scosso l’intera Europa. E una speranza si è riaccesa. Per quanto scomodi, urticanti addirittura, alcuni interrogativi, però, sono legittimi, anzi doverosi, proprio per non rinunciare alla razionalità critica che è quella che nella storia europea ha permesso a ciascuna delle sue culture di essere più profondamente se stessa.
Quanto della commozione, della condivisione di valori e sentimenti che si sono manifestati in quelle ore terribili è stato possibile grazie a quel «Je suis Charlie», il motto sventolato come impavida bandiera della libertà di espressione che ha saputo parlare dritto al cuore di tutti? Quanto ha pesato nell’eco e nell’emozione estesa da Parigi al mondo intero il fatto che le prime vite spezzate, spezzate come le matite subito assurte a simbolo dell’orrore, fossero vite di giornalisti, che ad essere colpito fosse stato il mondo dell’informazione? Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l’eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o persino dei bimbi della scuola che i terroristi avevano progettato di colpire, ripetendo nella Ville Lumière l’orrore consumato nel 2012 a Tolosa? Avremmo visto, nelle strade, sui balconi, sulle prime pagine dei giornali, la scritta «Je suis Johan»? E noi, noi italiani, come avremmo reagito? Cosa avremmo pensato?
Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà essere l’occasione per risposte vere a questi interrogativi. In un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere.
Come ha ricordato il ministro Giannini parlando agli studenti italiani ad Auschwitz pochi giorni fa, pur nel riconoscimento di quel luogo quale primo ed universale simbolo dell’orrore della Shoah, altri sono i luoghi, altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione contro gli ebrei italiani: l’aula della Camera dei deputati dove il 14 dicembre del 1938 furono all’unanimità approvate le leggi antiebraiche; il Ghetto di Roma dove avvenne il rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943; il Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove partivano i vagoni per la deportazione; il campo di Fossoli, ultima tappa prima di Auschwitz, la Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico campo di sterminio in terra italiana.
Qui, non meno che ad Auschwitz, è e sarà bene portare gli studenti per far toccar loro con mano (sì, con la mano passata, ad esempio, sul legno dei vagoni conservati nel Memoriale del Binario 21) la realtà e la radice profondamente italiane delle persecuzioni contro gli ebrei.
Per aprire la porta a una conoscenza diffusa e a una comprensione più vera della storia, delle storie, delle responsabilità. Per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti, le verità di comodo: quella degli italiani brava gente, delle leggi razziali fasciste come frutto dell’obbligato accodarsi all’alleato nazista, della Chiesa avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei.
Così sappiamo che non fu. Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia con una retorica del diabolico, generando un risentimento autoassolutorio sui nazisti o sui croati o sugli ucraini.
Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede e il Cattolicesimo in generale che, non certo soli, ebbero un ruolo nell’ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso, s’illusero che tollerando la «parte cattiva» delle leggi razziste (che ci fosse la «parte buona» il portavoce del Papa lo sostenne privatamente anche dopo il 25 luglio 1943) avrebbe potuto svolgere la sua missione.
Ancora più in profondo, la propaganda e le argomentazioni fasciste a giustificazione e sostegno della legislazione antiebraica furono astutamente modellate sulla base di quell’insegnamento del disprezzo e quel diritto di segregazione iscritti nella storia dei cristiani: i cattolici della associazione «Amici Israël» che li volevano ripudiare furono sciolti nel 1928, e dovettero attendere fino al 1959 e all’inizio del Concilio perché il ripudio del linguaggio della «perfidia» e dell’antisemitismo «di chiunque e quandunque» aprisse una via nuova.
Quanto di questo substrato, di questi pregiudizi (sull’ebreo ricco ed avaro, potente nella finanza e nel mondo dell’informazione, corruttore della società, estraneo ed infedele alla nazione che lo «ospita») rimane vivo nella società italiana? E se sì, perché? Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio.
Dopo la marcia di Parigi, il presidente del Consiglio Renzi ha detto: «Je suis Charlie, je suis juif, je suis européen». Siamo sicuri che le sue parole rappresentino davvero il comune sentire di tutti noi italiani? E se qualcuno facesse compilare agli italiani un’autocertificazione razziale come quella richiesta ad Albert Einstein al suo ingresso in America, scriveremmo tutti di essere di razza «umana»?
L’olocausto una tragedia europea (e molto italiana)
di Furio Colombo (Corriere della Sera, 24.01.2015)
Caro direttore,
chiedo ospitalità al tuo giornale, che il 20 gennaio ha pubblicato un articolo firmato da Riccardo Franco Levi e Alberto Melloni. Benché intitolato «Domande scomode sull’antisemitismo», l’articolo dedica un’attenzione quasi esclusiva alla legge numero 211 del 20 luglio 2000, che istituisce in Italia il Giorno della Memoria.
Quel testo di legge che, come è noto, ho scritto, firmato e presentato fin dall’inizio della Tredicesima legislatura, viene presentato come anonimo nell’articolo in questione (non si dice neppure da quale parte della Camera di allora quel testo sia stato presentato). Ma alcune osservazioni severe vengono fatte subito.
Scrivono Levi e Melloni: «Come avviene ormai da quattordici anni, il 27 gennaio si celebrerà il Giorno della Memoria in ricordo, come dice la legge (senza mai pronunciare la parola «fascismo») dello sterminio e della persecuzione del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Ma il testo della legge dice all’articolo 1: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte...». Non sembra che vi siano omissioni o ambiguità.
L’articolo 2 si conclude (e conclude il breve testo della legge), con le parole «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Commentano gli autori: «La realtà non sempre si adegua alla norma (...) specie quando sostituisce il risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare». L’argomento così grave rende imbarazzante una obiezione ovvia ma anche inevitabile. Il Giorno della Memoria, come si constata in molte scuole d’Italia, ma anche in televisione, raramente fa accenni vaghi ai ricordi. Di solito si ascolta chi racconta ciò che sa e che ha vissuto, si vedono i film, i luoghi, i documenti di cose tragicamente accadute, per chi non le avrebbe mai viste.
Ed ecco un secondo, disorientante passaggio: «Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà (...) avere un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere (...). Altri sono i luoghi e altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione agli ebrei italiani». Gli autori elencano, oltre ai campi italiani, il Ghetto di Roma e la Camera dei deputati dove tanta parte della tragedia è accaduta «per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti». E concludono: «Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio».
Su come tutto è cominciato, e, alla fine, con tutti i suoi limiti, si è realizzato, affido un chiarimento importante (ma che era certo conosciuto dagli autori dell’articolo) al professor Robert F.C.Gordon (Modern italian culture, University of Cambridge) citando dal suo libro The Holocaust in Italian Culture ( L’Olocausto nella cultura italiana, pubblicato da Stanford University Press): «Nei tardi anni Novanta Furio Colombo e altri hanno cominciato a sostenere la necessità di istituire in Italia un giorno nazionale della memoria dell’Olocausto. (...) Alla fine il giorno scelto è stato il 27 gennaio, data della liberazione del campo da parte dei Sovietici e il più grande simbolo dell’orrore della soluzione finale. Ma Furio Colombo ha continuato a insistere su una data italiana, una data che appartenesse alla storia italiana e alla storia degli ebrei italiani. La sua data era il 16 ottobre 1943, quando, lui diceva, la soluzione finale è stata portata nel cuore di Roma e ha mostrato e confermato la collaborazione fra tedeschi e fascisti» (pag. 97 ).
Non ho mai incontrato Robert Gordon. Ma ciò che scrive era pubblico a quel tempo in Italia, e gli argomenti si incrociavano sui giornali e in televisione. Tanto che lui può scrivere: «Si è espresso bene Colombo, quando inizia la sua campagna per il Giorno della Memoria e dice: “La Shoah è un delitto italiano”» (pag. 179).
Molto importante, per me, è la presa di posizione di Tullia Zevi, allora presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, che mi ha chiesto di aderire alla proposta del 27 gennaio, come data capace di contenere il senso europeo della tragedia. Alla fine - il giorno dell’approvazione unanime della legge alla Camera - ho potuto dire ai miei colleghi ciò che Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni vogliono che sia il senso del Giorno della Memoria: «In quest’Aula in ciascuno dei nostri seggi sedeva qualcuno che ha votato sì alle leggi di persecuzione dei cittadini italiani ebrei. Io vi chiedo di votare sì, adesso, dagli stessi seggi, sul Giorno della Memoria. Non potremo cambiare neppure in un dettaglio il passato. Ma avremo detto ai più giovani che sappiamo che cosa è accaduto in quest’Aula». (Cito dai verbali).
Mi sono illuso per un momento che il Parlamento fosse una macchina del tempo, capace di toccare il passato. Non lo è. È poca cosa il Giorno della Memoria. Ma esiste. Esiste in Italia.
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Giornalista e scrittore
Ex parlamentare pd
Azzariti, un antisemita alla Suprema Corte
Lavorò alle leggi fasciste, anche quelle contro gli ebrei
Ma grazie a Palmiro Togliatti fu riabilitato e promosso
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 04.11.2014)
Cosa ci fa il busto del presidente del Tribunale della razza nel corridoio nobile della Corte costituzionale? È insopportabile, dopo aver letto finalmente un’inchiesta stringente, documentatissima e implacabile sulla vita di Gaetano Azzariti, sapere che un uomo così arrivò, grazie alla lavanderia di Palmiro Togliatti, alla presidenza della Suprema Corte senza che alcuno gli rinfacciasse il ventennio passato a confezionare leggi su misura per il Duce e per la caccia all’ebreo.
Ben 45 libri, saggi e discorsi vari ci sono, nel catalogo delle biblioteche italiane, con Azzariti nel titolo o tra gli autori. Non uno cita la sua devozione fascista e razzista. Così come non ne parlano mai, lo diciamo arrossendo, gli articoli nell’archivio del «Corriere». Mai. Dopo la morte, anzi, l’«Informazione» si spinse a scrivere che con la sua elezione alla Consulta era stata «coronata la carriera di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al trionfo della giustizia e della verità».
Non è così. E lo dimostra un saggio di Massimiliano Boni, consigliere della Corte costituzionale. S’intitola Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale pubblicato dalla rivista «Contemporanea» del Mulino. Un saggio che, documenti alla mano, ricostruisce la vita di Azzariti, dalla nascita a Napoli nel 1881 (nonno, padre e due fratelli magistrati) alla carriera di altissimo burocrate all’ufficio legislativo del ministero della Giustizia che comandò negli anni in cui il fascismo si impossessò dello Stato, dal 1927 al 25 luglio 1943, quando Mussolini fu rovesciato e lui si riciclò come guardasigilli «tecnico» per un mese e mezzo nel governo Badoglio, precipitandosi a concedere l’immediata scarcerazione dei detenuti politici.
C’è chi dirà: furono tanti i giudici che applicarono le leggi fasciste. Vero. E la Repubblica non poteva certo processarli tutti. Ma lui non si limitò ad applicarle: le fece. Come scrive Silvia Falconieri nel libro La legge della razza (Il Mulino, 2012), non bastò proclamare la superiorità della stirpe: la razza divenne «affare dei giuristi». E lì, spiega Boni, fu «necessario selezionare un ceto di chierici che da un lato traducesse in norme e provvedimenti quanto deciso a livello politico, dall’altro fornisse un fondamento teorico al nuovo corpus di norme».
Azzariti è in prima fila: «I documenti attestano la piena partecipazione di Azzariti al processo di edificazione della legislazione fascista, compresa quella razziale». Il Duce se ne fida al punto di promuoverlo nel 1939 alla testa del Tribunale della razza. Un ruolo svolto con zelo fino alla caduta del regime. Lo dimostra un discorso del 28 marzo 1942. Dove si compiace che «l’egualitarismo dominante (...) senza differenza di età di sesso di religione o di razza», non sia più «una specie di dogma indiscutibile»: col fascismo «ora è relegato in soffitta». E afferma che «la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». Infame.
Non è l’«errore di gioventù» di tanti ragazzi allevati nel culto del Duce. Quando sputa sui diritti inalienabili con la tesi che «nel campo del diritto non esistono “immortali principi”, i quali, del resto, anche fuori del campo giuridico sono ormai morti o agonizzanti», Azzariti è un sessantunenne laureato da quaranta. È il più potente burocrate del ministero. È il capo di quel Tribunale della razza, spiegherà il grande accusatore Raffaele Gioffredi, istituito per «arianizzare», inventandosi una madre adulterina e un padre ariano, «gli israeliti cari al cuore del Duce» o «quelli che più fossero disposti a mollar danaro, ville, gioielli o altre utilità di gran pregio». È insomma in primissima fila tra quanti selezionano chi nel 1943 sarà salvato e chi verrà sommerso dall’Olocausto.
Questo fu, Gaetano Azzariti. Premiato, accusa Boni, anche da una pioggia di prebende: un documento dell’Alto commissario per l’epurazione «riassume l’elenco dei pagamenti a lui effettuati, tra il 1932 e il 1943, ulteriori a quelli percepiti come ordinarie competenze mensili di stipendio e indennità accessorie». Fedele al fascismo sì, ma non gratis...
Come fece, uno così, a uscire indenne dalla caduta del Duce? Per cominciare, spiega Boni, ebbe la «fortuna» che tutti gli atti dei processi del Tribunale della razza, prodigio prodigioso, sparirono. Tutti. A seguire, contando sull’omertà di una rete di rapporti intessuta per decenni, affrontò l’inchiesta truccando le carte. «Ha fatto parte di uffici o commissioni razziali?», chiede il questionario. E lui risponde: «No. Fece però parte di una commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza di magistrati (...) che consentiva di far dichiarare ariane le persone le quali dagli atti dello stato civile risultavano ebree. Parecchie famiglie israelite furono così sottratte ai rigori delle leggi razziali». In poche righe, commenta Boni, «tutto è rovesciato, il nero diventa bianco». «Ha fatto pubblicazioni o conferenze di carattere razziale?». «No». «È stato autore di libri, opuscoli e pubblicazioni in genere, avente anche indirettamente carattere politico?». «No».
«Un documento indirizzato al presidente della Commissione per l’epurazione, datato ottobre 1944», insiste Boni, «descrive Azzariti come componente di una “cricca” (sic) che orbita attorno ai ministri di Grazia e giustizia che si sono succeduti nel ventennio fascista», gli attribuisce «la competenza a “rivedere” e “compilare” tutte le leggi», ricorda la sua ammirazione per il fascismo e la sua presidenza alla «commissione di persecuzione degli ebrei».
Il «parere conclusivo» è duro: il magistrato va messo subito «a riposo». Ma lì, sulla minuta conservata negli archivi, una mano misteriosa scrive: «Non lo ritengo opportuno». Chi lo scrive? Non si saprà mai. La stessa firma in calce alla relazione è cancellata. Sono ignorate anche le denunce del giudice Gioffredi: «Bastava si accennasse qualche idea del provvedimento legislativo repugnante (sic) ai più elementari principi del diritto e della coscienza civile, perché egli la formulasse e riducesse in tanti articoli delle così dette norme giuridiche (...) accompagnandole con relazioni e commenti apologetici che la mano di ogni onesta persona si sarebbe rifiutata di sottoscrivere».
Tutto evapora nel nulla. Gli italiani sono occupati a tornare a vivere. Gli ebrei sopravvissuti devono ancora riprendersi dal trauma. Nei giornali son tanti ad aver la coda di paglia. Ma è Togliatti a dare l’ultima sbiancata alla fedina di Azzariti. Prendendoselo come collaboratore al ministero della Giustizia. Pochi anni e il presidente del Tribunale della razza salirà alla presidenza della Corte costituzionale. Dove ancora oggi c’è quel busto. Che ci ricorda come in Germania, lo racconta il film Vincitori e vinti , i giudici più compromessi col nazismo finirono a Norimberga e da noi al Palazzo della Consulta. E nessuno dice niente?
Quando l’Italia divenne razzista
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 19 novembre 2013)
Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime.
È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.
I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.
Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).
Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società».
Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento».
Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!».
Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo - scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso - che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta».
Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto - di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati - fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò
A scuola di razzismo
di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Il Messaggero, 19 novembre 2013)
Il 2 settembre 1938 Bottai presenta al Consiglio dei ministri il Provvedimento per la difesa della razza nella scuola italiana, giusto in tempo per l’avvio dell’anno scolastico, il 17 ottobre. Le nuove norme sanciscono l’esclusione degli ebrei - docenti e alunni - dagli istituti pubblici di ogni ordine e grado, relegandoli in apposite scuole o sezioni speciali create dalle Comunità con gli insegnanti licenziati, mentre agli studenti universitari che non siano fuori corso, già iscritti all’anno accademico 1937-38, viene concesso di concludere gli studi. Migliaia di studenti e centinaia di insegnanti vengono così spazzati via dalle scuole e dalle università italiane, e ai bambini non ancora in età scolastica viene consentito di iscriversi solo alle scuole ebraiche e viene preclusa la possibilità di frequentare l’università. (...)
PROMISCUITÀ
La bonifica è volta a escludere - come scrive il provveditore agli studi di Bologna, rigettando la domanda di ammissione di una bambina nonostante le benemerenze del padre - «qualsiasi promiscuità fra alunni di razza ariana ed ebraica». E l’intento riesce perfettamente, visto che alla riapertura delle classi per gli insegnanti e gli alunni ebrei si consuma il dramma dell’esclusione nella più «totale mancanza di solidarietà» da parte di colleghi e compagni.
L’espulsione dei docenti ebrei, censiti in agosto dal ministero, è quasi sempre immediata. Per gli studenti, invece, il momento dell’allontanamento dipende dagli organi scolastici. A volte sono necessari controlli sulla loro appartenenza alla razza ebraica, che possono anche prolungarsi nel tempo. L’8 novembre, ad esempio, a scuola iniziata da qualche settimana, il preside del liceo scientifico Tassoni di Modena informa il provveditore di aver compiuto un’indagine «razziale» tra i suoi studenti e di aver individuato sei ebrei, immediatamente espulsi.
La maggior parte dei presidi e insegnanti ariani si adegua al provvedimento senza battere ciglio. E così a Roma - stando alle memorie di quel periodo - quando lo studente di dieci anni Piero Terracina si presenta in classe, la maestra, alla quale era molto affezionato, lo invita freddamente a restare fuori perché ebreo e ignora il suo pianto disperato nel corridoio. Anche tra gli alunni di pura razza italiana l’atteggiamento prevalente è quello del silenzio e dell’indifferenza, che aggravano l’emarginazione e la sofferenza di chi viene colpito dai provvedimenti.
La carrellata di testimonianze, da nord a sud della penisola, lo conferma. La milanese Anna Marcella Falco, esclusa dalla quinta ginnasio del liceo Manzoni, resta scioccata dall’«improvviso silenzio», soprattutto da parte delle «due amiche del cuore, con cui mi ero scambiata regolare corrispondenza per tutta l’estate appena trascorsa».
ISOLAMENTO
A Fiume, Luigi Sagi si accorge che i suoi compagni «lentamente sparirono dalla circolazione e se mi incontravano per strada giravano la testa».
A Ferrara, «Le mie compagne di scuola - si legge nel diario di Eugenia Bassani - non solo non mi frequentavano più, ma neanche mi salutavano più». «Ci fu una frattura violenta», ricorda Gian Paolo Minerbi, espulso dal Liceo Ariosto: «Quasi tutti i ragazzi della mia classe non mi salutavano più, cambiavano marciapiede quando mi vedevano».
A Firenze, Jenny Bassani soffre lo stesso clima di isolamento: «Per noi fu la morte civile. Per me cambiarono molte cose: le mie amiche, che fino al giorno prima, erano compagne di banco, adesso non mi parlavano più». E Nedo Fiano si sente «svuotato»: «Non capivo perché nessuno dei compagni di scuola e dei balilla mi avesse detto una parola di solidarietà».
A Pitigliano, accade lo stesso a Eugenia Servi: «Dalla sera alla mattina, insegnanti e bambini, compresi quelli della mia stessa classe mi tolsero il saluto», con la sola eccezione di una ex maestra e del custode della scuola.
A Roma, Angelo Piperno, studente del Liceo Mamiani, rammenta che tra i professori c’è «chi difese il decreto sostenendo che quanto era accaduto era la necessaria conseguenza di tutto ciò che gli ebrei avevano commesso».
All’indifferenza talvolta si accompagnano gesti crudeli da parte di insegnanti e compagni. A Roma, Giacoma Limentani alle elementari ha «una maestra fascista che mi diceva “Fuori di classe, brutta ebrea”», e quando viene espulsa «nessuna compagna di scuola, né mia, né di mia sorella, si è fatta viva per dire “Come mi dispiace!”. Se ne fregavano». Un informatore della polizia riferisce che «In una scuola presso il Lavatore un bimbo ebreo (appartenente certamente a famiglia discriminata) è stato assalito e malmenato dai piccoli compagni antisemiti!»
A Torino, Giuliana Bozzi Punteruoli, che frequenta l’istituto delle Martelline, viene dileggiata dalle amiche: «Sul grembiule bianco, dietro, mi scrivevano: “porca ebrea, vattene”». Mentre in una scuola altoatesina è il bidello a cacciare una ragazza ebrea dall’aula con «tutti i ragazzi, trenta, a voltare la testa verso di me e guardarmi come se avessi commesso qualche delitto»
Palatucci, il mito sfatato
di Giuseppe Galzerano (il manifesto, 02 luglio 2013)
Il monumento crolla. Costruito con l’argilla della leggenda e non con il cemento della documentazione storica, il mito di Giovanni Palatucci, l’ex poliziotto fascista irpino (era nato a Montella nel 1909), ubbidiente esecutore degli ordini e osannato salvatore di migliaia di ebrei, non ha retto alle necessarie e inevitabili verifiche della ricerca e della storia e pare addirittura che abbia contribuito alla deportazione degli ebrei.
È quanto emerge da un’accurata e lunga ricerca promossa dal Centro «Primo Levi» di New York che, sulla base della documentazione rinvenuta, approfondisce e chiarisce il divario esistente tra l’agiografia ufficiale del poliziotto santificato e la storia delle persecuzioni antiebraiche a Fiume e nel Carnaro. Un vasto gruppo interdisciplinare di ricercatori - coordinati da Natalia Indrimi, direttrice del Centro «Primo Levi» - ha raccolto, consultato, studiato e setacciato oltre seimila documenti provenienti da numerosi archivi.
La ricerca ha consentito di portare alla luce quello che potremo definire come l’imbroglio Palatucci. Tutto comincia nel 1952, sette anni dopo la sua morte per tifo nel campo di concentramento di Dachau, avvenuta il 9 o 10 febbraio 1945. È in quell’anno che lo zio Giovanni, vescovo di Campagna (Sa), inoltra una petizione al ministero degli Interni sostenendo - senza alcuna documentazione - che il nipote era meritevole di un riconoscimento per aver salvato dalla deportazione e dalla morte gli ebrei fiumani.
Il ministero degli Interni risponde nel mese di luglio con un memorandum: non esiste un qualsiasi indizio provante l’attività a favore degli ebrei da parte del vicecommissario aggiunto, aggiungendo che solo se il governo israeliano avesse fatto formale richiesta per un’indagine il ministero avrebbe preso in considerazione le informazioni presentate dal vescovo di Campagna. Il quale, nei mesi successivi, si adopera per organizzare la cerimonia di Ramat Gan, che poi è servita per tutti i successivi riconoscimenti.
La lettera da Vienna
Il Centro Primo Levi - da noi raggiunto a New York - ricostruisce come, solo dopo questa cerimonia, compaia la prima, e per quarant’anni unica e mai discussa «testimonianza»: la lettera della viennese Rosa Neumann, la cui valutazione - affermano a New York - risulta molto problematica in un confronto analitico con il suo fascicolo di polizia. In questa cerimonia gli viene attribuito il titolo di «Questore di Fiume» - non corrispondente affatto alle sue funzioni, quando il suo grado di vicecommissario aggiunto non gli permetteva nessuna autonomia - per attribuirgli poteri decisionali mai avuti. Da metà aprile all’arresto del 13 settembre 1944, per i tedeschi, Palatucci regge la questura di Fiume: i suoi due fascicoli provano che si muove sempre sotto stretto controllo dei superiori, il prefetto Temistocle Testa e il questore Vincenzo Genovese, ricevendo elogi, sostegno e promozioni, rinunciando per questo ambiguo rapporto al trasferimento, chiesto ben otto volte.
Nel sistema di terrore attuato fin dal 1938 da Testa e Genovese, Palatucci è scrupoloso nell’applicazione delle leggi razziali e attento compilatore dei censimenti che dal 1938 al 1944 vengono usati per privare gli ebrei dei diritti civili, spogliarli dei beni, arrestarli, internarli, espellerli e deportarli nei campi di sterminio.
La persecuzione degli ebrei di Fiume - stando alla documentazione - è tra le più terribili d’Italia e anche dalla corrispondenza delle associazioni di assistenza ebraiche Delasam e Joint, risulta una delle città più bisognose di aiuti per la mancanza di qualsiasi cooperazione delle autorità italiane.
La documentazione al Ministero dell’Interno Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione III, Internamento Ebrei Stranieri contraddice l’ipotesi che Palatucci abbia ordinato il trasferimento di centinaia o migliaia (a seconda delle fonti biografiche) di ebrei nel campo di concentramento di Campagna, dove lo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, li avrebbe assistiti. Dalla documentazione ufficiale risulta che Palatucci non ha alcun ruolo nella scelta delle località di internamento degli ebrei stranieri.
Solo quaranta ebrei fiumani, per delibera del Ministero degli Interni, vengono internati a Campagna. Nessuno di loro gode di particolari favori della questura di Fiume, che invece ha atteggiamenti fortemente persecutori nei loro confronti. A dimostrazione che non si tratta affatto di ebrei né protetti né raccomandati dai Palatucci, ben 9 (su 40) vengono deportati ad Auschwitz ed uno di loro muore per le difficoltà subite durante l’internamento.
Per le sue dimensioni il piccolo «campo» di Campagna, esclusivamente maschile, non era adatto a raccogliere le migliaia di deportati ebrei fiumani, dei quali si parla nelle biografie e nei film dedicati a Palatucci: solo nei primi mesi vi furono 370 internati e mai più di un centinaio di persone: tra il 1940 e il 1943 nell’ex caserma della cittadina salernitana vengono detenuti in totale 534 ebrei.
A New York, pur non negando che il vescovo Palatucci si sia adoperato per alleviare le sofferenze degli internati, sottolineano che non esiste alcuna prova del tentativo delle autorità italiane (politiche ed ecclesiastiche) di trasferire a scopo protettivo gli ebrei a sud e l’idea che scendere al sud rappresentasse la salvezza è puramente retrospettiva, in quanto è provato che dal luglio del 1940 alla seconda metà del 1942 gli ebrei stranieri internati in Italia cercavano in tutti i modi di essere trasferiti al nord per trovarsi più vicini alla Svizzera, dove avrebbero potuto mettersi in salvo.
Salvataggio senza fondamento
La leggenda palatucciana secondo la quale nel 1939 - quando a Fiume non vi erano nazisti per arrestare gli ebrei, ma solo un decreto delle leggi razziali promulgato dal Regno d’Italia che ne prevedeva l’espulsione entro il 12 marzo - il «questore» intercettò e salvò dall’arresto dei nazisti 800 rifugiati ebrei, aiutandoli prima a nascondersi ad Abbazia e poi ad imbarcarsi su un battello, l’Agia Zoni che li condusse secondo alcuni in Puglia e in Palestina secondo altri, è destituita di ogni fondamento storico.
La vicenda, presentata per anni come indocumentabile perché svolta in segreto dal giovane ufficiale di polizia, è possibile ricostruirla grazie al ritrovamento da parte dello storico Marco Coslovich nel 1994, presso l’Archivio di Stato, dell’epistolario completo tra la Prefettura di Fiume e la Capitaneria di Porto: è chiaramente documentato che fu un’operazione persecutoria svoltasi sotto la sorveglianza della polizia fiumana.
La recente scoperta del diario di Alfons Goldman, guida del gruppo, conferma nei dettagli la corrispondenza ufficiale e consente una ricostruzione puntuale della vicenda dell’Agia Zoni, un’operazione dell’Agenzia Ebraica di Zurigo fatta fallire dalla polizia fiumana: Palatucci svolse un ruolo marginale di esecutore degli ordini del prefetto Testa, responsabile dell’arresto di 180 profughi viennesi ad Abbazia, sottoposti a una penosa estorsione e ordinò il respingimento al confine di 600 ebrei apolidi per i quali la spedizione era stata programmata. Con il fallimento dell’operazione il porto di Fiume non verrà più usato dalle organizzazioni ebraiche di assistenza.
Durante l’occupazione tedesca di Fiume, Palatucci continuò a lavorare all’Ufficio Stranieri, aggiornando i censimenti degli ebrei, diventando poi reggente della questura. I mesi da reggente sono documentati attraverso le carte dell’attività della polizia italiana, i mattinali, gli scambi di telegrammi con la polizia tedesca e con la dirigenza di Salò a Maderno. Gli fu affidato il trasporto di circa 400 mila lire (l’equivalente di circa 20 stipendi annuali di ufficiale), i tedeschi lo sospettarono di essersi appropriato di beni confiscati a una famiglia di ebrei e, durante la reggenza, produsse dispacci e informative per la persecuzione degli ebrei.
Contrariamente a quanto sostenuto dai suoi agiografi, non vi è alcun indizio che abbia distrutto cinquemila fascicoli sugli ebrei, che invece risultano tutti regolarmente conservati nel Fondo Questura di Fiume dell’Archivio di Stato di Rijeka, così come li lasciò Giovanni Palatucci all’indomani del suo arresto. È probabile che la notizia che abbia distrutto i fascicoli ha fatto pensare che abbia sottratto gli ebrei all’arresto. Da qui i biografi affermano che a Fiume non vi fu deportazione, ma le ipotesi di salvataggio di massa avanzate dall’apologetica palatucciana sono prive di riferimenti alle fonti archivistiche.
Beatificazione sfumata
Il 13 settembre 1944 Giovanni Palatucci è arrestato dalla polizia tedesca per «intelligenza con il nemico». Dal carcere del Coroneo di Trieste, un mese dopo, con altri 11 mila soldati e diverse centinaia di ufficiali di pubblica sicurezza italiani, è deportato a Dachau, come prigioniero in custodia protettiva, la categoria riservata ai traditori. Nel mese di novembre il suo caso è sottoposto all’attenzione della segreteria personale del Duce, ma non risulta alcuna intercessione in suo favore. La morte nel campo di Dachau, a 35 anni, ha senza dubbio contribuito ad avvalorare la suggestiva tesi della sua opposizione al fascismo e al nazismo.
Ma ora, grazie alle ricerche del Centro «Primo Levi» di New York, dopo anni di culto e di speculazione, conosciamo la verità sulla vita di questo poliziotto che non rinnegò mai il fascismo, non aiutò gli ebrei e da carnefice è stato ritenuto vittima.
Però le leggende - come le bugie - hanno sempre le gambe corte. Palatucci non ha titoli per essere considerato lo «Schindler italiano», come un giusto da Israele, e martire da papa Giovanni Paolo II.
Per questo motivo, scrive il New York Times, il museo dell’Olocausto di Washington ha deciso di rimuovere il suo nome da una mostra, lo Yad Vashem di Gerusalemme e il Vaticano hanno iniziato a esaminare i documenti.
La Santa Sede, che ha in corso una causa di beatificazione, si è bloccata per gli interrogativi sollevati e ha dato incarico a uno storico di studiare la questione. Alla AntiDefamation League, l’associazione ebraica che aveva attribuito a Palatucci il suo Courage to Care Award il 18 maggio 2005, lo stesso giorno nel quale il sindaco di New York Michael Bloomberg aveva dichiarato Giovanni Palatucci Courage to Care Day, affermano: «Alla luce delle prove storiche la Adl non onorerà più la memoria del poliziotto italiano. Sappiamo adesso quel che non sapevamo allora, che cioè Palatucci non fu il salvatore in cui è stato trasformato dopo la guerra», ha detto il direttore di Adl Abraham Foxman, un sopravvissuto ai campi di sterminio, per il quale il poliziotto italiano sarebbe stato «un volenteroso esecutore delle leggi razziali».
Il caso Palatucci e la Shoah italiana
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2013)
La scoperta è brutale. Viene fuori che Giovanni Palatucci, commissario con incarichi speciali all’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume (allora città italiana e fascista) negli anni 1943-1945 non era affatto il protagonista di racconti, deposizioni, documenti, libri e film sul suo coraggio nel difendere e salvare migliaia di ebrei, per poi finire lui stesso a Dachau, dove è morto a 37 anni.
Era invece un informatore speciale degli uffici speciali di Hitler che tessevano per tempo la ragnatela di informazioni che avrebbe consentito ben poche fughe. È un colpo duro per Israele, che proprio quest’anno aveva iniziato, con il nuovo ambasciatore Naor Gilon, una speciale celebrazione dei Giusti italiani.
È un colpo duro per molte serie documentazioni esistenti. Ma è forse il momento in cui si rivela in pieno un aspetto scostante e difficile del dramma italiano: italiani come complici, non come Giusti che salvano a costo della vita. O almeno non tutti coloro finora celebrati.
Provo a raccontare. Nel 1987 un’importante casa editrice di New York, Basic Books (seguita l’anno successivo dalla Nebraska University Press) ha pubblicato il primo testo americano di livello accademico sulle leggi razziali italiane, la persecuzione, la deportazione, lo sterminio non solo ad opera dei tedeschi, ma anche dei fascisti e dei delatori italiani. L’autrice, Susan Zuccotti, era docente di Storia della Columbia University, nota per lo scrupolo della documentazione e ricerca. Il libro The Italian Holocaust, Persecution and Survival ha meritato quell’anno il National Jewish Book Award. È toccato a me scrivere l’introduzione.
In quelle pagine ho potuto dire i due problemi che hanno tormentato l’Italia (o meglio la coscienza pubblica e privata degli italiani) dopo la guerra: un lungo silenzio sulla Shoah italiana, al punto che persino i sopravvissuti hanno rinunciato a parlare per paura di non essere creduti, e in cui tutto lo spazio è stato occupato dal mito esclusivo della Resistenza.
E poi, a mano a mano che l’immenso problema emergeva, in brani di storiografia, documenti ritrovati e, finalmente nelle testimonianze raccolte, nella viva voce dei sopravvissuti, è cominciato un “riscatto” degli italiani, che in infinite storie sono apparsi come protettori, salvatori e garanti dei perseguitati. In questo modo, scrivevo, non c’era ancora stato un rendiconto della Shoah italiana.
Naturalmente tenevo conto di Primo Levi. Ma Primo Levi è diventato presto il simbolo dell’orrore concentrazionario nazista, non della persecuzione italiana. E così restava libero lo spazio per continuare a celebrare la grande umanità degli italiani.
Nasce di qui, da questo libro e da questa riflessione cominciata quando ancora, insieme con Edoardo Sanguineti, nel nostro liceo D’Azeglio di Torino abbiamo creato problemi ai nostri docenti (tutti antifascisti) perché volevamo parlare di leggi razziali prima che delle eroiche vicende della Resistenza, la mia ostinazione a istituire per legge un “Giorno della Memoria”.
La ragione è scritta nelle prime righe di introduzione alla legge: “Perché la Shoah è un delitto italiano”. Eppure anche nel libro di Susan Zuccotti, a pag. 218 e 219, la storia di Palatucci è narrata come quella di un eroe che sacrifica tutto e va a morire a Dachau per salvare dalla città di Fiume di cui è responsabile, quanti più ebrei è possibile.
Tutto falso, ci avvertono ora ricerche accurate. Dachau è la sventura di un funzionario caduto in disgrazia dopo avere servito al meglio nel compito di identificare, trovare, arrestare, consegnare cittadini ebrei, con destinazione esclusiva allo sterminio.
Alexander Stille, di questa materia studioso più che giornalista, ha indicato al New York Times tre ragioni: il desiderio cattolico di sbloccare la questione Pio XII esibendo il lavoro e l’impegno per gli ebrei di emblematiche figure di cattolici: la voglia continua e appassionata degli italiani (gli stessi della guerra d’Africa) di essere “buoni” e comunque migliori degli altri europei. E quel tipo di “pacificazione” dopo la Resistenza che ha avuto il merito di evitare la guerra civile, ma il torto di seppellire molti misfatti.
Mi sembra che Stille abbia ragione, e - conoscendo le fonti da cui ora viene accesa la luce sul mito di Palatucci - temo che la storia sia credibile. Ho detto temo perché in passato, e sulla base di ciò che sapevo, ne avevo scritto anch’io e mi piaceva l’immagine di un giovane funzionario, in questo Paese conformista e tutt’altro che anarchico, quando si tratta di stare al sicuro dalla “parte giusta”, un uomo che capisce subito e da solo che stava servendo leggi disumane e insensate.
Trovo una misera attenuante per l’ignoto funzionario Palatucci, diventato informatore speciale dei nazisti in Italia: non aveva esempi, non sentiva voci, nel senso di vere voci umane e note.
Controprova: ricorda qualcuno che mi sta leggendo o che discuterà queste note, un solo grande intellettuale o artista italiano, qualcuno con il microfono aperto e rapporti col mondo, che abbia detto una sola parola contro le leggi razziali italiane?
Temo che la caduta di Palatucci sia un colpo mortale alla celebrazione continua della grande umanità degli italiani. Esiste, certo che esiste. Ma non così come ci hanno detto.
Giovanni Palatucci se questo è un giusto
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 21 giugno 2013)
Ci eravamo illusi di essere diversi, migliori. Italiani brava gente, tutto sommato. Invece adesso scopriamo che anche Giovanni Palatucci, lo «Schindler italiano», era un collaboratore ligio dei nazisti, che non aveva salvato migliaia di ebrei dalla deportazione. Se la denuncia del Centro Primo Levi di New York verrà confermata, potrebbe diventare il colpo più duro alla narrativa nazionale sostenuta per ripulirci la coscienza dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Palatucci era nato nel 1909 in provincia di Avellino, e dal 1937 al 1944 era stato funzionario di polizia a Fiume, dove si occupava del censimento degli ebrei. Alla fine del 1944 il colonnello delle SS Kappler lo aveva fatto arrestare e internare a Dachau, dove era morto poco prima della Liberazione.
Dopo la guerra, a partire dal 1952, la sua storia era stata rilanciata dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che lo aveva descritto come un difensore degli ebrei. Tra le altre cose, aveva favorito la fuga in Palestina di un nutrito gruppo di perseguitati a bordo della nave Agia Zoni, ne aveva trasferiti molti nel campo di concentramento di Campagna dove poi si erano salvati, aveva distribuito documenti falsi e distrutto gli archivi identificativi di Fiume, per impedire ai nazisti di rintracciare le loro vittime.
Tutto questo aveva creato un mito e portato una serie di riconoscimenti: la Medaglia d’oro al merito civile dello Stato italiano, la menzione come «Giusto tra le nazioni» al museo Yad Vashem, e la proclamazione di martire da parte di Giovanni Paolo II.
I numeri non tornavano, però. A Palatucci veniva attribuita la salvezza di circa 5.000 ebrei in una regione, il Carnaro, dove al massimo ne vivevano poco più di 600. L’unica testimone che aveva confermato di essere stata aiutata da lui era una donna, Elena Aschkenasy, che il funzionario aveva ricevuto nel 1940.
Il Centro Primo Levi allora ha avviato delle ricerche, che secondo la direttrice Natalia Indrimi hanno portato a questa conclusione: «Si è trattato di creazione postuma di anime». In sostanza lo zio vescovo di Palatucci aveva avviato l’operazione di riscoperta, per far avere la pensione alla sua famiglia. Poco alla volta però la storia era lievitata, perché faceva comodo un po’ a tutti: alla coscienza degli italiani, ai cattolici, agli stessi ebrei che potevano riconoscere dei giusti anche tra i gentili. Così era nato il mito, che aveva convinto tutti.
Un gruppo di storici ora ha potuto vedere circa 700 documenti originali di Fiume, che non erano stati distrutti, ma erano rimasti nascosti negli archivi jugoslavi. Ne è emerso che Palatucci non era il capo della polizia locale, ma un vice commissario incaricato proprio di compilare le liste, e aveva continuato a fare il suo lavoro anche dopo l’armistizio del 1943, giurando fedeltà alla Repubblica di Salò. La nave Agia Zoni non era partita su sua iniziativa, mentre a Campagna erano stati trasferiti solo una quarantina di ebrei, e due terzi di loro erano finiti ad Auschwitz. Il censimento, poi, dimostra che a Fiume c’erano in tutto 398 ebrei, e 245 furono deportati. Nell’intero Carnaro erano al massimo circa 600, e quindi i numeri sono sicuramente esagerati. Quanto alla fine di Palatucci, Kappler lo fece arrestare perché aveva cercato di passare agli inglesi informazioni sulla città, non perché sospettava che avesse aiutato gli ebrei a fuggire.
Non è la prima volta che questi dubbi emergono, ma stavolta sono finiti sul New York Times , perché il Centro Primo Levi li ha comunicati con una lettera allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, che aveva inserito una sezione dedicata a Palatucci nella sua mostra «Some Were Neighbors: Collaboration and Complicity in the Holocaust».
La sezione ora è stata tolta, e anche lo Yad Vashem sta rivedendo i documenti, per decidere se togliere l’italiano dalle persone riconosciute come giuste. Lo stesso Vaticano è informato e il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, ha detto che uno storico è stato incaricato di riesaminare la questione.
Natalia Indrimi dice che condurre queste ricerche non è stato facile, perché «si tratta comunque di un giovane che fece una fine tragica». La direttrice esecutiva del Centro Primo Levi riconosce che «Palatucci probabilmente si trovava a disagio nella sua mansione, tanto è vero che aveva chiesto otto volte di essere trasferito». Questo però non significa che sia stato un eroe dell’assistenza agli ebrei. Il passaggio dei documenti agli inglesi «probabilmente rientra negli effetti del disfacimento della Repubblica sociale, ma la valutazione dei motivi compete agli psicologi, più che agli storici. Del resto Kappler non aveva motivo di mentire, e se l’arresto di Palatucci fosse stato davvero legato all’aiuto fornito agli ebrei, lo avrebbe detto».
La Indrimi non vuole usare queste informazioni per distruggere il mito degli italiani brava gente, che avevano fermato la mano ai nazisti: «Ognuno», dice, «è libero di credere quello che vuole. La vita intellettuale, però, è una delle colonne del nostro Stato laico, ed è importante che i fatti siano conosciuti».
Fuori dall’Europa
di Gad Lerner (la Repubblica, 28 gennaio 2013)
Cosa aspetta il Ppe a liberarsi di questo impenitente ammiratore di Mussolini? Cos’altro manca per riconoscere che non è solo ignoranza storica se Berlusconi ha profanato col suo delirio revisionista la cerimonia milanese in ricordo della Shoah, prima di appisolarsi soddisfatto?
L’uomo che vent’anni fa sdoganò, con abile calcolo politico, il neofascismo italiano, ancor oggi alla presidenza della Regione Lazio ricandida quel Francesco Storace di cui ricordiamo le maledizioni contro Gianfranco Fini, colpevole di aver reso omaggio in Israele al memoriale degli ebrei sterminati dal nazifascismo. Mentre in Lombardia vorrebbe cedere il comando al segretario di un partito xenofobo e antieuropeo, Roberto Maroni, che da ministro dispose la raccolta delle impronte digitali dei bambini rom.
Prima di liquidarla come ennesima gaffe (con solita smentita), conviene ascoltarla e riascoltarla testualmente la dichiarazione rilasciata ieri di fianco al binario 21 da cui partirono verso Auschwitz i trenimerci dei deportati. Rivelatore è l’impulso di Berlusconi a comprendere le motivazioni del regime fascista: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora...». Ancor più netta è l’identificazione con «un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
D’accordo, c’è il delirio personalistico di un uomo che si ricandida per la sesta volta consecutiva a capo dell’Italia, immedesimandosi nel mito del Ventennio. Ma proprio per questo Berlusconi avverte la necessità di addomesticare la storia. Quasi che assolvendo quel Mussolini che, prima delle leggi razziali, «aveva fatto bene», gli venisse più facile chiedere poi agli italiani di chiudere un occhio anche sulle proprie, di malefatte.
Per questo ci vengono nuovamente propinate, sfregiando la Giornata della Memoria, le favole su una «connivenza non completamente consapevole» del fascismo nella persecuzione degli ebrei.
Fino a pretendere indulgenza per il Duce che promulgò le leggi razziali e ordinò la deportazione nei campi di sterminio, cui sarebbero da addebitarsi «responsabilità assolutamente diverse» rispetto a quelle di Hitler. Provo un senso di vergogna a commentare simili affermazioni; pur sapendo che lo stereotipo degli “italiani brava gente” è duro a morire in un paese che per reticenza e pavidità culturale delle sue classi dirigenti (Chiesa compresa) non ha fatto con la dovuta severità i conti con le sue responsabilità storiche.
Ormai è dimostrato incontrovertibilmente che il regime fascista aveva sprigionato il suo antisemitismo già ben prima del 1938, l’anno delle leggi razziali. Così com’è risaputo che il nazionalsocialismo tedesco aveva tratto ispirazione dalla dittatura mussoliniana, di cui era un alleato naturale.
Ma la destra di Berlusconi si nutre di questa teoria giustificazionista dei due tempi, secondo cui sarebbe esistito un fascismo buono, prima, e un fascismo cattivo poi. Non a caso gli manifestava benevolenza già dieci anni fa, quando doveva pur essere più lucido: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Il Duce mandava la gente in vacanza al confino», affermava.
Dimenticati in una sola boutade gli assassinii politici, i Tribunali speciali, la soppressione delle libertà democratiche che avevano preceduto le leggi razziali. Altro che «Mussolini per tanti altri versi aveva fatto bene».
Ma più ancora che il falso storico, colpisce il degrado morale rivelato da Berlusconi quando ci invita a comprendere la scelta di Mussolini alle prese con la forza di quell’alleato tedesco che pareva destinato a conquistare l’Europa intera.
Ascoltiamolo di nuovo testualmente: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora. Certamente il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. E dentro questa alleanza ci fu l’imposizione della lotta...» - qui Berlusconi esita un attimo sull’uso osceno della parola “lotta”, prima di aggiungere - «... e dello sterminio contro gli ebrei. Quindi il fatto delle leggi razziali è la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
Dobbiamo ritenere che, date le circostanze, per necessità, per convenienza, anche lo “statista” Berlusconi potrebbe subire simile “imposizione” da dittatori criminali contemporanei? Noi sappiamo bene che il Duce era razzista e antisemita in proprio, senza bisogno dell’incoraggiamento di Hitler. Ma a Berlusconi che vuole ignorarlo, e si sforza di entrare nei panni di Mussolini, dovremmo forse concedere una tale infame esitazione?
La solerte riabilitazione dei docenti razzisti
di Michele Sarfatti (Corriere della Sera, 22.01.2013)
Il documento del luglio 1938 «Il fascismo e i problemi della razza», noto anche come Manifesto del razzismo fascista, ebbe dieci firmatari, tutti universitari. I loro nomi sono noti: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzì, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari. Verrebbe spontaneo ritenere che, cessata la Seconda guerra mondiale, sconfitto il fascismo, debellato l’occupante nazista, abrogata la legislazione antiebraica e razzista, quei dieci studiosi siano stati, se non puniti, almeno espulsi, rimossi, allontanati dal sistema educativo italiano.
Barbara Raggi ha scritto il saggio Baroni di razza. Come l’università italiana ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, (Editori Internazionali Riuniti, pp. 216, € 22,90) per comprovare e ricordarci che così non è stato. Che quei dieci e molti altri protagonisti italiani di vario livello dell’ideologia e della propaganda antisemita e razzista sono rimasti o rapidamente rientrati al loro posto di insegnamento e di ricerca, o comunque sono stati assolti, amnistiati, perdonati, restituiti a una incredibile condizione di sostanziale innocenza.
È accaduto che, nei singoli procedimenti di epurazione (prima e indipendentemente dall’amnistia generalizzata), di uno si tacquero o si declassarono gli articoli pubblicati sulla rivista «La difesa della razza», di un altro si omise la partecipazione all’Ufficio razza del ministero della Cultura popolare. Un terzo venne prosciolto già in istruttoria, senza che ce ne siano pervenute le motivazioni. Di altri si evidenziarono (a difesa) i soccorsi dati ad alcuni ebrei al momento della deportazione, come se l’antisemitismo non omicida cessasse di essere un delitto, un reato, una pugnalata inferta all’intera società.
Di tutti si negava o si taceva l’azione e/o l’intenzione razzista, sì che, verso la fine dell’illustrazione delle vicende individuali, così Barbara Raggi sarcasticamente sintetizza la situazione: «I docenti universitari italiani sono stati gli unici intellettuali europei ad aver manifestato il proprio dissenso contro le politiche antiebraiche, praticate negli Stati di cui erano cittadini, accettando di lavorare negli organismi che le promuovevano».
L’autrice si interroga anche su chi furono i riabilitatori di questi antisemiti. Alcuni erano fascisti e antisemiti come gli imputati. E difendevano loro per difendere se stessi. Molti erano mossi dallo spirito di casta: non volevano che questioni «esterne» all’università prevalessero sulle regole eterne del corpo accademico. Tra questi ultimi vi erano anche persone nettamente antifasciste, affette - scrive Raggi - da un vero e proprio «strabismo corporativo».
Un professore (Cotronei) ammonì i colleghi della facoltà di Scienze della Sapienza che «un nostro voto di conferma al prof. Zavattari viene inevitabilmente ad avere il significato di un atto di solidarietà; significa in altre parole che noi non disapproviamo particolarmente dottrine della natura di quelle sopra ricordate», ma la discussione del Consiglio di facoltà si concluse con 11 voti a favore dello zoologo razzista, 7 contrari e una scheda bianca.
Tutto ciò ovviamente si innestò sulle strategie di difesa tecnica degli imputati e l’insieme produsse un altissimo risultato di permanenze o rapidi riaccoglimenti dei docenti antisemiti nel sistema educativo superiore (risultato che inoltre fu ben superiore a quello relativo al reingresso in servizio dei professori ebrei espulsi nel 1938, come è stato ricostruito da Roberto Finzi e altri storici). E questi pieni riaccoglimenti furono (e spesso sono tuttora) accompagnati da curricula e biografie mutile, colme di omissioni: come se essi non avessero mai agito con la testa e con la penna contro ebrei e neri.
Il libro di Barbara Raggi «Baroni di razza», viene presentato oggi, alle ore 18, alla libreria Claudiana di Milano (via Sforza 12), da Pasquale Chessa e Michele Sarfatti
Epurazione all’italiana per gli accademici della razza
di Angelo d’Orsi (il Fatto 1.12.2012)
Paesi che hanno attraversato i totalitarismi novecenteschi hanno affrontato tutti il trauma della transizione democratica. Che fare di coloro che si erano compromessi con i passati regimi? In Italia le cose sono andate in modo morbido, non per una sorta di originario carattere degli italiani - bontà, allegria, leggerezza, generosità, virtù che potrebbero anche essere lette come sciatteria e pressappochismo; la causa fondamentale fu politica, e legata al desiderio di Togliatti di pacificazione, per ricostruire il paese in una sorta di larghe intese con il mondo cattolico, largamente compromesso con il fascismo. Risultato? A differenza della Germania che avviò un ripensamento dell’esperienza, in Italia una poderosa amnistia lavò con i crimini anche la coscienza.
NONDIMENO ciò che non è stato fatto dalla politica è stato compiuto, sia pure lentamente, dalla storiografia. L’ultimo risultato in ordine di tempo emerge da un libretto di Barbara Raggi (Baroni di razza. Come l’università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, con prefazione di Pasquale Chessa, Editori Internazionali Riuniti), un lavoro che, va detto, non ha tutte le carte in regola sul piano scientifico, ma interessante e vivace, che affronta, in modo un po’ random, le vicende relative ad alcuni personaggi coinvolti, sia pure non direttamente nelle vesti oscene dei carnefici, nella politica razziale dal 1938 in poi. Ma, sottolinea la Raggi, impietosamente, e non sempre con argomenti del tutto persuasivi, essi furono colpevoli allo stesso modo.
Soprattutto l’autrice mette il dito non tanto sulle loro colpe, quanto su quelle dell’accademia italiana, che con grande prontezza raccolse quei suoi “figli” sottoposti ai rigori dell’epurazione, almeno nei suoi primi tempi, prima che ci si ponesse una pietra su.
Il libro si sofferma su alcune figure, quali Giacomo Acerbo, Nicola Pende, Gaetano Azzariti, Sabatino Visco, Antonino Pagliaro, Alessandro Ghigi e qualche altra comparsa. Si tratta di esponenti di varie discipline, da quelle giuridiche a quelle biologiche, tutti coinvolti, a partire dal ’38, o nella teorizzazione del razzismo, o nella sua applicazione pratica, o ancora nella gestione dei provvedimenti di discriminazioni volti a “salvare” gli ebrei o per meriti “patriottici” (provvedimenti assai ridotti di numero), o a dichiarare “non ebrei” coloro che certificavano variamente di esser tali, in un umiliante esercizio di autonegazione. La realtà è che larga parte del mondo universitario, fra protagonisti e comprimari, fu coinvolta nella politica razziale del fascismo, e anzi sulle “teorie” della razza si costituirono carriere accademiche, con apposite cattedre, riviste, trattati.
UNA DISCUSSIONE priva di qualsivoglia valore scientifico, che, a dispetto di dispute accanite, tra studiosi obnubilati nel cupo cielo del razzismo, finì nel nulla; ma i suoi effetti pratici nondimeno furono esiziali, per le vite, i beni, la dignità delle persone.
Ripercorrere le tappe di questo cammino verso l’abisso è già di per sé un utile esercizio (morale, non soltanto intellettuale), ma più innovativo è il libro quando racconta le astuzie di costoro che, giustamente cacciati dall’insegnamento (talora addirittura condannati a lunghe pene detentive o addirittura a morte), vi rientrarono ricorrendo a un tessuto di complicità nel mondo universitario. Fu la logica del cane non mangia cane. E questa barricata autocorporativa fu persino più forte della volontà politica.
Il caso di Giacomo Acerbo valga per tutti: autore della famigerata legge che diede ai fascisti minoranza in Parlamento la maggioranza assoluta dei seggi, relatore del d. l. del 1938 che istituiva in luogo della Camera dei deputati quella dei Fasci e delle Corporazioni, ministro, fu presidente del Consiglio superiore per la demografia e la razza, nel cui ambito elaborò un concetto di razza fatto per piacere insieme al duce e alla Santa Sede, pubblicando nel ’40 un inconfondibile Fondamenti della dottrina fascista della razza.
Ma Acerbo ebbe la buona sorte di votare contro Mussolini nella notte fatale del 25 luglio. Ciò gli valse sì la condanna a morte al Processo di Verona ma anche da parte dell’Alta Corte italiana; sfuggito alla prima, amnistiato dalla seconda, ingaggiò un lungo braccio di ferro con la Commissione per l’epurazione e con lo stesso ministero della Pubblica Istruzione per essere reintegrato. E la vinse, grazie precisamente al sostegno unanime della sua facoltà (Economia) e della sua università (la Sapienza). Alla torta fu poi il presidente della Repubblica Antonio Segni ad aggiungere una ciliegina, conferendo nel 1962 al prof. Acerbo la medaglia d’oro per i “benemeriti della scuola”.
Il patto segreto tra Chiesa e Duce
di Francesca Margiotta Broglio (Corriere della Sera, 26 luglio 2012)
Il 1° luglio il Museo Yad Vashem di Gerusalemme ha annunciato che il pannello «Pio XII e l’Olocausto» non solo ha cambiato il titolo («Il Vaticano e l’Olocausto»), ma è stato modificato nei suoi contenuti negativi per tener conto delle più recenti acquisizioni della ricerca storica, anche se il controverso tema, in attesa della disponibilità di «tutto il materiale rilevante», resta «aperto a ulteriori indagini». «L’Osservatore Romano» ha parlato di «Pio XII restituito alla storia» e ha preso atto che «finalmente si parla di storia, di documenti, di nuove acquisizioni e si dà conto di un dibattito aperto», pur registrando i dissensi. L’«Avvenire» ha sottolineato che non si tratta di vero «ribaltamento di giudizio», ma di «contestualizzazione più problematica».
È necessario osservare che la ricca storiografia ha affrontato l’argomento, in genere, isolando il Pacelli pontefice dal Pacelli segretario di Stato di Pio XI per quasi tutti gli anni Trenta. Come se fosse possibile studiare l’operato del Papa senza tenere conto di quello, immediatamente precedente, del «capo» del governo vaticano (primo e autorevole, anche se non sempre ascoltato, consigliere di papa Ratti), oggi agevolmente analizzabile grazie all’apertura fino al 1939 degli archivi della Santa Sede.
Inizia, ora, a colmare questa lacuna un innovativo contributo monografico (circa 70 pagine) di Giorgio Fabre - di cui è imminente la pubblicazione nel fascicolo 76 dei «Quaderni di Storia» diretti da Luciano Canfora - il quale ha utilizzato non solo la documentazione di quegli archivi (soprattutto quella della sezione «Affari straordinari» della Segreteria di Stato), ma anche quella degli archivi romani della Compagnia di Gesù e, in particolare, le inedite «carte» del padre Tacchi Venturi, ufficioso, ma efficace e diretto tramite tra Pio XI e Mussolini.
L’argomento è l’accordo raggiunto tra il gesuita e Mussolini il 16 agosto 1938, «al fine di ristabilire la buona armonia», su due questioni che avevano messo in profonda crisi i rapporti tra la Santa Sede e il regime fin dall’autunno dell’anno precedente: l’incompatibilità tra iscrizione al Pnf e militanza nell’Azione cattolica - esclusa dagli «Accordi» in materia del 1931 negoziati anch’essi da Tacchi Venturi, sui quali getta nuova luce un recentissimo e rilevante scritto di Giovanni Coco apparso nello «Archivum historiae pontificiae» - e la dura reazione iniziale di papa Ratti alla nuova politica razzista del governo.
Un accordo parzialmente noto, ma fuori contesto, per cui, ora che Fabre lo ha ricostruito e collegato alla dispersa documentazione vaticana, appare chiaro che ne era risultato distorto il significato. Esso venne preparato da almeno due colloqui e da due documenti ispirati dal Papa e rappresentò un «punto intermedio, ma non certo definitivo di pacificazione» e consistette «in uno scambio preciso e formale tra Chiesa e fascismo in base al quale quest’ultimo avrebbe rispettato l’Azione cattolica e la Chiesa sarebbe stata zitta sul razzismo e gli ebrei. La Chiesa avrebbe accettato il silenzio, ricevendo in cambio la salvaguardia della sua organizzazione laica, la pupilla di Pio XI».
L’autore ricostruisce per la prima volta nel loro complesso le vicende, talvolta drammatiche, che portarono a quella intesa e quelle «tutt’altro che lineari che seguirono», mettendo in evidenza come al primo punto vi fosse il problema «razzismo ed ebraismo», sul quale il Duce assicurava, con qualche ironia, che gli «onesti criteri discriminatori» non sarebbero stati peggiori di quelli adottati «per secoli e secoli dai Papi» (senza però ghetti e contrassegni) e auspicava vivamente che la stampa e le autorità cattoliche si astenessero «dal trattare in pubblico» l’argomento sul quale Pio XI e Mussolini avrebbero potuto intendersi «direttamente in via privata» (in un appunto a lapis il gesuita annota: «Smettere di predicare contro il razzismo»).
Al secondo punto il Duce dichiarava di voler mantenere «intatto e nel suo pieno vigore» l’accordo del 2 settembre 1931 e assicurava che le tessere del Pnf sarebbero state restituite agli appartenenti all’Azione cattolica iscritti al partito, consentendo loro di non perdere gli impieghi civili. In sintesi «Mussolini legava le mani alla Chiesa... e liberava le sue; in cambio avrebbe lasciato tranquilla l’Azione cattolica. Questo l’accordo "felicemente conchiuso" da Tacchi Venturi».
Da un appunto dell’allora monsignor Montini appare, però, che «Sua Santità è rimasta urtata dal punto sugli ebrei sotto il governo pontificio» e che «padre Tacchi spera che il Santo Padre si calmerà». Certo in un intervento del 21 agosto il Pontefice si riferirà soltanto all’«esagerato nazionalismo» e comunque Mussolini continuerà a «tenere il Papa sulla corda», il quale, però, ricevendo nel settembre i dirigenti della radio belga, dichiarerà: «Nous sommes spirituellement des semites».
Lapidaria l’annotazione di Goebbels in proposito: «Il fascismo oppone resistenza alla Chiesa e difende con grande slancio il suo punto di vista sulla razza. Il Papa non ha proprio più niente da ridere».
I silenzi della Chiesa all’indomani della guerra
di Claudio Vercelli (il manifesto, 25 luglio 2012)
I secolari rapporti tra ebraismo e cattolicesimo sono sempre stati filtrati in Europa dalla presenza di quel magistero unificato che è esercitato dalla Chiesa di Roma. Di fatto, più che scambi tra due confessioni religiose, avendo a che fare con soggetti di natura diversa, sarebbe meglio impostare la questione a partire dalle relazioni tra un’istituzione collettiva e quelle organizzazioni sociali, assai più segmentate, che portano il nome di comunità ebraiche (o «università israelitiche», in ebraico «Kehillot»). Già da questa strutturale asimmetria tra soggetti, che si articola nel corso di due millenni, si coglie la specificità dei legami conflittuali che arrivano, per più aspetti, fino ai giorni nostri.
La ricaduta sul senso comune degli insegnamenti della Chiesa nei paesi a maggioranza cattolica era (e rimane) infatti un tornante ineludibile nella definizione dello statuto civile degli ebrei, riconosciuti perlopiù in quanto parte di un gruppo culturalmente e socialmente autonomo rispetto alla maggioranza della popolazione.
Dall’illumismo e dall’età rivoluzionaria in poi l’influenza ecclesiale è andata ridimensionandosi, parallelamente all’affermarsi dei diritti civili legati alla concezione prima liberale e poi sociale degli Stati nazionali. Rimane purtuttavia irrisolto il nodo complesso della rilevanza culturale che il cattolicesimo istituzionale ha esercitato, anche in tempi relativamente recenti, in Italia come nel Continente, nell’elaborare la specificità dell’identità ebraica, intesa come alterità assoluta, concorrenziale, irriducibile ai paradigmi dell’egemonia cristiana.
Molti sono stati gli studi e le riflessioni che, stimolati anche dagli effetti prodotti nel lungo periodo dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione «Nostra aetate», hanno cercato di mettere a fuoco i passaggi fondamentali delle non facili relazioni.
Tra tutti basti citare i lavori di Giovanni Miccoli. Una giovane studiosa, Elena Mazzini, ha pubblicato di recente per Viella un buon testo dedicato all’Antisemitismo cattolico dopo la Shoah. Tradizioni e culture nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1974) (pp. 200, euro 25), concentrando la sua riflessione su un periodo fino ad oggi trascurato, quello successivo al 1945 e che termina con i primi anni Settanta. Il volume raccoglie lo spoglio svolto su una pluralità di fonti, quasi tutte interne al cattolicesimo italiano. L’obiettivo era quello di verificare la persistenza dell’antisemitismo cattolico dopo la fine della guerra e di individuare le sue forme e i suoi contenuti, nelle perduranze come nei mutamenti.
Il lavoro di Mazzini si è quindi concentrato sui linguaggi e sulle formule culturali che hanno accompagnato la riflessione cattolica, soprattutto di matrice istituzionale, verso gli ebrei. Ne è derivata una ricognizione sui paradigmi e gli stilemi comunicativi di parti significative della Chiesa postbellica che è anche una riflessione su come l’istituzione ecclesiale abbia cercato di rielaborare i disastri del conflitto medesimo, a partire dalla Shoah, mentre andava confrontandosi con l’ineluttabilità dei processi di modernizzazione delle società di massa.
Il quadro delle reticenze e delle elusività è ampio, segnalando sia il perdurare, almeno in certi aspetti, di alcuni cliché radicati, sia il persistere della teologia antigiudaica che è la matrice di fondo della dottrina cattolica tradizionalista. Afferma l’autrice: «Ci troviamo di fronte a una ristrutturazione discorsiva piuttosto che a una revisione di sistema». Cambia la retorica, non l’approccio diffidente.
Un significativo registro di queste tendenze è fornito da «Civiltà cattolica», l’autorevole periodico gesuita dal cui spoglio Mazzini intesse diverse riflessioni. Ma più che il mero riprodursi di un pregiudizio attivo quello che si registra a cavallo tra la seconda metà degli anni Quaranta e la conclusione del periodo conciliare è una atteggiamento di rimozione nei confronti degli ebrei, a partire dalle tragedie da essi vissute. Non c’è infatti nessuna forma di rielaborazione del recente passato, riaffermandosi semmai l’elusività (la «metodica del silenzio»), espressione sia di una perdurante ambiguità di fondo che di incertezze crescenti.
L’impatto dell’esperienza conciliare sarà quindi complesso e a tratti contradditorio, segnalato più da piccoli scarti, nell’insufficiente tentativo di superare l’«immagine addomesticata dell’altro», che non dall’assunzione di una diversa visione dell’ebraismo nel suo insieme.
È in questo interstizio che si inserisce quel fenomeno di permanenza nel mutamento che accompagna l’antiebraismo cristiano in quanto narrazione plastica, capace di adattarsi alle diverse contingenze storiche, laddove questo tipo di approccio intransigente e sostanzialmente reazionario si rivela funzionale a quelle esigenze di coesione interna e a un più generale discorso identitario dove il «di fuori» dal perimetro della dottrina viene ancora vissuto come una minaccia incombente.
Malgrado gli accordi, sul razzismo Pio XI non tacque mai
di Valerio De Cesaris (Corriere della Sera, 6 agosto 2012)
Sul «Corriere» del 26 luglio, Francesco Margiotta Broglio, presentando uno studio di Giorgio Fabre per i «Quaderni di Storia», ha richiamato l’accordo al quale la Chiesa di Pio XI e il governo di Benito Mussolini giunsero il 16 agosto del 1938 sulla questione del razzismo. Si tratta, nota Margiotta Broglio, di una vicenda in parte nota, ma sulla quale Fabre getta nuova luce. L’accordo, è bene ricordarlo, giungeva dopo settimane di alta tensione e due gravi discorsi di Pio XI: il primo contro il Manifesto degli scienziati razzisti (15 luglio); il secondo in cui il Papa lamentava che l’Italia, sul razzismo, imitasse «disgraziatamente» la Germania (28 luglio).
L’intesa - negoziato per parte vaticana dal gesuita Pietro Tacchi Venturi - prevedeva un do ut des: il fascismo avrebbe rispettato l’Azione cattolica mentre il Papa (e con lui la stampa cattolica) avrebbe dovuto tacere sul razzismo.
In realtà, però, l’accordo non segnò una svolta nello scontro che oppose la Santa Sede e il fascismo nel 1938. Fu anzi rapidamente accantonato, perché il Papa scelse di non tacere. Già il 19 agosto un articolo dell’«Osservatore Romano» ribadiva la posizione tradizionale della Chiesa nei confronti degli ebrei, per sottolineare che l’ostilità antiebraica di parte cattolica non poteva in alcun modo dipendere da «ostracismo di razza»; il Papa, nei giorni seguenti, continuò a criticare il razzismo, contravvenendo quindi a quanto stabilito nell’accordo. Il 22 agosto Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero di Mussolini, annotò nel suo diario: «Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce, che ha convocato per questa sera Padre Tacchi Venturi, si propone di dare un ultimatum...».
Un ultimatum formale non vi fu, ma vi furono pressioni alle quali il Papa non si piegò. Le due parti restarono, su razzismo e antisemitismo, in forte contrasto. Il 6 settembre, all’indomani dei provvedimenti fascisti che escludevano gli ebrei da scuole e università, Pio XI pronunciò le celebri frasi sul legame indissolubile tra cristianesimo ed ebraismo: «Non è lecito per i cristiani prendere parte all’antisemitismo. L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti». Nelle settimane e nei mesi successivi «L’Osservatore Romano» criticò quasi quotidianamente il razzismo.
Quando, tra ottobre e novembre 1938, la Santa Sede chiese più volte al governo italiano di discutere assieme il contenuto delle leggi razziali, Mussolini non volle concedere nulla. Le proposte di modifica avanzate dal Vaticano furono respinte. Le proteste del Papa, che scrisse personalmente al re Vittorio Emanuele III e a Mussolini perché non si vietassero i matrimoni misti, rimasero inascoltate (Mussolini neppure rispose alla lettera di Pio XI).
In quel frangente, l’atteggiamento del Duce fu volutamente umiliante verso il papa. Forse proprio perché quest’ultimo, nei mesi precedenti, non aveva voluto piegarsi al diktat di non parlare del razzismo. Tema su cui le posizioni di Pio XI e di Mussolini erano inconciliabili e tali rimasero sino alla morte del Papa.
Prima e dopo la Shoah: tutte le responsabilità italiane
di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 25.01.2011)
Alcuni storici sostengono oggi la necessità di riscrivere la storia della persecuzione e dello sterminio degli ebrei d’Europa in modo «integrato» , mettendo insieme documenti d’archivio di parte nazista e fascista, che rendano conto dei fatti prodotti dagli esecutori e dai loro apparati militari e civili, e la voce delle vittime, non solo sulla base delle testimonianze postbelliche (deposizioni nei tribunali, interviste, memorie ecc.); ma soprattutto utilizzando diari, lettere, annotazioni scritte durante lo svolgersi degli avvenimenti. Così ha fatto recentemente Saul Friedländer (con il suo Gli anni dello sterminio, Garzanti 2009), restituendo al lettore uno sguardo sulla storia più coinvolto, perché dentro le parole, le paure, i drammi e la vita in generale di chi non poteva prevedere forse nemmeno il domani.
Ed è certo questo un modo di fare la storia che si oppone a coloro che vorrebbero riscrivere la vicenda del nazismo e del fascismo dando voce solo ai persecutori (siano essi semplici soldati SS o ufficiali e alti gerarchi). Così accade che lo spazio aperto per questa storia vista e ricostruita con gli occhi e la voce delle vittime sia ancora molto ampio, per qualità dei racconti e delle ricostruzioni, ma soprattutto per la possibilità offerta al lettore di cogliere appieno il «sentimento» degli accadimenti, nella loro profonda e articolata complessità. Mario Avagliano e Marco Palmieri, con il nuovo libro Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945 (Einaudi, pagine 388, € 15) si collocano in questo solco della ricerca. Non solo: il loro libro estende il «dovere della memoria» a tutto il periodo della persecuzione, dalle leggi razziste del 1938 alla liberazione dei lager e al ritorno dei deportati del 1945.
La caduta nel cosiddetto «cono d’ombra della Shoah» dell’Italia viene riportata alla fase della persecuzione dei diritti (quando nel 1938 gli ebrei italiani persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in patria come italiani), in stretta continuità con quella, seguita all’ 8 settembre del 1943, della persecuzione delle vite. Un continuum storico che accusa il fascismo non solo nella sua espressione rinata sotto la forma della Repubblica sociale italiana. Le lettere, i diari, le annotazioni private, scritti per lasciare una traccia degli avvenimenti (ai famigliari dispersi, agli amici) e del proprio passaggio in terra (per quegli ebrei con destinazione Auschwitz posti di fronte a una deportazione che si preannunciava fin da subito foriera di una grave minaccia alla vita) rendono con forza, evocativa ed emotiva, il trascorrere dei minuti e dei giorni di quei terribili anni. E si coglie sia l’illusione di un possibile cambiamento (per coloro che videro nelle leggi razziste del 1938 un accanimento che sperarono non avesse un seguito concreto e tanto meno drammatico), sia il dramma di una lacerazione con la comunità di una patria che non riconosceva più i suoi figli di «razza ebraica» ; sia la disperazione di chi, pur nella scelta della Resistenza, si percepiva diviso, non più capace di progetti per il futuro, anche quando la morte non spaventava e prevaleva il coraggio della gioia.
I documenti «privati» pubblicati da Avagliano e Palmieri, in gran parte per la prima volta, o recuperando testi per lo più introvabili e dispersi, ci propongono un autoritratto della vita degli ebrei sotto il fascismo a tinte forti.
Suddivisi in capitoli a carattere tematico o cronologico, consentono anche di ripercorrere in modo agevole e puntuale l’intera storia della persecuzione antiebraica in Italia tra il 1938 e il 1945; e rimandano il lettore, direttamente, senza mezze misure alle colpe del fascismo italiano, a partire dalla campagna di propaganda antisemita, fino alla caccia all’uomo, che fece seguito all’istituzione dei campi di internamento fascisti, e alla collaborazione diretta con i nazisti negli arresti e nelle deportazioni. Tra gli altri capitoli, quello riferito agli ebrei nella Resistenza, insieme a quello della partenza verso i lager e al difficile ritorno alla vita, ci sembrano fortemente carichi di suggestioni e di riflessioni con richiami all’attualità. Molto utile l’introduzione storica che traccia, riferendosi a una ampia bibliografia, una sintesi dei maggiori avvenimenti che portarono il fascismo a collaborare allo sterminio nazista.
Novecento . Un saggio sulla «Difesa della razza» e sulle discussioni che la rivista suscitò nella cultura del regime
E il fascismo arruolò Dante e Leopardi per colpire gli ebrei
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 30.12.2008)
Uno dei falsi più eclatanti fu l’arruolamento di Giacomo Leopardi come «poeta protofascista», addirittura precursore del mito ariano. Si leggeva anche questo sulla rivista La Difesa della razza: fuMassimo Lelj, bizzarra figura di ex anarchico convertito alla fede littoria, grande cultore della filosofia di Vico, a pubblicare un’antologia di pensieri tratti dallo Zibaldone, scelti e commentati con perizia manipolativa in modo da presentare l’autore come un accanito nazionalista. E lo stesso Lelj non esitò ad arruolare anche Dante: di lui scriveva che, adottando la lingua volgare, ci aveva mostrato «il volto della razza».
D’altronde tutta la carriera di Telesio Interlandi, direttore del famigerato quindicinale, è segnata da un sistematico asservimento della cultura, di cui il giornalista siciliano non era affatto sprovvisto, alle esigenze politiche. Non a caso le sue creature, a partire dal quotidiano Il Tevere (fondato nel 1924), furono sempre generosamente foraggiate dal potere. Lo storico Francesco Cassata, nell’ampio e approfondito saggio «La Difesa della razza» (Einaudi), presenta Interlandi come un «estremista di regime», un ringhioso mastino antisemita che per diverso tempo Benito Mussolini tenne al guinzaglio, per poi scatenarlo al momento di varare le leggi razziali, affidandogli uno strumento apposito per colpire con violenza inaudita le vittime designate.
Non bisogna credere però, nota Cassata, che La Difesa della razza, con i testi e le immagini aberranti di cui il volume fornisce copiosi esempi, fosse l’unica (e magari isolata) espressione del razzismo fascista. Al contrario, proprio l’attenta ricostruzione delle polemiche suscitate dalla rivista dimostra che l’antisemitismo circolava abbondantemente negli ambienti intellettuali legati al regime. Per esempio il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti respingeva con sdegno gli attacchi di Interlandi all’arte moderna quale «adulterazione ebraica del gusto italiano», ma solo per sostenere che gli ebrei non erano dotati di alcuna creatività artistica e quindi appariva assurdo attribuire a loro le realizzazioni delle correnti d’avanguardia.
Inoltre Cassata documenta quanto possa essere fuorviante una distinzione rigida tra il razzismo biologico e quello spirituale. È vero che il filosofo tradizionalista Julius Evola fustigava ogni visione «zoologica » e «scientista», a suo avviso subalterna agli «idoli del positivismo ottocentesco», richiamandosi al valore preminente dello spirito. E dalle colonne della Difesa della razza gli replicava, per una curiosa combinazione, un futuro strenuo avversario degli evoliani nel Msi, Giorgio Almirante, che esaltava invece il razzismo «del sangue, della carne e dei muscoli». Ma a ben vedere Evola non rigettava affatto la discriminazione su base biologica, semmai intendeva integrarla e affinarla su un più sofisticato piano etico, per definire una concezione «totalitaria » della razza atta a smascherare gli individui che «pur non essendo proprio ebrei nel sangue, lo sono decisamente nel modo d’essere e nel carattere».
Al tempo stesso, Interlandi e i suoi collaboratori non si accontentavano certo di bersagliare ebrei, neri e meticci, magari raffigurandoli in forma di animali repellenti (rettili, ragni, topi, avvoltoi). La Difesa della razza era anzi ossessionata dalle influenze giudaiche occulte, temute come un gravissimo fattore d’inquinamento della nazione. Pullulavano quindi sulle sue pagine, come su quelle del Tevere e dell’altra rivista interlandiana, Quadrivio, le invettive rivolte alla «gente falso-ariana, indelebilmente circoncisa, anziché sul prepuzio, nella malata profondità dello spirito». L’intera borghesia italiana, per il fascismo razzista intransigente, era sospetta di coltivare abitudini contaminate dalla mentalità ebraica.
Insomma, sottolinea Cassata, La Difesa della razza e i suoi critici spiritualisti, compresi quelli di fede cattolica come Nicola Pende e Giacomo Acerbo, concorsero a produrre un sincretismo razzista nel quale i confini tra biologia e cultura tendevano a sfumare. L’importante non era la coerenza teorica, ma lo sforzo di plasmare un «italiano nuovo », depurato da qualsiasi influsso allogeno e prono alle direttive del regime. Perciò il motivo razziale va considerato parte integrante della «rivoluzione antropologica» perseguita dal fascismo. Il «culmine logico, seppure estremo», come scrive Cassata, del programma di Mussolini. Non certo una fatale deviazione dovuta alla scelta politica di allearsi con il Terzo Reich.
Ideologie Teorie pseudoscientifiche, populismo, fondamentalismo religioso, xenofobia
Tutti i pregiudizi che alimentano l’antisemitismo
di A. Car. (Corriere della Sera, 30.12.2008)
Morbo niente affatto debellato, l’antisemitismo continua ad attirare l’interesse degli studiosi. Lungi dal costituire «una teoria ideologica precisamente strutturata», osserva lo storico Simon Levis Sullam nel saggio L’archivio antiebraico (Laterza, pp. 101, € 14), esso si presenta come un groviglio retorico in cui confluiscono elementi della più varia natura (stereotipi xenofobi, pregiudizi religiosi, suggestioni anticapitaliste e populiste), che si combinano di volta in volta in forme diverse. Una rassegna ampia e articolata di come il problema si è posto in Italia (con interessanti incursioni altrove, dalla Gran Bretagna alla Romania) si trova nel volume L’intellettuale antisemita (Marsilio, pp. 229, € 20), curato da Roberto Chiarini e aperto da una prefazione di Stefano Folli. Il libro raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Salò dal Centro studi sulla Rsi, con un confronto serrato fra studiosi di vario orientamento (da Giovanni Belardelli a Francesco Germinario, da Alberto Cavaglion a Renato Moro) sulle origini, la natura e le conseguenze dell’antisemitismo fascista.
Sposta invece l’obiettivo dai persecutori alle vittime, soffermandosi sul nodo della memoria, lo studio di Raffaella Di Castro Testimoni del non-provato (Carocci, pp. 327, € 26): un’inchiesta sulla difficile condizione psicologica e morale di coloro che, come l’autrice, hanno avuto la ventura di ascoltare testimonianze dirette dei propri cari sulla Shoah. Da segnalare infine il numero speciale dedicato al settantesimo delle leggi razziali dalla rivista Ventunesimo Secolo, edita da Rubbettino.
Manifesto leghista sulla razza
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2010)
Chissà se interesserà ai colleghi deputati e senatori del Pd che hanno benevolmente facilitato la legge leghista sul “federalismo fiscale” sapere che il sindaco di Tradate (Varese) ha presentato il primo esplicito testo leghista sulla razza, e lo ha fatto con un atto legale rigorosamente razzista presentato alla Corte di Appello di Milano?
Attenzione ai fatti. Il sindaco di Tradate, Stefano Candiani, Lega Nord, non è peggiore degli altri. Infatti il passaggio del “pacchetto sicurezza” autorizza i sindaci a estrose iniziative che negano la Costituzione e lo Stato e danno la vera interpretazione al “federalismo fiscale” che ha come scopo esclusivo eliminare gli italiani del Sud, insegnare il dialetto, tormentare gli immigrati e cacciare i rom.
Ma, e il futuro? Chi pensa al futuro della gente bianca che, come sapete, nel Nord leghista non è minacciata dalle vigorose infiltrazioni della ‘ndrangheta ma dalla presenza di immigrati che lavorano tutti, producono tutti per l’economia italiana e le pensioni italiane; ma poi la brava gente bianca e leghista della Padania vuole che non abitino, vuole che non preghino, vuole che non facciano figli.
E così il sindaco Candiani di Tradate ha emesso l’editto sui bambini. Prescrive, nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza: “Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani”. Vuol dire: bianchi. L’editto eredita lo spirito del “pacchetto di leggi per la difesa della razza” del 1939.
Contro l’editto di Tradate sono intervenuti cittadini e gruppi per denunciare l’evento incredibile. E’ intervenuto il Tribunale di Milano che ha dichiarato, in sentenza “Un evidente intento di discriminazione”. Di solito, di fronte a rari atti di resistenza, i leghisti parlano di equivoco, cambiano discorso. Non adesso. Cito dal documento leghista di ricorso in appello: “Il fine perseguito non è nel modo più assoluto di garantire sostegno a un bisogno. Il fatto è che la popolazione europea mostra un forte tasso di calo demografico. E’ del tutto ovvio che alla morte dei popoli si accompagna la morte delle rispettive culture. Il bonus attiene al futuro della cultura europea indissolubilmente legata ai popoli dell’Europa medesima”.
Il dottor Goebbels e il Ku Klux Klan non avrebbero potuto dire meglio. La sfida alla Costituzione, ma anche a tutte le leggi e ai trattati sottoscritti dall’Italia con il resto del mondo libero e civile, adesso è aperta. Sarebbe bene che lo sapessero e lo ricordassero i compagni, gli amici, gli astanti della Festa Pd di Torino che rimpiangono ancora la mancata partecipazione di Cota, Maroni e Calderloli
Berlino 1921 qui si prepara la Shoah
di Andrea Cortellessa *
Non sempre gli atti di un convegno sono riservati agli specialisti. Lo dimostra Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, appena uscito da Viella (a cura di Marina Beer, Anna Foa e Isabella Iannuzzi, pp. 223, € 23), soprattutto rivolto ai giovani, prime vittime delle campagne neo-razziste oggi sfrontatamente proposte da certi media. Ci appaiono talmente folli, i paradigmi razzisti, che fatichiamo ad accorgerci di come facciano breccia nella cultura di massa (basti pensare agli slogan delle tifoserie calcistiche).
Il libro mostra come l’episodio più nefando della nostra storia recente - appunto le Leggi razziali con le quali il Fascismo privò dei loro diritti gli ebrei italiani - sia stato a lungo «rimosso» dalla nostra cultura (gli ultimi dispositivi correlati sono stati abrogati solo nel 1987!): dando così vita a un mito, quello del «buon italiano», che ci impedisce di fare i conti con le pagine più buie della nostra storia.
Fra i contributi spicca quello di Giorgio Fabre su Giulio De Benedetti: nel dopoguerra per due decenni mitico direttore della Stampa, ma già brillante columnist durante il Ventennio. Prima vezzeggiato poi malvisto dai gerarchi (si iscrive al Fascio nel 1927), cade definitivamente in disgrazia - com’è ovvio - con le Leggi razziali.
Ma in tempi non sospetti fu il primo giornalista ad avvisare dell’orrore antisemita che si andava preparando (fu anche tra i primi, in Europa, a intervistare il giovane Adolf Hitler, tuttavia sottovalutandolo). Fabre riporta una sua corrispondenza dalla Germania, uscita sulla Gazzetta del Popolo il 10 luglio 1921 con il titolo «La croce uncinata», che fa venire i brividi. Specie quando il leader antisemita di allora serenamente contempla, per gli ebrei, la prospettiva della «morte, del massacro, dell’espulsione e della confisca dei beni».
*** * ***
Berlino 1921
I tedeschi cercano un capro espiatorio
di Giulio De Benedetti
Così il futuro direttore della Stampa, in anticipo sui tempi, denunciava i pericoli dell’escalation antisemita.
La Germania, dopo la rivoluzione, è diventata il centro del movimento antisemita. Da Berlino e da Monaco non si organizzano naturalmente i progroms [così nel testo, ndr] in Galizia e in Ucraina, ma si dirige questo movimento spirituale che ha millenni di storia e nell’interno del paese si è scatenata contemporaneamente una bassa e volgare agitazione come non ha esempio in nessun paese civile.
[...] La Germania ha perduto la guerra sui campi di battaglia. [...] Ciò non impedisce che vi siano diecine di quotidiani ed alcuni milioni di tedeschi sicuri che la sconfitta, il crollo dell’Impero, la rivoluzione e la pace di Versailles siano stati un’opera degli ebrei. Considerati questi principii, si comprende quali sono le basi del movimento politico antisemita che si svolge attualmente in Germania. [...]
Il conte Reventlow, uno dei capi riconosciuti di questo movimento, mi diceva giorni or sono in un lungo colloquio che ha avuto la cortesia di accordarmi: «Il nostro problema giudaico non rappresenta che una parte di quello mondiale. Esso non può trovare una soluzione radicale che in forma internazionale». Come risolverlo però il conte Reventlow non sa: la morte, il massacro, l’espulsione e la confisca dei beni sono misure di cui comprende le difficoltà. Spera in un miracolo: « [...] Innanzi tutto propagandare l’idea, poi, quanto ai mezzi, si vedrà». [...]
Nell’attesa di misure più energiche egli si accontenterebbe che si ponesse un limite alla loro attività riapplicando quella serie di misure restrittive che il soffio di libertà della seconda metà del secolo scorso aveva abbattuto in tutti i Paesi civili. Il conte Reventlow, sicuro di fare parte di una crociata per la liberazione del mondo, non vuole riconoscere insomma la legge morale che impone di giudicare ogni individuo per quello che è, per quello che fa e non dalla sua origine o dal luogo di nascita dei suoi antenati.
A fianco della lotta politica [...], si è scatenata in Germania una campagna brutale ed incosciente contro una minoranza. Vi sono diecine di quotidiani che eccitano i più bassi istinti della popolazione contro la razza semita, vi è una serie di giornali che non hanno altro programma di questa propaganda; si sono formate delle società, si pubblicano libri, opuscoli, riviste, settimanali che dimostrano come tutte le turpitudini, tutte le vergogne di questa disgraziata generazione ricadono sugli ebrei. [...] Si crea così nel Paese uno stato d’animo da progroms, malgrado il carattere civile del popolo tedesco faccia escludere questa possibilità, ma non è raro il caso di trovare tutta una strada segnata colla croce uncinata (incontrate quotidianamente centinaia di persone per le vie di Berlino che portano questo simbolo della lotta antisemita), o che gli ebrei siano assaliti nelle vie da studenti nazionalisti o da membri delle organizzazioni militari ora disciolte e quotidianamente si legge che in Università od in Scuole superiori si impedisce agli insegnanti israeliti di parlare. [...]
Ieri ancora la Deutsche Zeitung definiva il prof. Einstein, il creatore della teoria della relatività, come il più grande ciarlatano del secolo; un settimanale invitava anzi apertamente ad assassinarlo ed il direttore fu condannato a mille marchi di multa per eccitazione a delinquere. (Un esempio ancora tra i molti: in una scuola una maestra domanda ad una ragazza di tredici anni perché non è battezzata: «Mio padre è ebreo, mia madre è cristiana». Risposta della maestra: «Così la patria ha perduto una madre ed una figlia e fisicamente questo matrimonio può essere paragonato all’unione tra un Bulldog ed un S. Bernardo»).
Il tedesco è antisemita oggi come lo è sempre stato, ma nei periodi della miseria, come dimostra la sua storia, cerca più che mai un capro espiatorio alla sua collera impotente: perché è un popolo questo che manca di tolleranza, di fantasia e soprattutto ignora - non bisogna mai dimenticarlo - cosa sia la bontà.
* La Stampa, 22 marzo 2010
Da uno studio presentato oggi alla Camera emerge un quadro desolante dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni
Rom, sinti e romeni i meno graditi. Il profilo più estremo riguarda il 10 per cento e si espande online
Razzismo, quasi la metà dei giovani
chiusa agli stranieri o xenofoba
ROMA - Quasi la metà dei giovani italiani è razzista, diffidente nei confronti degli stranieri mentre solo il 40 per cento si dichiara "aperto" alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro Paese. E’ lo sconfortante ritratto offerto dall’indagine "Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti" da cui emerge che il razzismo è un fenomeno tutt’altro che sradicato tra i ragazzi. Presentato oggi alla Camera, alla presenza del presidente, Gianfranco Fini, lo studio è promosso dalla Conferenza delle assemblee delle Regioni nell’ambito delle iniziative dell’Osservatorio della Camera sui fenomeni di xenofobia e razzismo, ed è stato realizzato da Swg su duemila giovani.
Chiusure e fobie. L’area tendenzialmente fobica e xenofoba è del 45,8 per cento, con diverse sfumature al suo interno. Lo studio indica tre agglomerati. Il primo è quello dei Romeno-rom-albanese fobici, pari al 15,3 per cento del totale degli interpellati, e manifesta la propria intolleranza soprattutto verso questi popoli. E’ l’unico gruppo la cui maggioranza (56 per cento) è costituita da donne. Il secondo riunisce soggetti con comportamenti improntati al razzismo. E’ il più esiguo, perché rappresenta il 10,7 per cento dei giovani, ma il più estremo, perché in sostanza rifiuta e manifesta fastidio per tutti, tranne europei e italiani. Ci sono poi gli xenofobi per elezione (20 per cento): non esprime forme di odio violente, quel che conta è che le altre etnie se ne stiano lontane, possibilmente fuori dall’Italia.
Aperture e tolleranze. La fetta di quanti hanno invece un atteggiamento aperto è del 39,6 per cento. All’interno si riconoscono gli inclusivi (19,4 per cento) con un’apertura totale e serena (55,3 per cento); i tolleranti (14,7 per cento), un po’ più freddi rispetto ai precedenti e gli aperturisti tiepidi (5,5 per cento), ossia giovani decisamente antirazzisti, ma con forme più caute e trattenute, minore interazione con le altre etnie e un riconoscimento più ridotto dell’amore omosessuale. Al centro lo studio posiziona i mixofobici (14,5 per cento), giovani che non sono del tutto proiettati verso la chiusura, ma neppure verso il suo opposto e che vivono un sentimento di fastidio verso ciò che li allontana dalla loro identità.
Rom, sinti e romeni i meno graditi. I giovani italiani tra i 18 e i 29 anni giudicano ’simpatici’ gli europei in genere con un voto pari a 8,2 su una scala da 1 a 10, gli italiani del Sud (7,8) e gli americani (7,7), mentre ritengono antipatici e da tenere a distanza soprattutto Rom e Sinti (4,1), romeni (5,0) e albanesi (5,2). Attraverso un’indagine è stato chiesto ai giovani di rispondere come si sarebbero comportati in determinate situazioni. Ecco le risposte.
Scegliere con chi andare a cena. I giovani hanno messo in testa le persone disagiate economicamente, giudicano "accettabile" una cena con un ebreo, un omosessuale o con un extra-comunitario. Accettato, ma con freddezza un musulmano. Impensabile pasteggiare con un tossicodipendente o un rom.
Il vicino di casa. Verrebbero accettati tranquillamente omosessuali, ebrei e poveri. No invece a zingari e a chi utilizza sostanze stupefacenti e zingari.
Se un figlio si fidanza. I giovani italiani riterrebbero accettabile avere un figlio che ha un partner o una partner di religione ebraica, ma anche qualcuno con evidenti disagi economici. Meglio comunque se a ritrovarsi in questa situazione è il maschio: per la figlia femmina, infatti, c’è qualche resistenza in più. Scarso entusiasmo se la coppia si formasse con un o una extra-comunitaria o con una persona musulmana. Assai più difficile convivere con l’omosessualità di un figlio. Ma l’incubo peggiore è la possibilità che uno dei propri figli faccia coppia con un tossicodipendente o un rom, situazione considerata inaccettabile.
Identikit del giovane razzista. Il profilo più estremo del razzismo tra i giovani, così come emerge dall’indagine presentata alla Camera, descrive una persona che ostenta superiorità e persistente bisogno di potenza. Ha atteggiamenti apertamente omofobici, spinte antisemitiche, convinzione dell’inferiorità delle donne. E non accetta nessuna razza o etnia diversa dalla propria. Un profilo che riguarda il 10,7 per cento dei giovani, ma estremamente preoccupante. L’indagine definisce questa tipologia come quella dei soggetti "improntati al razzismo".
Un clan che si espande online. Questo clan, rileva la ricerca, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Si tratta di un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, e il proprio megafono. Questo clan ha, anche se per ora non in modo uniforme e unificato, una propria strategia di "espansione", per creare nuovi fan, per sviluppare e far crescere i propri adepti, di ingrossare le proprie fila.
Su Facebook oltre mille gruppi xenofobi. Dalla ricerca emerge inoltre che sono oltre un migliaio i gruppi razzisti e xenofobi che si trovano su Facebook. "Nel nostro studio sul razzismo e i giovani - ha spiegato il direttore di Swg, Enzo Risso, - abbiamo condotto un’indagine su Facebook, una sorta di censimento sui gruppi xenofobi, effettuato tra ottobre e novembre. Ne abbiamo contato un centinaio anti musulmani, 350 anti immigrati alcuni con punte di 7 mila iscritti, 400 anti terroni e napoletani e 300 anti zingari, anche qui con fino a 7mila iscritti". Risso ha spiegato che questa parte dell’indagine "non può essere considerata un censimento vero e proprio perché quella di internet è una realtà che varia continuamente, ma ha un valore indicativo".
* la Repubblica, 18 febbraio 2010
RAZZISMO ITALIANO.
Il manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato su: La difesa della razza, I, i, 5 agosto 1938, p. 1 *
Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle università italiane sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione Fascismo nei confronti dei problemi della razza:
1) Le razze umane esistono.
L’esistenza delle razze umane non è già un’astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2) Esistono grandi razze e piccole razze.
Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, l’esistenza delle quali è una verità evidente.
3) Il concetto di razza è concetto puramente biologico.
Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4) La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana.
Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
5) È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici.
Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
6) Esiste ormai una pura "razza italiana".
Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il piú grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7) È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti.
Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra.
Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
On. Sabato VISCO
Direttore dell’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma e Direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche
Dott. Lino BUSINCO
Assistente di Patologia Generale all’Università di Roma
Prof. Lidio CIPRIANI
Incaricato di Antropologia all’Università di Firenze
Prof. Arturo DONAGGIO
Direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Bologna e Presidente della Società Italiana di Psichiatria
Dott. Leone FRANZI
Assistente nella Clinica Pediatrica all’Università di Milano
Prof. Guido LANDRA
Assistente di Antropologia all’Università di Roma
Sen. Luigi PENDE
Direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università di Roma
Dott. Marcello RICCI
Assistente di Zoologia all’Università di Roma
Prof. Franco SAVORGNAN
Ordinario di Demografia all’Università di Roma e Presidente dell’Istituto Centrale di Statistica
Prof. Edoardo ZAVATTARI
Direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma.
ACERBO Giacomo,
ACITO Alfredo,
ALESSANDRI Pino,
ALESSI Rino
ALFIERI Dino
ALMIRANTE Giorgio
AMICUCCI Ermanno
ANDALÒ Ugo Giorgio
ANDREUCCI Giuseppe
ANGELINI Franco
ANTONUCCI Antonio
APOLLONI Livio
APPELIUS Mario
ARCHIDIACONO Nicola
ARFELLI Felice
AZZARITI Avv. Gaetano
BACCAGLINI Alessandro
BACCIGALUPPI Mario
BACCIOLI Vincenzo
BADOGLIO Pietro
BALBO Emilio
BALLARATI Giancarlo
BANCHER Dante Cesare
BANISSONI Ferruccio
BARBARA Mameli
BARDUZZI Carlo
BARGELLINI Piero
BAZZI Carlo
BELLINO Ugoberto
BENIGNI Umberto
BEONIO BROCCHIERI Vittorio
BERGAMASCHI Carlo
BERNUCCI Giorgio Luigi
BIAGI Bruno
BIAMONTI Ettore
BIANCINI Bruno
BIANCOROSSO Rodolfo
BIASUTTI Renato
BIOLETTO Angelo Marco
BIONDOLILLO Francesco
BLASI Guglielmo
BOCCA Giorgio
BOCCASILE Gino
BORGHESE Giacomo
BORRETTI Mario
BORSANI Carlo
BOTTAI Giuseppe
BOTTAZZI Filippo
BRIGHENTI Roberto
BUFFARINI GUIDI Guido
BUSINCO Lino
CABRINI Luigi
CALENDOLI Giovanni
CALLARI Francesco
CALOSSO Claudio
CALURI Bruno
CAMERINI Augusto
CANEVARI Emilio
CANIGLIA Renato
CAPASSO Aldo
CAPPUCCIO Lino
CARBONELLI Riccardo
CARNEVALE Em. Filiberto
CASINI Gherardo
CASNATI Francesco
CASSIANO Marco
CASTELLETTI Giuseppe
CAVALLUCCI Guido
CAZZANI Giovanni
CECCHELLI Carlo
CESETTI Giuseppe
CHELAZZI Gino
CHERSI Livio
CHIARELLI Riccardo
CHIARINI Luigi
CHIAUZZI Angelo
CHILLEMI Guglielmo
CHIURCO Giorgio
CIANETTI Tullio
CIANO Galeazzo
CIMINO Alfio
CIPOLLA Arnaldo
CIPRIANI Lidio
CLAREMORIS Maurizio
COCCHIARA Giuseppe,
COGNI Giulio,
COLIZZI Gioacchino,
COLLALTINO Collalto
CONSOLI Francesco
COPPOLA Francesco
CORSO Raffaele
COSSIO Carlo
COSTAMAGNA Carlo
COTONE Oberdan
CUCCO Alfredo
CUTELLI Mario
DAQUANNO Ernesto
DE BAGNI Mario
DE BLASI Vito
DE DOMINICIS Adolfo
DE FRANCISCI Pietro
DE ROSA Ennio
DE ROSA Gabriele
DE RUGGIERO Stefano
DE SETA Enrico
DE VITA Pier Lorenzo
DEDEL Francesco
DELL’ISOLA Giuseppe
DELLE DONNE Michele
DI CAPORIACCO Lodovico
DI DONNO Alfredo
DI GIORGIO Guido
DI MARZIO Cornelio
DOMENICI Carlo
DONADIO Nicola
DONAGGIO Arturo
ELEFANTE Fernando
ELLERO Pietro
EVOLA Julius
FABBRI Vittorio Emanuele
FABIANO Giuseppe
FANFANI Amintore
FARINACCI Roberto
FERRI Carlo Emilio
FESTA CAMPANILE MOLINO Walter
FICAI Giuseppe
FIORETTI Arnaldo
FLAVIO Quinto
FLESCH Gislero
FONTANELLI Luigi
FORMOSA Raffaele
FORTEGUERRI Giuseppe
FRANZI Leone
FRASETTO Fabio
FRUGONI Cesare
GABELLI Ottone
GARDINI Nino
GARDINI Walter
GARIBALDI Ferdinando
GASTEINER Elio
GATTI Tancredi
GAYDA Virginio
GEDDA Luigi
GEMELLI Padre Agostino
GENNA prof. Giuseppe
GENOVESI Cesare
GENTILE Giovanni
GHIGI Alessandro
GIANI Niccolò
GIANNETTI Berlindo
GIGI Lorenzo
GIOVENCO Giuseppe
GIULIOTTI Domenico
GIUSTI Paolo Emilio
GRAVELLI Asvero
GRAY Ezio Maria
GRAZIANI Felice
GRAZIANI Rodolfo
GRAZIOLI Francesco S.
GUARESCHI Giovanni
GUERRIERI Ottorino
GUIDOTTI Paolo
IMBASCIATI Bruno
INTERLANDI Telesio
ISANI Giuseppe
LA VIA Lorenzo,
LAMPIS Giuseppe
LANCELLOTTI Arturo
LANDRA Giovanni
LANZA Ugo,
LANZARA Giuseppe,
LE PERA Antonio
LELJ Massimo
LEMMI Roberto
LEONI Enzo
LESSONA Alessandro
LIVI Livio
LODOLINI Armando
LOLLI Mario
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MACRÍ Filippo
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MAGGIORE Giuseppe
MANCA Antonio
MARCHITTO Nicola
MARINI Marco
MARRO Giovanni
MARTINOLI Ettore
MARZOTTO Antonio
MASINI Carlo Alberto
MASSA Mario
MASTROJANNI Alberto
MASTROJANNI Gabriele
MATARRESE Fortunato
MAZZEI Vincenzo
MAZZONI Gino
MEREGAZZI Renzo
MEZZASOMA Fernando
MILANESI Guido
MISCIATELLI Piero
MISSIROLI Mario
MITRANO SANI Gino
MODICA Aldo
MOLINARI Riccardo
MONTECCHI Mario
MORANA Domenico
MORMINO Giuseppe
MURRI Romolo
MUSSOLINI Benito
NAJ SAVINA Luigi
NATOLI Romualdo
NERI Italo
NICCO Carlo
NIEDDU Ubaldo
NOTARI Umberto
OMARINI Giuseppe
ORANO Paolo
ORTOLANI Giovanni
PACE prof. Biagio
PADELLARO Nazareno
PAGLIARO Antonio
PALMIERI Nino
PAOLELLA Domenico
PAPINI Giovanni
PARIBENI Roberto
PASCOLATO Michele
PAVESE Roberto
PAVOLINI Alessandro
PEDRAZZA Piero
PEDROCCHI Federico
PEILLICANO Piero
PELLIZZI Camillo
PENDE prof. Nicola
PENNISI Pasquale
PENSABENE Giuseppe
PERALI Pericle
PETAZZI Giuseppe
PETRACCONE Giovanni
PETRAGNANI Giovanni
PETRI Tommaso
PETRUCCI Antonio
PETTAZZONI Raffaele
PETTINATO Concetto
PIAZZA Giuseppe
PICCIOLI Angelo
PICENO Giorgio
PICHETTI Guido
PIERAMONTI Umberto
PINI Giorgio,
PODALIRI Guido
POLI Athos,
POMILIO Marco,
PREZIOSI Giovanni
PUCCIONI Uberto
RAVA Maurizio
RAVASIO Carlo
REA Leo
RELLINI Ugo
RENDE Domenico
RICCI Marcello
ROGNONI Gastone
ROMANINI Alfredo
ROMANO Raffaello
ROSSO Gustavo
RUCCIONE Mario
RUFFILLI W. Erminio
RUSSO Giuseppe
SABATINI Arturo
SALVI Giunio
SANGIORGI Giorgio
SANTARELLI Enzo
SARRI Corrado
SAVARINO Santi
SAVELLI Giovanni
SAVORGNAN Francesco
SCALIGERO Massimo
SCARDAONI Francesco
SCARPELLI Furio
SCUDELLARI Giorgio
SEMIZZI Renato
SEMPRINI Giovanni
SERGI prof. Sergio
SGABELLONI Massimo
SOFFICI Ardengo
SOLMI Arrigo
SORLINI Ferruccio
SOTTOCHIESA Gino
SPAMPANATO Bruno
SPARDINI Giacomo
STARACE Achille
TACCHI VENTURI Pietro
TALLARICO Giuseppe
TASSINARI Renato
TEDESCO Z. Vittorio
TIRELLI Mario
TOPPI Giove
TOSTI Armando
TRIPODI Nino
TRITONI Romolo
TRIZZINO Antonino
TUCCI Giuseppe
TURONE Mario
TURRINI Mario Felice
VALAGUSSA Francesco
VALENTE Rindo
VALLECCHI Attilio
VALORI Aldo
VERCELLESI Edmondo
VERDINI Raul
VIAN Cesco
VICHI Ferdinando
VILLA Emilio
VILLA Rindo
VILLARI Luigi
VINCI Felice
VISCO Sabato
VIZIANO Angelo
ZANINI Giuseppe
ZAPPA Paolo
ZAVATTARI Edoardo
ZEDDA Ennio
ZERBINO Paolo
ZOJA prof. Luigi
ZUMAGLINI Cesare
* Sul tema, si cfr.:
Valentina Pisanty - con un contributo di Luca Bonafé, Educare all’odio: La Difesa della razza (1938-1943), Introd. di U. Eco, "Saggi e Indispensabili", Motta On Line(www.golemindispensabile.it) - l’Unità.
l’Unità, O8.O7.2008
Manifesto scientifico. La bufala delle razze umane
di Pietro Greco *
Le razze umane non esistono. Sono un mito. Un mito pericoloso. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. Ma l’umanità non è costituita da piccoli e grandi gruppi diversi per struttura genetica. È piuttosto una rete estesa di persone geneticamente e culturalmente collegate in maniera dinamica tra loro. E quell’aggettivo, dinamico, è da sottolineare. Perché di fatto, nessun popolo nel corso dei secoli può essere considerato isolato geneticamente.
E in particolare, è un mito senza fondamento che sessanta milioni di nativi dell’Italia discendano da famiglie che abitano la penisola da almeno mille anni. Il “meticciato” genetico e culturale è una caratteristica dell’Italia come dell’intera umanità. Di più, è un bene. Sia sul piano strettamente biologico, sia sul piano culturale.
È questo, in estrema sintesi, il contenuto del «manifesto antirazzista» che un gruppo di scienziati italiani - tra i primi firmatari Rita levi Montalcini, Enrico Alleva, Guido Barbujani, Laura Dalla Ragione, Elena Gagliasso Luoni, Massimo Livi Bacci, Alberto Piazza, Agostino Pirella, Frencesco Remotti, Filippo Tempia, Flavia Zucco - presenterà il prossimo 10 luglio a San Rossore nell’ambito di una tradizionale manifestazione della Regione Toscana, dedicata quest’anno alla mobilitazione «contro ogni razzismo».
Il «manifesto antirazzista» sarà illustrato dal biologo Marcello Buiatti e introdotto dal Presidente della Regione, Claudio Martini, a sessant’anni dalla pubblicazione, avvenuta il 14 luglio 1938, del «manifesto della razza» a opera di un gruppo di scienziati fascisti. Quello di San Rossore è un vero e proprio “contro-manifesto” in termini letterali. Perché a ciascuna delle dieci tesi del famigerato “manifesto della razza” oppone una tesi diversa, alla luce delle moderne conoscenze scientifiche. Dimostrando che con quel famigerato atto gli scienziati fascisti tradirono insieme la scienza, i valori della comunità scientifica e la loro stessa umanità.
Tradirono la scienza, perché già allora vi erano tutti gli elementi per affermare che il concetto biologico di razza è una pura invenzione. Oggi tutti gli studi genetici lo dimostrano al di là di ogni possibile dubbio.
La genetica, infatti, ha consentito di chiarire almeno cinque punti rispetto alla variabilità tra gli individui e all’esistenza delle razze umane:
1. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. È un organismo biologico unico e irripetibile.
2. Se si considerano i singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, la frequenza dei singoli geni di tutte le popolazioni umane è largamente sovrapponibile. E, in particolare, nessun gene specifico può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre.
3. C’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens. In ogni caso, diversi studi indipendenti hanno dimostrato che almeno l’85% della diversità genetica (ovvero dell’insieme dei geni umani) è presente in ogni popolazione del mondo, il 5% della variabilità genetica è presente tra tutte le popolazioni del medesimo continente, e il residuo 10% si verifica tra popolazioni di diversi continenti.
4. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. In pratica due italiani possono essere geneticamente molto diversi tra loro. Molto più di quanto non siano diversi un italiano medio e un etiope medio.
5. La contaminazione genetica tra le diverse popolazioni umane è costante ed elevatissima. Lo confermano persino gli ultimi sequenziamento dell’intero genoma umano. Nei mesi scorsi il premio Nobel per la biologia James Dewey Watson, scopritore con Francis Crick della struttura a doppia elica del Dna, ha pubblicato i risultati del sequenziamento del suo Dna. E non senza una sua certa costernazione - Watson aveva detto che i neri sono meno intelligenti dei bianchi - ha scoperto che il 9% dei propri geni ha un’origine asiatica e che uno dei suoi bisnonni o, comunque, dei sui antenati recenti era di origine africana.
Ma il “contro-manifesto” di San Rossore dimostra anche - e soprattutto - che gli scienziati fascisti tradirono non solo la scienza (intesa come conoscenza rigorosa), ma anche i valori fondanti della comunità scientifica, mettendo il loro sapere non al servizio dell’intera umanità - come indicava già nel ’600 Francis Bacon - ma al servizio di un’ideologia pericolosa che voleva dividere gli uomini gli uni dagli altri, per discriminarli.
E con ciò, quegli scienziati fascisti, si macchiarono della colpa più grave: tradirono la loro stessa umanità.
Il “contro-manifesto della razza” che gli scienziati italiani presenteranno a San Rossore il prossimo 10 luglio non ha, dunque, solo un valore storico e scientifico (e non sarebbe certo poca cosa). Ma ha un valore politico di stringente attualità. Troppe parole, troppi episodi, persino qualche disposizione di governo nel nostro paese stanno alimentando il fuoco della discriminazione razziale. È ora - ci dicono gli scienziati preoccupati di San Rossore - che questi venti cessino di soffiare e che il fuoco della discriminazione razziale venga definitivamente spento. Prima che scoppi, improvviso, un nuovo incendio.
Il documento: «Le razze non esistono. Ce n’è solamente una: quella umana»
Demografi, genetisti, filosofi, psichiatri e ricercatori: ecco l’appello contro le discriminazioni
«Il razzismo è contemporaneamente omicida e suicida. Gli ebrei italiani sono ebrei e italiani»
I. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.
II. L’umanità, non é fatta di grandi e piccole razze. È invece, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi d’individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica.
III. Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri «cugini» scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze.
IV. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la «razza ariana», coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vincitore, «puro» e «nobile», con buona parte dell’Europa, dell’India e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estremamente difficile identificare gli Arii o Ariani come un popolo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni indicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti provenienti dal Vicino Oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. Nonostante la drammatica originalità del razzismo fascista, si deve all’alleato nazista l’identificazione anche degli italiani con gli «ariani».
V. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero inglobando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti «barbari», hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e ad essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica.
VI. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L’Italia come Nazione si é unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, é quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio «incrociandoci» fisicamente e culturalmente. Attribuire ad una inesistente «purezza del sangue» la «nobiltà» della «Nazione» significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano, un patrimonio millenario ed esteso di culture.
VII. Il razzismo é contemporaneamente omicida e suicida. Gli Imperi sono diventati tali grazie alla convivenza di popoli e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così é avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo é suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta, si estende per contagio ideale ad ogni alterità esterna o estranea rispetto ad una definizione sempre più ristretta della «normalità». Colpisce quelli che stanno «fuori dalle righe», i «folli», i «poveri di spirito», i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie umane standard e che in realtà permettono all’umanità di cambiare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale, infatti, solo se é capace di cambiarsi e noi esseri umani cambiamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri «benevolmente disordinati» cervelli.
VIII. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una «comune razza mediterranea». Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro «semiti» e «camiti», con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un’unica razza.
IX. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei ed italiani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti ( nessuno é migrante per libera scelta ma molti lo sono per necessità) sono sparsi per il Mondo ed hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così é successo ad esempio con gli Armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora: africani, filippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi , popoli appartenenti all’Est europeo o al Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti, arricchendo anche loro, senza annullare, quando é stato possibile, né l’una né l’altra.
X. L’ideologia razzista é basata sul timore della «alterazione» della propria razza eppure essere «bastardi» fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società riconoscono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, perché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il «meticciamento» culturale é la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in «etnie» separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo «altro da noi».
Torino, 1938 "Montalcini sospesa"
di Massimo Novelli (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
È il 18 ottobre del 1938 quando il rettore Azzo Azzi, in base alla legge del 5 settembre di quell’anno, decreta che «la dott. Levi Rita, Assistente volontaria alla Clinica delle malattie nervose e mentali della R. Università di Torino, è sospesa dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI».
Il futuro premio Nobel per la medicina, che di lì a poco sarà costretta a emigrare in Belgio, è una delle vittime nel mondo accademico delle leggi razziali, appena promulgate da Mussolini e da Vittorio Emanuele III. Il documento della sua cacciata dall’insegnamento e dalla ricerca, così come altre carte della vergogna fascista e monarchica, è custodito presso l’Archivio storico dell’Università di Torino. Da domani sarà esposto in Prefettura, nell’ambito di una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia.
Molte altre, però, sono le testimonianze, poco note, della pulizia etnica che i fascisti compirono nelle Università nei confronti del personale di "razza ebraica", nel sostanziale silenzio della maggior parte degli altri docenti. Una seconda esposizione, in questo caso proprio all’Archivio storico dell’ateneo torinese (s’intitola "A difesa della razza" e apre domani), propone leggi, circolari e decreti emanati da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, che chiariscono in che modo il razzismo italiano divenne una materia d’insegnamento, oltre che di lavoro ordinario d’ufficio, da sbrigare senza porsi problemi di sorta. È il caso della nota ministeriale del 20 ottobre ‘40, inviata al rettore di Torino a proposito dell’istituzione di «un nuovo posto di ruolo presso codesta Facoltà di Scienze». Da Roma, Bottai scrive di ritenere «opportuno avvertire che tale posto, come risulta anche dai lavori preparatori della legge, deve intendersi riservato all’insegnamento dell’Antropologia oppure ad altro insegnamento razziale». Due anni prima, l’11 giugno ‘38, sempre il ministro, che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella caduta di Mussolini, rende noto di avere disposto che «nelle sessioni di esami sia osservata netta separazione studenti razza ariana da studenti razza ebraica ed sia data precedenza gruppo studenti ariani negli esami orali».
La burocrazia della persecuzione, che sfocerà nella deportazione nei lager, non si differenzia nella forma da qualsiasi altro atto ministeriale. Anche quando, il 14 ottobre ‘38, nel comunicare i nominativi dei professori torinesi sospesi «si fa riserva d’integrare l’elenco coni i nomi di coloro che, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, eventualmente dovranno essere considerati di razza ebraica e come tali sospesi anch’essi dal servizio». Intanto ne facevano le spese «Cino Vitta, Giuseppe Samuele Ottolenghi, Santorre Zaccaria Debenedetti, Giorgio Falco, Arnaldo Momigliano, Alessandro Terracini, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Gino Fano». E poi «Amos Foà, Luciano Jona, Renato Segre, Marcello Foà, Leonardo Herlitzka, Renzo Olivetti, Sergio Bachi, Raffaele Lattes, Alberto Vita, Vittorio Giulio Segre, Roberto Bolaff, Rita Levi, Walter Momigliano, Mario Nizza, Paolo Ravenna».
27 GENNAIO GIORNO DELLA MEMORIA
Data: 2010-01-26
Autore: Gherush92
Il Giorno della Memoria non può essere solo una ripetitiva rappresentazione delle vittime cui vene richiesto di spiegare il motivo della loro perscuzione.
Il Giorno della Memoria dovrebbe essere soprattutto lo studio e il ricordo dei persecutori e delle loro motivazioni e teorie storiche, fino ad oggi. Per questo Gherush92 intende lanciare una campagna dal titolo "dalla Croce alla Shoah" per la raccolta di documenti e informazioni sulle persecuzioni del razzismo cristiano contro ebrei, rom, popoli indigeni, omosessuali, disabili, donne, dissidenti ed eretici.
Eccovi un esempio.
Angelo Roncalli, nunzio apostolico di Pio XII a Istanbul, il 4 settembre 1943, in piena occupazione nazista, a proposito delle domande che giungevano sempre più pressanti al Vaticano affinché si adoperasse per facilitare l’uscita degli ebrei dal territorio italiano, scriveva al cardinal Maglione, Segretario di Stato, la terribile lettera riportata che rappresentò la condanna a morte per molti ebrei. La storia ci ricorda che la carità della Santa Sede non costituì alcuna speranza per gli ebrei europei e in particolare per quelli del ghetto di Roma che ad un mese dalla lettera di Roncalli furono deportati per finire nei forni crematori nazisti.
Sulla base di questo ed altri documenti dovrà essere valutata la responsabilità diretta e indiretta di Roncalli, nunzio apostolico in Turchia, del Cardinale Maglione, Segretario di Stato del Vaticano, e di papa Pacelli detto Pio XII Pontefice e Capo del Vaticano in attività di crimini contro l’umanità per aver condiviso la responsabilità della deportazione degli ebrei.
Fonte del documento sotto riportato: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324.
324. Le délégué apostolique à Istanbul Roncalli au cardinal Maglione
Rap. Nr. 4344 (A.E.S. 6077/43. orig.)
Instanbul, 4 septembre 1943
Demande d’une démarche en faveur des Juifs Italiens; doutes du Délégué sur l’utilité d’une immigration en Palestine.
Faccio seguito al mio devoto rapporto n. 4332 in data 20 agosto u.s. trasmettendo altre domande che mi vengono sottoposte a favore di israeliti.
La seconda di queste intende ad ottenere l’intervento della Santa Sede perché sia facilitata l’uscita di numerosi ebrei dal territorio italiano: e modifica le altre già fatte nelle mie note precedenti ai numeri 1, 3, 4, 5.
Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando al farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito.
Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico.
Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia.
Da: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324, nel database G92db di Gherush92.
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Malintese memorie
di Valentina Pisanty (il manifesto, 27 gennaio 2010)
Sul «giorno della memoria» circolano alcuni malintesi. Tra essi, l’idea che si tratti di una celebrazione, nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione di una qualche identità collettiva. È questo, del resto, il senso delle altre ricorrenze prescritte dal calendario istituzionale, dalle festività religiose agli anniversari della repubblica, dove l’occasione commemorativa svolge una funzione eminentemente epidittica (la comunità celebrante si stringe attorno alla messa in discorso di valori condivisi, o presentati come tali), e l’evento ricordato è edificante, se non addirittura gioioso. Attributi evidentemente incompatibili con la storia delle persecuzioni razziali e della Shoah, ma talora la forma del rito ne condiziona i contenuti, ed ecco che ci si accinge ad adempiere gli obblighi della memoria con il vago disagio di chi non sa bene cosa sta commemorando e perché.
L’equivoco si insinua sin dalla scelta della data del 27 gennaio. Tra i tanti possibili eventi luttuosi e ignominiosi che hanno costellato la storia del razzismo nazifascista, la legge n. 211 del 20 luglio 2000 eleva l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz a simbolo dell’intera esperienza concentrazionaria. La liberazione del campo, la raccolta delle macerie, la conta dei morti, la promessa solenne che «mai più»: non proprio un happy ending, ma quantomeno la fine di un incubo (la cui durata a dire il vero si protrae oltre l’ingresso dell’armata rossa nel lager polacco).
Tuttavia, se si guarda alla Shoah dallo sbocco del tunnel, la tentazione è di girarsi dall’altra parte e di correre verso la luce ovvero, per uscire dalla metafora, di celebrarne la fine anziché ricordarne gli inizi. Si rischia così di dirottare l’attenzione dalla Shoah intesa come evento storico - esito documentabile di un intreccio complesso di pulsioni xenofobe sbrigliate, di orgogli nazionalistici, di opportunismi politici, di responsabilità individuali e collettive - alla Shoah intesa come mito fondativo, dispositivo creatore di sensi ulteriori a seconda degli usi che di volta in volta se ne fanno.
Da qui, alcune possibili derive banalizzanti e sacralizzanti: spettacolarizzazioni della memoria, solidarietà intempestive e discorsi ufficiali proferiti dai più improbabili portavoce dell’antifascismo, letture provvidenzialistiche del genocidio, e via dicendo. Da qui anche il fastidio che taluni provano nei confronti del «giorno della memoria», erroneamente interpretato come l’ennesimo pretesto mediatico per intavolare dibattiti sugli ebrei e sulla loro problematica identità.
Il ruolo che ebbe la propaganda
In effetti il senso della legge è o dovrebbe essere tutt’altro. Lungi dal celebrare alcunché, si tratta di prescrivere agli europei in generale, e agli italiani in particolare, il compito di studiare ciò che in passato si era preferito non guardare, «in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa». L’obiettivo non è solo di onorare le vittime, di ricordare i giusti o di riconoscere le colpe dei carnefici (non ci vuole molto sforzo), ma di cercare di capire come la Shoah sia avvenuta «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Date queste premesse, mi chiedo se non sarebbe stato più incisivo indicare, come momento di riflessione collettiva, l’origine del fenomeno che ha portato alla catastrofe, ovvero l’emanazione delle leggi razziali che nell’autunno del 1938 allontanarono con accanimento crescente (e nell’indifferenza generale) gli ebrei dalla vita pubblica.
Se poi si considera che il «giorno della memoria» si rivolge principalmente agli studenti, sarebbe stato forse coerente scegliere, come evento da ricordare, la promulgazione del decreto legge 1779 del 15 novembre che integrava in un testo organico i provvedimenti per escludere gli ebrei dalle scuole e dalle università. Non sarà l’inizio della storia del razzismo in Italia, visto che forze xenofobe e antisemite operavano indisturbate già da tempo, ma è lì che il piano si inclina irrimediabilmente. Quando il regime comincia a legiferare contro una parte dei suoi cittadini, privandoli dei diritti fondamentali e rendendoli inermi di fronte a ogni genere di sopruso, è a quel punto che gli astri del razzismo, per così dire, si allineano.
Si sa che la propaganda giocò un ruolo importante nelle politiche razziste, rafforzando stereotipi, rispolverando antichi pregiudizi, confezionando pseudo-argomenti per dimostrare come le leggi razziali fossero conformi alle Leggi della Natura. Certo, è difficile capacitarsi che ci fosse qualcuno, all’epoca, disposto a prestare seria attenzione a simili assurdità, data la rozzezza argomentativa di gran parte di questo materiale. Basta sfogliare le pagine di un fascicolo qualsiasi della Difesa della razza, con la sua galleria di mostri (corpi deformi, scimmioni e cannibali africani, anti-uomini bolscevichi, avvoltoi giudei col becco grondante sangue...) la cui funzione retorica era di far risaltare per contrasto le virtù estetiche e morali della presunta stirpe ario-romana, per sperimentare (si spera) un misto di incredulità e di indignazione che di primo acchito può tradursi in una risata distanziante o in un moto di disgusto, ma che lascia uno strascico di interrogativi su cui forse vale la pena soffermarsi.
Com’è possibile che queste cose siano state dette e fatte? Come mai non sono state respinte lì per lì tra gli sghignazzi generali? Con quali atteggiamenti venivano recepite, quali dissonanze producevano nelle menti meno sprovvedute e, di converso, quali effetti esercitavano sugli allievi di «tutte le scuole del Regno» a cui una circolare di Giuseppe Bottai prescriveva l’acquisto e la lettura della rivista di Interlandi, Almirante & co?
Può darsi che, in tempi di regime, la propaganda venisse prodotta e ricevuta con una buona dose di cinismo e di scetticismo e che - a parte quei pochi fanatici che veramente credevano nella necessità impellente di ripulire la «pura razza italiana» dalle scorie dell’ebraismo e di altre razze e sottorazze contaminanti - per il resto degli italiani «La difesa della razza» e altre pubblicazioni dello stesso tenore giocassero un ruolo ideologico marginale. Resta il fatto che, attraverso la ripetizione martellante di stereotipi razzisti disseminati nei discorsi politici, nei giornali e nelle riviste, nella letteratura di consumo, nei racconti per l’infanzia, giù giù sino alle canzoni e alle cartoline coloniali, la cultura di regime fornì, se non altro, un pretesto a coloro che, tra il 1938 e il 1943, scelsero di non vedere, o di non preoccuparsi di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi. Se il «giorno della memoria» ha a che vedere con una qualche identità collettiva, è l’identità dei razzisti, dei furbi, dei pavidi e dei menefreghisti, cioè la nostra (o una della nostre).
Detto questo, chiediamoci quale funzione abbia da assolvere una giornata di studio specificamente dedicata alla Shoah in Italia. A ricordare gli eventi, innanzitutto, visto che sino alla metà degli anni Novanta si è parlato poco e malvolentieri dell’aspetto più scomodo della storia del fascismo (risale al 1994 la prima mostra italiana dedicata al razzismo fascista). Oltre alla funzione storica, però, il senso della ricorrenza è - o dovrebbe essere - di mantenere vivi gli anticorpi, tenuto conto che il razzismo non è solo un fantasma del passato, come dimostrano in modo esemplare i recenti fatti di Rosarno, e perciò andrebbe combattuto giorno per giorno con strumenti critici adeguati.
Come arginare l’intolleranza
Su questo punto, però, è legittimo un margine di perplessità. Per sconfiggere il razzismo una volta per sempre è davvero sufficiente smontare gli stereotipi (alcuni dei quali si aggirano tra noi pressoché immutati dai tempi dei difensori della razza: si pensi agli stereotipi del negro e dello zingaro per esempio)? Certo che no, e sarebbe pia illusione culturalista pensare il contrario. Si analizzino pure i discorsi razzisti, se ne evidenzino i paralogismi, si smascherino tutte le distorsioni e le menzogne della razza: tutt’al più si convincerà chi è già persuaso, e tra compagni antirazzisti ci si scambierà delle gran pacche sulle spalle. Casomai con l’aiuto degli strumenti analitici si potrà controbattere alle dottrine dei nuovi razzisti (i negazionisti, i differenzialisti, gli odierni teorizzatori di un occidente tenuto sotto scacco non si capisce bene da chi), decostruendone gli sragionamenti, ma non si scalfirà minimamente il substrato pulsionale su cui simili teorie attecchiscono, un’intolleranza selvaggia tanto più pericolosa quanto meno può essere tenuta a freno con argomenti razionali.
L’intolleranza c’è. Sarebbe compito della politica contenerla, affrontando gli squilibri sociali, economici e culturali che la alimentano. Nell’attesa, ai ragazzi a cui il «giorno della memoria» si rivolge va spiegato (possibilmente anche gli altri giorni dell’anno) come il razzismo sia fondato su meccanismi psichici elementari, come attinga a materiali sedimentati nella cultura, come nonostante tutto gli stereotipi non muoiano mai, come tramite essi un atto di aggressione possa mascherarsi da misura difensiva, come le legittime frustrazioni di una comunità possano essere artatamente deviate sul capro espiatorio di turno, come lo sfruttamento dei più deboli si giovi di simili manipolazioni, e come la situazione precipiti nel momento in cui chi sta al potere decide di avvalersi di questi dispositivi arcinoti per rafforzare il proprio consenso.
“È fatto divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume” 614ma norma del canone ebraico istituita da Emil Fackenheim, in La presenza di Dio nella storia
Auschwitz: una sfida per la fede di Israele
La presenza di Dio nella Storia, di Emil Fackenheim, uscì nel 1970. Al centro della riflessione dell’autore sta la crisi di tutte le precedenti categorie utilizzabili, per spiegare la sofferenza di Israele. Ciò nonostante, Fackenheim conclude in modo imperativo affermando che non si deve abbandonare la fede dei Padri: chi lo facesse, concederebbe a Hitler una clamorosa vittoria postuma. *
È chiaro che il lungo silenzio teologico era necessario. Il silenzio sarebbe forse la cosa migliore anche se non fosse per il fatto che le barriere tra le nazioni sono infrante e che per questa sola ragione il tempo del silenzio teologico è irrimediabilmente passato.
Ma cominciare a parlare significa mettere radicalmente in questione alcune dottrine midrashiche [= tipiche della tradizione ebraica - n.d.r.] onorate nel tempo; e tra queste una è immediatamente sconvolta. Come abbiamo visto, anche gli antichi rabbini furono costretti a sospendere il biblico “siamo puniti per i nostri peccati”, forse non in risposta alla distruzione del tempio da parte di Tito ma alla paganizzazione di Gerusalemme da parte di Adriano. Anche noi possiamo al più lasciare momentaneamente in sospeso la dottrina biblica solo per il fatto che, come i rabbini, non possiamo né negare i nostri peccati né isolarli dalla storia. Eppure dobbiamo sospenderla. Perché, comunque noi giriamo e rigiriamo tale dottrina in risposta ad Auschwitz, essa diventa un’assurdità religiosa e addirittura un sacrilegio.
“Peccato” ed “espiazione” devono assumere una connotazione individuale? Che idea sacrilega, quando si pensi che tra le vittime dei nazisti vi furono più di un milione di bambini! Dobbiamo dar loro una connotazione collettiva? Che idea terribile, se si pensa che non furono le nostre comunità ebraiche, occidentali, agnostiche, infedeli e ricche, ma quelle più povere, devote e fedeli che furono più duramente colpite! Quando nel nostro tormento ci rivolgiamo in un ultimo tentativo alla dottrina tradizionale per cui tutti gli israeliti di tutte le generazioni sono responsabili l’uno per l’altro, noi continuiamo a sentirci completamente sconcertati perchè non un solo dei sei milioni morì perché esso non mantenne il patto divino-ebraico: essi morirono tutti perché i loro nonni lo avevano rispettato, al limite solo per aver allevato bambini ebrei. Ecco il punto in cui tocchiamo l’assurdo religioso radicale. Ecco lo scoglio contro il quale naufraga senza rimedio l’idea che “siamo puniti per i nostri peccati”.
Ma allora gli ebrei morirono forse ad Auschwitz per i peccati degli altri? Il fatto è evidentemente abbastanza ovvio, ed è sempre più evidente che questi atti corrispondevano ai criminali nazisti. Il problema sta però nel sapere se si può scoprire in questo fatto un significato religioso, se noi, come tante generazioni precedenti, possiamo far ricorso all’idea del martirio. [...] Può ancora confortare la coscienza ebraica dopo Auschwitz? Quando le bande dei crociati si scatenarono contro gli ebrei delle città renane di Worms e Magonza (1096 d. C.) esse offrirono loro in teoria, se non in pratica, la scelta tra morte e conversione permettendogli quindi di scegliere il martirio. Ad Auschwitz, invece, non ci fu scelta; vecchi e giovani, fedeli e non fedeli furono sterminati senza discriminazione. Vi può essere martirio quando non vi è scelta? [...] Auschvitz fu il tentativo supremo, il più diabolico che sia mai stato fatto di uccidere lo stesso martirio e di privare ogni morte, compreso il martirio, della sua dignità. [...]
Che cosa comanda la voce di Auschwitz?
Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz. Infine essi non hanno il diritto di disperare del Dio di Israele, perché l’ebraismo non perisca. Un secolarista ebreo non può trasformarsi in un credente per un semplice atto di volontà, né gli si può imporre di farlo... Ed un ebreo religioso che è stato fedele al suo Dio può essere costretto ad un nuovo rapporto magari rivoluzionario con lui. Una possibilità comunque è del tutto impensabile. Un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’ateismo. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera.
* E. L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 97-99 e 111-112