APPELLO
(Testo definitivo)
Sabato 14, a Roma
L’incontro nazionale
“Uomini e donne per un cambio di civiltà”
Gli uomini promotori dell’appello “La violenza contro le donne ci riguarda” hanno organizzato un incontro nazionale sabato 14. L’appuntamento è al Teatro Due a Roma (vicolo Due Macelli 37). Si inizia alle 11 con riunioni di gruppo e prosegue alle 14,30 con l’assemblea plenaria.
La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini
Assistiamo a un ritorno quotidiano della violenza esercitata da uomini sulle donne. Con dati allarmanti anche nei paesi “evoluti” dell’Occidente democratico. Violenze che vanno dalle forme più barbare dell’omicidio e dello stupro, delle percosse, alla costrizione e alla negazione della libertà negli ambiti familiari, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile. Una recente ricerca del Consiglio d’Europa afferma che l’aggressività maschile è la prima causa di morte violenta e di invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo . E tale violenza si consuma soprattutto tra le pareti domestiche.
Siamo di fronte a una recrudescenza quantitativa di queste violenze? Oppure a un aumento delle denunce da parte delle donne? Resta il fatto che esiste ormai un’opinione pubblica e un senso comune, che non tollera più queste manifestazioni estreme della sessualità e della prevaricazione maschile. Chi lavora nella scuola e nei servizi sociali sul territorio denuncia poi una situazione spesso molto critica nei comportamenti degli adolescenti maschi, più inclini delle loro coetanee femmine a comportamenti violenti, individuali e di gruppo.
Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su una indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacità di riflessione, di autocoscienza, una ricerca approfondita sulle dinamiche della propria sessualità e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini.
La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo. Sono mutate prima di tutto le nostre vite, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Sono cambiate consuetudini e modi di sentire. Anche le norme scritte della nostra convivenza registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento.
L’affermarsi della libertà femminile non è una realtà delle sole società occidentali. Il moto di emancipazione e liberazione delle donne si è esteso, con molte forme, modalità e sensibilità diverse, in tutto il mondo. La condizione della donna torna in modo frequente nelle polemiche sullo “scontro di civiltà” che sarebbe in atto nel mondo. Noi pensiamo che la logica della guerra e dello “scontro di civiltà” può essere vinta solo con un “cambio di civiltà” fondato in tutto il mondo su una nuova qualità del rapporto tra gli uomini e le donne.
Oggi attraversiamo una fase contraddittoria, in cui sembra manifestarsi una larga e violenta “reazione” contraria al mutamento prodotto dalla rivoluzione femminile. La violenza fisica contro le donne può essere interpretata in termini di continuità, osservando il permanere di un’antica attitudine maschile che forse per la prima volta viene sottoposta a una critica sociale così alta, ma anche in termini di novità, come una “risposta” nel quotidiano alle mutate relazioni tra i sessi. Un altro sintomo inquietante è il proliferare di mentalità e comportamenti ispirati da fondamentalismi di varia natura religiosa, etnica e politica, che si accompagnano sistematicamente a una visione autoritaria e maschilista del ruolo della donna. Queste stesse tendenze sono però attualmente sottoposte a una critica sempre più vasta, soprattutto - ma non esclusivamente - da parte femminile
La recente cronaca italiana ci ha offerto alcuni casi drammatici, eclatanti che rivelano anche modi diversi di accanirsi sul corpo e sulla mente femminile. Una ragazza incinta viene seppellita viva dall’amante, che non vuole affrontare il probabile scandalo. Un fratello insegue e uccide la sorella, rea di non aver obbedito al diktat matrimoniale della famiglia. Un immigrato pakistano uccide la figlia, aiutato da altri parenti maschi, perché non segue i costumi sessuali etnici e religiosi della comunità. In alcune città si susseguono episodi di stupro da parte di giovani immigrati ma anche di maschi italiani. Sono italiani gli stupratori di una ragazza lesbica a Torre del Lago. Italiano l’assassino che a Parma ha ucciso con otto coltellate la ex fidanzata, che perseguitava da qualche anno. Ultimo caso di una lunga scia di delitti commessi in questi ultimi anni in Italia da uomini contro le ex mogli o fidanzate, o contro compagne in procinto di lasciarli.
Il clamore e lo scandalo sono alti. In un contesto di insicurezza (in parte reale, in parte enfatizzata dai media e da settori della politica), di continua emergenza e paura per le azioni del terrorismo di matrice islamica e per le contraddizioni prodotte dalla nuova dimensione dei flussi di immigrazione, nel dibattito pubblico la matrice della violenza patriarcale e sessuale è stata spesso riferita a culture e religioni diverse dalla nostra. Molte voci però hanno insistito giustamente sul fatto che anche la nostra società occidentale non è stata e non è a tutt’oggi immune da questo tipo di violenza. E’ anzi possibile che il rilievo mediatico attribuito alla violenza sessuale che viene dallo “straniero” risponda a un meccanismo inconscio di rimozione e di falsa coscienza rispetto all’esistenza di questo stesso tipo di violenza, anche se in diversi contesti culturali, nei comportamenti di noi maschi occidentali. Si è parlato dell’esigenza di un maggiore ruolo delle istituzioni pubbliche, sino alla costituzione come parti civili degli enti locali e dello stato nei processi per violenze contro le donne. Si è persino messo sotto accusa un ipotetico “silenzio del femminismo” di fronte alla moltiplicazione dei casi di violenza.
Noi pensiamo che sia giunto il momento, prima di tutto, di una chiara presa di parola pubblica e di assunzione di responsabilità da parte maschile. In questi anni non sono mancati singoli uomini e gruppi maschili che hanno cercato di riflettere sulla crisi dell’ordine patriarcale. Ma oggi è necessario un salto di qualità, una presa di coscienza collettiva.
La violenza è l’emergenza più drammatica. Una forte presenza pubblica maschile contro la violenza degli uomini potrebbe assumere valore simbolico rilevante. Anche convocando nelle città manifestazioni, incontri, assemblee, per provocare un confronto reale. Siamo poi convinti che un filo unico leghi fenomeni anche molto distanti tra loro ma riconducibili alla sempre più insopportabile resistenza con cui la parte maschile della società reagisce alla volontà che le donne hanno di decidere della propria vita, di significare e di agire la loro nuova libertà:
Il corpo femminile è negato con la violenza. Ma viene anche disprezzato e considerato un mero oggetto di scambio (come ha dimostrato il recente scandalo sulle prestazioni sessuali chieste da uomini di potere in cambio di apparizioni in programmi tv ecc.). Viene rimosso da ambiti decisivi per il potere: nella politica, nell’accademia, nell’informazione, nell’impresa.
Lo sguardo maschile - pensiamo anche alle organizzazioni sindacali - non vede ancora adeguatamente la grande trasformazione delle nostre società prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Chiediamo che si apra finalmente una riflessione pubblica tra gli uomini, nelle famiglie, nelle scuole e nelle università, nei luoghi della politica e dell’informazione, nel mondo del lavoro. Una riflessione comune capace di determinare una sempre più riconoscibile svolta nei comportamenti concreti di ciascuno di noi.
Primi firmatari 1) Sandro Bellassai, 2) Stefano Ciccone, 3) Marco Deriu, 4) Massimo Michele Greco, 5) Alberto Leiss, 6) Jones Mannino, 7) Claudio Vedovati.
APPELLO
Violenza sulle donne, un problema maschile
(www.manifesto.it, 19.09.2006)
Assistiamo a un ritorno quotidiano della violenza esercitata da uomini sulle donne. Con dati allarmanti anche nei paesi «evoluti» dell’Occidente democratico. Violenze che vanno dalle forme più barbare dell’omicidio e dello stupro, delle percosse, alla costrizione e alla negazione della libertà negli ambiti familiari, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile. Una recente ricerca del Consiglio d’Europa afferma che l’aggressività maschile è la prima causa di morte violenta e di invalidità permanente per le donne in tutto il mondo. E tale violenza si consuma soprattutto tra le pareti domestiche.
Siamo di fronte a una recrudescenza quantitativa di queste violenze? Oppure a un aumento delle denunce da parte delle donne? Resta il fatto che esiste ormai un’opinione pubblica e un senso comune, che non tollera più queste manifestazioni estreme della sessualità e della prevaricazione maschile. Chi lavora nella scuola e nei servizi sociali sul territorio denuncia poi una situazione spesso molto critica nei comportamenti degli adolescenti maschi, più inclini delle loro coetanee femmine a comportamenti violenti, individuali e di gruppo. Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su una indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacità di riflessione, di autocoscienza, una ricerca sulle dinamiche della propria sessualità e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini.
La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo. Sono mutate prima di tutto le nostre vite, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Sono cambiate consuetudini e modi di sentire. Anche le norme scritte della nostra convivenza registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento. L’affermarsi della libertà femminile non è una realtà delle sole società occidentali. Il moto di emancipazione e liberazione delle donne si è esteso, con molte forme, modalità e sensibilità diverse, in tutto il mondo..
La condizione della donna torna in modo frequente nelle polemiche sullo «scontro di civiltà» che sarebbe in atto nel mondo. Noi pensiamo che la logica della guerra e dello «scontro di civiltà» può essere vinta solo con un «cambio di civiltà» fondato in tutto il mondo su una nuova qualità del rapporto tra gli uomini e le donne.
Oggi attraversiamo una fase contraddittoria, in cui sembra manifestarsi una larga e violenta «reazione» contraria al mutamento prodotto dalla rivoluzione femminile. La violenza contro le donne può essere interpretata in termini di continuità, come il permanere di un’attitudine maschile che forse per la prima volta viene sottoposta a una critica sociale così alta, ma anche in termini di novità, come una «risposta» nel quotidiano alle mutate relazioni tra i sessi.
Un altro sintomo inquietante è il proliferare di mentalità e comportamenti ispirati da fondamentalismi di varia natura religiosa, etnica e politica, che si accompagnano sistematicamente a una visione autoritaria e maschilista del ruolo della donna. Queste stesse tendenze sono però attualmente sottoposte a una critica sempre più vasta, soprattutto - ma non esclusivamente - da parte femminile.
La recente cronaca italiana ci ha offerto alcuni casi drammatici, eclatanti che rivelano anche modi diversi di accanirsi sul corpo e sulla mente femminile. Una ragazza incinta viene seppellita viva dall’amante, che non vuole affrontare il probabile scandalo. Un fratello insegue e uccide la sorella, rea di non aver obbedito al diktat matrimoniale della famiglia. Un immigrato pakistano uccide la figlia, aiutato da altri parenti maschi, perché non segue i costumi sessuali etnici e religiosi della comunità.
In alcune città si susseguono episodi di stupro da parte di giovani immigrati ma anche di maschi italiani. Sono italiani gli stupratori di una ragazza lesbica a Torre del Lago. Italiano l’assassino che a Parma ha ucciso con otto coltellate la ex fidanzata, che perseguitava da qualche anno. Ultimo caso di una lunga scia di delitti commessi in questi ultimi anni in Italia da uomini contro le ex mogli o fidanzate, o contro compagne in procinto di lasciarli.
Il clamore e lo scandalo sono alti. In un contesto di insicurezza (in parte reale, in parte enfatizzata dai media e da settori della politica, di continua emergenza e paura per le azioni del terrorismo di matrice islamica e per le contraddizioni prodotte dalla nuova dimensione dei flussi di immigrazione, nel dibattito pubblico la matrice della violenza patriarcale e sessuale è stata spesso riferita a culture e religioni diverse dalla nostra. Molte voci però hanno insistito giustamente sul fatto che anche la nostra società occidentale non è stata e non è a tutt’oggi immune da questo tipo di violenza. E’ anzi possibile che il rilievo mediatico attribuito alla violenza sessuale che viene dallo «straniero» risponda a un meccanismo inconscio di rimozione e di falsa coscienza rispetto all’esistenza di questo stesso tipo di violenza, anche se in diversi contesti culturali, nei comportamenti di noi maschi occidentali.
Si è parlato dell’esigenza di un maggiore ruolo delle istituzioni pubbliche, sino alla costituzione come parti civili degli enti locali e dello stato nei processi per violenze contro le donne. Si è persino messo sotto accusa un ipotetico «silenzio del femminismo» di fronte alla moltiplicazione dei casi di violenza.
Noi pensiamo che sia giunto il momento, prima di tutto, di una chiara presa di parola pubblica e di assunzione di responsabilità da parte maschile. In questi anni non sono mancati singoli uomini e gruppi maschili che hanno cercato di riflettere sulla crisi dell’ordine patriarcale. Ma oggi è necessario un salto di qualità, una presa di coscienza collettiva. La violenza è l’emergenza più drammatica. Una forte presenza pubblica maschile contro la violenza degli uomini potrebbe assumere valore simbolico rilevante. Anche convocando nelle città manifestazioni, incontri, assemblee, per provocare un confronto reale.
Siamo poi convinti che un filo unico leghi fenomeni anche molto distanti tra loro ma riconducibili alla sempre più insopportabile resistenza con cui la parte maschile della società reagisce alla volontà che le donne hanno di decidere della propria vita, di significare e di agire la loro nuova libertà. Il corpo femminile è negato con la violenza. Ma viene anche disprezzato e considerato un mero oggetto di scambio (come ha dimostrato il recente scandalo sulle prestazioni sessuali chieste da uomini di potere in cambio di apparizioni in programmi tv ecc.).Viene rimosso da ambiti decisivi per il potere: nella politica, nell’accademia, nell’informazione, nell’impresa. Lo sguardo maschile - pensiamo anche alle organizzazioni sindacali - non vede ancora adeguatamente la grande trasformazione delle nostre società prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Chiediamo che si apra finalmente una riflessione pubblica tra gli uomini, nelle famiglie, nelle scuole e nelle università, nei luoghi della politica e dell’informazione, nel mondo del lavoro. Una riflessione comune capace di determinare una sempre più riconoscibile svolta nei comportamenti concreti di ciascuno di noi.
Sandro Bellassai, Stefano Ciccone, Marco Deriu, Massimo Michele Greco, Alberto Leiss, Jones Mannino, Claudio Vedovati.
Chi firma questo appello e perché -
(www.liberazione.it, 19.09.2006)
L’appello che leggete qui accanto reca le firme di uomini provenienti dai più disparati percorsi politici, culturali, religiosi, sessuali, che hanno deciso di reagire in qualche modo ai terribili fatti di violenza alle donne che le cronache hanno riportato alla nostra attenzione negli ultimi mesi. Alcuni vengono da esperienze politiche tradizionali, altri vengono da movimenti studenteschi, pacifisti e ambientalisti, altri ancora hanno cominciato a riflettere su questi temi a partire da relazioni affettive o di amicizia o da scambi con il movimento delle donne. Si tratta di percorsi semplicemente individuali. Ma anche di esperienze, spesso informali, di gruppi di autocoscienza e di discussione su diverse questioni (stupro, guerra, prostituzione, pedofilia). Esistono attualmente in Italia gruppi di uomini di questo genere in diverse città: “Uomini in cammino” di Pinerolo, “Maschile plurale” di Roma, “Maschile plurale” di Bologna, il “Gruppo uomini” di Verona, il “Gruppo uomini” di Viareggio, il “Gruppo uomini” di Torino, il “Gruppo uomini di agape”, “Il cerchio degli uomini” di Torino, l’“Associazione uomini casalinghi” di Pietrasanta, a cui si aggiungono gruppi misti di uomini e donne “Identità e differenza” di Spinea, “La merlettaia” di Foggia, il “Circolo della differenza” di Parma, il “Gruppo sui generis” di Anghiari, il “Gruppo sul patriarcato” di Roma promosso dal “Forum Donne Prc”. (...) Gli uomini che hanno attraversato queste esperienze non rivendicano estraneità rispetto alla storia a cui appartengono e non cercano rivincite riesumando vecchi trofei e valori patriarcali. Assumono la libertà conquistata dalle donne grazie al loro pensiero e alla loro pratica, come occasione per interrogarsi e scoprire cose nuove su di sé.
Ci auguriamo che questo appello non sia semplicemente un atto formale: ne proporremo la lettura e la discussione agli uomini che operano nella politica e nelle istituzioni, nelle università e nelle scuole, nei media, nei sindacati, nell’associazionismo, nei servizi, nelle comunità di immigrati, nelle realtà religiose. A tutti gli interessati diamo appuntamento per un incontro pubblico il 14 ottobre a Roma, per scambiare opinioni e elaborare ogni possibile ulteriore iniziativa. Intanto ci auguriamo che le adesioni continuino ad arrivare. Chi volesse aggiungersi ai firmatari può scrivere all’indirizzo
appellouomini@libero. it.
Per contatti 338/5243829
UN CONTRIBUTO ALL’INIZIATIVA E ALLA RIFLESSIONE.
Una lettera del 2002*
Deponiamo le armi, apriamo un dibattito tra cattolici e non.
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rove-scia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto. Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci.
Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per ri-prendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza... Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918,“Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che “stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico! Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un Uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”. Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza!
Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico.
Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di morte (Cantico dei cantici: 8,6, trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
Caro La Sala, ho letto, apprezzato e, ovviamente condivido. Gianni Vattimo
* Cfr.l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!!
QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA" ....
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
FLS
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E #FILOLOGIA (PROTAGORA: "L’UOMO E’ LA #MISURA" ), FILOSOFIA TEOLOGIA E DEMIURGIA (PLATONE: #ZEUS, "IL DIO E’ LA MISURA"), E LA LOGICA DELLA COSMOTEANDRIA DELL’ #OCCIDENTE...
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Quando la filologia è in #letargo (Par. XXXIII, 94), perso il senso stesso del #principio antropologico e cosmologico di tutte le cose come di tutti gli esseri umani ("arché"), anche la possibilità filosofica di comprendere la semplice massima del sapiente #Pittaco di Mitilene viene meno:
quando "uno dei #due" dei componenti del "genere umano" assume il comando dell’uno e dell’#altro componente, mostra chiaramente la sua parzialità andrologica e androcentrica e, al contempo, permette di comprendere il trucco dell’operazione "zeus_ica" del demiurgo platonico e le radici stesse della teologia-politica costantiniana (Nicea 325) della in-segnatura rinascimenale della "Scuola di Atene" e del "Sapiente" di #Bovillus (1510).
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
*
VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
ERMENEUTICA, #FILOLOGIA, #ANTROPOLOGIA, #CRISTOLOGIA, E FILOSOFIA (#PADRENOSTRO): "DIO" E’ AMORE ("DEUS #CHARITAS EST": 1 Gv., 4).
PREMESSO che #Gesù è Gesù e #Cristo è Cristo, e, considerando in tutta la sua radicalità la #question #hamletica ("essere, o non essere"), cosa significa "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS" e cosa chiarisce il "CIRCOLO ERMENEUTICO" (H. G. #Gadamer, 1900-2002)?
LA BELLA (MARIA -) #BEATRICE, a san Pietro non chiede di verificare se #Dante è uscito dallo "stato di #minorità" e se sa di Chi è figlio, che significa essere "#figliodiDio"?; se Dante sa #comenasconoibambini e se sa chi sono i genitori di Gesù e chi sono i suoi; e Chi è il "Padre Nostro" - il "Padre" di Gesù, di Dante, e di ogni essere umano?!
#STORIAELETTERATURA. Dante, come #Shakespeare, cosa risponde? Non risponde che "In principio era il Logos" (Gv., 1.1); che "L’amore non è lo zimbello del tempo" (Sonetto 116); e, che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145). Dov’è più il "piccolo" san Paolo che gioca... all’#Edipo "cattolico-romano" con la sua "cara" ("carissima") #mammona?!
#ECONOMIAPOLITICA (J.-J. #ROUSSEAU, 1755), "SAPERE AUDE!" (I. #KANT, 1784), E #PAOLINISMO. "Il disagio della civiltà": "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. #Freud, 1929).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come "è stata possibile un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#FrancaOngaro #Basaglia, 1979)?!?
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA FILOLOGIA.
Una nota a margine di un articolo di Claudio Giunta (“Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta”):
***
#ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #DIVINACOMMEDIA: #LETARGO (Pd. XXXIII, 94) E #SONNODOGMATICO (#Kant).
LA #FEDE DI #DANTE, E DI SAN PIETRO, E LA FEDE DI SAN PAOLO.
A 750 ANNI E OLTRE DALLA NASCITA E A 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UNA “PREMESSA” A UNA ”VECCHIA’ NOTA DI ENNIO ABATE A COMMENTO DI UN ‘VECCHIO’ ARTICOLO DI CLAUDIO GIUNTA (“Dante dopo l’Apocalisse”, Le parole e le cose, 21 maggio 2015):
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA#FILOLOGIA:
(LA MADRE, MARIA-) #BEATRICE (Pd. XXIV, 34) chiede al “gran viro”(San Pietro) di verificare se Dante ha capito la differenza tra la fede in “Nostro Signore” Gesù (Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho #anthropos») oppure nel “Nostro Signore” (secondo la ‘precisazione’ androcentrica e mammonica) di San Paolo, l’Uomo (#Vir): “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11, 1-3).
“DANTE DOPO L’ APOCALISSE” - OGGI (15 settembre 2023):
STORIA E LETARGO STORIOGRAFICO: NON SCAMBIARE DANTE ALIGHIERI CON GIOVANNI BOCCACCIO. Se il “diciottenne” Dante racconta - come scrive Alessandro Barbero - il sogno e la visione di Beatrice nuda “[...] con un tocco così leggero che di solito gli esegeti non lo commentano”, non è meglio interrogarsi su questa dantesca “lezione americana” (alla Italo Calvino) di leggerezza e pensare meglio che Dante abbia ri-visto in sogno la madre “beata e Bella”?!
Non è ancora ora di cambiare registro , e, cominciare a pensare semplicemente che la figlia di Gemma Donati e Dante Alighieri, (Maria-) Antonia, diventata suora, abbia voluto rendere omaggio a Bella, alla sua nonna paterna, e ricordare per tutta la sua vita proprio (Maria-) Beatrice?!
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, RICERCA § INSEGNAMENTO: UNA QUESTIONE #HAMLETICA (DI SALUTE E SALVEZZA) EPOCALE.
Che cosa significa orientarsi nel pensiero...
«In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione». [...]" (I. KANT).
"SÀPERE AUDE!" (Immanuel Kant, Koenigsberg 1784).
Una nota per un "nuovo" #orientamento nel pensiero e nella realtà.
SENSIBILITÀ E INTELLETTO, OGGI. Per dirla diversamente (generalizzando e utilizzando una "vecchia" idea di #Kant: "I concetti senza le intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche"), "la ricerca ha bisogno per ampliare e trovare nuove soluzioni e per non esaurirsi, altrettanto, di un #insegnamento che sappia mantenere aperto il rapporto e il legame tra il sapere acquisito (i risultati delle ricerche compiute) e quello da acquisire proprio in rapporto alla ricerca relativa ai nuovi problemi e alle situazioni inedite. Senza un insegnamento vivo la ricerca muore, così come l’insegnamento senza ricerca viva: solo un circolo virtuoso rende possibile la vita all’uno e all’altra e, al contempo, permette di uscire dall’inferno epistemologico, impedisce di ri-cadere in un claustrofilico circolo vizioso, e, infine, apre la via alla nascita di un insegnamento e di una ricerca all’altezza dell’intera umanità e dell’intero Pianta Terra.
UNA "MONARCHIA" DI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E "IL SILENZIO DEI TEOLOGI" (PAOLO PRODI). PER NON PERDERE LA BUSSOLA DEFINITIVAMENTE, FORSE, DATA LA PORTATA DECISIVA DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA SU TUTTE LE ALTRE PROBLEMATICHE DELLA INTERA SOCIETÀ, IN ANALOGIA, VALE LA PENA TENER CONTO DI UNA RIFLESSIONE DI PAOLO PRODI SUL RAPPORTO TEOLOGIA E POLITICA: "una politica laica ha bisogno per vivere anche di una teologia che faccia il suo mestiere". (cfr. P. Prodi, "Il silenzio dei teologi", l’Unità, 07.01.2007).
Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr.:
KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE
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ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. -Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE ("Alcibiade primo", 133 e ss.):
"SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]".
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
P. S. - QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CREATIVITÀ. "Lettere a Virginia Woolf dal XXI secolo". Una raccolta epistolare (a c. di Licia Martella, introduzione di Nadia Fusini) dedicata alla scrittrice:
[LETTERE] Scritte da: Leonetta Bentivoglio, Alessandra Bocchetti, Elisa Bolchi, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, Sara De Simone, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Manuela Fraire, Daniela Gambaro, Cristina Gardumi, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Laura Mazzi, Elena Munafò, Raffaella Musicò, Iolanda Plescia, Galatea Ranzi, Elisabetta Rasy, Maria Serena Sapegno, Carola Susani, Nadia Terranova, Silvia Vegetti Finzi, Sara Ventroni, Maddalena Vianello, Valeria Viganò.
LETTERATURA, STORIA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA:
IL "SOGNO DI UNA COSA" (K. MARX), "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD), E IL "COME NASCONO I BAMBINI".
Una nota a margine di una citazione da "Furore" di J. Steinbeck:
DANTE 2021. La "lezione" di Steinbeck, purtroppo, non è riuscita a portare i "due uomini" e le loro famiglie fuori dal fosso, fuori dall’orizzonte della biblica "caduta", e dalla tragedia (edipica, platonica e paolina), e la "Valle dell’ Eden" (1953), come "Furore" (1939), ha solo aiutato a non perdere la memoria e a riprendere la ricerca: "timshell". Marx, ai suoi tempi, leggeva ancora la "Divina Commedia" e sapeva (al di là dell’idealismo hegeliano) del "realismo di Dante": uscire dall’inferno è ancora possibile.
LO ZIGOTE DELLA TRAGEDIA. Memoria della Legge di Apollo (Eschilo): «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda».
L’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: "Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, "la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, 1800), "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888), E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
IMMAGINARE, STORIOGRAFICAMENTE (E FILOSOFICAMENTE) CHE "la galileiana matematizzazione della natura" sia innanzitutto un’operazione contro Galileo, così come lo strutturalismo linguistico alla Lacan sia soprattutto una saussuriana matematizzazione del linguaggio" contro Saussure, è un bell’esempio di permanenza nel letargo (Par. XXXIII, 94) dell’inferno epistemologico della tragedia - contro la commedia e contro Dante.
Enrico Redaelli, nel suo libro "Judith Butler. Il sesso e la legge", "un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense", nello sforzo di offrire un contributo critico alla discussione, scrive:
SE è VERO, come è vero CHE "La questione è più complessa e non priva di paradossi", non per questo è necessario costringere nelle vecchie botti della cosmoteandria platonico-heideggeriana l’acquisizione della relatività galileiana-einsteiniana, della consapevolezza antropologica dell’io che "non è padrone nemmeno in casa sua" e che le sue spiegazioni non sono interpretazioni di sogni, ma, a tutti i livelli, "costruzioni nell’analisi", sia in fisica sia in metafisica - criticamente, con Kant, Freud, e Franca Ongaro Basaglia.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E COSMOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
Una breve nota su un labirintico abbaglio, in cui si vive da millenni:
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! Alla fine, pur pulendo "le porte della percezione", l’uomo (l’essere umano - maschio, lat. "vir") non vedrebbe altro e ancora che "il mondo come volontà e rappresentazione" di sé stesso: la visione dell’androcentrico vitruviano macroantropo della tradizione platonico-paolina e schopenhaueriana.
"CHI" ("X") SIAMO NOI, IN REALTÀ: DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E RI-NASCITA: MISTERI ELEUSINI (OMAGGIO A ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023: #ELEUSIS2023). IL FILO DI M-ARIANNA...
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KORE (Kàroly Kerényi) *
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri editore.
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E "INFAMIA ORIGINARIA". COME USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA?
Due note sulla guerra della Russia all’Ucraina, e sul "patriarcato" all’attacco...
1) - "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina. Come a Srebrenica, uomini e donne divisi. “Sei stata mia e non andrai con nessun altro”. Nel conflitto ucraino c’è un corto circuito fra guerra e femminicidio: Cara Lea Melandri, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? [...]
Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera.
L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni).
[...] Ti propongo, Lea, di considerare la bomba atomica come il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo: il capolavoro del patriarcato che, uscito da lui, gli sta di fronte come un nuovo divieto nel rattoppato giardino dell’eden.
C’erano tre minacce incombenti sul genere umano: il clima, la pandemia, l’atomica. Putin poteva maneggiarne una sola, e ci si è buttato. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione. Ma c’è. In Ucraina si sta decidendo come muoversi sotto quell’esplicito ricatto. La distanza fra No Fly Zone e fornitura di armi difensive sta lì, in bilico. Dunque, perché tu e io non siamo d’accordo, nemmeno dopo ottant’anni che abitiamo questa terra? [...]
Io desidero dare un’arma di difesa - contro un tank, una batteria di artiglieria, un caccia - a chi è aggredito e rischia di soccombere. E, angosciosamente, mi dico che il negoziato che tutte e tutti dicono di auspicare non verrà se non grazie alla resistenza. A farci differenti è un’opinione, o anche e ancora, il tuo esser donna e il mio essere, ed esser stato, uomo?" (Adriano Sofri, "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina", Il Foglio, 12.03.2022).
***
2) - "Caro Adriano Ti spiego perché il mio pacifismo è radicale: [...] il pacifismo, nel-
la sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato,
ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il
femminismo sono approdate alla coscienza
dei singole e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è
già cambiata dal momento che ha portato
allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della "virilità guerriera", i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo,
ecc.
“Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore.
E’ da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato. (Lea Melandri, "Lettera aperta ad Adriano Sofri", Il riformista, 16 marzo 2022).
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. Per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima" (altro che "Patriarcato")!: l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle...
La ripresa c’è se sostantivo femminile e sostenibile
di Antonio Guterres (Avvenire, martedì 8 marzo 2022)
Mentre il mondo celebra la Giornata internazionale della Donna, l’orologio dei diritti delle donne sta andando indietro. Tutti noi ne stiamo pagando il prezzo. Come un effetto domino, le crisi degli ultimi anni e quelle che ci affliggono in questo momento hanno messo in luce quanto una leadership femminile sia di importanza cruciale. Le donne hanno fronteggiato eroicamente la pandemia da Covid-19, come dottoresse, infermiere e impiegate nella sanità pubblica e nell’assistenza sociale. Ma allo stesso tempo, donne e ragazze sono state le prime a perdere il posto di lavoro e a dover rinunciare all’istruzione, con lavori non retribuiti di assistenza e cura e dovendo fronteggiare un aumento vertiginoso dei casi di abuso domestico e di matrimoni infantili. La pandemia ha mostrato ancora di più una verità antica: le radici del patriarcato vanno in profondità. Viviamo in un mondo ancora prevalentemente maschile con una cultura maschilista.
Di conseguenza, sia nel bene che nel male, le donne sono più esposte alla povertà. La loro assistenza sanitaria viene sacrificata, l’istruzione e l’opportunità limitate. E nei Paesi in conflitto - dall’Etiopia all’Afghanistan e all’Ucraina - le donne e le ragazze sono le voci più fragili ma anche le più forti nel chiedere pace. Se guardiamo al futuro, una ripresa sostenibile e uguale per tutti è possibile solo se si tratta di una ripresa femminile - una che metta al centro il progresso per ragazze e donne. Abbiamo bisogno del progresso economico, con investimenti orientati all’istruzione, all’impiego, alla formazione e al lavoro dignitoso delle donne. Le donne dovrebbero essere le prime nella lista dei 400 milioni di posti di lavoro che siamo chiamati a creare entro il 2030. Abbiamo bisogno del progresso sociale, con investimenti in sistemi di protezione sociale e di economia sanitaria.
Essi producono, infatti, molti benefici, creando lavori ecosostenibili e, allo stesso tempo, sostenendo i membri delle nostre società che necessitano assistenza, compresi i bambini, gli anziani e i malati. Abbiamo bisogno del progresso finanziario, per riformare un sistema monetario globale moralmente fallimentare, cosicché tutti i Paesi possano investire in una ripresa economica pensata e realizzata al femminile. Ciò include aiuti economici e sistemi fiscali più favorevoli che trasferiscano a coloro che ne hanno più bisogno gli elevati guadagni del benessere mondiale. Abbiamo bisogno di un’azione urgente e rivoluzionaria per il clima, per invertire l’aumento sregolato di emissioni, e per la disparità di genere, che lascia ancora donne e ragazze eccessivamente vulnerabili. I Paesi sviluppati devono urgentemente mantenere i loro impegni di sostegno finanziario e tecnico per una corretta transizione dai combustibili fossili.
Le economie di successo e stabili del futuro saranno ecosostenibili e inclusive. Abbiamo bisogno di più donne al potere, nel governo e nel commercio, tra i ministri delle finanze e tra i grandi manager privati, che sviluppino e rendano effettive delle politiche ecologiche e sociali progressive che favoriscano tutti. Abbiamo bisogno del progresso politico che attraverso misure mirate assicuri alle donne pari opportunità e rappresentanza a tutti i livelli decisionali, attraverso quote di genere significative.
La disuguaglianza di genere è principalmente una questione di potere. Sradicare secoli di istanze patriarcali richiede un’equa condivisione del potere in ogni istituzione, a tutti i livelli. Nelle Nazioni Unite, abbiamo ottenuto - per la prima volta nella storia dell’organizzazione - la parità di genere ai vertici dirigenziali nei quartier generali e nel mondo.
Questo ha significativamente migliorato la nostra abilità di riflettere e rappresentare al meglio le comunità per le quali lavoriamo. A ogni tappa di questo percorso, possiamo trarre ispirazione dalle donne e dalle ragazze che premono per il progresso in ogni ambito e in ogni angolo del mondo. Le giovani attiviste per il clima sono al centro degli sforzi globali per spingere i governi a mantenere i loro impegni. Le attiviste per i diritti delle donne chiedono coraggiosamente uguaglianza e giustizia, e la costruzione di società più pacifiche in quanto mediatrici, pacificatrici e operatrici umanitarie anche in alcune delle zone più problematiche del mondo.
Nelle società in cui i movimenti per i diritti delle donne sono in fermento, le democrazie sono più forti. E quando il mondo si impegna per ampliare le opportunità di donne e ragazze, tutta l’umanità ne esce vittoriosa.
Per una questione di giustizia, uguaglianza, moralità e semplice buon senso, abbiamo bisogno di portare avanti l’orologio sui diritti delle donne. Abbiamo bisogno di una ripresa sostenibile, femminista, che ruoti attorno a - e che sia guidata da - donne e ragazze.
Segretario generale delle Nazioni Unite
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Rimeditare la lezione di Alessandro Manzoni
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Rimeditare la lezione di Franca Ongaro Basaglia.
Federico La Sala
STORIA E MEMORIA
MILANO - «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». La frase di Silvio Berlusconi rivolta a Rosy Bindi durante la puntata di Porta a Porta dedicata alla bocciatura del lodo Alfano getta ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche divampate dopo la decisione della Corte Costituzionale. Il premier, in collegamento telefonico, aveva accusato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermando che avrebbe dovuto, «con la sua influenza», garantire un voto dei giudici costituzionali favorevole al lodo Alfano. Parole che hanno provocato la dura reazione dell’esponente del Pd: secondo la Bindi, quelle del premier sono frasi gravissime. «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente» ha replicato secco Berlusconi, citando, non si sa quanto volontariamente, Vittorio Sgarbi che ebbe già modo di definire così l’ex ministro prodiano e che ora, parlando con Corriere.it, assicura di non voler chiedere i diritti d’autore al premier (ASCOLTA). «Non mi interessa nulla di quello che lei eccepisce» ha scandito Berlusconi.
Una «cortesia» che la stessa Rosy Bindi non ha lasciato cadere nel vuoto: «Sono una donna che non è a sua disposizione» ha replicato (riferimento neanche troppo velato alla vicenda delle escort che vede coinvolto il Cavaliere) «e ritengo molto gravi le sue affermazioni».
«REAGIRE DAVVERO» - La stessa Bindi, interpellata in mattinata da Radio Popolare, ha poi voluto precisare che «ho reagito non per difendere me dalle offese di Berlusconi che non mi sfiorano minimamente, mi sono sentita di reagire perché penso di doverlo fare in nome di tutte le donne». «Questo Presidente del Consiglio- ha aggiunto - ha una concezione strumentale delle donne, veicola messaggi pericolosi a questo Paese ed è arrivato il momento che le donne reagiscano davvero».
IL PRECEDENTE - Lo stesso Berlusconi, in ogni caso, aveva già avuto modo in passato di usare parole praticamente simili nei confronti della Bindi. Era l’8 aprile 2003 e il Cavaliere era andato a Brescia per sostenere la candidatura a sindaco di Viviana Beccalossi. Parlando della giovane esponente di An, il premier aveva spiegato che nei suoi occhi «si legge tutta la passione politica necessaria in questa sfida. È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». Ma quell’intervento divenne più famoso per un’altra (involontaria?) gaffe dell’allora leader della Cdl: chiudendo il suo intervento incoraggiò infatti la portacolori del centrodestra con un equivocabile: «Forza Viviana, fagliela vedere!».
«PIÙ ALTO CHE EDUCATO» - All’indomani del battibecco negli studi di Bruno Vespa, il segretario del Partito Democratico, Dario Franceschini, ha telefonato a Rosy Bindi per esprimere alla vicepresidente della Camera la sua solidarietà per le «offese volgari e maleducate» a lei rivolte dal presidente del Consiglio. Anche Giovanna Melandri, responsabile Cultura del Pd, in una nota ha preso le difese di Rosy Bindi: «Berlusconi ha fatto gravissime affermazioni nei confronti delle istituzioni, attaccando il presidente della Repubblica e la magistratura. Altrettanto indegna è stata la frase con cui ha apostrofato Rosy Bindi: in queste offensive parole c’è tutto il ’Berlusconi-pensiero’ nei confronti delle donne: l’idea che la donna non abbia il diritto di prendere la parola se non per compiacere l’ego smisurato del sultano di Arcore. Il presidente del Consiglio ha dimostrato di essere più alto che educato». «Credo che le parole che Berlusconi ha pronunciato nei confronti di Rosy Bindi si commentino da sole nella loro profonda volgarità - ha aggiunto Anna Finocchiaro, presidente del Pd al Senato - e credo anche che una dirigente politica come Rosy non abbia certo bisogno di essere difesa. Rosy non è certamente a disposizione del Presidente del Consiglio, ma per fortuna è a disposizione e al servizio delle donne, del Pd e della democrazia del nostro Paese».
«C’E’ CONCITAZIONE, PUO’ SUCCEDERE» - Un tentativo di smorzare i toni arriva da Paolo Bonaiuti, sottosegretario della presidenza del Consiglio e portavoce di Berlusconi, in un intervento a Radio 2: «Questi sono momenti di estrema concitazione, questo può succedere. Una cosa sono i momenti asprezza politica, altra i momenti di vita normale». In precedenza, però, Bonaiuti aveva detto: «È sempre la solita storia del cane cattivo, prima lo attaccano, lui si difende. Evidentemente una difesa da una serie di attacchi mediatici che vanno avanti da mesi e mesi».
* Fonte: Corriere della Sera, 08 ottobre 2009 (ultima modifica: 09 ottobre 2009) (ripresa parziale).
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
NEL NOSTRO OCCIDENTE, SI VA ANCORA A LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Patriarcato aut religione? La responsabilità delle religioni nei femminicidi
C’è chi sostiene che l’Islam non c’entra nella terribile uccisione di Saman Habbas. Ma il trattarsi di femminicidio non assolve la religione, anzi.
di Edoardo Lombardi Vallauri (MicroMega, 21 Giugno 2021)
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po’ troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un’ingiustizia.
Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.[1] Nadia Bouzekri, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L’Islam non c’entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:
Da questo assetto giuridico l’interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario. Dice anche, Bouzekri:
Femminicidio è un termine il cui uso viene spesso esteso facendo di ogni erba un fascio fra tutti i tipi di violenza subita da donne, compresi quelli in cui la donna è oggetto di aggressione non perché di sesso femminile, ma (altrettanto atrocemente e ingiustificatamente) perché convivente, partner o comunque ostacolo alla felicità del compagno, o fonte di una sofferenza che lui crede assurdamente di risolvere così. Molte delle violenze nella coppia non sono femminicidi, ma sopraffazione di un individuo fisicamente più debole da parte dell’individuo fisicamente più forte, nell’ambito di una conflittualità non necessariamente infiltrata da idee maschiliste. Lo stesso avviene per le violenze psicologiche, dove chi sia l’individuo più capace di torturare l’altro non dipende dal sesso, e infatti è con pari frequenza il maschio o la femmina. Oppure nel caso degli infanticidi, dove sia il padre che la madre sono fisicamente più forti del bambino.
Qui, però, nel caso di Saman Habbas e in tutti quelli simili, si tratta proprio di femminicidio; cioè di uccisione di una donna in quanto donna, in nome di idee sul ruolo rivestito dal suo sesso, a cui si ritiene che abbia il dovere di adeguarsi. Ma il trattarsi di femminicidio significa forse che la religione e la cultura della civiltà dove esso è perpetrato non c’entrino?
È utile riflettere sia su questo modo di pensare, sia su questo modo di comunicare. Bouzekri e la giornalista che l’ha assistita nel predisporre quell’intervista, Alessandra Arachi, mostrano di essere convinte che basti usare la parola femminicidio per dirigere altrove la ricerca del colpevole. Sono ormai abituate a una civiltà in cui parole come femminicidio e patriarcato scatenano automaticamente indignazione, condanna, risentimento e perfino odio nei confronti di qualcosa e di qualcuno di molto diverso dalla religione e dai suoi rappresentanti. Per la precisione, contro il genere maschile e i suoi rappresentanti: i maschi.
L’attivista femminista intersezionale Wissal Houbabi, nostro secondo esempio, in una acclamata intervista raccolta da Giansandro Merli per il Manifesto del 9-10 giugno 2021, dal titolo Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione» (https://ilmanifesto.it/wissal-houbabi-il-problema-non-e-lislam-e-loccidente-non-e-la-soluzione/), dichiara:
Sante parole. Cui Houbabi aggiunge:
Cioè, secondo Houbabi, a causa della visibilità dell’islam e della invisibilità del patriarcato, tutti danno la colpa all’islam (che non ne ha) e non danno la colpa al patriarcato (che è il vero colpevole). Di nuovo una parola magica, che serve a indirizzare la colpa lontano dalla religione, verso un ormai collaudatissimo capro espiatorio. In realtà, tutti sono così abituati a dare colpe al “patriarcato” inteso come mera maschilità, che perfino citarlo in un ragionamento completamente sghembo, può funzionare per intercettare le responsabilità che sono di una religione e scaricarle sugli appartenenti a un sesso. Anzi, Houbabi sostiene che la madre di Saman, pur avendo agito allo stesso modo dei membri maschi della famiglia, in realtà può non essere colpevole come loro, perché:
Cerchiamo di raccapezzarci in questo genere di “ragionamenti”. Se una famiglia islamica si coalizza per uccidere una ragazza, non significa che tutti gli islamici siano dei femminicidi. E se un uomo bianco uccide la sua compagna non significa che tutti i maschi bianchi siano dei femminicidi. Tuttavia, nella famiglia islamica che si è coalizzata, i maschi sono più colpevoli delle femmine. La colpa è del patriarcato, che per di più è una forma di pensiero strutturale, cioè non individuale ma sociale e collettiva. E se la colpa è del patriarcato, la colpa non è della religione o della cultura islamica.
Dobbiamo dedurne che il patriarcato è l’unico complesso assetto socioculturale a non avere cause culturali? Che esso è slegato dalla cultura dominante, e indipendente dalle religioni che per millenni hanno avuto un ruolo di primissimo piano nel determinare quella stessa cultura, e in particolare, all’interno di essa, la morale corrente? Il fatto che il femminicidio avvenga anche in Italia significa che la religione non c’entra con una mentalità di subordinazione della donna? Chiunque ci legga deciderà se deve dedurre questo, o se invece preferisce dedurre che nelle dichiarazioni di Bouzekri e Houbabi c’è qualche imprecisione.
Se del femminicidio non ha nessuna colpa la religione, a maggior ragione non ne possono avere colpa altri e minori fenomeni o correnti culturali. Tuttavia, le cose non possono non avere cause. Se si escludono le ragioni socioculturali, che cosa può causare il patriarcato? Non rimangono che le cause naturali. Ed ecco: la sempre più diffusa tentazione di pensare che, alla fine, tutti i maschi sono in qualche misura dei femminicidi, rientra dalla finestra. Anche quando viene, per decenza, ripudiata nelle dichiarazioni esplicite, ci viene inoculata implicitamente mediante l’insieme del discorso.
Ma per fortuna, a dispetto di molte visioni di femminismo radicale, le cose non stanno così. Il patriarcato non è una diretta conseguenza del genoma umano o in particolare del cromosoma Y, ma un prodotto culturale. Lo provano, fra l’altro, le civiltà non patriarcali (comprese quelle matriarcali), e i miliardi di maschi capaci di rispettare le donne quanto gli uomini. Certo, come ogni fatto culturale anche il patriarcato non parte da una tabula rasa della natura, ma neanche ne è un riflesso automatico, in cui la cultura non imprima in modo decisivo il suo marchio. Ad esempio, il fatto che i maschi siano più robusti fisicamente è un’eccellente premessa naturale perché possano usare la prepotenza; ma non li obbliga affatto ad essere prepotenti. Lo saranno dunque molto di più in una civiltà che li incoraggi o addirittura li obblighi ad esserlo, e di meno in una civiltà più ragionevole. Del resto, la prospettiva che le cause del patriarcato siano interamente naturali è quasi apocalittica. Se è proprio la natura che ha fatto le donne giuste (ragionevoli e buone) e gli uomini sbagliati (prepotenti e cattivi), così come ha fatto le donne adatte alla gestazione e gli uomini alla fecondazione, allora è inutile cercare di cambiare le cose culturalmente: tanto vale accettare che l’esistenza è una guerra fra i due sessi, e che vinca il più forte.
Ma insomma, no, anche nel caso di Saman Habbas, il trattarsi di patriarcato e di femminicidio non assolve le religioni, anzi. Non è onesto cercare di scagionare le religioni dalle loro responsabilità con questi sgangherati effetti di scaricabarile. E non è onesto perché storicamente questo genere di responsabilità le religioni ce l’hanno eccome. Io non conosco profondamente l’islam, quindi non provo neanche a citare ovvietà triviali come gli harem, perché non posso confutare seriamente l’ipotesi che millenni di islam siano stati irrilevanti nel produrre una mentalità che subordina la donna. Ma conosco un’altra religione, il cristianesimo, quanto basta per dire che esso ha dato e continua a dare un formidabile contributo a questo tipo di mentalità.
Nel nostro occidente, una religione che ha sempre negato e continua accanitamente a negare alle persone di sesso femminile la possibilità (la dignità!) di ricoprire qualsiasi carica significativa nei propri organigrammi, ha responsabilità evidenti per l’esistere di una cultura di subordinazione della donna. Una religione che predica la monogamia sessuale e la colpevolezza di chi la infrange, è responsabile della mentalità che conduce al femminicidio, perché arma ideologicamente ogni partner del diritto di condannare l’altro se non rimane completamente fedele alle leggi monogame della coppia. Se a parere di una religione “Dio” destina addirittura all’inferno chi viene meno all’esclusiva e definitiva appartenenza sessuale al partner, chiaramente questo costituisce un formidabile invito a considerarlo spregevole, colpevole, meritevole di durissima punizione. E questo arma entrambi, compreso il più debole, della possibilità di condannare (come accade continuamente in tutte le coppie). Ma il più forte, lo arma anche dell’autorizzazione a “punire”.
NOTE
[1] Chi volesse vederne un terzo, apparso su Il Riformista del 15 giugno 2021 e punteggiato da esplicite inesattezze addirittura sui dati concreti, può andare qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2960034570899118&id=100006778116561
PER UN "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") COSTITUZIONALE ....
SE E’ VERO CHE, "ANCORA UNA VOLTA, chi trova soluzioni alternative al neoliberismo è bandito dalla stanza dei bottoni", è ALTRETTANTO VERO CHE RIPETERE CON Adorno e Horkheimer, che “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”, porta tutti e tutte ancor di più nel buio dell’inferno.
Si è mai chiarito perché il Marx del "Capitale. Critica dell’economia politica", come il Marx della "Prefazione" a "Per la critica dell’economia politica", richiami Dante (è solo l’eco mnemonico di letture giovanili?) o, ancora, in un "banale" ritornello nei suoi lavori associ alla parola "economia politica" sempre la parola "critica"?! Non è perché il suo discorso ha qualche legame con il lavoro del Kant della "Critica della Ragion Pura", "Critica della Ragion Pratica", "Critica del Giudizio"!?
Se "Oggi tutti sono pazzi per Draghi", forse, c’è qualche motivo - per esempio, un motivo storico-costituzionale di lunga durata: "Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro" (Mario Draghi, discorso al Senato, 17.02.2021)!
DRAGHI, UN MESSIA "TECNICO"?! NON è TEMPO, FORSE, DI CHIARIRSI LE IDEE SU "CHI SIAMO IN REALTà" e, finalmente, riprendere con Marx la via della CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA. O no?!
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti. A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna".
Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
La Giornata.
Papa Francesco: la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità
L’intervento del Papa in occasione della celebrazione virtuale per la prima Giornata Internazionale della Fratellanza Umana: non c’è tempo per l’indifferenza, "o siamo fratelli o ci distruggiamo"
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 4 febbraio 2021)
C’è un giardino ad Abu Dhabi dove lo scorso anno i giovani hanno appeso alle fronde degli alberi i loro pensieri di pace, scritti su centinaia di foglietti. Oggi, idealmente, anche il Papa e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno aggiunto i loro.
Per ribadire di fronte al mondo - come ha sottolineato Francesco - che «la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità». Che si è «o fratelli o nemici». Altrimenti «crolla tutto e ci distruggiamo a vicenda». E noi, ha aggiunto il Pontefice, «siamo fratelli, nati da uno stesso Padre. Con culture, tradizioni diverse, ma tutti fratelli. E nel rispetto delle nostre culture e tradizioni diverse, delle nostre cittadinanze diverse, bisogna costruire questa fratellanza». Messaggio di pace che oltre tutto giunge mentre si prepara il viaggio in Iraq a maggioranza islamica.
Per il secondo anniversario dell’incontro di Abu Dhabi, dove il 4 febbraio 2019 insieme firmarono il Documento sulla fratellanza umana, il Papa e l’imam si sono di nuovo “riuniti”, questa volta sul web, per la prima Giornata internazionale sulla fratellanza umana, istituita il 21 dicembre 2020 dall’Onu, che l’ha fatta coincidere proprio con il giorno in cui avvenne la storica firma.
È stata l’occasione non solo per ascoltare Francesco e Ahmad Al-Tayyeb chiamarsi nuovamente e reciprocamente «fratelli», ma anche per presentare i vincitori (presenti in collegamento) del primo Premio Zayed, ispirato anch’esso al documento, che quest’anno va al segretario generale dell’Onu, António Guterres, e a Latifa Ibn Ziaten, una mamma di cinque figli, che dopo averne perso uno, vittima del terrorismo, ha fondato un’associazione per i giovani e la pace, che porta il suo nome: Imad. Allo specialissimo “webinar” era presente anche il giudice Mohamed Mahmoud Abdel Salam, segretario generale dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, cioè l’organismo che tramite una giuria internazionale ha scelto i premiati.
Le prime parole di papa Francesco sono state per l’imam, «fratello mio, amico mio, mio compagno di sfide e di rischi - ha rimarcato - nella lotta per la fratellanza». «La sua testimonianza - ha quindi proseguito il Pontefice - mi ha aiutato molto perché è stata una testimonianza coraggiosa. So che non era un compito facile. Ma con lei abbiamo potuto farlo insieme, e aiutarci reciprocamente. La cosa più bella è che quel primo desiderio di fratellanza si è consolidato in vera fratellanza. Grazie, fratello, grazie». Successivamente papa Bergoglio ha ringraziato lo sceicco Mohammed bin Zayed «per tutti gli sforzi che ha compiuto perché si potesse procedere in questo cammino. Ha creduto nel progetto. Ci ha creduto», ha detto. E un grazie il Papa lo ha detto anche al giudice Abdel Salam, «“l’enfant terrible” di tutto questo progetto, amico, lavoratore, pieno d’idee, che ci ha aiutato ad andare avanti».
Espressioni di gratitudine e di affetto anche Guterres e Latifa.
Visibilmente contento, Francesco ha ribadito: «Grazie a tutti per aver scommesso sulla fratellanza, perché oggi la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità. O siamo fratelli o ci distruggiamo a vicenda». E per questo ha messo in guardia dall’indifferenza: «Non possiamo lavarcene le mani, con la distanza, con la non-curanza, col disinteresse. O siamo fratelli o crolla tutto. È la frontiera. La frontiera sulla quale dobbiamo costruire; è la sfida del nostro secolo, è la sfida dei nostri tempi». Anche la «non-curanza», infatti, è per il Papa «una forma molto sottile d’inimicizia. Non c’è bisogno di una guerra per fare dei nemici. Basta la non-curanza. Basta con questa tecnica - si è trasformata in una tecnica -, basta con questo atteggiamento di guardare dall’altra parte, non curandosi dell’altro, come se non esistesse».
Bergoglio ha quindi spiegato che cosa intende per fratellanza. «Vuol dire mano tesa; fratellanza vuol dire rispetto. Fratellanza vuol dire ascoltare con il cuore aperto. Fratellanza vuol dire fermezza nelle proprie convinzioni. Perché non c’è vera fratellanza se si negoziano le proprie convinzioni». E perciò «un mondo senza fratelli è un mondo di nemici».
Anche da parte di Al-Tayyeb sono giunte parole di grande rispetto verso il Papa, «mio fratello, amico sulla via della fraternità e della pace». E la promessa di continuare a lavorare per il resto della sua vita con Francesco e con ogni sostenitore della pace «per rendere i principi di fratellanza umana una realtà in tutto il mondo». Da qui il suo auspicio concreto che il 4 febbraio sia «ogni anno un campanello d’allarme per il mondo e per i suoi leader, che li spinga a consolidare» questi principi.
Guterres, dal canto suo ha ringraziato per il premio, definendolo «un riconoscimento per il lavoro dell’Onu». -E Latifa ha ricordato: «Ho perso un figlio, ma oggi riesco a raggiungere tanti bambini che ho salvato anche nei centri di detenzione, perché non cadessero nell’odio».
Latifa Ibn Ziaten e Guterres i vincitori del premio Zayed 2021 per la Fratellanza Umana
L’annuncio è stato dato durante una conferenza stampa virtuale. Domani, 4 febbraio, l’assegnazione del riconoscimento durante l’incontro online nella prima Giornata Internazionale della Fraternità Umana, al quale interverranno anche il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar. Ai vincitori in un tweet Francesco rivolge i suoi auguri, ringraziandoli per la loro testimonianza
di Sr Bernadette Mary Reis, fsp e Debora Donnini
Città del Vaticano Una mamma di 5 figli, fondatrice di un’associazione per i giovani e la pace, che porta il nome di suo figlio Imad. Il giovane perse la vita a causa di un atto di terrorismo. Una donna, dunque, che ha saputo trasformare il suo lacerante dolore in un modo per aiutare i giovani. A lei, Latifa Ibn Ziaten, assieme a António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite dal 2017, va il premio Zayed 2021 che riconosce l’impegno permanente a favore della fraternità umana, ispirandosi al Documento sulla Fratellanza Umana firmato due anni fa a Abu Dhabi. Il riconoscimento va a premiare soprattutto coloro che costruiscono ponti per mettere in collegamento popoli divisi, rafforzando i veri rapporti umani che rendono possibile il lavoro per garantire libertà e sicurezza per tutti. Inoltre, onora i valori del fondatore degli Emirati Arabi Uniti, il defunto Sheikh Zayed, che ha vissuto una vita di pacifica convivenza.
I nomi dei vincitori del 2021, annunciati in una conferenza stampa virtuale, sono stati selezionati da una giuria indipendente e provengono da un gruppo di persone di 30 Paesi, che sono stati nominati da leader nei settori del governo, della cultura e della religione. Parte delle celebrazioni di domani per la prima Giornata Internazionale della Fraternità Umana, è proprio l’assegnazione dello “Zayed Award for Human Fraternity”. Il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar presenteranno congiuntamente il premio durante la cerimonia virtuale di domani, trasmessa in streaming in diverse lingue dalle ore 14.30 (ora di Roma) - 13.30 (GMT) - da Vatican News e diffusa da Vatican Media. La Giornata è stata istituita il 21 dicembre 2020 dalle Nazioni Unite e in ricordo della firma del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”.
Il giudice Abdel Salam: i vincitori modelli per la prossima generazione
Presentando i vincitori del premio, il Segretario del Comitato Superiore per la Fratellanza umana, il giudice Mohamed Abdel Salam, ha dichiarato che "è stato concepito per incoraggiare e riconoscere coloro che ci ispirano tutti a giocare il nostro ruolo nel creare un mondo più comprensivo, inclusivo e pacifico. Esaminando il lavoro e l’impatto di entrambi i vincitori del 2021, è chiaro che sono entrambi modelli per la prossima generazione, i leader mondiali e tutti coloro che sono impegnati" per la pace.
Latifa e l’armonia sociale fra generazioni e origini
Latifa Ibn Ziaten, fondatrice della "Association IMAD pour la jeunesse et la paix", è originaria del Marocco. A 17 anni, nel 1977, si è trasferita in Francia. Uno dei suoi figli, Imad, si è unito al primo reggimento dei paracadutisti francesi ed è stato assassinato vicino a Tolosa nel 2012. In seguito la donna ha cercato l’assassino di suo figlio, Mohammed Merah, per capire cosa lo avesse portato a commettere un omicidio. Quell’incontro le ha permesso di entrare nel mondo di un giovane che si sentiva abbandonato e che non era mai riuscito a integrarsi nella società in generale. Da quando ha fondato la sua associazione, Latifa viaggia in tutta la Francia per raccontare la sua storia e per incontrare i giovani. La sua speranza è di contribuire a preservare l ’“armonia sociale” sia tra le generazioni più anziane e le giovani, sia tra le persone originarie della Francia e i migranti. Nell’apprendere il conferimento del riconoscimento, Latifa ha espresso la speranza questo aiuti a sensibilizzare un pubblico più ampio sulla necessità di continuare negli sforzi per il dialogo e la coesistenza pacifica.
Guterres e la vera battaglia, quella contro il Covid-19
António Guterres, un politico originario del Portogallo, è il nono segretario generale delle Nazioni Unite. Durante l’ultimo anno in cui il mondo intero è stato travolto dalla pandemia del Coronavirus, Guterres ha alzato la voce in diverse occasioni facendo appello per un "cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo per concentrarsi insieme sulla vera battaglia: sconfiggere il Covid-19". Nel ricevere la notizia del premio, Guterres ha detto di vederlo anche come un riconoscimento del "lavoro che le Nazioni Unite stanno facendo ogni giorno, ovunque, per promuovere la pace e la dignità umana ". Guterres ha annunciato con un tweet che donerà l’intero ammontare del premio all’Agenzia dell’ONU per i rifugiati.
Informazioni sul premio
Lo "Zayed Award for Human Fraternity" è stato, dunque, ispirato dalla firma del Documento sulla Fratellanza umana, da parte di Papa Francesco e del Grande Imam di Al-Azhar, Capo del Consiglio musulmano degli anziani negli Emirati Arabi Uniti, il 4 febbraio 2019. Entrambi hanno ricevuto per primi il riconoscimento nel 2019. È stato successivamente rivelato che Papa Francesco ha donato l’intero importo del premio al popolo Rohingya del Myanmar. Poi, durante le celebrazioni del primo anniversario della firma del Documento sulla Fratellanza umana, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan ha annunciato che questo premio sarebbe diventato un evento annuale. Viene consegnato nell’ambito della Giornata Internazionale della Fratellanza umana, che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato in riconoscimento degli sforzi in corso di leader e figure religiose che cooperano per promuovere la pace, l’armonia e il dialogo interculturale nel mondo.
* Fonte: Vatican News, 03 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Classici.
Aristofane, la satira declinata al femminile
Una nuova edizione di “Lisistrata” curata da Perusino e tradotta da Beta è l’occasione per evidenziare come il grande autore greco metta in scena le donne con credibile efficacia
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 30 gennaio 2021)
Non c’è un’opera di Aristofane che non sia intrisa di una profonda passione civile e politica, nel senso più autentico dei termini. Perfino le più aeree, a fantasia sfrenata, le più surreali e metafisiche e mitiche, come le Nuvole o Gli uccelli, sono le satire più sorprendenti che siano state inventate nel gioco del paradosso: una reazione a catena che non finisce mai, di fronte all’assurdità, alla stupidità, all’egoismo, al sopruso dei singoli, delle città, di quella Atene che in perenne lotta contro Sparta sta vorticosamente precipitando verso l’auto-annientamento con la guerra del Peloponneso: dissidi interminabili, rotazioni di regimi demagogici e oligarchici, altro che democrazia, sanguinose battaglie, perdite di libertà, pur essendo scampati dall’invasore persiano grazie all’eroico sforzo comune, ma pronti a finire in bocca ai macedoni.
Quello di Aristofane è un mondo plurale, un brulichio di voci, di caratteri, a specchio della società contemporanea, che più sono parossisticamente aderenti alla realtà, più viaggiano verso l’universale. Aristofane, un genio del realismo fantastico, che usa la parodia con l’esuberanza e la disinvoltura di chi sa muoversi tra cielo e terra, tra l’infimo e l’altissimo, con la pesantezza e la leggerezza che solo il teatro di Shakespeare potrà avere. Lo guidava il senso dell’unità, del principio, dell’ordine, del piacere e della bellezza, tutti nascosti, proprio segreti, nello straripante mondo che raffigurava portando sempre all’estremo ogni tensione, ogni plurale possibilità.
Le tre commedie di Aristofane che hanno protagoniste le donne, scritte dal 411 al 391, sono al plurale. Contemporanea alle Tesmoforie (411) e pur avendo una protagonista guida, anche Lisistrata mette in scena un intero genere ( Valla Mondadori, ottima cura di Franca Perusino, efficace traduzione di Simone Beta: pagine 350, euro 50). Se dagli Acarnesi e dalla Pace Aristofane percorre tutte le strade per illustrare l’insensatezza comune che lo farà volare attraverso le Nuvole, e con gli Uccelli per descrivere i sofismi che sgretolano il buon senso e per colpire perfino Socrate; se si innalza in utopie e ribellioni e fughe del mondo fino a Nubicuculia, come il miglior antenato di Swift - mentre scenderà fin nell’Ade con Dioniso per riportare la poesia dell’odiosamato Euripide e di Eschilo sulla terra rovinata - con la trilogia al femminile Aristofane compie un viaggio altrettanto u- topistico e impercorribile: quello delle Amazzoni, o del governo femminile, in una escalation inarrivabile sotto tutti gli aspetti della immaginazione reale, fisica e prorompente, con le ali di quel dio Riso al quale credette Apuleio, e che Fellini onorò sempre, rinominandolo apposta nel Satyricon.
Nelle Tesmoforie il bersaglio femminile è un Euripide che ne mostrerebbe troppi difetti, ma poi se ne esce con la sua Elena in palinodia, e il gioco aggressivo finisce con un ritorno a casa, nell’ordine primitivo. Lisistrata bersaglia la dissennata litigiosità dei maschi guerrafondai, che più sono sobri e razionali, più trovano pretesti e cavilli di guerra, mentre la grande, saggia ebbrezza dionisiaca, di cui le donne sembrano le segrete protettrici, con il loro piacere inebriante, porta una sapienza superiore, la conciliazione e quella pace ’irragionevole’, che è l’unica via per la salvezza.
Perciò usano a ricatto l’estremo rimedio, quello dell’astensione dal sesso - e, se costrette, dal piacere - chiamando tutto il genere femminile delle città nemiche, Atene e Sparta, a giurare il patto di astinenza che dispiace a loro stesse, ma costringerà gli uomini a cessare la loro bellicosità, in nome del theleian kyprin, il piacere femminile, l’estasi dei riti della notte, sacri ad Afrodite. Come nelle Tesmoforie, la volgarità e l’oscenità si sfrena: cori di vecchi che portano il fuoco contro cori di vecchie che minacciano d’inondarli d’acqua per impedirgli di riprendere l’Acropoli di cui si sono impossessate con il tesoro che serve alla guerra, tra gli insulti e le scene più volgari, i quadri esilaranti della frustrazione del desiderio sceneggiati dalla coppia di Cinesia e Mirrina, e l’incontro degli ambasciatori resi impotenti dallo stesso urgere del loro classico strumento di potenza, il fallo. Lisistrata vincerà, anche sulle sue stesse amiche che non reggono la prova e tentano di defezionare con pretesti ridicoli; fiera di essere nominata con il proprio nome, per la virtù di un amore di patria superiore, con la splendida educazione che lei e le compagne hanno ricevuto. È riuscita a evitare la guerra. Ritorna all’ordine che accetta.
Come scrive Franca Perusino, « Lisistrata è una commedia al femminile, non una commedia femminista». Pochi anni dopo, nel 391, in quell’Atene decaduta e turpe, che le ombre di Eschilo e Sofocle, di Socrate e Platone hanno disertato, Le donne all’assemblea si spingeranno oltre. Le donne mascherate da uomini conquistano la maggioranza e impongono il comunismo, economico ed erotico. I giovani, prima di accoppiarsi con le coetanee, devono soddisfare le vecchie. È il trionfo della parodia più travolgente, che non risparmia nulla, nemmeno l’oscenità, le idee, il senso del mondo, lo stesso autore.
Certo, Aristofane non può accarezzare un pensiero femminista. Ma pur seguendo la molteplicità e la mutevolezza delle Nuvole, lo concepisce: non possiamo non vedere che queste commedie al femminile sono quanto di più ardito sia stato immaginato nei secoli. Di recente, l’ornitologo Richard O. Prum nell’Evoluzione della bellezza (Adelphi) cita l’esempio di Lisistrata per sostenere che l’evoluzione estetica, non quella adattativa, conta di più, ed è stata messa in atto dal genere femminile, anche per fare smorzare al partner maschile l’aggressività.
La scelta estetica non è tanto quella visiva, quanto quella legata alla sinestesia del piacere. Come sostiene Lisistrata, se le donne dovessero subire l’atto sessuale e non partecipassero col loro stesso piacere, gli uomini se ne stancherebbero presto. La reciprocità dell’eros, sostenuta in concordia da Lisistrata e dall’etologo Prum sembra ovvia e naturale, ma, chissà perché, nei secoli non tutti l’hanno pensata così. Anzi! L’aveva pensato il meraviglioso Aristofane, l’unico a cui Platone nel Simposio fa spiegare l’eros col mito degli esseri sferici primordiali, tragicamente segati in due da Zeus per la loro superbia, le cui metà non finiscono di attrarsi da allora, in conflitto.
Il corpo negato della democrazia
Storia al bivio. Vinzia Fiorino analizza la realtà transalpina dal 1789 al 1915 in «Il genere della cittadinanza», per Viella. La Rivoluzione francese dichiarò la sovranità popolare, negando però l’uguaglianza alle donne. Le tesi che tendevano a mantenerle ai margini, o fuori, dalla sfera politica, erano sostenute anche da faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico. Molte però anche le figure che misero in discussione quel modello. Da Olympe de Gouges, drammaturga, a Hubertine Auclert che nel 1882 parlò per la prima volta di femminismo
di Francesca Maffioli (il manifesto, 14.01.2021)
Il volume di Vinzia Fiorino, Il genere della cittadinanza (Viella, pp. 260, euro 26) traccia i contorni di quella fase, cominciata al principiare della Rivoluzione francese e terminata nel 1915, che vedrà la definizione del concetto di civitas come spazio esclusivamente maschile di esercizio di diritti politici. Insieme alla cittadinanza sono delineate tutte quelle dinamiche di esclusione e marginalizzazione delle donne edificate nel corso dell’Ottocento francese.
FIN DALLE PRIME PAGINE Fiorino sottolinea (e anche altrove nel libro insisterà su questa questione essenziale) che tra i soggetti subordinati e esclusi dalla moderna sfera politica erano da annoverare anche «i neri, ma anche i domestici, i matti, i criminali», mettendo in rilievo l’intersezione tra le discriminazioni. Quando l’autrice scrive che «sulla base delle differenze di genere e di razza sono stati edificati, però, i principali criteri di esclusione dalla comunità politica, in quanto il loro carattere naturale ha reso tale esclusione immodificabile: i domestici avrebbero potuto emanciparsi, i matti rinsavire, i criminali pagare il debito con la giustizia; ma natura non facit saltus», vuole evidenziare anche la stretta di quel filo che ha legato la negazione del diritto di voto ai corpi delle donne con il pretesto della loro diversità rispetto alla norma, universale, maschile.
Come sostiene la storica Michelle Perrot, la rivoluzione francese ha rappresentato uno dei momenti fondativi della costruzione della moderna cittadinanza; tuttavia, come Fiorino riesce a dimostrare con argomentazioni solide e prove storiche, quando la Rivoluzione dichiara l’uguaglianza di tutti gli uomini nei diritti, e di fatto la sovranità popolare, sceglie di negare uguaglianza e sovranità a categorie considerate diverse - segnatamente le donne.
Pensando agli esiti della Rivoluzione francese, insieme allo smantellamento di quello che era l’Ancien Régime (che aveva trascinato per secoli l’ordinamento sociale per ceti e l’esercizio del potere a beneficio di quelli dominanti), spicca infatti la definizione di cittadinanza moderna. Bisogna fin da subito sottolineare che essa non aveva a che fare con il suffragio universale maschile, che in Francia sarà atteso per più di cinquant’anni dopo la Rivoluzione. Ancor meno la definizione di cittadinanza moderna ebbe a che vedere con il voto delle donne, per cui bisognerà aspettare il 1944.
I CENTOCINQUANT’ANNI che separano la Rivoluzione francese dall’acquisizione del diritto femminile di voto danno conto di un nuovo ordine che scelse di non far votare le donne francesi per ragioni diverse: spaziando dall’ordine naturale, per cui le donne sarebbero state caratterizzate da qualità fisiche (uno stato di inferiorità e debolezza) tali da non consentire loro qualunque riflessione intellettuale e quindi anche politica; fino alla negazione dell’esercizio di voto per il mantenimento di uno status quo necessario alla tutela dell’istituzione del nucleo familiare.
Fiorino sottolinea che per corroborare le tesi che premevano per il mantenimento delle donne al margine della sfera politica, erano fornite faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico; cita in tal senso le conclusioni dei fisiologi Julien-Joseph Virey e Pierre Jean George Cabanis, che non a caso sono anche due idéologues attivi in quel contesto politico postrivoluzionario che premeva per lasciare le donne al margine dell’ambito politico.
Quando si parla di margine e di luoghi estrinsechi alla politica attiva, il rapporto gerarchico tra pubblico e privato è sancito dalla teorizzazione illuministica della politica e dall’approccio storico della sociologia positivista: il luogo privato, inteso come spazio domestico, sarebbe da situarsi a uno stadio inferiore rispetto a quello pubblico «collocato più innanzi lungo il percorso ideale che evolve da legami di tipo comunitario-religioso familistico verso una società moderna costruita sulla divisione del lavoro». Insieme a un modello di cittadinanza fortemente connotato sulla base del genere, per cui la dipendenza dal marito seguiva quella dal padre, si affermava come indiscutibile quel modello per cui lo status di minorità rendeva difficilmente accessibili alle donne i diritti di cittadinanza.
Nel saggio di Vinzia Fiorino è dato molto spazio proprio alla importante messa in discussione di questo modello ancorato a «quella sollecita preoccupazione per cui la partecipazione attiva delle donne nella sfera del mercato e della politica avrebbe comportato l’abbandono del lavoro di cura familiare fino alla loro mascolinizzazione». Ecco allora farsi avanti figure di donne che sono riuscite a mettere in discussione quel modello che le incastrava in quel luogo reale e simbolico in cui la loro parola, le esigenze e il loro pensiero erano ritenuti trascurabili e indegni di rappresentanza.
Mary Wollstinecraft, pensatrice britannica che nel 1792 partì alla volta di Parigi, la quale con magnifica lungimiranza affermava la necessità di trasformare il mondo iniziando da se stesse, convinta che senza quella che in Italia dagli anni Sessanta si chiamerà la pratica politica dell’autocoscienza femminista, la rivoluzione non sarebbe stata possibile. Olympe de Gouges, nota drammaturga e attivista francese, la quale nel 1791 pubblicò la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, non era partigiana di quella che definiremmo «l’uguaglianza identitaria», ma piuttosto di un’uguaglianza in termini di diritto. La pensatrice abbracciava il tema della libertà congiungendolo a quello di una giustizia sistemica - in una dimensione che comprendesse l’intero gruppo sociale: «La libertà non è più soltanto un diritto dei singoli, sia pur visti nella loro reciprocità, ma un terreno connesso alla giustizia condivisa».
Jeanne Deroin, candidata nel 1849 alle elezioni per l’Assemblea legislativa (la cui candidatura fu ritenuta incostituzionale!), insieme ad altre militanti sansimoniane fu in grado di distaccarsi dagli stereotipi legati alla natura femminile ma anche dal produttivismo. «Nonostante la cultura del socialismo utopistico contrassegni fortemente il pensiero di queste protagoniste, esse autonomamente mantengono ferma l’attenzione sui valori teoretici dell’individualità: proprio questo è il contenuto che la categoria di genere fa emergere con forza; questo è lo spazio da cui trae origine la politica delle donne. Le quali possono essere produttrici e possono condividere le critiche radicali al sistema di produzione capitalistico, ma in nessun caso la loro soggettività giuridica e la loro libertà politica saranno regolate dalla capacità di produrre».
INSIEME A LEI sono ricordate, in una geologia temporale lunga più di un secolo, Etta Palm d’Aelders, Théroigne de Méricourt, Claire Demar ma anche molte altre donne, anche provenienti dai ceti più umili. Due di loro furono anche autrici per una testata giornalistica la cui redazione era composta da donne e quelle che vi scrivevano avevano scelto di firmarsi con il solo nome proprio. Vinzia Fiorino, secondo la buona pratica del rendere visibili donne invisibilizzate, ci parla di queste due donne. Si tratta di due giornaliste, fondatrici di La Femme libre, chiuso dalle autorità nel 1834: Désirée Véret e Marie-Reine Guindorf, due giovani operaie tessili e sostenitrici di quello che nel 1882 Hubertine Auclert chiamò per la prima volta femminismo.
“Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax)
Da oscuro oggetto del desiderio a soggetto
di Valeria Finocchiaro *
Non è facile, oggi, scrivere che “Il femminile è l’immagine, il volto angelico, del capitalismo più violento, e allo stesso tempo il testimonial del pacifismo fintamente democratico e ipocrita del capitale”.
In una società che vorrebbe raccontare la donna come vittima eterna e agnello sacrificale, sollevandola sostanzialmente da ogni responsabilità e negandole capacità di giudizio, ribaltare esplicitamente l’immagine di donna passiva con quella di donna consapevole e volitiva espone a dei rischi, fra cui quello di scontentare la pletora di commentatori affezionati all’idea che la donna sia qualcosa da tutelare e di cui prendersi cura.
Il libro “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax) sceglie di correre qualche rischio nella speranza di introdurre un disordine propedeutico a scompaginare alcuni dogmi, come quello secondo cui “Un mondo più femminilizzato” sarebbe “garanzia di equità, inclusione, libertà o cooperazione”.
Risposte, a dire il vero, Cuter ne dà poche, ed è proprio quando non tenta di risolvere le contraddizioni del reale con facili soluzioni che diventa potente: il femminismo contemporaneo è già sufficientemente balcanizzato da ortodossie inconciliabili da non avere bisogno di ulteriori manuali di condotta. Questo libro sfugge infatti alla tentazione di fornire l’ultima parola, di costituirsi come breviario, di costruire una regola; eppure allo stesso tempo non rimane nel limbo aleatorio di un flusso di coscienza senza direzione: c’è lo sforzo di mantenersi all’altezza delle sfide che il mondo contemporaneo ci offre. Tenendo fede al compito più autentico della critica, che non è mai edificazione, Cuter pone delle domande e inquadra i problemi senza avanzare la pretesa di risolverli con la semplicità cristallina degli assiomi. In certi momenti, a dire il vero, si avverte il bisogno di trarre le fila di un discorso che in alcuni passaggi rimane aporetico, come quando accenna a un argomento piuttosto scivoloso: quello della servitù volontaria, tema cruciale e affatto nuovo che è però rimasto profondamente attuale fin dalla sua prima codificazione a opera di Etienne de la Boetie più di cinquecento anni fa.
Instagram è pieno di donne (e uomini) che mostrano le proprie foto di nudo o seminudo, per compiacere altri utenti e di rimando nutrire il proprio narcisismo, oppure in altri casi per celebrare la bellezza del proprio corpo, più o meno canonico che sia. Come si può riflettere su questo fenomeno da una prospettiva femminista, cercando di restare equidistanti sia dalla critica bigotta e moralistica, sia dall’individualismo liberale? Fino a che punto la spettacolarizzazione della propria sessualità, dell’erotismo e del piacere, è autentica emancipazione, e quando invece introduce lo sfruttamento capitalistico del sé che ogni individuo ha interiorizzato per stare al mondo?
Ancora una volta si pone il problema della libertà: cosa è, cosa ce ne facciamo. E più in particolare, la domanda che ci poniamo oggi dovrebbe consistere nel chiedersi se siamo capaci di riconoscere la libertà dentro un sistema, il capitalismo liberale, che ha camuffato il dominio sugli individui dietro le sembianze allettanti della libertà e della realizzazione individuale. Difficile stabilire se ci spogliamo su internet perché siamo finalmente libere dopo secoli di oppressione sessuale, oppure perché siamo indotte a mettere a profitto il nostro capitale sessuale, - e quindi nient’affatto libere.
Quello che si chiede il libro, dal mio punto di vista, è esattamente questo: esiste un modo di essere libere che non sia quello che il capitalismo ci offre? Siamo ancora in grado di desiderare qualcosa che ci renda felici, oppure questo desiderio è ormai inevitabilmente compromesso con la logica del profitto neoliberale? Come si fa a guardare il nostro corpo (e quello altrui) mettendo da parte il pensiero egemonico della perfezione e del giudizio? Anche perché, come sappiamo, il problema della libertà nel capitalismo è che, a dispetto di ciò che i corifei del sistema raccontano, questa libertà non è affatto alla portata di tutti: solo chi è più bravo a produrre (e solo fintantoché è in grado di farlo) può essere felice, tutti gli altri esclusi.
Dagli anni Ottanta si è imposta infatti una narrazione che impone alle donne - e a ogni individuo in generale - di contribuire al sistema non solo in veste di consumatrici, ma che premia in particolar modo quelle che sono riuscite nell’impresa, tutt’altro che semplice, di mettere a profitto il proprio capitale sessuale, la propria giovinezza: “la vittoria del femminile è la vittoria dello spettacolo” (che però riguarda tutti) e tra le soubrette e le modelle di Instagram la differenza sta nello storytelling: passività nel primo caso, autodeterminazione nel secondo.
Fin qui, niente di nuovo.
L’autrice però va oltre e si chiede: e se fare così ci fosse convenuto (e pure un po’ piaciuto)? Potrebbe essere il caso delle protagoniste del famoso programma televisivo Non è la Rai, andato in onda nei primi anni ’90, dove ragazzine sui quindici anni venivano istruite a mettere in scena una innocenza infantile a cui nessuno credeva, ma che servì a forgiare le fantasie sessuali di una intera generazione. Dice Cuter: “tante di loro, [...] vissero (o sfruttarono) l’esperienza anche come un trampolino ideale per intraprendere una carriera che dura tuttora”. E questo potrebbe valere, ad esempio, anche per le famose Olgettine, giovani donne note alla cronaca per i rapporti sessuali e i ricatti nei confronti di Berlusconi.
D’altronde è evidente che “in un contesto in cui ci viene continuamente imposto di mettere a mercato i nostri corpi e la nostra sfera più intima e individuale, cosa ci sorprende del fatto che qualcuno utilizzi il sesso per acquistare un po’ di potere?”. Nulla, e infatti in questo contesto, “una donna potrebbe volontariamente accettare per ottenere qualcosa in cambio: potrebbe insomma usare il sesso come moneta di scambio. Una pratica a cui le donne, come abbiamo visto, sono ricorse per secoli” (e a cui ricorrono tutt’ora).
Questa tendenza a mettere “volontariamente” a profitto il corpo, e quindi a renderlo “volontariamente” uno strumento passivo, è però una tendenza che non riguarda solo la donna, ma la società intera: quando si parla di femminilizzazione della società, spiega Cuter, bisogna infatti intendere quel processo paradossale per cui ogni individuo è via via portato a farsi oggetto, a diventare passivo almeno in apparenza, per ottenere qualcosa in cambio (dalla gratificazione narcisistica, al denaro, o al potere di esercitare una forma di dominio sugli altri). Si ricava insomma piacere dal fatto di “diventare un oggetto del desiderio (come una donna), ma anche diventare un oggetto nel senso di essere finalmente qualcosa di totalmente passivo, impotente: sollevato da quelle enormi responsabilità (principalmente verso se stessi) a cui si è costretti perfino se non ci si trova in nessuna posizione di potere”.
Anche se, tradizionalmente, è stata sempre la femmina ad avere “desiderato” di essere oggetto (“Essere femmina è essere un oggetto” scrive Cuter citando Andrea Long Chu), come dimostra l’abilità del genere femminile, perfezionata nel corso dei secoli, nell’arte-di-diventare-oggetto per eccellenza, ovvero quella di abbellirsi, oggi questa tendenza riguarda tutti, indipendentemente dal genere: “è in gioco una competizione tra soggetto maschile e femminile per il ruolo di oggetto”.
Ma se ciò che desideriamo, come soggetti, è quello di essere oggetti (di desiderio), stiamo ancora esercitando una libertà? In altri termini, la volontà di regredire al rango di oggetto (sessuale), è qualcosa che ci può rendere libere? Probabilmente sì, ma in che modo?
Il libro non ha la pretesa di risolvere queste domande, che vengono lasciate senza riposta; l’autrice ha però il coraggio di porle - con un gesto di rottura rispetto al conformismo rassicurante di molto femminismo contemporaneo -, sapendo bene di addentrarsi in una selva oscura: ciò che potremmo trovare all’interno potrebbe non piacerci affatto. Come nel film Stalker di Andrej Tarkowskij, siamo noi stesse, nella maggior parte dei casi, ad avere paura dei nostri desideri, perché questi ci obbligano a fare i conti con l’aspetto più oscuro e inquietante del nostro inconscio. “Il sesso [ma il discorso vale anche per il desiderio] non è una passeggiata, è rischioso, imbarazzante e spesso sgradevole. Sicuramente non è qualcosa di rassicurante”.
Un ulteriore punto di merito è il fatto di non peccare di universalismo astratto: quando si parla di femminismo, infatti, il rischio di confondere la propria esperienza specifica di donne occidentali con l’esperienza universale di donna è molto alto. È ovvio infatti che i percorsi di emancipazione delle donne bianche dei paesi sviluppati sono molto diversi, storicamente, da quelli delle donne nere in quegli stessi paesi, o in altri ancora. Mentre, ad esempio, le donne afroamericane si confrontano tutt’ora con un’esperienza di emarginazione razziale oltre che sessuale, le donne bianche dei paesi occidentali, dopo la grande stagione della lotta per i diritti formali, riflettono oggi soprattutto sul significato di quella libertà che il capitalismo si fregia di avere diffuso, mettendone in discussione premesse e risultati. Questo libro è ambientato in uno spazio e in un tempo specifico, l’Occidente, e precisamente in quella fase di decadenza economica che costituisce la cornice del nostro presente, con le sue ombre e i suoi fantasmi ricorrenti.
Fra questi, l’ossessione parossistica per la propria immagine, con tutto il suo portato di sofferenza e frustrazione, segue a quel ritiro nel privato (senza politica) che costituisce la cifra degli ultimi trent’anni. La cura di sé in Occidente ha preso una piega completamente diversa da quella auspicata da Foucault nel ciclo di lezioni che tenne al Collège de France: mentre il suo era un tentativo di formulare, con l’aiuto degli antichi, una forma di resistenza all’assoggettamento biopolitico, la nostra cura del sé ha preso le sembianze di un ingranaggio consumistico, la cui massima soddisfazione coincide con il massimo dell’exploitation.
C’è però un assente in questo libro, ed è l’amore: l’autrice non accenna quasi mai al rapporto, ben presente e sperimentato da ogni individuo, fra desiderio e amore (inteso qui non in senso monogamico né eterosessuale). Certamente davanti al discorso sull’amore ogni persona di buon senso intimidisce: si è frenati dal terrore di essere banali o stucchevoli o di non riuscire a esprimere con parole semplici qualcosa di complesso come l’esperienza amorosa, o viceversa di non trovare parole complesse a sufficienza per descrivere un’esperienza così semplice.
Eppure, anche se non esplicito, credo che un certo riferimento all’esperienza liberatoria dell’amore sia presente fra le righe, e che agisca in alcuni casi come catalizzatore di quel tipo di desiderio che riesce a fare a meno del dominio (come nel caso del rapporto fra Donna Haraway e il suo cane). Con il desiderio autenticamente liberatorio l’amore condivide il fatto di spezzare quel meccanismo infernale del compiacimento narcisistico illustrato sopra, perché in grado di sospendere la morsa dell’utilitarismo.
L’autrice, naturalmente, non ci dice cosa dobbiamo desiderare per essere persone libere. Né tantomeno le sfugge che il discorso sul desiderio è per sua natura opaco ed equivoco: non basta celebrare la potenza conflittuale del desiderio genericamente inteso - in virtù di un ottimismo deleuziano che funzionava per un’altra stagione politica e per un’altra generazione, ma che oggi si rivela parziale -, per risolvere il problema. Pagine e pagine di letteratura psicanalitica (non solo marxista) ci hanno insegnato che il desiderio senza regole è un’istanza egoica e potenzialmente distruttiva, foriera di squilibri enormi così come il suo pendant moralistico, cioè la repressione puritana.
Dal momento che non esiste alcun desiderio che non sia il prodotto di una serie di condizionamenti culturali e sociali, poiché i “desideri non nascono nel vuoto, [ma] sono frutto della società e delle relazioni in cui viviamo”, ciò su cui è necessario riflettere è fino a che punto, quando crediamo di esercitare un arbitrio, siamo consapevoli del condizionamento che ci deriva dall’essere individui desideranti all’interno di “un contesto in cui tutti, indipendentemente dal loro genere, si percepiscono sempre come merce”, e che quindi al posto di liberare le capacità di ciascun essere umano, le addomestica e le comprime.
Ripartire dal desiderio non significa quindi assecondare ogni desiderio, né tantomeno rifiutare a priori il suo potenziale liberatorio; significa piuttosto tornare a riflettere sul desiderio senza limiti moralistici, come invita a fare questo libro, cioè a metterlo in discussione e interrogarlo in modo radicale. In questo senso, quello di ripartire dal desiderio è compito non soltanto individuale e non soltanto femminista, ma della sinistra intesa come processo collettivo di trasformazione.
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
Donna e libertà
Il manifesto per un nuovo femminismo di Rossana Rossanda
Tutte le sfide della maternità in una società che resta maschilista da una protagonista delle battaglie comuniste il decalogo per la parità
di Rossana Rossanda (l’Espresso, 13 maggio 2019).
Si può pensarla in modi molto diversi su sessualità e filiazione, ma un fatto è incontrovertibile, e cioè che per venire al mondo bisogna passare da un corpo di donna, che deve alimentare l’embrione per nove mesi. È dunque venuto il momento nel quale tutte le donne farebbero bene a esprimersi nel merito. Lo faccio anche io partendo dal presentarmi.
Sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva.Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme - fra altri - a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.
In quella posizione ho diretto il manifesto e in quella veste non ho goduto sempre della simpatia del movimento delle donne, che mi ha definito sovente “figura di potere”, invitandomi a mettermi in gioco, cosa che, a dire il vero, credevo di aver fatto, ma - si vede - non abbastanza; sono stata semplicemente espulsa a suo tempo dal Pci. Ora chi ha preso (e fatto vivere) il manifesto, mi permette di scriverci, ma non di aver voce in capitolo sui suoi indirizzi (e posso capirlo). Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva. Non ne ho, ad esempio, nei confronti del testo fatto circolare da “Non una di meno” per convocare uno sciopero generale l’8 marzo scorso.
È importante che la battaglia per i diritti delle donne sia più estesa e condivisa possibile, contro una “cultura maschilista”, intesa anche nell’accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune una visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta il principio della famiglia patriarcale come “società naturale “, basata sulla divisione gerarchica fra maschio e femmina.
Non penso che questo schema sia da sottovalutare, esso conforma una parte rilevante degli esseri viventi, sia nella zoologia che fra i vegetali, ha determinato gran parte delle nostre culture ed arti, e penso sia utile tenerne conto, limitandomi a riproporre la tesi di un polimorfismo della sessualità, avanzata già da Freud, che non scaricherei così allegramente.
Ne fanno esperienza anche donne e uomini che si iscrivono nello schema binario, anche patendone, o forse appunto patendone; non è detto che la definizione di un terzo sesso non comporterebbe gli stessi inconvenienti della gerarchia binaria, una volta che fosse stabilita come tale (personalmente in genere propendo piuttosto per lo sdoganamento di incertezze e disordini più che di nuove leggi, sempre ultimative).
Forse dovremmo riflettere criticamente sul bisogno di avere o darci una o più leggi, per essere più certe e certi, ma sempre “modi” del potere, cui soggiacciono anche le donne.
Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare.
Ecco dunque come la penso, sia in tema di libertà, sia di filiazione.
1. Ognuno deve essere libero nella scelta della sua sessualità e può praticarla, purché il suo partner sia assolutamente consenziente. Per “assolutamente” intendo che deve sapere di che si tratta ed essere in chiaro con se stesso oltre che con l’altra/o. (Si tratta quindi di regolare l’età in cui si è in grado di capire; e il come assicurarsi il consenso dell’altro/a).
2. Ogni violazione della libertà altrui sul punto 1 va punita come reato grave.
3. Anche la scelta della filiazione deve essere libera con precise garanzie per la creatura messa al mondo. Non mi appartiene perciò né l’attuale legislazione né l’assoluto rifiuto della gravidanza per altri. Non mi pare sostenibile che debba esistere il diritto ad avere un figlio proprio. Il bisogno di maternità non può essere un bisogno proprietario, mentre una donna può adottare uno dei molti bambini abbandonati anche se l’adozione comporta dei problemi. L’esperienza mi ha insegnato che la situazione dei maschi e delle femmine è nel merito molto diversa.
4. In particolare, la donna ha diritto di rivendicare il riconoscimento di paternità, che il maschio ha spesso rifiutato, scegliendo la propria figura di padre sotto il profilo sociale, economico, culturale piuttosto che nei confronti della donna che ha contribuito a mettere incinta. Allo stesso modo si è assicurato una libertà o responsabilità come padre: anche qui l’esperienza mi ha insegnato che in caso di continuazione o interruzione di una gravidanza il maschio di una coppia è perlopiù decisivo, soprattutto con l’argomento che il fare figli è un ruolo storicamente determinato e di interesse collettivo.
5. Anche se può essere non semplice, lo Stato deve assumersi il carico affinché la continuazione o interruzione di gravidanza possa essere libera.
6. Continuare o interrompere la gravidanza può essere difficile; ancora adesso legislazioni laiche, religioni e consuetudini sono lontane dal rispettare questa libertà.
7. Non è ammissibile nessun ostacolo a questa libertà: l’esistenza di coppie genitoriali omosessuali è una delle variabili della libertà stessa.
8. Per quanto riguarda la gravidanza per conto terzi (il cosiddetto utero in affitto), impedirla significa mettere un limite alla libertà della donna o dell’uomo che la vorrebbe, consentirla però comporta un pericolo permanente di mercificazione.
9. Va eliminata dalla Legge 194 la cosiddetta “obiezione di coscienza” da parte dell’operatore della sanità pubblica, che svuota di fatto la libertà di non continuare una gravidanza per le donne che non hanno i mezzi per ricorrere al privato.
10. Si deve considerare “famiglia”, e quindi avvalersi delle misure che la collettività stabilisce come aiuto o supporto, qualsiasi coppia, comunque formata che si proponga di mettere al mondo o crescere un bambino.
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Cordignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
«Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile: il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet: si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione «cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo: come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
RICOMINCIARE DA “CAPO”! PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” ... *
” Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento , solo due sono, degni di nota : Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d’Etat di Proudhon.
Victor Hugò si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l’autore responsabile del colpo di stato. -L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.
Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica ; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato. Egli cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe.”
(K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869] ).
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza”
(K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
SIMONE WEIL: “L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo : nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi ; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo : ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura” (Simone Weil, 1942.)
*
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE : LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. RATIONABILITAS: SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ, OGGI.... *
La filosofa Annarosa Buttarelli:
“Coronavirus frutto di forme virili di governo, impotenti e inadeguate”
A Milano un ciclo di lezioni di alta formazione che si apre al pensiero della differenza maschile. La filosofa che lo ha ideato: "La crisi che stiamo affrontando ci dice di festeggiare, oggi 8 marzo, la lungimiranza delle donne"
di ALESSIA RIPANI (la Repubblica, 08 marzo 2020)
"In questi giorni si manifesta ancora una volta, in maniera flagrante, l’impotenza dei potenti e l’inadeguatezza della cultura di origine maschile. Non solo a prevedere le conseguenze catastrofiche dei propri comportamenti ma anche a interloquire con la complessità in cui siamo immersi da sempre. Lo stile generale violento e suicidario delle forme virili di governo, oggi è di nuovo nudo". È così che, in piena tempesta coronavirus, festeggia la "lungimiranza delle donne" la docente e ricercatrice Annarosa Buttarelli, filosofa del pensiero della differenza, autrice di "Sovrane" sull’autorità femminile; pensatrice che ha ispirato anche Stefano Rodotà, con cui stava interloquendo poco prima della morte del giurista.
Ha appena lanciato il secondo corso di perfezionamento della Scuola di alta Formazione Donne di Governo che ha fondato insieme a altre. Ma stavolta, a dispetto della formula, protagonisti a Milano, nella Casa museo Boschi di Stefano, sono gli uomini. Massimo Recalcati e altri tre ’docenti’, ad esempio, chiamati ad approfondire la natura del desiderio maschile e l’inviolabilità del corpo femminile. Ci saranno cinque top manager del Comune guidato da Beppe Sala, che oltre a essere partner, come amministrazione pubblica ha deciso di spedire alcune delle sue dirigenti a scuola di femminismo da Buttarelli e le altre, magistrate, avvocate, funzionarie di polizia, ginecologhe, studiose e scrittrici. Il tema principe è ancora la violenza di genere: dove e perché nasce, come si riconosce e combatte, e, soprattutto, chi è che la fa.
Professoressa Buttarelli, 8 marzo, violenza sulle donne, coronavirus. Come si tiene insieme tutto questo?
"Oggi esiste una grande massa di donne consapevoli, liberate dal vittimismo e dalle rivendicazioni di un femminismo ormai superato; forti del #metoo che ha dato loro una spinta nuova. Sono tante, e possono festeggiare la lungimiranza che hanno avuto nel condannare un sistema di governo del mondo impostato su modelli maschili non più sostenibili. Pensiamo a come è stata gestita l’emergenza coronavirus dai governi, o a come sono state utilizzate le informazioni in Cina o in America, oppure ai tagli fatti alla sanità in Italia, frutto di un modello manageriale di stampo privatistico applicato al settore pubblico".
Uno degli insegnamenti si intitola "Crisi globali e risposte maschili: un passaggio di civiltà per sfidare razzismo, sovranismo e neoliberismo". Perché, però, partire dalla violenza sulle donne?
"E’ sempre la violenza il grande tema. Quella sulle donne porta con sé tutte le altre. Intendiamo per inviolabilità del corpo femminile l’inviolabilità di ogni vivente. Pensiamo a quello che subiscono i migranti, gli altri, i diversi, e guardiamo allo stupro ambientale del pianeta. La riflessione su una nuova forma mentis non può prescindere da una forte istanza ecologista, che combatta l’atteggiamento predatorio nei confronti dell’ambiente. Oggi è un 8 marzo di festa per le donne, le uniche capaci di regalare la visione di un altro futuro possibile".
Da qui il bisogno di guardarsi in faccia, donne e uomini.
"Diciamo che, a differenza di quanto avvenuto nella storia del pensiero femminile e femminista, manca completamente quella che possiamo chiamare autocoscienza maschile, con il riconoscimento da parte degli uomini delle loro responsabilità. È per loro un processo appena cominciato. Ho chiamato con me lo psicanalista Recalcati, ma anche Marco Deriu dell’università di Parma, Stefano Ciccone, sociologo, ricercatore a Genova, Lorenzo Bernini, docente a Verona, ’uomini nuovi, trasformati’, li chiamo. Consapevoli di dover fare la loro parte, appunto".
Lei tiene regolarmente corsi di formazione per alti funzionari dello Stato, personale delle prefetture, degli ospedali, dirigenti di grandi aziende. Quanto bisogno c’è di riflettere sul pensiero della differenza nelle istituzioni e nel mondo del lavoro?
"La narrazione sulla violenza ha finito col concentrarsi tutta sull’oggetto del sopruso, rappresentando sempre le donne come vittime e trascurando la centralità del carnefice. Qualcosa però sta cambiando, e c’è una forte consapevolezza della necessità di ripensare la cultura misogina su cui si basa la nostra società. Vedo un interesse nuovo da parte delle amministrazioni pubbliche, ad esempio, chiamate a intervenire con competenza e sensibilità nei casi di violenza, affinché non si verifichino ulteriori mortificazioni e delegittimazioni nelle corsie degli ospedali, in sede di denuncia davanti alle forze dell’ordine, nei processi per stupro. E c’è un nuovo approccio ai differenti comportamenti femminili in campo aziendale, che valorizza la sapienza femminile come risorsa chiave soprattutto nei momenti di crisi. Il Comune di Milano con cui è nata questa collaborazione ha dimostrato di essere pronto ad affrontare questa sfida, molto avanzata".
LO SPECIALE Gender gap, le donne presentano il conto
In un passaggio del suo libro, scrive che "giunti a questo punto della storia del mondo, pensatori e pensatrici dovrebbero quantomeno riuscire ad allearsi amorosamente con le istanze avanzate dalle donne nei secoli". Servirà questo approccio a eliminare violenza, sopraffazione e gender gap?
"La Scuola ha l’ambizione di portare la riflessione oltre l’individuazione degli strumenti utili all’eliminazione delle disuguaglianze in termini di accesso al lavoro, di posizione nella vita pubblica o remunerazione che già esistono. Si tratta di arrivare però alla radice dei problemi, e chiarire cosa non funziona nella relazione tra i sessi. E su questo terreno gli uomini hanno sì tanta strada a fare".
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ" ! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”.
BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E SOCIETA’. COME SONO NATI I NOSTRI "GENITORI".... *
Scheda editoriale
Luce Irigaray
Nascere
Genesi di un nuovo essere umano
Traduzione di Antonella Lo Sardo
Bollati Boringhieri, 2019, pp. 183, 15 e.
Il libero respiro e la tecnologia
La genesi di un nuovo essere umano nell’ultimo libro di Luce Irigaray
di Giorgia Salatiello (L’Osservatore Romano, 11 giugno 2019)
Sarebbe molto difficile, e forse anche inutile, cercare di fare una classica recensione dell’ultimo libro di Luce Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano (Torino, Bollati Boringhieri 2019, pagine 192, euro 15), in considerazione della molteplicità e della complessità dei temi che vi si intrecciano, condensando tutti i motivi più rilevanti delle opere precedenti.
Sembra, quindi, più utile stabilire una specie di dialogo con l’autrice, incentrando la riflessione intorno ad alcune parole-chiave che ritornano spesso in quella che si può definire come una fenomenologia della vita umana, dal suo inizio fino alla sua compiuta fioritura.
La prima parola è quella che compare anche nel titolo, ovvero “nascere”, e qui il pensiero della Irigaray rivela tutta la sua profondità e la sua articolazione perchè per lei la nascita non indica solo il preciso istante del venire al mondo, ma tutto quel lungo e faticoso percorso che dovrebbe consentire ad un essere umano il suo pieno sviluppo, ma che quasi sempre la nostra cultura occidentale blocca e distorce.
Sulla scorta delle sue conoscenze delle filosofie e delle religioni orientali l’autrice attribuisce importanza centrale al respiro (ecco un’altra parola-chiave) che consente di uscire da sé, ma anche di rientrare nell’intimità di se stessi e, su questo punto, forse, le si potrebbe chiedere di distinguere di più tra le differenti dimensioni, quella corporea, quella psicologica e quella spirituale della quale parla, ma che dovrebbe essere ulteriormente specificata nella sua peculiarità.
Compaiono, quindi, le due parole più significative di tutto il libro cioè quelle del desiderio e dell’amore, nella loro chiara distinzione, ma anche nella loro indispensabile congiunzione. Il desiderio e l’amore ai quali Irigaray si riferisce sono, innanzi tutto, le due fondamentali risorse che consentono alla vita umana di non decadere al livello del vegetale o, addirittura, dell’essere inanimato, ma essi sono, nella loro più genuina specificità, legati all’attrazione reciproca di uomo e di una donna, dotata di un forte potenziale generativo che non si esaurisce nella sola riproduzione biologica.
Se tutto il volume, come si è detto, è una fenologia della vita umana, qui ci si trova di fronte ad una vera e propria fenomenologia dell’amore che non è appiattito soltanto su alcune delle sue componenti, ma è indagato in tutta la sua ricchezza. La fioritura che l’amore consente, tuttavia, nella nostra cultura, ed ecco altre due parole chiave, è sempre minacciata dalla tecnica e dalla tecnologia che impongono i loro ritmi e le loro finalità all’esistenza. È degno di nota che, a questo proposito, Luce Irigaray non proponga un impossibile e nostalgico ritorno al passato, ma inviti alla riappropriazione del nostro destino umano sul quale la tecnica e la tecnologia non devono avere il sopravvento.
Si giunge, così, all’ultima parola, trascendere, che ritorna lungo tutto il testo rivelando il suo spessore, ma anche la sua ambiguità che pone al lettore un preciso interrogativo. Da una parte, infatti, e questo è pienamente condivisibile, il trascendimento è quel movimento che porta continuamente al di là di se stessi, impedendo la chiusura ed il ripiegamento solipstico, ma non si trova traccia della netta distinzione tra il trascendimento solo orizzontale, verso gli altri e verso il mondo, e quello verticale che può aprire l’essere umano all’assoluto ed, ultimamente, a Dio. Certamente, questo secondo tipo di trascendimento esula dalla prospettiva della Irigaray che, anzi, è molto critica verso tutte quelle che indica come proiezioni in un mondo sovrasensibile, prodotto dal soggetto medesimo.
Tuttavia, proprio in questo risiede il limite della pur valida e significativa proposta dell’autrice, perché solo un trascendimento verticale potrebbe realmente garantire quell’apertura e quel respiro libero, dei quali avverte profondamente l’esigenza per dare all’umanità il suo vero volto, spesso soffocato da una cultura e da un pensiero opprimenti e riduttivi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SICFR.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Margaret Atwood
La vincitrice del Booker Prize 2019 insieme a Bernardine Evaristo
di Cristina Gamberi (il Mulino, 21 ottobre 2019)
Può un libro cambiare il mondo? Nonostante le illusioni di molti, la risposta è chiaramente no. Eppure esistono libri a cui è stato riservato il curioso destino di, se non proprio cambiare il mondo, farsi strumento del cambiamento politico. Sono libri che hanno il potere di offrire un vocabolario e degli strumenti teorici, ma soprattutto narrazioni e immagini che aiutano a comprendere una realtà fino a quel momento sommersa o taciuta, adottando prospettive inconsuete e denunciando la condizione di oppressione in cui vivono le persone. In questo senso, sono libri rivoluzionari.
Uno dei testi che ha saputo innescare una radicale critica al presente su scala globale è Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, la scrittrice canadese che è appena stata insignita del più prestigioso premio letterario britannico, il Man Booker Prize, per il romanzo The Testaments. Edito in Italia da Ponte alle Grazie, I testamenti è l’attesissimo sequel della distopia ambientata nella Repubblica di Galaad, di cui non sappiamo se condividerà lo stesso destino del romanzo originale. Di sicuro, però, sappiamo che si tratta già di un successo editoriale che si colloca al culmine della parabola letteraria di un’autrice che all’età di ottant’anni ha alle spalle una carriera di scrittrice molto letta, molto premiata e saldamente insediata nell’establishment letterario mondiale.
Fin dagli esordi, negli anni Sessanta, Atwood si è infatti misurata con una molteplicità di linguaggi ed eterogeneità di generi letterari, iniziando a scrivere poesie e pubblicando successivamente romanzi, storie per bambini, graphic novel, libretti per opera da camera, saggi critici e contribuendo attivamente all’adattamento delle sue opere in serie televisive, film e documentari.
Una solida formazione accademica - iniziata a Toronto con il teorico della letteratura Northrop Frye e proseguita al Radcliffe College di Harvard - ha fatto di lei una scrittrice colta. Il misurarsi con i grandi classici della tradizione occidentale è infatti uno degli aspetti principali della sua opera.
Succede in The Penelopiad (2005) riscrittura dell’Odissea dal punto di vista di Penelope; nel romanzo Hag-Seed ispirato alla Tempesta di Shakespeare (2016); in Morning in the Burned House (1995) in cui Elena e Cressida prendono parola; e nel Racconto dell’ancella (1985) che trae ispirazione da un versetto biblico del della Genesi. Si tratta di una poetica profondamente intrecciata a quella che Adrienne Rich chiamò re-vision, ovvero il necessario confronto che le scrittrici devono compiere con la tradizione letteraria del passato per rileggere e riscrivere l’immaginario profondamente cristalizzato dal punto di vista del genere con l’obiettivo di entrare nei testi con uno sguardo nuovo: lo sguardo di donna.
Sono infatti la centralità della narrazione al femminile e l’indagine dell’autrice intorno alla soggettività delle donne a costituire il secondo aspetto saliente della scrittura di Atwood. Fin dal primo romanzo The Edible Woman (1969), la sua opera si intreccia con i temi, le rivendicazioni e i desideri espressi dalla seconda ondata del movimento femminista nord-americano, di cui è sempre stata reticente a definirsi parte attiva.
La stessa Atwood ha tuttavia riconosciuto come il movimento delle donne abbia contribuito a espandere i territori a disposizione della scrittura, fornendo un’analisi lucida dei meccanismi di potere che operano nelle relazioni fra i generi e permettendo di esplorare aspetti dell’esperienza delle donne che altrimenti sarebbero rimasti nascosti.
Il legame fra le istanze femministe e la narrativa di Atwood è tuttavia da ricercare nell’uso del genere distopico, scelto dall’autrice perché maggiormente libero dai vincoli imposti dal realismo e quale luogo ideale per esplorare (e far esplodere) la costruzione dei ruoli di genere e gli assetti sociali considerati "naturali". Come era successo prima di lei in Katharine Burdekin e Octavia E. Butler, nel Racconto dell’ancella Atwood usa la distopia come spazio letterario privilegiato in cui la riappropriazione della sessualità e dei corpi femminili è mezzo cruciale per ridefinire l’agency e la soggettività delle donne.
Il disturbante racconto dell’ancella Difred, la donna-schiava che vive asservita all’uomo per scopi riproduttivi in un regime teocratico di ispirazione biblica in un futuro non tanto lontano dal nostro, rappresenta infatti una critica radicale al patriarcato e al totalitarismo. Il suo racconto diventa narrazione capace di rivelare l’indissolubile legame fra il culto della virilità, i regimi totalitari, il controllo della sessualità femminile e la violenza sul corpo delle donne.
Il curioso destino di questo libro non è solo che a distanza di trent’anni il suo messaggio è diventato politicamente urgente, ma è anche che ha prodotto effetti di realtà imprevisti. La narrazione distopica di Atwood ha infatti innescato inaspettate pratiche di soggettivazione radicate nei corpi delle donne. Nel 2017, quando viene trasmessa la prima serie televisiva ispirata al romanzo, nel clima politico seguito all’elezione di Donald Trump e in concomitanza con il dilagare del movimento #MeToo e #TimesUp, l’Ancella da finzione si è trasformata in realtà. La sua iconografia, contraddistinta da una lunga tunica rossa e dal capo coperto da una cuffia bianca, è infatti diventata il simbolo di un movimento vero e proprio e da allora è stata usata dalle donne di tutto il mondo per denunciare le forme di controllo sui propri corpi e la propria sessualità.
Il perché il romanzo sia ritornato oggi così attuale può essere spiegato con le continue violazioni dei diritti riproduttivi e con l’aumento delle forme di violenza contro le donne. Ma ciò che ha permesso alla narrazione di travalicare i confini del successo letterario è stato un doppio movimento. Da una parte il cruciale passaggio dal testo romanzesco alla serie televisiva. Dall’altra il processo dal basso che ha portato alla riappropriazione dell’immaginario distopico dell’ancella come forma di soggettivazione politica femminista e che l’ha trasformata in un potente strumento di critica delle forme di subordinazione non solo sessuale, ma anche economica e sociale del presente.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (ri produzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto. Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
di Lea Melandrii (l manifesto, 12.10.2’18)
Il 12 maggio 2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro: «Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (...) è come affittare un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon, promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come “emergenze” - il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le aggressioni di matrice fascista - la rapidità con cui si sta allargando in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è la crisi demografica - quella che guarda alla “integrità della stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina (...) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194, insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai cambiamenti interni alla famiglia - separazioni, divorzi, coppie dello stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla “sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna. Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli uomini, comunque lo si voglia chiamare - complicità, adattamento, ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto, il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o, meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili. Quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
Nelle viscere della storia
di Lea Melandri*
Nelle “viscere della storia” non c’è solo la barbarie o la disumanità. Ci sono anche “prospettive impensate”, “tesori di cultura”. Basta cercarli. È questa la lezione della rivista “L’erba voglio”.
Il pericolo che molti vedono incombere sulla democrazia nel nostro Paese raramente viene associato alla crisi, più generale e più datata della politica: la modificazione lenta ma inarrestabile dei confini che per secoli hanno circoscritto e confuso lo spazio pubblico con il suo governo, le sue istituzioni, le sue leggi, i suoi linguaggi, e, prima ancora, con il dominio di un sesso solo.
Se la nostra cultura non si fosse dimostrata finora così ottusamente refrattaria ad accogliere analisi attente ai nessi tra corpo e politica, tra virilità e costruzione storica della sfera pubblica, risulterebbe evidente che la norma e la trasgressione, l’ordine e la perdita di controllo, la legge e la sua sistematica violazione, il bene collettivo e l’egoismo individuale, la civiltà e la barbarie, non hanno mai smesso di affrontarsi e confondersi nello spazio pubblico, sotto la spinta di contesti economici e politici mutevoli, ma ubbidendo nel medesimo tempo a quella “invariante” della storia che è l’identificazione dell’umano perfetto con la maschilità, e tutte le contrapposizioni che ha prodotto tra l’amico e il nemico, il cittadino e lo straniero
L’irruzione del “femminile” nella vita pubblica - inteso non solo come presenza quantitativa delle donne nel luogo da cui sono state tradizionalmente escluse, ma come protagonismo e rivalsa di tutto ciò che è stato identificato col “sesso debole” - non poteva non intaccare i fondamenti della politica, mettere in discussione i concetti di libertà, democrazia, uguaglianza, fraternità, diritto, ridefinire in modo meno astratto la figura del cittadino.
Se l’occasione di portare al centro della responsabilità collettiva la vita nella sua interezza si sta trasformando in “antipolitica” - rovesciamento dei rapporti tra ordine e caos, realtà e immaginario, ragione e sentimenti - è perché si continuano ad ignorare i percorsi di liberazione e di allargamento dell’impegno politico aperti dalle culture alternative degli anni Settanta, in particolare dal femminismo, e oggi dalle associazioni di uomini che si interrogano sulla storia dal punto di vista del sesso che ne è stato protagonista.
Quello che molti di noi scoprirono allora, come insegnanti, operatori sociali, studenti, operai, nel momento in cui si abbandonavano gli strumenti tradizionali del controllo e della repressione, avrebbe dovuto allarmare molto più delle forze conservatrici che ci fecero guerra.
Le pratiche non autoritarie nella scuola, negli asili autogestiti, nelle assemblee autonome sorte all’interno delle fabbriche, che generalmente vengono additate da destra e da sinistra come la causa remota del degrado attuale, sono state, al contrario, il primo svelamento della massificazione precoce, la denuncia del caos che si cela dietro i sistemi istituzionali di controllo e sicurezza.
Erano segnali piccoli ma inequivocabili, portati allo scoperto dalla consapevolezza delle mutilazioni che si era inflitta la politica, e dall’idea che bisognasse partire da lì, da quei corpi che arrivano all’asilo “già rattrappiti e coartati”, per trovare nuove forme d’amore e di convivenza umana.
La crisi dell’autorità paterna nell’ambito famigliare, e il declino delle istituzioni della vita pubblica, avrebbero poi subìto un’accelerazione imprevista sotto l’urto della società dei consumi, della sua potenza invasiva e divorante, della sua indifferenza per norme e limiti di ogni specie. Così è accaduto che, quando ancora le donne muovevano i primi passi da cittadine sotto tutti gli effetti, a farla da vincitore fosse il “femminile” costruito dall’uomo, la visceralità che la storia si è portata dietro e che insidia da sempre il suo processo di incivilimento.
Oggi si scopre che l’inconscio collettivo, che si è espresso “democraticamente” nel voto della maggioranza, è reazionario. Non era poi così difficile da immaginare: tutto ciò che è stato sepolto nella zona più oscura della vita dei singoli, identificato con la natura o con la parola rivelata di un Dio, per potersi modificare ha bisogno innanzi tutto di essere riconosciuto, narrato e analizzato, restituito alla cultura e alla politica con cui è sempre stato in rapporto, sia pure un rapporto alienato, strumentale, distruttivo della politica stessa e delle sue conquiste democratiche.
L’“immensa esperienza negativa” che si è accumulata nelle “viscere della storia” nel corso dell’ultimo secolo, come conseguenza del fatto che sono stati considerati condizione quasi esclusiva del cambiamento i rapporti di produzione, oggi esce allo scoperto attraverso la retorica populista delle destre occidentali. Ma, se non ne abbiamo paura e, soprattutto se non abbiamo fretta di cancellarla o imitarla, forse è l’occasione per dare finalmente cittadinanza a “esperienze essenziali del vivere umano”.
L’esperienza della rivista “L’erba voglio” ha significato fare cultura attraverso tutto ciò che la cultura tradizionale considera “rifiuti”, “scarti”, “tabù”, prendere distanza dalla continuità del “noto”, dal rapporto ottimistico che la cultura occidentale ha intrattenuto con le sue mete tecno scientifiche, non aver paura di addentrarsi nel “caotico mondo dell’antiragione”, aprirsi a “prospettive impensate”.
Prima che la barbarie, come ritorno a forme arcaiche di violenza, prenda il sopravvento, dovremmo tentare - come è stata per la generazione “imprevista” di giovani e donne nel Sessantotto -, a farci noi “barbari”, estranei e creativi, rispetto a una civiltà esaurita e sempre più disumanizzante.
*Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE...
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci (il manifesto, 17.06.2018)
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta - ha esemplificato Bergoglio - ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile - secondo il papa - all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire - ha spiegato il pontefice - che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli (Il Fatto, 17.06.18)
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia: “Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”. E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso - specialmente quelle sull’aborto - dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Quarant’anni di legge 194
di Paola Govoni (Il Mulino, 21 maggio 2018)
I dati del Guttmacher Institute indicano che, ovunque ci siano leggi che consentono l’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg), questa è in calo, anche in Italia. Eppure, negli ultimi anni in molti di quei Paesi, inclusa l’Italia, si sono accese polemiche sull’aborto e le leggi che lo regolamentano.
Basta una rapida occhiata alla letteratura per vedere che a dimostrarsi preoccupati - ossessionati? - da questioni relative all’aborto sono più spesso uomini che donne. L’interesse nei confronti del tema sembra infatti nascere soprattutto da campagne denominate pro-life o “teoria gender”, i cui portavoce sono spesso uomini.
D’altra parte, anche in ambito storiografico, nonostante nell’ultimo secolo e mezzo la storia delle donne a opera di donne sia diventata via via più ricca, i testi importanti (o più citati) su questioni di donne e sessualità restano quelli degli uomini. Su qualsiasi tema gli uomini sono più citati delle donne, ma su questioni di sesso sono imbattibili, anche quando si tratta di allattamento, come già nel caso del botanico Linneo.
Si tratta di una tradizione colta antichissima che ha spesso condiviso con la società, anche la meno acculturata, l’equazione donna = sesso. Questo spiega come sia possibile che ancora oggi e ovunque nel mondo il sesso resti il principale strumento di controllo delle donne: una responsabilità che è sociale, che ci coinvolge tutti e tutte e che non possiamo delegare, come molti ancora fanno, alla scienza.
Come racconta in Una stanza tutta per sé, una mattina dell’autunno del 1928 Virginia Woolf si recò alla British Library per preparare alcune lezioni su creatività e indipendenza economica delle donne. Una scorsa al catalogo le bastò per rendersi conto che ogni anno veniva pubblicato a firma di uomini un numero impressionante di libri sul “sesso - e cioè le donne”. In dialogo con le ragazze del Newnhan e del Girton College per le quali stava preparando lezioni divenute memorabili, esclamò: “Vi rendete conto di essere, forse, l’animale più discusso dell’universo?”. -Woolf si accorse subito che a scrivere del tema non erano tanto biologi e medici, quanto gli autori più disparati, spesso senza alcuna qualificazione. Scelta una dozzina di quei volumi “in maniera assolutamente arbitraria”, ne cercò di analoghi di donne su uomini. Non ne trovò e il lavoro proseguì spedito.
Quel vuoto è un sollievo anche per le storiche che, come me, coltivano un certo orgoglio di categoria. Restando in ambiti di privilegio, sono diverse le umiliazioni che ci sono state inflitte, per esempio una secolare esclusione dalle università. Ma nonostante la nostra ignoranza, ci è risparmiato almeno l’imbarazzo di doverci occupare di autrici di libri su uomini e sesso analoghi a quelli incrociati da Woolf.
Bertrand Russell seppe ammettere con ironia il problema quando osservò che “Aristotele maintained that women have fewer teeth than men; although he was twice married, it never occurred to him to verify this statement by examining his wives’ mouths” (The Impact of Science on Society, 1952). Vero o meno che fosse il dettaglio dei denti, Aristotele, come molti altri filosofi naturali e scienziati, resta utile per indagare i pregiudizi in cui gli uomini più intelligenti e colti possono cadere quando si tratta di donne.
Sebbene la tentazione sia forte, le considerazioni rapide fatte fin qui non vogliono portare a conclusioni del tipo: quando uomini come quelli a capo dei movimenti pro-life parlano di aborto, conviene sorridere e occuparsi d’altro. L’aborto è una questione che, ancorché flaianamente seria, è drammatica. Penso tuttavia che sia salutare considerare con distacco chi (per ragioni che lascio alla psicoanalisi), oggi come nell’Ottocento, sente il bisogno di scrivere di aborto sostituendo dati verificati e approcci pragmatici a un problema sociale, con invettive moraleggianti contro le donne: antico strumento di battaglia ideologica (non politica) che dire scomposta è poco. Ho l’impressione che nei confronti di quelle prese di posizione convenga mantenere bassi i toni per evitare fenomeni cosiddetti di backslash, cioè un inasprirsi di atteggiamenti negativi nei confronti delle donne. In ambito accademico è per esempio probabile che certe derive costruzioniste degli anni Settanta e Ottanta, coltivate da élite prive di contatti con il mondo sociale reale, non abbiano giovato alle battaglie delle donne per la parità, ma semmai alimentato confusione tra i/le giovani (la vaghezza di certe argomentazioni può solo diventare gergo da ipse dixit) e insoddisfazione in chi è esclusa/o dai privilegi di cui godono quelle élite.
Il mio invito a mantenere bassi i toni non significa subire in silenzio. Tutt’altro. Bisogna parlare e molto di questi temi, soprattutto in ambito educativo, dal nido all’università. Per esempio, gli/le adolescenti dovrebbero conoscere i vantaggi sociali concreti che porta un’educazione alla piena parità di diritti e di doveri (già, ci sono anche quelli), per non dire dell’educazione sessuale che, come mostrano i dati del Guttmacher Institute, è cruciale perché cali il ricorso all’aborto. Un’educazione che in Italia è trascurata o osteggiata (per ragioni che pure lascio alla psicoanalisi). D’altra parte, l’ignoranza è la realtà con la quale il Paese si confronta (su questo punto, è noto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra i dati Pisa, i bassi investimenti in educazione terziaria, il posizionamento problematico delle università nelle diverse classifiche internazionali e così via). E le ripercussioni sociali sono pesanti, si tratti di corruzione, di diritti dei carcerati o delle donne: nella classifica che misura i diritti di queste ultime, l’Italia è passata dal 72° posto nel 2006 all’82° su 144 Paesi nel 2017.
La storia delle donne è ricca di esempi che mostrano che posizioni o diritti conquistati restano comunque precari. In ambito scientifico, nel 1984 fu Margaret Rossiter, dati quantitativi alla mano, a parlare di backslash nei confronti delle scienziate americane dopo la Prima guerra mondiale. Oppure, si pensi al caso più clamoroso, quello della computer science, il sapere che ormai regge le società e le economie mondiali. Nella Silicon Valley le donne sono sottorappresentate, benché siano state pioniere nel mondo dell’informatica, nella ricerca come nell’imprenditoria. La storia non è progressiva e sui diritti bisogna vigilare.
L’aborto va prevenuto con l’educazione, impedirlo porta le povere a ricorrervi in clandestinità, le abbienti a ottenerlo in un Paese confinante. Ogni decisione che riguardi la vita e la morte dovrebbe a mio parere essere possibile in un contesto normativo il più possibile flessibile che tutela le libertà. Su morte e vita non abbiamo dati e/o argomentazioni sufficienti per stabilire con certezza quei confini che alcune/i pretendono per demandare la scelta: chi alla scienza, chi alla religione, chi alla giurisprudenza. In dialogo con quelle culture, la scelta su vita e morte può solo essere nostra, libera, responsabile e valutata caso per caso.
Rimettere in discussione la legge che consente l’Ivg è pericoloso per la libertà di tutte/i. Come la scienza, anche la storia ci offre dati utili su cui meditare: ogni volta che si è preteso di limitare le libertà di qualcuna/o, fossero avversari politici, scientifici o religiosi, donne, ebrei o sinti, prima o poi sono state limitate anche le libertà di chi aveva iniziato a gridare.
Al segretario generale del Consiglio d’Europa
Testo italiano della lettera
di "Wave - Women Against Violence Europe" *
Noi, associazioni riunite nella rete europea WAVE - Women Against Violence Europe (Donne contro la violenza Europa) e i/le nostre alleati/e, le scriviamo per esprimere il nostro shock e la nostra preoccupazione di fronte all’attacco lanciato contro il riconoscimento universale della discriminazione e della diseguaglianza di genere come cause e conseguenze della violenza contro donne e ragazze, e contro l’inclusione di tale riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul). Questo attacco e’ stato espresso in una lettera che le e’ stata inviata.*
Riteniamo che le raccomandazione contenute in tale lettera abbiano un grave impatto sulla prevenzione delle diverse forme di violenza e sulla protezione delle donne e ragazze che ne sono vittima.
WAVE lavora nel campo della prevenzione della violenza contro donne e ragazze e dei diritti umani delle donne fin dal 1994, e siamo profondamente impegnate per la realizzazione dei principi universali dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani delle donne.
Ribadiamo il nostro pieno sostegno alla Convenzione di Istanbul e al Comitato GREVIO che ne cura il monitoraggio, e rifiutiamo in toto ogni iniziativa tesa a consentire che si pongano riserve alle disposizioni chiave della Convenzione.
Consideriamo la Convenzione di Istanbul come lo strumento regionale e internazionale piu’ coerente e ampio per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Siamo assolutamente convinte che la ratifica e la piena implementazione della Convenzione di Istanbul contribuiranno a ridurre in maniera significativa l’esposizione delle donne alla violenza e faciliteranno la costruzione di una societa’ piu’ equa e responsabile per tutti.
Le scriviamo per unire la nostra voce a quella di altre organizzazioni, a cominciare dalla EWL - European Women’s Lobby (Lobby europea delle donne), che hanno anch’esse espresso la propria preoccupazione a fronte della lettera che le e’ stata inviata.
Rosa Logar, President of WAVE network
*IL PAESE DELLE DONNE ON LINE - RIVISTA: WAVE (Women against violence Europe) chiede di contrastare l’azione reazionaria e di destra di quelle organizzazioni che stanno attaccando la Convenzione di Istanbul
Per approfondimenti, cfr. http://www.picum.org/Documents/Publi/2018/IstanbulConvention_Factsheet.pdf
Federico La Sala
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Le forze dell’ordine
È allarme femminicidi tra gli uomini con la divisa. “Servono controlli regolari”
I check- up sono previsti solo per comportamenti anomali. I funzionari di polizia: “Segnalateci i colleghi in difficoltà”
di Alessandra Ziniti (la Repubblica, 02.03.2018, p. 23)
Roma «In questo momento non sono sereno, è meglio che mi togliate la pistola » . Qualcuno lo fa. Volontariamente, responsabilmente, si presenta davanti ai medici e chiede di non correre il rischio di fare un gesto estremo. Ma quando, come è successo mercoledì a Cisterna di Latina, e prima a Genova, a Benevento, a Cosenza, a Caserta, a Padova, a sparare dentro le mura di casa è un’arma d’ordinanza, inevitabilmente si riaccendono i riflettori sull’efficienza delle verifiche delle condizioni psicologiche di chi indossa una divisa. Verifiche che, passato il test psicoattitudinale del concorso, non sono previste mai durante la carriera ma che, esattamente come è accaduto per Luigi Capasso, partono solo su segnalazione di un “ comportamento anomalo” e, nella maggioranza dei casi finiscono con un periodo di riposo e null’altro. Perché ritirare la pistola a un poliziotto, un carabiniere, un finanziere è un atto che come è ovvio ne ipoteca pesantemente la carriera e viene adottato in presenza di uno stato patologico conclamato.
Tuttavia il problema esiste. Perché il numero di uomini delle forze dell’ordine che puntano l’arma contro le mogli, e a volte i figli, spesso finendo col togliersi la vita, non è affatto trascurabile. Anche se il dato assoluto può sembrare poco significativo (siamo nell’ordine della decina di casi all’anno), è la percentuale che va presa in considerazione. In Italia gli uomini in divisa e che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile: ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117. E questo dato va letto alla luce di un altro: solo il 12,8 per cento dei femminicidi viene commesso con una pistola. Dunque, tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate.
È un dato che allarma soprattutto a fronte della mancanza di verifiche a cadenza regolare. I controlli, va detto subito, esistono e, come conferma il caso di Cisterna di Latina, la spia si accende. Funziona così: i responsabili di ogni ufficio - spiegano dal Viminale - hanno l’obbligo di segnalare qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto. Il quale viene immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri. Insomma: l’attività di monitoraggio esiste, ogni forza di polizia ha il suo nucleo di psicologi e le sue strutture. Quello che manca sono controlli di routine per tutti a scadenza regolare durante gli anni di carriera, anche in considerazione dell’attività che può essere fonte di particolare stress.
Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, che già anni fa ha sollecitato l’istituzione di questo genere di controlli, dice: «Dobbiamo subito dire che la sorveglianza sui comportamenti anomali c’è, ultimamente anche più stringente rispetto a venti, trent’anni fa. Posso assicurare che i controlli avvengono con una certa frequenza e anche nei confronti di alti funzionari. Però è anche vero che dissimulare le reali condizioni psicologiche davanti ai medici non è impossibile, e quindi adottare le valutazioni adeguate non è semplice».
Il controllo standard prevede un colloquio con la commissione medica e il cosiddetto “test Minnesota”, domande cui rispondere per misurare la buona immagine di sé che una persona tenta di dare, la consapevolezza dei propri problemi e i meccanismi di difesa messi in campo: con questi indicatori si valuta la vulneabilità del soggetto e la sua condizione esistenziale. Ma “barare” è possibile, come dimostra la storia di Luigi Capasso, dichiarato idoneo a continuare il servizio e a tenere l’arma d’ordinanza appena poche settimane fa proprio dalla commissione medica davanti alla quale era stato mandato in seguito alla sua crisi matrimoniale.
« Noi - è la posizione dell’Associazione funzionari di polizia - riteniamo che, comunque, sia utile rafforzare il meccanismo dei controlli con una sorta di “ tagliando” periodico per tutti, così da verificare l’idoneità psichica che al momento viene attestata solo al momento del concorso. Ma quello che è importante, ed è il nostro invito, è una svolta culturale all’interno delle forze dell’ordine perché chiunque vigili sui colleghi e segnali sempre, in tempo utile, qualsiasi comportamento anomalo. Noi siamo personale armato e, per chi ha una pistola in casa, cedere al lato iracondo del carattere e perdere il controllo è più facile».
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO: IL MAGGIORASCATO. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"...
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.01.2018)
ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza. Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo. Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante. La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet? O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DONNE, UOMIMI, E VIOLENZA: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
Cosa potremmo imparare dalle donne?
di Raúl Zibechi *
di Raúl Zibechi *
Prendersi cura dell’ambiente o della Madre Terra, è cosa di donne, secondo un recente studio della rivista Scientific American pubblicato a fine dicembre, dove si sottolinea che “le donne hanno superato gli uomini nel campo dell’azione ambientale; in tutte le fasce di età e in tutti i paesi”.
L’articolo intitolato “Gli uomini resistono al comportamento verde in quanto poco maschile”, giunge a questa conclusione dopo aver realizzato un’ampia indagine tra duemila uomini e donne statunitensi e cinesi. Lo studio afferma che, per i maschi, comportamenti tanto elementari come quello di utilizzare borse di tela per fare la spesa invece che quelle di plastica, è considerato “poco maschile”.
Il lavoro è incentrato sul marketing, con l’obiettivo di conseguire un risultato per il quale i maschi si sentano virili anche comprando articoli “verdi”, e arriva a conclusioni penose come quella secondo cui “gli uomini che si sentono sicuri nella loro virilità si sentono più a loro agio comprando verde”.
Tuttavia, riesce a tracciare alcuni comportamenti che consentono di andare un po’ oltre, nel senso di comprendere come il patriarcato sia una delle principali cause del degrado ambientale del pianeta. Donald Trump non è un’eccezione, nel negare il cambiamento climatico e incoraggiare comportamenti distruttivi, dalle guerre al consumismo.
Propongo tre punti di vista che possono essere complementari e che riguardano il mondo dei maschi, non affinché adottiamo comportamenti politicamente corretti (con la loro dose di cinismo e di ambiguità), bensì per contribuire al processo di emancipazione collettiva dei popoli.
Il primo è correlato al capitalismo di guerra o accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale che attualmente subiamo. Questa virata del sistema, che nell’ultima decade ha avuto un’accelerazione, non solo provoca più guerre e violenze ma un profondo cambiamento culturale: la proliferazione dei “maschi alfa”, dai pezzi grossi dei grandi e potenti Stati, fino ai boriosi machos dei quartieri che pretendono di marcare il loro territorio e, ovviamente, i “loro” dominati e, soprattutto, le dominate.
Mostrare forza muscolare geopolitica consente di avere una posizione in questo periodo di decadenza dell’impero egemonico, che viene integrata dalla comparsa di un’infinità di piccoli maschi alfa nei territori dei settori popolari, dove i narcos e i paramilitari vogliono sostituire il prete, il commissario e il “padre di famiglia” nel controllo della vita quotidiana degli abajo (quelli che stanno sotto, ndt).
Il secondo punto di vista viene insinuato dallo studio citato, quando conclude che “le donne tendono a vivere uno stile di vita più ecologico” poiché “sprecano di meno, riciclano di più e lasciano un’impronta di carbonio più piccola”.
Questo è direttamente correlato con la riproduzione, che è il punto cieco delle rivoluzioni, impegnate in un produttivismo a oltranza per, presumibilmente, superare i paesi capitalisti. La produzione manifatturiera e l’operaio industriale sono stati elementi centrali nella costruzione del mondo nuovo, da Marx in poi. In parallelo, la riproduzione e il ruolo delle donne non sono mai stati considerati.
Non possiamo combattere il capitalismo né il patriarcato, né prenderci cura dell’ambiente o dei nostri figli e figlie, senza assumere la prospettiva della riproduzione che è, precisamente, la cura della vita. Capisco che la riproduzione possa essere anche una questione degli uomini, ma questo richiede una politica esplicita in questa direzione, come sottolineano le comandantas che convocano l’incontro delle donne nel caracol Morelia.
Come dice il comunicato di convocazione del Primo Incontro Internazionale, Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano, gli uomini zapatisti “si occuperanno della cucina e di pulire e di tutto il necessario”.
Forse queste mansioni sono meno rivoluzionarie che stare in piedi su un palco “dando istruzioni sulla linea” (come diciamo nel sud)? Ci danno meno visibilità, ma sono i compiti oscuri che rendono possibili le grandi azioni. Per coinvolgerci nella riproduzione, noi maschi abbiamo bisogno di un forte esercizio per limitare il nostro ego, specialmente se si tratta di un ego rivoluzionario.
Il terzo è forse il più importante: cosa possiamo imparare noi, maschi eterosessuali e di sinistra, dai movimenti femministi e dalle donne?
La prima cosa sarebbe riconoscere che le donne, nelle ultime decadi, sono andate più avanti di noi. Quindi, essere un po’ più umili, ascoltare, chiedere, imparare a farci da parte, a stare in silenzio affinché altre voci possano essere ascoltate. Una delle questioni che possiamo imparare è come loro si siano sollevate senza avanguardie né apparati gerarchici, senza comitati centrali e senza la necessità di occupare il governo statale.
Come hanno fatto? Forse organizzandosi tra di loro, tra uguali. Lavorando sul patriarca interiore: il padre, il dirigente ben educato, il leader. Questo è molto interessante, perché le donne che lottano non stanno riproducendo gli stessi ruoli che combattono, poiché non si tratta di sostituire un oppressore uomo con un oppressore donna, né un oppressore di destra con un oppressore di sinistra. Per questo dico che sono andate molto avanti.
La seconda questione che possiamo apprendere è che la politica, in grande, in scenari ben illuminati e mediatici, con programmi, strategie e discorsi magniloquenti, non è altro che la riproduzione del sistema dominante. Loro [le donne], hanno politicizzato la vita quotidiana, il preparare il cibo, la cucina, il prendersi cura di figli e figlie, le arti della tessitura e della guarigione, tra le tante altre. Credere che tutto questo sia poco importante, che esistano gerarchie tra l’una e l’altra dimensione, è come continuare a cercare maschi alfa che ci emancipino.
Sicuramente ci sono molte altre questioni che possiamo apprendere dai movimenti delle donne, che ignoro o che dobbiamo ancora scoprire. Quello che importa non è avere la risposta già pronta, bensì predisporci con semplicità e umiltà a imparare da questo meraviglioso movimento di donne che sta cambiando il mondo.
Pubblicato su La Jornada con il titolo Patriarcado, Madre Tierra y feminismos
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
* Comune-info,->https://comune-info.net/2018/01/cosa-possiamo-provare-imparare-dalle-donne/] 11 gennaio 2018 (ripresa parziale senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico La Sala
Non Una Di Meno: «Abbiamo un piano ed è femminista»
25 novembre. Verso la manifestazione di sabato, a Roma e in altre piazze. Presentata la sintesi «contro tutte le forme di violenza di genere». I punti principali: centri antiviolenza, educazione, formazione, reddito garantito
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2017)
In contemporanea a Roma e Milano, ieri sera Non Una Di Meno ha presentato il primo «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere». Si tratta di una sintesi articolata in numerosi punti di cui conosceremo la più articolata stesura il 25 di novembre. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Non Una Di Meno - oltre ad aver annunciato la manifestazione di piazza (forte del grande riscontro dell’anno scorso) - renderà nota la versione completa.
SAREBBE tuttavia ingeneroso leggere questa primo confronto pubblico avvenuto ieri come una mera anticipazione poiché dal testo si evincono già, e si chiariscono, molti dei punti programmatici del progetto politico originario, inteso come articolata scommessa di tenere insieme più linguaggi, più pratiche politiche e - soprattutto - più esperienze intergenerazionali.
Il focus, oggi come allora, ruota intorno ai centri antiviolenza, «luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne».
Tutto, già allora, disposto in modo da sperimentare questo genere di scrittura collettiva (le mani si sentono diverse dalla elaborazione dei punti) che tuttavia è una delle forze del soggetto politico di Non Una Di Meno.
Se negli ultimi mesi vi sono state delle frizioni, spesso virtuali, ciò che ha resistito in questo lungo anno di lavoro sono state le decine di assemblee in più di 70 città, i 5 incontri nazionali, lo sciopero globale dello scorso 8 marzo, l’ostinazione di tenere tra le mani gli esiti dei tavoli tematici. È infatti da questi ultimi che emergono i nove punti, ciascuno dei quali è preceduto da un hashtag eloquente: #LIBERE DI.
La sintesi si apre con alcune considerazioni su femminismo e scuola, luogo d’elezione - insieme all’Università - in cui primariamente si può attivare quel processo educativo di contrasto alla violenza maschile contro le donne; insieme all’ «abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di un processo dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, che preveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi». Uno spazio anche per ricordare quanto siano importanti i finanziamenti pubblici e strutturali.
IL DOCUMENTO prosegue con la formazione «permanente e multidisciplinare» interna ai centri antiviolenza (figure professionali e qualsiasi elemento coinvolto dagli avvocati agli insegnanti eccetera). La formazione si allarga ad altre professioni, «dai media all’industria culturale», per cominciare a decostruire «narrazioni tossiche» e analfabetismi discriminatori altrettanto noti. Del resto anche la rappresentazione dello stesso modo di narrare è dirimente; lo sa anche Non Una Di Meno che infatti poco dopo ritorna sulla parola «tossica» per definire alcune storture produttrici di storie a sfondo sessista quando non addirittura del tutto incidentali (pensiamo ai casi di femminicidio).
La violenza, specificano, è invece strutturale perché «nasce dalla disparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente in famiglia e nelle relazioni di prossimità. (...) La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, e gli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi. Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta agli operatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico». Il terzo punto si concentra invece sulla libertà di autodeterminarsi e di disporre della propria salute, sia psichica che fisica, sessuale e sociale.
Dopo un necessario focus sulla piaga dell’obiezione di coscienza che ancora imperversa nel servizio sanitario nazionale, la seconda questione è relativa alla violenza ostetrica come una delle forme di violenza contro le donne. Sfruttamento e precarietà rappresentano invece i due poli dello sguardo sulla violenza economica; si leggono richieste tipo: «Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato e universale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dalla precarietà» e ancora «Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegno della maternità e della genitorialità condivisa».
QUALCHE importante riga, di carattere più teorico, è dedicata alla violenza biocida, ovvero quella ambientale e contro i viventi. L’adeguamento alle varie direttive europee in tema di violenza o la possibilità di accedere - per le donne che hanno subito violenza e stanno facendo un percorso di fuoriuscita - alla casa o a corsie preferenziali per i procedimenti civili o penali, è un altro punto. Appuntamento al 25 novembre per sapere il resto.
L’ANTROPOLOGIA E’ ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" ...*
Diritto all’aborto e basta violenza: le manifestazioni in tutta Italia
di Giusi Fasano (Corriere della Sera, 28.09.2017)
Oggi è la Giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Aborto, una parola in nome della quale si sono combattute battaglie politiche, si sono vissuti drammi, si sono coniati slogan. Parola che ancora oggi porta con sé problemi irrisolti se è necessario chiamare le donne all’adunata di piazza per difendere un diritto che dovrebbe essere ormai non soltanto acquisito ma anche garantito nella sua applicazione. E invece l’ultima relazione del ministero della Salute dice che a livello nazionale l’obiezione di coscienza fra i ginecologi è del 70,7%, con punte del 90% in alcune regioni.
Partono da questi dati gli appelli a scendere in piazza previsti per oggi dalla Cgil e dalla Rete Non Una di Meno. Due iniziative identiche ma separate che rimettono in circolo la protesta contro «il rischio che viene dall’alto tasso di obiezione di coscienza» (Non Una di Meno) o per «il diritto a vedere applicata una legge dello Stato di fatto svuotata dalla troppa obiezione» (Cgil).
Non Una di Meno rivendica «il diritto alla salute sessuale e riproduttiva» con un comunicato che invita a scendere «in piazza per l’aborto» e che si pone la questione: «Ancora?». L’argomento è «inserito nel contesto più ampio della libertà da ogni forma di violenza di genere». Sul banco degli accusati «anche la narrazione mediatica per cui il carabiniere che stupra è una mela marcia mentre lo straniero che stupra è il classico esempio della sua categoria». Lo schema si ripete anche per gli organizzatori della Cgil che annunciano, presidi, flash mob, volantinaggio e assemblee su aborto e «libertà di scelta e di autodeterminazione delle donne».
Ma la violenza domestica nel loro caso diventa tema per un giorno di protesta diverso, sabato 30 settembre. In quell’occasione, con lo slogan «Riprendiamoci la libertà», è il segretario generale della Cgil Susanna Camusso a «invitare tutte le donne a scendere nelle piazze italiane contro la violenza e la narrativa con cui stupri e omicidi diventano un processo alle vittime».
A tutto questo si lega l’appello online «avete tolto il senso delle parole» per chiedere agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura e alla scuola «un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura». Segue un lungo elenco di firme: nomi noti di diversi settori, dalla cultura alla politica, dalla letteratura allo spettacolo. Tutte donne.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Federico La Sala
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
Teologia e psicoanalisi (lacaniana)
Alleanza nel segno dell’umanesimo
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 07.06.2017)
Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e - persino - di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre». Un dialogo nei propositi non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi «Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia, pubblicato dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo», sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni. L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso, è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi, in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.
Il saggio
«Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia di Rossano Gaboardi è pubblicato da Glossa (pp. XXIV-620, e 50), la casa editrice della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale che ha sede a Milano. -La presentazione al volume - l’esito della tesi di dottorato di Gaboardi - è di Pierangelo Sequeri, dallo scorso agosto preside del Pontificio istituto «Giovanni Paolo II». Il francese Jacques Lacan (1901-1981) era psichiatra e filosofo. È stato uno dei maggiori psicoanalisti del Novecento. La sua psicoanalisi si basa sulla tesi secondo cui l’inconscio «è strutturato come un linguaggio»
L’immaginario del cattolicesimo romano.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
8 PUNTI PER L’8 MARZO: NON UN’ORA MENO DI SCIOPERO! *
8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle 2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio, che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia.
L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si combatte con l’inasprimento delle pene ‒ come l’ergastolo per gli autori dei femminicidi in discussione alla Camera ‒ ma con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative.
Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione dello sciopero generale.
Scioperiamo perché
La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne
Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri antiviolenza.
Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne
Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile sulle donne, da quella economica alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro a quella perpetrata sul web e sui social media. Pretendiamo misure di protezione immediate per le donne che denunciano, l’eliminazione della valutazione psico-diagnostica sulle donne, l’esclusione dell’affidamento condiviso nei casi di violenza familiare.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi
Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito, l’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali, nelle farmacie e nei consultori, l’eliminazione delle sanzioni per le donne che ricorrono all’aborto clandestino, il pieno accesso alla Ru486, l’eliminazione della violenza ostretrica e del controllo medico sulla maternità. Scioperiamo per sovvertire le norme di genere che ci opprimono, per avere più autoformazione su contraccezione e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, per ri-politicizzare i consultori, per aprirli alle esigenze e ai desideri delle donne, delle lesbiche, dei gay, delle persone trans e intersex, indipendentemente dalla condizione economica e fisica, dall’età e dal passaporto.
Se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un salario minimo europeo, perché non accettiamo di essere penalizzate per il fatto di essere donne, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case e nella cura in cambio di un salario da fame; un welfare per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le nostre vite.
Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera: permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli
Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro. Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia, l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti che ci vivono e lavorano da anni.
Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la formazione
Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola” (legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate.
Vogliamo fare spazio ai femminismi
Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente.
Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini
Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno #LottoMarzo
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DIRITTI
Giornata contro le mutilazioni genitali femminili: un portale web per fermare le violenze
Il portale "United to End Female Genital Mutilation", in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti. Perché il problema delle mutilazioni ormai riguarda riguarda anche gli Stati europei e l’Italia che con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime
di Silvia Bia (Il Fatto, 6 febbraio 2017)
Parlare delle mutilazioni genitali femminili, informare gli operatori e i professionisti che vengono a contatto con le donne che le hanno subite, creare una rete internazionale per cercare di combattere un fenomeno frutto di retaggi del passato che oggi è tutt’altro che marginale ed è diffuso in tutto il mondo. È l’obiettivo di Aidos (Associazione italiana Donne per lo Sviluppo), che il 6 febbraio 2017, in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, lancia una piattaforma web europea per cercare di porre fine a questa forma di violenza sulle donne e fornire un supporto alle vittime attraverso la formazione di operatori sanitari, personale dei centri di accoglienza e comunicatori che si trovano ad affrontare la tematica da vicino.
Perché il problema delle mutilazioni non riguarda più soltanto i paesi in cui vigono queste tradizioni, ma tutti quelli che, come gli stati europei e l’Italia, con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime, quelle che fuggono proprio per questo motivo dai loro paesi di origine o quelle che ancora devono sottostare a queste disumane imposizioni. Da qui l’idea della piattaforma Uefgm - United to End Female Genital Mutilation, presentata insieme ai rappresentanti di realtà che si battono per i diritti umani, tra cui Unhcr, Oms e il Dipartimento di Pari Opportunità.
Il portale, in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti che si interfacciano al problema delle mutilazioni genitali femminili, affinché il sistema di accoglienza, il mondo sanitario e sociale, quello legale e i sistemi di istruzione e di comunicazione degli stati europei possano rispondere alle esigenze delle ragazze vittime delle pratiche escissorie attraverso percorsi di formazione, interazione online, dibattiti e confronti tra i vari settori.
“Vogliamo creare una rete tra donne e tra associazioni per iniziare a rispondere senza stigmatizzazioni, stereotipi e preconcetti a una serie di quesiti sull’argomento e per fare chiarezza sulle mutilazioni genitali femminili, che continuano a essere un fenomeno poco conosciuto. - spiega Serena Fiorletta di Aidos - Finora c’era una mancanza di informazioni anche per le persone che prendono in carico donne che hanno subito queste pratiche. Era un limite, che ora cercheremo di colmare con questo lavoro”.
I numeri nel mondo e in Italia - Secondo i dati forniti dall’associazione, in tutto il mondo le donne che hanno subito pratiche escissorie sono più di 200 milioni, di cui oltre 500mila in Europa e circa 57mila in Italia. Ma ogni anno a rischio ci sono 3 milioni di bambine. Secondo il rapporto di Aidos, nel 2010 si stimava che in Italia vivessero circa 57mila donne e ragazze straniere tra i 15 e i 49 che erano state sottoposte al trattamento. Cifre che non sono cambiate nel 2016, in cui si contano in Italia tra le 46mila e le 57mila donne che hanno subito tali abusi. Tra le comunità più colpite, quella nigeriana, che rappresenta circa il 35 per cento del totale delle donne con mutilazioni in Italia, pari a circa 20mila persone. A seguire le egiziane, che rappresentano il 32,5 per cento con 18.600 donne coinvolte, mentre il 15 per cento di esse è originario del Corno d’Africa (dall’Etiopia 3.200 donne pari al 5,5 per cento). Infine l’Eritrea, con 2.800 donne per un totale del 4,9 per cento e la Somalia con il 4 per cento e 2.300 donne.
Cifre importanti, anche se per il momento non esiste un sistema di raccolta sistemico e coordinato che faccia un’analisi del fenomeno in tutto il territorio italiano. Secondo i dati Istat nel 2015 le donne residenti in Italia provenienti da paesi a tradizione escissoria erano 161.457, pari al 6,1 per cento sul totale delle donne straniere, anche se non sono comprese quelle con cittadinanza italiana e non ci sono dati certi, per esempio, sulle migranti irregolari o richiedenti asilo, che secondo l’Unhcr provengono per la maggioranza da Eritrea, Somalia e altri paesi dove la pratica è diffusa (Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali, Nigeria). Tra le migranti residenti, le principali comunità interessate dal fenomeno delle mutilazioni sono quella egiziana, senegalese, nigeriana e ghanese.
Cosa dice la legge - In Italia le pratiche escissorie sono un reato penale da una decina di anni che prevede la reclusione dai 3 ai 12 anni, con aggravanti se il reato è commesso su minori. La legge n.7 del 2006 vieta l’esecuzione di tutte le forme di mutilazione genitale femminile, fra cui la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche.
Inoltre il reato è punibile anche al di fuori del paese, se è commesso da cittadino italiano o uno straniero residente in Italia, o se l’intervento viene fatto su una cittadina italiana o donna residente in Italia. Con la legge 172 del 2012 poi, l’Italia ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale che contempla pene più severe per una serie di reati tra cui anche le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.
Dal 2007 inoltre chi subisce o è sotto la minaccia di mutilazioni genitali femminili può fare domanda di asilo per fuggire dal proprio paese. Le mutilazioni genitali femminili sono infatti comprese tra gli atti di persecuzione (sia passati che futuri) per cui si può fare domanda di asilo, poiché le pratiche escissorie sono considerate una forma di violenza morale e fisica discriminatoria di genere legata all’appartenenza al genere femminile per cui è stata riconosciuta la protezione internazionale nella forma dello status di rifugiato.
di Francesca Rigotti (DOPPIOZERO, 16 Dicembre 2016)
Dopo che Giuseppe l’ebreo fu tirato su dal pozzo e venduto dai suoi fratelli ai mercanti di schiavi Medianiti, e prima che venisse acquistato dall’eunuco Potifar per conto del faraone d’Egitto, molti, al mercato degli schiavi, si erano offerti di comprarlo. Tra loro una vecchia filatrice che mostrando alcuni gomitoli di lana colorata da lei stessa filata disse al sensale: «Ci sono anch’io, vendi a me quel giovanotto, lo desidero pazzamente, ecco qui il mio pegno». Il sensale rise: «Anima semplice, guarda che per questo gioiello di schiavo mi hanno offerto tesori; con il tuo filo non puoi comprarlo». «Lo so che in questo mercato io non lo compro» gli rispose la donna. «Mi sono messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato». Con questo magnifico apologo, tratto da una breve storia scritta fra i secc. XII e XIII dal mistico persiano Farid al-din ’Attar, inizia il primo capitolo/non capitolo del saggio/non saggio di Luisa Muraro dal titolo Al mercato della felicità (nuova edizione presso Orthotes di un libro uscito per i tipi di Mondadori nel 2009).
La storia dell’anziana donna che vorrebbe comprare il bel giovanotto da lei pazzamente desiderato mi è proprio piaciuta, sia per il rovesciamento dei ruoli di gender, sia per il messaggio finale: anche la vecchia ci ha provato, provarci è importante. Se non vai al mercato non avrai nulla. E fin qui tutti d’accordo. Ma anche se vai al mercato coi tuoi gomitoli di lana colorata, si potrebbe obiettare, non otterrai un bel niente e tanto meno Giuseppe in persona. E allora? Che cosa cambia? Cambia il desiderio, cambia l’intensità del desiderio, cambiano gli effetti del desiderio sulla realtà - afferma Muraro - perché il reale non è indifferente al desiderio. Vuol dire allora, continuiamo a domandarci, che se desideri molto, avrai? Avrai che cosa, la merce che desideri? O l’apologo sta soltanto a significare che la realizzazione (=il divenire reale) del desiderio avverrà soltanto se desideri non beni materiali, per i quali i gomitoli di certo non bastano, ma un altro tipo di oggetti: l’arte, la libertà, il rispetto, la cura?
Mi par di capire che Muraro intenda l’uno e l’altro. Da una parte ella esalta quella capacità che oggi molti glorificano con estrema facilità e faciloneria, ovvero la resilienza. Resilienza, termine preso in prestito dall’ingegneria e trasferito dal linguaggio della tecnologia dei materiali a quelli dell’ecologia, del linguaggio informatico e della psicologia; qui esso indica, nell’illustrazione offerta da Marco Belpoliti, «la capacità di un organismo di autoripararsi dopo un danno: un sistema operativo capace di adattarsi e resistere all’usura. La capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre». Dunque, in altre parole, l’abilità di far tesoro degli handicap e delle carenze per diventare campioni di qualcosa, dal giornalismo allo sport.
È una sorta di resilienza la dote della vecchia filatrice, il cui oggetto del desiderio, il bel Giuseppe, è posto talmente in alto da essere irraggiungibile? È un altro modo per esprimere la morale cattolica nel punto in cui essa esorta a fare di necessità virtù commisurando i desideri alle possibilità, e diventare una buona monaca, nelle parole di Alessandro Manzoni, anche se ti hanno monacato a forza contro la tua volontà?
I due messaggi di Muraro vengono rafforzati nel pensiero esposto nel secondo non capitolo del non saggio, Dei difetti fai profitti (se premetto le negazioni è perché il volume di Muraro non è una monografia tematica quanto una serie di considerazioni sparse ispirate a lavori precedenti e disposte lungo un percorso personale che l’autrice espone alla condivisione). Un «pensiero per tutti», lo chiama, che per tutti e tutte non è in quanto si ancora a due pilastri non da tutti/e condivisibili: la prospettiva fideistica cattolica con inclinazione alla mistica, primo, e, secondo, la posizione - all’interno del femminismo - definita di tipo «differenzialista».
Io per esempio non condivido né il primo né il secondo pilastro; per quanto riguarda il secondo, faccio parte di quelle donne legate alla «landa d’insensatezza» - così Muraro la definisce - del femminismo dell’eguaglianza e dell’emancipazione che esige parità dei sessi e non sopporta la logica religiosa (non necessariamente cristiana, in questo tutte le religioni monoteiste sono sorelle) della differenza/complementarietà dei sessi, che mi sembra una sorta di apartheid sessuale: diversi ma uguali, o uguali ma diversi, come preferite, voi di qua noi di là e tutti felici e contenti. Io donna con le mie caratteristiche (innate? naturali? genetiche?) che risiedono nell’attenzione, nella cura, nella passività, nella devozione o nell’accompagnamento (sic) e di là gli uomini col coraggio, la decisionalità, l’audacia, l’attività, la creatività. O anche tutti insieme, non importa, purché sia ribadita la differenza.
Per quanto riguarda il primo pilastro mi associo alla posizione di Virginia Wolf: noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà, sicuramente e decisamente non esiste alcun Dio; cui aggiungo, di mio, noi siamo la misericordia che mette un po’ di riparo al male; di Dio, se Dio ci fosse.
Ecco che allora il pensiero della differenza, già saldato con la dottrina della chiesa, si connette in Muraro col pensiero della resilienza o del far profitti da difetti, usando a proprio vantaggio il fatto di essere donne, minus habentes, dotate, lo dice Sant’Agostino, di parvus intellectus. Bello. Suona bene. (Hillary Clinton ci ha provato e le è andata male. Clinton ha perso perché ha affermato di essere donna ma essere una donna, e una donna di una certa età, non coincide con l’ideale vittorioso di forza, dinamicità e potenza che gli USA pretendono di incarnare). Il femminismo di Muraro con la sua logica del mercato della felicità esorta dunque a lottare contro il male di essere nate donne per vivere il femminile liberamente e incondizionatamente. Il suo è il femminismo filato col filo della resilienza e del far profitto del difetto, e tessuto al telaio della fede e della mistica. Che piace e ha successo. Non è il mio e di chi mi accompagna nella «landa d’insensatezza», ma pazienza.
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Luisa Muraro, Al mercato della felicità, revisione a cura di Clara Jourdan, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 178 (prima edizione: 2009 Arnoldo Mondadori Editore, Milano).
SCHEDA EDITORIALE.
In questo libro Luisa Muraro, tra le più importanti filosofe italiane, lancia una sfida: che cosa sarebbe la nostra vita senza grandi desideri? Si può desiderare ciò che sembra impossibile da ottenere? Nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che cresce e si espande ma non si cura di far crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco, traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo a patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande.
NON UNA DI MENO! LA MAREA IN MOVIMENTO
Non è questo il tempo di fare bilanci. Ciò che è accaduto il 26 e 27 Novembre a Roma è solo l’inizio di un nuovo e potente movimento femminista. Ora la sfida è tutta in avanti. Proviamo quindi a restituire il senso di quello che sta accadendo attraverso alcune parole-chiave, utili a leggere un processo in divenire, prorompente e promettente.. Continua a leggere...
Vai a foto, video e audio del corteo #NonUnaDiMeno
Nell’assemblea nazionale che si è svolta il 27 novembre a Roma più di mille donne hanno dato vita al primo momento di confronto e di scrittura del PIANO FEMMINISTA CONTRO LA VIOLENZA. Negli 8 tavoli tematici si sono tracciate le prime linee di quello che si candida a essere non solo uno strumento autorevole di riconfigurazione, nel merito e nel metodo, della definizione delle politiche istituzionali sulla violenza, ma anche e soprattutto uno strumento di trasformazione e di lotta complessivo, sui temi dell’autodeterminazione, della salute, della libertà di scelta, del lavoro, del welfare, dell’educazione, delle pari opportunità, dell’immaginario/narrazione.
Silenziata la manifestazione contro la violenza sulle donne: una brutta pagina dell’informazione
di Elisabetta Addis *
Sabato 26 novembre, un corteo allegro, ironico, di popolo, guidato dalle donne e formato da uomini e donne di tutte le età, ha sfilato per le vie di Roma per dire basta alla violenza di genere. Tra le centomila e le duecentomila persone. Chiedevano un cambiamento di prospettiva e di cultura, chiedevano politiche attive, e quindi denaro pubblico per creare reti di assistenza, educazione dei giovani e delle giovani al problema, strumenti giuridici nuovi e adeguati.
Una manifestazione che riempie Via Cavour dalla Stazione Termini ai Fori Imperiali, senza staccare vetrine e senza bruciare cassonetti, che non ha dietro nessuno sponsor, totalmente autofinanziata, in grado di fare proposte politiche, di interloquire con i governi e le autorità, non si improvvisa. È il frutto del lavoro che migliaia di persone in maggior parte donne hanno fatto negli ultimi anni in tutta Italia.
Lavoro in particolare sul femminicidio e sulla violenza di genere, e più in generale sui temi della eguaglianza di diritti e di risorse tra le persone dei due sessi. La violenza nasce anche dalla persistente svalorizzazione delle donne, dalla loro mancanza di reddito e risorse, di politiche sociali adeguate e di reti di sostegno.
Questa è la dimostrazione di una crescita politica sana, non corrotta, non chiusa nei palazzi, non solo parolaia, non gridata ma presente nel quotidiano. Una cosa, insomma, molto importante.
Bene. Peccato che per i principali media questa manifestazione non c’è stata. Come dice il comunicato firmato da Non Una di Meno e dalle altre organizzazioni che avevano indetto la manifestazione, "il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente".
E là dove se ne è parlato, se ne è parlato dopo la morte di Castro, dopo il maltempo, dopo la giornata della raccolta alimentare, e soprattutto, dopo aver parlato molto più a lungo della manifestazione per il no, che ha raccolto un centesimo delle persone, ma aveva alla testa un comico rabbioso, e di un altro evento molto meno frequentato sul si al referendum, tenutosi sempre nella capitale.
Perché evidentemente sarebbe una gran notizia che a una settimana dal referendum tutte e due le parti facciano eventi. Ma le donne in piazza no, anche nel servizio pubblico, non sono notizia. Sono velate, nascoste, sono invisibili, sono ascose, non sono importanti, non rilevano, ah già che vuoi che facciano le donne? Per tutto il giorno precedente abbiamo detto che, a una a una, si fanno massacrare, bruciare, attaccare con l’acido, picchiare, stuprare, che il loro destino da grandi è di finire all’ospedale picchiate dal marito.
Come facciamo ora a descriverle insieme, forti organizzate, allegre, ironiche, coi loro figli e coi loro compagni, con una loro azione e un loro pensiero politico?
È anche per via di un sistema informativo che non sa fare il suo mestiere, che blandisce i potenti di turno e i loro eventi e non informa sulla realtà, che ci ritrova poi con le élites politiche incapaci di capire quel che succede veramente nelle teste e nei cuori della gente, e con la gente che crede che la politica sia solo teatrino di palazzo. Questa è una pagina vergognosa del servizio pubblico e dell’informazione italiana, i responsabili se ne dovrebbero almeno scusare.
* Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Il femminismo non è morto. L’abbiamo visto in piazza a Roma
di Lea Melandri *
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità. Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è stato sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è.
Una manifestazione come quella di sabato 26, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, deve darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc... - o forse proprio per questa varietà - è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto e analizzato, sia sulle sue forme manifeste - stupri, omicidi, maltrattamenti - sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella «normalità», nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora.
Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. È il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme, a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie.
Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto. Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta di dire che il femminismo è morto o silenzioso;
che quando interviene una «parola pubblica» a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali;
che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono «vittime» della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice «Io decido» della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan - «Io decido», «Non una in meno» - per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei «nessi» che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
Non una di meno. «Adesso basta! Saremo una marea»
26 novembre in piazza. A Roma il 26 per la manifestazione e il 27 per i tavoli sul piano femminista contro la violenza maschile. «In Polonia, in Argentina, in Spagna gli scioperi e le proteste delle donne che si ribellano alla violenza e al femminicidio hanno paralizzato interi paesi»
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2016)
Invaderemo le strade di Roma e saremo marea. Lo promettono le realtà promotrici del progetto politico «Non una di meno», Rete IoDecido, D.i.Re - Donne in Rete Contro la violenza, Udi - Unione Donne in Italia, che sabato 26 alle 14 partiranno da Piazza della Repubblica e arriveranno a Piazza San Giovanni per una grande, forte e partecipata manifestazione.
È un percorso perché l’appuntamento di sabato non è da considerarsi occasione isolata a ridosso del 25 novembre, giornata internazionale della violenza contro le donne.
Nelle intenzioni delle protagoniste che in questi mesi si sono riunite in assemblee cittadine per poi confluire nei ragionamenti dell’incontro nazionale (lo scorso 8 ottobre alla Sapienza) c’è un pensiero più lungo. Un fermento plurale che ha molte voci, anche in dissonanza come il femminismo insegna, che contengono in sé molte pratiche.
Sono voci di autodeterminazione, di rabbia, rifiuto ma anche rilievo preciso sul peso di una parola pubblica contro la violenza maschile e il femminicidio.
Come si legge nell’appello alla manifestazione, «è una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata». Qualcosa che insomma si fa avanti in quanto dinamica chiara da indagare e scandagliare ancora. Soprattutto per essere detta, discussa, gridata non da vittime - come è nella più retorica e trita rappresentazione - perché non risponde a un’emergenza ma a una misura che si colma ogni volta che una donna viene uccisa o diviene s-oggetto di violenza.
Tantissime le associazioni (proprio ieri anche l’adesione della Cpo del Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana), singole e singoli che hanno dato il proprio sostegno in queste ultime settimane preparatorie. Le promotrici, che non gettano alle ortiche i guadagni che il femminismo ha portato all’interno della relazione fra i sessi, né si riconoscono in blocchi identitari, raccontano invece di un ribadire politico che dica che a questo punto, il 26 novembre, in piazza saranno moltissime e moltissimi; una marea di corpi a sostegno della grande e importante manifestazione delle donne.
Come in tutte le fasi preparatorie, si agisce in un terreno che non è mai liscio soprattutto quando a essere affrontato è un tema incandescente che ha al centro dei corpi e le loro differenze.
Nel volantino della manifestazione appare chiara la consapevolezza che in piazza, «senza confini e geografie», si mostrerà una lotta con radici lontane poiché «la violenza maschile sulle donne può essere affrontata solo con un cambiamento culturale radicale, come ci hanno insegnato l’esperienza e la pratica del movimento delle donne e dei Centri Antiviolenza che da trent’anni resistono a ogni tentativo delle istituzioni di trasformarli in centri di accoglienza neutri, negando la loro natura politica e di cambiamento».
Seconda tappa di «Non una di meno» sarà domenica 27 dalle 10 (Scuola Di Donato, via Bixio 83 Roma) per l’assemblea nazionale, con la costituzione di alcuni tavoli e workshop per l’approfondimento e la definizione di un «Piano Femminista contro la violenza maschile» e la discussione dei successivi appuntamenti.
Per maggiori informazioni e adesioni nonunadimeno.wordpress.com
In piazza ’Non una di meno’, per dire no alla violenza sulle donne
Il 26 novembre a Roma una grande manifestazione per ricordare le vittime di femminicidi e aggressioni, ma anche per rivendicare diritti e libertà. Un appello rivolto a tutti, uomini compresi. Le organizzatrici: "Dall’evento uscirà un piano antiviolenza"
di MARIA NOVELLA DE LUCA *
ROMA - L’appello è per tutte, ’Non una di meno’, come una voce sola, forte e grande, contro il femminicidio. Per Sara, bruciata viva a Roma, pochi mesi fa, per R. che aveva soltanto 13 anni ed è stata violentata dal branco a Melito Porto Salvo, mentre tutti giravano la testa dall’altra parte. Per le sessanta donne assassinate nel nostro paese nel 2016 e il 2016 non è ancora finito, per Carla, aggredita con l’acido dall’ex fidanzato e per fortuna sopravvissuta, ma anche per il lavoro, la parità dei salari, per la legge 194.
Per questo, e molto altro, migliaia di donne, e altrettanti uomini, figli, mariti, amici, padri, scenderanno in piazza il 26 novembre prossimo in una manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, in un corteo che si annuncia grande e imponente. Senza partiti né sindacati, senza ombrelli politici né sponsor istituzionali, "ma aperte a chiunque voglia partecipare" dicono le organizzatrici, e cioè l’Udi, l’Unione donne italiane, la ’Rete Dire’, che riunisce 77 centri antiviolenza, e ’Io Decido’, che riunisce i gruppi del femminismo romano. Un’idea nata la primavera scorsa, racconta Titti Carrano, avvocata e presidente della Rete Dire, "dopo l’atroce omicidio di Sara Di Pietrantonio", per reagire ad una sensazione, ormai di impotenza, contro il ripetersi senza sosta di omicidi di donne da parte di uomini, spesso mariti, compagni, fidanzati.
"Vogliamo scendere in piazza e riempire le strade di Roma, per riaffermare la libertà delle donne in tutti gli ambiti della vita, dal lavoro, sempre più precario, alla sessualità, ribadire il principio dell’autodeterminazione femminile. Oggi c’è un attacco globale ai nostri diritti - dice con chiarezza Titti Carrano - in Italia e nel resto del mondo, e da questa manifestazione usciranno proposte concrete, ad esempio un piano antiviolenza prodotto dai movimenti femministi, nato cioè dall’esperienza di chi ogni giorno, nei nostri centri, combatte sul campo l’aggressione maschile contro le donne".
Perché la verità è che fino ad ora né la legge del 2013 contro il femminicidio, né il piano antiviolenza prodotto dalla commissione Pari Opportunità, hanno dato i risultati sperati. Né sul fronte della dissuasione (il numero dei femminicidi non diminuisce), né sul fronte della repressione. Sappiamo che una vittima su quattro aveva denunciato il suo persecutore, eppure la strage non si ferma. E nulla è accaduto sul fronte della prevenzione, ricordano le organizzatrici, i progetti di educazione alla parità promessi dal ministero dell’Istruzione non sono mai partiti, per non parlare di tutti quei tentativi di educazione di genere, sepolti dalle polemiche dei movimenti pro-life.
Ma il titolo della manifestazione che partirà il 26 novembre alle 14 da piazza della Repubblica a Roma, per confluire in piazza San Giovanni, ’Non una di meno’, ricorda anche le stragi di donne in tutto il mondo, ed è diventato un logo planetario nella battaglia dei diritti. Dai massacri di Ciudad Juarez, alle donne scomparse e uccise in Argentina (il caso di Lucia Perez, 16 anni torturata fino alla morte da tre uomini e poi abbandonata in strada), ma anche alla grande protesta delle donne polacche contro la legge che voleva, ancora una volta, rendere illegale l’aborto.
Alla testa del corteo ci saranno le donne, le ragazze, le bambine, dietro tutti gli altri. Non ’una’ infatti, ma nemmeno ’uno’ di meno.
verso la mobilitazione di novembre *
Sono due le giornate che quest’anno a novembre ospiteranno a Roma iniziative e dibattiti contro la violenza di genere e il sessismo, e che apriranno la strada "a un processo di mobilitazione ampio per affermare l’autodeterminazione e la libertà femminile".
Il 26 novembre le donne scenderanno in piazza per presentare il "piano delle donne femministe contro la violenza di genere".
La giornata del 27 novembre ospiterà invece tavoli tematici e workshop "per elaborare le proposte su temi che spaziano dal diritto alla salute, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo, al lavoro, al welfare, al femminismo migrante".
A renderlo noto, sono le oltre cinquecento donne, provenienti da tutta Italia, che l’8 ottobre scorso si sono date appuntamento all’interno dell’assemblea "Non una di meno", nelle aule della facoltà di psicologia dell’Università Sapienza di Roma. Un percorso nazionale contro la violenza maschile sulle donne già iniziato e in evoluzione che conta sulla presenza della rete romana Io decido, che riunisce diverse associazioni e collettivi femministi di Roma, dell’UDI (Unione Donne in Italia), e del’associazione D.I.Re (Donne in rete contro la violenza), che riunisce più di 77 centri antiviolenza in Italia e che proprio in questi giorni ha lanciato "Videiamo la violenza", concorso video europeo rivolto ai giovani tra i 18 e i 25 anni in collaborazione con WAVE (Women Against Violence Europe).
La violenza ha diverse forme, ricordano le donne del comitato "Non una di meno", e il fenomeno è complesso e strutturale, e non può essere affrontato con politiche emergenziali e securitarie. Le donne del comitato hanno più volte ricordato le battaglie portate avanti dalle donne polacche, argentine, curde "che hanno saputo mettere in crisi la torsione antidemocratica in atto a livello globale". La violenza, spiega infatti il comitato, è prodotta anche "da un sistema politico, economico, culturale e sociale che genera forme di sessismo, trans-omofobia e razzismo".
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InGenere, 14/10/2016 - Segnalaci la tua iniziativa locale, scrivi a redazione @ ingenere.it
Governare il mondo o cambiarlo?
di Lea Melandri *
Il femminismo, come disse lucidamente Rossana Rossanda nelle sue conversazioni su Radio Tre alla fine degli anni Settanta (Le Altre, Feltrinelli 1978), era stato il sintomo più evidente della crisi della politica e l’embrione del suo possibile ripensamento. Chi se ne ricorda più? Confrontato con la “persona” e con la vita tutta intera, così come emergevano dall’esplorazione e dai racconti di soggettività restituite finalmente alla storia, il lessico con cui si erano definite fino a quel momento le istituzioni pubbliche appariva per la prima volta in tutta la sua astrattezza.
Inevitabile che, nel sovvertimento di un ordine protrattosi per secoli, che aveva diviso e contrapposto, subordinato secondo criteri gerarchici di complementarità privato e pubblico, corpo e polis, cadesse anche il dilemma che aveva tenuto fino ad allora l’emancipazione femminile nel limbo di una cittadinanza imperfetta: da un lato, battaglie di parità e diritti; dall’altro, pressione per far riconoscere una specificità della condizione della donna - madre, moglie, responsabile dei bisogni della famiglia -, che doveva essere valorizzata socialmente e come tale fatta oggetto di tutela.
Uguaglianza e differenza, alla luce della critica al dualismo sessuale, apparivano non altro che lo specchio di quel potere maschile che aveva creduto di poter confinare nella natura, insieme al destino dell’altro sesso, esperienze cruciali dell’umano. Sono passati alcuni decenni da quando una pratica politica anomala e sorprendente come l’“autocoscienza” ha portato sulla scena pubblica una cultura “antagonista”, ostile a un processo di “integrazione” della donna che avrebbe finito - come si legge già in un documento del Gruppo Demau del 1967 (Daniela Pellegrini) - “per obbligarla a trovare un compromesso tra due sfere definite finora in modo decisamente separatistico”, dal momento che non era in discussione “il suo ruolo primario di riproduttrice sessuale”. (I movimenti femministi in Italia, Savelli 1977)
Dal dibattito su donne e rappresentanza politica, che si è venuto affermando nelle tante realtà associative femminili e femministe presenti nelle città italiane, e di riflesso anche nei media, si ha l’impressione che insieme alla memoria di una straordinaria svolta culturale e di uno sguardo inedito sulle molteplici implicazioni del conflitto tra i sessi, si stia perdendo anche la capacità di vedere i profondi cambiamenti avvenuti nella nostra società, proprio a partire da quelli che negli anni Settanta erano solo segnali sintomatici, avvertimenti, esigenze radicali del presente che si sarebbero sicuramente ripresentate.
Oggi, a fronte di uno svelamento evidente dei legami che ci sono sempre stati tra sessualità e politica, interessi, bisogni e desideri personali e istituzioni - una contaminazione di cui parla l’antipolitica populista, l’aziendalizzazione dello Stato, l’uso privato del denaro pubblico, il declino delle forme tradizionali della partecipazione, il saccheggio che il consumismo sta facendo della vita intima -, colpiscono prese di posizione, riguardo alla volontà delle donne di “contare di più” nei luoghi decisionali del potere, che sembrano riportare indietro il tempo e la coscienza critica creata pazientemente dalla storia del femminismo: considerazioni contrastanti sulla questione donne e politica, ma accomunate da logiche di genere, sia pure con un singolare ribaltamento di parti. Il rimprovero che viene fatto alle femministe è la facilità con cui i loro gruppi continuano a “dividersi, frammentarsi, disgregarsi”, allontanandole dall’obiettivo di una presenza paritaria in politica.
Ciò di cui le donne mancherebbero, per incidere sulla vita pubblica come forza collettiva, sarebbe la “coesione” e la “compattezza” che ha permesso agli uomini di conquistare potere e di spartirselo. Il prezzo, così come viene solitamente descritto, ricorda l’aspetto più deteriore della politica maschile: risparmiare o rinviare a migliore occasione la critica, anche quando si è in disaccordo, sostenere candidati del proprio schieramento anche quando non li si considera idonei al loro ruolo, limitandosi a “detestarli silenziosamente”, rinunciare alla “schiettezza” e alla voglia di esprimere le proprie emozioni, mantenere la distanza “tra l’amore e la civile convivenza”.
Non si può non restare perplessi di fronte a un’idea di convivenza che sembra tutto fuorché “civile”, fatta di reticenze e odi mascherati, ma soprattutto di compattezze costruite sull’irrigidimento di fedeltà e appartenenza, che come sappiamo hanno sempre avuto come contropartita l’esclusione dell’altro, del diverso, vissuto come un pericolo per l’integrità del gruppo.
Per un movimento che ha avviato con tanta chiarezza quarant’anni fa la critica a ogni forma di dualismo - dalle differenze tradizionali di genere alla separazione tra il cittadino e la persona, tra la politica e la vita quotidiana - e la ricerca di “nessi” tra realtà astrattamente contrapposte, è incomprensibile che si possa cancellare la storia di secoli nell’analisi del comportamento femminile, o ignorare i cambiamenti che sono intervenuti tra privato e pubblico, famiglia e Stato, ruolo maschile e femminile, e le risposte che la cultura femminista nella sua radicalità può dare agli interrogativi del presente, come ripensamento della politica, della rappresentanza, dell’idea stessa di potere.
*-*** Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna 2016 Facciamo Comune insieme. È tra le autrici del quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole (edizioni Comune). L’articolo di questa pagina è apparso per la prima volta su Gli Altri nell’aprile 2012)
* Comune-info, 13 novembre 2016 (ripresa parziale).
FEMMINISMO
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori . Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale? Ne parleremo in Triennale l’11 settembre
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
[...]
L’APPUNTAMENTO IN TRIENNALE
Elena Tebano affronterà l’argomento al Tempo delle Donne cercando di rispondere alla domanda: Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale delle donne? Oggi il loro piacere è davvero più diffuso e riconosciuto nelle relazioni come nella cultura comune?
L’appuntamento è al Triennale Lab, domenica 11 settembre, alle ore 11.30
LA DONNA CLITORIDEA AI TEMPI DI YOUPORN
Il Femminismo e la rivoluzione sessuale: un bilancio
Con Barbara Mapelli, coautrice di Infiniti amori (EDS), Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di Irriverenti e libere (EIR), e Yasmin Incretolli, autrice di Mescolo tutto (Tunuè)
Kristeva: uniti, non sottomessi Come rifondare il matrimonio
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 08.09.2016)
Una 25enne borsista bulgara arriva a Parigi, nel 1966, con cinque dollari in tasca, una non comune padronanza del francese e «idee tanto coraggiose quanto vaghe». La brillante studiosa Julia Kristeva chiede un incontro a Philippe Sollers, di pochi anni più grande e già fondatore della rivista Tel Quel, quella di Roland Barthes, Umberto Eco e alcuni altri monumenti. Julia e Philippe non si lasceranno più, l’estate prossima festeggeranno cinquant’anni di matrimonio. Allo loro unione hanno dedicato «Del matrimonio considerato come un’arte», non una ricetta ma una riflessione su «come vivere insieme, senza sottomissione dell’uno all’altro e senza negare le differenze».
Intanto, Julia Kristeva non crede nella coppia fusionale. «Nella storia recente della cultura francese abbiamo due o tre esempi di coppie date come modello, coppie surrealiste come Nadja e André Breton, dove la donna è allo stesso tempo mito, strega e vittima, oppure la coppia contestataria Beauvoir e Sartre, e poi ancora Elsa Triolet e Aragon, incensati dal partito comunista. Poi si è capito che questi miti si fondavano su errori, abbiamo conosciuto la sofferenza di Beauvoir rispetto alla mancata maternità, o la fuga di Aragon verso l’omosessualità. Non c’è un modello possibile, quel che conta è mettersi in discussione. Io e Philippe abbiamo subito preso la misura delle nostre singolarità ed estraneità, e abbiamo provato a fare della vita di coppia uno spazio di pensiero. Che ciascuno prosegua nella la sua creatività, che si discuta insieme. Coesistenza di due estraneità, rispetto dell’alterità dell’altro, e malgrado tutto cura, cioè preoccupazione dell’altro».
Sulla fedeltà, Kristeva ha delle frasi fulminanti: «Il sentimento di fedeltà risale all’infanzia e al suo desiderio di sicurezza. Personalmente ho ricevuto i miei pegni di fedeltà quando ero bambina». E ancora: «Ci possono essere “all’esterno” delle relazioni sessuali e sensuali che rispettano il corpo e la sensibilità del partner principale. È questa la fedeltà. E non stare sempre insieme, o non conoscere alcun altro uomo o alcuna altra donna». Qual è il ruolo del narcisismo? «Un incontro si basa sempre su un magnetismo sessuale e su una fascinazione, e in questa fascinazione c’è anche la capacità di tendere all’altro uno specchio gratificante. Tu ti vedi in me, io mi vedo in te e i nostri ideali, i nostri narcisismi si incrociano e si incontrano».
Guardando al suo matrimonio, secondo Kristeva «c’era una possibilità su non so quanti miliardi che una donna nata nell’Europa comunista percorresse una linea di pensiero che incrociava l’intelletto di un giovane borghese di Bordeaux. Ma in quella Francia che usciva dalla guerra d’Algeria alcuni intellettuali si interessavano allo strutturalismo, al formalismo russo, alla filosofia post-marxista. Sollers ha incontrato in me una ragazza che veniva dal comunismo del disgelo, l’era di Krusciov contro Stalin, l’apertura all’umanesimo dell’Illuminismo, la rivalutazione di Diderot, Voltaire, Rousseau, il nuovo romanzo dopo Sartre e Beauvoir sul quale avevo appena fato una tesi. Questa corrispondenza intellettuale si è tradotta nella realtà grazie anche al caso. Non ci saremmo mai incontrati se il capo del mio istituto in Bulgaria, un comunista puro e duro, non si fosse assentato permettendo a un altro professore di presentarmi all’Ambasciata di Francia per farmi assegnare la borsa di studio».
Nei giorni scorsi in Italia si è molto parlato di maternità, dopo una discussa campagna della ministra per la Salute. «La maternità ha scosso le femministe, le ha divise. Simone de Beauvoir diceva che un bambino era un tumore che divora la donna, che avere un bambino significa sottomettersi al patriarcato.
All’estremo opposto c’è l’idea di sottomettere la donna al ruolo di riproduttrice della specie.
Bisognerebbe evitare entrambi gli estremi e indagare a fondo la questione della passione materna. Ma non abbiamo abbastanza strumenti, l’umanesimo secolarizzato non ha un discorso sulla maternità, siamo vittime sia del rigetto, sia del discorso religioso, con il modello della Vergine Maria, il burqa o non so che altro. È la prossima sfida delle scienze umane accompagnare le donne nel loro desiderio di maternità, o di non maternità».
Le donne e il femminismo al bivio della maternità
di Lucetta Scaraffia (Corriere della Sera, 08.09.2016)
Questo articolo si inserisce nel confronto - suscitato dall’inchiesta giornalistica «Sesso e amore» sviluppata dal Corriere - che sarà al centro della manifestazione «Il Tempo delle Donne» in programma alla Triennale di Milano da domani all’11 settembre.
M i è capitato di recente: una ragazza bella, intelligente, molto impegnata nella sua professione, raccontandomi la situazione che stava vivendo, mi ha detto: «sono tre mesi che non batto chiodo» alludendo cioè all’assenza di rapporti sessuali recenti. Un linguaggio che un tempo - ma neanche poi tanti anni fa - avrebbe usato solo un soldato con un commilitone. E, dal momento che la conosco bene, so che è una ragazza che sognerebbe solo un amore vero, e una famiglia con dei figli, ma sa bene che la cultura post-rivoluzione sessuale non le permette di esprimere pubblicamente - ma forse neppure a se stessa - questa aspirazione, se non a costo di vedersi definita come una retrograda antiquata.
Proprio lei è l’esempio più chiaro della situazione delle giovani donne a rivoluzione sessuale realizzata: possono fare di tutto, nessuno si permette un giudizio su di loro partendo dal loro comportamento sessuale - e questo è senza dubbio un bene - ma questa libertà le rende veramente libere? O - se ancora è possibile parlare in questi termini - più felici? Per esempio più felici delle loro nonne, che vivevano in mezzo alle proibizioni ma che potevano dire a se stesse e agli altri che aspiravano all’amore e alla famiglia? Con la pillola, le donne hanno potuto vivere una libertà sessuale fino ad allora sperimentata solo dagli uomini, ma si sono trovate a vivere un tipo di rapporti modellati sulla sessualità maschile. Promiscuità, leggerezza, superficialità di relazioni. Rapporti che forse non erano poi così congeniali alla sessualità femminile.
Per di più si sono dovute assumere, con la pillola, tutto il peso della contraccezione, anche a costo di pagarne un prezzo non irrisorio per la loro salute. Non è un caso che oggi, in Francia e in area anglosassone, molte giovani donne si rifiutino di utilizzare la pillola per salvaguardare la loro salute, e preferiscano ricorrere a metodi naturali. Sì, proprio quei metodi naturali che proponeva Paolo VI nell’ Humanae Vitae, suscitando al tempo sghignazzi e irrisione.
Del resto, bisogna anche considerare che i profeti della «liberazione sessuale» erano tutti uomini - da Reich a Kinsey - mentre alle donne era stato lasciato solo il compito di confermare le loro teorie con libri autobiografici. Le donne, probabilmente, non avrebbero mai sviluppato un programma utopico di tal portata sulla sessualità, conoscendone troppo da vicino anche gli aspetti negativi - che ovviamente non consistono solo nel timore di una gravidanza - che non sono certo stati cancellati in questi decenni di liberazione. Ma certo il femminismo degli anni Settanta ha in grande misura fatto propria questa utopia, travestendola da utopia di liberazione della donna. Di liberazione da cosa? In primo luogo liberazione dalla maternità, attraverso due strade che sono state pagate dalle donne sul loro corpo, cioè la pillola e l’aborto.
Oggi le giovani donne, che hanno tutta la libertà sessuale che vogliono, non hanno quella di fare figli, soprattutto di fare figli da giovani. E non solo perché il mercato del lavoro non glielo permette, ma anche perché non trovano facilmente giovani maschi che abbiano il desiderio di assumersi la responsabilità di fare i padri.
In passato, i maschi diventavano padri nel matrimonio, che coincideva più o meno con l’inizio della loro vita sessuale: oggi non hanno certo bisogno di sposarsi per avere rapporti sessuali, e in più non hanno problemi di tempo. Per loro infatti non esiste l’orologio biologico che invece continua a condizionare la possibilità di diventare madri per le donne, che non è superato neppure grazie ai progressi della procreazione assistita. I tempi della fecondità femminile sono rimasti invariati, infatti, ma la società sembra non tenerne conto, non vuole vedere questa nuova occasione di differenza fra i sessi che penalizza le donne.
In sostanza le donne, nei Paesi occidentali, stanno pagando il mancato riconoscimento culturale e sociale attribuito alla procreazione. Proporre il dilemma fra creazione di qualsiasi tipo (la creazione di una linea di abbigliamento, di un nuovo piatto o di un marchio pubblicitario...) e procreazione - e svalutando la seconda a favore della prima - significa, infatti, negare valore al ruolo biologico della donna e spingerla ad assumere un ruolo maschile. Mentre la procreazione dovrebbe essere considerata una ricchezza essenziale per tutta la comunità umana.
L’antitesi alla libertà sessuale, intesa sempre, in fondo, come libertà dalla procreazione, non è solo il Fertility day proposto dalla ministra della salute Lorenzin. In Francia ci sono filosofe femministe che stanno elaborando una visione nuova e critica del femminismo cercando di affrontare la questione fondamentale: come rinnovarsi senza perdere il senso profondo e ricco delle relazioni femminili tradizionali? Senza condannarci a una società fredda e dominata dall’utile, dall’utopia del piacere?
Come fare perché le donne, anche dal punto di vista del comportamento sessuale, non diventino «un uomo come un altro» ma possano restare se stesse? C’è ancora molto lavoro da fare, molto da riflettere senza lasciarsi incantare dalle ideologie del passato, che ormai hanno fatto il loro tempo, e in sostanza hanno fallito la loro promessa utopica di felicità.
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato - contro la stirpe, per altro: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.
L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.
«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene - racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte -. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».
Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità?
Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore - spiega ancora Mapelli - è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».
Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella - sostenuta dalle teoriche radicali americane degli anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin - che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile.
Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.
Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto.
«L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati - dice Todella -. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».
Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata - afferma -, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato». Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».
Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).
È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista - rileva Bonomi Romagnoli -, dalle ragazze del Sexishock che nel 2001 mettono al centro del loro discorso politico la parola “desiderio” e aprono il primo sexy shop autogestito da donne per donne in Italia, ai femminismi più radicali che pongono in maniera problematica la questione dell’identità sessuale, sostenendo che è fluida e non classificabile una volta per sempre.
Il femminismo d’altronde non può non occuparsi di sesso, perché di fatto un sesso ha ancora potere su un altro, perché si continua a voler dettare norme sulle sue pratiche (vedi il «fertilityday») e perché le relazioni e i rapporti sociali ci sono a partire dai rapporti di forza fra i generi. Affinché siano sane è necessario che la sessualità attenga alla consapevolezza e autodeterminazione dei singoli». Con una consapevolezza nuova rispetto agli anni 70: la ricerca di una sessualità più autentica è una liberazione non solo per le donne ma anche per gli uomini.
di Vito Mancuso (la Repubblica, 26.08.2016)
LA QUERELLE sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare?
Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in questo articolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei).
Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.
L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime » (4,34).
Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile.
Da qui, come già per san Paolo, per il Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole » (33,59).
Appare quindi chiaro che, sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima.
Non è certo un caso che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa.
Dietro il burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna » e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese.
È semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta, cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente che ne consegue.
Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si pensi alla storia della santità e della mistica.
Il punto essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire.
Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono convertire ». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri punti di arrivo cui continuamente tendere.
L’imam di Firenze ha accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri stili di vita e di abbigliamento.
L’islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.
“Storia delle donne filosofe”
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
*
Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
Coprire una donna vuol dire calpestare la dignità di tutte
Una comunità dove manca lo sguardo femminile, dove il volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione dallo spazio pubblico
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 17.08.2016)
Si chiama burkini la versione meno castigata del burka, concepita per le donne musulmane che vanno in spiaggia. Si vede qualcosa in più: i piedi, le mani, parte del volto. Sarebbe troppo definirlo un costume da bagno. Il nome fa pensare ovviamente al bikini. E forse non è azzardato vedere nel burkini una risposta identitaria ai due pezzi conquistato a fatica dalle donne occidentali: voi vi scoprite - noi ci lasciamo coprire.
Può darsi che un burkini sia anche bello. Alcuni sono perfino colorati. E c’è chi non ha mancato di ironizzare sulla forte carica erotica di quei drappeggi che, una volta nell’acqua, fanno trapelare le forme del corpo. Viene in mente l’immagine di Ursula Andress quando, nel film 007 Licenza di uccidere, esce dal mare con la muta da sub. Non è un classico dei fantasmi maschili? Come la t-shirt bagnata. Perché questa ipocrisia?
Certo è, però, che l’immagine di una donna in burkini sulla spiaggia può inquietare e irritare per numerosi motivi. Non stupiscono, dunque, le ordinanze emesse dai sindaci che lo hanno vietato, prima a Cannes, poi a Villeneuve-Loubet, sulla Costa Azzurra. Vietare, si sa, è sempre un gesto odioso. Ma a poco più di un mese dalla strage di Nizza il burkini viene percepito da molti francesi come una provocazione inopportuna che potrebbe contribuire a esasperare gli animi. Da un canto la nudità disarmata dei bagnanti, che nonostante tutto vanno in spiaggia, dall’altro quel costume-armatura che copre, fin quasi a nascondere, la donna che lo indossa.
Alla provocazione si aggiunge inoltre il segno di un’appartenenza ostentata in un modo che, nella Francia repubblicana, non può non apparire indisponente (ma lo sarebbe anche da noi). Un costume integrale che richiama immediatamente l’integralismo. Questa è la differenza rispetto ad altri simboli religiosi, dalla kippàh alla croce, che vengono invece consentiti. Si intuiscono, poi, i motivi di sicurezza, sia perché non sarebbe difficile nascondere armi, sia perché basterebbe un paio di occhiali da sole per rendere completamente irriconoscibile l’identità.
È allora difficile comprendere le proteste sollevate da quelle organizzazioni, a cominciare dalla Ligue des Droits de l’Homme e dal Collectif contre l’islamophobie en France, che vorrebbero leggere nel divieto del burkini un caso di razzismo islamofobo. Stanno difendendo il diritto delle donne o non, piuttosto, il dovere che è loro imposto dagli uomini? La risposta viene dalle immagini di Manbij, la città siriana appena liberata, dove le donne si strappano gioiosamente il velo del burka, lo calpestano o lo danno addirittura alle fiamme. In questo periodo, inquietante e drammatico, in cui da uno sfondo di violenza, a stento immaginabile, riemergono le ragazze rapite da Boko Haram, l’abbraccio tra una donna velata e una soldatessa curda è, in tutto il suo contrasto paradigmatico, il sigillo di una speranza a cui non vogliamo rinunciare.
Resta la questione del burka, che la Francia ha vietato nel 2010 e su cui, invece, la Germania si mostra titubante rinviando per ora ogni decisione. Non si tratta solo di sicurezza. Né di diversi stili di vita.
Piuttosto è il corpo della donna che, secondo l’ottica integralista, non deve comparire pubblicamente, perché è «carne scoperta», esposta, e potrebbe provocare, fuorviare gli uomini. Tanto più insopportabile è il velo che abolisce il volto della donna. Una donna coperta dal burka è protetta, difesa, venerata? O non è forse mortificata? Esclusa soprattutto dalla reciprocità del «faccia a faccia»?
A essere danneggiata non è solo la donna, la cui dignità viene calpestata, ma tutta la comunità che sul «faccia a faccia» reciproco si fonda. Una comunità dove manca lo sguardo delle donne, dove il loro volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione delle donne dallo spazio pubblico.
La storia
Cento metri di libertà, la saudita Kariman ha già vinto
di ALBERTO CAPROTTI,
INVIATO A RIO DE JANEIRO *
Kariman è lì, un po’ incerta. Ai blocchi dei cento metri. Le altre esibiscono braccia lucide, sguardi aggressivi, body sgargianti. Lei invece è una tartarugona impacciata, che non sa dove mettere piedi e mani. Addosso lo hijab d’ordinanza. Tutto nero, da capo a piedi, senza sponsor ovviamente, senza scritte. La sola ad essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare gli occhi.
Si chiama Kariman Abuljadayel, la sua bandiera è quella dell’Arabia Saudita. E a guardarla viene in mente che, piaccia o meno, è lei il simbolo del futuro, della donna musulmana che si mette a correre. Ma anche del passato, che ti permette di arrivarci ai Giochi ma vietandoti di vestirti come le altre, negandoti la cultura, l’informazione.
Non era una batteria importante la sua: la terza dei 100 metri donne. Quella delle meno attrezzate, diciamo così. Kariman parte lenta, passi pesanti, un fagotto nero che resta indietro. A metà pista è ultimissima, poi rimonta, fuori dall’inquadratura della tv. Bisogna alzare gli occhi dallo schermo per trovarla: quando la Wingfield, che è di Malta, lei pure terzo mondo della velocità, taglia il traguardo prima, Kariman è quasi 5 secondi dietro. Un secolo su questa distanza. Ma non arriva ultima: risale, e si lascia di poco alle spalle la Tewaaki, atleta del piccolo stato del Kiribati.
Geografie lontane, donne di un altro mondo. Quelle saudite, Kariman e altre tre, a Rio ci sono venute solo grazie a un invito speciale da parte del Cio. Le norme religiose in Arabia Saudita non consentono alle donne di praticare sport e, quindi, partecipare a eventi di qualificazione. L’unico modo per competere alle Olimpiadi è su invito del Comitato olimpico, che richiede da alcuni anni che ogni delegazione abbia almeno una donna. I sauditi hanno accettato, controvoglia. Assicurando che in nessun caso saranno violate le leggi religiose. «Continueremo ad agire in accordo con le norme governative e religiose. E così faranno anche le nostre atlete», hanno comunicato alla vigilia dei Giochi. Fissando tre condizioni: indossare un adeguato abbigliamento per la religione, l’approvazione da parte del marito della loro presenza; non entrare in contatto con gli uomini.
Questo c’è dietro quella corsa impacciata e splendida. Che anche per questo ha un senso enorme. Peccato solo che chi gareggiava con lei, non l’ha capito. Tagliato il traguardo, nessuna si è fermata ad abbracciare Kariman. Sarebbe stato favoloso se anche le altre avessero perso qualche istante con un fagotto che non correrà mai veloce, ma che è stata costretta da un governo fatto da uomini, a non partecipare in maniera indipendente alla vita. Avrebbe voluto dire che questa atletica è anche capace di ricordare i traumi, le difficoltà, le arretratezze del mondo. E di farsene carico, almeno per cento metri di strada.
Casa delle donne di Kobane, molto di più di un centro antiviolenza
di Matteo De Fazio (Riforma, 04 agosto 2016)
Sta per cominciare la ricostruzione della Casa delle donne a Kobane, spazio di condivisione e solidarietà, distrutta dai miliziani di Daesh durante l’occupazione della città siriana. Il progetto di ricostruzione del luogo di scambio ed empowerment femminile è stato ideato dall’associazione romana Ponte Donna ed è stato finanziato anche dall’Otto per mille della Chiesa valdese: «siamo partite con un utopia, siamo tornate con un progetto concreto», racconta Carla Centioni, presidente dell’associazione.
Perché Kobane?
«Ponte Donna si occupa di donne e nello specifico di violenza, ha gestito dei centri e l’attenzione alle tematiche femminili è centrale nella sua attività. In questo contesto, quando c’è stata l’occupazione di Kobane da parte di Daesh e si sono formate le prime staffette di solidarietà, noi abbiamo voluto realizzarne una di donne, nel febbraio del 2015. In quell’occasione siamo andate a Kobane con l’idea di avviare uno scambio di pratiche con le donne a proposito della Casa delle donne prima che fosse distrutta dai militanti di Daesh. Sono partita con un’idea molto occidentale di cosa sono i centri anti violenza in Rojava, ma mi sono dovuta ricredere, perché lì hanno un livello di evoluzione maggiore rispetto a noi. La casa delle donne di Kobane rappresenta il luogo dell’incontro delle diverse culture e religioni, un luogo della solidarietà con un senso molto più ampio rispetto ai nostri modelli in Italia, uno spazio di formazione e di ricerca volto alla consapevolezza delle donne curde, che ha trent’anni di evoluzione. Loro hanno dovuto fare un lavoro villaggio per villaggio, partendo dalle esigenze delle donne locali: la critica che hanno fatto a noi durante lo scambio, per esempio, è che il nostro femminismo è molto teorico. Loro sono partite dal basso su necessità impellenti, come capire perché nel villaggio accanto le ragazze si suicidavano, per poi intervenire. Lavorano su tematiche pratiche e fanno un lavoro di ricerca storica partendo da dove è sorto il patriarcato nella loro società».
Le immagini delle donne curde col fucile ci hanno fatto immaginare un’emancipazione che ripartiva dalla consapevolezza e dall’azione: ma c’è molto di più oltre a questo.
«Sì, c’è molto di più. L’immagine che abbiamo visto è una delle motivazioni che mi hanno spinto ad andare a Kobane: un’immagine riduttiva, strumentale e occidentale. Il corpo delle donne curde qui in occidente veniva dipinto come “le donne con kalashnikov”, ma loro hanno una consapevolezza molto più alta rispetto al fucile che portano addosso. Anche la nostra idea di ricostruire la Casa delle donne si è trasformata con l’incontro: si è fatta strada la possibilità di creare un luogo di incontro con tutte le donne del mondo, dove ognuna dal suo paese porti la propria pratica, le proprie idee e dove possa vivere quello che abbiamo vissuto noi, diventando dunque un’accademia, un luogo ancora più forte di ricerca e formazione».
Cosa prevede il progetto edile della casa?
«Siamo partite con un’utopia, siamo tornate con un progetto concreto. Abbiamo lavorato insieme a volontari che ci hanno creduto, mentre con degli ingegneri ci siamo procurate delle foto satellitari per realizzare un computo metrico, cercato i materiali per la costruzione per poi immaginare come edificare la casa: uno stabile di tre piani, con una foresteria all’ultimo per l’accoglienza di uomini e donne da tutto il mondo, perché questo luogo diventi una testimonianza di una liberazione possibile».
Con quali altre associazioni avete collaborato?
«Come partner del progetto abbiamo il Koerdisch Instituut di Bruxelles, che si occupa di cultura curda, Uiki Onlus che si occupa dei contatti politici e Lucha Y Siesta, un centro antiviolenza di Roma. Costruire la casa sarà possibile anche grazie al finanziamento dell’Otto per mille della Chiesa valdese».
Come avete incontrato questa chiesa?
«Sono gli unici che hanno creduto in questo progetto. Il moderatore della Tavola valdese ha apprezzato l’idea ma ci ha chiesto molta concretezza, che siamo riuscite a realizzare solo dopo un anno. Volevo che il progetto fosse molto credibile e realistico, e ha funzionato».
Chi era veramente Maria Maddalena?
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
Crisi della paternità o dell’ideale virile?
di Lea Melandri (Corriere della Sera, La ventisettesima ora, 19 marzo 2016)
E’ mia abitudine fare maggiore attenzione a ciò che rimane invariato nel tempo, piuttosto che ai cambiamenti. Perciò ho letto con piacere la lettera-editoriale di Barbara Stefanelli sul “Corriere della sera” (19 marzo 2016), dedicato ai “nuovi padri”, “presenti e responsabili”fin dai primi anni nella vita dei figli, ma il mio interesse è stato sviato immediatamente dall’articolo di Luigi Zoja che, sullo stesso tema, lo affiancava.
Posso essere d’accordo su alcuni aspetti della sua analisi: crescita dei divorzi, delle separazioni, nascite fuori dal matrimonio, aumento delle donne singole con figli, eclisse delle figura paterna e conseguente comparsa di forme di aggregazione maschile simili al branco primordiale.
La crisi della famiglia è vista da Zoja fondamentalmente come “assenza del padre” e ritorno al modello del “maschio competitivo”: l’orda barbarica, il bullismo.
Il padre, di cui si lamenta la mancanza, è ancora quello tradizionale, garante della crescita del bambino, sia dal punto di vista educativo che culturale., un ruolo molto lontano da quello del “mammo”, addetto solo all’ “accadimento corporale” del figlio.
Della figura femminile -la madre- non si fa parola, ma è chiaro da tutto il discorso che siamo nell’ordine della complementarietà, a cui sembra oggi fare sempre più difetto uno dei due poli dell’antica dialettica.
Neppure una parola sul paradosso della quasi esclusiva presenza di donne nella scuola, dall’asilo fino alle soglie dell’Università: madri-maestre, figure ibride, funamboliche, a cui si chiede di trasmettere un sapere creato da altri, di “disciplinare corpi”, essendo state esse stesse considerate corpo, natura, materia senza forma propria.
L’incremento del numero delle donne single non è di per sé indicativo di una messa in discussione del ruolo tradizionale di madre che potrebbe, al contrario, uscirne rafforzato, ma del rifiuto sempre più consapevole da parte femminile di assumersi la cura e il sostegno di un marito-figlio: un adulto da loro dipendente al di là del reale bisogno e a discapito della sua stessa autonomia.
Se dietro l’eclisse del padre-padrone emerge oggi l’orda selvaggia dei figli, è perché questi due volti del maschile in realtà non sono mai stati separati, costretti a convivere, come Giano Bifronte, dal confinamento della donna nel ruolo di madre, potenza dominata storicamente ma al medesimo tempo dominatrice nelle cure e negli affetti domestici.
Parlare di padri come “simbolo positivo”, che è venuto a mancare, vuol dire non tenere conto di quel salto della coscienza storica che è stato portare allo scoperto il rapporto uomo-donna, ripensare le costruzioni del maschile del femminile alla luce della divisione sessuale del lavoro, dell’identificazione della donna con la natura, della separazione tra privato e pubblico, della maternità come obbligo procreativo.
Non è la paternità che è oggi in crisi, ma l’”invenzione della virilità” per quello che ha significato nel corso dei secoli, sia come rapporto di potere, sia come perverso funesto intreccio di amore e violenza.
Caro maschio ci fai ridere
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 15.03.2016)
PER fare solo la pre-mamma e la mamma, non per qualche mese soltanto ma almeno per qualche anno, ritrovando poi il suo lavoro e il suo stipendio? Permesso anche alla casalinga stessa, che smettendo di cucinare, rifare i letti, fare il suo dovere di sposa, sostituita da una casalinga statale in tutte le mansioni, potesse dedicarsi solo a questo mestiere solo a lei femmina consentito, per seguirlo a tempo pieno.
In questo caso essere donna e madre potrebbe essere in sé una libera professione al servizio della Patria e anche l’incinta Meloni potrebbe usufruirne senza infastidire Bertolaso e compagni, evitando di vomitare durante la campagna elettorale e di perdere le acque durante una manifestazione di piazza. Ma soprattutto togliendo all’aspirante sindaco almeno un motivo per dichiarazioni sceme, che purtroppo lo aiuterebbero a vincere le elezioni, con ovvi danni alla città già molto danneggiata. Un sindaco che allatta durante una accesa battaglia in giunta renderebbe invece la Meloni sempre vincente, perché anche i suoi più duri antagonisti maschi arrossirebbero guardando altrove: ma anche in questo caso a perdere sarebbe di nuovo Roma, e non a causa di mamma Meloni, ma semplicemente della Meloni.
Essendo da almeno cinquant’anni femminista, non vorrei essere giudicata maschilista se oso dichiarare che la signora Patrizia Bedori ha fatto molto bene a ritirare la sua candidatura, che non avrebbe neppure dovuto proporre, per molte ragioni. Perché se una può diventare sindaco perché in 74 l’hanno votata online, non pare proprio un furor di popolo, anche nel suo stesso noiosissimo movimento già molto antiquato. Perché ha smascherato definitivamente il finto giovanilismo democratico dei suoi compagni elettronici che l’hanno insultata perché “casalinga e disoccupata” come milioni di altre donne e ormai molti uomini disoccupati e casalinghi in quanto soli. Che l’hanno definita «brutta, grassa e obesa», come molti rispettati onorevoli maschi, quindi di meritare di essere «buttata fuori a calci in culo». Bastava dire che, come la maggior parte dei suoi compagni, non sembrava preparata al difficilissimo ruolo di sindaco di Milano, soprattutto dopo Pisapia.
Del resto, anche in passato i ragazzi Cinque Stelle avevano dimostrato la loro paura delle donne, come Massimo De Rosa che ha onorato le colleghe del Pd con un complimento forse invidioso: «Voi siete qui solo perché siete brave a fare i pompini!». Brutte non le vogliono quegli incontentabili, ma neanche belle. Nicola Morra, senatore M5S: «La ministra Boschi sarà ricordata più per le forme che per le riforme» (per saperne di più c’è il libro Stai zitta e va’ in cucina di Filippo Maria Battaglia).
Resta un problema più vasto del misero maschilismo dei politici, che dovrebbero avere la furbizia di pensare ogni nequizia ma di non dirla. Se le femmine sono femministe coscienti di esserlo in gruppi privilegiati ma non oceanici, i maschi sono per natura da sempre maschilisti. Lo sono stati per secoli, per legge, religione, natura, cultura, storia, denaro, potere e mamme adoranti.
Da anni cercano di correggersi, da quando negli anni Settanta si misero persino a fare autocoscienza come le ragazze. Ma non ce la fanno sino in fondo. Ogni tanto il maschio militante salta fuori, lancia un’ingiuria sempre fisica e sessuale, o, se è molto nervoso, taglia la gola della donna che non fa finta di adorarlo comunque e di essere certa della sua superiorità. Che fare? Niente, stare zitte, ridere a ogni bertolasata, che più o meno sempre ci sarà, e prendersi tutto quello che ci spetta non tanto come donne quanto come esseri umani.
San Valentino, niente fiori e cioccolatini, regalate rispetto alle donne
14 febbraio One Billion Rising, un miliardo di persone nel mondo tra flash mob e danze *
Non fiori e cioccolatini, ma One Billion Rising, un ballo collettivo in tutto il mondo come testimonianza dell’impegno e della volontà profonda di fermare con ogni mezzo culturale, legale e civile la violenza sulle donne e sulle bambine. Un messaggio, quello della campagna ideata da Eve Ensler in programma per il quarto anno, quanto mai di attualità in Italia dove gli episodi di violenza domestica e contro le donne stanno diventando una drammatica quotidianità.
One Billion Rising Revolution, la più grande manifestazione di massa che spinge oltre un miliardo di persone a danzare e manifestare la volontà di cambiamento, scegliendo l’arte, la musica e la poesia come segno di sfida e di celebrazione, è ormai un movimento globale, una rivoluzione ’’che comincia dal corpo, è spontaneità e rumore, energia, ritmo di tamburi, per trasformare il dolore in potere, per affermare che ogni donna ha il diritto di vivere e decidere del proprio corpo e del proprio destino’’, dicono gli organizzatori.
Iniziata nel 2013 è nata da un’idea della scrittrice statunitense Eve Ensler, fondatrice del movimento V-Day e autrice de I monologhi della vagina, partendo dalla sconvolgente statistica delle Nazioni Unite che stimano che 1 donna su 3 sul pianeta sarà picchiata o stuprata nel corso della vita. Questo significa un miliardo di donne e bambine. Dopo l’exploit del 2013, nel 2014 e nel 2015 One Billion Rising ha continuato la sua battaglia con un’adesione crescente a livello globale, aprendo un nuovo dibattito sui diritti, il razzismo, le disuguaglianze economiche e le guerre dichiarate sui corpi delle donne in tutto il mondo.
Il 14 febbraio 2016 sarà il giorno del quarto appuntamento in tutto il mondo, In Italia l’attenzione si concentrerà sulle donne che vivono una condizione di paura ed emarginazione come le donne migranti, che costrette ad abbandonare il loro paese per sfuggire a guerre e condizioni di vita inaccettabili, subiscono violenza fisica e psicologica durante i loro lunghi e dolorosi spostamenti. Tanti gli eventi che animeranno questa giornata di festa e di impegno in tutto il territorio nazionale. Cortei, concerti, flash mob, danze, spettacoli, proiezioni e canti si susseguiranno in tutte le regioni italiane, da Trieste a Palermo, da Trento a Sassari da Galatina a Rimini, idealmente unite in un corpo unico, in un’unica voce potente ma gentile, che il 14 febbraio prenderà vita tra le strade del mondo intero.
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FONTE: ANSA
Femminicidio, dieci donne che non possiamo dimenticare
di MICHELA MURGIA (la Repubblica, 03 febbraio 2016)
È QUESTIONE di concentrazione: di certe cose non ci occupiamo fino a quando non si verificano tutte insieme in modo tale che diventa impossibile ignorarle. Così tre donne massacrate per mano dei loro compagni in appena due giorni hanno riacceso il faro dell’attenzione pubblica sul tema del femminicidio. Si chiamano Marinella, Carla e Luana, ma è facile appropriarsi di un nome per rendere le persone personaggi e dire che quelle storie erano le loro e non la nostra.
Ciascuna di queste donne va immaginata con il nome che diamo a noi stesse. A Catania il primo febbraio una è morta per mano del marito, che l’ha strangolata davanti al figlio di 4 anni. Lo stesso giorno a Pozzuoli una di loro, incinta al nono mese, è stata ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco.
Ieri un’altra è morta quasi decapitata dal marito, poi fuggito contromano in autostrada. Fanno scalpore, eppure non sono le prime notizie dell’anno sulla violenza alle donne. Il 2016 era cominciato da appena due giorni quando i carabinieri hanno scoperto a Ragusa una donna segregata in casa dal suo convivente, che da due anni a suon di botte le impediva di andarsene.
Lo stesso giorno ad Ancona una donna veniva picchiata da quello che era stato il suo fidanzato, prima che lo lasciasse per le violenze. Il 3 di gennaio una donna di Città di Castello è stata uccisa da suo figlio con dieci coltellate, e il 5 a Torino una’altra è quasi morta per le violenze inflittele dal marito, che l’ha più volte colpita in testa con un bicchiere prima che un vicino chiamasse la polizia.
Il 9 gennaio a Firenze una donna è morta strangolata da un uomo che prima c’era andato a letto e poi l’ha uccisa per derubarla. Strangolata è morta anche la donna che il 12 di gennaio è stata trovata nel suo letto, ammazzata dall’uomo che frequentava.
Il 15 e il 16 di gennaio due nonne sono stata uccise dai rispettivi nipoti: una è stata massacrata a Mestre con una sega elettrica, l’altra a Sassari con un vaso di cristallo. Il 27 gennaio a Cetraro una donna è stata uccisa per strada dal suo ex cognato, che le dava la colpa della fine del proprio matrimonio. Il 30 gennaio una donna è stata ferita gravemente dal marito, che prima di aggredire lei con un coltello aveva ucciso i loro figli di 8 e 13 anni.
In questo elenco non ci sono le decine di violenze, i maltrattamenti, le riduzioni della libertà e i tentati omicidi in ambito familiare le cui eco spesso non ci arrivano neppure. Sappiamo però che erano tutte a carico di donne che vivevano accanto a noi, in questa strana Italia ancora divisa tra voglia d’Europa e Family Day, ma incapace di riconoscere che c’è qualcosa di sbagliato e distruttivo nel modo in cui impostiamo i rapporti di relazione che chiamiamo "famiglia".
Che sia tradizionale o arcobaleno, che lo stato la riconosca o meno, quel sistema di legami e la sua faccia oscura ci riguardano tutti e tutte, allo stesso modo. Finché non affronteremo il nodo del potere nascosto in quello che chiamiamo amore, il Paese che ammazza le donne non sarà un buon posto per nessuno.
(Michela Murgia è scrittrice, il suo ultimo romanzo è Chirù, per Einaudi)
Spiace che neanche la sinistra misuri la democrazia con la libertà delle donne
di Susanna Camusso (The Huffington Post, 12/01/2016)
Ho una convinzione irremovibile: la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. Non da oggi, non dalla notte di Capodanno, ma da quando ho preso coscienza penso che la libertà non sia uguale a quella degli uomini se le donne sono considerate un corpo di proprietà altrui, sganciato dalla loro testa che... Non esiste.
Convinzione che si rafforza quando nei conflitti, anche in quelli più recenti, ho visto, sentito, capito che si ripetevano azioni di guerra condotte sui corpi delle donne; quando ho seguito con ammirazione le donne di Kobane; quando mi sono indignata perché siamo pronti a onorare le vittime del terrorismo in tutto il mondo, ma poi dimentichiamo le ragazze rapite, convertite a forza, stuprate e uccise da Boko Haram, come fossero altro, diverse dagli altri morti.
La libertà delle donne è metro di misura della democrazia, ha la stessa forza degli altri fondamenti democratici? No, né per la destra, né, spiace dirlo, per la sinistra. Ricordo ancora il dibattito sulla rivoluzione iraniana, quando il ritorno al velo, i limiti all’istruzione, i guardiani o la Shari’a erano considerati conseguenze secondarie ed ininfluenti. Sbagliavamo. Per questo "Colonia", al di là delle ricostruzioni, mi chiama in causa perché di aggressione alla libertà delle donne si tratta. La sostanza non cambia se si è trattato di aggressione organizzata, collettiva, preparata o meno. L’aggressione alle donne è aggressione alla libertà delle donne.
Certo si sprecano in queste ore le classificazioni, atto di guerra, scontro di civiltà, terrorismo e per ognuna possiamo trovare motivazioni per negarle prima di tutto perché ciascuna di quelle pone la l’interpretazione e la giustificazione fuori di noi, della cultura europea. Sottintende che solo ad "altri", di una differente cultura o ancor di più di religione diversa, la libertà delle donne fa orrore e mette paura. Come dire che in Europa le donne sono considerate sempre inviolabili. Purtroppo, milioni di statistiche, fatti, evidenze, racconti, spiegano l’opposto.
Per questo è odioso, strumentale e anche insopportabile che si leghi quanto avvenuto a Colonia direttamente all’immigrazione o ai rifugiati. È salvifico per gli uomini, per l’intera cultura europea, per la finzione di non sapere cosa succede, con infinita frequenza, tra le mura delle nostre case. Anche non ritrovandomi in quelle definizioni penso comunque che sia indispensabile approfondire la riflessione. Lo scopo evidente è la proprietà e la trasformazione in oggetti dei corpi delle donne diffondendo paura. La paura è lo scopo precipuo del terrorismo. Cambia i comportamenti, genera richiesta di sicurezza, protezione e favorisce l’idea che per difendersi si possa limitare la libertà. Paura e modifica dei comportamenti mettono in forse la civiltà, come noi la intendiamo, fondata sulla libertà, esercitabile perché sancita dai principi democratici.
Fu faticoso alzare la voce sugli stupri di piazza Tahrir. Fu difficile perché per molti, troppi, veniva prima l’importanza di una lotta per la democrazia che la libertà e la sicurezza delle donne, senza neppure domandarsi che democrazia possa essere quella che può fare a meno della libertà di metà del mondo Molte domande suscita "Colonia" e molto ancora c’è da riflettere, non nel silenzio ma provando ad aprire un dibattito pubblico sul che fare, su cosa chiediamo a noi stesse e a noi stessi per affermare la piena libertà delle donne e, certo, anche sull’integrazione e sui modelli di accoglienza, su ciò che chiediamo a chi arriva per avere asilo e futuro. Dobbiamo riflettere su come rendere esplicita e inviolabile la libertà delle donne, senza dare per scontato, perché non lo è, che il nostro modo di essere sia rispettoso della loro libertà, della loro autodeterminazione, della loro libertà di scelta. Poi, dobbiamo porci la domanda, non ultima, se la religione, sfera privata per eccellenza, sia parte di questo ragionamento.
Penso che per troppo tempo abbiamo finto che non lo sia, che non ci sia relazione tra laicità dello Stato e libertà delle persone. L’Islam che si fa Stato, che applica la Shari’a (e non mi riferisco solo a Daesh), che vuole determinare la proprietà e la sottomissione delle donne a un uomo, non può più essere un problema di altre, delle donne musulmane prime vittime di questa radicale confessionalizzazione della politica e del governare. Mondi paralleli non esistono, nonostante le politiche d’integrazione siano state spesso questo. È una condizione che riguarda tutti e tutte perché se condividi spazio e tempo non possono esistere isole separate e intangibili.
La lunga strada della laicizzazione e della della secolarizzazione dello Stato e dei governi è un patrimonio - ancora incompiuto - della cultura europea e non solo. Che sia Colonia, Delhi o Raqqa è al centro di un conflitto e di uno scontro che è tuttora in corso e che coinvolge il mondo intero.
Lo spregiudicato coraggio di una donna a Berlino
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 19.01.2016)
Caro Lambiase
Sembra che il maresciallo Zukov avesse promesso le donne di Berlino ai suoi soldati prima dello scontro finale per la conquista della città. Si parla da allora di 100.000 stupri nella capitale tedesca e due milioni, complessivamente, nelle zone della Germania occupate dall’Armata Rossa. Ma la sola documentazione disponibile è quella limitata degli ospedali, e le memorie personali sono solo parzialmente attendibili. Molte donne preferirono tacere, altre raccontarono ciò che era accaduto tacendo il proprio nome.
Il caso di Eine Frau in Berlin, pubblicato in Svizzera nel 1953, è particolarmente interessante. L’autrice aveva dato prova di uno spregiudicato coraggio. Esposta, come ogni altra donna di Berlino, al rischio di ripetute violenze, si era accasata con un ufficiale sovietico (dapprima un colonnello, poi un maggiore) che l’avrebbe protetta e sfamata: un rapporto che, alla fine, era diventato persino umano e affettuoso.
La prima edizione provocò critiche, risentimenti e reazioni moralistiche in molti ambienti tedeschi, quasi che la giovane donna fosse colpevole di alto tradimento. Ma il vero motivo di queste reazioni era la pessima figura che nel libro facevano molti uomini della città occupata. Vedevano ciò che stava accadendo, ma preferivano voltare le spalle per non rischiare la vita. Le donne, invece, dettero una straordinaria prova di coraggio e si dimostrarono subito indispensabili per almeno due compiti fondamentali: lo sgombero delle macerie e la ricerca del cibo. Alla fine di una guerra perduta furono le donne che vinsero la battaglia della sopravvivenza.
La seconda edizione del libro apparve in Germania nel 2003, due anni dopo la morte dell’autrice. Il suo nome era ormai noto, ma l’editore ne rispettò le intenzioni originali e mantenne l’anonimato. L’accoglienza fu completamente diversa e il libro restò per parecchie settimane nella lista di quelli maggiormente venduti. La Germania era ormai capace di guardare al suo passato con maggiore distacco. Esiste ora anche un film, realizzato nel 2009 con Nina Hoss, una brillante attrice cinematografica e teatrale nella parte della protagonista.
Quanto ai sovietici, caro Lambiase, la vicenda fu sempre causa di imbarazzo e disagio. Sostennero che erano tutte esagerazioni propagandistiche e che gli Alleati, comunque, avevano fatto altrettanto. Forse, ma non su quella scala.
Colonia
Come ribaltare quell’orrore
La notte di Colonia costituisce, sotto il profilo simbolico, un avvenimento grave
di Valerio Magrelli (la Repubblica, 11.1.16)
LA notte di Colonia costituisce, sotto il profilo simbolico, un avvenimento grave. Grave quanto la strage nel Bataclan. Infatti, ad essere colpita non è stata una generica folla formata da individui di ogni sesso, età, credo o classe, bensì donne, soltanto donne, ossia i soggetti storicamente più fragili della nostra società. A differenza di quanto accaduto a Parigi, insomma, qui non si è sparato nel gruppo, ma ci si è accaniti sull’anello più debole, sull’elemento più discriminato. Sempre e solo sul piano strettamente simbolico, lo ripeto, tale orrore è forse paragonabile alla “Notte dei cristalli” del novembre 1938, quando la feccia di Hitler distrusse migliaia di negozi ebraici, incendiando sinagoghe, massacrando centinaia di persone e stuprando a man bassa. L’analogia fra nazismo e Is è cosa nota, così come pare assodato che i criminali di Colonia abbiano seguito le direttive dello Stato Islamico. Da tempo si dice che quest’ultimo miri a fomentare una sorta di guerra civile europea. Ebbene, bisogna ammettere che la missione è riuscita, spaccando una società basata sull’ideale di assimilazione.
Appunto perciò, sostengo che i colpevoli non vadano rimpatriati. Troppo facile. Occorre condannarli per quanto hanno fatto. Senza vendetta, certo, ma accantonando ogni senso di colpa. Noi siamo gli eredi di Verri e Beccaria, ma ciò non significa lasciare impuniti i colpevoli. Dunque, mostriamo loro la nostra superiorità civile - perché di questo si tratta, con buona pace di ogni relativismo: chiuderli in una prigione, piuttosto che accecarli e castrarli, mozzando lingua e mani, costituisce una forma di superiorità culturale.
Oggi, grazie alle nostre democrazie, ogni ragazza può uscire sola, di notte, vestita come vuole. Sappiamo bene quanto sia stato difficile ottenere questa meravigliosa vittoria: come dimenticare i recenti, disgustosi discorsi sulle donne in jeans “responsabili” della foia maschile? Che splendore, al contrario, una giovane raggiante, tranquilla, cosciente di vivere in un mondo che la rispetta e la tutela! Ci piace questa immagine? E allora proteggiamola.
Non va consentito a nessuno di mettere in dubbio certe acquisizioni cruciali. Dirò di più: facciamo di Colonia la bandiera delle nostre conquiste. Rovesciamo l’obbrobrio in vittoria. Non lasciamo ai forcaioli un tema tanto importante e rappresentativo per la nostra democrazia. Stare dalla parte dei deboli: ecco la vera essenza progressista della nostra civiltà. E quindi basta con quel malinteso senso di clemenza che regna ormai in Italia ed in Europa.
Il femminicidio, come ogni altra forma di molestie sulla donna, deve diventare l’emblema di una nuova giustizia, il nuovo tabù della nostra specie, proprio come l’incesto. Rilanciamo l‘edilizia. Costruiamo istituti di pena umani e degni della nostra tradizione libertaria, dopo di che riempliamoli, tanto per cominciare, con chiunque osi ancora oltraggiare una donna. Sì, dovrà esistere un altro calcolo del tempo.
Avremo sempre un a. C. e un d. C., però intendendo con ciò “avanti Colonia” e “dopo Colonia”. Le centinaia di donne traumatizzate per sempre da questa tragedia, avranno una sorta di nuovo 1° maggio. Dalla festa dei lavoratori, alla festa delle passeggiatrici - rivendicando quel termine orrendo per cui, se compiuto da una femmina, il gesto più innocente (camminare di notte) viene a coincidere con la prostituzione.
Perché mai, quando gli uomini passeggiano, li si chiama filosofi (i “peripatetici” seguaci di Aristotele) o flâneur (da Baudelaire a Benjamin), mentre le donne che si azzardano a fare la stessa cosa, diventano puttane? Pertanto, slogan per slogan, rifacendoci a Kennedy, propongo che si smetta di dire “ Ich bin ein Berliner”, ossia: “Sono un uomo di Berlino”, per affermare invece: “ Ich bin eine Kölnerin”, “Sono una donna di Colonia”.
Società arabe
I giovani maschi non vogliono più essere dei Pascià
Dietro le aggressioni a Colonia per molta gente c’è quel genere di “uomo arabo”, che anche al Cairo insulta, brancica, stupra le donne. Ma non è così semplice.
di Andrea Backhaus (Die Zeit online, Hamburg - 13 gennaio 2016) *
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Il Presidente aveva portato fiori. Con viso rattristato Abdel Fattah al-Sisi fissò lo sguardo sulle telecamere disposte accanto al letto della giovane donna. “Sono venuto qui per dire a voi e a ogni donna egiziana che questo mi addolora”, sussurrò ai microfoni. Il giorno prima la donna era stata abusata e gravemente ferita da un’orda di uomini sulla piazza Tahrir, al Cairo. Con la sua visita in ospedale al-Sisi voleva dare un efficace segnale mediatico. La violenza sessuale non trova posto nel suo Paese, voleva significare il suo intervento nell’estate 2014. Era un tentativo di salvare l’immagine dell’Egitto. Infatti la situazione non potrebbe essere peggiore.
La piazza Tahrir, un tempo sinonimo di libertà e pace, oggi ha fama di luogo del terrore. Viene citata con frequenza in questi giorni, presumibilmente per dare agli avvenimenti di Colonia un quadro di riferimento culturale, e simbolicamente sta per violenza organizzata contro le donne, sia egiziane che straniere, ciò che avviene in Egitto da alcuni anni.
Questa violenza contro le donne è arrivata all’attenzione internazionale durante le sollevazioni contro l’allora presidente Hosni Mubarak. L’11 febbraio 2011, mentre gli egiziani festeggiavano le dimissioni di Mubarak, circa 200 uomini si gettarono sulla reporter sudafricana Lara Logan e la stuprarono “con le loro mani”, come raccontò più tardi la stessa Logan. Poco dopo la giornalista Mona Eltahawy fu abusata sessualmente da poliziotti e la reporter francese Caroline Sinz infastidita da un gruppo di uomini. Dopodiché il brutale sistema si è diffuso. Dozzine di donne, malgrado le loro proteste, furono braccate, circondate, spogliate e violentate da uomini.
Molti vedono negli abusi di Colonia un parallelo diretto. Il passo verso il rancore non è molto lontano. Anche se non è chiaro che cosa è accaduto precisamente nella notte di San Silvestro, chi ha aggredito le donne e perché, molti commentatori ostentano sicurezza: deve essere stato quel tipo di “uomo arabo” che anche al Cairo insulta, afferra e violenta le donne, perché là, nel “mondo musulmano”, gli uomini fanno proprio una cosa simile. Qui il discorso è sui macho, che non sanno fare altro se non umiliare le donne - e proprio donne velate, timorose, che più di ogni altra cosa vogliono restare invisibili. Ma non è così semplice. Né a Colonia né al Cairo.
La risposta alla domanda perché in Egitto e altrove avvengono aggressioni contro le donne si articola su diversi piani. Dagli studi fatti risulta che quasi tutte le egiziane intervistate dichiarano di essere state molestate almeno una volta, indifferentemente se fossero velate o no. Gli sviluppi della situazione dopo il 2011 hanno ricacciato indietro di secoli la lotta per l’emancipazione femminile, scrive il Direttore del Centro per i Diritti delle donne, Nehad Abdul-Komsan, nelle sue relazioni. L’oppressione è praticata da tutti i settori politici. E con ciò definisce quello che i corrispondenti occidentali non si curano volentieri di vedere: le aggressioni organizzate nell’Egitto frammentato costituiscono anche una dimensione politica. Molti attivisti sono convinti che lo Stato organizzi gli attacchi come misure di dissuasione.
Gli oppositori politici strumentalizzano i rapporti sugli episodi di violenza per dimostrare la superiorità delle loro tesi: i soprusi rispecchierebbero la degenerazione morale degli appartenenti all’esercito, tuonano i Fratelli musulmani. Gli islamici vorrebbero così vendicarsi delle donne scostumate, ritengono i sostenitori di al-Sisi. Del resto fu il generale al-Sisi che, dopo la caduta di Mubarak, introdusse i “test di verginità” sulle dimostranti, effettuati dalle forze armate e stigmatizzati come torture dai sostenitori dei Diritti umani. L’avvertimento per le donne era chiaro: pagate un prezzo, se volete dimostrare, quindi state lontane dalla sfera pubblica.
Le aggressioni ordinate dallo Stato sono la drastica espressione di un onnipresente discredito della donna. Lo schioccare delle dita [in segno di disprezzo] passando loro accanto, la mano sul sedere in metropolitana: tutto questo ha meno a che fare col sesso e molto più con la sensazione di avere il controllo, almeno in un ambito. Questo è un’altra dimensione che si finge di non conoscere. I giovani sono resi insicuri dai cambiamenti e frustrati per la crescente povertà e disoccupazione. Le tensioni sociali collidono con la levatura mentale di una società disuguale: l’idea che la donna sia subordinata all’uomo è ampiamente diffusa in Egitto. E non soltanto in Egitto.
Quando la vittima stessa dovrebbe essere colpevole
In Marocco milioni di donne sono regolarmente vittime di violenza - anche di stupri in pubblico. Poiché la legge punisce il sesso extramatrimoniale, le stesse vittime di abuso sessuale sono spesso perseguite penalmente. Anche in Arabia Saudita accade che le donne, dopo uno stupro di gruppo, siano punite a frustate, poiché hanno avuto un rapporto sessuale fuori dal matrimonio. Negli Emirati Arabi Uniti le vittime di stupro sono prima di tutto condannate e poi - anche a causa della pressione internazionale - amnistiate. Le organizzazioni per i diritti delle donne stigmatizzano da anni che nelle società patriarcali non gli autori dei reati, ma le vittime sono soggette a punizione.
Quanto sia diffusa la convinzione che le donne provochino gli abusi si verifica in Egitto nella vita di ogni giorno. La perturbazione sessuale, così suona il mantra di molte madri e nonne, non esisterebbe in Egitto. Se si verifica, ne sono causa le ragazze: per i vestiti succinti, per i profumi seducenti.
Tabù
Questo incrementa l’estraneità fra i sessi. Infatti in Paesi come l’Egitto nella vita quotidiana uomini e donne possono liberamente incontrarsi molto raramente, perché i loro spazi vitali sono troppo separati gli uni dagli altri. Il sesso senza il contratto matrimoniale è impensabile, il matrimonio serve da fondamento della società. Tuttavia le cerimonie nuziali sono costose e quasi nessuno può permettersi pomposi festeggiamenti. Questo è problematico in un Paese nel quale manifestazioni d’amore pubbliche, contraccezione e aborti sono tabù, dove non vi è né informazione né educazione sessuale. E nel quale il tipico ruolo esige che le donne debbano essere arrendevoli e gli uomini [le] sovrastino.
Tuttavia questo si fonda meno sulla religione che sulla tradizione. In Egitto ci sono anche donne cristiane che escono di casa soltanto con il permesso del marito e tengono sempre coperta la loro persona. Anche in molte famiglie di religione copta l’emancipazione femminile e l’autodeterminazione sessuale fanno parte dei tabù più grandi.
Chiamata a una rivoluzione sessuale
Per questi motivi molte donne chiamano a una rivoluzione sessuale. A esempio, la giornalista egiziana-americana Mona Eltahawy, che si definisce e promuove come “musulmana laica, radicale, femminista”, definisce la violenza contro le donne come una forma di terrorismo. O la giornalista Shereen El Feki, che nel suo libro Sesso e cittadella scrive che lo sviluppo politico-sociale ristagnerebbe se l’approccio con la sessualità non fosse più libero. Negli Stati arabi il cambiamento deve essere anche sessuale.
Eppure il cambiamento si è stabilito. Le “donne arabe” non sono in assoluto oggetti che subiscono passivamente, come molti commentatori in questo Paese vogliono far credere. Nel mondo arabo le donne non sono soltanto vittime, ma anche soggetti che agiscono. Nei loro Paesi hanno sempre portato avanti movimenti di protesta. In Egitto, dopo la Prima guerra mondiale, le nazionaliste hanno combattuto contro gli occupanti inglesi. Dopo il colpo di Stato contro il re Faruk, negli anni ’50, le donne sono scese in strada e hanno chiesto parità dei diritti e giustizia sociale.
Nel 1956 avevano ottenuto lottando il diritto di voto, nel 1962 la prima donna entrava nel Parlamento. In Tunisia dal 1956 le donne hanno imposto il divieto della poligamia, il diritto di voto e il diritto al divorzio. E più tardi con la rivoluzione del 2011 si annunciò un profondo riordinamento: le donne lottarono qui con gli uomini per la loro dignità e libertà. Per le strade del Cairo e di Tunisi scandirono parole d’ordine contro i despoti, organizzarono sit-in, infiammarono le masse con slogan scottanti. Con enorme potenza d’urto le donne hanno catapultato le loro richieste nella percezione a livello mondiale.
Anche gli uomini lottano per la parità dei diritti
Oggi si avverte il risveglio dappertutto, fra i sessi, ma anche fra le generazioni. Molte ragazze discutono oggi con i loro padri e fratelli di politica, naturalmente. Non si fanno imporre più dalla famiglia colui che dovrebbero sposare. Vogliono fare da sole le loro scelte. Oppure, come scrive la blogger egiziana Ghada Abdelaal nel suo Voglio sposarmi: “Noi non cerchiamo soltanto un compagno tranquillo o uno che protegga sua moglie, ma un uomo che prenda parte alla sua vita, che la rispetti e che lei possa rispettare.
Soprattutto le donne si difendono con grande veemenza contro la violenza sessuale, come mai accaduto prima. Le egiziane hanno condotto campagne su Facebook, scrivono articoli e dirigono campagne di protesta nelle loro città. Molte nuove iniziative cercano di fare luce, come Anti-sexual harassement o Shayfeencom (“Noi vi vediamo”). Sul sito Internet harassmap.org le donne possono indicare i luoghi nei quali sono state importunate. E molti giovani sostengono le donne, condividendo con le loro amiche i volantini, accompagnandole alle manifestazioni di protesta per proteggerle od organizzando flashmob contro la violenza sessuale.
Mai la separazione fra “femminile uguale a privato, maschile uguale a pubblico” è apparsa tanto superata. Infatti anche molti giovanotti battono su un nuovo ruolo tipico, nel quale non spetta più a loro la parte del pascià. Molti s’impegnano per la parità dei diritti. Uomini come il giovane egiziano Fathi Farid, che per collera contro le aggressioni alle donne ha fondato al Cairo il gruppo Shoft Ta7rosh (“Ho visto importunare sessualmente”) e che distribuisce incessantemente in strada fogli informativi sulla violenza sessuale. O che sale su un palco improvvisato e grida: “Importunare sessualmente è un reato”.
Le generalizzazioni non aiutano più
Il presunto tipo, valido in generale, di “maschio arabo” non c’è più. La mancanza culturale di idee è salita al livello di pericolosa isteria, che offusca le realtà della vita e impedisce le differenziazioni. Questo intorbidisce la vista sulla questione centrale, ovvero perché vi è violenza contro le donne e che cosa possiamo fare noi per contrastarla. E per fare luce non aiuta fare campagne persecutorie contro i migranti dal Nord africa. Sarebbe molto più necessario un dibattito sulla corporeità, sui tabù e la (doppia) morale. Qui [in Germania]. E anche nei Paesi arabi. Perché la violenza contro le donne in molti Paesi è un tema discusso. Anche in quelli del Vicino Oriente.
* http://www.zeit.de/politik/2016-01/tahrir-gewalt-frauen/seite-1
Inciviltà di genere
Colonia. Donne vittime e profittatori maschi dello scontro di civiltà
di Giuliana Sgrena (il manifesto, 10.01.2016)
Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.
Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.
È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.
Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.
Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.
Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.
Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.
Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.
È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.
Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.
Violenza sessuale, guerra e patriarcato
di Laura Fano Morrissey *
Quello che segue è un estratto del saggio “Ieri, oggi, domani. Violenza sessuale, guerra e patriarcato in America Latina” di Laura Fano Morrissey, contenuto nel libro Stupri di guerra e violenze di genere. Il volume, a cura di Simona La Rocca ed edito da Ediesse, è disponibile in libreria. Il libro è il risultato di uno sforzo collaborativo e affronta il tema con un approccio interdisciplinare, che spazia dal diritto all’antropologia, alla medicina, alla psicologia, al giornalismo. Il risultato è un testo ambizioso che condensa saggi su casi internazionali quali la Bosnia, il Ruanda, la Palestina, il Kurdistan, così come le esperienze vissute dalle donne italiane durante la Seconda Guerra Mondiale.
La conquista dell’America nel 1492 fu caratterizzata dal genocidio della popolazione indigena da parte dei conquistatori spagnoli, dalla sottomissione dei sopravvissuti, dallo stupro e servitù sessuale della componente femminile delle popolazioni originarie. La guerra e lo stupro come arma di conquista sono quindi componenti insite nella creazione stessa dell’America Latina e tuttora visibili nella sua più profonda manifestazione che è il meticciato, carattere fondante delle società del subcontinente.
La guerra, la violenza contro gli indigeni e lo stupro hanno poi accompagnato la storia intera dell’America Latina fino ad oggi. Secondo Francesca Gargallo, la colonizzazione ha creato una femminilizzazione - qui intesa come subordinazione - di intere nazioni, dove la popolazione indigena è stata rappresentata come un’entità da controllare e tenere sottomessa, sottoposta al rischio continuo di poter essere violentata fisicamente o metaforicamente, in modo da poter fornire quel lavoro non remunerato che le donne devono agli uomini in cambio della loro protezione (Gargallo Celentani, 2012, p. 62).
Anche in seguito all’indipendenza dalle potenze coloniali, le nuove Repubbliche hanno fondato le proprie basi su un’ideologia razzista nei confronti degli abitanti originari, proponendo il meticciato come valore positivo, e su un patriarcato frutto di commistione tra il patriarcato originario e quello coloniale, relegando le donne a soggetti di seconda categoria, considerate solo in relazione al loro rapporto funzionale con gli uomini. In particolare, le donne indigene hanno sofferto di una doppia condizione di emarginazione, dovuta all’‘etnia’ e al genere, divenuta poi tripla emarginazione con l’avvento della società capitalistica, dove all’‘etnia’ e al genere si è aggiunta la classe sociale. Durante il periodo neo-coloniale, in cui gli Stati Uniti d’America hanno giocato e continuano a giocare un ruolo fondamentale nello sfruttamento delle risorse naturali e umane del resto del continente, l’America Latina tutta viene presentata da Francesca Gargallo come «una sposa schiavizzata [...] sua perché riconosca il valore universale della sua dominazione; sua per castigarla quando si ribella» (Gargallo Celentani, 2006, p. 174).
La colonizzazione, dunque, ha marcato profondamente il passato, il presente e il futuro dell’America Latina, tanto che può facilmente rinvenirsi un legame tra ciò che avvenne durante la conquista e la più attuale e drammatica espressione di violenza nei confronti delle donne: il ‘femminicidio’. Questo fenomeno, che interessa principalmente il Messico e i Paesi dell’America Centrale, in particolare Guatemala e Honduras, viene descritto dalle femministe indigene come una pratica che affonda le sue radici nel razzismo e nella misoginia della conquista.
Per questo motivo, analizzare lo stupro come arma di guerra in America Latina ci porta a fare delle riflessioni sul carattere labile delle categorie temporali e sulla fragile distinzione tra guerra e pace. Lo stupro come arma di sottomissione e controllo caratterizza questa regione durante guerre e dittature, così come in periodi apparentemente ‘di pace’. Inoltre, il passato, il presente e il futuro tendono a fondersi in qualsiasi analisi, rendendo difficile tracciare distinzioni nette tra ciò che è successo in un determinato periodo storico e ciò a cui assistiamo attualmente.
Quella che segue è dunque una lettura critica di tre casi studio dove la violenza sessuale e lo stupro sono stati utilizzati come arma di guerra. I tre casi studio (Guatemala, Colombia, Messico) possono a prima vista essere categorizzati come passato, presente e futuro, sebbene una lettura più attenta mostrerà come queste categorie sono labili. Il passato infatti si ripresenta nell’oggi. Il presente acquista una dimensione temporale difficile da definire. Il futuro affonda le sue radici nel passato, che così continua a ripetersi in forme apparentemente diverse.
APPUNTAMENTI
Venerdì 20 novembre “Stupri di guerra e violenze di genere“: il libro sarà presentato venerdì 20 novembre alle 16 alla sede nazionale dell’Udi, via della Penitenza 37.
* Comune-info, 13 novembre 2015 (ripresa parziale).
SULLA PRESENTAZIONE AVVENUTA IL 20 NOVEMBRE 2015, VEDI POST SUCCESSIVO ...
Rompere lo schema della violenza
di Laura Fano Morrissey (Comune-info, 9 dicembre 2015)
Il 20 novembre nella sede dell’Unione Donne in Italia (Udi) viene presentato il libro Stupri di guerra e violenze di genere. Sembra una presentazione come tante, il pubblico è composto principalmente da persone che dell’argomento già sanno. In sala sono presenti solo due uomini. Eppure, mano a mano che la presentazione e la discussione prendono corpo, ci si rende conto che questo libro, che potrebbe sembrare un testo di nicchia per gruppi femministi, contiene in realtà l’attualità più attuale. Quelle quasi cinquecento pagine raccolgono il senso spaventoso del nostro mondo, che si avvia ancora una volta, inesorabilmente, verso una guerra.
E poiché la presentazione avviene a solo una settimana dai fatti di Parigi e quando la Francia ha già bombardato Raqqa, la voce di chi prende la parola è carica di emozione e di turbamento perché sappiamo tutte che la guerra fa male sempre, ma fa male soprattutto alle donne.
Quel “libro degli orrori”, come lo ha descritto Ugo Melchionda (presidente Idos/Dossier Statistico Immigrazioni), ci pone di fronte alla terribile verità: lo stupro è parte integrante della guerra, il corpo delle donne è il bottino da conquistare o il luogo dove lasciare il marchio dell’umiliazione. Negli interventi si perde il senso del tempo, perché la guerra e l’orrore sono esattamente gli stessi in ogni caso studio analizzato. Le donne ciociare “marocchinate” durante la seconda guerra mondiale sono incredibilmente e spaventosamente simili alle bosniache vittime di pulizia etnica durante la guerra in ex-Jugoslavia, così come alle donne yazide rese schiave e stuprate dall’Isis.
Il tempo e il luogo perdono significato di fronte alla barbarie che la guerra porta con sé sempre e ovunque. E si fa ancora più chiaro che niente di tutto questo può essere spiegato attraverso l’antropologia, poiché non ci sono culture che spingono allo stupro e altre no; è l’istinto animale che prende il sopravvento, in società patriarcali così come in quelle meno patriarcali, durante la guerra vera e propria così come in operazioni di peacekeeping.
La tristezza e l’emozione sono forti in sala, aggravate dai venti di guerra che sentiamo avvicinarsi. E l’emozione raggiunge il culmine quando parla Luciana Romoli, ex partigiana che, nei primi anni Cinquanta, andava, insieme alla deputata e presidente dell’Udi Maria Maddalena Rossi, dalle donne della Ciociaria, le faceva parlare del trauma che le aveva marchiate a vita, e soprattutto cercava di convincerle che non avevano colpa per il dramma che le aveva colpite. Ancora una volta il tempo sembra non esistere, perché Luciana Romoli ce ne parla con le lacrime agli occhi come se tutto ciò fosse successo ieri, e in privato mi dice: “Come si fa a dimenticare tutto questo? Certe cose non ti lasciano mai”.
Questo libro è troppo importante per essere lasciato a circoli femminili, sebbene purtroppo solo le donne riescano a capirlo e a farlo proprio fino in fondo. È un libro che deve assolutamente raggiungere gli uomini, ancora considerati dalla narrativa ufficiale le figure centrali delle guerre, eroi caduti in combattimento e strappati alle loro case. In un momento tragico e incerto come quello che stiamo vivendo, questo libro potente e spaventoso deve raggiungere tutti, soprattutto i giovani, per farci riflettere sulla “banalità del male” e sulla necessità di rompere questo schema terribile che ha accompagnato finora la storia dell’umanità.
* Laura Fano è antropologa sociale, attivista e mamma. Ha lavorato per quindici anni nel settore della cooperazione internazionale. In libreria il suo libro “Invisibili? Donne latinoamericane contro il neoliberismo” (Ediesse, 2014).
La violenza contro le donne in una prospettiva storica
Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI)
Roma 27-28 novembre
Il convegno La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI) si terrà a Roma il 27-28 novembre prossimi presso la Casa internazionale delle donne - il primo giorno - e la Biblioteca di storia moderna e contemporanea - il secondo -.
Violenza sulle donne, Istat: una su tre subisce abusi, 7 milioni le vittime
Nel rapporto, relativo al 2014, emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono diminuite dal 13,3% all’11,3%, ma crescono dal 26,3% al 40,2% quelle più gravi che provocano ferite. Secondo il dossier di We World Onlus il 25% dei giovani giustifica i maschi violenti e ActionAid denuncia la poca trasparenza nell’utilizzo dei fondi stanziati grazie alla legge sul femminicidio
di Luisiana Gaita *
Non solo 25 novembre. La violenza sulle donne si consuma ogni giorno: sono quasi 7 milioni - secondo i dati dell’ultimo rapporto Istat - le vittime che hanno subìto qualche forma di abuso nel corso della propria vita. Mentre secondo quanto emerge nel dossier “Rosa Shocking 2″ dell’associazione We World Onlus per un under 30 su tre gli episodi di violenza domestica vanno affrontati dentro le mura di casa. Tra dati allarmanti, app per difendersi sempre più diffuse e polemiche su quanto effettivamente si fa per combattere il fenomeno, l’ultima denuncia arriva da ActionAid e riguarda la mancanza di trasparenza sull’utilizzo dei fondi ad hoc da parte delle amministrazioni pubbliche.
UNA DONNA SU TRE HA SUBITO VIOLENZA - Secondo i dati dell’Istat (aggiornati al giugno scorso e relativi al 2014), sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Praticamente una donna su tre. Il 20,2% è stata vittima di violenza fisica, il 21% di violenza sessuale, il 5,4% di forme più gravi di abusi come stupri (si parla di 652mila casi) e tentati stupri (746mila). Mentre a rendersi responsabili delle molestie sono nella maggior parte dei casi (il 76,8%) degli sconosciuti, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Aumenta la percentuale dei bambini che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (si è passati dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014).
LA MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA - Nel rapporto Istat emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Un calo dovuto soprattutto a una maggiore consapevolezza delle donne, che riescono con maggiore frequenza a prevenire situazioni di pericolo e a uscire da relazioni a rischio. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6%) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Nessun segno di miglioramento per quanto riguarda gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014). Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014).
L’INDULGENZA DEGLI UNDER 30 - Ai dati Istat vanno incrociati con quelli del rapporto “Rosa Shocking 2. Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione“, che l’associazione We World Onlus ha condotto insieme a Ipsos Italia. Secondo il dossier il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo. Per il 25% (un giovane su 4) la violenza sulle donne è giustificato dal troppo amore oppure al livello di esasperazione al quale gli uomini sarebbero condotti da determinati atteggiamenti delle donne.
POCA TRASPARENZA NELL’UTILIZZO DEI FONDI - L’ultima denuncia sul fenomeno arriva da ActionAid, i centri antiviolenza della rete Dire e Wister. Le associazioni si sono riunite per presentare la mappatura delle risorse stanziate grazie alla legge sul femminicidio 119/2013 e finora spese. “Per il piano antiviolenza 2013/2014 sono stati stanziati 16 milioni e 400mila euro, ma solo 6 milioni sono arrivati nelle case rifugio” segnala ActionAid. Che chiede l’elaborazione di una mappa dei centri antiviolenza e più trasparenza nella gestione dei fondi da parte delle amministrazioni. Per monitorare la destinazione delle risorse si sono potuti raccogliere i dati di sole sette amministrazioni. Solo per dieci Regioni si può consultare la lista delle strutture che hanno beneficiato dei fondi statali e solo in cinque - Piemonte, Veneto, Puglia, Sicilia e Sardegna - sono stati pubblicati online i nomi di ciascun centro con le risorse ricevute. Dall’analisi delle delibere regionali, poi, “è emerso che non sempre i dati relativi al numero dei centri antiviolenza - come ha evidenziato il monitoraggio - combaciano con quelli del documento di riparto della Conferenza Stato-Regioni“.
LA TECNOLOGIA CHE SALVA LE DONNE - Sono sempre più numerose, invece, le App che aiutano le donne vittime di violenza, come Shaw, acronimo di Soroptimist Help Application Women. L’App connette l’utente al 112 per richiedere aiuto in situazioni di emergenza e fornisce anche informazioni legali su violenza e stalking mettendo in contatto la vittima con il centro antiviolenza più vicino. A Milano, la Asl e l’associazione Telefono Donna hanno lanciato l’applicazione gratuita “Stop Stalking” in cinque lingue diverse: italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Si possono memorizzare su un diario episodi preoccupanti, dagli appostamenti alle percosse per poi inviare le informazioni allo sportello stalking di Telefono Donna, aperto 24 ore su 24. Si chiama, invece, “Save the Woman” un’altra applicazione - studiata per prevenire gli abusi - lanciata dalla società Smartland e dalla criminologa Roberta Bruzzone. Attraverso un test si stabilisce il livello del rischio di violenza da parte del proprio partner, superato il quale la App consiglia di rivolgersi a un centro antiviolenza.
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Violenza donne? Per un giovane su 3 è fatto privato coppia.
25 novembre Giornata internazionale
Rapporto ’Rosa shocking 2’, violenza su donne è realtà culturalmente strutturata
(di Angela Abbrescia)
(ANSA) - La violenza domestica? Un fatto privato della coppia. Così la pensa quasi un giovane su tre in Italia, secondo quanto emerge da un sondaggio contenuto nel secondo Rapporto sulla violenza contro le donne e gli stereotipi di genere ’Rosa shocking 2’ curato da WeWorld Onlus insieme a Ipsos, con il Patrocinio della Camera e del Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio.
Nel sondaggio, l’obiettivo è capire come le nuove generazioni si posizionino su questi temi. In particolare, aumenta la percentuale, dal 19% al 22%, di chi dichiara che quello che accade in una coppia non deve interessare gli altri. Il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni, poi, afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo: l’aspetto istintivo legato alla violenza e il raptus momentaneo è per il 25% di questa fascia d’età giustificato e legittimato dal "troppo amore", oppure da una motivazione legata al preconcetto che le donne siano abili a ’esasperare’ gli uomini e che gli abiti succinti siano troppo provocanti, attribuendo, quindi, alle donne la responsabilità di far scaturire la violenza.
Nel rapporto si ricordano le dimensioni del fenomeno nel nostro Paese, i cui numeri continuano oggi ad essere allarmanti: sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Di queste solo l’11,8% denuncia gli abusi subiti. Secondo l’analisi del Rapporto sugli investimenti in prevenzione nel biennio 2012-2014, è necessario continuare a promuovere investimenti che portino ad una miglioramento della capacità di prevenzione del fenomeno.
Nel 2013 infatti c’è stato un investimento di 16,1 milioni (il picco più alto mai registrato), anche frutto di una forte campagna mediatica, mentre nel 2014 ci si attesta intorno ai 14,4 milioni. Un calo che evidenzia, secondo la onlus, la necessità di continuare a lavorare con determinazione nella sensibilizzazione di uomini, donne e giovani soprattutto.
Dal rapporto emergono anche segnali timidamente positivi: per la prima volta quando si parla di prevenzione e diritti delle donne inizia a emergere l’immagine di una donna vincente, non più solo vittima, di cui si valorizzano le capacità psicologiche e morali, una figura forte e vincente capace di essere esempio di riscatto per le altre donne. Emblematici in questo senso gli episodi di cronaca riconducibili a Lucia Annibali, Rosaria Aprea e Jessica Rossi, che però restano ancora casi isolati.
Il 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e WeWorld Onlus, la ONG che si occupa in Italia e nel Sud del Mondo di garantire i diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili, chiama le Istituzioni ad un’approfondita consapevolezza e reale presa di coscienza su come nel nostro Paese la violenza contro le donne non sia un fenomeno occasionale quanto, piuttosto, una realtà culturalmente strutturata e, al tempo stesso, ad una maggiore conoscenza degli aspetti economici e sociali, che tale fenomeno provoca, facendosi promotore del varo di politiche efficaci e preventive e, nel medio e lungo termine, a conseguire ad una contrazione del peso economico sulla comunità e del costo umano che tale situazione produce.
#ConLeDonneXLeDonne, una mostra contro le violenze di genere
A Roma al Chiostro del Bramante esposizione dei migliori scatti condivisi in rete
di Redazione (ANSA 20 novembre 2015)
Si intitola #ConLeDonneXLeDonne la mostra fotografica che riunisce i migliori scatti condivisi in rete contro la violenza di genere, in programma al Chiostro del Bramante, a Roma. Si inaugura stasera solo per le autorità, da domani 21 novembre sarà aperta al pubblico.
La mostra rimarrà aperta fino al 29 novembre.
L’esposizione raccoglie i migliori contributi condivisi da tutti coloro che hanno aderito alla campagna a supporto dell’associazione nazionale D.i.Re "Donne in Rete contro la violenza". Con una donazione all’associazione, i visitatori potranno scegliere di avere a casa una delle stampe simbolo di questa campagna e riceverla una volta terminata la mostra.
La bellezza di essere sensibili contro ogni forma di violenza: una provocazione lanciata da un’azienda che produce creme per il viso e per il corpo a base di acque termali e D.i.Re, che nasce dall’esigenza di suscitare un vero e proprio scatto culturale sul tema ancora troppo attuale e diffuso della violenza sulle donne con lo scopo di innescare un reale cambiamento sociale per contrastare la cultura della violenza di genere. Focus della campagna, il coinvolgimento massiccio della rete e dei social network, sui quali sono stati pubblicati in questo ultimo mese centinaia di contributi da tutta Italia.
Ultima tappa della campagna il twitterstorm programmato per il 25 novembre alle ore 10 nel quale tutti gli utenti saranno invitati a condividere un messaggio personale contro la cultura della violenza sulle donne con l’hashtag #ConLeDonneXLeDonne.
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
FRANCESCO, ALL’OMBRA DEL "TRADIZIONALE" MAGISTERO DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")!
DUE PAPI E UNA SOLA CATENA, "UNA CATENA DI GRAZIA":
IL BATTESIMO NELLA CATECHESI DI PAPA FRANCESCO.
Francesco, pericoloso «femminista»
Vaticano. Bergoglio, un uomo del nostro tempo
di Bia Sarasini (il manifesto, 18.09.2015)
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate». Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte - e anche molti laici - è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti - decostruiti per essere precisa - tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
Le femministe di regime contro Corbyn di Carlo Formenti *
Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era più espressione degli interessi delle classi lavoratrici, radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un partito di centro che, assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali della socialdemocrazia. Ma se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei.
Al coro di media mainstream, economisti, politologi, esponenti di partiti di destra, centro e sinistra (ad eccezione delle sinistre radicali) si sono aggiunte le voci delle “femministe di regime”. Non mutuo questa definizione da maschietti nostalgici del bel tempo andato, ma da intellettuali femministe come Silvia Federici, Nancy Fraser, Cristina Morini e Anna Simone - per citarne solo alcune - critiche di quel femminismo mainstream che - concentrandosi sui diritti individuali, sull’emancipazione e sui temi del riconoscimento e dell’identità di genere - ha rimosso la lotta per i diritti sociali e per l’uguaglianza politica ed economica. Una svolta che consente al neoliberismo di integrare il discorso femminista sul terreno di una “modernizzazione” culturale giocata a suon di chiacchiere politically correct e quote rosa (non c’è leader di destra che, maschilista fino a pochi anni fa, manchi oggi di esaltare i diritti delle donne). Così i giornali hanno attaccato Corbyn: prima perché non sembrava intenzionato a inserire un congruo numero di donne nel governo ombra, poi perché ne aveva messe più della metà ma in ruoli “secondari”.
Ancorché speciosa, la polemica è interessante perché mette in luce alcuni effetti della svolta appena accennata. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Maria Laura Rodotà sul Corriere di martedì 15 settembre. Dopo avere ironizzato sui maschi di sinistra - i quali sarebbero più intolleranti nei confronti del politicamente corretto “perché a loro è stato vietato troppo a lungo di fare i cretini” - l’autrice fa le pulci, oltre che a Corbyn, a Tsipras e al candidato alla nomination democratica Bernie Sanders (tutti colpevoli di circondarsi soprattutto di uomini).
In particolare, ricorda che i sostenitori di Sanders sono soprattutto uomini bianchi di tutte le età (in realtà c’è una consistente quota di giovani di ambio i sessi) mentre le donne (anche le liberal) preferiscono la Clinton perché convinte che il solo fatto di mandare una donna alla Casa Bianca cambierebbe il mondo (anche se le illusioni alimentate dall’elezione del nero Obama insegnano che il potere ignora razza e genere). Poco importa che la Clinton sia notoriamente sponsorizzata da Wall Street, il che rende risibile la sua pretesa di ergersi a paladina della lotta contro la disuguaglianza.
Conta più il genere o il programma? La Rodotà sembra indecisa: da un lato, ammette che il programma di Corbyn “è uno dei più femministi che ci siano”, ma dall’altro sottolinea che “viene proposto da una leadership di cinque uomini”. Meglio la oligarca Clinton del socialista Sanders solo perché è donna? Se qualcuna/o (oddio come sono politicamente corretto!) mi dicesse: meglio la senatrice Warren, perché è donna e schierata su posizioni vicine a quelle di Sanders, potrebbe convincermi ma io, da irriducibile “vecchietto”, continuo a pensare che sia meglio giudicare un leader in base al suo programma e alla coerenza tra il dire e il fare e non alla sua età, razza, genere o gusti sessuali.
Dominijanni, Ida.
Il trucco. Sessua lità e biopolitica nella fine di Berlusconi.
Roma: Ediesse, 2014. Pp. 251. ISBN 9788823019171. € 14.00 (paperback).
Nell’imponente quantità di pubblicazioni sul berlusconismo, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni , è finora l’unica solida riflessione teorica e femminista che ne analizzi gli aspetti fondativi, simbolici e strategici, mettendoli in relazione con la storia culturale e politica italiana degli ultimi quaranta anni e con la dimensione transnazionale.
Con profonda consapevolezza teorica, l’analisi della filosofa, femminista della differenza, saggista e storica editorialista del Manifesto , parte dalla nozione lacaniana dell’ “evaporazione del padre”- cioè la crisi dell’ordine simbolico incarnato dalla legge edipica - e si misura con il pensier o di Foucault, Arendt, Butler, Lonzi, Ž i ž ek , e Recalcati, per citare solo i riferimenti più eclatanti.
Ambizioso obiettivo del libro è la riconfigurazione teorica e storica del berlusconismo nel periodo che prende il via dalla stagione del “lungo sessantotto italiano” (33) e del femminismo, estenden dosi alla contemporaneità.
Dominijanni contesta le interpretazioni mainstream : la prima, che vede il berlusconismo come un’anomalia italiana del modello liberal democratico e un attacco ai principi costituzionali; la seconda, che insiste sulla realizzazion e politica della debordiana “società dello spettacolo”; la terza, infine, che denuncia una strategia politica di identificazione con un preciso blocco sociale che mira a difendere i propri interessi socio - economici, sullo sfondo del modello neoliberale e i ndividualista della postmodernità.
Queste tre linee interpretative colgono alcuni dei tratti salienti del regime berlusconiano, nota Dominijanni, ma ne offrono una visione parziale. Il trucco capovolge i discorsi sul berlusconismo, riportando al centro d ell’analisi l’azione dirompente che la sessualità, il corpo e gli affetti esercitano sulla politica. Discutendo il berlusconismo come un’“inedita forma di governamentalità biopolitica e post- patriarcale” (27) fondata sullo scambio di sesso, potere e denaro , la studiosa analizza la sfera della sessualità nella sua funzione, innanzi tutto, di strumento di codificazione del “regime del godimento” (25), basato sull’autoimprenditorialità del corpo e della sua libera offerta come merce di scambio negli ambiti soc io- culturali ed economici del neoliberalismo.
D’altra parte, è proprio la sessualità, sostiene Dominijanni, ad aver delegittimato il berlusconismo attraverso la denuncia dell’immagine fallace e strategica del sovrano.
Si tratta di una vera e propria ribell ione all’ordine simbolico post- patriarcale che prende forma nella presa di parola delle donne del sexgate e rivela la natura del “trucco” che dà il titolo al libro, cioè la fondamentale “impotenza” (17) del sovrano.
Tesi di fondo del libro è che la ventenn ale egemonia del berlusconismo sia stata neutralizzata non tanto sul terreno economico, quanto per l’appunto su quello della sessualità.
Dopo una premessa metodologica e un’introduzione teorica (“ Dalla fine . Spettri di Berlusconi”), l’analisi si snoda in nove serrati capitoli che discutono i tratti fondanti del berlusconismo nella loro valenza simbolica e storica.
Il rigore dell’argomentazione e l’originale storicizzazione dei fatti si intersecano con la vivacità giornalistica e lo spirito polemico dell’au trice, che sollecita una rilettura del presente alla luce dei dispositivi di potere messi in atto dal berlusconismo. Dominijanni decostruisce i concetti- chiave, le figure e le retoriche del berlusconismo, adottando un criterio di analisi deliberatamente sp iazzante ed efficace, quello degli spostamenti strategici “che hanno consentito alle ‘guerre culturali’ neoconservatrici degli ultimi decenni di costruire egemonia sopra e contro lo stesso terreno arato dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta” (14 5) .
Questi spostamenti sono semantici, retorici, culturali e simbolici e comportano rilevanti conseguenze politiche.
Lo spostamento valoriale analizzato nel primo capitolo (“La partita della libertà”) investe il concetto di libertà.
Un esempio fra tutti. A llo scopo di auto- legittimarsi come “padre fondatore” (37), Berlusconi si è appropriato della Festa della Liberazione, liturgia fondativa della patria basata sull’eredità culturale e politica della Resistenza antifascista, riformulandola come “Festa della Libertà” (38), cioè una celebrazione unitaria e popolare, tesa ad includere tutte le posizioni politiche.
Con una simile deviazione semantica, Berlusconi ha trasformato il partito in “Popolo delle Libertà ,” affermando la propria identificazione con un’idea astratta di popolo e ufficializzando l’inclusione dell’Italia nell’area valoriale della politica liberale.
Dominijanni sottolinea che questo “slittamento semantico” ha condotto a uno “slittamento politico di prima grandezza” (40), in quanto Berlusconi int erpreta il termine “libertà” in modo ambivalente: da un parte, come volontà di trasgredire le norme stabilite dalla costituzione e, dall’altra, come affermazione della libertà imprenditoriale e consumistica imposta dal neoliberalismo.
In questo contesto, l a libertà diviene un’esperienza negoziabile e flessibile, che si realizza ai confini della legalità e può configurarsi sia come affermazione di un diritto che come consenso servile.
Altri spostamenti sono esaminati nel libro. Centrale è la discussione co ndotta nel terzo capitolo (“Parole che contano”), in cui l’autrice discute la funzione destrutturante della parola femminile nei discorsi delle donne coinvolte nel sexgate.
La presa di parola si articola infatti in modalità che vanno oltre le retoriche e i cliché rappresentati dalle donne “parlanti,” cioè l’intellettuale (Ventura), la moglie (Lario) e la prostituta (D’Addario e le altre). Lario, ad esempio, non solo denuncia il tradimento coniugale, ma il sistema di potere che usa le donne per potenziare il corpo del capo e provocare l’identificazione con la popolazione maschile.
Perfino le conversazioni “impietose” delle Olgettine ridicolizzano il corpo del capo, rendendolo una “copia comica e farsesca di se stesso ” (85).
Dominijanni fa notare come la politica berlusconiana abbia messo in atto il “dispositivo dell’internamento” contro queste donne, stigmatizzandole, censurandole e relegandole ai margini del discorso politico.
Questo ulteriore spostamento è strettamente con nesso a strategie retoriche e simboliche che Dominijanni analizza in altri capitoli del libro: lo “sconfinamento” (104) del pubblico nel privato , la ridefinizione in chiave libertina del conce t to di privacy (“Privato e pubblico, personale e politico”) e lo slittamento del rapporto fra morale e politica (“Penale, morale, politico”), in cui l’autrice discute lo “scarto di senso” (141) della narrazione berlusconiana, fondato sulla ridefinizione del rapporto tra libertà, potere politico e legge.
Particolarme nte originale è l’inquadramento storico del berlusconismo a partire dal Sessantotto e dal femminismo, un’intuizione che la studiosa articola nel sesto (“Papi e il nome del padre”) e nel settimo capitolo (“‘Veri’ uomini, ‘vere’ donne”).
Contestando le coord inate cronologiche del ventennio berlusconiano, Dominijanni vede nel berlusconismo la risposta “perversa” (33) e “regressiva” (175) alle istanze innescate dalla stagione del Sessantotto e del femminismo.
Il berlusconismo non ha realizzato quelle istanze, m a le ha invertite, trasformando la domanda di creatività, l’affermazione della liberazione sessuale, il bisogno di democrazia e il conflitto fra i sessi in regime del godimento, mercificazione, populismo mediatico e strategia di assoggettamento e ri- natura lizzazione dei ruoli di genere. In altre parole, il capitalismo neoliberale di cui il berlusconismo è la realizzazione italiana, ha marginalizzato le domande di ribellione e reso ambivalente la nozione di libertà femminile, secondo la quale la “vera” donna è figlia “ sia della rivoluzione femminista sia dell’egemonia neoliberale, e porta dunque sia il segno politico della libertà femminile, sia il segno della sua traduzione nella lingua economica della ‘libera scelta’ e dell’au toimprenditorialità” (194).
Un altro spostamento , quindi, forse il più rilevante sul piano socio- culturale e politico. L’analisi dei dispositivi di potere del berlusconismo elaborata da Dominijanni permette alla studiosa di interrogarsi sulla possibilità di nuovi spazi di soggettivazio ne e pratiche femministe.
Pur tralasciando la prospettiva queer, Dominijanni si confronta con una grande varietà di posizioni critiche contemporanee, fra cui il postfemminismo anglosassone, e contesta le rivendicazioni neo- femministe incentrate sulla lotta al femminicidio, la denuncia del sessismo dei comportamenti e del linguaggio e la richiesta di quote rosa (specie negli ultimi due capitoli: “Dopo il patriarcato. Femminismo e questione maschile” e “Dispositivo di sessualità, regime politico”).
Contro una riflessione critica che aspira semplicemente all’intercambiabilità di genere e non promuove pratiche diverse da quelle imposte dal post- patriarcato, Dominijanni riporta al centro del “conflitto politico fra i sessi” (27) la sfera della sessualità, che si pone come “tecnica del potere [...] decisiva per la soggettivazione” (27).
Il trucco è un libro provocatorio e coinvolgente, che sollecita nuovi interrogativi non solo sull’età berlusconiana, ma anche e soprattutto sul ruolo del femminismo nella vita culturale, sociale e politica della società contemporanea.
NICOLETTA MARINI-MAIO
Dickinson College
Quando le ateniesi scoprirono l’arma del sesso
Mentre la città assiste alla prima della Lisistrata due giovani vengono brutalmente violentate: un affresco crudo e avvincente della Grecia nel 411 a. C. con le donne che combattono per la giustizia e la democrazia contro gli oligarchi
di Mirella Serri (La Stampa/TuttoLibri, 05.09.2015)
«La Grecia antica sembra molto lontana, ma non è così. E’ stata il laboratorio delle più scottanti questioni politiche che ancora adesso dominano lo scenario internazionale, dalla gestione della democrazia ai governi dittatoriali. Al tempo della guerra del Peloponneso si protestava contro gli oligarchi ateniesi e ora, analogamente, lo scontro avviene con i vertici della finanza internazionale. Nel mondo classico Atene era il cuore dell’Impero, forte e straricca. Attualmente proprio la piccola e marginale patria di Alexis Tsipras ha infastidito e messo in crisi le capitali mondiali in cui si concentrano risorse economiche e potere». Grecia di ieri e di oggi: lo storico e narratore Alessandro Barbero, di cui è in uscita l’avvincente romanzo Le Ateniesi, individua nel passato uno specchio della nostra complicata modernità. E lo fa raccontando una vicenda dura e coinvolgente, un terribile abuso sessuale di gruppo che avviene mentre tutta Atene è sugli spalti per assistere alla prima della Lisistrata, la commedia in cui Aristofane, scandalizzando un contesto sociale in cui le donne non avevano alcuna autonomia, immagina una netta presa di posizione femminile di fronte al protrarsi del conflitto.
Medievista per formazione e traditore per vocazione - ha ambientato, per esempio, in epoca napoleonica Bella vita e guerre altrui di mr. Pyle, gentiluomo, con cui ha vinto il premio Strega - l’autore torinese, adesso, si è trasformato in un «viaggiatore incantato» di periodi più remoti. A spingerlo in quest’esplorazione è stata la lettura dei libri di Luciano Canfora e il desiderio di confrontarsi con il «sistema democratico ateniese - spiega Barbero - che assicurava il voto a tutti e offriva anche forme di sussistenza e di reddito garantito per i più poveri». Il prologo delle Ateniesi si apre al suono dei flauti che accompagnano gli spartani in guerra: quella musica ammaliante nella battaglia di Mantinea irretisce e intrappola due opliti ateniesi, Polemone e Trasillo, che finiscono sotto le spade nemiche e vengono feriti ma non a morte. Sette anni dopo l’epico scontro, i due ex combattenti, nonché genitori di due graziose fanciulle, assistono alla rappresentazione della Lisistrata dove le consorti, stanche di essere lasciate sole dai loro mariti, fanno lo sciopero del sesso e occupano l’Acropoli. Grandi protagoniste del romanzo di Barbero, che si svolge alla fine dell’inverno del 411 a.C., sono dunque le donne, al contempo vittime ed eroine.
La violenza sulle due figlie di Polemone e Trasillo si verifica mentre i cittadini di Atene sono a teatro: questa simultaneità degli eventi, l’abuso sessuale e la rivolta femminile, ha un valore simbolico?
«Lo stupro è la manifestazione del profondo disagio degli uomini di fronte al desiderio di emanciparsi delle mogli. Non confondiamo però Lisistrata con le progressiste pacifiste e “di sinistra” dei nostri giorni: l’astinenza tra le lenzuola da lei promossa coincide con il desiderio di pace degli oligarchi che, al contrario della plebe e della gran massa della popolazione, non vedevano nel conflitto un’occasione di guadagno. Nei capitoli in cui narro la rappresentazione teatrale della Lisistrata - che ho personalmente ritradotto dal greco - ho cercato di dar vita alle emozioni degli spettatori, alle urla d’indignazione, ai berci e alle discussioni che accompagnarono lo spettacolo».
Ma il vero e più cruento show si svolge altrove, fuori dal teatro, nella sontuosa magione dove le ragazze, attirate con un inganno, vengono torturate e ridotte in fin di vita da Cimone e dai suoi amici: in queste pagine al lettore sembra di rivivere il massacro compiuto al Circeo dai tre pariolini, esponenti della Roma bene. Era nelle sue intenzioni?
«Ogni generazione conserva la memoria indelebile di qualche eccidio. Mio padre non dimenticò mai la strage di Villarbasse in Piemonte del 1945 in cui dieci persone vennero bastonate e gettate vive in una cisterna. A 16 anni mi s’impresse come un marchio il delitto del Circeo in cui i violentatori erano tali anche per affermare la loro superiorità sociale ed economica».
I ricchi che abusano delle fanciulle sono gli stessi aristocratici che vogliono abbattere le istituzioni democratiche?
«Quello ateniese era un governo del popolo che, è necessario ricordarlo, aveva anche un volto assolutamente spietato. Quando gli abitanti di Melos scelsero di essere neutrali, i combattenti di Atene sgozzarono gli uomini e ridussero in schiavitù donne e bambini. Ho affidato a Crizia, politico, filosofo e scrittore, il compito di organizzare un putsch pacifista con altri nobili riuniti nelle Eterie, le sette segrete che praticavano la lettura di opere poetiche, la pederastia come forma di educazione per i giovani e l’abitudine del simposio esclusivamente maschile».
Nel suo libro i sussulti antidemocratici si risvegliano quando si percepisce una diffusa fragilità. Un altro richiamo alla contemporaneità?
«Mentre scrivevo non pensavo ai nostri giorni più recenti ma al Novecento, all’avvento del fascismo, agli sconvolgimenti dittatoriali che hanno segnato il Sudamerica. Crizia poi diventerà il capo dei Trenta Tiranni e instaurerà il terrore condannando a morte i suoi avversari, cacciando via i meno abbienti dal governo della città, privandoli del voto e di ogni trattamento umano».
In Italia ora, però, non si sente per fortuna alcun tintinnar di sciabole. Cosa ci insegna il mondo classico?
«Stiamo vivendo in un momento di svuotamento e di profonda trasformazione delle istituzioni. La democrazia anche quella moderna è una conquista che non è data una volta per tutte, è instabile e mutevole e va tutelata, questa la lezione dell’antichità, dai soprusi dei più facoltosi e potenti».
Psicoanalisi e femminismo
Madre, soggetto d’amore
Una lucida analisi di Jessica Benjamin spiega perché i legami affettivi si trasformano spesso in dolorosi rapporti di potere
di Vittorio Lingiardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
La riflessione freudiana sull’autorità «ha luogo in un mondo esclusivamente maschile. La lotta per il potere si svolge tra padre e figlio; la donna non vi ha parte alcuna, se non come ricompensa o perché induce alla regressione, oppure come terzo vertice di un triangolo. Non c’è lotta tra uomo e donna in questa storia; anzi, la subordinazione della donna all’uomo è data per scontata, invisibile». Ma la teoria femminista «non può accontentarsi di conquistare per le donne il territorio degli uomini».
Il femminismo, quando incontra la psicoanalisi, ha un compito più complesso: trascendere la contrapposizione. Perché questo avvenga è però necessario che la psicoanalisi rinunci a quelle certezze che, con mano maschile, ha scritto sul corpo delle donne. Rinunci alla polarizzazione di genere, «origine profonda del disagio della nostra civiltà». Apra la gabbia teorico-evolutiva della «scissione tra un padre simbolo di liberazione e una madre simbolo di dipendenza», perché per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che «l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza» (e dunque «diventare soggetto di desiderio comporta il rifiuto del ruolo materno», se non della stessa identità femminile). Impari a pensare alla madre «come soggetto a pieno diritto» e non «semplice prolungamento di un bambino di due mesi».
La vera madre non è semplicemente oggetto delle richieste del suo bambino, ma «è un altro soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino se dovrà sapergli concedere il riconoscimento che cerca». Solo se la madre diventa soggetto, e non solo oggetto d’amore del bambino, prenderà vita quel reciproco riconoscersi che per tutta la vita nutrirà le relazioni d’amore.
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato - scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi - la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?».
Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi».
Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato».
Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre.
Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate. Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva.
Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda - dice - sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».
Donne di Fatto
Femminicidio: la Regione Puglia parte civile in un processo
di Nadia Somma, Presidente Centro antiviolenza Demetra *
La Regione Puglia per la prima volta si è costituita parte civile in un procedimento penale per femminicidio insieme al centro antiviolenza Safiya di Polignano a Mare e all’associazione Giraffa. Lo scorso novembre è cominciato il processo ad Antonio Colamonico accusato dell’uccisione di Bruna Bovino avvenuta il 12 dicembre 2013 in piccolo centro estetico a Mola di Bari. Ripetendo un copione purtroppo visto molte volte, una parte della stampa aveva offuscato il ricordo della vittima rispecchiando i pregiudizi culturali che nella società italiana come nelle altre, rimuovono la violenza di genere e colpevolizzano le vittime.
Grazie alla costituzione di parte civile della Regione Puglia e delle associazioni Safiya e Giraffa la realtà delle radici culturali della violenza di genere sarà affermata in maniera ancora più forte in un aula di tribunale e potrà sensibilizzare l’opinione pubblica e cambiarne la percezione nei confronti di questo crimine.
Trent’anni di impegno delle associazioni di donne sul tema della violenza di genere hanno dato risultati. Oggi la costituzione di parte civile da parte della Regione Puglia è prevista in un articolo della legge regionale contro la violenza di genere varata l’estate del 2014.
Il 13 gennaio scorso la Corte D’Assise ha accolto le richieste della Regione e delle due associazioni nonostante le opposizioni dei legali dell’imputato che non ritenevano femminicidio la morte di Bruna perché non era stato conseguenza di un’aggressione sessuale e perché sarebbe stato discriminatorio nei confronti degli uomini o di qualunque altro omicidio. Il pubblico ministero invece si era opposto solo alle richieste delle associazioni Safiya e Giraffa perché i loro interessi sarebbero stati tutelati dalla Regione.
Ma le motivazioni di Barbara Spinelli, avvocata del Foro di Bologna che tutela gli interessi del Centro Antiviolenza Safiya, hanno convinto i giudici. La legale ha spiegato che
nel nostro ordinamento anche reati “neutri” come l’omicidio e le lesioni possono essere considerati forme di violenza sulle donne proprio perché inclusi nella definizione adottata dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013 e l’Associazione Safiya è portatrice di un danno diretto derivante dal femminicidio di Bruna Bovino perché oltre alla lesione del diritto alla vita della donna a cui è stata usata violenza diretta ad ucciderla, il femminicidio costituisce una profonda ferita per la società tutta.
Nel momento in cui a una donna, nell’ambito di una relazione sentimentale, non viene riconosciuta la dignità di persona, ed in quanto tale viene fatta oggetto di violenza, fino alla morte, ricercando poi l’impunità per il delitto commesso, l’intera collettività è responsabile per l’eliminazione di quella cultura e di concezione distorta delle relazioni che ancora oggi minano l’autodeterminazione, la libertà e finanche la vita delle donne.
Safiya sta aiutando anche le famigliari di Bruna Bovino e sta sostenendo le spese legali e per questo ha chiesto la solidarietà delle cittadine e dei cittadini di Polignano a Mare, delle Istituzioni, dei Centri Antiviolenza della rete regionale e nazionale, delle associazioni di donne, di tutte e tutti coloro che vogliono sostenere la battaglia contro il femminicidio, perché venga ribadito il diritto alla libertà delle donne e si spazzi via l’arcaica convinzione che sia giustificabile l’uccisione di una donna che rivendica le sue scelte o che entra in conflitto con un uomo o con gli schemi imposti dalla società.
Società
La mamma, Dio e la nonviolenza
di Monica Lanfranco (Il Fatto, 18 gennaio 2015)
Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso? Pubblicità
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).
Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione.
Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
Attente donne: ne uccide più il compagno che l’estraneo. La violenza (non solo sessuale), avviene troppo spesso in famiglia. Se accade occorre parlarne, prima che si trasformi in tragedia.
Che piaccia o meno accettarlo, le donne sono da sempre ed anche in modo più o meno nascosto, soggette a violenza. E’ un dato in alcuni casi non visibile (da insegnante in qualche caso ne sono venuta a conoscenza per “confessione” più o meno esplicita di allieve), questo perché l’effetto più frequente della violenza è la vergogna e la perdita di autostima, e tanto conduce chi ne è vittima a tacere. La violenza é, più spesso di quanto piacerebbe credere, di tipo “domestico”, ovvero si verifica in famiglia da parte di parenti o di amici intimi e accompagna la vittima a effetti che vanno molto al di là del danno fisico, quando non conducono alla morte. Tuttavia non dobbiamo immaginarla soltanto come un evento fisico, perché esistono differenti tipi di violenza: La violenza fisica va dal picchiare con o senza l’uso d’oggetti, spintonare, tirare per i capelli, prendere a schiaffi, a pugni, prendere a calci, strangolare, con le mani o con altri mezzi, ustionare, sfregiare con l’acido, ferire con un coltello o con altre armi (anche improvvisate) ed altresì torturare o uccidere. Deve essere considerata violenza anche quella psicologica, il minacciare, lo stalking e gli atti persecutori anche a mezzo web (che troppo spesso si traducono poi in violenza fisica), l’insultare, l’umiliare, l’attaccare l’identità e l’autostima, l’isolare la malcapitata impedendole o controllandone le relazioni con gli altri, il cacciarla fuori casa o metterla in condizione di andarsene, rendendone impossibile la permanenza, o al contrario, il segregarla in casa (casi di rapimento, segregazione e violenza perpetuati anche per anni sono “comuni”, non in Italia; quelli scoperti hanno indignato il mondo). Nondimeno è recente (3 ottobre del ‘14) ed avvenuta in Italia, a Pavia (non da parte di un italiano), la vicenda di una ragazza diciottenne di origini marocchine, segregata in casa dal fratello di 26 anni, assieme alla cognata di 22, perché non voleva “spacciare”, liberata poi per mezzo dei carabinieri di Vigevano. Occorre considerare anche la violenza economica: il sottrarre alla donna il suo stipendio, l’impedirle qualsiasi scelta nei confronti della gestione nell’economia familiare, l’obbligarla a lasciare il lavoro o l’impedirle di trovarsene uno, ma anche il costringerla a firmare documenti, a contrarre debiti, ad avviare progetti economici (a volte truffe), con l’ansia e la paura per la propria condizione e per quella dei propri figli unite all’autocolpevolizzazione, ad un intimo senso di inettitudine, alla depressione. Quanto esposto si accomuna a traumi dagli esiti più o meno reversibili cui in molti casi fanno seguito problemi psico-somatici, impedimenti del sonno, danni durevoli alle articolazioni, cicatrici, ed inoltre perdita parziale dell’udito e/o della vista. La violenza sulle donne è in moltissimi casi custodita tra le mura di casa e accettata come un dovere. E’ anche a causa di tale silenzio se all’improvviso lo scoppio della violenza si traduce in omicidio, laddove la donna decida -infine- di liberarsi, informando il compagno o coniuge, della sua volontà di lasciarlo. Seppure la storia insegna che la richiesta di aiuto, anche ai parenti o alle forze dell’ordine, non sempre salva la vittima dall’omicidio, dalla brutalità che conduce all’ospedale o dall’essere sfigurate a vita (emblematico il caso dell’aggressione con l’acido subita dall’avvocatessa Lucia Annibali, a Pesaro, da parte dell’ex fidanzato Luca Varani). La violenza, se non fa perdere la vita o non lascia sfigurati nel corpo o nell’animo, può condurre alla perdita del lavoro, della casa e di eventuali altre proprietà, e non difficilmente a quella del proprio tenore di vita, qual ora si decida che la libertà dal coniuge/compagno valga di più della sicurezza economica. La sopportazione di qualsiasi tipo di aggressività conduce all’isolamento, all’assenza di partecipazione nel sociale e nelle relazioni con l’esterno, alla perdita di relazioni amicali. Inoltre: una moglie picchiata è in molti casi mamma e la violenza produce conseguenze gravissime non solo sulla donna, ma anche sui figli, sempre che ne escano vivi entrambi. E’documentato che i bambini e le bambine cui tocca in sorte di assistere a scene di violenza domestica (recentissima quella di Cattolica - Rimini - laddove Raffaele Ottaviano, 30 anni, ha ucciso la moglie Ivana Intilla, 27 anni, a coltellate e si è tolto la vita in presenza dei due figli gemelli di tre anni, che erano a casa con loro (fortunatamente senza scaricare anche su di loro la sua rabbia), o che ne sono stati/e vittime in prima persona, mostrano problemi di salute e di comportamento, tra cui disturbi di peso, d’alimentazione o del sonno. Inoltre possono avere difficoltà a scuola, possono cercare di fuggire da casa o anche mostrare tendenze suicide e da adulti non riuscire a sviluppare relazioni intime corrette. Quando non vengono loro stessi uccisi. Tutto ciò dovrebbe portare l’attenzione della società alla prevenzione di queste violenze, troppo spesso domestiche e ritenute “inattese” dai vicini (e qualche volta dagli stessi parenti). Sappiamo bene, ad indagare a fondo dietro ogni morte, ogni ferimento, ogni omicidio di bambini assieme alle madri o ad entrambi i genitori (omicidio/suicidio), che non è affatto così: Quando le donne non hanno fatto direttamente richiesta di aiuto alle forze dell’ordine, si sono certamente espresse coi familiari, ne sono state consapevoli, hanno intuito che il filo sottile tra la vita e la morte stava per spezzarsi, ma non è stato fatto per loro qualcosa di drastico e conclusivo, che impedisse la tragedia. La storia insegna che l’autore di femminicidio non è uno sconosciuto o quello che può essere definito un "maniaco incontrato per caso". (fatti salvi i casi quali quelli di Yara). Ad uccidere la donna è un partner, un ex partner o un familiare, quindi un essere umano legato a lei da un rapporto stretto e che in teoria avrebbe dovuto amarla. Annotiamo: Solo in 14 casi su 1036 l’assassino risulta essere stato un estraneo; soltanto in 34 casi su 1036 l’assassino è legato al mondo della prostituzione (sfruttatori e clienti della vittima). Soltanto in 82 casi su 1036 l’assassino è collegato alla vittima in modo epidermico e può essere definito un conoscente. In 195 casi su 1036 l’assassino è legato invece alla sfera familiare, comprendendo con essa sia parenti diretti che acquisiti. In 629 casi su 1036 l’assassino è un partner presente (483 casi). Che fine fanno gli assassini? maggiormente emergono (quando viene accertato), due conclusioni più comuni: l’arresto e il suicidio (tentato o riuscito). Su 1036 casi di femminicidio in Italia 553 volte il colpevole è stato assicurato alla giustizia (nella maggior parte dei casi per autodenuncia e spontanea consegna alla polizia) mentre in circa 296 casi l’autore dell’omicidio http://www.stopfemminicidio.it/fineass.phpha tentato (48 volte) o è riuscito nell’intento del suicidio. Ma in ogni caso la donna è morta. Bianca Fasano Note: http://www.stopfemminicidio.it/fineass.php
25 novembre, mobilitazione nazionale CGIL contro violenza sulle donne *
Il 25 novembre milioni di donne faranno sentire la loro voce in Italia e nel mondo perché la violenza contro le donne è una delle forme più gravi di violazione dei diritti umani. Le azioni di prevenzione, contrasto e punizione intraprese dai governi finora non sono state sufficienti a frenarla solo in Italia, nei primi sei mesi del 2013, sono state uccise 81 donne. La Cgil proseguendo il percorso intrapreso lo scorso anno con la campagna: La violenza contro le donne è una sconfitta per tutti, invita i lavoratori e le lavoratrici a partecipare alla Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne con una una vasta mobilitazione nazionale, che vedrà i territori impegnati con iniziative sindacali unitarie fuori e dentro i luoghi di lavoro. Perché maltrattare, uccidere un a donna, non è soltanto una violenza contro una persona ma è la spia di un deficit di democrazia, un crimine contro un’intera società.
Vive le donne è lo slogan del manifesto che quest’anno verrà affisso nelle città e nei luoghi di lavoro e a questo link è possibile trovare le iniziative in tutta Italia per dire NO ad ogni forma di violenza contro le donne.
*
FLC CGIL nazionale
“Non chiedete a noi la soluzione”
di Nadia Somma (il Fatto, 18.01.2013)
Le donne sono l’anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l’assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole”, così Francesco Dettori, procuratore capo del Tribunale di Bergamo, ha commentato i tre stupri avvenuti in pochi giorni tra Milano e Bergamo.
Eppure anche le sue parole rivelano quel senso di possesso della donna come oggetto, qualcosa che deve essere tutelato e difeso. La tutela della donna, una soluzione antica per una violenza altrettanto antica. Antica quanto inutile. Dopo i tanti vademecum antistupro, i consigli su come vestirsi, atteggiarsi e camminare, i collari antiaggressione, ecco il consiglio di non uscire di casa o di farlo ma accompagnate (da un fidanzato, fratello, marito, padre?).
Chi ci protegge dai protettori?
Ma lo stupro, come la violenza sulle donne, non è un problema di comportamenti femminili e tantomeno di sicurezza. La brutale aggressione avvenuta a l’Aquila che ridusse in fin di vita una studentessa avvenne ad opera di un militare che era in missione proprio per la sicurezza della città. “Chi ci protegge dai protettori? ” domandava un antico slogan femminista. È sempre fuorviante e sbagliato ricercare le cause in comportamenti delle vittime: gli inutili consigli sull’abbigliamento e gli inviti a non essere “provocanti sessualmente” sono solo giustificati dai pregiudizi sullo stupro che colpevolizzano la donna o la responsabilizzano. La violenza sessuale non scaturisce dall’eros perché è legata alla volontà di denigrare, umiliare la vittima e annichilirla. È una metafora della morte ed è piuttosto affine a thanatos.
Cambiare subito l’obbiettivo degli appelli
Testimonianze di stupratori confermano che la scelta della vittima è fatta a prescindere dall’età, dall’aspetto fisico, o dal comportamento. Quanto a non uscire di casa che cosa si dovrebbe consigliare alle donne che con gli autori delle violenze convivono?
Sappiamo che le violenze sulle donne da parte di estranei sono solo la più piccola percentuale delle violenze che colpiscono le donne perché nel 75% dei casi, secondo i dati dei centri antiviolenza, sono attuate dal partner.
I messaggi o i consigli rivolti alle donne per evitare lo stupro servono solo ad alimentare e mantenere in vita un retaggio culturale che vorremmo lasciarci alle spalle e che continuano a esporre le donne alla stigmatizzazione sociale quando sono aggredite e non agevolano lo svelamento della violenza per permettere loro di elaborarla e chiedere aiuto. Il piano del problema resta di cultura e di civiltà.
Ci piacerebbe una volta tanto che i messaggi sullo stupro fossero rivolti agli aggressori, e che non si possa più chiedere alle donne di scegliere tra autodeterminazione e incolumità fisica o sessuale, tra la loro libertà e la loro vita.
Se Eva non vuole le donne vescovo
di Giovanni Panettiere (Quotidiano.net, 29 novembre 2012)
CHI HA UCCISO le donne vescovo? Chi ha affossato la riforma della Chiesa d’Inghilterra? I successori degli apostoli? I parroci? No Signore, i laici. Metà dei quali di sesso femminile. A decretarlo l’analisi del voto al Sinodo generale che una decina di giorni fa ha bocciato l’ordinazione episcopale in rosa. Servivano i due terzi dei suffragi in ciascuna delle tre camere dell’assemblea (vescovi, preti e laici). I bookmakers scommettevano su una vittoria al filo di lana dei progressisti. Si sbagliavano: 44 voti a favore e tre contrari fra i vescovi, 148 sì e 45 no nel clero, ’solo’ 132 favorevoli e 74 contrari tra i laici.
ORA si è venuto a sapere che nella terza camera metà dei no all’ordinazione episcopale femminile
sono arrivati dalle rappresentanti del gentil sesso. Susie Leafe ha votato contro la riforma:
DI TUTT’ALTRO avviso il segretario generale del Sinodo, William Fittall, che è già al lavoro per
ribaltare il responso del 20 novembre. Nel documento intitolato Women in the Episcopate-Where
Next? sottolinea:
I LIBERAL sognano di poter tornare a discutere la questione, magari partendo dalla bozza Fittall, già nel Sinodo generale di luglio, anche se, di regola, servirebbero tre-cinque anni per poter ripresentare una proposta cassata dall’assemblea generale. Dalla loro hanno il fatto che la riforma non è passata per un soffio. Vedremo se basterà. La volontà finale del fronte riformatore è quella di sottoporre al Parlamento di Sua Maestà la delibera favorevole all’ordinazione episcopale femminile entro e non oltre il 2015. Non si deve dimenticare che il diritto costituzionale britannico e gli stretti rapporti tra Stato e Canterbury conferiscono al Sinodo la possibilità di avanzare e approvare proposte di legge inerenti la Chiesa di Inghilterra, ma la parola finale resta al Parlamento.
INSOMMA, la corsa contro il tempo è appena iniziata. C’è da chiedersi se la fretta sia la migliore consigliera dei progressisti. Verissimo che la riforma, cifre alla mano, è a un tiro di schioppo, ma è altrettanto vero che, se Eva si oppone alle donne vescovo, la strada del cambiamento si fa lunga e dall’ incerto destino. Con il rischio che i riformatori perdano non più la battaglia, ma la guerra
L’appello
Già 54 donne uccise quest’anno
"Il Parlamento affronti l’emergenza"
"Se non ora quando" chiede di fermare il "femminicidio". Più di mille adesioni in poche ore *
ROMA - Cinquantaquattro donne morte per mano di un uomo dall’inizio dell’anno a oggi. È il triste primato dell’Italia. Lo denuncia, parlando di "femminicidio", "Se non ora quando" (Snoq), la rete delle donne, in un appello che in poche ore ha raccolto sul Web più di mille adesioni, da Nadia Urbinati a Rosetta Loy. Nell’appello le donne chiedono che i "media cambino il segno dei racconti di quelle violenze, non li riducano a trafiletti, cancellando con le parole le responsabilità".
PER LEGGERE E FIRMARE L’APPELLO
"Il femminicidio non è solo un fatto criminologico ma ha una valenza simbolica del rapporto (arretrato) uomo-donna in Italia. Ecco perché riguarda la politica", sottolinea Cristina Comencini di Snoq. Ed è per questo che Snoq chiede anche "agli uomini di aprire gli occhi e di camminare e mobilitarsi con le donne per porre fine a questo orrore". Telefono Rosa ha scritto al premier Monti: "Servono risorse economiche e una commissione straordinaria". Barbara Pollastrini del Pd ha chiesto un piano di sicurezza e la senatrice Adriana Poli Bortone ha annunciato che in Senato c’è un ddl per l’inasprimento delle pene contro il femminicidio. Dal mondo politico anche le adesioni di Nicola Zingaretti, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Costanza Quatriglio
Il testo dell’appello "Mai più complici":
Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima vittima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità.
E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà. E ancora una volta come abbiamo già fatto un anno fa, il 13 febbraio, chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d’Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà.
Vogliamo che l’Italia si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla.
Comitato promotore nazionale Senonoraquando, Loredana Lipperini, Lorella Zanardo-Il Corpo delle Donne
* la Repubblica, 28 aprile 2012
La Spoon river delle donne
Femminicidio: una parola che dà senso all’orrore
Uccise, massacrate, violate
Chiediamo agli uomini un atto di responsabilità per non essere complici dei killer. E per denunciarli
di Sara Ventroni (l’Unità, 25.11.2012)
ROMA FINCHÉ LE COSE NON HANNO UN NOME NON ESISTONO. SCIVOLANO NELL’OMBRA, NELLA VERGOGNA, NEI SENSI DI COLPA. Finché le cose non hanno un nome, nessuno sa riconoscerle. Allora le cose ci inghiottono nel loro buco nero. In solitudine. Poi è troppo tardi. Poi non c’è più fiato per dire che no, quello non era amore.
Femminicidio (o femicidio) è una parola che dà fastidio. È una parola che suona male, che si stenta a pronunciare perché per alcuni puzza di femminismo. Ha la stessa radice, lo stesso scandalo. Eppure è proprio dal momento in cui questa parola è stata detta, che si è potuto finalmente dare un nome a un fenomeno che ci si ostinava a non voler vedere: la violenza degli uomini sulle donne. Un fenomeno globale, che ogni anno uccide più del cancro. Che entra nelle statitische ma non può essere risolto con i numeri, perché si tratta di una disfunzione relazionale, di una malformazione culturale che richiede uno sguardo acuto come un bisturi.
La parola femminicidio è stata coniata da femministe e attiviste messicane che hanno trovato il coraggio di denunciare l’uccisione in massa di donne, massacrate nel silenzio per l’unico motivo di essere femmine. Siamo a Ciudad Juarez, una piccola città al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Nessuno ne ha mai sentito parlare. Nessuno ha mai ricevuto notizia del fatto che dal 1992 più di 4.500 donne sono scomparse. Nessuno ha mai indagato sui corpi abbandonati nel deserto. Nessuno ha mai voluto capire quale fosse il denominatore comune che permetteva alle forze dell’ordine di non vedere, ai cittadini di non sapere, alla magistratura di insabbiare. Una complicità silenziosa, pacata, micidiale.
Poi l’attivista Marcela Lagarde, in seguito eletta parlamentare, ha messo in fila i dati. Ha dato un senso politico ai fatti, fino ad allora anonimi e isolati, ha indicato i motivi di fondo per cui una comunità di responsabili, di corresponsabili, di complici involontari ha potuto tranquillamente ignorare il fenomeno. Si tratta di femminicidio. E ci riguarda tutti.
L’ALIBI DELL’AMORE
Dal Messico all’Italia, ci è voluto del tempo prima di riuscire a scrostare la patina pruriginosa, da feuilleton, dei luoghi comuni che giustificano la morte di centinaia di donne, ogni anno: l’amore molesto, la gelosia, il senso del possesso, il raptus. Tutte falsificazioni per assopire la coscienza collettiva. L’adagio implicito è che sono fatti così, i nostri uomini, e se lanciano un ceffone o una coltellata al cuore lo fanno per troppo amore.
Fino a poco tempo fa in Italia, è bene ricordarlo, le notizie dei femminicidi erano derubricate nelle pagine della nera. Dettagli conturbanti raccontati in cronache rosso sangue, oppure inquadrati in casi clamorosi, come l’omicidio Reggiani, branditi come una clave mediatica, per cui tutto si risolve con una massiccia operazione di ordine pubblico contro la barbarie culturale degli stranieri. Degli altri. Un brutto affare che non ci riguarda.
Invece ormai ne abbiamo le prove: l’assassino ha le chiavi di casa.
Mariti, compagni, ex conviventi, morosi: da gennaio a oggi sono 106 le donne uccise in Italia. E non si tratta del degrado delle periferie. I dati di Telefono Rosa parlano chiaro: le donne uccise hanno un’età compresa tra i 35 e i 60 anni e provengono da ogni classe sociale. Sono laureate, casalinghe, studentesse, donne in carriera. Gli assassini sono spesso insospettabili professionisti. Le violenze si consumano tra le mura domestiche. Non si tratta solo di rapporti di coppia. C’è anche la violenza dei padri verso le figlie. Come dimenticare Hina Saleem, ragazza di origine pakistana, italiana, che voleva decidere della propria vita, che vestiva all’occidentale, e per questo è stata uccisa dal padre e seppellita nel giardino di casa?
Le femministe direbbero che si tratta di una mentalità patriarcale dura a morire. In effetti sono davvero pochi gli anni trascorsi dalla ratifica del nuovo diritto di famiglia del 1975. Ed è troppo vicino il ricordo del vecchio ordine, quando il marito era il capofamiglia e le donne passavano dalla tutela del padre a quella del marito. Prendevano il cognome dell’uomo certificando, così, il passaggio di proprietà. Il marito aveva potere su tutto: decideva dove abitare, come gestire i soldi e cosa fare della dote della moglie; esercitava la patria potestà sui figli, decidendo per tutti, senza che la moglie potesse dire la sua. Ed è passato troppo poco tempo, era il 1981, dall’abrogazione dell’articolo 587 del Codice penale che garantiva le attenuati all’uomo che uccideva la moglie, la figlia o la sorella in nome della rispettabilità: era il delitto d’onore...
È una storia recente che evidentemente ancora incide, come un palinsesto, sulla formazione degli italiani. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se nel fermento degli anni Settanta esplose il femminismo per prendere le distanze dalle clamorose rimozioni dei furori rivoluzionari dei maschi.
RIVOLUZIONE MANCATA
Noi oggi siamo qui. Evidentemente la rivoluzione dei sessi è ancora di là da venire. Su questa linea, che è un solco profondo e non un segno labile di lapis, il movimento Se non ora quando ha lanciato la sua campagna «Mai più complici».
Un progetto che schiva la retorica vittimistica e che interroga direttamente la cultura, spingendo tutti a un esame profondo. Come è accaduto negli incontri, affollatissimi, di Merano, di Torino (con la messa in scena della pièce L’amavo più della sua vita di Cristina Comencini) o nella recente partita della Nazionale giocata a Parma, quando i calciatori di Prandelli hanno ascoltato in silenzio un testo scritto dalla filosofa Fabrizia Giuliani, letto da Lunetta Savino.
La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Ora è chiaro. Ma la strada è ancora lunga. In Senato è in discussione il ddl Serafini, un proposta di legge contro il femminicidio. La ministra Fornero ha promesso di ratificare la Conferenza di Istanbul contro la violenza sulle donne firmata a settembre. L’anno scorso il Cedaw (Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne) ha ammonito pesantemente l’Italia. Siamo ancora indietro. Troppo indietro nel processo di partecipazione. Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Ci sono iniziative in tutta Italia e i media stanno sul pezzo. Anche gli uomini rompono il silenzio e fanno autocoscienza: dal gruppo «Maschileplurale» a Riccardo Iacona, a Sofri. È un passo avanti. Siamo certe che la parola «femminicidio» verrà accolta come neologismo dallo Zingarelli, ma non ci basta. Occorre stabilire un nuovo nesso, per trovare il senso. L’esclusione delle donne dalla piena partecipazione democratica è infatti strettamente legata a una visione paternalistica, che può assumere anche un volto violento. Non si tratta di amore malato che finisce in tragedia. Le donne, questo, lo hanno capito.
Se in tutto il mondo le donne ballano in piazza contro la violenza
Una giornata per dire basta al femminicidio
di Elena Stancanelli (la Repubblica, 23.11.2012)
NESSUNA di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci.
Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna - la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni - deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi.
Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio... E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo.
Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere.
Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione.
Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro.
Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.
La violenza sulle donne e l’incapacità di fare i conti con la solitudine
Quel maschio fragile che non accetta limiti
Viene meno la legge della parola che dovrebbe governare le nostre relazioni
di Massimo Recalcati, analista lacaniano (la Repubblica, o5.05.2012)
La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’umiliazione dell’insulto e dell’aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta.
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l’umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l’esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’altro. Per questo la condizione che rende possibile l’amore - come forma pienamente umana del legame - è - come teorizzava Winnicott - la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite.
Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’esterno come luogo di minaccia.
Il passaggio all’atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell’unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto - di vita e di morte - sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione).
Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l’incontro con l’Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C’è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l’incarnazione del limite, ma è anche l’incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente - simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine.
Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’appropriazione dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull’"idiozia del fallo", quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente "etero"; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’incontro con questo godimento "infinito" dichiarandole "tutte puttane". E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.
E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E’ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza - anche quando viene esercitata da uomini potenti - non esprime solo l’arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’amore, quando c’è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l’altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’impresa contro la sua natura fallica, è poter amare l’etero, l’Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola.
Contro il femminicidio migliaia di firme
«È una strage, ora basta»
All’appello delle donne risponde il web compatto. E moltissimi uomini
ai quali si chiede di non essere complici della mattanza.
Aderiscono, tra gli altri, Camusso, Bersani, Finocchiaro, Saviano e il direttore dell’Unità Sardo
di Daniela Amenta (l’Unità, 29.04.2012)
Telefono Rosa. «Il volontariato non può sostenere da solo questa battaglia» I numeri dell’orrore. La violenza maschile in Italia è la prima causa di morte
Cinquantaquattro con Vanessa dall’inizio dell’anno. Una media aberrante, tragica. Un mattatoio. Il mattatoio delle donne in Italia. Cinquantaquattro in quattro mesi. Massacrate, stuprate, violate, uccise. Uccise da uomini che conoscevano. L’Orco difficilmente è lo sconosciuto incontrato per strada o in Rete. E’ in casa l’Orco, il Barbablù, l’assassino. È l’ex che non ci sta, è il fidanzato geloso, è il marito violento.
Sempre lo stesso rituale. Sempre le stesse vittime. Cambiano nomi, luoghi, situazioni, ma le vittime sono sempre le stesse. Hanno gli occhi scuri di Vanessa, 21 anni di Enna, i capelli chiari di Edyta massacrata il giorno di San Valentino a Modena, il sorriso di Stefania ammazzata dal fidanzato che «l’ amava più della sua stessa vita».
Le donne hanno detto basta mille volte, un milione di volte. Sono scese in piazza, hanno trovato la chiave di lettura per il femminismo del terzo millennio grazie alle mobilitazioni di Se non ora quando, alla denuncia di Lorella Zanardo attraverso Il corpo delle donne, alle inchieste, alle manifestazioni. Eppure, eppure sembra non bastare mai. Per questo, dopo la morte assurda di Vanessa, parte un nuovo appello che chiede agli uomini di non essere complici di questa strage, e alle donne di tenere altissima l’attenzione. Serve, in questo nostro Paese, una rivoluzione che rimetta le donne al centro della comunità, restituendo loro rispetto e dignità.
Un appello lanciato da Snoq, Zanardo, Loredana Lipperini e che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia. Dalla leader Cgil Susanna Camusso al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter scrive: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie». Migliaia di firme: da Roberto Saviano a Renata Polverini, da Beppe Vacca ad Anna Finocchiaro, da Vendola all’Idv, dal direttore dell’Unità Claudio Sardo al presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, che spiega: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi».
Una sequenza di nomi: lo stesso , lo stesso sgomento per commentare il femminicidio. Un neologismo, coniato nel 2009 per la condanna del Messico alla Corte interamericana dei diritti umani dopo morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa parola lugubre e drammatica è stata usata anche per il nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia perledonnetrai16ei44anni».Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Psicologica, sociale, fisica, fino alla morte: una violenza continua che in Italia continua a mietere vittime per «fattori culturali», quando si considera la donna come un oggetto di proprietà e chiunque «padre, marito e figli» decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
E intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi. Perché non è facile sfuggire allo stalking, alla violenza. Anzi, diventa un calvario se si hanno figli. Esistono, è vero, residenze protette ma sono poche, gestite con un residuo di fondi. Una piaga mostruosa lasciata in mano al volontariato, soprattutto. Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 29.04.2012)
E va bene, aderiamo all’appello; e poi? Siamo d’accordo, lo sono tutti, chissà, anche quell’uomo sconosciuto e adesso certo del suo equilibrio che magari tra mesi o anni strangolerà furibondo una moglie disubbidiente e in fuga. Ascoltate le donne di "Se non ora quando".
E su Twitter una valanga di femmine e maschi, il femminicidio riguarda la politica, è la politica che deve intervenire. Per impedire che in Italia le donne continuino a crepare per il solo fatto di essere donne: nel 2006 gli uomini ne hanno uccise 101, nel 2007 107, nel 2008 112, nel 2009 119, nel 2010 120, nel 2011 137; e nel 2012 le donne ammazzate sono già 54. Ammazzate soprattutto da mariti o ex mariti, da conviventi o ex conviventi, da innamorati respinti: il 70 % delle assassinate erano italiane, il 76 % degli assassini sono italiani.
Ma quanti articoli arrabbiati abbiamo scritto, quanti appelli sdegnati abbiamo firmato, ad ogni efferata, cieca, mortale vendetta di un uomo che ammazza la sua donna "per troppo amore", negli ultimi decenni? Quante volte il cronista, preso dall’idea che la passione giustifica tutto, ammanta le coltellate, le randellate, come sì certo era meglio che no, ma si sa, un uomo innamorato poverino, si acceca e chissà quanto era stato provocato. E giù il passato della morta, a scovarne, storie e possibili deviazioni, in più, meticolosa descrizione del povero cadavere, possibilmente con foto dei poveri resti.
C’è una misteriosa, segreta abitudine italiana di considerare le donne come gran brave persone certo, con gli stessi diritti certo, ma diverse, nel senso di un po’ ambigue, e sempre un po’ colpevoli: dall’aver lasciato scuocere la pasta a volersene andare, sfuggendo, meglio tentando di sfuggire a un ordine, a una consuetudine, a una sudditanza, in qualche modo disubbidendo a un uomo che, proprio perché sempre più fragile e insicuro, spaventato da quella persona che lo giudica e gli si oppone o addirittura non ne vuole più sapere, sente il bisogno di prevaricare, di essere riconosciuto come maschio, quindi come padrone.
Guai a dirlo, ma è così: del resto il famoso delitto d’onore, pare impossibile, è stato cancellato dalla nostra legislazione solo nel 1981. E la legge che condannava alla galera la traditrice (ma non il traditore), è stata abrogata del tutto nel 1969.
Quando, alla fine degli anni ’60, cominciarono i processi per stupro, perché finalmente le ragazze superando la vergogna personale e il disprezzo popolare, osavano denunciare il loro stupratore, bisognava sentire gli avvocati in difesa del ragazzone stupratore, come infierivano sulla "colpevole", chiedendo conto del passato della sua verginità, e che mutande portava, e perché non si era comportata come Maria Goretti, per non parlare delle mamme dei maschi "vittime" di quella sporcacciona, a lacrimare, a raccontarne l’indole pia e innocente.
Certo il paese è cambiato, la giustizia pure, ma gli uomini e la loro idea di potere legata al sesso, meno: in guerra lo stupro di massa fa parte del conflitto, in pace la donna continua ad essere una preda: la ventenne rapita e torturata da omacci l’altra sera a Voghera, gli episodi milanesi di una madre violentata in un parco in pieno giorno, di ragazze palpeggiate in metropolitana, continuano la storia del corpo della donna disponibile al desiderio di qualunque maschio, come un oggetto tra l’altro senza valore, usabile, deteriorabile.
Anche qui, siamo nella tradizione: da ragazze, noi vecchiette di oggi, sapevamo che in tram saremmo state palpate, pizzicate, che una mano, ed altro, si sarebbero appiccicati al nostro sedere. Si diventava rosse e si stava zitte, e ci si rassegnava all’odiosa imposizione. E quando adolescenti tornando in pieno giorno da scuola, c’era sempre in un angolo un signore con la patta aperta, tanto così per mostrare con orgoglio le sue virtù virili? Anche lì zitte, come se in qualche modo fosse colpa nostra.
Sono storie lontane, ormai ridicole, e fortunatamente oggi una palpata non richiesta viene denunciata, suscita l’indignazione di massa e uno stupratore rischia anni e anni di galera. A beccarlo naturalmente. Perché ciò che indigna di più della violenza misogina, e ovviamente ancor più della vita strappata a tante donne, è che troppo spesso non si trova il colpevole: il fidanzato? Forse. Il compagno? Potrebbe essere. L’ex marito? Chissà. Ci sono ammazzamenti di donne che rendono furibonda la televisione che mette in piedi a ogni ora dibattiti infuocati, presente anche il sospettato autore del delitto. Poi ci si stufa e non se ne parla più, né interessa sapere se poi il delinquente è stato trovato o se invece si è condannato un innocente.
Ai processi qualche volta ci si arriva, ma poi, come nel "delitto di via Poma", la condanna era ingiusta, il condannato innocente viene giustamente liberato, e intanto, ancora una volta resta impunito l’omicidio di una povera giovane bella ragazza di cui a fatica ormai ci ricordiamo il nome. Le donne ammazzate, diventando una notizia troppo frequente, finiscono col meritarsi ormai poche righe frettolose, oppure ne scrivono solo i giornali di provincia, a meno che la storia sia particolarmente efferata o se appunto qualcuno, donne, si stufa e si ribella. E propone un appello: certo che in tanti si aderisce all’appello affinché la strage finisca. Ma la domanda che per ora non ha risposta è: perché questa strage? Perché ancora è così difficile per un uomo, non necessariamente un criminale, sarebbero troppi, accettare la libertà della donna, l’integrità del suo corpo, la sua volontà, le sue scelte? Perché la sua difesa troppo spesso è solo la violenza? Perché? Ma se lo chiedono gli uomini, tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati?
GIORNATA ONU
Violenza contro le donne, è pandemia
In Italia 651 omicidi in cinque anni
Sei donne su dieci, in tutto il mondo, hanno subito aggressione sessuale nel corso della loro vita, quasi sempre ad opera di mariti e familiari. La violenza domestica è una realtà quotidiana per oltre seicento milioni di donne. Domani la giornata internazionale contro la violenza fissata dall’Onu
di EMANUELA STELLA *
Sebbene in 125 paesi esistano leggi che penalizzano la violenza domestica, e l’uguaglianza tra uomini e donne sia garantita in 139, sei donne su dieci, in tutto il mondo, hanno subito violenza fisica e sessuale nel corso della loro vita, quasi sempre a opera di mariti e familiari. Lo ha sottolineato Michelle Bachelet, direttore di UN Women, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si celebra in tutto il mondo il 25 novembre.
"La violenza contro le donne ha la portata di una pandemia - sottolinea nel suo messaggio l’ex presidente cileno, che chiede ai governi di intervenire in modo deciso. - Oggi due paesi su tre hanno leggi specifiche che puniscono la violenza domestica, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite indica nella violenza sessuale una tattica deliberata di guerra, eppure le donne continuano ancora a essere vittime di abusi. E questo non per mancanza di consapevolezza, ma perché manca la volontà politica di venire incontro ai bisogni delle donne e di tutelare i loro diritti fondamentali".
"Quando ero ragazzina in Cile c’era un detto, quien te quiere te aporrea, chi ti vuole bene ti picchia. E’ sempre stato così, sospiravano le donne; ma oggi questa violenza non può più essere considerata inevitabile e va identificata per quello che è, una violazione dei diritti umani, una minaccia alla democrazia, alla pace e alla sicurezza, un pesante fardello per le economie nazionali. E invece è uno dei crimini meno perseguiti nel mondo".
Seicentotre milioni di donne vivono in paesi nei quali la violenza domestica è considerata un fatto strettamente privato. Oltre 60 milioni di bambine vengono costrette a sposarsi, e sono tra i 100 e i 140 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali; mancano all’appello, in tutto il mondo, 100 milioni di bambine che non sono venute al mondo perché vittime della pratica dell’aborto selettivo; almeno 600mila donne ogni anno sono vittime della tratta a sfondo sessuale. Tutto questo in un mondo in cui due su tre adulti analfabeti sono donne, in cui ogni 90 secondi, ogni giorno, una donna muore durante la gravidanza o per complicazioni legate al parto, nonostante esistano conoscenze e risorse per rendere il parto sicuro.
E da noi? E’ di pochi mesi fa la sentenza di un tribunale italiano che riconosce le attenuanti a un uomo che aveva stuprato una ragazza minacciandola con un’ascia, in quanto la vittima "sapeva che l’uomo aveva un debole per lei". Ed è di questi giorni la notizia dell’assalto al tribunale di Velletri messo a segno da parenti e amici di tre ventenni, tutti italiani, condannati a 8 anni e sei mesi per lo stupro di una ragazza minorenne. Tutto questo in un paese in cui i femminicidi accertati sono stati negli ultimi cinque anni 651 (92 nei primi nove mesi di quest’anno).
In occasione della mobilitazione internazionale, AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, si unisce alla richiesta di Amnesty International, che esorta l’Unione Europea e tutti i membri del Consiglio d’Europa a firmare e ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa. La Convenzione, adottata dalla Commissione dei Ministri del Consiglio d’Europa a Istanbul nel maggio 2011, è un trattato internazionale giuridicamente vincolante che contiene norme per la protezione delle vittime e il preseguimento dei colpevoli. La Convenzione, aperta agli stati membri del Consiglio d’Europa, all’Unione Europea e a qualunque paese la voglia adottare, entrerà in vigore con il deposito della decima ratifica. Fino ad ora la Convenzione ha ricevuto la firma solo di 17 paesi e dell’Unione Europea, e nessuna ratifica.
"Affinché le donne si possano sentire sicure per strada, in ufficio e nelle loro case, Stati e Unione Europea devono potenziare tutte le misure per eliminare la violenza contro le donne, inclusa la prevenzione, la protezione, il procedimento giudiziario e il risarcimento. Il primo passo è aderire alla Convenzione, mettendo in primo piano il problema della violenza contro le donne", dice Nicolas Beger, Direttore dell’ufficio istituzioni europee di Amnesty International.
"È inaccettabile- sottolinea Daniela Colombo, Presidente di AIDOS - che ogni giorno in Europa 5 donne subiscano tuttora violenza. È prioritario che gli Stati del Consiglio d’Europa e l’Unione Europea ratifichino al più presto la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e pongano in atto misure per eliminare la violenza tra le mura domestiche, che costituisce la parte più consistente di tutte le violenze ai danni delle donne".
Molte le iniziative indette per celebrare la dodicesima edizione della Giornata internazionale. Il Nobel per la pace Shirin Ebadì, a Roma per la presentazione del libro "Tre donne una sfida. Da Kabul a Khartoum, la rivoluzione rosa di Shirin Ebadì, Fatima Ahmed, Malalai Joya", della giornalista Marisa Paolucci, patrocinato da Telefono Rosa, incontrerà gli studenti delle scuole romane al Teatro Quirino (un recente sondaggio ha rivelato che il 65 per cento dei ragazzi delle scuole superiori ignora il significato del termine stalking).
* la Repubblica, 24 novembre 2011
Violenza alle donne Fermiamola ora!
di Stefano Vecchia (Avvenire, 25 novembre 2011)
I l 25 novembre 1960, nella Repubblica Dominicana, sicari mandati dall’allora dittatore Rafaél Trujillo tendevano un agguato alle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche, uccidendone tre. Per ricordare questo evento - dal significato simbolico perché prima azione del genere ad essere portata all’attenzione internazionale e a provocare una reazione di opposizione alla dittatura, che doveva culminare l’anno successivo con l’assassinio di Trujillo - il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dichiarava il 25 novembre di ogni anno «Giornata internazionale per fermare la violenza contro la donna».
La ricorrenza, ovviamente, guarda ben oltre le difficoltà delle donne impegnate a combattere contro violazioni dei diritti umani e civili, dittature o regimi liberticidi. La ’galassia’ della violenza verso le donne è vasta e diversificata, e sovente continua a ’sfumare’ in tristi tradizioni, abitudini, leggi opportunamente incentivate per fini di controllo, economici o religiosi.
Quella che nelle sue varie forme interessa la donna è una delle maggiori violazioni dei diritti umani e include abusi di carattere fisico, sessuale, psicologico ed economico e risulta trasversale a razza, cultura, benessere, collocazione geografica ed età. Può essere localizzata nelle case, per le strade, nelle scuole, sul luogo di lavoro, nelle campagne come nelle città, in campi profughi, in situazioni di pace, conflitto o crisi. Ha aspetti pubblici: stupri etnici, persecuzione religiosa, repressione politica; ma anche privati: violenza domestica, abusi sessuali, controllo forzato delle nascite e selezione sessuale, omicidi d’onore...
Strumento primo di garanzia internazionale è la Dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro la donna del 1993, che ha portato molti Paesi ad adeguare le legislazioni nazionali. Dallo scorso maggio è aperto alla firma dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa la Convenzione sulla prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, che finora ha raccolto 17 adesioni. Ovviamente, lo strumento legislativo o le libere adesioni a trattati e convenzioni non garantiscono di per sé una tutela, soprattutto nelle aree meno favorite del pianeta, ma anche in ambiti insospettati dei Paesi ricchi.
A livello planetario, sei donne su dieci sperimentano nella loro vita una forma di violenza fisica o sessuale. Per evidenziare casi estremi, uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità ha mostrato come la violenza sessuale da parte del partner sia ancora presente nel 71 per cento delle famiglie della campagna etiope contro il 15 per cento del Giappone urbano. Nella maggior parte del mondo globalizzato, la violenza rappresenta per le donne dai 16 ai 44 anni la prima causa di morte o disabilità, con costi altissimi e non solo nei Paesi in via di sviluppo. Un rapporto del 2003 del Centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie mostrava che nei soli Stati Uniti il costo della violenza domestica superava 5,8 miliardi di dollari l’anno, di cui 1 miliardo per cure mediche e 1,8 come conseguenza dall’assenza forzata dal posto di lavoro.
Non mancano però i progressi. Nel mondo, sono un centinaio i Paesi che riconoscono e sanzionano la violenza domestica, meno quelli che adottano provvedimenti conseguenti. Lo stupro da parte del coniuge è riconosciuto come reato in 104 Stati e una novantina hanno leggi che colpiscono le molestie sessuali. Complessivamente, però, poco oltre la metà del mondo riconosce oggi la discriminazione della popolazione femminile come un problema da denunciare e perseguire. La recessione mondiale ha ridotto reddito e opportunità nei Paesi più poveri, con un conseguente aumento dello sfruttamento e della violenza sulla componente femminile, ma anche esponendo a ulteriori abusi quante lavorano o risiedono all’estero, inclusi Europa e Medio Oriente.
Un altro linguaggio tra uomini e donne
La rimozione della violenza maschile anche nel linguaggio
di Marco Deriu *
Uno dei problemi, forse il principale, nell’affrontare la violenza maschile sulle donne e’ legato al fatto che i termini - gli schemi di lettura, le categorie, le parole stesse - che usiamo sono gia’ espressione della cultura e delle visioni che supportano quella stessa violenza.
Il primo esempio, macroscopico, e’ che nella comunicazione "standard" si continua a parlare di "violenza sulle donne", mettendo l’accento sulla vittima, e non di "violenza maschile" o di "violenza maschile sulle donne", che sottolineerebbe invece l’autore e la responsabilita’ maschile. Tale rimozione nel linguaggio permette o supporta altre rimozioni. Per esempio siamo abituati a leggere sui giornali o a sentire in televisione espressioni quali "un siciliano" oppure "un maghrebino" o "un rumeno" ha commesso una certa violenza su una donna. Cosi’ si mette l’accento su un fatto secondario e si sottrae all’attenzione il dato piu’ comune ma anche piu’ rilevante, ovvero che si tratta di maschi.
L’insistenza sulla vittima che lascia sullo sfondo l’autore, permette inconsapevolmente di "demonizzare" o "disumanizzare" il carnefice anziche’ farci realmente i conti. Permette inoltre di non interrogarsi sulle dinamiche sociali e relazionali che invischiano insieme carnefice e vittima, rendendo difficile sottrarsi a una relazione patologica tanto a chi la subisce, tanto a chi tale violenza l’agisce magari proprio con l’idea di mantenerla in quel modo legata a se’. In altre parole il linguaggio che usiamo attualmente per parlare della violenza ci preclude la possibilita’ di porre l’attenzione e di mettere a fuoco il tema delle relazioni. Delle forme della relazione affettiva, di coppia, famigliare, ma anche delle relazioni di lavoro, delle relazioni politiche.
Nei pochi casi in cui nella comunicazione sociale ci si rivolge agli uomini, si finisce per confermare degli stereotipi. "Gli uomini picchiano le donne" sentenziava il manifesto di un partito di sinistra, con una generalizzazione che rischia paradossalmente di "naturalizzare" la violenza maschile e di impedire invece di domandarsi criticamente perche’ alcuni (molti) uomini sono violenti e (molti) altri no. O per fare un esempio diverso, dire "I veri uomini non picchiano" non significa inconsapevolmente confermare l’esistenza di una categoria di "veri uomini" anziche’ aiutare gli uomini a rivendicare la loro soggettivita’ e la loro responsabilita’?
Dichiararsi contro la violenza sulle donne non significa essere a favore della liberta’ o dell’autonomia delle donne. Ci sono commentatori e forze politiche che si scagliano contro la violenza sulle donne proponendo "punizioni esemplari" o ronde per "proteggere le donne". In questo modo sdoganano una "violenza buona" in opposizione a quella "cattiva" e impediscono di comprendere la connessione simbolica tra l’affermazione virile sulle donne e quella della loro "protezione", poiche’ entrambe le posture risparmiano agli uomini di mettersi di fronte a una donna disarmati e sullo stesso piano.
Noi non parliamo semplicemente della violenza. Piuttosto siamo parlati dal linguaggio della violenza. E mentre maturiamo come uomini e nelle nostre relazioni dobbiamo maturare nel nostro linguaggio, nel nostro modo di pronunciare il mondo e le relazioni. Un linguaggio magari che ci aiuti a nominare e a dialogare con le nostre emozioni, i nostri desideri, i nostri bisogni. Con le nostre paure e fragilita’ di fronte alle esperienze di unione e di abbandono, di fiducia o di tradimento nella loro intrinseca apertura e ambivalenza.
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale
di Francesca Paxi (La Stampa, 16.06.2011)
Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano.
C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni. Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.
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“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa
Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics
Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]
«Uomini, tocca a voi. Ribellatevi a Berlusconi e alla sua orgia di Stato»
Come il marito, Josè Saramago, Pilar del Rio lancia una sfida pubblica: «Cari maschi non accettate che un Paese sia infangato da un uomo con problemi di autostima. Scendete in strada per dire basta. Saremo con voi»
di Pilar Del Rio Saramago (l’Unità, 08.03.2011)
Un giorno, anni fa, lo scrittore portoghese - e anche italiano, perché no? - Josè Saramago lanciò una sfida pubblica: che gli uomini uscissero in strada, solo gli uomini, per dire alto e forte che loro non maltrattavano le donne, che non accettavano la vessazione come moneta di scambio nelle relazioni fra generi.
Aggiunse che se le donne sono le vittime, sono gli uomini ad avere il problema perché sono gli uomini a maltrattare. Proprio per questo gli uomini rispettosi, quelli che trattano le donne come loro stessi vorrebbero essere trattati, devono farsi sentire senza sosta per non essere confusi con gli altri: quelli che ancora non si sono resi conto né delle dimensioni del loro crimine, né di quanto diventano sporchi nell’ignorare che le donne non sono cose e hanno pienezza di diritti: possono dire «io» senza che nessuno le uccida, le disprezzi o le segreghi. Uguali davanti alla legge, uguali nei diritti e nei doveri, tanto in casa quanto nel lavoro e nel governo comune della società.
Ebbe successo, Saramago: in varie città - Sevilla e Montevideo in testa - migliaia di uomini rispettosi ed educati uscirono per strada condannando il flagello sociale dei maltrattamenti e denunciando l’uso che della donna fanno certi mezzi di comunicazione, condannando un certo modo di sentirsi uomo, meglio sarebbe dire maschio, un modo assolutamente incompatibile con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
In quelle manifestazioni il nome di Berlusconi era presente. Non per gli scandali, né per incidenti come quelli che gli sono occorsi di recente, ma per l’indecenza del suo comportamento civile e l’assenza di etica che lui e i suoi accoliti imponevano come norma nei mezzi di comunicazione dei quali andava impadronendosi. Pubblici o privati che fossero, sempre che la distinzione sia possibile visto che tutti i canali televisivi sono concessioni pubbliche.
Quelle manifestazioni che si ripetono anno dopo anno perché anche le coscienze più dure capiscano che le donne sono compagne e non mercanzia per l’uso personale del maschio e quel messaggio di Saramago, valgono oggi per l’Italia, la Grande Italia di Verdi, che ha visto centinaia di migliaia di donne, come un’immensa bandiera bianca spiegata, in strada per dire no a un modo di governare che non rispetta né gli esseri umani, né i valori che ci hanno fatto progredire lungo i secoli allontanandoci dall’orda e facendoci diventare comunità.
Per questo, e nello spirito che abitava in Josè Saramago e che la sua nobiltà ingigantiva, mi azzardo a suggerire - ora che le donne italiane, compagne nell’ anelito per un modo più pulito più giusto e più bello, si sono espresse e si esprimono ogni giorno - che siano gli uomini a uscire per strada, solo gli uomini, per dire a Berlusconi che le loro madri, figlie, spose, amiche, amanti non possono essere trattare così.
Nemmeno per scherzo. Che lo Stato non è un’orgia, che la schiavitù è finita da secoli, che le malattie fisiche e psichiche si possono curare, che un Paese non può essere infangato perché una persona ha problemi di autostima e quella mancanza di autostima la obbliga a collezionare corpi come se i corpi non fossero animati e, tanto spesso, corrotti con lusinghe e minacce. Sì: gli uomini che non accettano la distorsione democratica come norma di governo, lo sperpero, l’arbitrio e la mancanza di rispetto verso i propri simili. Ecco, quegli uomini non potranno far altro che organizzarsi e scendere per strada per dire ora basta, come hanno fatto le donne italiane.
Quel giorno, speciale e importantissimo, in cui gli uomini scenderanno in piazza per dire di non essere e di non voler essere Berlusconi, noi donne dai lati delle strade li applaudiremo e li riempiremo di fiori. Dopo potremo incontrarci, da pari a pari, per avanzare insieme nel processo di umanizzazione che Berlusconi e i suoi frenarono con violenza, con le peggiori astuzie e i più miserabili artifici.
Uomini, compagni, amici, amanti, mariti, fratelli, padri: se non siete uguali a coloro che ripudiamo, se ci amate e ci rispettate, se partecipate ai nostri sogni di un mondo migliore, ditelo senza paura. Le donne non temono l’orco ne i suoi seguaci: sanno che tutti insieme riusciremo a fare in modo che tornino nelle caverne e tra loro, solo tra loro, liberino i loro istinti, giochino a quel che vogliono, bevano quel che gli va e ridano fino alla fine dei tempi delle loro stupide barzellette. Agli altri, a noi, questi giochi non divertono. Non apparteniamo a quella sottospecie: siamo Italia, la terra di Dante, della poesia che innamora, della musica che consola, anima i nostri corpi ed eleva i nostri spiriti. Siamo la patria dell’arte: lo diremo molto chiaro, in modo che lo capiscano anche coloro che l’abbruttimento ha reso sordi.
Vogliamo, uomini, che siate nostri simili. Vi offriremo fiori quando uscirete per strada per dire che nessuno vi paragoni a quelli che oggi comandano e disgovernano, che voi siete nel presente e nel futuro, siete i nostri compagni dell’anima, amatissimi compagni.
Uomo/donna
Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico
Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”
di Anna Bravo (La Stampa/ Tuttolibri, 05.03.2011)
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità. Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus , quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile. Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.
Scheda del libro: Amore e violenza, di Lea Melandri
In un saggio di Lea Melandri una nuova ipotesi sulle cause della violenza maschile.
Perché gli uomini ci odiano
di Stefania Rossini (l’Espresso, 11.02.2011)
Perché le donne, pur vivendo in uno spazio pubblico che si è andato sempre più femminilizzando, hanno dimenticato il conflitto? Perché si piegano a sorreggere la conciliazione tra la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale? I corpi che vediamo in scena, compresi quelli di veline ed escort che scambiano sesso con carriere, sono di donne che si sono appropriate della loro vita o di schiave volontarie che si illudono di usare a proprio vantaggio la loro storica minorità sociale e politica?
Bisogna aver molto osservato e pensato la contemporaneità per rispondere a queste domande scrivendo un saggio su un tema abusato come quello della violenza maschile sulle donne, e dicendo cose nuove e convincenti. Ma Lea Melandri il pensiero sul mondo e sul suo mutamento lo ha coltivato fin da quando, negli anni Settanta, accompagnò Elvio Fachinelli nella creazione della rivista "L’erba voglio", affinandolo poi nell’esperienza femminista e nella competenza psicologica. È per questo che il libro che uscirà il 3 marzo per Bollati Boringhieri con il titolo "Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà" propone risposte scomode. Il protagonismo delle donne nella vita pubblica che ha fatto immaginare il tramonto del patriarcato potrebbe segnare invece il trionfo di un modello femminile che mostra, più che nel passato, una duplice funzione del corpo: il "corpo erotico", cioè la seduzione, e il "corpo materno", inteso non solo come desiderio di maternità ma come valorizzazione delle "doti femminili". Nella riduzione delle donne in questo doppio, l’uomo fonda il suo potere ma segna la sua condanna alla dipendenza filiale e quindi alla fragilità. E in quella che la Melandri chiama "l’inermità armata dell’uomo figlio" irrompe la violenza e il trionfo dell’odio sull’amore.
LILIANA CAVANI. La cosa che mi stupisce è che questo accada in un Paese che ha un grande e popolare culto di Maria (vergine), una ragazza di duemila anni fa che con il suo FIAT ha affrontato con coraggio l’avventura culturale e spirituale più spericolata che si possa immaginare
LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO". E’ ORA DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE, E AMARE BENE MARIA!!!
di Liliana Cavani (la Repubblica, 7 febbraio 2011)
Quando ho fatto il documentario "La donna della Resistenza" (1965) intervistando varie partigiane ho scoperto con sorpresa che avevano combattuto (fisicamente) per un mondo dove la donna avesse avuto emancipazione. Erano contadine, operaie, intellettuali (ricordo Ada Gobetti) e ciascuna con le sue parole mi disse che aveva rischiato la vita per una "palingenesi" sociale (ricordo questa frase) che prevedeva il riconoscimento della parità della donna. Una sopravvissuta a Dachau e un’altra ad Auschwitz mi dissero che durante la guerra erano persuase che il loro sacrificio avrebbe contribuito a dare uno scossone alla vecchia cultura. E in effetti le donne ottennero nel dopoguerra il diritto al voto (in Svezia lo ottennero 40 anni prima). Ma la vera rivoluzione culturale che le donne antifasciste speravano di ottenere non avvenne mai neanche col Sessantotto anche se di certo aprì molte teste.
Del resto la storia della donna Italiana salvo punte rarissime (spesso a merito dei Radicali) è tra le meno emancipate del mondo occidentale. La cosa che mi stupisce è che questo accada in un Paese che ha un grande e popolare culto di Maria (vergine), una ragazza di duemila anni fa che con il suo FIAT ha affrontato con coraggio l’avventura culturale e spirituale più spericolata che si possa immaginare.
Oggi la fonte comunicativa più influente sul costume è quella dei media, specialmente tv e Cinema. Ebbene a mio parere i media oggi propagano (consci o meno) per gran parte il Regresso in atto nel Paese. La famosa frase "la donna sta seduta sulla sua ricchezza" è propalata in tutto il suo significato nei programmi tv e nel Cinema più popolare. Vale a dire che con la testa la donna non ci fa nulla, non va da nessuna parte, in nessun Consiglio di Amministrazione, in nessuna posizione dove sia necessaria preparazione e intelligenza.
Come può accadere tutto questo in un Paese che in percentuale è il più cristiano d’Europa, che non ha mai avuto un governo comunista (vale a dire materialista) ma ha avuto una scuola con le ore di religione? Sta di fatto che accade e fra le cause penso alla cultura-maschia del Ventennio che ha pervaso la generazione dei nostri nonni e si è trasmessa ai nostri padri per cui la donna (se non è tua madre tua figlia o sorella) è in primis oggetto di piacere. Oggetto che si prende o si compra e ci si vanta.
E l’uomo è uomo soprattutto se si fa donne gratis o pagate che sia. E la donna è donna se per cultura e costume considera la seduzione il mezzo più diretto per essere presa in considerazione e per trovare orizzonti di carriera. Questa cultura-maschia di marca fascista connessa alla tradizione paternalistica plurimillenaria è la cultura corrente. E a causa di queste ragioni così radicate non deve stupirci (e infatti molti italiani non si stupiscono) se chi ha la più alta carica del Governo fa i comodi suoi. "Beato lui!" diceva un intervistato dalla tv. Ma l’Italia non è un Paese sperduto oltre le valli del Pamir.
Siamo un Paese inserito in un Occidente che dalla rivoluzione francese in poi ha preteso dai suoi rappresentanti o regnanti comportamenti di probità in linea con quello che gli Stati si aspettano dai cittadini. Il rispetto massimo della dignità della donna è tra i requisiti. Nell’Occidente dove in media la cultura è laica il costume è politica. E cultura laica significa pari diritti uomo e donna.
Di conseguenza se non è neanche pensabile avere una specie di harem da cittadino lo è ancora di meno per la più alta carica politica. Il fatto che il consenso al premier a quanto pare sia sempre alto è il sintomo del nostro Regresso con tutte le vecchie porcherie che si porta dietro. È in atto un furto di Progresso. Hanno ragione le donne democratiche che per la prossima manifestazione hanno in mente una maglietta con scritto "Mi riprendo il mio Futuro". Un Futuro che è stato interrotto.
«L’omelia con l’Unità per riflettere sul degrado»
di Toni Jop (l’Unità, 3 febbraio 2011)
Scandalo! Il prete ha letto l’Unita’in chiesa! Dagli al prete “comunista” che dal pulpito dichiara di essere d’accordo con quella comunista di Concita De Gregorio, prete spudorato, prete politicizzato. Come le toghe? Basta non essere d’accordo col premier del bunga bunga, denunciarne la triste abitudine di monetizzare le donne per essere comunisti?
Il ciclone è partito da Mogliano, anzi meno, dalla chiesa di una piccola frazione di questo centro schiacciato con qualche mollezza nella pianura padana a pochissimi chilometri da Venezia. Campanili e nebbia, governo leghista. Qui, raccontava un giornale locale, don Giorgio Morlin avrebbe letto questo quotidiano - l’Unita - nella sua chiesa, domenica scorsa e poi avrebbe distribuito stralci dell’appello del direttore alle donne perché tengano alta la dignità che Berlusconi sta provvedendo a radere al suolo.
Una fedele non l’avrebbe presa bene e si sarebbe chiesta stupefatta: ma siamo in chiesa oppure ad un comizio? Segue coda sterminata di commenti, di prese di posizione, qualche insulto, molti apprezzamenti, il tutto a pioggia in mille blog che hanno trovato pane per i loro denti.
Ma com’è andata? Ecco don Giorgio, il temerario che ha disturbato i sonni di una terra qui e la perbenista e codina, ha la sua età, sopra i settanta, parroco da quaranta, lungo corso: «Ma chi ha scritto che avrei letto l’ Unita’in chiesa?»,
Perché, non è vero?
«No che non è vero, ho semplicemente detto che ero d’accordo con quel che scriveva in quell’editoriale la vostra direttrice, mi sembrava e mi sembra bello, davvero, importante, l’ho comunicato ai fedeli perché mi pare che dobbiamo mettere assieme forze e intelligenze per combattere una morale che massacra le donne e di conseguenza anche gli uomini anche se non se ne accorgono».
Ma ha distribuito brandelli di quell’intervento fuori dalla chiesa?
«Sì, e non è la prima volta che lo faccio, è utile, è mio costume».
Lo sa che la accusano di essere comunista?
«Ma va là, non mi piace tutto questo clamore, non me lo aspettavo, non so nemmeno chi lo ha innescato, io no di sicuro, forse quella falsità sulla lettura dell’Unità in chiesa. Io sono un prete, un prete che appartiene alla sua Chiesa, nient’altro, altro che prete rosso... Su questa vicenda si è espresso anche Bagnasco, io ho seguito la sua pista, magari rendendola più concreta, sa io sono parroco, mica vescovo».
Giusto, ma andiamo avanti: qualcuno le ha telefonato, scritto o altro?
«Guardi, la Curia non mi ha detto proprio nulla, tanta gente mi ha chiamato per darmi solidarietà. Ho detto grazie, ma è il paese che ne ha bisogno...».
Sì, ma il sindaco qui a Mogliano è leghista, l’avrà visto, incontrato...
«Ecco, sì mi ha detto più o meno così “Giudicherà la popolazione sui suoi interventi”. Criptico, no?».
Non c’è male. On line il fiume dei commenti non è così criptico, anzi, o di qua o di là e con grande
slancio. Così, una delle battute più cliccate e più decise
in favore di don Giorgio viene proprio da un
altro prete, Franco Barbero, sentite: «Quello che ha fatto don Giorgio non è solo cosa buona ma
anche doverosa e davvero non sono accettabili le censure che stanno piovendo sulla sua testa...»,
ma la Chiesa non è così esplicita nella condanna di questa giostra che umilia le donne... «La Chiesa
gerarchica è ipocrita, pecca di ipocrisia diplomatica; c’è poi la Chiesa reale, quella che tiene
assieme tanti vescovi, preti, parroci, fedeli; un doppio versante sempre acceso. Ma questo ora conta
meno del fatto che noi tutti uomini e donne abbiamo bisogno disperato della dignità delle donne,
questo va affermato, questa sarà la mia Messa. Vede, io sono felice di essere prete che non ha
reddito, semino dignità e libertà. Viva Don Giorgio e viva le donne».
Don Barbero condivide la
gioia della comunità di base di Pinerolo. Che bellissima chiesa.
La ribellione degli uomini
di Gad Lerner (la Repubblica, 2 febbraio 2011)
Il maschio italiano schierato con le donne che si ribellano all’offesa della loro dignità? Tale è la sfida allo stereotipo del vitellone nazionale, da esporlo come minimo a sospetti e ironie. Il furbacchione si trincera dietro alle suore e alle femministe solo ora che c’è di mezzo Berlusconi, altrimenti... È roso dall’invidia per il maturo dongiovanni; si ricicla bacchettone dopo aver predicato la libertà sessuale; spia dal buco della serratura il bottino che mai riuscì a procacciarsi, traduce la frustrazione in moralismo. E avanti di questo passo: quasi dovessimo coprirci di ridicolo, noi uomini, per solidarizzare con le nostre concittadine in un paese noto ormai come il più misogino dell’occidente. Afflitto non a caso dal più alto tasso europeo d’inattività femminile (una donna su due non trova o non cerca lavoro, dato Istat 2009). Per non parlare della loro emarginazione dal potere politico.
Scatta poi un istinto atavico, più nel profondo del maschio intimidito e attratto dall’esuberanza femminile. Se quelle ragazze si offrono al desiderio del potente per trarne vantaggi, non sarà la loro una sottomissione finta? Le fameliche "lupe di Arcore" (copyright di Francesco Merlo) meritano forse di essere considerate vittime, o ha ragione piuttosto chi le addita al pubblico ludibrio come "veline ingrate"? Così i cd di Mariano Apicella imbottiti di banconote da cinquecento euro, al termine dei festini di Arcore, incoraggiano un vile rovesciamento di responsabilità, addossando alla spregiudicatezza femminile - "lei ci stava, vostro onore, trattasi di donna dai facili costumi!" - il marchio della colpa. Un falso alibi che però funziona da millenni.
Forse è venuto il momento di riconoscere che anche il maschio italiano sta subendo nella sua identità sessuale i contraccolpi della pornocrazia, divenuta caratteristica pubblica di una classe dirigente di puttanieri. Non a caso il disagio è avvertibile particolarmente fra i giovani maschi che vivono la delicata scoperta dell’eros in un contesto culturale stravolto da una tale inedita ostentazione del mercimonio. È soprattutto fra loro che si affaccia con timidezza la presa di distanze: io non vivo così il mio bisogno di relazione amorosa; desidero un altro tipo d’incontro con le mie coetanee.
Che idea dell’amore può suggerire ai giovani maschi italiani la notizia di quelle cene in cui tre settantenni, resi interessanti solo dal loro status, si trastullano con venticinque ragazze di mezzo secolo più giovani di loro? A tutti, nell’adolescenza, sarà capitata la fantasia di fare l’amore con le bellezze viste in televisione. Ma poi subentra una fase più matura, la fatica della scoperta individuale della femminilità. Contraddetta dalla visione di questa sessualità immatura per cui il potente si ricostruisce in casa, scimmiottando per capriccio lo spettacolino televisivo, la fantasia adolescenziale del dominio maschile esercitato grazie alla forza del denaro. È la trasposizione privata, ma esibita pubblicamente come credenziale di prestigio, di un’ossessione che serializza il corpo femminile plastificato.
Bambole di carne precocemente rifatte per somigliarsi tutte e corrispondere a un gusto che si distanzia dall’autenticità femminile fino a precipitare nella parodia. Altro che libertà sessuale. È la stessa bellezza dell’amore, la ricerca del piacere nella reciprocità, a subire un attentato. Tanto da provocare nei maschi frustrazione, caduta del desiderio, pulsioni sopraffattrici, mortificazione dell’eros nella virtualità del porno.
Solo in questo senso possiamo riconoscere che siamo vittime anche noi dell’offesa alla dignità della donna. Certo ha ragione suor Rita Giaretta di Caserta quando denuncia la legittimazione giunta dai vertici del potere istituzionale alla schiavitù della vendita del corpo (non solo, ma principalmente femminile) fino ai gradini più bassi della scala sociale. E s’indigna, suor Rita, per il cinismo con cui la parte maschile della nostra società sembra accettarla come norma. Ma proprio perché tale abitudine è cementata da una cultura popolare di massa di cui le televisioni di Berlusconi sono da decenni le volgari battistrada - e di cui le sue abitudini private rappresentano la caricatura parossistica - anche la reazione può e deve essere femminile e maschile insieme.
Ben lungi dalla sessuofobia, la rivolta femminile coinvolge gli uomini in un progetto di dignità comune che è la base della civiltà. Il partito dell’amore è stata la più beffarda truffa politica del premier indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile. Ma la faticosa costruzione dell’amore, come ci ricordano pure i nostri più bravi cantautori, è l’intima fatica per cui vale la pena di vivere.
di Adriano Sofri (la Repubblica, 05.10. 2010)
Chi tenga il conto degli uomini che ammazzano le donne annovererà l’uxoricidio di Novi (Modena) in questa categoria, alla data del 3 ottobre.
Alla data del 4, appena un giorno dopo e a qualche chilometro da lì, nel Piacentino, un uomo ha ridotto in fin di vita la sua convivente, trafiggendole la schiena con un forcone. Per questa voce, "Uomini che uccidono le donne", i dettagli sono secondari.
A Novi l’uomo, 53 anni, che ha ucciso a colpi di mattone la moglie, Begm Shaneez, 46 anni, era, come lei, pachistano, e pachistano il figlio maschio, 19, che ha ridotto in coma a sprangate sua sorella, Nosheed, 20 anni.
A Castelsangiovanni, sono italiani, piacentini ambedue, lui 60 anni, e lei 41. Sarà diverso il registro di chi invece tenga nota dei pachistani che ammazzano le donne o, rispettivamente, dei musulmani che ammazzano le donne.
Gli uni avranno annotato in particolare l’assassinio di Hina, 20 anni, sgozzata nel 2006 dal padre a Sarezzo, Brescia, gli altri quello di Sanaa, 18 anni, sgozzata nel 2009 dal padre fin quasi a decapitarla, a Pordenone.
Sono i casi più famosi in elenchi fitti. Ogni volta si ripeterà doverosamente che le generalizzazioni sono arbitrarie e disastrose. "I musulmani ammazzano le donne", o "i pachistani ammazzano le donne" - o, del resto, "i cristiani ammazzano le donne". Tuttavia, senza una misura convenzionale di generalizzazione, non sapremmo né ragionare né comunicare. Così, quando diciamo che "gli uomini ammazzano le donne", sappiamo naturalmente che non tutti gli uomini ammazzano le donne, ma intendiamo che parecchi uomini, e senz’altro troppi, ammazzano donne.
In Italia, per esempio, l’anno scorso sono state assassinate (almeno, i dati non sono completi) 119 donne, 147 nel 2008, 181 nel 2006, più di 600 tra il 2006 e oggi. Se dicessimo che "le donne uccidono gli uomini" la generalizzazione sarebbe molto più infondata, dal momento che le donne che uccidono uomini sono una minima percentuale degli omicidi fra persone di sesso differente.
Quella arbitraria dichiarazione - gli uomini uccidono le donne - allude anche, per eccesso, a un’altra verità: che gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare donne, se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come "raptus" e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo.
Il succo della "Sonata a Kreutzer" è questo: che, secondo Tolstoj, chiunque può ammazzare la propria moglie. Lui non lo fece, però lo scrisse. Le uccisioni di donne, anche quando sono privati, anche quando sono l’opera di uomini miti - "tranquilli", diranno i vicini - e da un assassinio solo, sono efferati.
A Novi di Modena, una ferocia infame si è compiuta così: due uomini, un padre e un figlio, si sono accaniti su due donne, moglie e sorella, ripetendo e però rovesciando il modo dell’agguato a Hina. Lì, la violenza del padre e dei suoi parenti maschi complici si era procurata poi il consenso, chissà quanto forzato e rassegnato, della madre di Hina. Qui, la madre di Nosheed ha dato la vita per proteggerla.
Ha fatto bene il ministro Carfagna a parlare di "deliri patriarcali". Fanno bene quelli che ricordano che il delitto d’onore è uscito dal nostro codice nel 1981 appena ieri (e dalle nostre teste, chissà) e che appunto gli uomini ammazzano le donne, e di preferenza le "loro" donne - mogli, fidanzate, amanti, come nella singolare espressione che estende la proprietà - "la mia donna" - oltre la data di scadenza - "la mia ex-donna". "Uccide la sua exfidanzata".
(Ahimé, anche il comandamento, "la donna d’altri"). E se no le prostitute, che non sono di nessuno, dunque di tutti, dunque "mie". Quanto al modo in cui il cristianesimo ha innovato nella condizione della donna (e dei bambini, soprattutto introducendo una tenerezza e più tardi un amore cavalleresco) e insieme ha accolto e perpetuato una soggezione patriarcale, e non di rado una veemente misoginia, è un fatto che oggi è più difficile adattare una cultura cristiana alla brutalità contro le donne. La quale troppo spesso si compie, ma contro la sua ispirazione. Ne abbiamo appena riparlato a proposito della più tradizionale delle pratiche contro le donne: le mutilazioni genitali - o d’altra parte dell’abbigliamento teso a occultare la vista della donna (che sia vista,e che veda, anche). Per questi usi il relativismo per conto terzi richiama la complicità di nonne e madri infibulate e autrici a loro volta dell’infibulazione delle loro bambine, come se ne risultasse una loro responsabilità libera, e non la più trista prova del dominio patriarcale. Cui meravigliosamente si ribellano tante donne (le bambine, si erano sempre ribellate, e tenute ferme a forza come in una tortura), com’è successo l’altro ieri nel giardino mattatoio di Novi.
Queste pratiche, tradizionali e patriarcali, e sconfessate (non sempre, del resto) dalle autorità di tutte le religioni, sono state però incorporate e fissate, e a volte inasprite, in molti paesi dalla tradizione islamica. Lo conferma proprio l’argomento invocato per smentirlo: cioè che costumi e prescrizioni misogine non appartengano al Corano, ma risalgano a prima dell’Islam. Esso è diventato il pretesto per una «riconquista» delle donne alla modernità: nella «rivoluzione» khomeinista che ha ricondotto in cattività le donne iraniane, o in quella taliban che la sta perseguendo.
Ho letto la sterminata trilogia di Stieg Larsson diffidando, e ricredendomi. A cominciare dal titolo, "Uomini che odiano le donne", dunque le uccidono. A stare alle motivazioni che un gran numero di loro fornisce a se stesso e al pubblico, si potrebbe dire anche "Uomini che amano le donne", dunque le uccidono.
(I francesi, campioni di eufemismo, hanno tradotto: "Uomini che non amano le donne"!). Larsson è stato un campione dell’impegno contro il razzismo e il fascismo nella sua Svezia. I suoi romanzi hanno finito per offrire la miglior chiave di interpretazione del recente voto svedese, segnato dal successo del partito xenofobo e nazisteggiante.
Se la libertà è misurata prima di tutto dalla libertà delle donne - la Scandinavia ne fu un esempio precoce e proverbiale, fino allo scherzo - l’immigrazione che trascina con sé il peso di una tradizione patriarcale e sperimenta nella nuova condizione lo scontro fra i suoi maschi e le sue donne, eccita lo spettro dell’aggressione e della rivalsa sulle donne libere. Due modi distanti e perfino opposti di "odiare le donne" rischiano di congiurare contro la loro libertà - e incolumità. La nuova demografia di Malmoe coincide strettamente con la sua nuova mappa elettorale. L’alternativa starebbe, all’opposto, nella congiura di donne libere e donne immigrate, cui leggi, istituzioni e forza pubblica dovrebbero mettersi al servizio.
Pochi giorni fa, il 23 settembre, a Scandolara (Cremona) una donna indiana di 25 anni, Rupika, si è cosparsa di benzina a casa sua e si è data fuoco ed è morta. Aveva perso il lavoro, in un ristorante, e aveva paura, scaduto il permesso di soggiorno, di essere rimpatriata. Ho letto che in India l’aspettava un matrimonio combinato. Chissà. Non si può far a meno di pensare a una ragazza che si è data fuoco qui, dove si sentiva libera, per non tornare nel proprio paese, dove una solenne tradizione vuole bruciare vive le vedove sul rogo dei mariti morti.
IMMAGINI INEDITE
Nel Santuario la ’ndrangheta
consacra il suo nuovo capo
Alcuni filmati registrati dai carabinieri nel corso delle indagini mostrano per la prima volta le immagini dei capi delle cosche che si riuniscono, in pubblico e in un luogo sacro calabrese, stretti attorno al nuovo capo. Che dà le sue regole e i suoi codici d’onore
di PIERO COLAPRICO *
La Madonna dei Polsi ha due devozioni: una popolare e cattolica, e un’altra elitaria e da setta, ed è quella della ’ndrangheta. Il filmato che è stato ripreso all’ombra del santuario mostra quel mix di simbologia sacra e di potere nero, occulto, invasivo, che ha reso i clan calabresi tra i più forti e temuti del mondo. Votare, dirsi chi è Il Crimine, e cioè il boss dei boss, mentre intorno si accendono candele sacre da parte dei fedeli serve a sgarristi e picciotti anche a sentirsi "parte di una comunità" più estesa, più vasta. Il rito pagano di mischia al rito religioso e c’è la sensazione, e la tentazione, di avvertire come "divino" un potere che ha a che fare con omicidi, con estorsioni, con sequestri di persona, con il traffico della droga, con l’ecomafia che avvelena la terra dove cammineranno anche i loro figli.
Nemmeno Francis Ford Coppola avrebbe potuto concepire per il suo "Padrino" la verità che emerge da queste riprese, fatte da un tecnico che ha lavorato insieme con i detective. Come ai "Polsi" si decidono i destini degli uomini, le carriere, chi è bravo e chi deve modificare il suo atteggiamento (la pena per chi esagera con l’indipendenza è la morte), così a Milano, nel circolo intitolato a Falcone e Borsellino, si sono visti i boss votare il loro Capo, quello che incarna per tutti al Nord il volere della ’ndrangheta. Quella che sembrava un gruppo di famiglie scollegate una dall’altra, dopo quest’inchiesta, è diventata qualcosa d’altro. I pm vogliono che la Cassazione riconosca che anche i clan calabresi hanno una cupola, che esiste un Totò Riina della ’ndrangheta, e che nessuno estraneo, prima della retata di lunedì notte, lo sapeva.
* la Repubblica, 14.07.2010
Maxi blitz contro la ’ndrangheta
trecento arresti in tutta Italia
L’operazione svela una struttura simile a Cosa Nostra: tre mandamenti calabresi, c’è un organo di vertice e "la Lombardia", la struttura nordica, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". In manette anche Domenico Oppedisano, 80 anni, numero uno delle cosche calabresi *
ROMA - Chi litiga è un uomo morto. È stato un omicidio di due anni più che a rivelare, a certificare la "mutazione genetica" della ’ndrangheta. Si chiamava Carmelo Novella, detto compare Nuzzo, aveva sessant’anni e il 14 luglio del 2008 viene ammazzato in un bar di San Vittore Olona. Sembrava il risultato di una faida legata agli appalti nell’edilizia, invece Novella aveva detto in giro che "la Lombardia", e cioè tutti i gruppi di ’ndrangheta trapiantati al Nord, avrebbero potuto "fare da soli", senza la casa madre calabrese. Il desiderio di autonomia è stato stoppato con le pallottole, Novella non sarà più un problema e viene nominato un altro calabrese, Giuseppe Neri, come uomo del raccordo tra il Nord danaroso e il Sud antico e sanguinario.
È questo sangue che scorre al Nord un importante episodio nell’inchiesta ribattezzata "Il Crimine", che è in corso mentre scriviamo, sono in programma tra i duecento e i trecento arresti, tra Calabria e Lombardia. Nei fascicoli dei procuratori Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone sono entrati anche due filmati senza precedenti. Il più clamoroso è stato registrato a Paderno Dugnano, in un centro intitolato - incredibilmente - ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per alzata di mano, e all’unanimità, è stato scelto, dai vertici dei clan calabresi del Nord tutti riuniti, il "mastro generale", e cioè Pasquale Zappia. Una scena degna del film "Il Padrino", ma senza smoking, una versione con abiti casual in stile provincia milanese.
L’altro filmato è avvenuto in Aspromonte, alla Madonna dei Polsi, dove si sono riuniti i boss calabresi. Senza l’aiuto di pentiti, sono stati documentati circa quaranta incontri. E da quanto raccontano i documenti redatti dai carabinieri e dalla polizia, è stata fatta una fondamentale scoperta. La ’ndrangheta sinora non era mai stata considerata come una struttura unitaria, cioè non sembrava "come" Cosa Nostra. E se allora, per stabilire le regole in Sicilia, ci volle il pentito Tommaso Buscetta, qua, oggi, per comprendere le regole calabresi è stato necessario un lavoro certosino. Ma, piano piano, sono emersi i tre mandamenti della ’ndrangheta in Calabria, poi un organo di vertice, che "ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti".
E poi esiste - ed è sorprendente - "La Lombardia", cioè la federazione dei gruppi trapiantati al Nord, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". Una "struttura unitaria", accusano i pm, e hanno scoperto che, ovviamente, i clan al Nord avevano in mente di prendersi qualche buon appalto per l’Expo. Non ci sono riusciti "per il fallimento" della Perego general contractor srl: una ditta di rilievo dove Salvatore Strangio, espressione della famiglia Pelle, soprannominata "Gambazza", faceva il bello e cattivo tempo, per favorire "numerose imprese controllate dagli affiliati lombardi". Ne sono stati individuati ben 160, ma i boss si dicono "che hanno circa 500 unità".
I procuratori Boccassini e Pignatone, che hanno organizzato questa retata senza precedenti, si sono convinti che sia stato il sequestro di Alessandra Sgarella, portata via dalla sua casa bella zona di San Siro nel dicembre del 1997, l’ultima "azione" dei clan tradizionali. Dal Duemila la ’ndrangheta si è trasformata in "mafia imprenditrice".
Ci sono i criminali, ma accanto a loro affiliati lombardi, spesso senza problemi con la giustizia, com’è il caso di un alto funzionario della sanità lombarda: "In virtù del proprio ruolo istituzionale - viene detto di lui - assicura l’assistenza sanitaria, ma anche l’interessamento per investimenti immobiliari e coltiva e sfrutta per i "fini comuni" i legami con gli esponenti politici locali". L’inchiesta sembra riguardare anche il recente voto in Lombardia. Inoltre, da una lavanderia nel centro commerciale di Siderno, gestita dal boss Giuseppe Commisso, si è arrivati a nove locali individuati a Toronto e uno a Thunder Bay, controllati dalla provincia di Reggio. Un’intera rete di relazioni, affari, sembra venire allo scoperto e sono stati sequestrati beni per 60 milioni di euro.
Tra le persone arrestate a Milano, Carlo Antonio Chiriaco, classe 1959, nato a Reggio Calabria, direttore sanitario dell’Asl di Pavia, Francesco Bertucca, imprenditore edile del pavese e Rocco Coluccio, biologo e imprenditore residente a Novara. I tre sono ritenuti responsabili di aver fatto parte della ’ndrangheta attiva da anni sul territorio di Milano e nelle province vicine. Nel corso dell’operazione sono state fatte 55 perquisizioni e sequestri di beni immobili, quote societarie e conto correnti il cui valore è ancora da quantificare.
E in manette è finito anche Domenico Oppedisano, 80 anni, considerato dagli investigatori l’attuale numero uno delle cosche calabresi. La sua nomina a ’capocrimine’ - cioè colui che è al vertice dell’organismo che comanda su tutte le ’ndrine ed e’ denominato ’Provincia’ - sarebbe stata decisa il 19 agosto del 2009 nel corso del matrimonio tra Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro, entrambi figli di boss. Un particolare significativo del personaggio: quando Oppedisano doveva parlare non usava il telefono. I suoi ordini arrivavano a Bollate attraverso Rocco Ascone, caposocietà e vicario della cosca locale comandata da Vincenzo Mandalari.
* la Repubblica, 13 luglio 2010
100 donne ammazzate ogni anno da fidanzati mariti o ex
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la violenza contro le donne rappresenta la prima causa di morte per il sesso femminile fra i 25 e i 44 anni. E a leggere i dati Istat del 2007 emerge che in Italia il 14,3% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza dal partner o dall’ ex e che ogni anno vengono uccise di media 100 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Una mattanza che non conosce confini geografici, culturali o sociali.
Circa il 10% degli omicidi avvenuti in Italia dal 2002 al 2008 secondo Massimo Lattanzi, fondatore dell’Osservatorio nazionale sullo stalking ha avuto come prologo atti di stalking, l’80% delle vittime è di sesso femminile e la durata media delle molestie è di circa un anno e mezzo. Una fotografia del fenomeno l’ha fornita ieri, nel corso di un convegno, anche il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Casellati: a tutt’oggi 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali, ma le denunce sono soltanto il 7,3%.
*l’Unità, 12.07.2010
"Le donne rappresentano una ragione di speranza e di fiducia per il nostro Paese"*
"Ho voluto dedicare la cerimonia dell’8 marzo alle ’donne di domani’ perché rappresentano una ragione di speranza e di fiducia per il nostro Paese. E di speranza e fiducia in questo momento abbiamo bisogno". Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto al Quirinale nel corso della celebrazione della Giornata Internazionale della donna. "Ma potremo contare sulle donne di domani - ha aggiunto il Presidente Napolitano - solo se saremo capaci di dare loro quanto meritano, anche quello che le donne di oggi e ancor più quelle di ieri non hanno - ingiustamente - avuto".
Il Capo dello Stato ha sottolineato che "che al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche, profonda è tra le italiane e gli italiani la condivisione di quel patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione repubblicana, a coronamento di una lunga e travagliata esperienza storica. Il prossimo 150esimo anniversario dell’Unità di Italia è una grande occasione per abbracciare in tale condivisione le nuove generazioni, portandole a riflettere su quel che ha fatto grande e unificato la Nazione italiana, sul ritardo storico del nostro Stato e della nostra società nel rapporto con le donne, sull’impegno necessario per superarlo pienamente nell’interesse comune".
Il Presidente ha invitato "i poteri pubblici e i rappresentanti delle parti sociali a non dimenticare il futuro delle donne di domani nel nostro Paese. Le opportunità delle giovani generazioni e di quelle a venire di realizzarsi professionalmente dipendono molto sia da un’istruzione efficiente, sia dalla possibilità di utilizzarla in aziende, in strutture di ricerca, in amministrazioni di alto livello capaci di valorizzare le competenze. Senza un’adeguata trasformazione di queste strutture non solo negheremo opportunità ai nostri giovani, in particolare alle nostre ragazze, ma decreteremo un destino di sostanziale decadenza per il nostro Paese. Ma c’è un’altra - forse ancora più importante - opportunità che va data ai giovani, quella di realizzarsi moralmente".
"Auguro - ha concluso Napolitano - a tutti noi un’Italia determinata ad offrire alle donne e, lasciatemi aggiungere, anche agli uomini di domani un contesto che favorisca la loro realizzazione sia morale che professionale. Ma lasciatemi rivolgere infine un invito particolare a voi ragazze che state entrando nella vita adulta: preparatevi ad esigere, da chiunque e in qualsiasi circostanza - nel lavoro, nella famiglia, nell’attività politica - il rispetto della vostra dignità di donne. E’ la premessa, è la condizione per ogni vostra autentica affermazione e conquista".
* Fonte: Sito della Presidenza della Repubblica (08.03.2010)
Familismo
Ginsborg: "Perché l’Italia non ha un’etica pubblica"
Nel nostro Paese, segnato dagli scandali, i rapporti parentali sono un ostacolo alla crescita democratica
Parla lo storico inglese che ha curato una raccolta di saggi dedicata alle "Famiglie del Novecento"
Un fenomeno simile al clientelismo con un uso delle risorse dello Stato per interessi privati
L’istituto famigliare è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia
intervista di Simonetta Fiori (la Repubblica, 08.03.2010)
Eravamo la patria del "familismo amorale", oggi siamo quella del "familismo immorale"? Cognati operosi, figli meritevoli, mogli dedite al business, soprattutto padri di famiglia soccorrevoli verso la progenie. Anche nel canovaccio degli ultimi scandali, le figure parentali rivendicano a pieno titolo ruolo da comprimari. In qualche caso è proprio la responsabilità genitoriale che viene invocata come causa e giustificazione di tanto penoso affannarsi («Ma io cosa ho fatto per mio figlio?», piange al telefono il servitore dello Stato). E uno straordinario family gathering allieta in Campania le liste elettorali del Pdl, i cui colonnelli candidano consorti e compagne, figlie e nipoti.
Questa del "tengo famiglia" è una filosofia antica e tipicamente italiana, «un tratto che scaturisce dalla mancata creazione di un’etica pubblica», sostiene Paul Ginsborg, lo storico che più s’è occupato dell’istituto famigliare in relazione con lo Stato e la società civile. A quest’ambito di ricerca è ora dedicata una raccolta di saggi, Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, curata dallo studioso inglese insieme a Enrica Asquer, Maria Casalini e Anna Di Biagio (Carocci, pagg. 276, euro 27). «Nella storia italiana», dice Ginsborg, «in alcuni passaggi critici, si sono create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le sue regole e i suoi codici di comportamento. È accaduto all’indomani del processo di unificazione, e anche nella stagione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni volta ha agito la speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c’è mai stato».
Non è un caso che il "familismo immorale" nasca nell’Italia del "familismo amorale", secondo la celebre definizione di Edward C. Banfield.
«Più che sull’aggettivo, mi concentrerei sulla parola familismo, che misura l’eccessivo potere della famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il paese di oggi non è certo il paese arretrato investigato da Banfield nel 1957 nel suo saggio In The Moral Basis of a Backward Society. Al centro della sua indagine era Chiaromonte, un borgo poverissimo della Basilicata. Quel che lo studioso rimarcò fu l’assenza di società civile. Le famiglie di Chiaromonte avevano un solo obiettivo: massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supponendo che anche tutti gli altri si comportassero allo stesso modo. Naturalmente non tutta la penisola era ed è assimilabile al modello di Chiaromonte. Però ancora oggi l’Italia si misura con una smisurata attenzione, spesso esclusiva, all’istituto famigliare».
I recenti scandali mostrano qualcosa di più rispetto alla mancanza di un ethos comunitario. Si è disposti a tradire la fedeltà allo Stato per sistemare o arricchire figli e consanguinei.
«In questo caso il familismo è assai contiguo al clientelismo, che implica l’uso delle risorse dello Stato per interessi privati. Può essere interessante rilevare come nell’Europa mediterranea questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione, nell’Italia di oggi, è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro, diventa fondamentale la relazione con il potente, che garantisce determinati accessi, per te e i tuoi figli: da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».
Ma la famiglia forte può essere considerata un ostacolo alla crescita democratica?
«Sì, se concentrata in modo sproporzionato sugli interessi materiali immediati. Al caso italiano s’attaglia la riflessione di Isaiah Berlin sulle due libertà. Secondo lo studioso esiste "la libertà da" - liberty from - ossia la libertà dall’interferenza di un altro soggetto rispetto alla tua azione individuale. È la libertà come viene intesa dal nostro premier: nessuno, neppure lo Stato, dovrebbe limitare la tua libertà. Esiste poi la "libertà di" - liberty to - ossia la libertà che scaturisce dalla ricerca di un’azione collettiva condivisa. Ancora prima dell’avvento del berlusconismo, l’Italia familista ha sempre praticato la prima di queste due libertà».
La relazione principale in Italia - lei lo rimarca nel suo ultimo saggio - è tuttora quella tra famiglia e individuo, mentre in altre parti d’Europa, in Gran Bretagna o in Svezia, prevale quella tra individuo e Stato.
«L’Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda formazione. Norberto Bobbio sintetizzò tutto questo scrivendo che per le famiglie si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato».
I demografi storici distinguono, nell’Europa occidentale, tra sistemi famigliari deboli e sistemi famigliari forti, ricavandone una proporzione scoraggiante: più forte è la famiglia, più debole è la società civile.
«Nel primo sistema - dove più conta l’individuo - rientrano com’è naturale la Scandinavia, la Gran Bretagna, l’Olanda e il Belgio, ed alcune regioni della Germania e dell’Austria. Il secondo - dove più conta famiglia - comprende l’Europa mediterranea. Sono essenzialmente due i fattori che determinano la differenza: la longevità delle famiglie d’appartenenza - ossia l’età in cui si lascia la casa paterna - e la rete di solidarietà famigliari in rapporto alla vecchia generazione. Attenzione però alle generalizzazioni, come raccomanda lo stesso David Reher, l’artefice di questi studi. Anche indagini recenti collocano la società civile italiana in un posto molto alto nella graduatoria mondiale. Ieri i girotondi, oggi il popolo viola: nonostante tutto, la società italiana è ancora capace di grande reattività».
Il rapporto tra famiglia e società civile non è stato mai indagato a fondo: né in ambito disciplinare né sul piano del pensiero politico.
«Sì, esiste un buco nero nel campo delle teorie politiche. In nessuna delle due tradizioni dominanti nel Novecento, quella liberale e quella marxista, le famiglie sono al centro di una seria analisi in quanto soggetti politici. Nel pensiero liberale la famiglia fu sistematicamente relegata alla sfera estranea alla politica, trovando collocazione nel privato piuttosto che nel pubblico. Nel suo saggio The Subjection of Women (1869) John Stuart Mill aveva dedicato un effimero riconoscimento all’importanza della famiglia: i posteri preferirono ignorarlo».
Nella tradizione comunista non ci fu maggiore attenzione.
«Il giovane Marx ebbe qualche intuizione nel riconoscere la famiglia e la società civile come presupposti dello Stato, ma egli stesso non ebbe interesse ad approfondire il tema. Anzi nella sua riflessione successiva la famiglia diventerà una delle tante espressioni dei rapporti economici. Più tardi i bolscevichi finiranno per liquidarla come entità destinata a essere superata dalla pianificazione socialista. Solo Trockij ebbe delle idee un po’ diverse, ma non le sviluppò fino in fondo».
In un quadro di generale distrazione, risalendo al XIX secolo lei riconosce un’eccezione in Hegel.
«Sì, in alcuni paragrafi dei Lineamenti della filosofia del diritto, il filosofo invita a esaminare gli individui in relazione alle tre sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. In particolare, Hegel indagò il momento della "dissoluzione" della famiglia in rapporto alla società civile. A me pare tuttora una proposta stimolante sul piano del metodo».
Però pochi l’hanno raccolta.
«Anche più recentemente, dopo l’Ottantanove, la riflessione saggistica sulla grande rinascita della società civile nell’Europa dell’Est non ha mai incluso la famiglia. E John Rawls, il liberale che più ha meditato sulla società attuale, dedica pochissimo spazio all’istituto famigliare, che resta un soggetto passivo. Si potrebbe dire che la famiglia è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia».
Pregiudizi e religione
Le donne e quella sacra violenza
di Enzo Mazzi (l’Unità, 26.11.2009)
Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che si è svolta ieri si sono sprecate analisi, denunce, propositi, programmi. Ma la violenza è stata declinata per lo più in termini fisici. Le ferite del corpo sono gravissime ma non sono le sole. Poche le analisi e le denunce e i progetti per eliminare la violenza che si annida negli snodi profondi delle culture, nei modelli consueti di comportamento quotidiani, delle strutture ideologiche rituali simboliche delle religioni compresa quella cristiana e cattolica.
Quasi un tabù è ad esempio la violenza del “sacro” contro le donne. Talvolta viene allo scoperto come quando si accusano le donne che abortiscono di essere assassine e si scomunicano e si torna a chiedere per loro il carcere. Ma più spesso è sottile, pervasiva e strisciante. I roghi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c’era dietro e cioè l’annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura e sulle coscienze.
La donna che ha potere sulla vita è in sé una concorrente pericolosa di ogni sistema di dominio, non soltanto di quello religioso.
Non solo l’Inquisizione cattolica ha acceso i roghi. I rappresentanti della nuova scienza medica contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del limite di tollerabilità biologica delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro, ma anche per strategia politica: volevano mani libere nella loro sperimentazione e puntavano al monopolio della medicina e al controllo sulla sua organizzazione, sulla teoria e sulla pratica, sui profitti e sul prestigio. Il rapporto con la natura di cui erano portatrici le streghe fu annullato dai roghi e non è stato più recuperato. La modernità ha così percorso la sua strada di divaricazione dal naturalismo femminile fino a giungere all’attuale dominio aggressivo e violento dell’individuo verso il resto del mondo, in una guerra di tutti contro tutti regolata e paradossalmente moderata dal ricatto atomico.
È indispensabile una vera e propria riparazione storica in tutte le culture e religioni, in tutti gli ambiti di vita, per i misfatti compiuti contro le coscienze femminili fin dalla più tenera età, contro la loro dignità, i loro saperi, le loro anime e i loro corpi, la loro capacità generativa e creativa, allora e solo allora sarà possibile una vera pacificazione del mondo. Sono ancora troppo poche le realtà che come le comunità di base mirano a scoprire, sradicare e combattere la violenza contro le donne che si annida negli snodi profondi della società, della cultura e della vita e in particolare nelle strutture del sacro.❖
La Chiesa e la misoginia
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
Il messaggio del presidente della Repubblica in occasione
della Giornata internazionale: "Oltre 140 milioni le vittime di abusi di ogni tipo"
Napolitano: "La violenza contro le donne
è un’emergenza su scala mondiale" *
ROMA - "Molto resta da fare in ogni parte del mondo per sradicare una concezione della donna come oggetto di cui ci si può anche appropriare": a dirlo è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio diffuso in occasione della Giornata internazionale contro la violenza alle donne.
"La Giornata internazionale contro la violenza alle donne deve rappresentare - afferma Napolitano - un’occasione per riflettere su un fenomeno purtroppo ancora drammaticamente attuale, individuando gli strumenti idonei a combatterlo in quanto coinvolge tutti i paesi e rappresenta una vera emergenza su scala mondiale".
"La conferenza su questo tema tenuta a Roma in occasione del G8 ha fornito dati che - icorda il capo dello Stato - valutano in più di 140 milioni le donne vittime di violenze di ogni tipo. Matrimoni forzati che coinvolgono anche bambine, mutilazioni genitali, stupri generalizzati in contesti di guerra non devono apparirci lontani e a noi estranei. Il dolore di quelle donne, di quelle bambine riguarda tutti noi, anche perché la barbarie della violenza contro le donne non è stata estirpata neppure nei paesi economicamente e culturalmente avanzati".
"Molto resta da fare in ogni parte del mondo per sradicare una concezione della donna come oggetto di cui ci si può anche appropriare: è infatti la persistenza di questi aberranti schemi mentali a favorire il riprodursi di insopportabili atti di sopraffazione anche in ambito familiare". Anche in l’Italia purtroppo si contano innumerevoli episodi di violenza contro le donne: "E’ triste dover ricordare - sottolinea infatti Napolitano - che anche in Italia, nonostante la recente introduzione di norme opportunamente più severe, i casi di violenza, i soprusi e le intimidazioni sono in aumento".
"Ai necessari interventi di tipo repressivo, da esercitare con rigore e senza indulgenza, si debbono affiancare - conclude il presidente - azioni concrete per diffondere, in primo luogo nella scuola e nella società civile, una concezione della donna che rispetti la sua dignità di persona e si opponga a volgari visioni di stampo meramente consumistico spesso veicolate anche dal linguaggio dei media e della pubblicità. Solo così sarà possibile creare una cultura di autentico rispetto, innanzitutto sul piano morale, nei confronti delle donne".
* la Repubblica, 25 novembre 2009
la biografia dello storico britannico Tristram Hunt
Friedrich Engels, femminista o sessista?
Considerava la prostituzione un grave sfruttamento ma ammetteva: «Non farei altro che divertirmi con donne»
MILANO - «La forma più evidente di sfruttamento è la prostituzione: questo è il modo in cui la borghesia attacca addirittura fisicamente il proletariato... La donna è sfruttata come oggetto della libidine maschile e come macchina per produrre figli». «Se avessi un reddito di 5mila franchi non farei altro che divertirmi con le donne, fino allo stremo. Senza le francesi la vita non avrebbe senso: ma finché ci saranno le grisettes, avanti tutta!». Parole dello stesso uomo, Friedrich Engels: perché nella nuova biografia scritta dallo storico britannico Tristram Hunt, The Frock-coated Communist: The Revolutionary Life of Friedrich Engels («Il comunista azzimato: vita rivoluzionaria di Friedrich Engels») tra le tante contraddizioni dell’industriale tessile amante della bella vita che scrisse con Marx Il Manifesto del Partito Comunista c’è anche la differenza impressionante tra la teoria e la prassi del suo rapporto con le donne.
DONNE INDIPENDENTI - Perché è evidente, dimostra il documentatissimo prof. Hunt, che l’Engels filosofo sia tra i pionieri della rivendicazione dei diritti delle donne, architetto di una precisa teoria generale dell’emancipazione femminile. Ma il filosofo che scrive con passione - e mente modernissima - della donna doppiamente vittima di oppressione nella società è anche l’uomo che si lancia in appassionate odi ai lupanari, e che privatamente si trovò sempre a disagio in presenza di donne indipendenti (diremmo oggi: assertive) - lui trovava in realtà disdicevole che gli tenessero testa in una discussione. L’ennesima versione della solita vecchia storia, l’uomo che predica bene e razzola malissimo, progressista in tutto tranne quando si tratta di mettersi a stirare le camicie o stendere il bucato quando sta per cominciare la partita in tv? Ovviamente sì, ma non solo: certo i peccati personali di Engels sono, da una parte, così lontani, mentre la modernità delle sue teorie - almeno quelle sull’oppressione della donna - è ancora così (tristemente) attuale.
TEORIA E PRATICA - Leggere il libro del professor Hunt, per un maschio, è però anche un test. Un modo per mettere alla prova i propri inevitabili pregiudizi personali: perché se il primo architetto della liberazione femminile assolveva i suoi comportamenti privati usando le posizioni pubbliche come salvacondotto, ciò non è evidentemente più possibile. Perché una peraltro giusta filippica perorata alla macchina del caffè, in ufficio o all’ora di cena, sulla mancanza di asili-nido, sulla cronica arretratezza delle pari opportunità italiane rispetto al nord Europa, sulle tante cose inammissibili all’estero che avvengono ogni giorno nei luoghi di lavoro italiani, non mette tuttavia nessun maschio al riparo dallo spettro che si aggira per l’Europa - e non solo - maschile e progressista: lo spettro del sessista illuminato, tanto orgoglioso delle proprie convinzioni egualitarie da specchiarsi più in esse che non nei propri comportamenti quotidiani.
Matteo Persivale
* Corriere della Sera, 25 settembre 2009
Dal femminismo alle veline
-«Così abbiamo rivoltato il significato delle parole»
di Marisa Ombra *
Ragioni anagrafiche mi portano a guardare al fenomeno delle veline partendo da molto lontano, niente meno che dalla guerra e dalla Resistenza. D’altra parte quello è l’inizio, ed è da quell’inizio che occorre partire per misurare la portata di ciò che sta accadendo di questi tempi. In quegli anni infatti comincia - o meglio riprende, dopo il fascismo - la lunga marcia delle donne per ottenere la cittadinanza in questo Paese (a questo riguardo consiglierei la lettura del bel libro di Bianca Guidetti Serra «Bianca la rossa»). Sarebbero occorsi decenni. Avremmo ottenuto diritti ed eguaglianza, libertà e posto nel mondo. Non avremmo aspettato che le leggi cadessero dall’alto, avremmo costruito la cittadinanza conquistando postazioni in ogni piega della società, assumendoci responsabilità e diventando parte essenziale del tessuto che fa funzionare la cosa pubblica. Un Paese arcaico e un po’ bigotto sarebbe diventato, per nostro principale merito, aperto e civile. Per chi è nata politicamente in quei lontani anni ed è stata parte di questo faticoso ma felice cammino, l’oggi si presenta di una tristezza infinita. Grande anche la delusione per quello che già viene descritto come «il silenzio delle donne». Di questo vorrei parlare.
Credo che tutte siamo rimaste attonite davanti all’operazione culturale che si è svolta sotto i nostri occhi: una operazione che, se non ha cancellato, ha sicuramente stravolto buona parte dell’impianto teorico che ha accompagnato il movimento politico delle donne. Le parole chiave sono state rivoltate. Scoperta del corpo, liberazione sessuale, affermazione di sé, autonomia, identità, desiderio, eguaglianza, differenza, eccetera, hanno preso significati opposti. L’affermazione orgogliosa «il corpo è mio e lo gestisco io» per esempio. Intendeva dire la vergogna e chiudere con l’antica figura della donna oggetto, riposo del guerriero, «regalo fatto da Dio agli uomini ». Era sembrata una svolta irreversibile, l’affermazione di un nuovo senso comune.
Non si può dire che le donne non si siano impossessate del proprio corpo. Per farne cosa? Donne immagine e prostitute di lusso hanno fatto di sé una nuova moderna (?) figura del mercato, che procede attraverso l’oculato bilanciamento dei costi e dei profitti, il dosaggio fra servilismo e pretesa di compensi dissociati da ogni personale competenza. Il corpo è diventato impresa da mettere a frutto. Direi che il ritorno indietro è ancora più mortificante del già vissuto. Perché in questa contrattazione uno dei due contraenti ha il potere (anche quando è piccolo potere), l’altra mette sulla bilancia una proprietà massimamente effimera. È questo che volevamo? Com’è potuto accadere? La tendenza non sarebbe inquietante se l’ambizione di avere visibilità e successo attraversoun perverso mercanteggiamento, non fosse diventata l’orizzonte di buona parte di una generazione, il senso stesso della vita, dell’essere donna («mi sento velina dentro» risponde una ragazza all’intervistatrice). E se le ragazze in corsa non fossero spesso accompagnate dalle madri: madri giovani, che hanno visto passare sotto i loro occhi, forse addirittura attraversato, il femminismo.
Da una signora che probabilmente non ha attraversato il femminismo, è venuta una parola che aveva contato molto per le donne di un’epoca segnata dalla soggezione e dall’esclusione: dignità. Avendo nella mente e nel cuore quella parola, una generazione è arrivata a raddrizzare la schiena ed hacominciato a risalire verso la libertà. Ciò che oggi comunica smarrimento e sensazione di impotenza è la perdita di questo sentimento. Perché l’uso programmato del corpo implica una tensione di tutto l’essere, cervello compreso; occupa l’anima. Si realizza così un paradosso: l’autonomia, la capacità di decidere del proprio destino, viene cercata attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità. Molte di noi, credo, in questi mesi si sono fatte domande e hanno provato vergogna. Sono convinta che quel che manca è la presa di parola collettiva, se non altro per non far mancare una rappresentazione diversa di ciò che una donna vuole e può fare.
* l’Unità, 06 ottobre 2009
Agi 2.11.09
Poesia: Joumana Haddad, con Lilith un successo gigantesco
(AGI) - Roma, 2 nov. - Quasi 2 mila copie vendute in poco piu’ di una settimana, un gran pubblico entusiasta accorso alle sue presentazioni, numerose interviste radiotelevisive e della carta stampata. Questi i dati del gran successo avuto da Joumana Haddad con ’Il ritorno di Lilith’, la prima opera integrale in italiano edita da ’L’Asino d’oro, nella sua tournee italiana appena conclusasi.
"Non e’ stato un gran successo ma un successo gigantesco!", chiosa la scrittrice libanese, che annuncia una nuova avventura letteraria sempre con l’Asino d’oro per il 2010. E, assicura, nel suo stile: scrivere con le unghie perche’ le piace scavare, andare in profondita’.
Come ha fatto con ’Il ritorno di Lilith’ per sferzare le donne: perche’ non fate sentire le vostre voci? Non mostrate le vostre unghie? Quali i motivi di questo ’successo gigantesco’ che tra l’altro smentisce il luogo comune che la poesia non la legge nessuno?
"Innanzitutto il valore letterario dell’opera. Poi il lavoro, la riflessione del poeta che deve sostenere, accompagnare il testo non smentirlo ma rendendolo piu’ solido e forte", risponde certa e soddisfatta la Haddad. "Quindi l’ottimo lavoro della casa editrice - aggiunge - ed infine la qualita’ della traduzione: sono questi i quattro elementi del successo gigantesco. E direi non solo del libro in se’. Ma del dialogo culturale che ha piu’ valore del dialogo politico".
’Il ritorno di Lilith’, e’ un libro di poesia ed affronta un tema attualissimo ma al tempo stesso controverso: la donna ed il suo essere, e poi il suo ruolo nella societa’. "Verissimo - precisa la Haddad - Il libro ruota tutto attorno alla donna, alla sua identita’, al suo essere: e in questo sta il suo valore letterario".
E si puo’ dire che in questo sta il suo valore culturale che si integra con il dialogo culturale di cui ha parlato? "Si’ sono d’accordo, noi tutti abbiamo bisogno - spiega la Haddad - del dialogo a livello culturale, che ha piu’ valore del dialogo politico, perche’ si riscontrano i segni piu’ solidi di sensibilita’ e comunicazione da parte della gente".
Che per la politica ha ben poca fiducia. "Sono convinta che e’ dal dialogo culturale che ci si conosce meglio, di piu’ e - precisa la Haddad - e piu’ profondamente".
Contaminarsi dunque come cultura, tradizione, modo e stile di vita, insomma. "Si’ e’ a questo che penso", evidenzia la Haddad anche sulla base del gran successo anzi del successo gigantesco, riscontrato come presenza di pubblico. Joumana Haddad, e lo ha spiegato bene, vuole, con ’Il ritorno di Lilith’, sprigionare e poi alimentare una ’speranza’ per le donne arabe oppresse ma anche di altri paesi, Italia compresa: del resto l’oppressione della donna, pur se registra diverse modalita’ sul piano fisico, e’ identica come intenzionalita’.
E Lilith la prima donna creata che non si sottomise e non si ridusse in schiavitu’ ad Adamo e’ la speranza per le donne. Dunque, "donne ribellatevi - e’ il messaggio della Haddad - fate sentire la vostra voce, mostrate le unghie". (AGI)
Lilith: la libertà della prima donna creata da Dio
di Sofia Russo (Il Chiasmo, 3 agosto 2020)
La leggenda di Lilith, demone-femmina, possiede un’ampia letteratura diffusa sia in epoca antica, medievale e moderna. Questo mito affonda le sue origini nella religione mesopotamica e nei primi culti di quella ebraica che, insieme ad altri miti come ad esempio quello del diluvio universale, potrebbe averlo appreso dai babilonesi durante la prigionia degli ebrei a Babilonia. Nella religione mesopotamica, Lilith, è un demone femminile portatore di sciagure e morte, legata al vento e alla tempesta e alcune trascrizioni che accennano a questo culto sembrerebbero risalire al III millennio a. C.
Nella religione ebraica, invece, Lilith è la prima moglie di Adamo che si rifugia nel Mar Rosso per fuggire dal marito. Lilith, infatti, essendo stata creata da Dio dalla polvere, come Adamo, pretendeva di averne anche gli stessi diritti, che, però, le furono negati. Per questo suo gesto di ribellione viene associata a un demone notturno, che spesso compare nella forma di una civetta, e capace di danneggiare i bambini maschi. Tuttavia, alla fine dell’Ottocento, durante l’emancipazione femminile, Lilith diventa simbolo della libertà delle donne.
Mi sembra, dunque, opportuno esaminare questa figura sia nella religione mesopotamica che in quella ebraica, così da poter identificare e capire la complessità di questa figura archetipica della Femminilità.
Per quanto riguarda il nome di Lilith, le fonti sono scarse. Sicuramente è rintracciabile la radice sumera Lil, che è presente nei nomi di varie divinità assiro-babilonesi e di spiriti cattivi. Nella religione accadica si rintracciano scongiuri e preghiere contro figure maligne e demoniache di nome Lilitu o Lilu. Tuttavia nel 2000 a. C. sembra che il nome fosse diventato Lilake: in merito a questo Robert Graves cita una tavoletta sumera di Ur che riporta la storia di Gilgamesh e il salice. Anche in questo episodio Lilake sarebbe una figura demoniaca femminile che risiede nel tronco di un salice, custodito dalla dea Inanna, Signora del Cielo ed equivalente della romana Venere. Un’ etimologia ebraica, invece, farebbe derivare il nome di Lilith da Layl o anche Laylah, cioè spirito della notte. Tuttavia gli studiosi moderni ritengono che l’origine sia nel sumerico Lulu che significa libertinaggio. Lilith sarebbe, dunque, un demone notturno lascivo e libidinoso.
Il Rilievo Burney è un altorilievo di terracotta, conservato al British Museum, risalente al II millennio a. C. probabilmente di origine babilonese. Raffigura una divinità, non ancora bene identificata, che, però, potrebbe essere Lilith. L’immagine scolpita è una figura ibrida, disposta in piedi frontalmente, con le braccia aperte e piegate come se stesse pregando, le mani congiunte e le dita unite. La bocca è atteggiata in un vago sorriso, ma l’espressione è tipica della plasticità arcaica: impenetrabile e ineffabile. I capelli sono fatti da quattro serpenti sovrapposti e formano un cono. I seni si protendono prosperosi, con evidente funzione sensuale. Le gambe sono femminili ma i piedi sono artigli di avvoltoio che spuntano dalle dita rugose.
Lilith tiene nelle mani due pentacoli che ricordano i segni geroglifici della Bilancia, simbolo di potenza e giustizia. Ai lati sono rappresentati due volatili che ricordano un gufo o una civetta e due leoni. L’altorilievo è scolpito in un triangolo equilatero, il cui vertice superiore è la testa di Lilith. Osservando l’opera si può percepire l’energia aggressiva che la permea e l’espressione agghiacciante e demoniaca di Lilith, così statica. Questa scultura racconta già il mito di Lilith: la prima moglie di Adamo è una creatura demoniaca di cui non fidarsi.
Nella tradizione ebraica il mito di Lilith appartiene alla tradizione delle testimonianze orali raccolte negli scritti rabbinici che formano la versione jahvista della Bibbia, che precede di qualche secolo quella dei sacerdoti. Queste versioni della Genesi sono molto complesse e presentano una serie di contraddizioni e incongruenze che si eliminano a vicenda: probabilmente la leggenda di Lilith è andata perduta o rimossa, proprio nell’epoca del passaggio dalla tradizione jahvista a quella sacerdotale poi ulteriormente modificata dai Padri della Chiesa.
Nella Bibbia ebraica Lilith compare una sola volta in Isaia 34:14:
L’ebraico lilit viene tradotto con civette, ma il libro di Isaia viene datato intorno al VII secolo a. C., cioè il secolo della cattività degli ebrei a Babilonia e, dunque, proprio il periodo in cui essi avrebbero appreso questo culto dalla religione mesopotamica.
Alcuni passaggi oscuri della Genesi hanno poi fatto pensare ad un’altra donna che precedette Eva. Nel primo libro della Genesi, infatti, si legge:
Dunque ci si riferisce a due individui e la creazione di Eva è descritta nel secondo libro della Genesi, successiva a quella di Adamo, da una sua costola (Genesi 2:22):
Seguendo il passo biblico si avverte un altro particolare interessante nella reazione di Adamo alla vista della sua compagna (Genesi 2:22-25):
Lo stupore di Adamo che questa volta la donna sia carne della sua carne conferma che ci deve essere stata una prima volta, riferito dunque a una donna precedente creata dal suolo come lui. Che in queste righe aleggi una rimozione è evidente.
Una fonte interessante che parla di Lilith come della prima figura femminile vista da Adamo è sicuramente L’alfabeto di Ben-Sira di un autore anonimo, scritto nel X secolo d. C. Nell’opera si racconta che Lilith abbandonò il giardino dell’Eden, lasciando Adamo. Viene raccontato che quando i due si accoppiavano, evidentemente Lilith giaceva sotto e Adamo sopra, per questo la donna mostrava insofferenza, domandando al compagno perché dovesse stendersi sotto di lui, pur essendo stati creati insieme dal suolo. Propone, quindi, di invertire le posizioni. La domanda di Lilith è, fondamentalmente, una domanda di uguaglianza per stabilire una parità e un’armonia fra i corpi e le anime. Ma Adamo rifiuta nettamente:
A questo rifiuto Lilith pronuncia infuriata il nome di Dio e, accusando Adamo, abbandona il paradiso terrestre. Si rifugia nel Mar Rosso dove, accoppiandosi con Asmodai, demone biblico, crea un’infinita generazione di demoni detti Lilim.
Il rifiuto di obbedire a Adamo che Lilith rivendica, oltre ad essere un atto di ribellione nei confronti dell’uomo è anche un atto di ribellione verso Dio che, infatti, la esilia nel regno delle ombre, Edom. Quello che è interessante è notare come questo mito sia stato rimosso dalle Sacre Scritture, rimanendo però vivo in quelle incongruenze della Genesi già menzionate e, soprattutto, in Eva. Sarà infatti Eva, spinta dall’istinto di curiosità e trasgressione, a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Da questo momento in poi non solo Lilith, ma anche Eva e tutte le altre donne verranno, consciamente o inconsciamente, associate dalla cultura giudaico-cristiana al simbolo demoniaco del serpente e quindi del Male.
Nell’immaginario collettivo Lilith è un demone, simbolo di trasgressione e peccato e, nella cultura cristiana, ha subito una vera e propria damnatio memoriae. L’archetipo che, però, rappresenta non può essere rimosso in nessun modo, perché vive nel nostro inconscio, e simboleggia la forza, la disobbedienza e la trasgressione del Femminile, di tutti quei divieti posti sui desideri, non solo sessuali, delle donne. Lilith rappresenta un tabù culturale e religioso che sopravvive ancora ai nostri giorni.
Rimuovendo la creazione della prima donna si è rimosso anche l’energia vitale delle donne, la capacità di difendere i propri diritti, la legittimazione del desiderio sessuale e la giusta parità con l’uomo, in ogni ambito, anche nella divisione del potere. Da secoli si esalta solo la dimensione materna del Femminile, a svantaggio di tutto il resto, della complessità dell’ Anima, cioè delle sue aspirazioni e dei suoi desideri. Agendo in questo modo le donne sono state tagliate totalmente fuori dalla costruzione della società che è, ancora oggi, prettamente maschile, e si è creato uno sbilanciamento degli equilibri tra i due sessi.
La cultura giudaico-cristiana, da Lilith in poi, ha premiato solamente l’archetipo della donna in quanto madre per due ragioni: perché si garantiva la sopravvivenza della specie e perché più facile da controllare.
Nel corso della storia dell’Occidente, la concezione giudaico-cristiana che vede la donna come fonte di peccato e perdizione ha decisamente influito sul pensiero patriarcale, e questo ha portato le donne a stare blandamente ai margini di una società controllata e costruita da uomini per gli uomini e che, non tenendo conto della diversità e della pluralità del genere umano, è destinata al collasso. Questo è il momento di riscoprire la figura di Lilith, in quanto archetipo della ribellione e della disobbedienza a un potere assoluto che non accetta confronti, poiché è un mito che agisce nella psiche di tutti ed è, quindi, risorsa dell’umanità intera.
Per saperne di più:
Per una conoscenza maggiore dei temi trattati si consiglia la lettura di: Eva o Lilith? Identità femminile nella società (post)-patriarcale di Flaminia Nucci (Roma, Alpes Italia s.r.l, 2015), Lilith, la luna nera di Roberto Sicuteri (Astrolabio, Roma, 1980) e Lilith di Salvator Gotta (Baldini & Castoldi-editori, Milano, 1943).
Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio
«Sono una snob, preferisco la ricchezza culturale allo scambio tra il corpo e la carriera.
In Italia domina la filosofia della differenza sessuale: le donne sono simili tra loro, dolci e sensibili.
L’«arma» della consapevolezza
di Nicla Vassallo (l’Unità, 12.09.2009)
Da snob mi consento diverse cose, ormai è «facile» si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo «scambio tra corpo e carriera», e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno-soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a «prezzo di mercato»), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili. Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate.
Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico. Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: «Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione». Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere). Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche «gossip» sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.
Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word.
Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno.
Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato!
Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.
Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza - sempre che con «sesso» ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza? Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al «maschile» e al «femminile»? Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità?
In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio-politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli. E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del «questo corpo è mio e me lo gestisco io», o forse solo un’estrosa interpretazione del «my body is my own business»? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa.
È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King. In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia.
Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una «vera donna» o un «vero uomo»? La disapprovazione contenuta nel «Tu non sei una vera donna» ci interessa sul serio? Le «vere» donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini?
Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non susanticonformistica, in cui le donne (almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare. Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti.
Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee: «Ci troviamo qui... per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci... e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre... È nostro dovere, ora, continuare a pensare... Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?». Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere. ❖
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ROMA - Lottare contro l’omofobia e la xenofobia. Fare di tutto per mettere un freno alla violenza sulle donne. Tutelare i diritti senza allontanarsi dai principi della Costituzione. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano apre così la Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne che si tiene a Roma. Con un severo monito contro le discriminazioni che ci stanno allontanando dallo spirito delle Costituzione.
"La lotta contro ogni sopruso ai danni delle donne, contro la xenofobia, contro l’omofobia fa tutt’uno con la causa del rifiuto dell’intolleranza e della violenza, in larga misura oggi alimentata dall’ignoranza, dalla perdita dei valori ideali e morali, da un allontanamento spesso inconsapevole dei principi su cui la nostra Costituzione ha fondato la convivenza della nazione democratica" ammonisce il presidente.
Parla della violenza contro le donne, il presidente. "Fatti raccapriccianti" li definisce. Che si verificano anche in paesi "evoluti e ricchi come l’Italia, dotati di Costituzione e di sistemi giuridici altamente sensibili ai diritti fondamentali delle donne, continuano a verificarsi fatti raccapriccianti, in particolare, negli ultimi tempi, di violenza di gruppo contro donne di ogni etnia, giovanissime e meno giovani". E se è vero che il Parlamento ’’già da decenni si sia impegnato in una severa legislazione sulla violenza’’, è anche vero che ’qualunque paese rappresentiamo in questa sala dobbiamo sentirci egualmente responsabili dell’incompiutezza di progressi realizzati’’.
Diritti ed Europa. A partire dalla Carta della Ue che "vincola alla non discriminazione". Parole che suonano quanto mai di attualità. "In Italia stiamo sperimentando la complessità della presenza crescente nel nostro Paese di comunità immigrate e del conseguente processo di integrazione da portare avanti - dice Napolitano - Integrazione i cui cardini sono nel rispetto della diversità di culture, religioni e tradizioni e nel rispetto dell’individuo e della sua dignità, da garantire insieme ai principi e alle leggi nazionali che regolano l’appartenenza alle società d’accoglienza".
Diritti da tutelare, quindi. Il cui riconoscimento è la "condizione di convivenza civile, libera e democratica". "In qualsiasi contesto il pieno riconoscimento la concreta affermazione dei diritti umani - conclude il capo dello Stato - costituisce una innegabile pietra di paragone della condizione effettiva delle popolazioni e delle persone del grado di avanzamento materiale e spirituale di un Paese". E su questa strada, è il senso delle parole di Napolitano, c’è ancora molto da fare.
Immigrati, il richiamo di Barroso. Il presidente della Commissione europea, Barroso, ha "esortato i primi ministri italiano e maltese a rispettare tutte le norme internazionali" nella vicenda dei respingimenti dei migranti clandestini nel mediterraneo. Lo ha riferito lo stesso Barroso agli eurodeputati del gruppo dei Socialisti e democratici durante la sua audizione in corso oggi a Bruxelles. "Il mio commissario competente (Jacques Barrot, ndr) ha mandato subito una lettera formale ai due governi chiedendo spiegazioni. E’ necessario - ha concluso Barroso - sostenere i diritti umani e i diritti fondamentali in Europa e nel mondo".
* la Repubblica, 9 settembre 2009
«Le lotte femminili hanno migliorato questo Paese»
di Marisa Rodano *
Il dibattito aperto sull’Unità sul «silenzio delle donne» è una bellissima iniziativa, che ho molto apprezzato. Mi ha però lasciata interdetta una frase del pur interessante intervento di Lidia Ravera. «Ve la ricordate la rivolta da camera delle nostre madri?»- ha scritto Ravera - «Erano donne che avevano vissuto la loro giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore a un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento».
Mi sono chiesta: come è possibile che una scrittrice, colta, brillante e intelligente come Lidia Ravera non sappia che quelle madri, le donne della generazione della resistenza, negli anni ’50 e ’60 erano rimaste in campo, avevano condotto straordinarie lotte per ottenere il diritto al lavoro e allo studio, la parità di salario, la tutela delle lavoratrici madri, il divieto di licenziamento per matrimonio, i servizi sociali?
Nel 1963 - proprio negli anni sessanta di cui parla Lidia Ravera - Nilde Jotti, allora responsabile femminile del Pci, sottolineava con soddisfazione che, «grazie alle lotte e alla combattività delle lavoratrici, le disparità salariali si erano fortemente accorciate« (dal 19% di scarto al 7,2% nell’industria e nel commercio e dal 30% alla parità contrattuale nell’agricoltura.)(...).
Altro che lamento! Quelle donne erano fiere delle lotte condotte, delle conquiste realizzate. Le faceva soffrire piuttosto il fatto che il loro lavoro fosse cancellato, rimosso; che quelle loro figlie, impegnate nel movimento femminista, le contestassero, avversassero l’Udi e rifiutassero la linea di emancipazione (...). La vita delle donne italiane nel corso degli anni è profondamente cambiata: il diritto al lavoro, alla parità di retribuzione, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, un nuovo diritto di famiglia basato sulla eguaglianza, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore, la tutela dei figli nati fuori del matrimonio, l’autodeterminazione nella maternità e nell’aborto sembrano oggi norme ovvie e pacifiche, ma sono costate lunghe lotte. (...). Attualmente il contrattacco si è dispiegato in modo feroce: precarietà del lavoro, riduzione dei servizi, impossibilità di usufruire dei diritti (maternità, previdenza, lavoro) sanciti nelle leggi; una crescente violenza maschile contro le donne. Soprattutto, come denuncia Ravera, sta passando un modello culturale, un’immagine di donna, «tette grandi, cervello piccolo», che per affermarsi comunque - fare la velina o essere eletta in parlamento sembrano obiettivi equivalenti! -deve vendere il proprio corpo.
Uscire dal silenzio, tornare a dire «noi» anziché «io», ricostruire una rete tra i tanti gruppi e movimenti femminili che tuttora esistono, riprendersi la piazza, organizzare la lotta è oggi urgente e necessario. Ma per far questo sarebbe utile che la stampa, quella poca che, come l’Unità, non è asservita, desse visibilità alle donne che non tacciono; che, ad esempio, facesse sapere ai suoi lettori e alle sue lettrici che l’Udi esiste ancora. (...)
* l’Unità, 01 settembre 2009
L’Onore ferito
di Ida Dominijanni (il manifesto, 03.09.2009)
Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell’Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E’ un caso e non lo è. Perché fin dall’inizio dell’affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.
Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.
Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po’ nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com’è stato per Patrizia D’Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com’è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).
Il premier e la sua corte hanno un’idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l’ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.
Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l’onore del premier con le sue battute "sull’utilizzo di speciali accorgimenti contro l’impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l’onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l’evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.
Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.
Nyt: «Italiane pronte a scendere in piazza»
di Chiara Volpato *
Fuori dell’Italia molti sembrano dare per scontato che il primo ministro Silvio Berlusconi riesce a farla franca malgrado i suoi comportamenti sessisti perche’ gli uomini li perdonano e le donne, quanto meno, li tollerano. Ma le cose non stanno piu’ cosi’. Oggi ci sono due Italie: una ha assorbito l’ideologia berlusconiana vuoi per interesse personale vuoi per incapacita’ a resistere ai suoi enormi poteri di persuasione; l’altra sta reagendo. Era ora. Il comportamento di Berlusconi e’ stato oltraggioso.
Quando una studentessa gli ha chiesto consiglio sui suoi problemi economici, le ha suggerito di sposare un uomo ricco come suo figlio. (Berlusconi ha poi detto che stava scherzando.) Ha fatto commenti pesanti sulla bellezza delle candidate parlamentari del suo partito e ha inserito delle divette nel governo. Al ministero delle Pari Opportunita’ ha designato una ex modella con cui aveva pubblicamente flirtato.
Questa primavera sua moglie lo ha accusato di frequentare delle minorenni e ha chiesto il divorzio. Ma perche’ gli italiani sopportano tutto questo? Al confronto degli altri Paesi europei, in Italia le idee conservatrici sono dure a morire in parte per la nostra famosa cultura patriarcale, ma anche a causa dell’enorme influenza della Chiesa Cattolica, la cui ingerenza sociale e politica negli affari dello Stato sembra essersi fatta ancora piu’ pesante da quando Berlusconi e’ diventato primo ministro nel 1994. (La chiesa, ad esempio, ha minacciato di scomunicare i medici che prescrivono la pillola abortiva e le pazienti che la usano.)
Inoltre in Italia la discriminazione su base sessuale si e’ dimostrata piu’ resistente che nel resto d’Europa. L’Italia figura al 67esimo posto su 130 Paesi presi in considerazione in un recente rapporto del World Economic Forum sul Global Gender Gap Index tanto da essere superata da Uganda, Namibia, Kazakistan e Sri Lanka. Secondo l’OCSE poco meno della meta’ delle donne italiane hanno un lavoro rispetto ad una media generale di due terzi. Al tempo stesso gli uomini italiani hanno 80 minuti in piu’ al giorno di tempo libero - la differenza maggiore tra i 18 Paesi presi in considerazione. Cio’ si deve probabilmente al tempo in piu’ che le donne italiane dedicano ad un lavoro non pagato: la pulizia della casa.
Non deve sorprendere, quindi, se molte donne italiane non se la sentono di assumersi l’ulteriore peso consistente nell’allevare dei figli. Di conseguenza l’indice di natalita’ del Paese e’ straordinariamente basso. I media italiani aggravano questa triste realta’ presentando un quadro delle donne incomprensibile al resto d’Europa.
Le emittenti televisive private hanno iniziato a trasmettere immagini di donne poco vestite e di bellezze silenziose che fungono da soprammobili mentre uomini piu’ anziani e vestiti di tutto punto conducono gli spettacoli. (Vale la pena sottolineare che Berlusconi e’ proprietario dei principali canali televisivi privati.)
Le conseguenze di anni di lavaggio del cervello sono sotto gli occhi di tutti: una recente ricerca ha evidenziato che tra le adolescenti la principale ambizione e’ diventare velina. Alle giovani donne e alle ragazze si insegna che il loro corpo, e non le loro capacita’ e conoscenze, e’ la chiave del successo. Al contempo il sessismo esibito in televisione consolida le idee scioviniste tra i ceti culturalmente piu’ deboli della popolazione. I ricercatori che studiano la oggettivazione e mercificazione del corpo femminile non debbono fare altro che osservare l’Italia per vedere le tristi conseguenze di questo fenomeno.
I ritratti delle donne fanno venire in mente i momenti piu’ bui del passato del Paese. Durante il fascismo, nella prima meta’ del ventesimo secolo, abbondavano le immagini denigratorie delle popolazioni delle colonie italiane in Africa. Le donne venivano ritratte come oggetti sessuali e gli uomini come nemici barbari. Negli ultimi anni, con l’afflusso di immigranti in Italia, sono tornati in auge questi rozzi stereotipi. Basti un esempio: il capo della Lega Nord, Umberto Bossi, ha chiamato gli immigranti "bingo bongo". Questi atteggiamenti in parte riflettono i sentimenti di insicurezza economica e sociale aggravatisi nell’ultimo decennio circa.
Le risposte a queste realta’, vale a dire il sessismo e il razzismo, sono i due rovesci della stessa medaglia. Di questi tempi ci sono tuttavia segni di cambiamento. Le italiane stanno denunciando il comportamento sessista di Berlusconi con una serie di strategie: si sono rivolte alla Carte Europea per i Diritti Umani e hanno realizzato un documentario sulla mercificazione del corpo femminile: ’Il corpo delle donne’ di Lorella Zanardo.
A giugno poco prima del G8 dell’Aquila un piccolo gruppo di professoresse universitarie italiane, me compresa, ha invitato le First Ladies dei Paesi partecipanti a boicottare l’avvenimento in segno di protesta. Nel giro di pochi giorni 15.000 donne e uomini hanno firmato la nostra petizione per indurre le First ladies al boicottaggio. Ovviamente lo scopo principale non era quello di convincere le First Ladies a modificare i loro programmi di viaggio, ma nel prendere posizione contro il comportamento sessista di Berlusconi. Oggi quanti dissentono fanno fatica ad avere una certa visibilita’.
Il suddetto appello alle First Ladies, ad esempio, ha ottenuto una notevole attenzione da parte dei mezzi di comunicazione internazionali, ma sulle pagine dei giornali nazionali se ne e’ parlato ben poco e radio e televisione lo hanno praticamente ignorato. A dispetto di questi ostacoli, si ha la sensazione che Berlusconi abbia esagerato e che i recenti scandali sessuali stiano erodendo la sua popolarita’. Basta guardare i sondaggi. Tradizionalmente le donne, unitamente alle classi a basso reddito, sono state grandi sostenitrici di Berlusconi forse perche’ guardano molto le sue emittenti televisive.
Sebbene all’epoca delle elezioni europee, Berlusconi potesse contare ancora su un considerevole sostegno, i recenti scandali hanno fatto scendere l’indice di approvazione di cui gode al di sotto del 50% con un crollo notevole tra le donne.
Il desiderio di far sentire la nostra voce e di mobilitarci che si va diffondendo tra noi e’ egregiamente sintetizzato in una lettera inviata di recente da una lettrice italiana all’Unita’: "sono pronta. Decidete il luogo, il giorno e l’ora. Sono pronta a scendere in piazza". Ma in realta’ cosa possono fare le donne italiane? Un passo importante consiste nel far conoscere il dissenso, un compito arduo se si tiene conto del fatto che la liberta’ di parola vale solo nel senso piu’ ampio del termine per pochi giornali indipendenti e, principalmente, per Internet. Dobbiamo cominciare a realizzare una documentazione sistematica dei casi di discriminazione contro le donne. Inoltre abbiamo bisogno di una migliore organizzazione. I movimenti gia’ esistenti che dovrebbero essere i primi a far sentire il dissenso (come la principale forza di opposizione, il Partito democratico che appare paralizzato dalle lotte interne) non sono apparsi sensibili ai molti segnali provenienti dalla base. Le donne dovranno esercitare una maggiore pressione sui partiti di opposizione affinche’ si facciano portavoce del loro dissenso.
Ma anzitutto le donne (e gli uomini) che protestano debbono far sentire la propria voce con maggiore fiducia. Il nostro Paese, a lungo caratterizzato da atteggiamenti anacronistici e superati nei confronti delle donne, e’ finalmente pronto a scendere in piazza. Chiara Volpato e’ docente di psicologia sociale all’Universita’ di Milano.
Chiara Volpato
(c) New York Times
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
* l’Unità, 27 agosto 2009
Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce *
Da «Indovina dove sono», la domanda di una ragazza che telefona contenta alla madre dal bagno attiguo alla camera da letto del presidente del Consiglio, è partita la catena: e voi dove siete? Dove sono gli italiani, dove sono le donne?, si chiedeva l’altro ieri Nadia Urbinati, docente di Teoria politica, mentre ci parlava di «democrazia docile e apatica». Le ha risposto Lidia Ravera: «La nostra rivoluzione è stata interrotta. Riportiamo i corpi in piazza, contiamoci per contare».
Di rivoluzione interrotta parla oggi Simona Argentieri, psicoanalista: «I diritti sono ereditati ma non ereditari». Arrivano in dote alle nuove generazioni ma facilmente si possono perdere. Nelle pagine di Forum Paola Concia, deputata, propone di ripartire «dalla forza di quel che si è conquistato in questi anni, come ci hanno mostrato gli operai dell’Innse». Centinaia di lettori e lettrici hanno scritto e partecipato ai blog dell’Unità. Vi proponiamo uno spaccato delle lettere.
Moltissimi di loro mettono in relazione la forza della classe operaia («gli eroi dell’Innse») e la debolezza di chi non riesce ad esprimere la propria rabbia, il proprio dissenso. Ribellarsi fa bene, abbiamo titolato in prima pagina pensando ad entrambi: a chi lo fa e a chi non osa.
Adesso. Perchè le cose cambiano, intanto. Presto sarà tardi. La «recrudescenza stagionale» di violenza e di delitti - donne uccise da uomini - è un segnale che viene dalla cronaca nera, un segnale che naturalmente non parla di follia (follia collettiva? epidemia di follia?) ma di disagio, di incultura, di regresso.
Le pubblicità elettorali che esibiscono tette e culi di titolari anche autorevoli (il seno della cancelliera tedesca, per esempio) sono un segnale che viene dalla politica, dal linguaggio che si usa per farla. L’icona di Berlusconi nell’Erotica Tour che fa impazzire le notti di Ostia (slogan: «Vi aspetto nel lettone di Putin») chiude il dibattito sulla distinzione tra pubblico e privato: quale distinzione? Siamo già allo slang. Il lettone di Putin è in piazza. Ora tocca a noi.
* l’Unità, 14 agosto 2009
«Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»
di Concita De Gregorio *
Tutto avviene nel silenzio. C’è un’idea diffusa di impotenza, di rassegnazione. Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. Tutto è ormai una faccenda privata: di scambi, di soldi, di favori. Dove sono i cittadini, in questo paese? Dove sono le donne? In tutto il mondo le donne sono in piazza. Alla sbarra a Teheran, massacrate in Iran, prigioniere in Birmania. Volti femminili che diventano icone della protesta. Qui, in questa nostra democrazia in declino, di donne si parla per dire delle escort, delle ragazzine che dal bagno attiguo alla camera da letto del tiranno telefonano a casa alla madre per raccontare, contente, “mamma sapessi dove sono” e rallegrarsi insieme. E fuori, e le altre? Silenzio. L’apatia ci accompagna...».
Il tempo del silenzio, ripete Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia university. «Avrei voluto far qualcosa, in questi mesi estivi che passo in Italia, ma mi si dice che si deve aspettare l’autunno. Non capisco come mai. Non vedo che altro ci sia da aspettare. Le vittorie di Berlusconi appaiono ormai la conseguenza e non la causa dell’indebolimento della presenza attiva dei cittadini nella vita pubblica. Non c’è nulla da fare, sento dire. C’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti». «Ci hanno ingannati, in questi anni, illudendoci che si potesse partecipare stando a casa: davanti allo schermo di una tv, in un blog al computer. Soli davanti al video. È nato un pubblico che si cela al pubblico. Impotente, rassegnato. Si è fatta strada un’idea maggioritarista: quella che dice che chi vince ha ragione per definizione, in quanto vincitore. Poiché vince non può aver torto. La verità sta con la maggioranza. È un’idea che non prevede il dissenso.
Il dissenso infastidisce, non se ne comprende il valore né l’utilità, non si tollera. La voce dell’opposizione è una voce che disturba. Berlusconi esprime un’idea egemonica che gli sopravviverà. L’opposizione d’altra parte non fa che riconoscere la forza dell’avversario (ho sentito giovani del Pd ammirare la Lega per il radicamento sul territorio ignorando i contenuti di quel radicamento). L’opposizione è assente. Manca un partito capace di parlare con voce forte e chiara. Negli ultimi tre mesi l’Unità e la Repubblica hanno avuto la capacità di far infuriare il tiranno, l’opposizione no. Persa nella sua battaglia interna, persa nell’incapacità di parlare con le parole della politica. Un vuoto che apre la strada ad un nuovo populismo giustizialista. Ho sentito Prodi dire: Berlusconi è il vuoto. Putroppo no, non è vuoto, è pieno di linguaggio e di azione. È l’opposizione a non avere linguaggio ed azione da opporre, manca un partito che incalzi. Quel che fa questo governo non è ridicolo, non è schifoso come ho sentito dire dai leader negli ultimi giorni. È tragico. Le gabbie salariali sono la rottura di un patto di solidarietà e giustizia tra i cittadini, un piede di porco capace di smembrare il paese. Le ronde sono un pericolo gravissimo, oltre ad essere un modo subdolo per distribuire finanziamenti pubblici. Sull’unità d’Italia? Nulla. Se non ci fosse l’Europa a contenerci saremmo sull’orlo della guerra civile».
«Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, conti in banca, soldi, scambi di favori. Berlusconi durerà. Tutto questo non finirà con lui. Questo governo non è Berlusconi, è la visione organica della società che lui rappresenta. Abbiamo imparato a giustificare sempre tutto. Ci sarebbe bisogno di avere una visione morale della politica, invece. Non c’è. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale: anche se non penalmente perseguibili certi atteggiamenti sono moralmente turpi. Bisogna dirlo, ripeterlo, cercare ascolto, pretendere risposta.
È stata una trasformazione molecolare. Dopo anni di partecipazione si è spenta nella mente del cittadini la dimensione pubblica. La democrazia si è fatta docile e apatica. Vista dall’estero l’Italia non ha più nulla da dire, resta solo un esempio interessante da studiare sul declino della democrazia. Penso alle donne, poi. Neda, San Suu Kyi, le donne nel mondo. In Italia a parte qualche importante figura femminile isolata, niente. Sulle prostitute e le minorenni di cui si circonda il Presidente le parlamentari del Pd si sono schierate dieci giorni fa. Forse si teme di essere indicati come bacchettoni, di trasformare la politica in morale. Fatto è che donne che appartengono al privato (Veronica e Barbara Berlusconi) hanno avuto un ruolo politico, quel ruolo che chi fa politica non trova. Le generazioni del femminismo si sono scollate. Le ragazze che vanno a palazzo Grazioli dal bagno del tiranno telefonano alla madre, contente. Le loro madri hanno la nostra età. Cosa è successo tra quelle madri e queste figlie, tra noi e loro? Le grandi personalità si sono ritirate a scrivere le memorie degli anni d’oro, quasi a rivendicare un’autorità su e insieme un’estraneità da questo tempo. Io l’avevo detto, io l’avevo scritto. Personalismi, una contro l’altra, non c’è più la capacità di mettere in comune le esperienze, tessere una trama, rinunciare a qualcosa di proprio per l’agire collettivo. Quello che dà fastidio, poi, è questo continuo lamento, solo lamento. Tutti che chiedono rivendicano protestano e si lagnano, tutti che pongono problemi e nessuno che offra soluzioni. Anche attorno a noi, nella vita, è così. Lamentarsi è facile e non costa nulla, invece proporre una soluzione significa assumere una responsabilità, pagare il prezzo di una decisione..
Lamentarsi, risentirsi, portare rancore: anche queste sono forme private di agire. La dimensione pubblica - quella di chi si attrezza ad unire le forze e costruire gli strumenti per cambiare le cose, insieme - è svanita. I giovani sono figli di questo tempo. Tutto per loro è privato, totalmente privato. Bisogna ripartire da capo. Dalle cose essenziali. Lanciare un appello, per esempio, alcune donne si preparano a farlo: lanciare appelli non è un modo vecchio di agire. È nuovo, oggi. È di nuovo nuovo. Non essere docili, ripartiamo da qui».
* l’ Unità, 12 agosto 2009
MARIA GRAZIA CAMPARI, FLORIANA LIPPARINI, LEA MELANDRI: MASCHILISMO DI STATO, MORTE DELLA DEMOCRAZIA. BERLUSCONI SI DIMETTA [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo e diffondiamo il seguente appello] *
Maschilismo di Stato, morte della democrazia: Berlusconi si dimetta
Con questo appello, intendiamo richiamare l’attenzione pubblica sulla spirale negativa innescata dai comportamenti del ceto politico al potere in Italia: dai gesti quotidiani di disvalore verso il genere femminile si sta arrivando ad un attacco di stampo maschilista contro la stessa integrita’ delle istituzioni democratiche.
In altre parole, si passa da una democrazia incompiuta alla cancellazione stessa della democrazia.
Il Presidente del Consiglio e’ stato colto, infatti, nell’atto di passare da un utilizzo mercificato di corpi femminili per propri svaghi privati, ma giocati in luoghi destinati a fini pubblici, alla attribuzione diretta di cariche pubbliche elargite come riconoscimento al fascino fisico delle candidate. Questo comportamento e’ stato, da ultimo, anche sostenuto da dichiarazioni pubbliche quali "Gli italiani mi vogliono cosi’... Sono sostenuto da un gradimento al 61%... Porto con me le veline (sulla scena del futuro G8) altrimenti ci prendono tutti per gay...", insomma, potendo, cosi’ fan tutti.
Riconoscere che l’ampio consenso di cui gode tuttora Berlusconi vada attribuito in gran parte al fatto di interpretare modi di pensare e di agire patriarcali, radicati nel senso comune di uomini - e purtroppo anche di donne - non deve diventare un alibi per lasciare in ombra il pericolo rappresentato dalla sua permanenza in una delle piu’ alte cariche dello Stato.
Quindi, vogliamo dire all’"utilizzatore finale" di prestazioni femminili che "grandi quantitativi" di italiane e italiani intendono contrastare questo degrado, al medesimo tempo personale e politico - due sfere implicate da sempre, al di la’ di ogni contrapposizione astratta e funzionale al protagonismo storico del sesso maschile.
E’ necessario fermare la pericolosa deriva autoritaria di una societa’ che si presenta incardinata sulla esclusione femminile e sulla disuguaglianza (di sesso, di razza, di condizione) e che sta compiendo il passo fatale: dalla riduzione al potere oligarchico maschile alla completa erosione degli assetti democratici, violando la pari dignita’ umana di donne e uomini, la libera espressione del pensiero, la libera informazione, la libera competizione nella rappresentanza.
Chiediamo a chi si riconosce in questo appello di dare avvio ad un movimento che, partendo dalla conoscenza dei fatti, elabori in forma partecipata azioni incisive tese ad ottenere, come atto primo indispensabile per il rispetto di elementari principi di democrazia e di civile convivenza fra i sessi, le dimissioni di Berlusconi e dei suoi fidi seguaci dalle cariche pubbliche.
Maria Grazia Campari
Floriana Lipparini
Lea Melandri
30 giugno 2009
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Per adesioni:
mariagrazia.campari@tiscali.it
universitadonne@tiscali.it
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 347 del 4 luglio 2009
L’Italia, il potere e il silenzio delle donne
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 30.06.2009)
Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c’è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell’harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c’erano eunuchi. È questo l’esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?
Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l’educazione, che la ragione dell’assoggettamento delle donne fosse da cercare nell’ignoranza e nell’esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un’occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».
La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l’inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l’esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l’arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.
Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un’altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l’abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l’interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".
Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull’altare della religione secolare e dall’altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l’informazione, facendola passare come un’intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l’uno e l’altro a seconda dell’interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l’arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.
In giuoco, è stata l’unanime e giusta diagnosi, c’è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L’Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch’a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell’altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l’aria.
Se le famiglie dicessero no
di Gabriele Romagnoli (la Repubblica, 30.5.09)
Il diavolo è sempre in cerca di anime da comprare, ma vendergli la propria resta una libera scelta. L’ultima, probabilmente. è quanto viene da pensare riconsiderando da una diversa angolazione l’ultimo "caso Berlusconi".
Se dal punto di vista politico quel che conta è l’incapacità di un presidente del consiglio di affrontare la verità dei fatti, che le sue contraddizioni hanno finito per rendere rilevante, dal punto di vista sociale a colpire è l’atteggiamento della famiglia Letizia, ragazza e genitori, la loro incapacità di dire, a suo tempo, un semplice (e ragionevole) no che avrebbe cambiato la storia. Quale storia? Quella di un piccolo nucleo umano alla periferia di Napoli, ma anche quella d’Italia. Perché è evidente che quel nucleo è lo specchio di un Paese. E’ la superficie sulla quale può vedere il proprio volto rivelato quella maggioranza consapevole di italiani che (a prescindere da come ha votato) si è consegnata non tanto a un uomo, a una guida, quanto a uno stile di vita, a un’ideale che preferisce la scorciatoia all’etica.
Prendiamo solo gli eventi acclarati ed esaminiamoli staccandoci dal particolare, senza relegarli ai nomi che ne nascondono la dimensione universale. In un luogo lontano dal cuore dell’impero e dalla luce dei riflettori (tendenti a coincidere) una coppia di genitori alleva una figlia sperando, come tutti tendono a fare, che la sua vita sia più fortunata della loro. La madre augurandole il successo nello spettacolo che lei non ha potuto avere. Il padre, l’accesso a quel potere di cui lui ha solo conosciuto l’anticamera. A un certo punto, per circostanze che qui non rilevano, book o cartolina, entra in contatto con la ragazza un uomo al di fuori della sua portata. Di cinquant’anni più grande, potente e, si aggiunga, sposato.
Saltiamo i preliminari e consideriamo una sola tra le cose accertate: quest’uomo invita la ragazza a passare un capodanno nella sua villa in Sardegna. Che sia ospite insieme ad altre dozzine di esemplari può essere considerata un’attenuante o un’aggravante, dipende dai punti di vista. Il fatto resta. E qui sorge la domanda sul rapporto con i figli, che non è quella mal mirata posta dal segretario del pd Dario Franceschini. La domanda è: se hai una figlia minorenne e un settantenne, maritato e potente l’invita a casa sua per le feste, come reagiresti?
Che cosa induce i genitori a guardarla fare la valigia e magari aiutarla a infilarci le calzette rosse? Non pensano a possibili rapporti piccanti, certo: pensano al bene di lei, alla carriera che potrà schiudersi, come è già per altre, nello spettacolo o nella politica. Questo sognano la ragazza, i suoi genitori, l’Italia in cui da almeno una generazione, viviamo.
Ora, è luogo comune a questo punto scagliare l’anatema contro il diavolo: è stato lui a venderci questi sogni, a far deviare dalla strada maestra asfaltando scorciatoie verso direzioni che sono altrettanti precipizi. Più che una spiegazione un alibi, una copertura per la mancanza di spina morale che nessun palinsesto avrebbe potuto piegare se fosse esistita.
E’ vero che le tentazioni sono tante e facili. Un qualunque pulcino ballerino può attraversare una passerella di presunti talenti , tuffarsi nell’altro canale e vincere, chessò, il Festival di Sanremo. Una qualsiasi faccia da citofono può piazzarsi in una casa, cicalecciare a comando e diventare una celebrità. Se, in un’altra epoca, Montanelli scriveva che l’ingresso al governo di Giovanni Goria ridava speranza a tutte le mamme con un figlio non troppo dotato, l’investitura delle Carfagna, Brambilla, Gelmini ha prodotto madri pronte a preparare alle figlie il trolley rosa per la Sardegna. Volere questo, volerlo in questo modo, non è un delitto. Proporre questo, proporlo in questo modo, non è un delitto. Il diavolo fa il suo mestiere. Quelli a cui telefona rispondono come possono. La vera domanda è una: perché non riescono a dire no?
Quando e come hanno perso gli anticorpi? Quando questo scambio è diventato la normalità del vivere qui e ora? Quando ne è valsa la pena? Quando? A quale risveglio e dopo quanto sonno? E non è questione che riguarda uno spicchio di società, individuabile politicamente o economicamente. E’ una situazione generalizzata, trasversale. Ognuno incontra il proprio diavolo, prima o poi. E può decidere come rispondere alla sua proposta. Può accettarne l’invito: in Sardegna, nel salottino televisivo che dà la popolarità, alla tavola dei signori che distribuiscono le cariche. O può proseguire nella sua, lunga, strada. Non è una decisione in cabina elettorale, è molto più di così. Riguarda la capacità di essere se stessi, lottare da soli contro i limiti imposti dal caso e dalle virtù, sconfiggerli o accettarli senza l’aiutino del presentatore o l’affettuosa benevolenza di chi dà e trucca le carte. Riguarda, soprattutto, la possibilità di costituire un esempio per le generazioni a seguire, affinché la prossima sappia da sé rispondere allo squillo del cellulare:
"Pronto, ciao: sono papi..."
"Lei ha sbagliato numero".
Nomi e potere, quando a decidere è il «genere»
di Luisa Muraro *
L’apatia politica, oggi purtroppo diffusa, non ha né sesso né età, ha detto giustamente Benedetta Barzini nel suo intervento al dibattito promosso da l’Unità. Se così è, non sembra giusto rivolgersi specialmente alle donne e prendersela con le femministe. Una ragione c’è, tuttavia: negli ultimi decenni le donne sono state protagoniste di cambiamenti positivi e le aspettative nei loro confronti sono ancora vive, come ha mostrato il recente messaggio di Veronesi sulla forza delle donne. Ciò di cui occorre tenere conto è che anche loro, le donne, anche noi, le femministe, avevamo delle aspettative e che molte di queste non hanno ancora trovato risposta. L’indignazione femminile non è un pulsante che si possa premere a piacere.
Farò un caso soltanto, minore solo in apparenza, quello del linguaggio della vita pubblica. Tra i paesi europei che conosco meglio, l’Italia è l’unico che non ha ancora imparato il corretto uso del femminile nel linguaggio pubblico. In Italia invece regna il disordine: maschili tenaci («il ministro» Carfagna), femminili strampalati («presidentessa»), nomi maschili con articoli femminili e predicati che vanno per conto loro, imbarazzo di chi si rivolge a una Letizia Moratti: «Signor sindaco» o «Signora sindaco»...
Ma non è solo la lingua che ne soffre. Se la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia e quella che serve la clientela, commessa, ma quella che governa una città o siede in parlamento prende un titolo di genere maschile, il messaggio che si riceve è trasparente. La questione è stata posta molto presto dalle femministe e ripresa dai linguisti più attenti, ma con risultati modesti. Sciatteria e disordine continuano a regnare nell’uso corrente, sui giornali e negli altri media, forse per inconsapevolezza della posta in gioco.
Attualmente ci troviamo a fare i conti con un altro effetto della tendenza a cancellare il femminile o a ridicolizzarlo quando si presenta fuori dalla sfera della vita familiare. È il contraccolpo che ne viene alle donne attive nella vita pubblica ed esposte per ciò stesso al clima di volgarità favorito da un capo del governo che promette cariche pubbliche in cambio di servizi sessuali. E rende così letteralmente vera la vecchia equazione maschilista tra donna pubblica e prostituta. Si capisce che queste donne siano indignate. Non si capisce però che se la prendano con altre donne (le ragazze che accettano inviti altolocati, le mamme delle ragazze, le femministe che non fanno manifestazioni). Qui, infatti, non c’entrano le aspettative, qui si tratta di risposte che bisogna incominciare a dare in prima persona alle persone giuste, che nel caso in questione non sono le donne.
Berlusconi non ha inventato niente, occorre dirlo? Nella bottega sempre aperta del potere dove tutto si compra e tutto si vende, lui si è distinto per certi comportamenti che sono un’esplicita caricatura di quello che lì avviene. Il contrasto fra un certo successo popolare che ha in Italia e lo scandalo che suscita all’estero, si riduce in fondo a una questione di distanze. Da distante si vede quello che esce dalle righe. Da vicino si vede anche la cerchia dei tanti che gli somigliano, sui quali lui riesce a spiccare per una schiettezza di uomo furbo, come quando ha replicato “non sono un santo”. Da vicino si vede anche che l’indignazione che suscita in Italia non è tutta di buona marca. Ci sono uomini, e sono tanti, che si sentono offesi nella loro dignità di facciata. Gli va bene che la bottega funzioni ma che sia con un certo decoro. In che cosa questo consista esattamente, non lo so, però ho notato un fatto degno di attenzione: le donne coinvolte nelle ultime vicende berlusconiane non hanno sacrificato niente sull’altare del decoro di facciata e invece hanno sacrificato qualcosa su quello del dire la verità.
* l’Unità, 31 agosto 2009
EVE ENSLER: LE DONNE E IL POTERE *
Abbiamo rivendicato come donne le nostre storie e le nostre voci, ma non abbiamo ancora decostruito gli stimoli culturali alla violenza, e le cause della violenza. Non abbiamo ancora rivelato quella cornice concettuale che in ogni singola cultura permette la violenza, si aspetta la violenza, istiga alla violenza. Non abbiamo smesso di insegnare ai ragazzi la negazione del loro essere tristi, dubbiosi, addolorati, vulnerabili, teneri e compassionevoli. Non abbiamo eletto, ne’ siamo state elette noi stesse, leader che rifiutino la violenza e che mettano la sua fine al centro di tutto.
Non abbiamo ancora fatto della violenza contro le donne qualcosa di anormale, non ordinario, non accettabile. Se vogliamo che la violenza contro le donne finisca tutta la storia deve cambiare. L’unico motivo per avere potere che trovo sensato e’ fare in modo che altre persone scoprano il proprio. L’unico motivo per essere in una posizione di leadership che trovo sensato e’ ispirare gli altri.
La relazione fra donne e potere non puo’ essere lo scalare ad ogni costo l’attuale gerarchia patriarcale e burocratica, perche’ la questione e’: come possono donne che sono state finanziate dalle medesime corporazioni economiche, sostenute dallo stesso sistema di esclusione e corruzione, essere poi differenti nelle loro decisioni? Io ho un’altra visione, in cui le donne che diventano leader, deputate, eccetera, sono quelle per cui l’empatia e’ primaria ed essenziale quanto l’intelligenza, quelle che dicono il nucleare ne’ oggi ne’ mai, quelle che si occupano di contrastare il razzismo, di fermare il surriscaldamento globale, quelle che ritengono prioritarie l’educazione sessuale, la salute riproduttiva, il sostegno al lavoro di cura. Io credo che le donne possano e debbano mostrare questo nuovo tipo di potere.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 802 del 26 aprile 2009
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Eve Ensler (su cui cfr. il sito www.vday.org]
1. Maria G. Di Rienzo: Tre pensierini della sera
2. Maria Grazia Campari: Diritto di famiglia: donne nelle spire dell’ordine patriarcale?
3. Lea Melandri: Se il patriarcato non depone la maschera della neutralita’
1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: TRE PENSIERINI DELLA SERA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento]
"Se e’ vero che gli uomini sono migliori delle donne giacche’ piu’ forti fisicamente, perche’ il nostro governo non e’ composto da lottatori di sumo?". Kishida Toshiko, femminista giapponese del XIX secolo. * "Poiche’ sono una donna, i miei sforzi per ottenere qualcosa devono essere eccezionali. Se fallisco, nessuno dira’: Clare non aveva le qualita’ per quel lavoro. Piuttosto si dira’: Visto? Le donne non possono farcela". Clare Boothe Luce, donna politica statunitense. * "Io non chiedo favori per il mio sesso. Tutto quello che chiedo ai nostri fratelli e’ che ci tolgano il piede dal collo". Sarah Moore Grimke’, scrittrice ed attivista antischiavista e suffragista americana del XIX secolo.
2. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: DIRITTO DI FAMIGLIA: DONNE NELLE SPIRE DELL’ORDINE PATRIARCALE? [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Giunge dall’associazione femminista afgana Rawa una riflessione sulla recente proposta di legge che autorizza gli abusi sessuali compiuti dal marito sulla moglie in nome di una pretesa tradizione del Codice di famiglia sciita.
La disposizione e’ considerata quale legittimazione di una pratica ampiamente diffusa che trova il suo antecedente logico nel Trattato di riconciliazione nazionale stipulato dal governo Karzai con esponenti talibani e fondamentalisti, avallato dalle potenze occupanti, Usa in testa.
La legge e’ attualmente sospesa, anche a causa delle reazioni internazionali, ma Rawa ritiene che verra’ ripresa dal Parlamento di prossima elezione, che, prevedibilmente, vedra’ un’ampia presenza di signori della guerra e di esponenti pro-talibani, essendo le potenze occupanti piu’ interessate ad assicurare a se’ il gas dell’Asia centrale che non ad assicurare la democrazia agli afgani.
Di qui la richiesta di mobilitazioni che contrastino i gruppi misogini e fondamentalisti. Una causa giusta, da sostenere nell’interesse di una democrazia partecipata e plurale, unica forma di democrazia effettiva, quella escludente, comunque camuffata, dovendosi, al contrario, ritenere espressione di un ordine oligarchico, spesso connotato da misoginia. Un ordine strutturato sulla diseguaglianza biologicamente motivata, coerente al sistema patriarcale, che ha gravato a lungo, sia pure con pesi differenziati, anche sulle donne italiane.
La Carta Costituzionale lo smentiva formalmente nei suoi principi fondamentali (art. 2 e art. 3) fin dal 1948, ma molta acqua doveva passare sotto i ponti. Le previsioni del Codice Civile Mussolini-Grandi del 1942 (art. 143 e seguenti) e quelle del Codice Penale Mussolini-Rocco del 1938 (art. 570 e seguenti) sancivano una struttura famigliare fortemente gerarchica, una moglie soggetta alle decisioni e ai voleri del marito (insignito di "potesta’ maritale"), sottoposta ai di lui "mezzi di correzione o di disciplina" morali e materiali, fino a lambire il limite estremo del maltrattamento. Gli abusi erano, poi, sanzionati assai lievemente: con pena fino a sei mesi e, in caso di lesioni, con pena ridotta di un terzo rispetto alla normale previsione edittale.
Un’ottica proprietaria e subalterna della donna che consentiva una serie di abusi, non ultimo quello di natura sessuale, presentato come "debito coniugale", nell’ambito di una concezione assai unilaterale della morale famigliare e del dovere di assistenza imposti per legge. Si e’ dovuta attendere la meta’ degli anni Settanta e la riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975 n. 151) per dare corso a principi costituzionali (art. 29 e 30 Cost.) di parita’ fra i coniugi e fra figli legittimi e illegittimi (nati fuori del matrimonio), per l’abolizione della patria potesta’, sostituita dalla potesta’ di entrambi i genitori.
Solo in epoca ancora piu’ recente, con la legge del febbraio 1996 (art. 609 bis e seguenti Cod. Pen.), il reato di stupro e’ stato rimosso dal titolo del Codice Penale dedicato ai "delitti contro la moralita’ pubblica e il buon costume", l’incesto non e’ piu’ crimine contro la "morale famigliare" ma entrambi crimini contro la persona, lesivi della libera disposizione di se’ e della autodeteminazione sessuale.
Una lenta e non uniforme evoluzione giurisprudenziale ha preso avvio dall’art. 2 della Costituzione repubblicana ed e’ giunta ad inquadrare la sessualita’ quale modo di espressione della personalita’, da tutelarsi come diritto inviolabile della persona.
Secondo le pronunce piu’ illuminate della Corte di Cassazione la lesione del diritto alla sessualita’ determina per la vittima un danno da ingiustizia le cui conseguenze pregiudizievoli devono essere accertate e quantificate in termini di risarcimento del danno materiale, morale e alla vita di relazione (esistenziale).
Inoltre, la giurisprudenza ormai prevalente considera che la violenza sessuale possa avvenire anche fra marito e moglie, non essendo coperta da quello che tradizionalmente si definiva come "debito coniugale". Non solo l’assenso al rapporto deve essere esplicito, non viziato o estorto con minacce, ma deve considerarsi sempre revocabile anche in relazione alla tipologia del rapporto stesso, per come viene determinandosi.
In caso di imposizioni, specialmente se ripetute, alla moglie e’ stato riconosciuto titolo a richiedere la separazione con addebito al marito e anche il danno esistenziale per gli effetti dannosi subiti nella propria vita quotidiana di persona offesa, sottoposta a patimenti fisici e psichici che hanno impedito lo svolgimento di una vita coniugale serena e informata al principio dell’amore e del rispetto reciproco. Puo’ esserci "un giudice a Berlino", ma va ricercato e sollecitato attentamente, senza timidezze, sostenute dal rispetto di se’.
3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: SE IL PATRIARCATO NON DEPONE LA MASCHERA DELLA NEUTRALITA’
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Accanto all’allarme per la crisi economica, la disoccupazione crescente, le manovre dei potenti della Terra per porre un argine alla rabbia dei ceti piu’ colpiti, nelle ultime settimane sono tornate ad occupare un posto non trascurabile questioni che vengono ancora genericamente riferite alla vita personale, alla sfera intima, alla coscienza del singolo, benche’ sempre piu’ intersecate con le istituzioni della "cosa pubblica".
Da un lato, e’ passata, come sempre, la cronaca pressoche’ quotidiana degli stupri e degli omicidi in famiglia, con l’unica variante del tipo di parentela che ogni volta lega la vittima all’aggressore. Dall’altro, si e’ venuto imponendo, per circostanze tra loro apparentemente lontane, un dibattito acceso su leggi e principi costituzionali, parlamenti e consulte, diritti, liberta’ delle persone e poteri dello Stato, laicita’ e imposizioni religiose, garanzie democratiche e consuetudini tribali.
La norma votata dal parlamento afgano, che legalizza, per la minoranza sciita, lo stupro in famiglia e la totale dipendenza della donna dall’uomo, la revisione, in Italia, da parte della Consulta, della legge 40 sulla fecondazione assistita, per quanto riguarda "l’impianto unico e contemporaneo" di "non piu’ di tre embrioni", il caso di Kante Katadiatou, la donna ivoriana ricoverata per parto all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli e inquisita per "identificazione urgente", in nome di una clausola del decreto sicurezza non ancora approvato - ma si potrebbe aggiungere anche la vicenda parlamentare del testamento biologico -, parlano sostanzialmente della violazione di alcuni diritti e liberta’ essenziali della persona, garantiti, nei Paesi che si considerano "civili" e "democratici", dalle rispettive Costituzioni, e negli altri casi da organismi e convenzioni internazionali.
Le reazioni che hanno provocato, i cambiamenti di rotta, le spaccature all’interno di gruppi politici che si pensavano ideologicamente compatti - i cento deputati del Pdl che si sono espressi contro l’emendamento della Lega, inteso ad abolire il divieto di segnalazione, da parte dei medici, degli immigrati senza permesso di soggiorno -, gli interventi di Fini contro lo "Stato etico", in difesa della laicita’, la decisione del presidente Karzai di congelare una legge fatta per negoziare il consenso della minoranza religiosa piu’ oltranzista, dicono che le vicende essenziali riguardanti la vita nella sua interezza - il rapporto tra i sessi, la nascita, la morte, la salute, ecc. -, tenute a lungo fuori dalla storia, dai linguaggi e dai poteri pubblici, hanno la forza "perturbante" di una "stirpe oppressa" dalla civilta’, che oggi chiede il conto.
Ma come definire il contesto economico, culturale e politico, nelle sue incomparabili differenze, che oggi, di fronte all’imprevisto, balbetta, si contraddice, attacca e si difende? Se Pierluigi Battista, sul "Corriere della sera" (2 aprile 2009), ha provato a riproporre con poco successo quello che e’ stato il cavallo di battaglia della destra piu’ vicina al Vaticano - lo "scontro tra Islam e Occidente" -, questo non vuol dire che le democrazie occidentali e le loro affiliazioni in terre lontane e inospitali non siano tutt’oggi convinte della loro superiorita’ e unicita’, incapaci di interrogarsi su quei residui arcaici, che le rendono cosi’ simili alla culture "tribali", su quelle inclinazioni fondamentaliste che ancora confondono religione e politica, legge divina e liberta’ della persona.
Se la contrapposizione tra mondo civile e barbarie appare cosi’ netta, se qualcuno, nonostante i casi di violenza quotidiana che lo smentiscono, puo’ ancora parlare di "donne liberate" dell’Occidente, se ci si puo’ illudere che basti schierarsi "in difesa delle donne", rendere giustizia alle "vittime" identificando di volta in volta l’oppressore con qualcuno che e’ "altro da se’" - lo straniero, lo psicopatico, il politico in cerca di consenso facile, ecc. -, e’ perche’ una barriera, forte del senso comune e di un pregiudizio millenario, ancora avvolge le molteplici, multiformi "culture" create dal dominio maschile, in una maschera impenetrabile di neutralita’.
Ma se proviamo a scostare il velo, il paesaggio cambia, il confine tra le citta’ dell’Occidente e i villaggi afgani si fa mobile e impercettibile, i dogmi delle gerarchie vaticane somigliano stranamente ai codici tradizionali della Sharia, la deriva verso lo "Stato etico", il fondamentalismo religioso, criticato e combattuto dall’Occidente in altri Paesi, appare per quello che e’, la prima e l’ultima sponda del patriarcato, il tentativo, di fronte all’irruzione di una "preistoria" - il corpo, la vita personale, il rapporto tra i sessi - mai del tutto addomesticata, di riprendersi un potere antico: il sequestro dei corpi, l’appropriazione della vita dei singoli, la cancellazione di quella conquista inalienabile dell’incivilimento che e’ l’autodeterminazione, il diritto di ogni persona "a prendere in liberta’ le decisioni piu’ intime" (Stefano Rodota’).
Non e’ un caso che, nel dibattito che si e’ acceso intorno a questi temi, si parli ancora esclusivamente di "bioetica", come se la vita che e’ stata ridotta a corpo biologico, la persona, a cui si vorrebbero togliere liberta’ e diritti, non fosse stata, prioritariamente, quella della donna; non e’ un caso che tutte le vicende di cui si e’ parlato sopra abbiano come protagonista il sesso femminile - sia come "oggetto" di violenza che di tutela -, e mai, come ci si dovrebbe aspettare, la consapevolezza e la cultura femminista che, da oltre un secolo, ha cominciato a scuotere i privilegi e le certezze della comunita’ storica degli uomini.
La legge afgana, che sulla sponda "civile" del mondo ha suscitato tanto sdegno, se si riuscisse a guardarla per la verita’ "domestica", violenta, quotidiana, e pressoche’ senza tempo e patria, che porta allo scoperto - la cancellazione della sessualita’ femminile, la donna espropriata di volonta’ ed esistenza propria, sottoposta a un potere di vita e di morte, esclusa dallo studio e da responsabilita’ pubbliche -, potrebbe finalmente far riflettere sull’unico dominio, quello di un sesso sull’altro, che sfugge alle analisi, e quindi ai cambiamenti, che qualcuno ipocritamente vorrebbe circoscrivere a intoccabili "differenze culturali", altri al terreno non meno rispettabile e riservato della sfera intima.
Al sessismo esplicito, impugnato dai mullah come legge naturale, fa riscontro, per la parentela evidente, l’insignificanza - intellettuale, politica, professionale - in cui sono tenute le donne "emancipate" dell’Occidente, casalinghe, madri, mogli sempre e comunque, o, nel migliore dei casi, "conduttrici" di un discorso unico e privilegiato tra uomini, che occupa ininterrotto da secoli la scena pubblica.
*
Fonte: NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 245 del 16 aprile 2009
Le donne cancellate
di TAHAR BEN JELLOUN *
Ah, se si potessero soddisfare i complessi e perversi desideri dei fanatici del mondo! Questi vogliono prendere le donne contro la loro volontà.
Quelli vietano contraccezione e preservativi. Tutti sono ossessionati dalla femminilità.
Se nel mondo le donne lottano per la loro dignità e per migliorare le loro condizioni di vita, ci sono Stati come l’Afghanistan che vanno in soccorso degli uomini proponendo una legge che obblighi la donna a soddisfare il desiderio del marito anche se è un eiaculatore precoce o ha l’alito cattivo o più semplicemente se non stimola in alcun modo la sua libido. Contro il rifiuto, la violenza.
I fondamentalisti hanno un vero problema con la donna e la sua sessualità. Vale per l’ebraismo, per il cristianesimo come per l’islam: l’integralismo trema davanti al corpo femminile, ha paura del suo sesso e reagisce con la violenza alla frustrazione o al turbamento. Tutto ruota lì attorno. Non si capisce nulla delle motivazioni degli integralisti se non si considera questa dimensione essenziale della loro psicologia e della loro esistenza.
Ciò si traduce nell’imposizione del velo, del burqa o della djellabah. La donna deve essere celata, invisibile, deve essere allontanata dagli sguardi e dalla vita. L’uomo dice: «Non toccare mia moglie, mia figlia, mia sorella, mia madre». Ovvero, detto altrimenti «Questi corpi mi appartengono e nessuno ha il diritto di avvicinarsi!». Bisogna veramente avere un cattivo rapporto con se stessi per appropriarsi il corpo degli altri. E per giustificare questa mentalità si ricorre alla religione che di per sé non dà affatto un simile diritto. Anche se tutte le religioni in genere non sono molto giuste nei confronti delle donne.
I taleban, ad esempio, immaginano un mondo dove la donna è assente. Esiste, ma è segregata in casa e non ha il diritto di uscirne. Questo non vuol dire che disprezzino il piacere sessuale, anzi, lo amano a tal punto da voler essere certi di essere i soli a gioirne. È il senso del progetto di legge presentato dal presidente Hamid Karzai. Un progetto che voleva rendere legale lo stupro compiuto sulla propria moglie e vietarle di uscire di casa senza l’autorizzazione del marito. Questo provvedimento avrebbe riguardato le donne sciite, che rappresentano il 10% della popolazione. Karzai contava su questo disegno di legge per attirarsi le simpatie e i voti degli sciiti alle prossime elezioni. Dopo le proteste di molti Stati, Karzai ha finito col ritirare il progetto, ma gli uomini continueranno a comportarsi da bruti con le donne, con o senza legge.
In ogni caso, questa ipotesi legislativa, degna dell’epoca della jahilya (il periodo preislamico quando alcuni beduini seppellivano vive le loro figlie per evitare che il loro onore un giorno potesse essere macchiato) è stupida e grottesca. Che va a fare la legge nella camera da letto di una coppia? Cosa può aggiungere all’intimità tra un uomo e una donna? Che piacere ne ricaverà l’uomo che si sentirà forte grazie a questa legge?
Un piacere dettato dalla norma e una violenza legittimata da un diritto che ha un senso dell’equità e della realtà ben singolare. In Afghanistan ci sono donne che si battono, che si organizzano e sono aiutate dalle femministe di diversi Paesi. Ma che un uomo come Hamid Karzai abbia potuto mettere la propria firma su questo progetto di legge la dice lunga sulla fame di potere, sull’ambizione divorante che lo possiede. Con che faccia può presentarsi agli occidentali che frequenta avendo aperto la porta allo stupro legale nel matrimonio? Vorrebbe forse che i taleban lo considerassero vicino a loro? Ma i taleban vogliono di più. Non si accontentano di una legge sulla pratica sessuale. Vorrebbero spadroneggiare su tutta la società e introdurvi una barbarie che va al di là dell’immaginabile. Dunque Karzai ha fatto un passo falso e ha sbagliato i suoi calcoli. E quindi ha fatto marcia indietro. Per ora, almeno.
Una donna che prova piacere è una «porca», è pari a una prostituta (tranne il fatto che le poverette che fanno sesso per mestiere non ne godono affatto, è un lavoro, una fatica necessaria per guadagnarsi da vivere). Sarebbe interessante far leggere agli uomini che parlano di questo godimento qualcuna tra le testimonianze di queste donne che raccontano la loro vita sessuale. Ma non arriveremo a tanto.
L’importante è far sentire la propria voce contro questa iniziativa afghana che non farebbe altro se non aggravare la situazione nel Paese e potrebbe favorire il ritorno sulla scena politica dei taleban. Perché quel che è in gioco in questa regione martoriata da troppe guerre è una scelta di società e anche di epoca.
Sfortunatamente io sono pessimista: gli eserciti occidentali non riusciranno a eliminare il pericolo talebano. Il terreno è difficile, i metodi asimmetrici e la popolazione divisa. Solo gli afghani medesimi potranno farla finita con i taleban. Ma fino a che questa guerra è legata al traffico di oppio, fino a che il guadagno facile è a portata di mano, la lotta sarà dura e impari.
Nel film dell’afghano Siddiq Barmak Opium War (2008) si vede una lunga fila di donne coperte dal burqa avanzare all’orizzonte dirette verso un campo di papaveri da oppio. Quando arrivano al campo sollevano il velo e si scopre che sono taleban armati venuti a prendere la loro parte sull’incasso della vendita di droga. I contadini pagano per non essere uccisi. Questa immagine riassume la situazione: la guerra in Afghanistan ruota attorno all’oppio e alle donne. Bisogna controllarli entrambi, pena la fine di una tragedia innescata dalla barbarie nel nome di un islam totalmente estraneo a queste pratiche.
© Le Monde
* La Stampa, 10.04.2009
OGGI
di Maria G. Di Rienzo *
Titolo a caratteri cubitali: "Violentata ragazza di quindici anni, tunisino arrestato a Bologna". Sotto, in piccoli e discreti caratteri: "Abusava della figlia quattordicenne, arrestato nel barese". Il quotidiano e’ ovviamente lo stesso, il giorno e’ oggi, 14 febbraio 2009.
Qualcuno pensa in buona fede che il cosiddetto "pacchetto sicurezza", non appena divenuto legge, potra’ essere utile alle prossime ragazze che in strada aspettano tranquillamente gli amici (Bologna) o che vengono picchiate, umiliate, stuprate per un anno intero dal loro papa’ (Bari)?
Supponiamo che, nel primo caso, lo straniero non fosse in regola con le norme di soggiorno e che avesse contratto una malattia infettiva: non e’ andato a farsi curare per timore di essere denunciato, cosi’ ha contagiato la ragazzina. Supponiamo che nel secondo caso ci fossero le ronde in citta’: passando sotto casa della quattordicenne hanno trovato tutto in ordine, l’inferno era dentro e non potevano vederlo. Supponiamo che entrambi gli stupratori avessero una residenza regolare: con gli elenchi dei "senza fissa dimora" le due fanciulle possono farci gli aeroplanini, sempre che un giorno ritrovino la voglia di ridere e giocare. Nessuno si permetta piu’ di dirmi che lo fanno per le donne, oltre che sarcastica potrei diventare furibonda.
E nessuno si permetta piu’ di teorizzarmi gerarchie nei diritti umani, perche’ furibonda lo sono gia’. Se qualcuno puo’ schiavizzare, picchiare, denigrare, stuprare e finanche uccidere qualcun altro perche’ "e’ la sua cultura", smettete di protestare per i massacri in Palestina (e’ la cultura del governo israeliano, un po’ di rispetto, per favore), per le guerre a stelle a strisce (e’ la cultura dei neoconservatori, va considerata) e per il negazionismo dell’Olocausto (cultura e come: ci sono fior di professoroni a farla).
Il concetto di diritti umani e’ riconoscibile in ogni cultura che la nostra specie ha prodotto. E’ stato riarticolato e riformulato attraverso i secoli e si evolve continuamente per contrastare gli attacchi all’umana dignita’ quali che essi siano e da qualunque parte provengano. Fu il concetto di "diritti umani", espresso nei termini dell’autodeterminazione, a formare la base delle lotte per l’indipendenza dalle dominazioni coloniali. Fu il concetto di "diritti umani" a sfidare l’apartheid e la discriminazione razziale. Fu il concetto di "diritti umani" a tagliare la cortina che separava pubblico e privato nelle vite delle donne, e a far riconoscere che tali diritti venivano violati in ambo le sfere.
L’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani attesta che "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignita’ e diritti". I principi dell’universalita’, inalienabilita’, interdipendenza ed indivisibilita’ dei diritti umani sono affermati in decine di trattati internazionali ed europei che il nostro Paese ha firmato. I trattati riportano anche con molta chiarezza il dovere degli Stati firmatari di assicurare non solo il rispetto dei diritti umani, ma anche la loro protezione e promozione.
Se il "pacchetto sicurezza" diventa legge italiana, cosi’ com’e’, non solo va nella direzione diametralmente opposta, ma apre le porte alla distruzione della Carta costituzionale, ed alla formazione di uno "stato in perenne emergenza" che in nome dell’emergenza stessa non sara’ soggetto a nessun controllo e potra’ permettersi ogni tipo di violenza.
C’e’ chi crede che la faccenda vada ad interessare solo migranti, rom, sinti e vagabondi, e poiche’ pensa che queste siano gia’ categorie subumane non e’ molto preoccupato. Si preoccupera’ domani, quando gli revocheranno il diritto di sciopero (un Paese in emergenza non puo’ permettersi turbolenze) e non sara’ in grado di negoziare il proprio contratto di lavoro. Si preoccupera’ dopodomani, quando lo porteranno via da casa per interrogarlo e non avra’ garanzie costituzionali rispetto alla detenzione e al processo (un Paese in emergenza puo’ ricorrere alla tortura per avere informazioni).
Senza offesa, e senza nessuna pretesa di spostarvi dalla mia parte: potreste preoccuparvi oggi?
* Fonte: LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA Numero 203 del 15 febbraio 2009 Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
INIZIATIVE
IL 22 NOVEMBRE A ROMA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
di ELENA BIAGINI *
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 23 ottobre 2008 col titolo "Manifestazione contro la violenza sulle donne a Roma il 22 novembre 2008"]
Il 24 novembre del 2007 la grandissima manifestazione femminista e lesbica contro la violenza maschile sulle donne ha sconvolto l’asfissia della politica italiana, anche di movimento, con forza, radicalita’ ed autonomia. 150.000 donne in corteo a Roma con parole d’ordine chiare e assolutamente fuori dal coro: la violenza sulle donne ha un sesso non una nazionalita’, sono i maschi a commetterla e, per questo, qualunque politica xenofoba e securitaria non puo’ usare a pretesto questo tema; al contrario, la violenza contro le donne e’ commessa principalmente in famiglia. Per qualche giorno lo scorso anno i media sono stati costretti a rendere pubblici i dati su femminicidi e violenze di ogni genere, i dati sconvolgenti di una guerra in atto in tutto il mondo contro le donne, una guerra che inchioda come responsabile il sesso maschile e mostra che, nella maggior parte dei casi, sono proprio i maschi all’interno della famiglia, di qualunque grado di parentela, a uccidere, brutalizzare, stuprare le donne.
Il "sommovimento" del 24 novembre scorso non si e’ spento e per tutto l’anno ha portato le femministe e le lesbiche piu’ volte in piazza, in presidi e cortei spontanei lo scorso 14 febbraio quando la polizia irruppe nelle corsie del Policlinico di Napoli a violare la degenza di una donna che aveva interrotto la propria gravidanza, in un 8 marzo organizzato in tantissime citta’ diverse con lo slogan "Tra la festa il rito e il silenzio scegliamo la lotta" e poi in presidi davanti a tribunali dove si celebravano processi per stupro e femminicidio, in cortei volti a rompere l’omerta’ degli stupratori, in iniziative antirazziste. Quel sommovimento dello scorso anno e’ divenuto una rete che ha trovato tempo, modalita’ e desiderio di approfondimento e confronto attraverso due edizioni di "Flat - Femministe e lesbiche ai tavoli", lavori tematici di centinaia di femministe e lesbiche che hanno prodotto saperi, pratiche, percorsi su violenza maschile, sessismo, autodeterminazione, fascismo, razzismo, lavoro e precarieta’, comunicazione.
Anche quest’anno le femministe e lesbiche "sommosse", in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, lanciano un appello a tutte le donne per tornare in piazza: sabato scorso, in un’affollata assemblea che si e’ tenuta presso la Casa Internazionale delle Donne, e’ stato infatti deciso di organizzare un corteo che sabato 22 novembre, come lo scorso anno, partira’ da piazza Esedra per raggiungere piazza Navona.
E come lo scorso anno la manifestazione sara’ autonoma e autorganizzata: non saranno partiti o sindacati a costruirla ma collettivi, gruppi, associazioni, assemblee di femministe e lesbiche sparsi sul territorio nazionale. Gia’ all’assemblea nazionale di sabato, oltre alle romane, hanno partecipato donne da molte citta’ fra cui Bologna, Milano, Palermo, Bari, Trieste, Firenze, Perugia, Napoli, femministe e lesbiche di tutte le generazioni.
E se anche quest’anno la manifestazione - antisessista, antirazzista e antifascista - avra’ come motore la denuncia della violenza maschile su donne e lesbiche, togliendo il velo ideologico che spesso copre la famiglia come teatro di violenza, e la rivendicazione di autodeterminazione per tutte, molti sono i temi che l’attualita’ politica ha imposto: anzitutto la violenza istituzionale attuata attraverso il ddl Carfagna che criminalizza le prostitute e con loro tutte le donne (sabato infatti era presente anche il Comitato per i diritti civili delle prostitute), ma anche attraverso lo smantellamento dello stato sociale, la precarizzazione e i decreti Brunetta e Gelmini che colpiscono scuola e universita’ e quindi migliaia e migliaia di donne non solo lavoratrici e studenti.
Poi, accanto alla violenza contro donne e lesbiche, e’ stata sottolineata la violenza transfobica che ha prodotto momenti efferati, tra cui in piu’ interventi e’ stata ricordata la caccia alle trans al Prenestino, quartiere della periferia romana.
Ma anche l’opposizione alla guerra, come massima espressione di violenza maschile subita prioritariamente dalle donne, e al militarismo, saranno portate in corteo in un momento politico in cui sembrano ormai fenomeni endemici.
Le parole chiave intorno a cui si e’ dipanato il ragionamento dell’assemblea femminista e lesbica sono "condotta", "decoro" e "controllo", i pilastri di un regime autoritario ormai imposto nel paese che trova in una violenta riaffermazione machista e patriarcale la sua piu’ forte definizione. Il decoro che, sbandierato dalle amministrazioni locali e dai decreti governativi, vuole imporsi come norma e controllo delle donne, delle lesbiche, di tutte le soggettivita’ eccentriche, deve essere smascherato come grimaldello per imporre limiti all’autodeterminazione delle donne, delle lesbiche, di tutte e di tutti. Il corteo sara’ anche quest’anno una manifestazione di donne per le donne, definizione molto discussa in assemblea per il rischio che possa essere letta come essenzialista, ma che in realta’ vuole ribadire l’autonomia di femministe e lesbiche, le protagoniste di questa lotta, mentre altre soggettivita’ che vorranno partecipare troveranno la loro collocazione nella parte finale del corteo.
Per approfondimenti e aggiornamenti: flat.noblogs.org
Tratto da
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de
La nonviolenza è in cammino
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/
Numero 220 del 20 novembre 2008
Domande ai maschi
di Clara Sereni (l’Unità, 13.09.2008)
In prima battuta mi sono chiesta: ma la voce delle donne, che fine ha fatto? Possibile che le donne non abbiano niente di nuovo da dire sulla prostituzione, sull’uso sempre più spregiudicato, proprietario e violento dei corpi, sull’idea di rinchiuderli dentro case che saranno prigioni e lager? Siccome non sono i nostri, e visto che a parlare sembra restino soltanto le brave mogli e brave madri e buone figlie, quelle che hanno vergogna di vedere e preferiscono non sapere, sui corpi venduti e comprati non abbiamo più parole? Siamo talmente affaticate dal vivere che ogni repressione ed emarginazione ci passa sopra senza commenti che non siano di bandiera? Siamo così impaurite dal nostro retrocedere?
Così intimorite che - a parte le donne presenti nelle unità di strada finché non le sopprimono - non ci poniamo più il problema di come relazionarci con chi vive condizioni di massima emarginazione, quando non di vera e propria schiavitù? Non ho trovato la risposta, ma un’altra domanda mi si è affacciata subito dopo: ma gli uomini, hanno qualcosa da dire? Si pongono il problema di dire qualcosa?
Negli ambienti che frequento vige ancora - fortunatamente - qualche tabù: dire che le donne sono tutte puttane non sta bene, e anche l’inevitabilità del mestiere più antico del mondo non trova buona stampa. Qualcuno certamente pensa ambedue le cose, ma si perita di dirlo e questo lo considero, alla fin fine, un bene. E però...
Fra le persone che conosco, mai ne fosse capitato uno che ammetta di dirsi cliente. Al più ho sentito dire, da qualcuno abbastanza attempato e in imbarazzo, che bisogna pur provvedere alle pulsioni sessuali degli immigrati senza relazioni e senza amori: e senza soldi, aggiungo io, in mancanza dei quali incrementare l’afflusso dei clienti è piuttosto improbabile. Da quel punto di vista, la prostituzione sarebbe tutto un fatto di emarginazione, da una parte e dall’altra, e chiusa lì. Da un giovane, invece, ho sentito raccontare della rinnovata frequenza e passione per i “puttan tour”, quei giocosi assembramenti maschili, generalmente automuniti, in cui si va a sparare con le pistole ad acqua o se ne tira a secchiate, preferibilmente d’inverno, alle prostitute che così si congelano meglio. A me, attonita, che chiedevo un perché, una ragione, è stato risposto: «È divertente...», e il discorso si è incagliato, senza possibilità di riprenderlo in modo minimamente problematico.
Giovani e meno giovani, mai un discorso che valga la pena ascoltare su come gli uomini vivono la propria sessualità. Su come si relazionano, oggi, con le donne, che siano le loro compagne o altre. E invece vorrei sentir confessare e discutere, per esempio, questo bisogno maschile inesausto, anzi evidentemente in crescita, di comperare corpi - giovani più che si può, femminili in prevalenza ma poi anche maschili e transgender. Ci hanno detto che dipende dal ruolo maschile ormai pencolante, che li porta anche a picchiarle e ucciderle, le donne. E questa spiegazione sembra aver chiuso ogni altro discorso, ogni ulteriore problematizzazione. E così, se la prostituzione innegabilmente aumenta, la reazione è come per la grandine: succede, la manda il cielo, ci sono le mutazioni climatiche, che c’entro io?
L’ho già scritto, sono stufa di partecipare a manifestazioni a sostegno delle donne brutalizzate, vendute e comprate, ammazzate. I maschi devono trovare il coraggio di mettersi in gioco, di parlare. Non solo per dire: non nel mio giardino, non davanti a me, non davanti ai miei figli povere creature innocenti. I maschi devono interrogarsi a fondo sulla dicotomia donna(puttana)-madonna che sembra essersi di nuovo impadronita del sentire comune, e che dilaga nei nostri figli. I maschi devono dire “io”, e da lì partire per ragionare, per capire, e solo dopo, molto dopo, per decidere ed eventualmente legiferare. I maschi devono almeno cominciare a rendere conto alle donne di quel che pensano, di quel che fanno. Di come crescono e di come regrediscono.
Una domanda, ancora. L’educazione sessuale nelle scuole è cosa che neanche si nomina più. Il Presidente Napolitano ha apprezzato i nuovi programmi di educazione alla Costituzione. Chiedo: ma quale educazione alla Costituzione si potrà mai impartire, se mancano i minimi presupposti di vita civile, quelli che segnano i rapporti fra i generi? Il nuovo fascismo non è solo nelle affermazioni storicamente assai disinvolte di sindaci e ministri della Repubblica, o nelle singole aggressioni a migranti e diversi. Il fascismo è anche qui, nei nostri “maschi alfa” che da sempre e di nuovo si sentono liberi da ogni vincolo di coscienza e rispetto, anche nei confronti di se stessi.
Abbiamo un gran bisogno di antifascismo in piazza, e bene ha fatto ad esempio la Cgil ad impegnarsi in tal senso, ma bisognerebbe cominciare a chiarire cosa significhi anti-fascismo fra le lenzuola, domestiche e non. Non certo dalla ministra all’Istruzione, che mi appare in tutt’altre faccende repressive affaccendata, ma da qualcuno (maschio) vorrei proprio cominciare ad avere qualche risposta.
Stupri arma di guerra. Storie dall’album dell’orrore
di Marina Mastroluca (l’Unità, 22.06.2008)
«Mi costrinsero a ballare nuda sul tavolo. Poi mi violentarono davanti a mio figlio che aveva 10 anni. Venivano militari serbi , i soldati del Montenegro e anche i miei vicini di casa. Abusavano di me e delle altre». E. è una delle «Zene zrtve rata», donne vittime della guerra, un’associazione nata a Sarajevo per aiutare chi ha subito uno stupro: a trovare una casa, ad avere assistenza e soprattutto giustizia. «Dopo la guerra abbiamo incontrato per strada i nostri violentatori, sono ancora liberi». Liberi anche dalla vergogna e dal disonore che pesano sulle donne stuprate, a Sarajevo come in Africa.
A Goma, in Congo, una dottoressa canadese nel 2003 ha fondato un’ospedale che aiuta le donne stuprate. I numeri sono solo ipotizzabili, non c’è nessun registro. Tante donne hanno paura anche solo di raccontare che cosa hanno subito, per non rischiare l’emarginazione sociale. Decine di migliaia di stupri, sistematici, segnati dal marchio della diversità etnica. In ospedale arrivano solo i casi più gravi: i medici ricuciono i muscoli strappati tra retto e vagina da stupri multipli, da torture inflitte con baionette e coltelli. Anche da colpi di pistola inferti con la canna infilata in vagina. Linda, 24 anni, era incinta quando i soldati l’hanno presa in un campo. «Mi hanno stuprato. Il bambino ha cercato di nascere ma è morto - ha raccontato -. Perdevo urina da tutte le parti e in queste condizioni ho raggiunto il villaggio. Tutte le case erano bruciate, la gente uccisa, anche mia madre. Mi ha raccolto una cognata. Mio marito si è sposato con un’altra. Ora sono sola».
La vergogna, la solitudine. Persino la condanna: in Sudan le donne rischiano di essere incriminate di «zina», adulterio, se denunciano uno stupro: la pena è la lapidazione. E le violenze dei janjaweed, i diavoli a cavallo che seminano il terrore nel Darfur in stretta collaborazione con le truppe governative sudanesi, sono pane quotidiano. Qui sono le milizie arabe, altrove hanno avuto altri nomi e stesse strategie. In Ruanda erano gli interahmwe, i ribelli hutu ispirati dalla radio delle mille colline ad annientare l’etnia tutsi. Non una casualità, non l’effetto collaterale di un delirio di violenza. Lo stupro di guerra da tempo è altro. Jean-Paul Akayesu era il sindaco della città ruandese di Taba. È stato il primo ad essere condannato all’ergastolo, nel 1998, per il massacro di 2000 tutsi rifugiati nel municipio di Taba e per stupro. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda allora per la prima volta individuò la catena di comando che da un unico centro diramava la violenza in mille rivoli: lo stupro collettivo venne associato al genocidio, perché diretto a cancellare una etnia. Ad umiliare, distruggere, devastare una comunità intera attraverso il corpo delle donne. Cinquecentomila stupri in poco più di tre mesi di follia sanguinaria, hutu contro tutsi, un milione di morti a testimoniare l’inerte impotenza dell’Onu. E un Tribunale per cercare di ricondurre la tragedia ad un universo comprensibile, dove si chiede ragione delle atrocità commesse. Almeno a qualcuno.
22 febbraio 2001. La guerra di Bosnia è finita da sei anni, la Serbia di Milosevic è stata sconfitta anche in Kosovo. Nascoste dietro una tenda, donne identificate solo con numeri, raccontano e puntano l’indice contro gli uomini alla sbarra. Donne ridotte a schiave sessuali, spesso solo ragazzine. Per la prima volta lo stupro è definito crimine contro l’umanità da un Tribunale internazionale. I serbo-bosniaci Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono condannati a 12, 20 e 28 anni di carcere per le violenze sistematiche di Foca, dove il centro sportivo Partizan era stato trasformato in un bordello. Zoran, Radomir, Dragoljub: non era scontato riuscire a scrivere un giorno i loro nomi.
Stupro etnico, un’arma di guerra come tardivamente ha riconosciuto in questi giorni il Consiglio di sicurezza del’Onu, con la risoluzione 1820. Ammettendo quello che le cronache dell’ultimo quindicennio di guerre - Bosnia, Ruanda, Congo, Darfur - hanno raccontato allo sfinimento: che lo stupro di guerra non rientra in nessuna storica normalità, non è solo la prepotenza del vincitore. Ma l’arma di conflitti dove i civili sono il primo e vero obiettivo, la mina che continuerà a perseguitare le generazioni a venire. Il 70 per cento delle donne stuprate in Ruanda ha contratto l’Aids, in molti casi il contagio è stato intenzionale ed ha finito per devastare anche le famiglie dei sopravvissuti. Nessun anagrafe ha tenuto il conto dei figli imposti a forza alle donne bosniache stuprate. Chi ha potuto, ha abortito. Tante hanno abbandonato i neonati, testimoni incolpevoli della violenza subita dalle madri: ordigni anche loro di guerre che non hanno più una linea del fronte.
Bosnia. La pulizia etnica attraverso il terrore
La disgregazione della Jugoslavia investe la Bosnia nel ‘92. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale tornano in Europa i lager, dove vengono commesse le peggiori atrocità contro i civili. La logica della pulizia etnica impone il terrore, per costringere la popolazione alla fuga creando così aree etnicamente omogenee. Insieme ai massacri - 8000 i morti di Srebrenica, dove vennero uccisi tutti i maschi dai 15 anni in su - lo stupro è stato l’arma per umiliare il nemico e annacquarne l’etnia. Si stimano in 50-60.000 le violenze.
Rwanda. Hutu contro tutsi, un genocidio in 100 giorni
Aprile 1994. Preparato dai mezzi di informazione, divampa uno spaventoso massacro, in quella che viene in genere definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi ed è stata in realtà una lotta per il potere frutto dell’era coloniale, quando i colonizzatori belgi instaurarono un rigido sistema di separazione razziale e sfruttamento favorendo i Tutsi ai danni della maggioranza Hutu. Con l’indipendenza le parti si invertirono e iniziò un periodo di conflitti e di vendette. Il culmine nel ‘94: un milione di morti, 500.000 stupri.
Congo. Milioni di morti nella guerra dei diamanti
Finita ufficialmente nel 2004, la guerra civile in Congo, è stata la più grande guerra della storia recente dell’Africa ed ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati. In gioco le enormi ricchezze minerarie del Paese: diamanti, oro, uranio, cobalto, rame. Al 2008 la guerra - proseguita nella regione di Ituri - e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti. Milioni i profughi. Secondo Amnesty international sono oltre 40mila le donne violentate. Degli stupri spesso accusati anche i peacekeeper.
Darfur. Esercito e janjaweed contro i civili
Nella regione del Sudan dal 2003 si combatte una guerra, che ha già causato più di 200.000 vittime e oltre due milioni di sfollati. L’Onu e le organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato che i civili continuano a subire attacchi e sono vittime di stupri. Il governo sudanese nega di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati e dello stupro sistematico di donne e bambine.
"Secondo l’Istat nel 92,5% dei casi le donne non denunciano.
Tre milioni di vittime tra vergogna e silenzio"
di CINZIA SASSO (la Repubblica, 26 maggio 2008)
Sono quasi tre milioni in Italia le donne che hanno subito violenze in famiglia. Donne che hanno studiato, che hanno un lavoro, che hanno figli, genitori, amici: non emarginate, povere, disperate. Donne che al mattino vanno in ufficio e al pomeriggio accompagnano i bambini ai giardini, le maniche lunghe a nascondere i lividi, il sorriso stampato per forza. Donne che nel silenzio hanno subito stupri nel letto coniugale, botte, minacce, ma anche violenza piu’ sottile: la firma negata sul conto, i soldi con il contagocce, le offese, l’annullamento della personalita’: "sei uno zero, non sai fare nulla". Donne che - spiega l’Istat - nel 92,5% dei casi non denunciano quello che accade; che se chiedono giustizia alla fine l’ottengono solo nell’1% dei casi e che forse anche per questo nel 33,9% subiscono in silenzio, senza parlarne neppure con i familiari; che nell’80% pensano che la violenza subita dal partner non sia un reato; che per il 44,5% si sentono solo impotenti. Donne che non hanno paura ad uscire di casa, ma che la sera, dopo il lavoro, hanno il terrore a rientrarci. Donne invisibili, vittime di uomini al di sopra di ogni sospetto.
Carla e’ una di loro. Ha 42 anni, una laurea triennale, un lavoro da insegnante, due figli. Racconta: "La prima volta che mi ha picchiata avevamo parlato di un amico comune. Lui diceva che facevo la sciantosa. Mi ha trascinata giu’ dalla macchina tirandomi per i capelli, mi ha spinta su in casa, mi ha sbattuta davanti allo specchio. Ecco, guardala, la vedi la tua bella faccia, diceva. Io adesso te la rovino". Carla dice che non si ricorda quanto e’ passato: ricorda solo i calci, i pugni alla pancia, le sberle. Non ricorda le lacrime: "No, non so nemmeno se ho pianto. E’ che quando succede sei cosi’ annichilita che resti paralizzata, hai talmente tanta paura che accada qualcosa di peggio che tenti solo di limitare i danni". Poi lui ha finito. E si e’ seduto davanti alla televisione.
Carla e le altre. Quasi il ritratto in carne ed ossa di quello che le statistiche raccontano coi numeri: aveva un uomo che ha amato piu’ di se stessa, vivevano insieme in una bella casa; lui faceva l’imprenditore, era un tipo seducente, intelligente, generoso. Capitava che dopo i pestaggi le recapitasse in ufficio dei fiori e un biglietto "sai che sei l’unica donna per me".
Il censimento dell’Istat fotografa proprio questo, la violenza domestica, ed ha portato alla luce una realta’ che si nasconde dietro le mura protette di casa. Di quel lavoro Linda Laura Sabbadini, direttore generale, ha parlato anche all’Onu: perche’ l’Italia, in quanto a ricerca, su questo terreno e’ piu’ avanti di tutti gli altri Paesi. Dice: "E’ un’indagine difficilissima perche’ va a rompere un impenetrabile muro di silenzio. L’immagine che passa e’ che il pericolo venga dal branco, dal bruto che incontri per caso, invece il 69% degli stupri sono opera del partner, avvengono dentro il luogo piu’ ’sicuro’, quello della ’pace’ domestica". Laura Da Rui e’ un avvocato: "I media danno un’eco spropositata a quello che succede per strada e chiudono gli occhi sul dentro. Su duecento casi di violenza che ho seguito, solo quindici sono avvenuti fuori, tutti gli altri in casa. E avvengono in una solitudine pazzesca: sono fatti privati, non li riconoscono i parenti, i vicini, gli amici. Ecco perche’ i pacchetti sicurezza non servono a niente: perche’ torni a casa e il problema lo hai li’, dove il maltrattamento e’ mischiato all’amore, dove il groviglio dei sentimenti rende tutto piu’ opaco e ancora piu’ terribile". Ancora Carla: "Bastava poco. Stupidaggini. Tipo che io metto un pizzico di zucchero nel sugo di pomodoro e lui si arrabbiava, ’cretina, non sai fare niente’, mi urlava. O una volta che ho tirato fuori dal freezer il pezzo di carne sbagliata: mi ha lanciato addosso una bottiglia, ’tu non hai il cervello, adesso la paghi’. Via via ho cominciato a vivere con la paura. E piu’ tu hai paura, piu’ lui ha potere. Avevo sempre le antenne, stavo in guardia, mi sentivo sul filo, in qualsiasi momento poteva scattare la furia".
Dappertutto, negli ultimi anni, sono nati dei centri anti-violenza. Solo in Lombardia sono quindici, ma ce ne sono dal Friuli alla Sardegna. Alcuni hanno nomi fantasiosi: "Iotunoivoi", "Zero tolerance", "Centro Lilith". Il primo e’ stato, a Milano, nell’’88, la Casa delle donne maltrattate; da allora ha seguito 20.000 casi. E vent’anni dopo Marisa Guarneri, la fondatrice, non si da’ pace: "E’ ancora sbagliato l’approccio: ci si chiede perche’ le donne accettano di essere picchiate, ma bisognerebbe chiedersi perche’ gli uomini hanno bisogno di picchiare. Da noi passa un mondo assolutamente trasversale. E quando le donne sono autonome, quando hanno un lavoro e possono allontanarsi, allora gli uomini sono piu’ incazzati e diventano piu’ cattivi". Uomini che Guarneri chiama "gli insospettabili". Quelli che "all’esterno sembra che sia tutto normale, ma la normalita’ accade che sia questa: soprusi, distruzione della personalita’. La violenza in famiglia ha tante facce e il dramma e’ che non suscita clamore. Sui giornali finisce solo il caso di quella ammazzata".
Tutto e’ un problema. Per Carla anche il successo sul lavoro: "Mi diceva, per forza sei brava, basta che mostri le tette". E i figli: "Hai cresciuto dei selvaggi, sei una madre di merda". La seconda volta, per lei, le botte arrivano in macchina: "Trenta chilometri di pestaggio, non mi ricordo nemmeno il perche’. Poi mi ha detto sistemati, che andiamo a prendere l’aperitivo. La terza e’ perche’ non avevo dato da mangiare ai cani. E lui: ’ma perche’ devo massacrarti?’ Era in mutande, aveva appena fatto la doccia, mi aveva appena detto che aveva fatto sesso da solo. Bastarda, sei una porca, ti mangio le budella, perche’ mi costringi a fare cosi’? Io in un angolo, e lui calci, pugni, schiaffoni. Quella e’ stata anche l’ultima volta". Storie cosi’ arrivano ogni giorno a "Cerchi d’acqua", una cooperativa sociale fondata da Daniela Lagormasini che accoglie tra le 6 e le 700 donne l’anno: "Il primo stereotipo da confutare e’ che questa condizione riguardi solo le emarginate, quelle povere e ignoranti. Si parla tanto di salvaguardia della famiglia, ma quello che vedo dal mio osservatorio e’ che spesso nella famiglia c’e’ la cultura della prevaricazione, del non rispetto dell’altra". I numeri confermano le sue parole: quasi il 20% delle vittime sono laureate; il 17,3% ha un diploma superiore; il 23,5% e’ fatto di dirigenti, libere professioniste, imprenditrici.
Guarneri, sconvolta dalle reazioni di "punizione etnica" sollevate dai clamorosi casi di cronaca recente, ha lanciato un appello agli uomini: "Sono abituata a vedere giovani donne diventare il capro espiatorio dei problemi della propria famiglia, abusate in silenzio. E intanto si parla di esercito nelle citta’. E mi chiedo: dove sono gli uomini contro la violenza? Perche’ non mettono alla gogna tutti gli uomini che terrorizzano, umiliano, perseguitano donne colpevoli solo di cercare la propria liberta’?". Uomini che stanno nelle nostre comode case piu’ spesso che nelle roulotte.
C’e’ stata, ricorda Alessandra Kustermann, ginecologa, fondatrice di Svd, Soccorso violenza domestica della Mangiagalli, una campagna di pubblicita’ progresso che era perfetta: "Quella donna piena di lividi, che diceva ’e’ stato un tappo di champagne’. Ecco, quella e’ la realta’ quotidiana. Quella familiare e’ la violenza piu’ infida perche’ viene pervicacemente negata, anche a se stesse. Tante di quelle che finiscono qui arrivano a pensare: se mi picchia perche’ e’ geloso, allora mi ama. E per rendersi conto hanno bisogno di anni". Carla, a capire, ci ha messo tre anni: "Resta l’uomo che ho amato di piu’ al mondo. Ma e’ l’uomo che ha rischiato di distruggermi. Adesso, solo adesso che ho avuto il coraggio di uscirne, mi sento di nuovo una persona".
Editoriale
Il coltello nel ventre
di Maria G. Di Rienzo
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento.] *
Gli stupratori non nascono tali. Vengono "costruiti", addestrati, come si addestrano i soldati ad uccidere. E la cultura che fa di un uomo uno stupratore e’ la stessa che "fa" noi tutti/e. Non e’ una questione femminile, e’ una questione condivisa, e come tale va affrontata. Molti uomini pensano, e sono sinceri, che la violenza sessuale, quella domestica ed il sessismo siano problemi altrui: segnatamente oggi, dopo gli ultimi fatti di cronaca, e’ problema/responsabilita’ dei barbari invasori stranieri. Sono dipinti un po’ come gli Orchi di Tolkien, forse non malvagi in origine ma ormai irrecuperabili, spaventapasseri mediatici, fasci di impulsi incontrollati, marionette guidate da fili di odio, massa di pupazzi insensibili, privi di autocontrollo, che seguono semplicemente la pulsione violenta ovunque essa li conduca, anche quando finira’ per schiantarli nel processo. Ma Tolkien ha molto chiaro che c’e’ un manovratore di questi burattini, un potere piu’ grande e piu’ distruttivo di loro stessi, che li istiga con la seduzione delle parole (gli imbattitibili Uruk-hai!) e la promessa di impunita’.
Il linguaggio sessista, i modelli sessisti, la gerarchia di valore per genere, ed il loro logico compimento, la violenza sessuale, promettono agli uomini potere e impunita’. Si’, ci sono le leggi, possiamo persino inasprirle, ma la condanna morale va ancora principalmente alla donna. Cosa ci faceva la’, perche’ era vestita in quel modo, ci ha ballato insieme, ci e’ andata a cena, avrebbe dovuto capire... Cosa dovremmo capire, spiegatemelo. Che dobbiamo smettere di provar gioia nella vita, di aver voglia di conoscere persone nuove, di lavorare, di studiare, di andare per strada, di vestirci come ci pare, di avere desideri, di innamorarci, di esistere?
Alla maggior parte degli uomini non salterebbe mai in testa di esaminare il proprio comportamento e di misurare il continuum tra il fare "apprezzamenti" pesanti ad una ragazzina ed il violentarla, o il rapporto fra il valutare, in una delle nostre ong "eque e solidali", i seni della volontaria (episodio realmente accaduto) quale requisito per l’assunzione ed il piantarle un coltello nel ventre prima di stuprarla. Eppure la connessione e’ diretta, e chiara come la luce del giorno.
Se la questione venisse almeno nominata (ma non si puo’, sono le femministe a farlo e le femministe sono molto noiose) ci sarebbe il permesso simbolico di affrontarla e di vedere la verita’. Quanto siano seccanti queste personagge lo aveva capito bene il giovane uomo che uccise quattordici studentesse e ne feri’ altre tredici all’Ecole Polytechnique, la facolta’ di ingegneria dell’Universita’ di Montreal in Canada. Stava ben attento a non colpire gli uomini. Aveva spesso ripetuto questo mantra, prima di tradurlo in azione: "Le femministe hanno rovinato la mia vita". Ha avuto la sua gloria, l’eroe, e’ passato alla storia come l’autore del "Massacro di Montreal", uno splendido riscatto per un’esistenza distrutta da qualche lurida cagna che gli aveva detto no, ripetuto no, e ribadito che no significa no. Ma questo dev’essere uno dei "mostri" colti da raptus sulla via di Damasco, non ha a che fare con noi, ci mancherebbe. E se ad essere aggressivo e volgare e’ il tuo compagno di vita, di scuola, o di lotta, be’, quello stava solo scherzando. Non si spingerebbe mai a violentarti. Sta semplicemente, con il suo comportamento, e con la tacita accettazione del mito di una mascolinita’ superiore perche’ violenta, continuando a nutrire chi lo fara’. Sta’ tranquilla, e passagli il fazzoletto quando si lamenta della propria sensibilita’ urtata da femmine moleste. Cosa credi, che non ci sia passata nessuna prima di te? A me il buon compagno comincio’ a parlare di quanto era infelice con sua moglie, e non fermo’ l’auto dove gli avevo chiesto di portarmi. Stavamo andando, invece, verso una comoda e solitaria boscaglia. E’ vero, gli ho tolto le chiavi dal cruscotto e le ho buttate dal finestrino, molto violento da parte mia, piu’ della sua mano untuosa sul mio ginocchio e dei probabili sviluppi di quel viaggio in auto. Ma visto che doveva correre in giro a recuperare le chiavi sono potuta scendere intatta, se si eccettuano la paura, la rabbia, e il gran cumulo di insulti vomitatimi dietro dal sensibile e sofferente individuo.
E’ possibile che a piu’ di vent’anni di distanza io debba ancora parlare di questo? E’ possibile che i metodi, le tecniche, le giustificazioni, e cioe’ il cumulo di spazzatura ideologica che copre la violenza sessuale sia sempre lo stesso? Fino a che l’equazione "mascolinita’ = violenza" resta la forma egemonica di socializzazione maschile proporre un modello alternativo, di partnership, e’ una delle azioni piu’ potenti che possiamo intraprendere a lungo termine.
Abbiamo bisogno di "mascolinita’ sostenibile" e di una "decrescita felice del machismo". Il femminismo ha parlato alle donne mostrando ed aprendo loro altre possibilita’; ha detto senza timori e con argomentazioni solide: questa cultura e’ nociva, ferisce donne ed uomini, uccide, rade al suolo, inquina, devasta. Deve cambiare. Tu puoi cambiarla. E’ ora che anche gli uomini si impegnino in questo processo, che elaborino modelli diversi, per un cumulo di buone ragioni oltre quella imprescindibile del fermare la violenza di genere. Una su tutte: il nesso tra il modello dominatore maschile e le tecnologie nucleari, biologiche, chimiche, la Terra non riesce piu’ a reggerlo; a livello simbolico (ed e’ un livello terribilmente potente) e’ il produttore principale del surriscaldamento globale, dei conflitti armati, dell’economia di rapina eccetera.
I violentatori sono uomini che si identificano in maniera sproporzionata con i valori "mascolini tradizionali" (quelli che passano con tranquillita’ nei media, nei programmi scolastici, negli sport soprattutto di contatto, e filtrano felici in tutte le sub-culture presenti in Italia) e sono particolarmente attenti a cio’ che gli altri uomini pensano di loro. In ragione di cio’, oscillano fra un’arroganza insopportabile ed un’autostima bassissima, e quando i dubbi e i sentimenti di esclusione arrivano al culmine hanno il nemico da punire a portata di mano. Forse non possono prendere a cazzotti quel tizio che li ha maltrattati all’ufficio di collocamento o li ha derisi in cantiere, ma possono "mettere sotto" una donna. La moglie o la prima che incontri per strada va bene lo stesso, tanto "sono tutte puttane".
Moltissimi altri uomini e ragazzi, invece, sono a disagio rispetto a quanto e’ stato insegnato loro sull’essere "maschi", con il suo corollario di omofobia, eterosessismo e stupri, vorrebbero uscirne, ma spesso il prezzo da pagare (scherno, umiliazione, solitudine) e’ troppo alto. E anche se si rivolgono a socialita’ "alternative" per appagare il bisogno di appartenenza, in esse ritrovano fin troppo spesso i medesimi schemi dell’interazione femmina/maschio. Johan Galtung non e’ una fastidiosa femminista, vero? Bene, assieme alle sue analisi di altro tipo, gli uomini potrebbero cominciare a valutare la sua affermazione che la misoginia (l’odio per le donne ed il "possesso" delle donne) e’ uno dei piu’ grandi problemi mondiali che abbiamo.
Abbiamo bisogno di quella campagna nazionale contro la violenza di genere che io chiedo da un bel pezzo. E abbiamo bisogno di coinvolgere in essa quanti piu’ soggetti e’ possibile. Possiamo cominciare da dove localmente abbiamo piu’ risorse. Qualche gruppo o rete potra’ portare avanti programmi educativi, per esempio. Se gli uomini e i ragazzi apprendono i meccanismi della socializzazione di genere possono muoversi oltre l’usuale modulo difensivo che adottano quando viene loro proposta la questione della violenza sessuale. Si tratta di offrirgli l’opportunita’ di liberarsi dai concetti strangolatori del paradigma patriarcale, e di abbracciare piu’ largamente la propria umanita’. Certo, comportera’ impegno e fatica. Come ha detto un mio amico: "Ognuno di noi deve faticare durante il viaggio che collega la sua testa al suo cuore. E’ il viaggio piu’ lungo e difficile di tutti, ma di certo e’ quello che ti offrira’ la ricompensa maggiore". Diversi tipi di associazioni possono intervenire con iniziative pubbliche di qualsiasi tipo per far conoscere la realta’ della violenza di genere nel nostro paese; possiamo costruire delle coalizioni di "pronto intervento" che facciano un gran rumore ogni volta in cui i media biasimano la vittima di stupro, denigrano donne e ragazze, sessualizzano pre-adolescenti, usano linguaggi sessisti, incoraggiano o celebrano la violenza, e cosi’ via.
Mi dispiace dirlo, ma credo che noi femministe dovremmo diventare ancor piu’ moleste, importune e seccanti di quanto siamo gia’, molto, molto di piu’. Per le ragazze e le donne che soffrono in questi giorni e di cui abbiamo saputo. Per quelle di cui non sapremo mai. Per gli uomini e i ragazzi che amiamo e per quelli di cui non vorremmo piu’ aver paura.
Tratto da Notizie minime de La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in: http://lists.peacelink.it/
Numero 433 del 22 aprile 2008
Ansa» 2008-05-10 18:31
VIOLENZA SESSUALE: PIAGA DA NORD A SUD, OGGI 6 ARRESTI
ROMA - Non ha fine la piaga della violenza sessuale: solo oggi sei uomini sono stati colpiti da altrettanti provvedimenti restrittivi per abusi compiuti su alcune donne. A Milano un bulgaro di 26 anni è stato sottoposto a fermo perché accusato di aver violentato la moglie e un’altra donna, entrambe romene, che costringeva anche a prostituirsi. L’uomo è stato trovato in una baracca lungo la tratta ferroviaria tra Milano e Pioltello (Milano) dagli agenti della Polfer. E’ stata una delle due vittime, di 40 anni, a raccontare la situazione in cui era costretta a vivere: ha detto di essere giunta in Italia per prostituirsi dovendo mantenere i figli e il marito rimasti in Romania e che, una volta qui, era stata costretta dal bulgaro a convivere con lui e la moglie, entrambe costrette a prostituirsi per lui e sottoposte ad abusi. Le due romene sono state sistemate in comunità protette. L’uomo è accusato di violenza sessuale, sequestro di persona, induzione alla prostituzione e maltrattamenti.
A Sondrio si terrà nelle prossime ore l’interrogatorio di convalida del fermo davanti al Gip dell’ operaio algerino, con regolare permesso di soggiorno, accusato di violenza sessuale aggravata e continuata nei confronti di una valtellinese di 49 anni. La violenza sessuale è avvenuta dopo che l’immigrato aveva trascorso la serata di giovedì con la vittima e altri due amici, un’altra donna italiana e un marocchino, in un paio di bar del capoluogo valtellinese. Poi la comitiva, a notte fonda, si era spostata in riva al torrente Mallero, sempre in città, dove il marocchino, che faceva parte del gruppo, vive da qualche tempo all’interno di una tenda. All’esterno del capanno si è consumato lo stupro ai danni di una quarantanovenne, rimasta in balia dell’algerino per circa un’ora. L’altro straniero, in compagnia di un’altra valtellinese, invece, era all’interno della tenda. L’episodio è avvenuto in un ambiente di alto degrado. Dopo lo stupro, l’algerino è fuggito. La donna vittima della violenza sessuale, con gli abiti sporchi di sangue e lividi al volto e alla schiena per la colluttazione avuta con lo stupratore nel tentativo di resistergli, ha dato lei stessa l’allarme al 113 ed è stata trasportata con un’ambulanza all’ospedale civile di Sondrio. L’algerino è stato rintracciato e fermato poche ore dopo. La polizia ha arrestato a Cosenza due rumeni, Elvis Marcius, di 23 anni, e Adrian Sava, di 24, con l’accusa di avere sequestrato e violentato una ragazza boliviana. I fatti che hanno portato all’arresto dei due rumeni risalgono al 28 febbraio scorso, quando la giovane boliviana era andata ad una festa insieme al fidanzato col quale, successivamente, ebbe avuto una lite. I due rumeni, che la boliviana conosceva, hanno poi offerto alla giovane un passaggio per accompagnarla a casa. Durante il tragitto, Marcius e Sava hanno portato la ragazza in una casa dove l’hanno tenuta segregata, violentandola per tutta la notte.
A Barletta (Bari), ricercato con l’accusa di aver compiuto atti sessuali con una tredicenne, di aver maltrattato la moglie trentacinquenne, la figlia di otto anni e una ragazzina di 15 anni che la moglie aveva avuto da un altro uomo, un pluripregiudicato di 43 anni, di Barletta, si è costituito. E sempre in provincia di Bari, a Trani, un magrebino di 56 anni è stato arrestato dai carabinieri a Trani con l’accusa di aver violentato la sua ex compagna. Medicata in ospedale, la vittima della violenza è stata giudicata guaribile in dieci giorni: sul corpo ha diverse escoriazioni.
EDITORIALE.
MARIA G. DI RIENZO: PREFERISCO I LUPI *
Ecco che e’ arrivata. La "prossima Lorena" di cui scrivevo la settimana scorsa. Questa non l’hanno uccisa, e’ viva, se si puo’ chiamare vita quella di una quattordicenne italiana violentata per un anno da almeno ventitre’ baldi giovanotti italiani (gli indagati erano inizialmente un’ottantina), che la ricattavano tramite un filmato. Sottolineo la nazionalita’ a scopo terapeutico: se ce n’era uno solo di straniero, in mezzo alla folla degli stupratori, si sarebbe scatenato l’uragano.
I maestri pensatori nostrani si stanno stracciando le vesti sul "deserto morale della gioventu’", come se non fosse il riflesso, la conseguenza e l’imitazione dell’abisso immorale degli adulti. Quasi tutti i violentatori si sono discolpati di fronte ai carabinieri dicendo che "Lei ci stava". E certo. La sequenza e’: lusingala, minacciala, filmala, ricattala. Poi ci sta. La mafia non si comporta mica diversamente, e in Italia se ti condannano per mafia la pena e’ un seggio parlamentare.
La ragazzina a scuola e’ stata bocciata, non ha amici, e’ alternativamente anoressica o bulimica. Era diventata lo zimbello dei giovani del suo paese: dicevano che era affetta da Aids e che bastava uno squillo di telefono per averla, che sessualmente era disponibile a qualsiasi cosa e di sua spontanea volonta’. Dov’erano gli adulti? I genitori, gli educatori, gli insegnanti? Ci "stavano" anche loro? Volete farmi credere che si puo’ stuprare in gruppo una bambina per un anno intero, diffamarla per l’intero paese e ridurla psichicamente ad una larva senza che nessuno sappia, nessuno capisca, nessuno sospetti?
*
Ecco che e’ arrivata, un altro file nella mia cartella: quando mi decidero’ a scrivere il distillato di questa cantina di veleni mi esplodera’ il cuore. Pero’ dovro’ farlo, perche’ anche questa "Lorena" sparira’ dalla carta stampata, e dalla memoria collettiva, nel giro di pochissimo tempo. Non ne sapremo piu’ nulla, perche’ non sara’ piu’ utile a qualcuno saperne qualcosa. Si denunciano quattro stupri al giorno, nel Belpaese (e quindi la cifra e’ assai probabilmente piu’ alta), ma a tenere la prima pagina sono quelli che comodano in periodo elettorale o per propaganda politica.
Allora ascoltatemi, amici e amiche di progressista indole, che sobbalzate alla parola "femminismo", che vivete nell’era fantastica del post-patriarcato, che scrivete articoli sulla sconfinata liberta’ delle veline e delle velate, che analizzate il raptus e il deserto morale della gioventu’: non potete chiamarvene fuori in questo modo. La guerra mondiale contro le donne ha un fronte nel vostro paese, e la guerra va fermata. Se siete solo minimamente conseguenti con le belle parole che riempiono i vostri testi e le vostre bocche, usate gli uni e le altre per protestare.
Protestate contro quella cultura che inonda i giovani maschi dei principi di dominio e violenza, e che esalta i delinquenti come furbi. Protestate contro quella cultura del venditi-e-compra che seduce ambo i sessi. Smettete di essere complici passivi dei discorsi sessisti che udite e delle molestie di cui siete testimoni. Se avete accesso ai media, usatelo per dissentire. In quante dobbiamo morire ancora, fisicamente o emotivamente, prima che la cosa vi faccia orrore?
*
E ascoltatemi, ragazzi: lo stupro non e’ sesso. Farlo con altri dieci che ti guardano mentre aspettano il loro turno, su una ragazzina ricattata, non e’ sesso, e’ roba da sfigati. Non e’ da "veri uomini", e’ da "veri vigliacchi".
Lo stupro e’ la parodia del sesso che la violenza vi da’, ed e’ un surrogato infame. Non avete neppure idea di quanto sia delizioso scoprirsi a vicenda, proteggersi a vicenda, rispettarsi a vicenda, provare tenerezza l’uno per l’altra e viceversa, inventare, sperimentare, "pazziare" in un letto o su un divano con qualcuno che ci desidera, ci considera, ci vuole bene. Non ve la menero’ sull’amore: so anch’io che puo’ essere disgiunto dal desiderio, ma so altrettanto bene che se non rispetti ed impari a conoscere il corpo stretto al tuo la soddisfazione che ne ricavi puoi averla da solo, maggiorata, in bagno, e so pure che quando sei innamorato di qualcuna/o la cosa ti riesce cinquemila volte meglio. Ascoltate anche questo: le ragazze non sono venute al mondo per compiacervi. Non vi appartengono, non sono spoglia di guerra o bottino di conquista. Voi non siete venuti al mondo per compiacerle, stesso discorso. Voi e loro condividete uno status giuridico che garantisce i vostri diritti umani. Cio’ significa che voi e loro condividete il diritto, poiche’ entrambi siete esseri umani, a non essere stuprati, battuti, umiliati e cosi’ via. Non ci sono persone che diventano "cose" in base ad una loro caratteristica, e questo vale per le femmine, per i maschi, per quelle di tredici anni, per quelli di diciassette, per quelli con gli occhiali, per quelle con le orecchie a sventola, per quelle che parlano un’altra lingua e per quelli che sono arrivati qui da un altro paese.
Non e’ difficile da capire, vero? Perche’ dovete sapere ancora una cosa: non siete immuni alla violenza sessuale. Ma nel caso non sara’ una donna a forzarvi, sara’ un altro uomo. E’ di oggi (21 maggio 2008) la notizia che nella mia citta’ un coetaneo della ragazzina del lucchese e’ stato stuprato da un vicino di casa. Quest’uomo ha potuto farlo grazie ad una gerarchia valoriale che anche voi tendete a perpetuare, quella che avete appreso dagli adulti, quella che vedete in televisione, quella che vi propongono ossessivamente pubblicita’ e video eccetera. Il maschio dominante, il cui unico potere e’ quello di costringere con la violenza gli altri e le altre a far quello che vuole lui. E dopo che l’hai simbolicamente uccisa con lo stupro, la tua vittima, cosa ti resta? Potrebbe parlare, darti fastidi, forse bisogna aumentare la dose di violenza, picchiarla di piu’, infine ammazzarla davvero. Bel seduttore, bel dongiovanni, proprio "figo". Voi vi vantate di essere diversi, non volete che la vostra vita sia controllata, vi credete autonomi: allora perche’ non avete uno scatto di orgoglio e non rigettate tutta l’immondizia di cui vi ingozzano? Avete paura del giudizio dei vostri amici? Chi vi organizza nel cosiddetto "branco" non e’ un amico, e’ un farabutto che vi voltera’ le spalle non appena sgarrerete per volonta’ o necessita’, e che se per salvarsi dovra’ pugnalarvi alla schiena lo fara’ senza rimorso. Gerarchia, ragazzi. Dominio. Chi sta sotto conta fin tanto che serve ed esattamente nella misura in cui serve.
Immagino che possa esserci un brivido di piacere nel sentirsi assimilati ad un gruppo di lupi che cacciano insieme, ma se l’esercizio della violenza e’ l’unico piacere che riuscite ad avere i vostri sensi sono gia’ morti per tre quarti. Vi diro’, bisognerebbe conoscerli meglio, i lupi. Credo si offenderebbero ad essere equiparati ad un club di stupratori. Innanzitutto, cacciano per mangiare e non per accoppiarsi. Derivano il loro "rango" da quello delle loro madri: tanto che un capo puo’ essere cieco da un occhio o zoppo, non dev’essere necessariamente il piu’ dotato a livello fisico. E qual e’ il ruolo di questo capo, infine? Proteggere. Attirare i pericoli lontano dal branco, sacrificandosi se necessario. Senza offesa, lo preferisco ad un violentatore. Se mai dovesse attaccarmi lo fara’ per fame o per difesa, e mai per libidine di servilismo ai dettami di una societa’ che distrugge voi ragazzi nel mentre vi incita a distruggere altre ed altri esseri umani.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 463 del 22 maggio 2008
1. PROPOSTE. MARIA GRAZIA CAMPARI: PER UN PIANO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE *
Premessa
In questa fase, la globalizzazione economica esercita un influsso prepotente sulle vite di tutte e tutti, donne e uomini.
Le donne, in particolare, subiscono l’esito infausto del nesso fra egemonia del mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) al quale fa seguito la diffusione di valori morali e giuridici di stampo fondamentalista, implicanti una negazione di liberta’ in primo luogo per le donne, poi per tutti per la indivisibilita’ di questo valore.
Questo ordine determina la negazione di qualsiasi relazione fra soggetti dotati di pari valore, svalorizza l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, nega loro fondamentali diritti della personalita’. Attraverso il richiamo a valori religiosi dichiarati indisponibili, nega l’autogoverno laico delle vite e avvolge tutte in una rete intessuta di nodi autoritari.
Questo ordine comporta, inoltre, precise ricadute sull’integrita’ e sulla vita stessa delle donne: dai gesti quotidiani di disvalore, alla inesistenza di autonomia decisionale sul proprio corpo (sancita da leggi e regolamenti), alla persecuzione con violenza, fino all’uccisione di chi ha scelto di reggere il filo della propria vita con le proprie mani, senza affidarsi ai ruoli imposti dalla tradizione e dalla cultura maschile.
La violenza, anche quando abbia luogo fra le mura domestiche, non e’ un fatto privato sulla cui origine i poteri pubblici possano stendere un velo di silenzio e disinteresse, oppure tentare di porvi rimedio attraverso la scorciatoia del solo diritto criminale, inasprendo la previsione di pene.
Come in altri Paesi europei (Spagna, ad esempio), le istituzioni sono chiamate ad intervenire nella consapevolezza che e’ lo svantaggio sociale femminile il dato di base all’origine della violenza e che esso va rimosso con sistemi adeguati.
Occorre pensare ad un piano nazionale di acculturamento e sensibilizzazione rivolto a tutti; occorre una costante vigilanza sulla sua osservanza e applicazione; occorre un piano legislativo che contenga un forte ed esplicito messaggio culturale e politico per un cambiamento delle relazioni fra donne e uomini. Una legge onnicomprensiva che evidenzi l’origine sessista della violenza insita nella discriminazione contro le donne, che evidenzi l’importanza della visibilita’ e della prevenzione per un problema da considerarsi grave problema sociale e da risolversi in tempi ragionevolmente rapidi da parte dei poteri pubblici. Seguono alcune proposte che, volutamente, prescindono dall’intervento penale, considerato quale rimedio solo successivo e non risolutivo del problema, riservato eventualmente agli esperti di settore.
Proposte di intervento integrato multidisciplinare La Presidenza del Consiglio dei Ministri con l’intervento dei Ministeri competenti (Sanita’, Giustizia, Istruzione, Interni, Pari Opportunita’), dovra’ avviare un piano nazionale di sensibilizzazione e prevenzione della violenza di genere che comprenda almeno i seguenti aspetti.
Introduzione e pubblicizzazione di una nuova scala di valori fondati sul rispetto dei diritti e delle liberta’ fondamentali, uguaglianza fra uomini e donne, esercizio della solidarieta’ e dell’accoglienza, in un quadro di civile convivenza. Tale scala di valori sara’ rivolta a uomini e donne attraverso un lavoro multiculturale posto a carico di tutti i pubblici poteri coinvolti. Dovra’ prevedere un programma di istruzione complementare e di formazione ad hoc per tutti i professionisti in qualsiasi modo destinati ad intervenire in situazioni caratterizzate dall’esercizio di violenza contro le donne.
Il programma di educazione/formazione sara’ controllato da una Commissione di esperti di nomina parlamentare, che dovra’ essere rappresentativa di tutti gli orientamenti politico-culturali e dovra’ vedere la presenza di professionisti di riconosciuta esperienza, rappresentanti istituzionali e singoli esponenti di ong e associazioni dotati di comprovata pluriennale capacita’ di intervento nel campo. Promozione e cura da parte dei pubblici poteri centrali e locali di campagne di informazione e sensibilizzazione tendenti allo scopo di prevenire la violenza di genere.
Principi per il sistema educativo
Il sistema educativo comprendera’ fra i suoi obiettivi la formazione al rispetto dei diritti e liberta’ fondamentali, di uguaglianza, disponibilita’
all’accoglienza e soluzione pacifica dei conflitti.
Allo scopo di garantire l’uguaglianza effettiva fra uomini e donne sara’
precisa responsabilita’ e onere del ministero e degli organi scolastici competenti che nei materiali educativi di ogni ordine e grado siano rimossi stereotipi sessisti e che venga promosso il pari valore di uomini e donne.
Anche per i docenti dovranno essere previsti piani di formazione che includano l’educazione specifica in materia di uguaglianza, al fine di assicurare loro specifiche competenze e conoscenze tecniche indispensabili
a:
1. incoraggiare capacita’ che portino all’esercizio di diritti e obblighi uguali per maschi e femmine nell’ambito sia pubblico che privato.
2. individuare precocemente situazioni di disagio o violenza nella sfera famigliare e intervenire in forma istituzionalmente corretta ed efficace.
3. educare alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Principi per il settore della comunicazione e della pubblicita’
E’ da considerare illecita la pubblicita’ che utilizza l’immagine femminile in modo vessatorio e discriminatorio. Le amministrazioni e le autorita’ pubbliche a livello statale e locale dovranno vigilare affinche’ mezzi di stampa e audiovisivi adempiano l’impegno di garantire un modo di trattare la figura femminile che sia conforme ai principi e valori costituzionali.
In ambito statale, regionale e comunale dovranno essere individuati organismi preposti alla vigilanza autorizzati ad esercitare azioni giudiziarie urgenti aventi lo scopo di ottenere dall’autorita’ giudiziaria ordinaria l’interruzione e/o la soppressione della pubblicita’ e delle immagini illecite perche’ contrastanti con le indicazioni sopra estese.
I mezzi di comunicazione dovranno rimuovere tutti gli aspetti che favoriscano la situazione di disuguaglianza della donna e promuovere, d’intesa con i pubblici poteri, campagne di sensibilizzazione verso l’uguaglianza fra i sessi e per la repressione della violenza di genere.
Principi per il settore sanitario
Le amministrazioni centrali e locali avranno il compito di sostenere e favorire le azioni degli operatori sanitari volte alla rilevazione precoce della violenza di genere e di proporre le misure necessarie ad ottimizzare il