La giornata della memoria
In ricordo dei 500mila africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in Libia, Etiopia e Somalia. La richiesta è già stata formalizzata al ministro degli esteri D’Alema. Un gesto che potrebbe rasserenare i rapporti tesi con i paesi dell’ex “impero”.
di Angelo Del Boca *
Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Paolo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di Ankober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
Si tratta di un’immensa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani combattenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.
Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plotone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, impiegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tuttavia, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per eliminare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italiani, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.
L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etiopia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stragi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale distruzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo della presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le operazioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerriglia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruente. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.
L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, come la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal governo imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facendo riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.
Tuttavia, i morti etiopici accertati non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fascista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campagne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della morte di 500mila africani.
L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».
In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di istituire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della nostra iniziativa.
La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo - e unico - capo del governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la colpa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tutti i costi.
Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.
Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e l’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, - scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema - si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva.
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* Nigrizia, 30/06/2006; Nigrizia, luglio-agosto 2006.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
Lo storico.
Addio Del Boca, svelò gli orrori del colonialismo
Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano dimenticate o avvolte in un alone romantico che copriva le atrocità
di Paolo Lambruschi (Avvenire, mercoledì 7 luglio 2021)
Ha svelato per primo il lato oscuro del colonialismo italiano, documentando con i suoi studi le violenze e le atrocità commesse in Africa dagli italiani. Che, per citare uno dei suoi libri più noti, non erano brava gente e il nostro non era certo un colonialismo diverso. Angelo Del Boca, morto ieri nella sua casa torinese, è stato un grande storico, un pioniere, ma anche un grande giornalista che dal giornalismo vero ha mutuato il metodo nella ricerca storica. Quindi ha perseguito costantemente la ricerca della verità, spesso occultata, ha scelto temi nuovi con una grande attenzione ai particolari e alla verifica accurata dei fatti setacciando archivi dimenticati. E ha usato per primo un linguaggio poco accademico, curato, asciutto, con il ritmo del reportage.
Nato a Novara nel maggio del 1925, dirigeva la rivista di storia contemporanea “I sentieri della ricerca” e fu inviato speciale e caporedattore prima della “Gazzetta del Popolo” e poi del “Giorno”, che lasciò nel 1981 per dedicarsi all’università. Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano state totalmente dimenticate e restavano avvolte in un alone romantico e nostalgico che copriva pericolosamente gli orrori. Un primo, fortunato volume sulla guerra d’Abissinia, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli, lo convinse a insistere e, dopo un decennio di lunghe ricerche in archivio e sul campo, a dare alle stampe per Laterza i quattro monumentali volumi dedicati alle vicende de Gli italiani in Africa Orientale che lo impegnarono fino al 1984 e furono accolti con grande interesse. Anche con molte polemiche da parte degli ex coloni e dei reduci fascisti, che arrivarono a minacciarlo per aver leso l’onore patrio. Gli fu ostile anche la stampa conservatrice. Ma fu quell’opera fondamentale e nuova di storia coloniale ad aprire sentieri mai percorsi dalla ricerca storiografica nazionale creando, nell’università italiana, il concetto di critica dell’Oltremare italico e incrinando nell’opinione pubblica la convinzione degli “italiani brava gente”.
Negli archivi scovò ad esempio le prove segrete oppure occultate delle stragi compiute dalle forze armate italiane in Etiopia durante la guerra di conquista e l’occupazione. Trovò i telegrammi inviati da Mussolini a Graziani e Badoglio in cui il Duce autorizzava l’impiego dei gas, proibiti dalla Convenzione di Ginevra, contro gli etiopi, civili compresi. E rivelò le stragi compiute dopo la conquista di Addis Abeba, nel febbraio 1937, su ordine del vicerè Rodolfo Graziani. Il quale voleva vendicarsi e reprimere la ribellione dopo che un attentato lo aveva ferito. Scrisse Del Boca: «Alcune migliaia d’italiani, civili e militari, davano inizio alla più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto». Massacrarono e violentarono in tre giorni di violenza brutale e impunita 30.000 etiopi.
Celebre nel 1995 al riguardo la polemica con Indro Montanelli il quale, arruolatosi come sottufficiale in Eritrea, era il principale sostenitore della mitezza del colonialismo italiano e negava l’impiego di armi chimiche da parte della regia aviazione italiana in Etiopia. Ma nel 1996 Montanelli dovette scusarsi con Del Boca quando questi provò l’uso delle armi proibite. Lo storico piemontese dimostrò anche che Montanelli non era attendibile perché, durante i primi episodi di impiego delle armi chimiche, era stato ricoverato all’Asmara e, una volta dimesso, non tornò al fronte.
Tra le altre opere di Del Boca, quella sugli Italiani in Libia, ancora attuale, che contribuì a svelare le deportazioni subite dai libici nei campi di concentramento e la spietata repressione dei ribelli. Celebri anche le biografie del negus Hailé Selassié e del rais libico Muhammar Gheddafi, incontrati durante una ricerca lunga quasi un secolo.
Addio a Del Boca, lo storico che raccontò il colonialismo italiano per davvero
di David Bidussa ("gli Stati generali", 6 Luglio 2021)
Di Angelo Del Boca, morto poche ore fa a Torino, ci sarà tempo per provare a riflettere su come la storia del colonialismo italiano, tema estremamente marginale nella storiografia italiana, sia oggi ineludibile, senza passare per le pagine dei suoi libri.
Tuttavia prima di ricostruire complessivamente una riflessione sulla sua dimensione di storico, si devono ricordare almeno tre temi intorno a cui torna un tratto strutturale della generazione degli storici italiani nati negli anni ’20 e vissuto così a lungo da poter misurare intorno alla loro dimensione culturale pubblica non solo e non tanto una storia della storiografia italiana, ma soprattutto una dimensione pubblica e civile di chi tra anni ’50 e anni ’60 intraprende il percorso di storico, spesso a partire da una pratica di giornalista.
Primo tema: la resa dei conti con le proprie scelte.
Quando nel 1963 Feltrinelli pubblica La scelta (oggi riproposto da Neri Pozza) autobiografia dei mesi della guerra civile tra 1943 e 1945, il tema è come raccontare la propria doppia esperienza. Angelo Del Boca è un giornalista eppure la storia della sua milizia nella Repubblica sociale italiana e poi del suo abbandono e del passaggio dall’altra parte per finire nelle fila di “Giustizia e Libertà” inaugura una pratica di resa dei conti che non è una consuetudine nella storia italiana. L’episodio più clamoroso, almeno sul piano della discussione pubblica, quello delle memorie dello storico Roberto Vivarelli e del suo fare e non fare in pubblico il resoconto della sua milizia repubblichina, dicono che la pratica della resa dei conti non sia parte del costume strutturato degli intellettuali pubblici in Italia.
Secondo tema: la storia della presenza italiana in Africa, soprattutto in Africa orientale.
Del Boca inizia una ricostruzione sistematica a metà degli anni ’70, ma poi sono soprattutto le tecniche della guerra sporca, ovvero l’uso dei gas a segnare definitivamente la sua dimensione pubblica. Non è il tema di partenza della sua ricostruzione. È l’esito di un percorso durato venti anni a cui Del Boca è portato anche perché l’immagine nostalgica del colonialismo buono, a cui molti sono attaccati lo costringe a non mettere veli al alla sua ricostruzione critica. La storia del confronto con Indro Montanelli convinto sostenitore di un colonialismo buono e costretto poi ad ammettere l’uso dei gas provato dai documenti ministeriali italiani che Del Boca trova e su cui costruisce il suo I gas di Mussolini nel 1996 definiscono un prima e un dopo nella discussione pubblica.
Terzo tema: la riflessione sull’autorappresentazione di noi italiani come «bravi». Italiani brava gente è una conseguenza dei due percorsi precedenti.
In quel libro Del Boca ricostruisce gli episodi di crudeltà compiuti da noi italiani nel tempo compreso tra l’unità e la fine della seconda guerra mondiale. Ma soprattutto si sofferma su un punto con cui non riusciamo a confrontarci e a tollerare: le stragi che Del Boca ricostruisce sono state compiute da «uomini comuni», non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Uomini che hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando coloro che ritenevano «barbari» o «subumani».
È un percorso che nella riflessione storica in Italia inaugura un tema estremamente sensibile e su cui in anni recenti hanno scritto David Forgacs e Gabriella Gribaudi, non senza misurarsi costantemente con la diffidenza, l’irrigidimento, il fastidio di una parte consistente dell’opinione pubblica che della storia raccontata accetta la dimensione vittimaria ma si rifiuta di affrontare i punti oscuri o controversi.
Se c’è una lezione da trattenere nella dimensione pubblica di Angelo Del Boca, che dovremo conservare e fare di tutto per non smarrire o dimenticare credo sia proprio qui: l’impegno dello storico a non demordere la dimensione civile del racconto della storia.
Addio a Del Boca, lo storico che raccontò il colonialismo italiano per davvero
di David Bidussa ("gli Stati generali", 6 Luglio 2021)
Di Angelo Del Boca, morto poche ore fa a Torino, ci sarà tempo per provare a riflettere su come la storia del colonialismo italiano, tema estremamente marginale nella storiografia italiana, sia oggi ineludibile, senza passare per le pagine dei suoi libri.
Tuttavia prima di ricostruire complessivamente una riflessione sulla sua dimensione di storico, si devono ricordare almeno tre temi intorno a cui torna un tratto strutturale della generazione degli storici italiani nati negli anni ’20 e vissuto così a lungo da poter misurare intorno alla loro dimensione culturale pubblica non solo e non tanto una storia della storiografia italiana, ma soprattutto una dimensione pubblica e civile di chi tra anni ’50 e anni ’60 intraprende il percorso di storico, spesso a partire da una pratica di giornalista.
Primo tema: la resa dei conti con le proprie scelte.
Quando nel 1963 Feltrinelli pubblica La scelta (oggi riproposto da Neri Pozza) autobiografia dei mesi della guerra civile tra 1943 e 1945, il tema è come raccontare la propria doppia esperienza. Angelo Del Boca è un giornalista eppure la storia della sua milizia nella Repubblica sociale italiana e poi del suo abbandono e del passaggio dall’altra parte per finire nelle fila di “Giustizia e Libertà” inaugura una pratica di resa dei conti che non è una consuetudine nella storia italiana. L’episodio più clamoroso, almeno sul piano della discussione pubblica, quello delle memorie dello storico Roberto Vivarelli e del suo fare e non fare in pubblico il resoconto della sua milizia repubblichina, dicono che la pratica della resa dei conti non sia parte del costume strutturato degli intellettuali pubblici in Italia.
Secondo tema: la storia della presenza italiana in Africa, soprattutto in Africa orientale.
Del Boca inizia una ricostruzione sistematica a metà degli anni ’70, ma poi sono soprattutto le tecniche della guerra sporca, ovvero l’uso dei gas a segnare definitivamente la sua dimensione pubblica. Non è il tema di partenza della sua ricostruzione. È l’esito di un percorso durato venti anni a cui Del Boca è portato anche perché l’immagine nostalgica del colonialismo buono, a cui molti sono attaccati lo costringe a non mettere veli al alla sua ricostruzione critica. La storia del confronto con Indro Montanelli convinto sostenitore di un colonialismo buono e costretto poi ad ammettere l’uso dei gas provato dai documenti ministeriali italiani che Del Boca trova e su cui costruisce il suo I gas di Mussolini nel 1996 definiscono un prima e un dopo nella discussione pubblica.
Terzo tema: la riflessione sull’autorappresentazione di noi italiani come «bravi». Italiani brava gente è una conseguenza dei due percorsi precedenti.
In quel libro Del Boca ricostruisce gli episodi di crudeltà compiuti da noi italiani nel tempo compreso tra l’unità e la fine della seconda guerra mondiale. Ma soprattutto si sofferma su un punto con cui non riusciamo a confrontarci e a tollerare: le stragi che Del Boca ricostruisce sono state compiute da «uomini comuni», non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Uomini che hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando coloro che ritenevano «barbari» o «subumani».
È un percorso che nella riflessione storica in Italia inaugura un tema estremamente sensibile e su cui in anni recenti hanno scritto David Forgacs e Gabriella Gribaudi, non senza misurarsi costantemente con la diffidenza, l’irrigidimento, il fastidio di una parte consistente dell’opinione pubblica che della storia raccontata accetta la dimensione vittimaria ma si rifiuta di affrontare i punti oscuri o controversi.
Se c’è una lezione da trattenere nella dimensione pubblica di Angelo Del Boca, che dovremo conservare e fare di tutto per non smarrire o dimenticare credo sia proprio qui: l’impegno dello storico a non demordere la dimensione civile del racconto della storia.
Lo storico. Addio Del Boca, svelò gli orrori del colonialismo
Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano dimenticate o avvolte in un alone romantico che copriva le atrocità
di Paolo Lambruschi (Avvenire, mercoledì 7 luglio 2021)
Ha svelato per primo il lato oscuro del colonialismo italiano, documentando con i suoi studi le violenze e le atrocità commesse in Africa dagli italiani. Che, per citare uno dei suoi libri più noti, non erano brava gente e il nostro non era certo un colonialismo diverso. Angelo Del Boca, morto ieri nella sua casa torinese, è stato un grande storico, un pioniere, ma anche un grande giornalista che dal giornalismo vero ha mutuato il metodo nella ricerca storica. Quindi ha perseguito costantemente la ricerca della verità, spesso occultata, ha scelto temi nuovi con una grande attenzione ai particolari e alla verifica accurata dei fatti setacciando archivi dimenticati. E ha usato per primo un linguaggio poco accademico, curato, asciutto, con il ritmo del reportage.
Nato a Novara nel maggio del 1925, dirigeva la rivista di storia contemporanea “I sentieri della ricerca” e fu inviato speciale e caporedattore prima della “Gazzetta del Popolo” e poi del “Giorno”, che lasciò nel 1981 per dedicarsi all’università. Decise di diventare storico dopo aver constatato che in Italia le vicende coloniali erano state totalmente dimenticate e restavano avvolte in un alone romantico e nostalgico che copriva pericolosamente gli orrori. Un primo, fortunato volume sulla guerra d’Abissinia, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli, lo convinse a insistere e, dopo un decennio di lunghe ricerche in archivio e sul campo, a dare alle stampe per Laterza i quattro monumentali volumi dedicati alle vicende de Gli italiani in Africa Orientale che lo impegnarono fino al 1984 e furono accolti con grande interesse. Anche con molte polemiche da parte degli ex coloni e dei reduci fascisti, che arrivarono a minacciarlo per aver leso l’onore patrio. Gli fu ostile anche la stampa conservatrice. Ma fu quell’opera fondamentale e nuova di storia coloniale ad aprire sentieri mai percorsi dalla ricerca storiografica nazionale creando, nell’università italiana, il concetto di critica dell’Oltremare italico e incrinando nell’opinione pubblica la convinzione degli “italiani brava gente”.
Negli archivi scovò ad esempio le prove segrete oppure occultate delle stragi compiute dalle forze armate italiane in Etiopia durante la guerra di conquista e l’occupazione. Trovò i telegrammi inviati da Mussolini a Graziani e Badoglio in cui il Duce autorizzava l’impiego dei gas, proibiti dalla Convenzione di Ginevra, contro gli etiopi, civili compresi. E rivelò le stragi compiute dopo la conquista di Addis Abeba, nel febbraio 1937, su ordine del vicerè Rodolfo Graziani. Il quale voleva vendicarsi e reprimere la ribellione dopo che un attentato lo aveva ferito. Scrisse Del Boca: «Alcune migliaia d’italiani, civili e militari, davano inizio alla più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto». Massacrarono e violentarono in tre giorni di violenza brutale e impunita 30.000 etiopi.
Celebre nel 1995 al riguardo la polemica con Indro Montanelli il quale, arruolatosi come sottufficiale in Eritrea, era il principale sostenitore della mitezza del colonialismo italiano e negava l’impiego di armi chimiche da parte della regia aviazione italiana in Etiopia. Ma nel 1996 Montanelli dovette scusarsi con Del Boca quando questi provò l’uso delle armi proibite. Lo storico piemontese dimostrò anche che Montanelli non era attendibile perché, durante i primi episodi di impiego delle armi chimiche, era stato ricoverato all’Asmara e, una volta dimesso, non tornò al fronte.
Tra le altre opere di Del Boca, quella sugli Italiani in Libia, ancora attuale, che contribuì a svelare le deportazioni subite dai libici nei campi di concentramento e la spietata repressione dei ribelli. Celebri anche le biografie del negus Hailé Selassié e del rais libico Muhammar Gheddafi, incontrati durante una ricerca lunga quasi un secolo.
LA STORIA DEL FASDCISMO ... *
Il massacro del 1937. Guerini: «Andrò in Etiopia a chiedere perdono per Debre Libanos»
Anche dal cardinale Bassetti è arrivata una richiesta analoga per quei cattolici che sostennero le mire colonialistiche del regime fascista
di Gianni Santamaria (Avvenire, mercoledì 26 febbraio 2020)
«Debre Libanos è il crimine di guerra più grave che l’Italia ha commesso e oggi deve assumersi tutte le conseguenze che esso comporta». Con queste parole il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha annunciato che si recherà in Etiopia sul luogo dell’eccidio a «rendere omaggio alle vittime e alla verità».
Guerini ha espresso questa intenzione dell’Italia di assumere «le sue responsabilità, di fronte alla storia, con tutto quello che ciò comporta» in occasione della presentazione del libro di Paolo Borruso "Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia", nella sede della Comunità di Sant’Egidio, a Roma.
Una richiesta di perdono per quei cattolici che sostennero le mire colonialistiche del regime fascista è arrivata dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. «Mi dispiace la mancanza di spirito fraterno da parte di tanti cattolici degli anni Trenta. Oggi, come vescovo, chiedo scusa ai fratelli dell’Etiopia per la mancanza di rispetto che si ebbe nei confronti dei loro padri», ha detto il porporato.
Non fu la Chiesa, ma il regime fascista a compiere l’eccidio di monaci copti, ragazzi e intere famiglie, ha ricordato lo storico Andrea Riccardi, fondatore della comunità trasteverina e autore della prefazione al volume. Per la strage, «su cui non è mai stata fatta luce», c’è un dovere di riconoscimento da parte dello Stato e delle Forze armate, «ma anche la Chiesa deve assumersi la responsabilità di una cultura del disprezzo verso i cristiani etiopici e una santificazione della guerra».
L’eccidio è stato il culmine di una campagna di propaganda razzista del regime. C’è, dunque, un dovere di portare avanti la verità storica, anche se gli etiopi - ha concluso lo storico - con «nobiltà d’animo», non hanno mai preteso le scuse dall’Italia.
Nella cittadella-monastero di Debre Libanos, totalmente distrutta, su ordine del maresciallo Graziani le truppe italiane misero in atto il più grande massacro di cristiani mai perpetrato in Africa: secondo gli storici tra le 1.800 e le 2.200 persone.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
Storia.
Debre Libanos, il vero volto dell’Italia fascista
La strage compiuta nel ’37 dagli uomini del generale Graziani è un’eredità con la quale risulta difficile fare i conti. Un libro indaga i fatti e i decenni di tentativi di occultare tanta ferocia
di Andrea Riccardi (Avvenire, giovedì 23 gennaio 2020)
Debre Libanos è il più importante monastero d’Etiopia: è il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri veramente originali, maturati lungo i secoli. Il cristianesimo etiopico è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani. [...] -A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos. L’ha fatto solo qualche studioso coraggioso, come Angelo Del Boca, che ha ricostruito gli aspetti oscuri della guerra d’Etiopia.
In questo libro (Debre Libanos 1937) lo storico Paolo Borruso ripercorre non solo la vicenda della strage, ma anche il tempo in cui viene dimenticata e accantonata, per la resistenza degli ambienti e delle istituzioni italiane del secondo dopoguerra, per la volontà radicata di non ridiscutere il mito degli italiani «brava gente» e di dare un’immagine edulcorata del fascismo. In realtà, la politica coloniale del fascismo è rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva.
Debre Libanos ha rappresentato il culmine e il simbolo della disumanizzazione degli italiani nel conflitto etiopico e nella successiva repressione. [...] Quello che avvenne a Debre Libanos nel 1937 è una sequenza drammatica, degna dei più gravi episodi della seconda guerra mondiale. Fu una strage voluta e non casuale. I comandi italiani ebbero coscienza che si trattava di un atto veramente grave, che poteva scuotere la sensibilità delle truppe. Tanto che utilizzarono anche le truppe coloniali (musulmane) nella strage dei monaci e nella distruzione della chiesa e delle residenze monastiche, per evitare di urtare i cristiani (italiani o coloniali) con l’assassinio dei religiosi innocenti. Successivamente alla strage, senza deflettere da una logica di crudeltà continuata con altre uccisioni e con le deportazioni nei campi di concentramento, le autorità italiane provarono a nascondere l’accaduto o almeno a minimizzarlo: operazione impossibile, perché la realtà parlava. Del resto erano eloquenti di per sé le rovine della chiesa e degli insediamenti monastici.
Lo studio della vicenda di Debre Libanos non può esimersi dal chiedersi perché fosse necessaria tanta ferocia. Tale spietatezza ha avuto come risultato politico lo spingere gli etiopici su posizioni di resistenza, com’è avvenuto durante il governo coloniale del maresciallo Graziani.
Perfino Mussolini, che aveva appoggiato le crudeltà del maresciallo, si accorse che si trattava di una politica sbagliata e si vide costretto a cambiare la linea del governo coloniale, promuovendo viceré il duca d’Aosta. Questi, in controtendenza, s’im- pegnò invece in una politica di valorizzazione delle strutture sociali locali e di pacificazione con la Chiesa etiopica. Tuttavia la crudeltà era, in qualche modo, «necessaria », per come la conquista etiopica era avvenuta e per l’impronta totalitaria del regime, rivelatasi chiaramente nell’impresa coloniale. Potrà sembrare un’affermazione paradossale: la crudeltà era necessaria, perché il fascismo con questa guerra agiva in modo totalitario e mostrava il suo volto totalitario.
Si doveva sradicare la società etiopica, che aveva una struttura elaborata, connessa a uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fondata su stratificazioni storico-religiose. Ma come farla tornare indietro a essere solamente una terra di colonia, senza identità e storia? Per questo era necessario distruggere e sradicare. Si doveva fare del mondo etiopico quasi una «tabula rasa», incapace di resistere alla dura dominazione coloniale italiana.
Così anche il governo del duca d’Aosta (che pure rappresentò una pausa di respiro dopo le repressioni di Graziani) era destinato al fallimento. Il consueto sguardo bonario e autoassolutorio sulle storie italiche, magari abituato a indulgere sull’inefficienza italiana, nasconde la strategia che presiede alla conquista fascista dell’Etiopia: distruggere un mondo che aveva una dignità (con tutti i suoi limiti, la sua instabilità tradizionale e le sue arretratezze).
Questo mondo aveva il suo punto di forza nella connessione tra una monarchia consacrata religiosamente e la Chiesa etiopica: il monastero di Debre Libanos rappresentava questa connessione «sacra» con la sua storia e la sua presenza. [...]
La strage dei cristiani di Debre Libanos colpisce anche perché gli ufficiali e i soldati italiani venivano da un paese cattolico, che nel 1929 aveva riaffermato la sua cattolicità con i Patti del Laterano. E, proprio durante l’impresa etiopica, era emerso il consenso cattolico attorno al regime.
Tanto che Mussolini si disse soddisfatto per l’atteggiamento del clero e dell’episcopato nella guerra d’Etiopia: «altamente commendevole dal punto di vista patriottico et morale», scriveva ai prefetti nel 1935. Il consenso cattolico, come il cattolicesimo delle truppe e dell’ufficialità, non frena gli atti anticristiani sugli etiopi e i loro luoghi santi.
È un altro interrogativo interessante: come fu possibile tutto questo? C’è un capitolo della propaganda di guerra che riguarda specificamente il cristianesimo degli etiopi e che venne alimentato dai cattolici italiani, vescovi, religiosi e missionari. -La Chiesa etiope, la cosiddetta Chiesa täwahedo - ne ha scritto la storia in modo tanto documentato e ampio Alberto Elli -, dipendeva dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, nonostante la sua autonomia; ma era considerata scismatica dalla Chiesa cattolica. Ci fu una propaganda del disprezzo nei confronti dei cristiani etiopi e delle loro istituzioni ecclesiastiche, condotta dai religiosi cattolici. Fu un modo di legittimare dal punto di vista religioso la conquista italiana dell’Etiopia, ma anche di screditare agli occhi degli italiani la Chiesa etiopica, il suo personale, la sua liturgia e i suoi ambienti. [...] credo che la Chiesa italiana abbia aspettato troppo tempo a prendere coscienza di questa storia, che l’ha vista - certo non attivamente, ma convintamente - sullo scenario di una guerra e di operazioni repressive, solidale con il regime nell’opera di discredito dell’altro etiopico, a cui si negava persino la qualità di cristiano. In realtà, scrivendo del martirio cristiano nel XX secolo, ho sentito anni fa la responsabilità di parlare dei caduti di Debre Libanos come di «nuovi martiri» del Novecento. Tali infatti mi sembrano essere.
Naturalmente la responsabilità prioritaria delle stragi fu del governo, delle istituzioni e delle forze armate d’Italia. Dopo la guerra, furono bloccati i processi contro i principali responsabili, Graziani prima di tutto, ma anche il generale Pietro Ma-letti, che fu l’esecutore dei crimini a Debre Libanos.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio agli ex combattenti etiopici contro l’Italia fascista ad Addis Abeba, proprio nel luogo dove avvenne l’attentato a Graziani nel 1937. Ma stiamo ancora aspettando dalle istituzioni e dalle forze armate una presa di coscienza ufficiale sulla strage di Debre Libanos e le complessive repressioni del 1937. Quella strage rappresentò il culmine dell’assurdo in un processo di «imbarbarimento» dei soldati, necessario a condurre una lotta a oltranza per la distruzione delle strutture tradizionali e nazionali dell’Etiopia. [...]
La guerra italiana agli etiopici, all’impero cristiano e alla sua Chiesa, mostra con tutta evidenza il volto brutale del fascismo. Mette in luce anche la miopia di tanta parte del cattolicesimo, irretito nel nazionalismo (seppure Pio XI fosse critico sulla guerra fascista). In quegli anni, l’impasto di violenza coloniale, totalitarismo, razzismo (e poi di antisemitismo) rivela la realtà di quello che il fascismo è veramente stato e di come andava diventando col passare degli anni di dittatura.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Ex - "Impero"...
ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
Addis Abeba 1937, ventimila vittime degli italiani brava gente
L’eccidio dimenticato raccontato in un libro dello storico inglese Campbell
di Masolino D’Amico (La Stampa, 21.07.2018)
Di ritorno dall’Etiopia dove aveva avuto un breve incarico, un antico corteggiatore di mia madre le aveva portato qualche souvenir. Di quel dono facevano parte anche due o tre libri ben rilegati e in apparenza preziosi, scritti in una lingua indecifrabile.
Venivano dalla biblioteca del Negus, erano bottino di guerra, e una volta restaurato l’antico regime mia madre li portò all’ambasciata d’Etiopia perché fossero restituiti al legittimo proprietario. Credo che all’epoca quelle prede la mettessero a disagio, ma i suoi sentimenti sarebbero certo stati più accesi se avesse saputo quello che alla maggior parte dei connazionali della sua generazione era stato tenuto accuratamente nascosto.
Sì, qualche verità su quella impresa coloniale mia madre aveva subodorato, benché l’aggressore avesse minimizzato il fatto che l’Etiopia non era un territorio vasto e inesplorato ma un Paese di antichissima civiltà cristiana, iscritto alla Società delle Nazioni e perfettamente autonomo; che l’invasione non aveva giustificazione alcuna; che la guerra, dichiarata in spregio alla diffida dell’Onu (precedente incoraggiante per Hitler) era stata condotta con metodi proibiti dei trattati internazionali. Ma di certi episodi particolarmente imbarazzanti non si ebbe sentore.
In seguito la storiografia internazionale e in qualche misura anche la nostra avrebbe riaperto qualche partita, ma forse senza che le coscienze ne prendessero troppo atto. Io per esempio, che mi considero un cittadino ragionevolmente informato, non avevo mai sospettato che noi italiani fossimo stati responsabili «di atrocità che osservatori scriventi prima dell’olocausto nazista paragonarono solo a quei massacri armeni del 1895-6 e del 1915, che avevano scandalizzato il mondo». Cito dalla prefazione a uno studio inglese appena uscito, Il massacro di Addis Abeba (Rizzoli). L’autore, Ian Campbell, è un storico che vive e insegna in Etiopia, e sull’argomento ha già pubblicato due libri; questo, definitivo, contiene la summa di una ricerca durata 25 anni.
L’attentato di due irredentisti etiopi scatenò tre giorni di caccia all’uomo
L’episodio in questione durò tre giorni, a partire dal 19 febbraio 1937. In quella data il maresciallo Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia dal maggio dell’anno prima, quando l’invasione era stata completata, aveva deciso di ristabilire una cerimonia tradizionale annualmente celebrata dall’Imperatore, consistente nella distribuzione di elemosine a preti, poveri, storpi, vedove con bambini e via dicendo, nel recinto del palazzo governativo della capitale. Era prevista una gran folla, e per evitare disordini le truppe italiane avevano collocato uomini e mitragliatrici nei punti nevralgici.
Durante il rito due irredentisti gettarono delle bombe a mano, nove in tutto, senza uccidere nessuno ma facendo un certo numero di feriti, tra cui Graziani, che fu subito portato via (si sarebbe ristabilito in un paio di mesi). Presi dal panico, temendo l’inizio di una sollevazione, gli italiani reagirono aprendo subito il fuoco; il punto è che non si fermarono più. Pazientemente, esibendo foto, citando continuamente le sue fonti, che sono molteplici a partire dalle testimonianze di superstiti non solo indigeni, per più di duecento pagine molto fitte il professor Campbell ricostruisce momento per momento i fatti che seguirono, e che si possono sintetizzare come segue. Lì per lì gli italiani spararono alla cieca su tutti gli etiopi presenti, compresi i dignitari ligi al nuovo regime, compresi i preti, i mendicanti, le donne e i bambini, fino a ammazzare quasi tutti gli indigeni che si trovavano nei terreni del palazzo governativo.
L’eccidio durò circa un’ora e mezza e fece circa 3000 vittime. Dopodiché fu data la caccia a tutti gli etiopi che trovarono nel resto della città; e per tre giorni civili disarmati e indifesi di ogni sesso ed età furono macellati indiscriminatamente. Centinaia di case furono date alle fiamme, spesso con dentro i loro abitanti; quelle meno povere, dopo essere state saccheggiate. Alla mattanza presero parte, oltre alle feroci camicie nere, parecchi nostri connazionali in borghese, servendosi di armi improvvisate, come badili, zappe, persino manovelle di avviamento delle automobili. La moglie di uno degli attentatori si era rifugiata in un monastero; gli italiani andarono anche lì e sterminarono tutti, monaci e comunità, per un totale di altre 3mila persone. Quando quel raptus collettivo si fermò, il totale - oggi accertato - dei morti era di quasi 20mila, un quinto della popolazione della città.
Campbell, che non fa sconti nella descrizione della crudeltà degli occupanti, non è peraltro tenero nemmeno sui suoi connazionali, i quali così come erano stati conniventi con la guerra coloniale di Mussolini (meglio i fascisti dei minacciosi comunisti), misero a tacere le prime voci di indignazione che qualcuno in Occidente tentò di raccogliere; e finita la guerra, malgrado le istanze dell’Etiopia liberata, impedirono che l’Italia, ora alleata, venisse processata per genocidio accanto ai responsabili della Shoah. Così a rispondere di quei tre giorni di delirio omicida e di quei quasi ventimila morti non fu mai chiamato nessuno, nemmeno un solo individuo. Ma si sa, noi italiani siamo brava gente.
Quando la Chiesa amava tutti gli uomini esclusi gli africani
Il libro di un prete nigeriano svela il ruolo dei papi nella pratica dello schiavismo fino al 1839
di Rita Monaldi Francesco Sorti (La Stampa, 12.11.17
I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.
La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590., €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.
Una sorpresa
Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico.
Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».
«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.
Documenti scomparsi
Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.
Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.
La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.
Il Portogallo
A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.
Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile.
Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.
Riconoscimento tardivo
«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.
Appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
Rilanciamo l’appello che il missionario Comboniano, direttore della rivista Mosaico di Pace, rivolge alla stampa italiana. «Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo», scrive.
di Alex Zanotelli*
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.
So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera. È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell’Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace.
* FONTE: FNSI, 18.07.2017
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
’Quando c’era Lui’: una guida alle bufale storiche sul fascismo
di LEONARDO BIANCHI *
Il duce ha inventato le pensioni, ci ha regalato la tredicesima, ha reso grande l’Italia e non era razzista. Anche no.
A partire dal caso della "spiaggia fascista" di Chioggia, per poi passare alla proposta di legge di Emanuele Fiano o alle dichiarazioni (fraintese) di Laura Boldrini sui monumenti del regime, questo luglio ci siamo confrontati praticamente ogni giorno sul fascismo e la sua eredità.
Per alcuni commentatori, l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il Ventennio e dunque è destinata a essere perennemente attraversata da pulsioni nostalgiche o antidemocratiche. Dall’altro lato episodi come quello di Playa Punta Canna sono definiti innocue "goliardate," e insieme a derubricazioni di questo tipo continuano a resistere le argomentazioni più o meno revisioniste-del tipo che nel Ventennio, comunque la si pensi, qualcosa di buono è stato fatto; o che comunque non era così malaccio come ci hanno sempre fatto credere.
Quest’ultimi sono dei refrain che si sentono da tempo immemore, ma che con l’avvento dei social stanno vivendo una sorta di seconda epoca d’oro.
In particolare, proprio in concomitanza con le polemiche delle ultime settimane, sul FascioFacebook (e non solo) hanno ricominciato a girare una serie di miti e leggende sulle grandi conquiste sociali ed economiche del fascismo-conquiste che sono contrapposte alla contemporaneità, e servono sostanzialmente a dire: "Vedete? Mentre i politici di adesso non fanno un cazzo, LVI le cose le faceva sul serio!"
Visto che tali bufale riaffiorano di continuo-e dimostrano un’incredibile persistenza proprio perché distorcono verità storiche e le mescolano con la disinformazione-ho pensato di mettere in fila quelle che hanno avuto più successo e risonanza.
Quella di Mussolini che ha creato da zero il sistema pensionistico di cui godremmo tutt’ora è senza dubbio la bufala più persistente e di successo, al punto tale che un anno fa Matteo Salvini ha dichiarato: "Per i pensionati ha fatto sicuramente di più Mussolini che la Fornero. [...] La previdenza sociale l’ha portata Mussolini."
In realtà, non è proprio così. Come si può agevolmente verificare sul sito dell’INPS, la previdenza sociale nasce nel 1898 con la creazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Si trattava di un’"assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori."
Nel 1919 l’iscrizione alla Cassa diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori. Vent’anni dopo, il regime promuove varie misure previdenziali, tra cui le assicurazioni contro la disoccupazione, gli assegni familiari e la pensione di reversibilità. La pensione sociale, tuttavia, è istituita solo nel 1969-ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini.
Un’altra leggenda che circola molto (soprattutto sotto Natale) è la seguente: se abbiamo un mese di stipendio in più è merito esclusivo della magnanimità di Mussolini. Anche in questo caso, tuttavia, la storia è diversa.
Nel Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro del 1937 venne effettivamente introdotta una "gratifica natalizia." La mensilità in più era tuttavia destinata ai soli impiegati del settore dell’industria; e non ad esempio agli operai dello stesso settore, che anzi si videro aumentare le ore di lavoro giornaliero fino a 10, e 12 con gli straordinari non rifiutabili.
Come scritto in questo post, insomma, si trattava di una misura "in piena linea con quelle che erano le normali politiche dell’epoca fascista, in una società [...] bloccata sul corporativismo basato non sul diritto per tutti, ma sul privilegio di pochi gruppi e settori."
La vera tredicesima è stata istituita prima con l’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946, e poi estesa a tutti i lavoratori con il decreto 1070/1960 del presidente della Repubblica.
Nell’immagine qui sopra, si ricorda enfaticamente che il "Governo Fascista" raggiunse il pareggio di bilancio nel 1924, praticamente grazie alla lotta contro gli sprechi e alla riduzione delle tasse. Morale della favola: con tutte le tasse che ci sono adesso, invece, i conti dello Stato non tornano mai. Ergo: la Casta è inetta, ci soffoca con la pressione fiscale, e dunque si stava meglio prima.
Ora, il pareggio di bilancio fu effettivamente raggiunto (nel 1925, e non nel 1924). Ma come tutte le disinformazioni che si rispettino, si evita accuratamente di dire cose successe prima e dopo il raggiungimento di quel traguardo.
L’artefice fu il ministro delle finanze e dell’economia, Alberto De Stefani. Dal 1922 in poi, l’economista spinse per la liberalizzazione dell’economia, cercò di contenere l’inflazione, ridusse la spesa pubblica e la disoccupazione. La sua politica di "neoliberismo autoritario" era però vista di cattivo occhio sia dalla parte più radicale del fascismo, che soprattutto da latifondisti, industriali e grandi capitalisti.
Non a caso, nel luglio del 1925 venne destituito dopo aver presentato ripetutamente le dimissioni; e da lì in poi iniziò ad assumere posizioni sempre più critiche (non in senso democratico o antifascista, ovviamente) nei confronti del regime e della sua nuova politica economica che-tra la Grande Depressione, l’autarchia e tutto il resto-portò il paese allo sfascio. Per citare un articolo che si è occupato di smontare il messaggio implicito di questo mito, "un modello che è crollato su se stesso non è il miglior modello."
Anche la storia della prodigiosa ricostruzione del Duce dopo il terremoto del Vulture (in Lucania) del 23 luglio 1930 è piuttosto ricorrente.
La fonte primaria, ripresa dai siti di estrema destra e replicata in vari meme, è un articolo del Secolo d’Italia pubblicato dopo il terremoto che l’anno scorso ha colpito il centro Italia. In esso si sostiene che in appena tre mesi si costruirono 3.746 case e se ne ripararono 5.190, e si infila pure il commento agiografico "altri tempi, ma soprattutto altre tempre..."
Il dato è però parziale e decontestualizzato. Come si può verificare dal sito dell’INGV, nell’ottobre del 1930 furono ultimate "casette asismiche in muratura corrispondenti a 1705 alloggi" e "riparate dal genio Civile 2340 case." Solo nel settembre del 1931-a operazioni ultimate-si raggiunge la cifra indicata nell’articolo, che corrisponde a 3.746 alloggi in 961 casette. Insomma: i numeri sono comunque rilevanti per l’epoca, ma non è semplicemente vero che in appena tre mesi fu ricostruito tutto da zero.
In questa immagine, rivolta a tutti quelli che "NON L’AMMETTERANNO MAI," si sostiene con la forza di una bella scritta in maiuscolo che il fascismo avesse reso l’Italia-tra le varie cose-"una nazione faro per scoperte scientifiche."
Nei primi anni del regime però, come ricostruisce dettagliatamente questo articolo sulla Treccani, il governo "aveva sostanzialmente ignorato tutte le questioni connesso con l’organizzazione della struttura di ricerca scientifica," che rimaneva quella dell’Italia liberale ed era carica di problemi. Nel 1923 venne avviato il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche), la prima struttura deputata a svolgere ricerca "su temi di interesse generale." La sua attività fu subito caratterizzata dalla penuria dei finanziamenti, segno della "scarsa fiducia nel nuovo ente che ancora nutriva Mussolini."
Col passare degli anni, nonostante i proclami e la propaganda, il CNR non divenne mai incisivo e non produsse nulla di significativo, soprattutto perché la sua unica indicazione di ricerca era quella per l’autarchia-un’indicazione troppo generica. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, poi, "allontanò in modo generalizzato i più giovani tra ricercatori, assistenti, tecnici di laboratorio e, in breve tempo, il lavoro scientifico rallentò fino alla quasi totale paralisi."
Nel 1938, a riprova di quanto al fascismo non fregasse nulla della scienza, l’ambiente scientifico italiano era stato travolto dal più infame e antiscientifico degli atti politici del regime: la promulgazione delle leggi razziali. Il che mi porta all’ultima leggenda che ho scelto per compilare questa lista.
Con ogni probabilità questa è la mistificazione più odiosa, che fa leva sul radicato stereotipo del "bravo italiano" e del "cattivo tedesco."
Se è vero che in un primo momento i rapporti tra gli ebrei e il fascismo furono "normali," e lo stesso Mussolini-nel libro Colloqui con Mussolini-disse che "l’antisemitismo non esiste in Italia," le cose cambiarono progressivamente con la torsione totalitaria del regime e sfociarono infine nelle persecuzioni.
La maggior parte della storiografia è ormai concorde sul fatto che l’antisemitismo e le leggi razziali non furono introdotte per imposizione della Germania-il Manifesto della razza, ad esempio, pare che sia stato scritto dallo stesso Mussolini.
Piuttosto, come sostiene lo storico Enzo Collotti, la "spinta a una politica della razza nel fascismo italiano" da un lato era "iniziativa e prodotto autonomo" del regime-specialmente dopo il 1933 e l’affermazione del nazismo-e dall’altro era una scelta "connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale."
Lo stesso discorso si può fare con la "civilizzazione" delle colonie, che si pone in perfetta continuità con quanto detto sopra. Secondo Collotti, la guerra d’aggressione contro l’Etiopia nel 1935 è stata "l’occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell’Italia fascista"; e dopo la conquista del paese-mai completata fino in fondo-"fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid."
Dire che il fascismo non era un regime razzista è negare una delle sue caratteristiche fondamentali. Se si porta all’estremo questo ragionamento, si finisce col dire che il fascismo non era fascista. E non penso che al Duce farebbe molto piacere, no?
* FONTE. VICE.COM, Jul 24 2017 (RIPRESA SENZA IMMAGINI E SENZA NOTE).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "LOGO" DI MUSSOLINI. Le radici dell’Eu-ropa e il "fascismo" (di tutte le ispirazioni). Il "gioco" di ogni progetto e "duce" autoritario è stato sempre questo: "AF-FASCInARE" E "AG-GIOGARE" IL POPOLO. NELLO AJELLO ed EMILIO GENTILE fanno il punto.
ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
Fascismo
E Graziani massacrò i monaci etiopi
Ottant’anni fa la feroce strage di Debrà Libanòs che seguì l’attentato contro il viceré italiano ad Addis Abeba. I responsabili di quelle atrocità non hanno mai pagato
di GIAN ANTONIO STELLA *
«Feci tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco», ringhiava quel macellaio di Rodolfo Graziani. Rimorsi? Zero: rivendicava anzi la strage di Debrà Libanòs, dove aveva affidato agli ascari islamici lo sterminio di tutti i preti e i diaconi del cuore della Chiesa etiope, come «titolo di giusto orgoglio». E giurava: «Mai dormito tanto tranquillo».
Sono passati ottant’anni, da quei giorni di orrore. Tutto inizia la mattina del 19 febbraio 1937. Ad Addis Abeba il viceré Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo del Paese e son decise a prendere il controllo del resto con ogni mezzo (compreso l’uso di 552 bombe caricate a iprite e fosgene autorizzate dal Duce, documenterà lo storico Angelo Del Boca), celebrano la nascita del primo figlio maschio di Umberto di Savoia. Improvvisamente, da un balcone raggiunto superando i controlli, piovono ed esplodono una dopo l’altra otto bombe a mano. Sette morti, decine di feriti. Tra cui Graziani, colpito da decine e decine di schegge.
La rappresaglia è immediata. E non avendo sottomano gli attentatori, fuggiti, si abbatte violentissima su chi capita. Coinvolgendo tutti i fascisti della città. «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada», scrive nel diario il giornalista Ciro Poggiali. «Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente». Una carneficina. Racconterà il vercellese Alfredo Godio: «Fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi». «Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni», ricorderà l’attore Dante Galeazzi: «In Addis Abeba, città di africani, per un pezzo non si vide più un africano».
Deciso a farla finita coi ribelli a dispetto di ogni trattato, il Duce dà ordine che «tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi». Tutti. Compreso Destà Damtù, il genero di Hailé Selassié. Che importa dello sdegno internazionale? «E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo», esulta la «Gazzetta del Popolo». «Schiaffone magistrale (...) sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina». Bilancio complessivo? Migliaia di morti. Compresi «cantastorie, indovini e stregoni», rei di auspicare il ritorno del Negus: «Ho ordinato che fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta» Il peggio, però, arriva a maggio. Quando Graziani decide di inviare il generale Pietro Maletti, di cui apprezza la cieca obbedienza, a spazzare via preti, diaconi, fedeli di Debrà Libanòs, l’amatissimo monastero fondato nel XIII secolo che considera «un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi»: è convinto che i due bombaroli di Addis Abeba siano passati nella fuga proprio di lì.
Se sono veri i rapporti firmati da Maletti stesso, scrive Del Boca in Italiani brava gente? (Neri Pozza), in due settimane le sue truppe «incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2523 arbegnuoc». Patrioti nemici dell’occupazione italiana. «Era tale il terrore che diffondeva che l’intera popolazione si dava alla macchia».
Terrore comprensibile. Per garantirsi la ferocia belluina senza crisi di coscienza tra i soldati cattolici chiamati a massacrare i cristiani di una Chiesa etiope che aveva 17 secoli, spiega Angelo del Boca, il generale rinunciò «a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto - parole sue - “i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan”».
Il generale e i suoi macellai di fiducia circondarono il complesso la sera del 19 maggio, festa di San Michele, presero prigionieri tutti e, ricevuto l’ordine del viceré Graziani di passare per le armi «tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore», cercarono il posto giusto per la mattanza. La scelta cadde sulla piana di Laga Wolde, ai cui limiti si inabissava un burrone.
Due giorni dopo cominciò, sistematica, la decimazione. Allineati i condannati lungo il baratro, scrivono gli storici Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, gli ascari presero un lungo telone «e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda, formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro». Poi, la fucilazione. «E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo». Ordine eseguito, comunicò Maletti nel pomeriggio: giustiziati 297 monaci incluso il vice-priore e 23 laici. «Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale». «Fucilate anche loro», cambiò idea tre giorni dopo Graziani. E Maletti, ligio agli ordini più infami, eseguì.
Conta finale: 449 assassinati. Numero che Campbell e Gabre-Tsadik contestano: furono tra i 1423 e i 2033. Il doppio o il triplo di quanti saranno trucidati dai nazisti a Marzabotto. Berhaneyesus Souraphiel, l’arcivescovo cattolico etiope, sospira nel docu-film di Antonello Carvigiani e Andrea Tramontano Debre Libanos, prodotto e trasmesso da TV2000, che ancor oggi certe ferite non sono ancora del tutto rimarginate. Racconta però lo storico Alberto Elli, profondo studioso della Chiesa etiope e dell’Etiopia, che il mausoleo in ricordo dell’eccidio, a novembre, non c’era più: «Dicono d’averlo tolto come gesto di riconciliazione».
Un passo importante. Come fu l’anno scorso, ad Addis Abeba, la stretta di mano di Sergio Mattarella a vecchi patrioti etiopi. Era stato questo, del resto, l’appello al popolo di Hailé Selassié al suo ritorno in patria il 5 maggio 1941, a guerra ancora in corso: «Vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano». La richiesta del Negus di estradare almeno i due generali della mattanza, però, non venne mai accolta. E qualche strada italiana li onora ancora come eroi di guerra...
* Il Corriere della Sera, 19.02.2017 (ripresa parziale: senza immagini).
Sterminate quei monaci
Firmato: il viceré Graziani
Un docufilm solleva il velo sulla più grande strage di religiosi cristiani mai compiuta in Africa. Nel 1937 i soldati al comando del generale italiano uccisero per rappresaglia duemila persone: mille erano membri del clero
di Andrea Tornielli (La Stampa, 18.05.2016)
È stata la più grande strage di religiosi cristiani mai avvenuta in Africa. Più grande ancora di quella compiuta in questo stesso luogo dagli Ottomani nel luglio del 1531. È costata la vita a circa duemila persone, la metà delle quali erano preti, monaci e diaconi, e a compierla non sono state milizie islamiste ma i soldati al comando del viceré italiano d’Etiopia Rodolfo Graziani. Quella avvenuta nel maggio 1937 nel monastero etiope di Debre Libanos è una voragine nella nostra memoria e una ferita ancora aperta nei rapporti tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa d’Etiopia.
A sollevare il velo di silenzio che ancora avvolge quei fatti è un docufilm di oltre un’ora che sarà trasmesso da Tv2000 sabato 21 maggio alle ore 21 e replicato domenica alle 18,30. Antonello Carvigiani, giornalista e autore del reportage, ha riportato alla luce documenti e testimonianze inedite scovando anche l’ultimo testimone ancora vivente. E grazie al contributo del più importante studioso della strage, lo storico inglese Ian Campbell che sta per pubblicare un libro sulla vicenda, ricostruisce nel dettaglio l’accaduto.
Il monastero di Debre Libanos, fondato nel XIII secolo dal santo Teclè Haimanòt, si trova nella regione degli Amara, a Nord-Ovest di Addis Abeba, ed è situato tra una rocca e una gola create dall’affluente del fiume Abbay. È ancora oggi il polmone spirituale del cristianesimo ortodosso etiope.
«Tutti sistemati»
L’antefatto della strage si verifica il 19 febbraio 1937, quando Rodolfo Graziani subisce un attentato durante una cerimonia pubblica nella capitale etiope. Alcuni esponenti del movimento dei patrioti ribelli, mescolati tra la gente, lanciano degli ordigni: muoiono sette persone e il viceré italiano rimane gravemente ferito. Sulla base delle prime informazioni che parlavano di un coinvolgimento dei monaci, senza prove e senza attendere l’esito delle indagini ufficiali, Graziani dà l’ordine al generale Pietro Maletti di massacrare tutto il clero di Debre Libanos.
Il documentario di Tv2000 ricorda che le truppe italiane circondano l’area il 18 maggio, lasciando transitare i fedeli diretti al monastero per la festa di san Michele che si sarebbe celebrata nei giorni successivi, ma impedendo allo stesso tempo di uscire a quanti volevano farlo. I pellegrini rimangono dunque intrappolati, vittime della stessa sorte che toccherà ai monaci. Poi viene sferrato l’attacco.
Secondo le ultime ricerche storiche, il numero dei morti sarebbe compreso tra 1.800 e 2.200: Ian Campbell ritiene che duemila sia la cifra che più si avvicina alla realtà, nonostante il rapporto ufficiale stilato dal viceré per Mussolini si limiti a citare 449 morti. «I numeri delle vittime riferiti da Graziani furono molto bassi - spiega Campbell -, sappiamo che il numero dei membri del clero, inclusi i monaci, non era inferiore al migliaio». In un telegramma del generale Maletti, spedito il giorno successivo alla strage, si legge: «Confermo che tutti indistintamente i personaggi segnalati sono stati definitivamente sistemati».
L’ultimo testimone
L’autore del docufilm ha potuto incontrare e intervistare l’ultimo testimone della strage, l’ultranovantenne Ato Zewede Geberu, all’epoca bambino. «Nel giorno della festa di san Michele non sono andato a Debre Libanos. Moltissimi fedeli dei villaggi qui intorno sono andati al monastero. Ma la mia famiglia quella volta decise di non andare. Una decisione che ci ha salvato la vita. Non ho visto il massacro. Ma l’ho sentito. Ho sentito i colpi della mitragliatrice. Abbiamo avuto paura, siamo rimasti nascosti nel nostro villaggio. Due-tre giorni dopo sono andato a vedere. C’erano ancora i cadaveri, centinaia di morti, forse 600, 700... E gli animali cominciavano a mangiarli. C’erano soldati italiani che si aggiravano ancora da quelle parti».
L’eccidio avviene in un luogo isolato. Lontano da testimoni. Molti corpi sono lanciati in una gola profonda circa 500 metri. La memoria della strage doveva essere dolorosa anche per chi l’aveva commessa eseguendo gli ordini ricevuti. Racconta il monaco Abba Hbte Gyorgis: «Alcuni anziani mi hanno raccontato che i militari italiani usavano ombrelli bianchi per proteggersi dal sole. Dopo la strage, alcuni soldati hanno portato al monastero il loro ombrello bianco per chiedere scusa. In segno di riconciliazione. Nel museo del monastero sono conservati tre di questi ombrelli».
Il docufilm di Tv2000, che si avvale della regia e della fotografia di Andrea Tramontano, si conclude con l’intervista ad abuna Matthias I, Patriarca della Chiesa ortodossa di Etiopia: «Non si è trattato di una cosa buona. Abbiamo perso tantissime persone, inclusi i monaci, il vescovo Abuna Petros. Adesso quasi tutto giustamente è stato dimenticato e perdonato. Posso dire che è bene così. Cosa si può fare adesso?». Forse è meglio ricordare.
Etiopia, l’infamia del gas negato
La guerra chimica di Badoglio e Graziani, a lungo nascosta anche dopo la fine del fascismo
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 03.04.2015)
L’incapacità o, meglio, il rifiuto dell’Italia ufficiale di fare i conti con il proprio passato è il doloroso tema del libro di Simone Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza editore). L’argomento affrontato dal giovane storico è la guerra italiana contro l’Etiopia del 1935-1936, la conquista dell’impero, dimenticata dopo il 1945, un po’, comprensibilmente, per tutto quanto è accaduto dalla Liberazione in poi, un po’, dolosamente, per la volontà di cancellare la memoria dell’essenza del fascismo. Quella d’Etiopia fu per l’Italia una «guerra nazionale», come la definisce Belladonna, il conflitto più importante del Novecento, se si eccettuano le due guerre mondiali. Fu una guerra del fascismo in competizione con le grandi potenze mondiali, non solo un’avventura coloniale alla ricerca di un «posto al sole».
Il fascismo, in quegli anni, era arrivato all’apice del consenso, ma Mussolini, come tutti i dittatori, era sempre desideroso di nuove gratificazioni, di nuovi successi, di nuovo prestigio, mentre l’astro di Hitler aveva cominciato a risplendere in Germania. Secondo qualche storico la Seconda guerra mondiale cominciò proprio con l’aggressione all’Etiopia, si dimentica però come fu importante internazionalmente, politicamente, culturalmente la guerra civile spagnola. Il celebre discorso di Carlo Rosselli, pubblicato da «Giustizia e Libertà» il 20 novembre 1936, «Oggi in Spagna domani in Italia», infiammò le nuove generazioni e fu il test dell’immane conflitto che doveva scoppiare tre anni dopo.
La guerra d’Etiopia - 3 ottobre 1935-9 maggio 1936 - fu per l’Italia la vergognosa guerra del gas, la guerra del colonialismo più becero, dei crimini più efferati: «Alla vista di questi indigeni nasce in noi l’orgoglio che prima non conoscevamo: quello di esser bianchi». (È la testimonianza di una camicia nera, Niccolò Giani, scritta in un libro di memorie, che rappresenta bene lo spirito del tempo).
Il saggio di Belladonna è rigoroso, addirittura ossessivo, come dovrebbe essere ogni ricerca storica. Allarga il suo raggio d’azione all’eterno pregiudizio espresso dalla frasetta mitologica «italiani brava gente»: la digressione è utile, il saggio racconta anche quel che successe nei Balcani nel 1942, le gesta impunite di Mario Roatta che in Croazia ordinò di incendiare case, di fucilare ostaggi, di arrestare i famigliari dei partigiani. Il generale andò anche oltre i desideri di Mussolini: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali e incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta».
La guerra del gas, dunque, pervicacemente negata dagli anni Trenta del Novecento ad appena ieri. In Etiopia fu usato ogni tipo di proiettile caricato a fosfene, arsine, iprite. Micidiale, poi, la bomba C.500.T: goccioline corrosive e mortali dall’odor di senape. Qualche azione, tra le molte altre: l’11, il 12 e il 15 febbraio 1936 quegli ordigni furono usati contro l’Amba Aradam; il 16 marzo sei bombe C.500.T caddero su Quoram dove, fino agli ultimi giorni del mese, furono lanciate 125 bombe all’iprite. Secondo il Diario storico del Comando della Regia Aeronautica, tenuto a lungo nascosto, dal 22 dicembre 1935 al 31 marzo 1936 furono 991 le bombe C.500.T gettate sull’esercito etiopico. Il 23 gennaio migliaia di donne e bambini asserragliati nella grotta di Zeret furono uccisi da 9.724 kg di aggressivi chimici e da 10.868 kg di iprite.
I marescialli Badoglio e Graziani furono gli esecutori senza mai un dubbio, risulta, degli ordini del duce: l’acritica apologia del regime, il culto vitalistico della guerra furono la loro religione. Accumulammo i morti per salire, si potrebbe dire.
Il segreto del gas in Etiopia ha gravato per tanto tempo su quelle azioni criminali. Le incolpevoli istituzioni dell’Italia democratica dopo la Liberazione l’hanno difeso coi denti. Gas in Etiopia rende onore a Angelo Del Boca, lo storico che con la sua testarda passione, la sua pazienza, il suo coraggio e i suoi saperi non confutabili ha squarciato quei vergognosi veli.
Autore della monumentale opera Gli italiani in Africa Orientale (Laterza) , ha viaggiato a lungo in Etiopia, ha raccolto testimonianze preziose - dall’Imperatore Hailé Selassié al ras Leul Immirù -, ha cercato, dal 1965, documenti negli archivi militari e diplomatici e ha dovuto subire divieti, superare muri massicci di rifiuti e di silenzi. Dei ministeri, degli stati maggiori, delle associazioni di reduci, dei nostalgici, degli ultimi complici, dei fedeli al principio di continuità dello Stato.
Indro Montanelli che, volontario, aveva preso parte all’impresa etiopica, autore di tre libri su quel tema, fu a lungo polemico con Del Boca per i suoi severi giudizi. Il giornalista negava le atrocità italiane in Etiopia: non aveva né visto né sentito nulla, diceva. Il fatto, poi, aggiungeva, non corrisponde mai al documento. La nostalgia della giovinezza cancella la ragione, replicava Del Boca. «La mia papera sul gas rimane e ne chiedo scusa», si convertì Montanelli anni dopo.
Dovevano passare sessant’anni perché l’Italia riconoscesse ufficialmente che in Etiopia il gas era stato usato in modo sistematico soprattutto dall’aviazione, «l’arma azzurra», la preferita dal fascismo. Ad aprire gli archivi fu il governo Dini, nel 1995. Saltarono fuori allora i telegrammi del duce, gli ordini degli stati maggiori, i documenti della guerra chimica.
C’è davvero poco da negare o da sottovalutare quel che allora accadde. La guerra d’Etiopia fu, se non l’inizio della Seconda guerra mondiale, una prova generale di quel che doveva venire dopo, il napalm, gli ordigni a frammentazione, le mine antiuomo, il gas nervino, i proiettili all’uranio, le bombe intelligenti e quelle sporche. Senza dimenticare mai l’atomica.
Colonialismo, i conti che non si fanno
Resta il silenzio della destra sui crimini dei nostri soldati in Africa
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.09.2008)
Ha detto Mario Borghezio che Berlusconi è andato da Gheddafi «con il cappello in mano» e che l’accordo con la Libia «non è stata una pagina dignitosissima». Nessuna meraviglia: ogni tanto un rutto della giovanile fede fascista gli scappa. Di più: le cose che pensa (anche le più orrende) lui almeno le dice. A distanza di alcuni giorni di inossidabili silenzi, colpisce invece come la destra italiana abbia perduto un’altra occasione per riflettere pubblicamente sul proprio passato. Riflettere: non strappare. Nessuno mette in discussione come Gianfranco Fini (in nome di una An talora recalcitrante) abbia dato negli anni una serie di strappi radicali. Che hanno via via portato lui e il partito a lasciarsi alle spalle i tempi in cui teorizzavano che «per essere di nuovo determinante il Msi deve saper essere anche figlio di puttana » per approdare al Pdl e al Ppe. Ma si è trattato, appunto, di strappi. Positivi. Coraggiosi. Giusti. Ma strappi. Che spinsero perfino Marcello Veneziani a dire che i camerati si erano «liberati del fascismo come di un calcolo renale».
Pubblici lavacri, necessari a prendere coscienza fino in fondo e dolorosamente degli errori, pochini. Anzi, è sempre riaffiorata la tentazione di dire che il fascismo è stato una brutta cosa però, in fondo in fondo... Basti ricordare quanto sfuggì allo stesso Fini un paio di anni fa: «Se guardiamo a Somalia, Etiopia e Libia, a come sono ridotte adesso e a com’ erano prima con l’Italia, credo che questa pagina della storia sarà riscritta e ci sarà una rivalutazione del ruolo dell’Italia ». Per non dire del compiacimento verso il Cavaliere quando sentenziò che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno e i suoi avversari li mandava in vacanza nelle isole».
Ecco, le pubbliche scuse (sia pure vaghe) alla Libia sono un passo importante. Che anche Angelo Del Boca, tra i primi a smascherare le balle del bravo colonialista italiano, ha giustamente benedetto. Ma il silenzio assordante della destra sulle responsabilità dei nostri soldati giolittiani e soprattutto fascisti al comando di un macellaio come Rodolfo Graziani (a guerra finita eletto presidente del Msi) è davvero una nuova occasione perduta.
Ai tanti smemorati che si rifiutano di ricordare i bombardamenti proibiti con i gas tossici, le decine di migliaia di vecchi, donne e bambini morti nei campi di concentramento della Sirte e della Cirenaica, la spaventosa carneficina di Addis Abeba, offriamo da rileggere almeno un telegramma a Badoglio del 28 dicembre ’35: «Dati sistemi nemico autorizzo V.E. all’impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme. Firmato: Mussolini». E una pagina di «Ali sul deserto» dell’aviatore Vincenzo Biani del 1934: «Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l’incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo (...) Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo».
l’Unità, 0 4.09.2008
1931, giustiziato il «leone del deserto» libico
Anche allora l’Italia preferì mentire
IL DOCUMENTO
Ordine del giorno del generale Graziani
«Omar el Mukhtar, il capo politico e militare dei ribelli, è caduto nella rete che da diciassette mesi sul Gebel cinquanta volte si era aperta e chiusa per afferralo: c’è caduto alfine! E non è fortuita circostanza: è la tenacia, la fede, il valore, lo spirito di sacrificio dei comandanti e delle truppe che hanno trionfato! È il metodo che si è venuto affinando in tutti gli atti dell’operazione bellica, dall’esplorazione aerea a quella terrestre, dal concetto di manovra alla esecuzione nel campo tattico! È lo strumento che è stato lubrificato in tutte le sue articolazioni! È l’armonica azione dell’aviazione, dei battaglioni, degli squadroni! Ufficiali, soldati, Siamo a una svolta decisiva! Siamo alla frusta! Avanti, per la grandezza d’Italia!»
Non furono «la tenacia, la fede, il valore, lo spirito!» come scrisse il generale Rodolfo Graziani nel suo enfatico messaggio alle truppe. Fu, più semplicemente, un delatore a consentire l’arresto del «leone del deserto» Omar El Mukhtar, l’eroe nazionale libico. È quanto emerge, quasi 80 anni dopo, dall’esame delle carte conservate dai familiari di Giuseppe Franceschino, il giudice istruttore del Tribunale del Corpo d’Armata territoriale di Bengasi, cioè della corte che, dopo un processo-farsa, condannò El Mukhtar all’impiccagione.
Era il 1931. Ma il fantasma di El Mukhtar è comparso più di una volta nella storia tormentata dei rapporti italo-libici. Nel 1981 il colossal americano «Il leone del deserto» - dove la parte di El Mukhtar era interpretata da Antony Quinn - fu denunciato per «vilipendio alle forze armate» e gli italiani poterono vederlo in modo semiclandestino solo nei circuiti alternativi. Da allora molte cose sono cambiate. Tanto che solo l’agenzia libanese As Safir ha registrato, nelle cronaca della visita di Berlusconi a Tripoli, una stretta di mano tra Berlusconi e il figlio del «leone del deserto».
Omar el Mukthar fu catturato l’11 settembre del 1931 durante un trasferimento. Un episodio chiarisce a che genere di processo fu sottoposto: alla fine fu condannato anche il suo avvocato, il capitano Roberto Lontano, colpevole di aver difeso il suo assistito con troppo zelo. La condanna a morte mediante impiccagione fu eseguita il 16 settembre, alla presenza di 20.000 deportati libici. Pochi mesi dopo la ribellione cessò definitivamente.
Qualcuno (fra cui il gerarca Emilio De Bono) avanzò il dubbio che la cattura fosse stata consentita dal tradimento di un altro capo della rivolta. Ma all’ipotesi non fu mai trovata alcuna conferma. Quella che, oggi, arriva dalle carte del giudice istruttore e in particolare dai verbali dell’interrogatorio di Hamed Bu Seif, un trentacinquenne mulesem aul (sottotenente) del dor di Abid, che comparve davanti al magistrato il 12 maggio 1931, poco più di tre mesi prima dell’arresto.
L’incipit racconta non solo l’avvio della collaborazione da parte di Hamed Bu Seif ma anche di altri rivoltosi: «Confermo quanto ho già dichiarato... nulla ho fatto contro il Governo, sottomettendomi al quale, son sicuro di avere la tranquillità... Mi sono sottomesso perché ho visto che Saad Fannusc sottomessosi è stato lasciato tranquillo e, al Dor gli altri che hanno intenzione di sottomettersi, vogliono prima vedere come sono trattato anch’io». Dunque, l’avvio di una azione di gruppo, di cui Bu Seif era solo l’avanguardia. L’interrogatorio, ripreso anche nei giorni seguenti, produceva molte informazioni sull’organizzazione della resistenza: armamenti, organigrammi e una raffica di decine di nomi con le rispettive azioni compiute, sino a riempire 25 fitte pagine di verbale. In particolare colpiscono molti passaggi riguardanti Omar el Mukhtar: « ...il drappello che è a guardia personale di Omar Mukhtar non ha caimacan, ma un Bimbasci comandar: egli è Bubacher Zigri....si distinguono dagli altri perché: sono tutti della stessa cabila di Omar e perchè vestono barracani di seta, e tachie rosse... Quando la carovana si muove ...poiché con essa si muove anche Omar Mukhtar è scortata anche dai suoi cavalieri... Omar non cavalca un cavallo sempre dello stesso colore, quando lo lasciai cavalcava un cavallo bianco... la tenda di Omar Mukhtar è a 4 teli, italiana, ed è come quella che adoperiamo noi ascari. Egli non ha più la tenda conica...». Tutte notizie utili a individuare il capo guerrigliero e la sua guardia del corpo, magari dall’alto di una ricognizione aerea.
Ignoriamo che fine abbia fatto Hamed Bu Seif e se sia mai stato processato, ma sembra decisamente improbabile che il comando militare italiano abbia lasciato cadere una così rilevante offerta di collaborazione che, probabilmente, riguardava un gruppo non piccolo. C’è da credere che la promessa di impunità sia stata mantenuta. La pelle del «leone del deserto» valeva moltissimo.
Benché ultrasessantenne divenne rapidamente il capo indiscusso della resistenza libica e si guadagnò una fama di invincibilità. Per fermarlo le truppe di Graziani compirono atrocità al limite del genocidio, deportando oltre 80.000 libici in campi di concentramento. Lo stesso Rodolfo Graziani, riconobbe che si trattava di misure di eccezionale crudeltà (e, detto da lui...). Nel gennaio 1931, l’oasi di Kufra venne presa con un eccezionale spiegamento di forze (20 aerei, 300 autocarri, 7.000 cammelli), ma la speranza di catturare Omar andò delusa. In settembre il «dor» era ridotto in condizioni disperate, ma, data la vastità del territorio, non era facile dire per quanto tempo ancora sarebbe durata la caccia. Inoltre, esisteva un rischio molto serio: Omar -già sfuggito alla cattura infinite volte- avrebbe potuto superare il reticolo di filo spinato e raggiungere l’Egitto con parte dei suoi. Lì sarebbe stato imprendibile e avrebbe potuto riorganizzarsi. Un rischio che il governo fascista -in lotta col tempo- doveva assolutamente evitare.
I bimbi italiani strappati alla Somalia
"Voglio scuse per chi si è suicidato. Per chi è depresso. Per mia madre e per i nostri figli"
di Francesca Caferri (la Repubblica, 17.06.2008)
Le cronache del tempo raccontano che negli anni dell’Afis - fra il 1950 e il ‘60 - le relazioni miste erano una questione ben nota alle autorità italiane: «Non esagero dicendo che la maggior parte ha la madama, qualcuno anche sposato», scriveva nel 1951 riferendosi agli italiani di Somalia l’arcivescovo di Mogadiscio, Venanzio Filippini. Da quelle relazioni nacquero centinaia - almeno 600 secondo i documenti dell’epoca - di bambini, tutti con un destino segnato: «I funzionari italiani arrivavano dalle nostre madri quando noi avevamo uno, due anni - racconta Gianni Mari, presidente dell’associazione italo-somali - il discorso era sempre lo stesso: il bimbo avrebbe avuto un destino migliore con gli italiani. Promettevano un’educazione, un lavoro futuro, cibo tutti i giorni. E le nostre madri, giovani e allontanate dalle comunità per aver avuto una storia con uno straniero, dicevano sì». Così la maggior parte dei bambini figli di coppie miste finì nei collegi cattolici della Somalia, dove venivano battezzati ed educati secondo i programmi scolastici di Roma: «Dovevamo parlare solo italiano, dimenticare la lingua delle nostre madri e il loro paese. Non c’era nulla a ricordarci l’altra metà di noi. La nostra parte somala doveva semplicemente sparire», ricorda ancora Mari. Nel corso degli anni le madri diventavano fantasmi lontani mentre i padri spesso non erano mai esistiti.
La storia andò avanti così fino alla fine del mandato italiano in Somalia: di lì in poi si pose il problema di rimpatriare i minori, ormai sradicati nel loro stesso paese. «Arrivammo in Italia. Soli. Qui scoprimmo che non eravamo neanche italiani: la maggior parte di noi era apolide, perché senza riconoscimento paterno non c’era nazionalità. Eravamo malvisti nei collegi religiosi, perché considerati bastardi e in più di pelle scura. Subimmo insulti razziali, violenze, soprusi, pedofilia. Chi di noi ne è uscito è una persona forte. Ma molti non ce l’hanno fatta: si sono suicidati o sono in preda alla depressione», conclude Mari.
Oggi, a distanza di quasi 60 anni, lo Stato è pronto ad ammettere per la prima volta la propria responsabilità per le sofferenze della signora Lucia, del signor Mari e di centinaia di bambini come loro. Lo fa con l’ufficialità di un disegno di legge firmato dal Viminale: un risultato importante paragonato ai decenni di silenzio. Un risultato che però non basta a molti dei protagonisti di questa storia. «Pretendo che ci si chieda scusa», dice Antonio Murat, 59 anni. Il signor Murat è uno dei pochi "fortunati" che alla nascita fu riconosciuto dal padre e porta il suo cognome. «Mi portarono in collegio in Somalia che avevo 3 o 4 anni - racconta - mio padre mi riconobbe, ma non fu mai presente. Venni in Italia da solo, quando diventai maggiorenne, e poco dopo mia madre morì, senza che l’avessi rivista. Dei soldi non mi importa nulla, ma qualcuno deve chiedere scusa a me e a lei per averci divisi». La voce di Antonio si incrina, dal portafoglio tira fuori una vecchia foto in bianco e nero: è la mamma, giovanissima e bellissima. «Io invece voglio tutto, voglio anche i soldi - interrompe Mauro Caruso - e di una pensione minima Inps, come quella che prevede la legge (500 euro circa, ndr) non so cosa farmene». Il signor Caruso si presenta come «un italiano con la pelle di pigmentazione scura». In lui, il dolore che in Muras è sfociato in malinconia si trasforma in rabbia: a differenza di molti altri italiani, suo padre non fece mancare nulla alla compagna somala e ai quattro figli avuti da lei. Compresa la cittadinanza italiana. Ma un giorno morì e alla porta suonarono i funzionari di Roma: il fratello e le sorelle di Mauro furono portati in Italia. Lui, che aveva un anno, rimase con la madre fino al 1974 quando fu costretto a partire a suo volta. «Entrai in collegio a Roma e ne uscii a 18 anni: ero solo. Mia madre era in Somalia, i miei fratelli erano estranei di cui non ricordavo nulla. Avevo sulle spalle un carico di soprusi che avrebbe potuto trasformarmi in un killer: invece ho fatto mille lavori, ma la mia fedina penale è sempre rimasta immacolata. È l’unica cosa bianca che ho», conclude tagliente.
«Erano ragazzini rifiutati sia dall’uno che dall’altro lato», ricorda Don Antonio Allais, sacerdote torinese che negli ‘70 assunse la patria potestà di decine di piccoli apolidi di origini somale e imbastì cause su cause perché fosse riconosciuta loro la cittadinanza italiana. Le vinse, regalando ai suoi protetti un’identità su cui cominciare a costruirsi una vita: «Ma un passaporto non sana le ferite: restarono degli sradicati, senza affetti e trattati male da tutti». Negli anni, il caso degli italo-somali è rimasto a galleggiare nelle pastoie della burocrazia italiana: qualche interrogazione parlamentare negli anni ‘60, lettere degli ex bambini alla presidenza della Repubblica e al Parlamento europeo. Carte bollate, promesse e nessun fatto, fino a quando due anni fa il Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo del Viminale non decise di prendere in mano il loro dossier e, dopo decine di controlli e audizioni, mise a punto il disegno di legge sugli indennizzi: «Lo Stato è arrivato tardi - ammette il prefetto Mario Morcone, presidente del Comitato - speriamo con questa legge di rimediare almeno in parte alle sofferenze». La speranza del prefetto lo scorso anno è andata frustrata, perché non i due milioni di euro necessari per dare copertura finanziaria al disegno di legge non si trovarono: Morcone è pronto riprovare a settembre, quando si comincerà a discutere della prossima finanziaria.
Come tutti, la signora Lucia spera che i soldi vengano fuori, ma per lei è chiaro che questo non basterà a chiudere i conti con il passato: «Voglio delle scuse per chi ha vissuto la mia stessa storia e si è suicidato. Per chi è depresso. Per le nostre madri, stritolate da questa vicenda quando erano poco più che bambine. Per i nostri figli, che non devono vederci come dei bastardi. Un misero foglio di carta in cui si parla di soldi e non di responsabilità di certo non mi basta».
L’intervista.
Angelo Del Boca, storico del colonialismo
"Mai fatti i conti con il passato"
Angelo Del Boca, storico del colonialismo, è il maggiore esperto delle relazioni fra l’Italia e le sue colonie sia negli anni del fascismo che in quelli successivi alla Seconda guerra mondiale.
Professor Del Boca, come nasce l’idea di affidare all’Italia appena uscita sconfitta dalla guerra l’amministrazione della Somalia?
«Fu l’Italia a chiederlo all’Onu. In realtà il governo aveva chiesto l’amministrazione di tutte le ex colonie, sia quelle fasciste che quelle pre-fasciste. L’Onu fece capire che non c’era speranza, avevamo perso la guerra e Stati Uniti e Gran Bretagna si opponevano. Come premio di consolazione, ci diedero la Somalia. Lì furono spediti funzionari dell’ex ministero per l’Africa, per la maggior parte fascisti di provata fede. Questo nonostante l’Italia fascista avesse lasciato un pessimo ricordo di sé: la Somalia uscì dal colonialismo depredata».
Perché furono mandati ex fascisti a governare il paese?
«Quando lo chiesi a un alto funzionario di allora mi rispose: "Si fa il fuoco con la legna che si trova". Non è certo stata una bella cosa. Non a caso, fu messa a punto una Costituzione che non era adatta per la Somalia e che fu alla base della successiva disgregazione del paese».
Come erano i rapporti fra gli italiani e i somali?
«Tesi, eravamo gli ex colonizzatori, non ci amavano».
Dunque le relazioni fra gli italiani e le donne locali non erano gradite...
«Certo che no, anche se furono numerose, soprattutto fra i militari del corpo di spedizione. Gli italiani non godevano di buona fama e in più non sposavano quasi mai le ragazze che mettevano nei guai. Per le giovani la gravidanza era motivo di vergogna e i figli non erano ben visti dalle comunità locali».
I bambini di allora denunciano di essere stati sottratti alle madri: perché avvenne?
«Immagino che fu il frutto di una pietà tipicamente cattolica. Si pensò "questi bambini non sono il frutto di amori consacrati ma non possiamo abbandonarli". Senza dubbio furono discriminati nei collegi e in Italia ma non so quanto sarebbe stato meglio in Somalia».
Perché c’è voluto tanto tempo perché questa storia diventasse pubblica e ci fosse una legge di compensazione? E perché anche ora non si chiede scusa a queste persone?
«Ci sono moltissime storie ancora sepolte negli archivi: ogni tanto escono. Non c’è un perché vero sul silenzio di questi anni. Per quanto riguarda la legge, posso dire che in Italia non c’è mai stata la volontà di fare i conti con il passato delle colonie, con gli errori di allora. Tanto meno con quello successivo».
(fr. caf.)
la Repubblica, 17.06.2008
Mezzo milione di africani sterminati dal colonialismo italiano.
Come chiedere scusa per una colpa stigmatizzata da Pio XI?
Una Giornata contro l’Impero
Del Boca: «L’Italia faccia mea culpa su Somalia, Etiopia e Libia».
Gariglio: «Il fascismo strumentalizzò la figura del cardinale Massaia»
DI ANTONIO AIRÒ (Avvenire, 19.01.2010)
« Non è il momento per proporre al governo una Giornata della memoria da tenersi in Italia in ricordo di ben mezzo milione di nostri fratelli africani uccisi per mano italiana durante il periodo coloniale?», scrive da Cremona un lettore di Avvenire, lo studioso Mario Beccari . Nel testo si ricordano il ricorso da parte delle nostre truppe agli inumani campi di concentramento in Cirenaica o il confino alle Tremiti di centinaia di libici. E l’uso dei gas in Etiopia, le stragi di vescovi, monaci, diaconi, semplici fedeli («cristiani, in questo caso cattolici, che danno il martirio ad altri cristiani di diversa denominazione!»), i lanciafiamme e poi l’artiglieria con bombe caricate a iprite per snidare da una immensa caverna, dove si erano rifugiate alcune centinaia di partigiani abissini, ma anche donne e bambini. Tante insomma le operazioni ’criminali’ di polizia coloniale in Somalia, in Libia e in Etiopia che per troppi anni sono state ignorate dalla gran parte degli italiani, «brava gente», e che solo studi recenti hanno fatto conoscere. Per il nostro lettore, «la storia bisognerebbe riscriverla con trasparenza e onestà intellettuale mettendo sui libri tutto ciò che ci onora e ciò che ci disonora e non solo ciò che fa piacere al regime di turno».
Mentre in tutto il mondo ci si appresta a celebrare il 27 gennaio la Giornata della memoria nel ricordo della Shoah del popolo ebraico, questa proposta, come ci dice lo storico Bartolo Gariglio dell’Università di Torino, pur collocandosi in due dimensioni diverse (da una parte lo sterminio di 6 milioni di persone, dall’altra le nefandezze compiute nelle colonie) «solleva un problema reale. Fino a che punto questi eccidi sono avvertiti dall’opinione pubblica?».
Il giornalista e storico Angelo Del Boca , il primo che rivelò l’uso criminale dei gas durante la guerra in Etiopia, aveva proposto già nel 2006 una apposita Giornata per i 500.000 africani ammazzati. «Ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico - aveva scritto su Nigrizia , il mensile dei comboniani - . Siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e l’Aids, ma cercano disperatamente anche un propria identità». Come le drammatiche e tragiche vicende dell’immigrazione dimostrano con somali, eritrei, etiopi in primo piano.
Quattro anni fa l’iniziativa di Del Boca, anche se comunicata all’allora ministro degli Esteri D’Alema, non ebbe alcun esito. Ma il 2 marzo del 2009 è stato ratificato a Sirti in Libia da Berlusconi e da Gheddafi il trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi. In quell’occasione il presidente del Consiglio pronunciava parole esplicite: «Ancora una volta e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione e vi chiedo perdono...». Prendendo spunto da questo accordo, Del Boca torna sulla sua proposta di una Giornata decisa dal Parlamento. «Con questo atto - dichiara - si raggiungerebbe l’obiettivo di riconoscere ufficialmente per tutte le colonie fasciste e pre-fasciste le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita e definitiva. Per una volta avremmo raggiunto un traguardo che altre nazioni colonialiste, come la Gran Bretagna e la Francia, non hanno neppure ipotizzato, pur essendo più avanti di noi nella discussione sul fenomeno del colonialismo».
Gariglio ricostruisce la politica coloniale perseguita dall’Italia e anche il consenso che accompagnò l’impresa etiopica. Esso rispondeva ad esigenze di espansione produttiva del nostro Paese con i tanti italiani che emigrarono in Abissinia. In più c’era anche un risultato di civilizzazione, anche cristiana, da raggiungere. «Nell’immediato - ci dice - ci fu un’ampia adesione alla guerra e ai suoi obiettivi. Anche la stampa cattolica e molti vescovi la sostennero e se non mancarono alcuni ’distinguo’, questi non emersero. C’è da aggiungere che il fascismo fu molto abile nell’orientare l’opinione pubblica. Basti pensare all’esaltazione di un grande missionario come il cardinale Massaia, che fu presentato come un antesignano della colonizzazione italiana in Etiopia. Come risulta da una recente biografia, Massaia non pensava per nulla all’Italia. Il suo punto di riferimento, se proprio si vuole, era la Francia dove aveva sede l’opera per la propagazione della fede. Quanto alle nefandezze compiute dalle nostre truppe (non solo nelle colonie ma anche ad esempio in Jugoslavia), il popolo italiano le ignorava. Vigeva ancora la tradizione e la convinzione di essere ’brava gente’».
In realtà lo stesso Pio XI, come risulta da un noto discorso dell’agosto 1935 (che monsignor Tardini ’ripulì’ nei suoi termini più espliciti per L’Osservatore romano) aveva ritenuta «ingiusta» la guerra contro l’Etiopia e un sacerdote, come don Primo Mazzolari, che aveva accettato il conflitto, scriveva pochi giorni dopo la conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero: «L’ebbrezza ci ha tolto la misura e il vecchio male... ci ha condotti nei fatti e nel tono sulle strade di tutti i vieti e inopportuni imperialismi».
Non c’è stata, per tutte una serie di ragioni, quella richiesta di perdono che Giovanni Paolo II ha chiesto per tutte le colpe dei cristiani di tutti i tempi. Non da oggi, comunque, la colonizzazione italiana ha rivelato il suo volto più feroce verso tanta gente, cristiani e non. Anche Gariglio ritiene quindi si possa celebrare, in modi e tempi da definire. «Trovare un’occasione per chiedere perdono - ci dice aiuterebbe a riflettere sulle nostre responsabilità. Soprattutto in un momento che vede il nostro Paese importatore di manodopera e proprio da quell’Africa che ci ha visto invasori».