LA RESA DEI CONTI. ECCO PERCHE’ RISCHIAMO LA PELLE
di Francesco Paternò (il manifesto, 24 giugno 2006)
E’ anomalo che un’anomalia duri da più di trentacinque anni, ma la difficile esistenza de il manifesto è tutta qui. Siamo un mostro. Da salvare, perché se muore non si riproduce più. Perché proprio adesso rischiamo di chiudere, perché abbiamo difficoltà a pagarci gli stipendi da febbraio: è una storia singolare da giornale libero e di mercato, un’anomalia mondiale. E che vuole risanarsi per ripartire. Più o meno la stessa missione - fatte le dovute proporzioni - del ministro Tommaso Padoa Schioppa.
L’attuale pericolosissima crisi nasce da lontano. Su un fatturato di 17,5 milioni di euro e 121 dipendenti, il contributo della legge per l’editoria alla nostra cooperativa vale il 25% mentre quello da incassi pubblicitari il 9,6% contro circa il 50% degli altri giornali. Il resto delle entrate sono da vendite da edicola e dalle poche promozioni che siamo in grado di fare - perché le promozioni necessitano di investimenti importanti - e comunque tutte rigorosamente in utile. Dai libri alla musica dei cd, dove il manifesto ha affermato in poco più di dieci anni un vero marchio di qualità. Nonostante abbiamo ridotto gli oneri degli interessi passivi dal 10 al 5% fin dagli inizi del millennio, il peso del debito ci sta stritolando. Pure a fronte di un risanamento patrimoniale cominciato nel 2001 che ha portato a una secca riduzione del debito oneroso e a fronte di bilanci che, tra alti e bassi, non producono più da anni voragini nel conto economico e indicano anzi un certo equilibrio di gestione.
Il 2005 abbiamo chiuso con una buona media di 29.000 copie vendute, a causa però di eventi eccezionali come la vicenda del sequestro della nostra Giuliana e la morte di Nicola Calipari. O addirittura per la scomparsa di Giovanni Paolo II. Quel che ci sta spingendo sull’orlo del baratro è però il peso del debito, che sacrifica le risorse finanziarie correnti e azzera ogni possibilità di investimento. Quel che incassiamo serve a far fronte al piano di ammortamento del debito a breve e medio termine.
Ogni volta che discutiamo una nuova possibile iniziativa ci chiediamo: e il budget? E’ sempre zero, facciamo qualche miracolo, certamente si può e si deve provare a far meglio, ma la situazione è questa. La campagna che lanciamo oggi sta nell’esigenza di trovare subito risorse straordinarie per equilibrare i flussi finanziari, per stare contemporaneamente dietro al debito pregresso e avere denari per investire. Dove? Sul giornale innanzitutto, il cuore del mostro; su nuove iniziative editoriali che abbiano un peso sul mercato culturale e politico, come è successo con il nostro supplemento dei trentacinque anni; sul web, strumento principe per crescere nella comunicazione mentre è in atto una crisi mondiale della forma quotidiano, come evidenzia l’erosione di copie vendute dal New Yok Times a Le Monde e Libération per arrivare fino al nostro piccolo, grande manifesto. Internet e carta, connessioni e concorrenza, il futuro prossimo.
E’ di pochi mesi fa uno studio del Washington Post su se stesso che poneva due domande oggi ineludibili per chi fa informazione: quanto perdiamo con il giornale on line? E quanti soldi avremmo perso se non avessimo fatto l’edizione on line? Questa erosione globale delle vendite dei quotidiani (complice anche la crescita della diffusione free press) ci ha investito all’inizio del 2006. Sicuramente ci abbiamo messo del nostro, con molti errori. Abbiamo provato a rispondere con il nuovo giornale messo in edicola il 28 aprile scorso. Addio all’elegante formato americano, ecco il giornale che state leggendo più compatto nella formato, per tagliare i costi di carta e stampa (nel 2006 il prezzo della carta è aumentato principalmente per il caro-petrolio dell’8,5% e rischia di salire oltre l’11% entro dicembre), e più soggettivo nei contenuti, in particolare con la pagina 2 riservata agli editoriali e ai contributi dei lettori.
Una scelta che scarta con il resto del panorama editoriale italiano. Un giornale che ha dato nel primo mese segnali positivi, ma che non bastano più. Come non bastano più i 5.892 abbonamenti in essere tra postali, coupon e web, un record nella storia della nostra impresa ma al di sotto dell’obiettivo dei 7.000 indicato da Valentino Parlato all’inizio della campagna 2005-2006, nello scorso novembre. Un obiettivo mostruoso, verrebbe da dire. Salviamo il mostro. Perché sappiate che questo nostro esperimento antimercato rischia di chiudere. Noi ce la mettiamo tutta ma la risposta spetta a voi lettori de il manifesto e ai non lettori che tuttavia pensano che questo giornale sia un utile personaggio nella commedia, o tragedia, che stiamo vivendo.
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Il decreto Tremonti mette in ginocchio il quotidiano.
Martedì evento per la raccolta fondi. E i lettori organizzano cene e pic-nic
Un giorno al "manifesto" sull’orlo del baratro
"Non lasciateci soli".
E Celentano li sostiene
Parlato: ci servono 4 milioni per salvarci dalla morte, questa è la crisi più difficile
di Alessandra Longo (la Repubblica, 1.10.2008)
ROMA - Potrebbero chiudere, potrebbero fallire, «anche domani», se solo i numerosi creditori decidessero che ne hanno abbastanza, che rivogliono i loro soldi, subito. Al «manifesto» lo sanno di essere ad un passo dal burrone. Il giornale esce con un simbolico lucchetto che imprigiona una lettera della testata. Non è come le altre volte, non è la solita ciclica difficoltà, è una faccenda molto più seria.
Il decreto Tremonti, cancellando il diritto soggettivo ai contributi diretti per i giornali cooperativi, non profit e di partito, taglia le gambe ad ogni sogno, ad ogni progettualità e pone una questione di fondo, di democrazia, che va oltre le logiche individuali d’azienda.
Mancano quattro milioni di euro. Se lo Stato non li dà, bisogna comunque trovarli. La sottoscrizione è partita ed è una corsa contro il tempo: «Quattro milioni per salvarci dalla morte, organizzarci la vita, arrivare al punto di pareggio, a quelle trentamila copie che servono a stare sul mercato», dice Valentino Parlato. Lui, che ha vissuto tutti gli alti e bassi del quotidiano, assicura: «Questa è la crisi più difficile, la peggiore di tutte».
La nuova redazione di via Bargoni, anonima e funzionale, affaccia sugli striscioni anti-Gelmini appesi alle cancellate di una scuola elementare, il clima è più di battaglia che di rassegnazione. Qui lavora gente, 60 giornalisti e trenta tecnici, che non prende lo stipendio da tre mesi ma non molla. Gabriele Polo, il direttore, ha in mano il cd con lo spot salva-vita che da oggi apre il sito online del manifesto e apparirà su diversi quotidiani. Una richiesta di aiuto: «Fateci uscire, non lasciateci soli, sottoscrivete».
Non lasciateci soli. Non c’è spocchia in questo collettivo di lavoro, accusato, in passato, di un certo approccio settario con il resto del mondo. C’è, piuttosto, una sfida da dividere con altri colleghi di altre testate piccole e povere, con tutti i lettori «che hanno a cuore il pluralismo» e temono il pensiero unico. Per martedì prossimo, al Circolo degli artisti di Roma, «il manifesto» ha organizzato un evento, «parole e musica», in difesa della «cara libertà». Aprirà un video di Maurizio Crozza, chiuderà una cena. Raccolta fondi, battaglia politica, anche in leggerezza. Come leggeri e ironici sono gli epigrammi di Tommaso Di Francesco che, in un libro, prende affettuosamente di mira i colleghi. Mariuccia Ciotta, direttore con Polo, è «il gatto Silvestri» con un debole per Clint Eastwood («Ecco che il cuore le fa confusione»), Rossana Rossanda è «la non Comune di Parigi», Ida Dominjanni «Il capo cosparso di genere». Sabato 4, lettura ad alta voce, per il pubblico. «Da soli non bastiamo», dice Polo.
Soli, per la verità, non sono. L’establishment politico si è mosso, scrivono lettori comuni e non. Ieri, a sorpresa, l’incoraggiamento di Adriano Celentano: «Vi leggo, non vorrei che, improvvisamente, non ci foste più». Chi telefona, chi manda mail, chi manda soldi. Al "call center" del manifesto, Michela Gesualdo cerca di mettere ordine nell’abbraccio dei lettori: «Stanno organizzando pic-nic, cene, precari e studenti donano quel che possono, anche dieci euro». Con la crisi economica, però, la meta è lontana. Sono a quota sessantamila euro.
E comunque non bastano i soldi, ci vuole, contemporaneamente, la battaglia politica. Dice Parlato: «Le leggi si possono anche cambiare». «No, la nostra vita non può essere appesa alla discrezionalità del governo», aggiunge Ciotta. Il nodo vero è proprio questo, la libertà d’informazione, la democrazia. Integra Polo: «Si restringono gli spazi di libertà, si trasforma un diritto in una concessione, il cittadino in suddito. La nostra vicenda è paradigmatica. Questo governo può decidere se farci vivere o morire a seconda delle disponibilità di bilancio. Eccolo il vulnus: la mercificazione dell’informazione».
E invece vogliono vivere, i colleghi del «manifesto», e anche gli altri di Liberazione, dell’Unità. Vuol vivere «il manifesto», solo a giugno passato con successo al colore, e diventato quasi disciplinato, nell’organizzazione, in ossequio alla ricetta risanatrice di Sergio Cusani. Vuole vivere il giornale di Pintor per parlare, dice Polo, «a tutti quelli che pensano che un’opinione comune sulla vita pubblica vada ricostruita, a tutti quelli che si oppongono alla gestione feudale di Berlusconi, a tutti quelli che cercano di dare una nuova identità alla parola sinistra».
Editoria
Il manifesto resiste, nasce Il Paese: quanti giornali a sinistra
di Chiara Paolin (il Fatto, 27.06.2012)
Superata la paura di non farcela più, ieri il Manifesto ha comunicato di aver raggiunto l’accordo al ministero del Lavoro che prevede una ripartenza del giornale comunista con 36 dipendenti fra giornalisti e poligrafici, mentre i rimanenti 34 faranno la cassa integrazione a rotazione. “Ci abbiamo sempre creduto, abbiamo ogni giorno lavorato per raggiungere questo risultato e - si legge in prima pagina - ieri finalmente abbiamo firmato: dimezzati ma vivi”.
Ma sono sempre tempi duri per l’editoria, soprattutto a sinistra dove si affollano nuovi e vecchi giornali che stanno per arrivare in edicola. Dopo l’annuncio di Luca Telese, che a settembre darà alle stampe il quotidiano Pubblico, un altro giornalista di sinistra è alle prese con l’ennesimo debutto cartaceo nel prossimo autunno: Piero Sansonetti. Già condirettore dell’Unità con Renzo Foa e Walter Veltroni e poi direttore a Liberazione, e trapiantato al sud come direttore di Calabria Ora, ma sempre conteso nei salotti televisivi soprattutto come accompagnamento ai politici di centro-destra. É anche direttore del settimanale d’opinione Gli Altri (con annesso trimestrale Outlet), adesso Sansonetti guiderà un quotidiano in uscita il prossimo ottobre.
Si chiamerà il Paese per richiamare l’esperienza gloriosa di Paese Sera, e sarà un tabloid da 16 pagine in distribuzione automatica con alcune testate del Sud: lo si leggerà come minimo tra Calabria, Basilicata e Puglia, un trio assai prezioso visto che il decreto legge sui contributi all’editoria in discussione al Senato prevede l’identità di testata nazionale ai quotidiani che coprono almeno tre Regioni e non più cinque (grazie a un emendamento firmato dalla Lega Nord). Sarà così dunque che il Paese, radicato nel Meridione ma puntato sulle grandi questioni italiche, vivrà per confrontare opinioni contrapposte sui temi dell’attualità: pro e contro, idee divergenti, polemiche - possibilmente accese - sul lungo addio in corso ai concetti di Destra e Sinistra.
PER ORA il confronto più serrato è sulle strutture redazionali necessarie alla realizzazione del nuovo prodotto in quel di Roma: computer, progetti grafici, supporti informatici. Sulla piazza cittadina è in vendita ciò che resta (tecnologicamente parlando) del Riformista, e Sansonetti è riuscito a sfilare il sistema editoriale a Telese.
Il quotidiano del Pd, l’Unità, diretto da Claudio Sardo, nonostante il buon successo dell’abbinata con il settimanale Left, è alle prese con uno stato di crisi che prevede l’esodo di circa venti giornalisti grazie a formule soft, mentre l’organico definitivo dovrebbe aggirarsi attorno alle 45 posizioni.
Il Manifesto, invece, torna a sperare concretamente. L’accordo siglato con l’editore parla di un organico ridotto a 36 redattori: nel 2006 i soci della cooperativa erano 107.
Anni di tagli e cassa integrazione hanno portato alla liquidazione coatta della testata. Ora il tentativo di rinascita e i complessi calcoli sulle quote spettanti in base ai nuovi criteri: secondo il decreto legge che andrà al voto in queste ore a Palazzo Madama, gli aiuti saranno più legati alle vendite che alla diffusione, con un criterio che fa salire dal quindici al venticinque per cento il rapporto tra i due dati per ottenere il bonus. Soprattutto per premiare chi sta sul mercato, o almeno ci prova.
All’armi son faxisti!
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 13.05.2012)
Cari compagni. In questo difficile momento, mentre barcolliamo, pur senza retrocedere, davanti a un vile attacco faxista operato con antiche tecnologie dai commissari liquidatori del manifesto, è il momento della severa autocritica. Noi non siamo stati capaci di modernizzarci, non siamo stati al passo coi tempi, non abbiamo capito le mutate condizioni delle masse. E specialmente delle masse di pezzi di merda che hanno fatto i soldi con i contributi dell’editoria senza averne diritto e anzi con l’antico metodo della truffa. Noi, rinunciando alla nostra natura di rivoluzionari, abbiamo fatto tutto secondo la legge. Non abbiamo barattato qualche milioncino di euro con favori compiacenti, né ci hanno intercettato come il signor Lavitola mentre chiedevamo al presidente del consiglio Berlusconi buon’anima un po’ di soldi per l’Avanti!, per dire. E nemmeno siamo andati a vendere elicotteri a Panama caldeggiando tangenti per ungere questo o quel presidente centroamericano.
Abbiamo dimostrato così di non capire la complessità del presente. Noi non abbiamo messo a bilancio, come il prestigioso foglio la Discussione, un’Audi A8 del valore di 99.000 euro, con cui pagheremmo quasi cento stipendi. E nemmeno abbiamo destinato alle nostre spese personali qualche soldino ricevuto su esempio de Il Campanile, testata che certo campeggia nella rassegna stampa della Casa Bianca e dell’Eliseo, essendo emanazione dell’Udeur di Mastella. E non siamo nemmeno accusati, come il senatore Ciarrapico, di aver moltiplicato i contributi servendosi di prestanome ottuagenari (il processo a breve). Insomma, compagni: noi ci siamo seduti sulla più retriva legalità borghese, mentre altri (specie i "borghesi") fregavano a man bassa dichiarando milioni di copie e vendendone, nei giorni buoni, diciassette.
Ora che il faxismo contabile ha colpito, dobbiamo meditare e discutere sulle nostre colpe e interrogarci sul vecchio ma sempre fecondo interrogativo: "che fare"? Non è che a Panama servono altri elicotteri? Non è che a Berlusconi servono altri favori? Sai mai che...
Un giornale e una parola
di Aldo Tortorella (il manifesto, 03.03.2012)
Già altri, aderendo all’invito cortese di Valentino Parlato, hanno detto dei loro stati d’animo nell’ intervenire sui temi proposti da Rossana Rossanda. Poiché Rossana incita il manifesto a guardare in se stesso per intendere la propria crisi, a Tronti è venuta in mente la lunga storia della introspezione com’è maturata nella cultura cui apparteniamo, dalle Confessioni di Agostino in poi. Posso confessare anch’io, dunque, un imbarazzo e un timore. Temo il ripetersi di una consumata discussione sul "nome e la cosa", anche se "la cosa" questa volta non è un partito ma un giornale. E avverto l’imbarazzo di chi, compartecipe della caduta delle sinistre italiane, sente di non aver proprio niente da sentenziare, ma al tempo stesso non vuol fare la parte di chi evita il tema scabroso posto dalla parola "comunismo".
Penso che la discussione di oggi sul declino della sinistra e dei suoi giornali dovrebbe concentrarsi sui motivi della crisi delle sue culture, resa manifesta dalla cattiva prova che hanno dato e stanno dando davanti al disastro economico, poco o per nulla previsto ieri e, oggi, fronteggiato senza proposte realmente alternative a quella del tentativo di ricominciare come prima.
Questo è logico per quella parte della sinistra che ha fatto proprio il pensiero neoliberista, sia pure temperato. Lo è apparentemente di meno per quella sinistra che ha sempre denunciato il neoliberismo: ma se non si entra nel merito con conoscenza effettiva, il "cambiamo tutto" diventa sinonimo del non cambiare niente. Può darsi che nei toni palingenetici ci sia di mezzo la parola «comunismo». Se suscita discussione il dire, come ha fatto Rossana, che il comunismo è cosa di domani significa che c’è qualcosa di rimosso di cui occuparsi e che non basta dire che c’è "ben altro" di cui discutere. È vero, c’è ben altro, ma, soprattutto chi ha vissuto la vicenda che è alle nostre spalle ha il dovere di pronunciarsi.
Quando, ormai più di venti anni fa, si ragionava di come intendere la parola "comunismo" nella mozione congressuale che si opponeva a quello che ci sembrava, e fu, la dissoluzione del Pci, Cesare Luporini si pronunciò, e ne scrisse sul manifesto, per definirla come un "orizzonte" - cioè, com’è ovvio, un luogo irraggiungibile - e si ebbe una severa replica del giornale in nome della effettualità del termine. Per fortuna Valentino, caro compagno e amico, che si era assunto l’onere della risposta a Luporini, non si accorse in quella occasione che io avevo fatto di peggio, proponendo (e ottenendo, se non ricordo male) che si definisse il comunismo non già come una soluzione, ma come un "punto di vista sulla realtà". Un punto di vista, nutrito dalla lunga storia del pensiero critico, che individua nella costituzione economica della società una origine determinante, seppure non unica, di molti dei problemi e dei drammi con cui la realtà contemporanea si è trovata e si trova a fare i conti. E che, dunque, propone volta a volta soluzioni ispirate dal bisogno di rimuovere quelli che appaiono i motivi degli ostacoli posti alla libertà e alla uguaglianza, sapendo di essere una posizione tra le altre in una competizione democratica.
Mi sembrava questo il vero senso della parte migliore della tradizione dei comunisti italiani, quella che ne aveva fatto il maggiore partito della sinistra rendendolo utile ai lavoratori e al paese nella resistenza al fascismo, nella costruzione della democrazia italiana, nelle lotte del lavoro. Era, certo, un’esperienza già in crisi per tanti motivi, ma temevo, assieme a molti altri, che negando anche ciò che a me sembrava giusto conservare di quella tradizione, piuttosto che venirne un’innovazione ne sarebbe venuta solo una frattura insanabile in una comunità umana, certo piena di contrastanti passioni e di molti errori, ma tuttavia fertile e utile per le classi lavoratrici e per il paese. È quello che in effetti è avvenuto. Ma quella posizione appariva - ma non avrebbe voluto esserlo - come la difesa di una eccezione.
È vero, infatti, che quel nome fu usato, ovunque diventava potere, solo come marchio di assolutezza dogmatica, il marchio tipico di tutte le vicende collettive (religiose e no) che ritengono di fondarsi su verità indiscutibili. Ne vengono gli scismi (le scissioni), le reciproche scomuniche, le lotte fratricide, le guerre intestine, l’assassinio dei fratelli di ieri. Il primo tentativo di fondare una economia sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, trasformatasi rapidamente in proprietà statale e poi in dominio burocratico, approdava al capitalismo selvaggio. La speranza di una possibile riforma di quel sistema si dimostrava perdente. Quel nome può assumere un significato diverso e opposto? È astrattamente possibile, ma non da questa discussione può nascere un’alternativa alla destra e può essere ricostruita la nuova sinistra di cui ci sarebbe bisogno.
Di un punto di vista critico, però, c’è necessità più che mai : ciò che si è dimostrato alla lunga fallimentare non è l’analisi marxiana (oggi tornata in voga). Il vecchio Marx aveva ragione scrivendo, undici anni dopo la delusione delle speranze nutrite nel ’48, che un sistema economico e sociale «non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa offra spazio sufficiente». E aveva ragione sia nella esaltazione della potenza del capitalismo sia nel ricercarne, quali che siano stati i suoi limiti, le possibili contraddizioni interne. La fragilità o l’assenza di una capacità di analisi critica di quello che andava succedendo nella economia reale e la totale ignoranza di quel che accadeva nel mondo della finanza dopo la grande svolta conservatrice degli anni ’80 e dopo la scelta del mercato unico dei capitali e delle merci ha lasciato la sinistra europea, in ogni sua parte, disarmata di fronte al sopravvenire di un fallimento economico di straordinaria proporzione. È perciò che la via di uscita dalla crisi è interamente affidata a quelli che l’hanno generata e, in più, si va estendendo il pericolo dell’avanzare di una destra estrema, già al governo di alcuni stati europei e in espansione in altri.
A me sembra che il compito urgente di oggi, cui tutti dovrebbero dare una mano, è la costruzione di una alleanza credibile e sufficientemente ampia per contrastare la destra becera e quella più signorile, anche in vista delle elezioni che in ogni caso non sono lontane. Uno dei guasti più pesanti indotti nella cultura della sinistra è la trascuratezza delle distinzioni. Non tutto è identico. Non è vero che chiunque vinca le elezioni è la stessa cosa. Certo, non deve decadere l’obiettivo della ricostruzione di una grande sinistra, ispirata dalle idee di trasformazione sociale e capace anche di proposte per il breve periodo. Ma non mi pare che sia una meta vicina. Credo che sia giusto dire - come, se non sbaglio, dice Rossana - che non si può pensare nessuna sinistra senza la consapevolezza che il conflitto di classe non è una escogitazione d’altri tempi ma un dato essenziale della realtà in atto. Il recupero di questa consapevolezza, anche a mio parere, è essenziale, ma non basta.
Credo che oggi sia più chiaro di quanto non fosse qualche anno fa che, se non si vuole costruire sulla sabbia come è già accaduto, la rinascita di una sinistra degna ha bisogno di un accordo su nuove fondamenta morali, economiche, politiche. Queste si vengono costruendo nella vita reale di tante esperienze e lotte diverse ma molto faticosamente e lentamente: anche la concordanza su singoli obiettivi - per esempio quelli referendari - non indica una comune visione d’insieme, come si vede nel mondo della rete. Ma vi sono pure sentimenti e passioni comuni, e molte riflessioni e analisi simili.
Per aiutare il coagulo di queste esperienze, per togliere ciascuna di esse dall’isolamento e dalla chiusura in se stesse, ma anche per vedere incongruenze e contraddizioni reciproche, un giornale può fare molto. Perché, se sono convinto che le nuova fondamenta nascono entro i movimenti reali, come è sempre accaduto, è anche vero che la riflessione aiuta. Il mondo è radicalmente cambiato, come tutti sappiamo. Se si desidera trasformarlo bisogna prima di tutto conoscerlo nelle sue novità, tutte da interpretare, e nelle sue permanenze, mai eguali a ciò che era prima. E non c’è avvenire se si lasciano indistinte le parole della propria speranza, se non le si analizzano una per una, o, peggio, se diventano una affabulazione confusa.
Il manifesto, che ha rispecchiato - se non ho letto male le sue pagine - una molto vasta e varia parte delle molteplici sensibilità e tendenze presenti nella sinistra che vuole essere alternativa ha molto aiutato nella costruzione di una nuova cultura, anche se non sempre sono state rese esplicite le differenze di accento tra le diverse pagine, come se non comunicassero tra di loro. Non saprei indicare un altro quotidiano più sensibile alle parole delle minoranze senza voce, alla denuncia delle vergogne dell’esclusione e della emarginazione sociale, alle culture nuove e a quelle di confine. Come lettore ho sempre avuto molto da imparare.
Forse, però, non è stato utilizzato tutto lo straordinario patrimonio di collaboratori, di militanti e di amici per informare prima di altri sui problemi che per i mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione nascevano nella vita dei più, entro le classi lavoratrici e gli strati produttivi. E, forse, sul funzionamento reale del poter finanziario ai danni della collettività o sulla degenerazione dei centri di potere, c’è stata una attenzione critica minore che in altri campi lasciando così troppo spazio al populismo o ad una indignazione poco costruttiva di una politica realmente nuova. Ma di ciò che è necessario al Manifesto per rinnovarsi i suoi artefici, da Rossana ai redattori a chiunque vi lavori, ne sanno più di ogni altro. Intanto, cerchiamo di garantire tutti insieme che la sua voce non venga soffocata.
L’articolo di Rossana Rossanda a cui si fa riferimento è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2), Luciana Castellina (28/2), Valentino Parlato (29/2), Luigi Cavallaro (1/3), Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo (2/3)
Perché non possiamo non dirci comunisti
di Luigi Cavallaro (il manifesto, 01.03.2012)
Non possiamo più dirci comunisti, perché è cambiato il mondo e non abbiamo sufficientemente aggiornato né gli strumenti d’analisi né le proposte: ha scritto così Rossana Rossanda, invocando «un esame di noi stessi» (il manifesto, 18 febbraio).
Giorgio Ruffolo è stato anche più drastico: tranne che in alcune società arcaiche, il «comunismo» non è mai esistito e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa «se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi» (21 febbraio).
Di certo, non era «comunista» quel sistema sociale venuto fuori attraverso mille tragedie dalla Rivoluzione d’Ottobre: anzi, secondo Pierluigi Ciocca (22 febbraio), il «merito storico» del manifesto è proprio quello di averlo capito e denunciato per tempo e con chiarezza. E men che meno aveva a che fare con il comunismo il «keynesismo postbellico» del trentennio 1945-1975, sebbene - rileva ancora Rossanda - la critica che se ne è fatta abbia lasciato spazio solo a «spinte liberiste». E dunque, cosa siamo? E soprattutto, cosa vogliamo?
Se davvero il manifesto vuol essere un giornale capace di tener insieme riformismo propositivo e utopia concreta, sono domande che non possono essere eluse. Ha ragione Mario Tronti (26 febbraio) a suggerire che, se non ci si può più dire comunisti nei tempi brevi, non lo si può più fare nemmeno nel tempo lungo. Anche perché, se le cose stessero così come sostengono Rossanda, Ruffolo e Ciocca (e innumerevoli altri con loro), si dovrebbe far fuori non solo la testatina di questo giornale, ma la stessa testata: troppo legata a Marx, e troppo legato Marx all’idea che il comunismo non fosse «un ideale» al quale la società avrebbe dovuto conformarsi, ma «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello stato borghese, ovunque vigente all’epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell’ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra «politica» ed «economia» non ne era che il precipitato ideologico. Per quanto già a quei tempi gli stati si occupassero variamente della tremenda povertà in cui l’accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi (soltanto) a insipienza o malevolenza dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla «società politica» scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della «società civile» andasse ricercato proprio nella condizione di separatezza in cui veniva trovarsi lo stato rispetto al processo sociale di produzione, e di rintracciare piuttosto l’origine dei mali sociali in «leggi naturali» cui nessuna potenza umana poteva comandare.
Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere «solo» politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l’indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello stato tramite una banca nazionale con capitale dello stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono appunto a questo.
Ma è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la Rivoluzione d’Ottobre prima e l’avvento del «keynesismo» in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d’uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di «non-rivalità» e «non-escludibilità», per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). È questo che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri - burocrazie, partiti politici e associazioni sindacali - hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l’andamento generale della società, che veniva così sottratto così al moto «anarchico» tipico del modo di produzione capitalistico per diventare (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica - di una politica economica. Sul finire degli anni ’60 lo dovette ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò "capitalismo" risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista (...). La maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».
Non dovrebbe indurre in errore il fatto che uno sviluppo del genere abbia avuto forme diverse di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni «giacobine», per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di «rivoluzioni passive», cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che l’auspicio di un sistema economico in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l’attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell’appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all’azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un’ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d’uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. Ed è indubbio che i comunisti (e i socialisti) siano stati parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceto medio e Emilia rossa di Togliatti (1946) per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l’Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile - le «regioni rosse», et pour cause.
In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato la soppressione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al partito unico e al totalitarismo: l’esperienza occidentale insegna proprio il contrario, cioè che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, perfino il credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze - esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.
Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della «grande trasformazione» che il mondo in cui viviamo ha subito da novant’anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all’esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica (1843). E proprio in quest’opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte - filosofiche, certo, ma anche la filosofia parla della realtà, a saperci guardar dentro.
Il punto, però, qui è politico e non puramente storico-teorico. Il fatto che tramite l’azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare la produzione di taluni beni e servizi dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c’è stata una storia e adesso non ce n’è più»: al contrario, la crisi che attraversano i nostri sistemi socioeconomici fin dagli anni ’70, e specularmente quei bisogni sociali sottesi agli slogan sui «beni comuni» o sulla «riconversione ecologica dell’economia», evidenziano che quella statuale non sarà certamente l’ultima forma di «produzione socializzata». Ma di qui a negare che il comunismo sia stato e sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» ne corre, a meno di dimenticare che per «comunismo» Marx intendeva semplicemente (ma non banalmente) un sistema sociale in cui gli esseri umani riuscissero a portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.
Per tutto questo, io credo, potremmo e dovremmo continuare a dirci «comunisti»: beninteso, senza dimenticare di provare a immaginare una politica economica altra da quelle dominanti e di scriverne su un giornale (per dirla ancora con Tronti) «di popolo e di cultura». Dubito che riuscirò a convincere qualcuno dei miei illustri interlocutori o la stessa redazione di questo mio amatissimo «quotidiano comunista». Ma alla fine questo è un articolo di giornale, e servirà almeno ad incartare il pesce.
Una voce libera, che fortuna
di Mario Tronti (il manifesto, 26.02.2012)
Rossana Rossanda, da lontano, ripetutamente, ci suggerisce, ci sprona, qualche volta ci sferza. È una fortuna, per tutti noi, avere una tale voce libera, oltretutto cara, di stimolo e di confronto. A volte, come nell’ultimo, «il manifesto» del 18 febbraio,
braio, «Un esame di noi stessi», viene avanti un discorso puro e semplice di verità. L’esame di se stessi, il tentativo di raggiungere un’autoconsapevolezza delle proprie ragioni di vita, è una dimensione alta dell’essere umano, purtroppo ancora privilegiata, a disposizione dei pochi che possono permettersela. Dimensione eterna. La modernità l’ha poi declinata e assai complicata nella forma dell’agostiniano inquietum cor nostrum, o nello scetticismo libertino alla Montaigne. E tra Otto e Novecento è andato a cercarla negli abissi insondabili dell’inconscio. Comunque, è indubbio che il fermarsi un momento per chiedersi: a questo punto, chi sono, o che cosa sono diventato, è un buon esercizio di intelligenza di sé e del mondo. Ancora più necessario, e forse più difficile, quando si tratta di dire: chi siamo e che cosa siamo diventati.
Ma la smetto subito con queste supponenti considerazioni e passo a vie di fatto. Mi pare che Rossana Rossanda abbia fatto un discorso di questo tipo: ha preso le difficoltà recenti e crescenti del giornale per leggerle come metafora delle difficoltà recenti e crescenti, non di quella sinistra come parola ormai «assai vaga», ma di quella precisa sinistra che ha insistito fin qui a chiamarsi comunista. Ho colto nella voce di Valentino Parlato, quando mi invitava ad intervenire sulla questione, una preoccupazione, che è, penso, di molti compagni e compagne. Che comunisti non ci si possa dire più nei tempi brevi, porta come conseguenza, come ne ha rapidamente dedotto Giorgio Ruffolo, che non ci si possa più dire tali anche nel tempo lungo, quando, come si sa, saremo tutti morti? È un bel problema. Non si risolve qui. Non si risolverà negli anni immediatamente a venire. Lasciamo alle generazioni del XXI secolo la questione aperta. Sui nomi di senso, di significato simbolico, io applico quella categoria somma della politica moderna, che è la Prudenza. Non abbandono un nome finché non ne ho trovato un altro al suo livello di espressività, mutate tutte le circostanze. Non dimentichiamo che la nostra parte sta scontando il purgatorio di aver opposto alla «distruzione creatrice» del capitalismo la decostruzione dissolutrice del socialismo.
Una volta si diceva che per raggiungere un certo obiettivo, ci voleva «ben altro». Oggi si dice che bisogna andare «ben oltre». Dietro le voci soliste che cantano la canzone dell’andare oltre la sinistra, c’è il coro numeroso e chiassoso che ripete il ritornello: non c’è più né destra né sinistra. Nella loro lingua, non c’è vuol dire che non ci deve più essere. Lì abbasso il volume e smetto di ascoltare. C’è, pronto all’uso, un altro nome per definire e per far vedere quel campo di forze che sta di fronte all’interesse capitalistico in modo autonomo, centrato sul mondo del lavoro e con intorno tutte quelle figure, e quelle domande, e quelle questioni, e quelle dimensioni, che solo in riferimento ad esso acquistano senso e soprattutto prendono forza, come soggettività alternativa? Linke, Gauche, Left, Izquierda: fosse per me, direi di questo soggetto, politico, solo Sinistra, con un rosso di bandiera e nessun altro simbolo. Tutti capirebbero, senza bisogno di pubblicitari della comunicazione. E comunque non è dal nome e dalla bandiera che bisogna ripartire. Prima ancora del famoso «che fare», c’è oggi di fronte a noi un inedito «chi essere».
Due obiezioni, di fondo. Una. Quelli che si dicono sinistra, oggi, nella parte maggioritaria, danno un’immagine, appunto, molto più vaga, non riconoscibile nel senso forte detto sopra. Risposta: ma allora non si tratta di cambiare il nome, si tratta di cambiare l’immagine di chi lo porta, ceto politico, programma, azioni, intenzioni. Due. Quella rossa Sinistra potrebbe mai essere partito a vocazione maggioritaria? Risposta: e perché, no? Basta, anche qui, non ascoltare la cantilena: vecchia, residuale, la testa rivolta all’indietro, novecentesca, che poi è sempre il massimo dell’insulto, e tutto il fuoco di sbarramento dell’egemonia dominante.
Se c’è, qui e ora, nella contingenza e nell’epoca, un bisogno storico è il bisogno di Sinistra. La crisi, generale, di questa forma di capitalismo lo ripropone in grande. E questa crisi lo ripropone sulla spinta del fallimento di tutto intero un ciclo che si è approssimativamente definito di globalizzazione neoliberista, ma che è stato in realtà nient’altro che un’età di restaurazione per un comando assoluto del capitale-mondo su tutti i mondi della vita, che nei trent’anni gloriosi avevano preso parola di autonomia, di rivendicazione, di conflitto, e di speranza non per l’innovazione ma per la trasformazione. Il fallimento sta nel risultato di società sempre più insopportabilmente divise tra l’alto e il basso, tra privilegi e povertà, tra mito del benessere e disagio dell’esistenza. Non passa quasi giorno che istituti vari di rilevazione non ci informino sul divario crescente tra redditi di lavoro e profitti di capitale. E allora? È una legge di natura o è un difetto di società?
Che cos’è Sinistra se non, su questo, alzare la voce e chiamare alla lotta? Abbiamo di fronte un anno, due anni, decisivi. Qualcosa può accadere nel direttivo di testa dell’Europa. Il signor Sarkozy e la signora Merkel potrebbero non essere più al loro posto di comando. E il famoso dopo Monti sarebbe bello e risolto. L’ambiguo Obama troverebbe alleati più sicuri. Un fronte di resistenza al super potere che la gabbia d’acciaio delle compatibilità finanziarie impone ai movimenti della politica, potrebbe assicurare più agevoli percorsi di governo. Perché questo è il vero problema. Non tanto portare al governo le sinistre, ma rendere praticamente, cioè appunto, politicamente, possibile un governo della Sinistra. In questo contesto, la discussione se dirci o meno ancora comunisti, non mi sembra proprio la cosa più urgente. Figuriamoci! Oggi spaventa perfino la parola socialdemocratico, che non ha mai spaventato nessuno, nemmeno i capitalisti, che hanno benissimo convissuto con quelle esperienze di governo, e che pure, in tempi recenti, hanno spinto le terze vie a dirsi liberaldemocratiche. Oggi l’unico spettro che si aggira per l’Europa è il rischio di default dei loro conti in rosso, derivati, è il caso di dirlo, da un’improvvida gestione dei loro interessi. È qui, in questo anello debole, che bisognerebbe andare a colpirli, se ci fosse in campo una forza anche per poco con memoria, orgogliosa, di quello che è stato il movimento operaio.
Ricostruire questa forza, è il programma massimo che ci sta di fronte. La cosa semplice, difficile da farsi, più o meno come il comunismo, nelle disperate condizioni attuali. Abbiamo letto gli atti di un incontro, in quel di Londra, sull’idea di comunismo: ecco, lì, pensatori che parlano oscuro, non sapendo che fare in politica l’hanno buttata in filosofia, ricominciando da Platone. Il comunismo che riconosco è quello: Manifest der kommunistischen Partei, 1848. Lì comincia una storia. La fine della storia, per quanto mi riguarda, coinciderà con la fine di un’esistenza. Nel frattempo - viviamo politicamente nel frattempo - c’è da combattere e possibilmente sconfiggere un avversario di classe. Quando vedo incedere la figura del professor Monti, non ho dubbi. Poi, posso anche stringere con lui un compromesso, provvisorio. Ma dalla parte opposta: la parte del torto, come recitava un bello slogan di quest’altro manifesto, in quanto parte di una sacrosanta ragione.
Il problema è di far vivere il giornale, non quello di cambiare la ragione della sua vita. La ricostruzione di una forza politica, di un soggetto unitario, per una Sinistra modernamente popolare, armata di idee e riconosciuta dalle persone, richiederà anche un giornale unico, di popolo e di cultura. Il manifesto può giocare qui la sua di storia: che è quella delle origini, ma anche quella che in questi decenni ha visto generazioni di lettori in diretto colloquio con generazioni di collaboratori, con diverse idee e sensibilità e culture, però, appunto, viste da una parte. È stato il laboratorio di quello che adesso può esserci. Non è per domani, forse è per dopodomani. Ma per il dopodomani deve lavorarci da oggi. E’ un filo, che non va spezzato, va ricongiunto al prossimo punto d’attacco.
*
L’articolo di Rossana Rossanda a cui fa riferimento Mario Tronti è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2) e Alberto Burgio (24/2)
SENZA FINE
editoriale (il manifesto, 09-02-2012)
Siamo alla prova cruciale, al corpo a corpo con la nostra stessa vita materiale e politica. Il manifesto andrà in liquidazione coatta amministrativa. Verranno funzionari di governo, che si sostituiranno al nostro consiglio di amministrazione. È una procedura cui siamo stati costretti dai tagli alla legge dell’editoria. Noi, come altre cento testate, nazionali e locali, non potremo chiudere il bilancio del 2011.
Mario Monti e il ministro Passera potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito. Usiamo il condizionale perché non abbandoniamo il campo di battaglia e siamo ancora più determinati a combattere contro le leggi di un mercato che della libertà d’informazione farebbe volentieri un grande falò. La fine del manifesto sarebbe la vittoria senza prigionieri di un sistema che considera la libertà di stampa non un diritto costituzionale ma una concessione per un popolo di sudditi. La fisionomia della nostra testata, il suo carattere di editore puro, il nostro essere una cooperativa di giornalisti, hanno sempre costituito una felice anomalia, un’eresia, la testimonianza in carne e ossa che il mercato non è il monarca assoluto e le sue leggi non sono le nostre.
Il compito che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l’editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci in rosso, in disoccupazione. Naturalmente, se avessimo la testa di un Marchionne sapremmo cosa fare per far quadrare i bilanci. Così come un vero mercato della pubblicità ci aiuterebbe a far quadrare i conti, e un aumento dei lettori nel nostro paese ci farebbe vivere in una buona democrazia. Ma è altrettanto evidente che le nostre difficoltà sono lo specchio della profonda crisi della politica, l’effetto di quella controrivoluzione che ha coltivato i semi dell’antipolitica, del «sono tutti uguali» fino a una sorta di pulizia etnica delle idee e dell’informazione.
Care lettrici e cari lettori, siamo chiamati, noi e voi, a una sfida difficile e avvincente. Dovremo superare nemici visibili e trappole insidiose. Sappiamo come replicare alle politiche di questo governo, ma siamo profeti disarmati contro il successo del populismo, che urla contro il potere assumendone modi e fattezze. State con noi, comprateci tutti i giorni, abbiamo bisogno di ognuno di voi. Adesso che tutti hanno imparato lo slogan dei beni comuni, lasciateci la presunzione di avere rappresentato una delle sue radici, antica e disinteressata. Ed è per questo che nell’origine della nostra storia crediamo di vedere ancora una vita futura.
SIAMO QUI
QUARANT’ANNI DALLA VOSTRA PARTE
di Matteo Bartocci (il manifesto, 09.02.2012)
Nonostante una ristrutturazione durissima e sacrifici senza precedenti il giornale resta in edicola. Oggi alle 14 conferenza stampa in redazione Il ministero dello Sviluppo ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa. Un passo inevitabile dopo i tagli del governo. Ecco quello che abbiamo fatto e quello che dobbiamo fare
È il momento più difficile della storia quarantennale del manifesto. Chi ci segue sa che l’allarme l’avevamo lanciato da tempo. Che non era un «al lupo, al lupo» né una delle infinite crisi che con l’aiuto di decine di migliaia di sostenitori siamo riusciti a superare dal 1971 a oggi.
Il ministero per lo sviluppo economico ha ufficialmente avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice del manifesto. Ma il giornale resta in edicola e rilancia. Perché non è finita finché non è finita.
Questa procedura particolare alternativa alla liquidazione volontaria cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento. E’ una procedura estrema, riservata a soggetti per loro natura fragili come le cooperative, che non hanno «padroni» che ogni anno ripianino i debiti o raccolgano i profitti.
Da oggi il manifesto entra in una terra sconosciuta. I casi di cooperative editoriali che hanno attraversato questa procedura sono rarissimi, forse è addirittura un inedito. Una delle tante «prime volte» che il manifesto, giornale quotidiano e forma originale della politica, ha sperimentato sulla sua pelle nei suoi primi 40 anni. I dettagli «tecnici» di quello che accadrà li daremo oggi in una conferenza stampa (alle 14 qui in redazione, via Angelo Bargoni 8, Roma). Per adesso però non sono la cosa più importante.
Banalmente: oggi il manifesto spende più di quanto incassa. E’ una debolezza cronica e strutturale, aggravata dal taglio drastico e retroattivo dei contributi pubblici per l’editoria non profit. Il manifesto ha lanciato sottoscrizioni e campagne di sostegno ancora prima di nascere. Non è «piagnisteo»: è nel suo Dna. Senza non potrebbe vivere. E’ un’impresa comune costruita senza padroni. Né occulti né palesi. I «padroni» del manifesto sono chi ci lavora e chi lo legge.
Per questo stavolta alla procedura indicata dal ministero non potevamo più opporci. Dal 2008 cala la pubblicità, le vendite vanno e vengono (incoraggianti a novembre e dicembre, in lieve calo a gennaio) e senza il contributo pubblico (che era previsto) il bilancio del 2011 non si può chiudere. E’ l’aritmetica perversa dei fondi editoria, che vengono erogati nel 2012 come rimborso del 2011. Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l’esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata.
Restiamo noi e voi. Siamo la stessa cosa, ma noi abbiamo il dovere di spiegarvi quello che abbiamo fatto. Sul manifesto circolano moltissime leggende metropolitane e qualche lacrima di coccodrillo. Sono tempi brutali per tutti e non c’è da stupirsi.
Però sfatiamo alcuni luoghi comuni. I sacrifici che abbiamo fatto in questi anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e distribuzione all’osso (p.s. le edicole sono 30mila e più di tanto non si può tagliare, già adesso il giornale si trova poco e male). Siamo l’unico quotidiano nazionale non full color: questo ci fa risparmiare in tipografia ma ci rende meno appetibili per la pubblicità. Di recente abbiamo aumentato il prezzo, ridotto la foliazione e portato Alias e la TalpaLibri dentro il quotidiano. In questi anni durissimi abbiamo messo a punto tutto. Siamo in ristrutturazione industriale più o meno dal 2006 e il sacrificio più grande lo stanno facendo soprattutto i lavoratori (che sono anche gli editori di se stessi).
Parlano i bilanci. Nel 2006 il manifesto aveva 107 dipendenti. A febbraio sono 74 (52 giornalisti e 22 poligrafici). Di questi 74, però, la metà è in cassa integrazione a rotazione. Per cui il giornale che leggete (dal 2010 a oggi) è fatto, materialmente, da circa 35 persone. Troppe? Troppo poche? Scarse? Brave? In numeri: dal 2006 al 2010 il costo del lavoro è diminuito del 26%, con un risparmio annuo di 1,1 milioni di euro. Nel triennio 2008-2010 i costi industriali si sono ridotti di 2 milioni e mezzo. I costi generali del 20 per cento. E visto che parliamo di soldi e di mercato, tra noi tutti riceviamo più o meno lo stesso salario, dalla direttrice alla centralinista: circa 1.300 euro netti al mese.
Il manifesto però è innanzitutto un progetto politico. Questo giornale può migliorare e cambiare molto ma non può mutare natura. Non potrebbe esistere senza il contributo di chi, da anni, lavora e scrive gratuitamente, dai fondatori al più giovane dei collaboratori. Più che ai nostri stipendi (che pure contano e non arrivano) il primo pensiero di ogni giorno è il nostro/vostro giornale. Da oggi lo sarà ancora di più.
La sfida disperata del “manifesto”
Rischio chiusura. Lutto per la morte del fondatore Aldo Natoli
Il calabrone non vola più. Diceva Luigi Pintor, uno dei padri fondatori del manifesto, che il suo giornale è come un calabrone, la stessa metafora usata dagli economisti per descrivere l’Italia: ha le ali troppo pesanti per volare, per le leggi della fisica non dovrebbe stare in aria eppure, da 40 anni, il calabrone comunista sopravvive in edicola.
di Beatrice Borromeo (il Fatto, 10.11.2010)
Solo che, da quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha cancellato il diritto soggettivo delle testate ad accedere ai contributi pubblici, nel bilancio del manifesto sono venuti a mancare 3 milioni e 700 mila euro all’anno. E tra edicola e abbonamenti vende appena 20 mila copie, zoccolo sempre duro ma insufficiente, mentre dalla pubblicità incassa 1,7 milioni all’anno. Soldi che non bastano a coprire i costi di una redazione di 90 persone, da sei mesi senza stipendio. “C’è un riccone in Italia che può comprare il manifesto per farlo restare così com’è?”, si è chiesto scherzando ma non troppo sulle colonne del Corriere della Sera un altro dei padri del manifesto, Valentino Parlato. Perché l’autotassazione dei lettori che ha salvato il quotidiano fino a oggi (come le vendite a prezzi maggiorati o la richiesta di comprare a 50 euro il best of del giornale) non basta più, e anche le linee di credito dei banchieri simpatizzanti si sono prosciugate.
IL DIRETTORE del manifesto Norma Rangeri non prende sul serio l’ipotesi del cavaliere bianco, anche perché molti in redazione (e tra i lettori) preferirebbero chiudere che consegnarsi a qualcuno che possa dettare la linea politica a un progetto culturale e giornalistico che da sempre si compiace di essere “autonomo, libero e senza padroni”. Il problema è che di soluzione alternative non se ne vedono. La Rangeri fatica a immaginare una via d’uscita dal profondo rosso che vive il quotidiano comunista: “Dobbiamo riuscire a sopravvivere per i prossimi tre mesi e raddoppiare la pubblicità”. Ma anche lei sembra considerarlo più un miracolo che un progetto industriale: per attrarre gli inserzionisti serve una crescita delle vendite, difficile da ottenere senza investire sul prodotto (il manifesto è praticamente l’unica testata ancora in bianco e nero). E i soldi per farlo proprio non ci sono.
“Non vogliamo morire a 40 anni ma in redazione c’è profondo sconforto. Mandare in stampa un giornale che da sei mesi non paga chi ci lavora è difficilissimo. Questa volta la possibilità di chiudere è seria”, dice la Rangeri mentre prepara un paginone per ricordare Aldo Natoli, storico fondatore del quotidiano, scomparso due giorni fa a 97 anni. “Gli volevo bene, ma non lo sentivo da tempo - spiega un altro del gruppo fondatore, Lucio Magri - e poi odio i necrologi, così vincolati a ricordi appiattiti”.
Da un autobus di Londra, Luciana Castellina ricorda al telefono che Natoli “diceva che il Partito comunista era una giraffa, perchè si distingueva dagli altri. E Aldo era la giraffa nella giraffa, un intellettuale raffinatissimo e unico”. Per la Castellina la fine del manifesto - fondato nel 1969 da un gruppo di dirigenti del Pci espulsi dal partito perché si rifiutavano di avallare l’invasione sovietica della Cecoslovacchia - è dovuta alla “scomparsa della politica tutta” più che alla sconfitta della sinistra radicale e alla sua assenza in Parlamento.
IL MANIFESTO, sostiene la Castellina, “non può che essere la prima vittima della morte della politica. Era nato legato a un concetto, a un movimento. Non è mai stato un giornale in senso tradizionale, era un vero soggetto politico”. E quindi, lo ammette proprio Valentino Parlato, non ci può essere molta speranza: “Un quotidiano comunista fatica a sopravvivere se i comunisti non esistono più. L’unico che ancora li nomina è Berlusconi”.
Come uccidono le idee
Autore: Rodotà, Stefano
Togliere il sostegno pubblico alla stampa cooperativa significa aggiungere un altro decisivo tassello alla tirannia del pensiero unico. Il manifesto, 3 ottobre 2008. Con postilla. *
«Un esempio di cattiva politica, un classico esempio di politica asimettrica». Stefano Rodotà non ricorre certo a giri di parole per definire il decreto Tremonti sull’editoria, quel decreto «taglia fondi» che sta mettendo a repentaglio l’esistenza stessa della stampa indipendente.
Professor Rodotà, a cosa si riferisce quando parla di politica asimmetrica?
Ad una politica che, incapace di selezionare, tende a considerare alla stessa stregua situazioni differenti così disattendendo, peraltro, un principio di rango costituzionale. Mi spiego. E’ vero che ad oggi il capitolo dei finanziamenti pubblici ha registrato numerosi abusi ma questo argomento viene utilizzato come puro pretesto per cancellare del tutto la presenza pubblica e così impedire qualsiasi forma di pluralismo democratico.
Una sorta di pulizia etnica che non risparmia neanche le cooperative.
Anche qui vale lo stesso discorso. Non che il mondo della cooperazione sia esente da ambiguità ma è sempre compito della politica individuare e denunciare tali ambiguità intervenendo caso per caso. Per restare all’editoria, ci sono cooperative la cui esistenza è garanzia di pluralismo e altre, viceversa, che esistono solo per accedere alla finanza pubblica. E i parametri per attuare una selezione rigorosa , come su queste pagine ha ricordato il Gruppo di Fiesole, ci sono.
Selezione qualitativa a parte, l’asimettria riguarda anche aspetti più specificatamente economici: salvaguardia dei contributi indiretti destinati ai grandi gruppi editoriali e taglio di quelli diretti di cui beneficiano le testate indipendenti.
L’operazione è palese e, se mi permette, ha ben poco di economico e molto di politico.
Cosa intende dire?
Intendo dire che alla grande stampa vengono garantiti presenza sul mercato e, dunque, profitto mentre sulla stampa cosiddetta minore si interviene al fine di eliminarne la possibilità stessa di esistenza. Come si fa, sulla base di queste condizioni, a restare sul mercato?
Professore, non lo dica a noi! Quanto al governo, qualcosa almeno ci guadagnerà...
Diciamolo con chiarezza. Il costo economico di questa operazione è assai modesto, le sue "grandezze" economiche sono modeste. Lo ripeto, ci troviamo di fronte ad una operazione che è tutta e soltanto politica. E questo, dal mio punto di vista, costituisce un’aggravante.
Un decreto per mettere a tacere il dissenso da qualsiasi parte esso provenga?
Molto di più. Proviamo ad allargare il discorso e a non soffermarci solo sul mondo dell’editoria. Ciò che è in atto è il tentativo di impedire - o comunque di ridurre al minimo e a tutti i livelli la produzione, la circolazione e la diffusione delle idee. Prova ne siano la situazione drammatica in cui versa l’università e la costante minaccia di smantellamento sotto cui vive l’intero sistema dell’istruzione.
Parliamo, naturalmente, della pubblica istruzione visto che di quella privata sinanco il pontefice non manca di farsi quotidianamente carico.
Anche qui, sono sbalordito e le mie propensioni laiche, contano assai poco. Il papa si esprime a favore di una sostanziale parità tra scuole pubbliche e private ma poi chiede maggiori finanziamenti per quelle non statali. E già non ci siamo: tutti sanno che l’articolo 33 della Costituzione, pur garantendo alle scuole private il sacrosanto diritto di esistere, specifica che tale diritto deve essere "senza oneri per lo stato".
Diciamo che il pontefice fa il suo dovere...
E infatti a lasciarmi sbalordito sono più le reazioni del ministro ombra all’istruzione che ci chiede di prestare la massima attenzione al richiamo del papa. E lo fa senza traccia di critica alcuna. Altro che ’senza oneri per lo stato’. Qui, al contrario, degli oneri si chiede che vengano aumentati proprio mentre la scuola pubblica viene fatta oggetto di tagli sconsiderati. Si tratta di una contraddizione enorme perché in momenti di crisi economica, compito primo e dovere dello stato dovrebbe essere proprio quello di destinare alla scuola pubblica tutte le risorse finanziarie disponibili.
Editoria, università, scuola. Mi pare di capire che la vera posta in gioco sia la democrazia.
E’ così. Se è vero che la democrazia è il ’luogo’ che consente a tutti di essere esposti al maggior numero di opinioni possibili, allora la scuola e l’intero sistema di formazione e di informazione devono essere in grado di fornire a tutti i cittadini la medesima possibilità. E la scuola, sotto questo aspetto, è il punto nevralgico della formazione civile, è il ’luogo’ in cui si impara ad accettare gli altri. Se noi costruiamo ghetti all’interno delle scuole non facciamo altro che gettare le basi di una società del conflitto, di un conflitto permanente.
Con buona pace della coesione sociale.
L’’essere esposti’ è, appunto, la condizione necessaria della coesione sociale. Se non vedi l’’Altro’, la società si impoverisce e ciò che si determina sono solo fenomeni di esclusione.
Eppure c’è chi sostiene che anche il privato possa contribuire a produrre democrazia e cultura.
Si tratta di affermazioni dietro cui si nascondono ignoranza o ipocrisia. In Italia non c’è senso sociale dell’impresa e il mondo della cultura è costretto a cercare finanziamenti dalle fondazione bancarie. Questo non è arricchimento ma impoverimento della democrazia.
A proposito di impresa, non le sembra eccessivo il ruolo giocato dal mercato pubblicitario nel destino dell’informazione?
Anche qui siamo di fronte ad una vera e propria anomalia. In altri paesi non esiste la possibilità da parte del sistema televisivo di drenare risorse pubbliche. Da noi c’è addirittura un presidente del consiglio che detiene, insieme, il controllo del settore televisivo pubblico e privato. Settore che ’guida’ l’80% delle scelte dell’opinione pubblica. E’ al restante 20% che dobbiamo pensare, garantendo non un astratto pluralismo ma l’opportunità di essere esposti al maggior numero di opinioni possibili..
* Postilla
L’intervista a Rodotà ci stimola ad affermate che la decisione del governo, se confermata, renderebbe ancora più intenso e pervasivo quel processo di annullamento della capacità critica degli italiani che le cronache, e le esperienze personali ogni giorno rivelano. Dominio delle pulsioni e degli interessi individualistici, scomparsa della solidarietà, sgomitamento per prevalere sugli altri, evasione fiscale, disprezzo della legalità, adeguamento al più becero senso comune, infantilizzazione del linguaggio, e poi giù giù fino al razzismo. Questo è il prezzo che abbiamo già pagato. Risalire la china sarà impossibile se riusciranno a spegnere quel poco di spirito critico e di informazione libera che sopravvivono.
* Fonte: EDDYBURG, Data di pubblicazione: 03.10.2008
editoriale
IL VENTENNIO DI BERLUSCONI
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 01.10.2008)
Nel corso dell’estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo.
Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l’attenzione (se c’è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull’«incipit» di quell’articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi».
Di questa frase è soggetto implicito l’ Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l’Italia sotto specie di Nazione («dall’Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione.
Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d’accordo su questo punto di partenza, dell’Italia, più esattamente dell’Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo).
Poiché si parla dell’Italia, e dell’Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l’ unità (e il senso dell’unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell’identità e dell’appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell’ unità la fondatezza di tale affermazione è lampante.
Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell’unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani.
Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell’interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l’elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l’esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno.
Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell’esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all’esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...).
Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico.
Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall’impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest’ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo.
Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti.
Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all’ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre.
Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l’identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo.
Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant’anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo.
Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l’ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent’anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo).
La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d’intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un’opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s’accompagnerà, non c’è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov’è? E, visto che non c’è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere?
P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
Assemblea del Manifesto: 3 milioni per non sparire *
«Senza il vostro aiuto avremmo chiuso l’estate scorsa e non saremmo qui. Ma oggi dobbiamo prendere atto della gravità della crisi e passare dalla difesa all’attacco. Abbiamo bisogno di 3 milioni di euro nell’immediato. Per reinventarci e non sparire». Valentino Parlato, uno dei fondatori del Manifesto, apre l’assemblea degli Stati generali organizzata dal giornale per discutere del proprio futuro con i lettori, gli azionisti, i sostenitori, i collaboratori e gli amici. Sollecita critiche, consigli (che arrivano anche da Enrico Ghezzi), lancia un appello per salvare la testata dall’orlo del baratro per il peso di un debito di 25 milioni di euro accumulato in 35 anni. E annuncia la costituzione di una Fondazione del Manifesto, con una rete di sostegno e di iniziativa politica sul territorio.
Un nuovo grido d’allarme quello di Parlato, con al fianco Gabriele Polo, il direttore del quotidiano comunista, e tutta la redazione. Un grido di allarme che arriva dall’Auditorium di via Rieti, a Roma, ed è successivo alla copertina del giugno scorso con su scritto: «Via Tomacelli, abbiamo un problema». E al recente doloroso avvio dello stato dello stato di crisi con cassa integrazione straordinaria e prepensionamenti. Tutta la stampa, e quella di sinistra in particolare, è in forte crisi. «Oggi vendiamo 25mila copie, compresi gli abbonamenti, mentre erano 50mila quando nel ‘94 Berlusconi salì al governo. Ma poi quando B. nel 2001 tornò a Palazzo Chigi per la seconda volta il nostro popolo ha detto: è minestra riscaldata e non ci ha comprato più», ha detto Parlato. Manifesto, l’Unità e Liberazione: queste tre testate insieme non superano le 100mila copie di venduto nelle edicole. «Eppure l’Unità - ha ricordato Parlato - un tempo vendeva un milione di copie ed Enrico Berlinguer mandò al Manifesto un contributo». Oggi invece è crisi nera di diffusione. «Il Manifesto perde un migliaio di copie vendute l’anno, ovvero 300mila euro - sottolinea Emanuele Bevilacqua, consigliere delegato - e in un triennio ciò significa un milione di euro in meno». Mentre Gabriele Polo rivela che l’uscita sul mercato di Liberazione diretto da Piero Sansonetti, ha sottratto al Manifesto 2000 copie. Ma l’ipotesi del giornale unico della sinistra non decolla.
* www.unita.it, Pubblicato il: 16.12.06, Modificato il: 16.12.06 alle ore 19.31
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Il manifesto è rock di Adriano Celentano
«Quattro ore di fila per ritirare una pensione di 12mila e ottocento lire ...», diceva Memmo Dittongo a Gino Santercole nel film «Yuppy du»: «neanche un vestito salta fuori»... meno male che non ho famiglia con tanti disgraziati... se non c’era Felice che mi prestava il suo... «Felice ero io... Era il 1970 quando scrissi il dialogo della scena in cui i due amici impersonavano due poveracci che sognavano di essere due operai specializzati. Un lusso che per il fatto di essere irraggiungibile li faceva sentire diversi... in un certo senso emarginati, radiati dalla società: «se tu eri un operaio» diceva Santercole, «ce l’avevi un bel vestito, doppio petto...». Ma questa era solo una finzione cinematografica, mentre fuori invece, fuori dal cinema, nella realtà di quegli stessi anni o giù di lì, un gruppo di intellettuali di sinistra capeggiati da quelli che tutt’ora sono considerati i grandi vecchi del manifesto, venivano radiati dal partito per aver espresso delle forti critiche alla linea comunista di allora. Un atto clamoroso, se si pensa che tutto questo avveniva quando ancor a l’Unione sovietica era molto potente. Un dissenso che per la Russia di allora voleva dire scandalo, pericolo, sgretolamento. Ma i grandi vecchi non si diedero per vinti e per tutta risposta, assieme ad altri, fondarono il manifesto. Parliamo di Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luigi Pintor, che Berlinguer considerava il più grande giornalista italiano; forse perché tutti e due erano sardi... Inizia così, quindi, la straordinaria avventura dell’unico giornale senza padrone ossia, senza azionisti di maggioranza, con un’indipendenza assoluta e uno spirito di gruppo che non ha precedenti nella storia dell’editoria, non solo italiana, ma credo mondiale. La differenza fra il manifesto e le grandi testate tipo il Corriere della Sera, Repubblica, Il Messaggero, La Stampa e altri, sta nel fatto che i direttori di questi ultimi, anche se stimati e molto apprezzati per la libertà con la quale dirigono il giornale, hanno pur sempre alle loro spalle degli azionisti di maggioranza che, come una spada di Damocle, pende sulle teste dei validi Giulio Anselmi, Ezio Mauro, Paolo Mieli, ecc. Una differenza che apparentemente sembra minima, ma che nasconde invece la tragica possibilità, che improvvisamente gli azionisti di maggioranza si riuniscano per sbattere fuori Paolo Mieli in quanto non più in linea con l’oscuro pensiero da cui essi stessi dipendono: il business... il Capo supremo per eccellenza a cui non si può e non si deve disobbedire. Un capo naturalmente diverso da quello che ha il manifesto a cui invece si obbedisce in base a una credenza, un’ideologia, sia liberale, marxista o cattolica non importa, purché in ognuna prevalga l’onestà intellettuale di chi la professa e, nel manifesto, naturalmente non lo posso dire con certezza, ma da alcuni segni che traspaiono dalla storia di questo giornale, tutto fa pensare che questa onestà ci sia veramente. Per esempio lo si può intuire dal fatto che lì tutti, sia giornalisti che tecnici, guadagnano tutti uguali e, soprattutto poco... un nobile sacrificio che tuttavia pare non bastare a sorreggere la vita di questo singolare quotidiano che proprio in queste ore, rischia di chiudere per mancanza di mezzi. A oggi la sua vendita in edicola è di sole 30mila copie, con un contributo pubblicitario di appena il 10% quando si sa che oggi nessun giornale potrebbe reggere senza la partecipazione di almeno il 40% della pubblicità. Strano l’atteggiamento dei pubblicitari... Cos’è che vi da fastidio a tal punto da non considerare il manifesto come veicolo promozionale? Un errore tattico che da parte vostra proprio non mi aspettavo. La genialità dei vostri microspettacoli che mette addirittura in serio imbarazzo chi di spettacolo invece ha perso ogni traccia sia alla Rai che a Mediaset, non può accostarsi, se non altro per un senso di sintonia e di eleganza, alla genialità dei titoli ormai famosi del manifesto. Ne ricordo qualcuno in particolare, quando per lanciare l’immagine del giornale, il manifesto fece una campagna con la foto di un bambino che dormiva coi pugni chiusi, come fanno i bambini quando dormono. Sotto la foto una scritta che diceva: La rivoluzione non russa... E poi, ancora, quando il ministro Tremonti dopo le sue dimissioni, apparve sul manifesto con il titolo «Ciao tesoro»! Ma la cosa più stupefacente che credo rimarrà nella storia dei titoli, e anche i cattolici non possono non apprezzare la grande ironia, è quando il Papa è stato eletto: «Il pastore tedesco». Geniale. La storia della prima e della seconda guerra mondiale raccontata in due parole... Chi fa della pubblicità non può non considerare, per quanto non condivida la sua linea politica, il valore di quella fascia di élite a cui arriva un giornale come il manifesto il quale, nonostante la sua bassa tiratura, entra nei ranghi di coloro che contano nei punti cardine della società. Cosa ti importa, se sotto la testata del manifesto c’è ancora la parola comunista? Il tuo compito no è quello di far sì che il tuo messaggio arrivi a toccare tutte le fasce della società e, se possibile anche quelle del mondo animale? Voltaire diceva: «Io non condivido niente di quello che dici, ma darei la vita perché tu lo dica»!
Ciampi: «Lunga vita a una voce libera» di Carlo Azeglio Ciampi
Caro Valentino Parlato, a conferma di quanto Le ho detto ieri rispondendo alla Sua telefonata, sono al vostro fianco a favore di una voce libera, indipendente nel mondo della stampa italiana come il manifesto. In questi 35 anni di vita, il vostro giornale ha dato un contributo importante e originale al dibattito politico e culturale italiano ed europeo. Esso rappresenta un momento significativo per lo sviluppo del pluralismo nel mondo dei mezzi di informazione, principio fondamentale che ho voluto mettere al centro del mio impegno quale Presidente della Repubblica dedicando a tale tema, non a caso, l’unico messaggio alle Camere del mio settennato. Con gli auguri più fervidi di una ancora lunga vita del manifesto Carlo Azeglio Ciampi Presidente Emerito della Repubblica
La marcia dei giovedì di valentino parlato
La campagna di sottoscrizione per la salvezza e il rilancio del manifesto sta andando bene: oggi abbiamo superato i 500mila euro, un terzo di quel che dobbiamo raccogliere per settembre. Con la fiducia di questo risultato (in 35 anni ci siamo conquistati un forte retroterra) lanciamo un’altra iniziativa (sempre pecuniaria): da dopodomani, giovedì 6 luglio e per i cinque giovedì successivi, fino a giovedì 10 agosto, metteremo in edicola uno speciale del manifesto al prezzo speciale di 5 euro la copia. Staremo voi e noi molto attenti ai dati vendita che in quei giovedì dovrebbero salire, in coerenza con il prezzo. I nostri lettori, anche i più giovani sanno bene, che questo dell’aumento del prezzo è per noi una trovata antica e anche di successo: abbiamo venduto copie del manifesto a 10.000 lire e, una volta, a 50.000 lire. Con questi sei numeri a 5 euro la copia ci proponiamo un duplice risultato. Innanzitutto un incasso netto di altri 500mila euro e con ciò arrivare ai due terzi dell’obiettivo di 1,5 milioni di euro. In secondo luogo, ma forse per primo, avere un «voto di fiducia». Questi sei numeri al prezzo speciale di 5 euro saranno numeri degni di collezione. Mi spiego: l’ultima pagina sarà a colori disegnata da studi grafici d’avanguardia di Milano. Ancora con firme di prestigio. Nel primo numero, quello di dopodomani, ci saranno gli articoli del nostro grande amico Osvaldo Soriano sui campionati del mondo di calcio passati. Osvaldo ci ha lasciato,ma i suoi scritti sono attualissimi. Nel numero di giovedì 13 luglio Rossana Rossanda ci ricorderà i due primi giorni di vita di questo giornale, la vivace confusione di allora. Poi nei tre numeri successivi ci saranno racconti inediti di Domenico Starnone e Stefano Benni e anche il nostro Galeano ci racconterà una storia del suomondo. Per l’ultimo degli speciali, quello del 10 agosto,solo immagini. I nostri fotografi da sempre Gabriella Mercadini, Mario Dondero e Tano D’Amico ci regalano alcune foto che spiegano a che cosa serve il manifesto. Dimostrarlo sarà difficile, ma i tre sono bravi. Dimenticavo: tutti questi sei speciali (ripeto a 5 euro la copia) saranno arricchiti e animati dalle vignette del nostro Vauro, ma anche dei bravissimi Altan, Staino, Pat Carra, Elle Kappa che ci hanno fatto un gran regalo. agli abbonati: Per 5 giovedì a partire dal 6 luglio il vostro coupon per acquistare in edicola il giornale non sarà valido perché il manifesto costa 5 euro. Un prezzo da carissimo sostenitore che vi preghiamo di... sostenere. Non discutete con l’edicolante, eppoi il coupon, ricordiamo, non è perduto: l’abbonamento vale 13 mesi, per cui potrete utilizzarlo un’altra volta. Grazie
Ricordo tanto tempo fa l’appello di Pannella per salvare Radio Radicale. Nella mia classe liceale, come in tutte le altre classi di quel collegio cattolico che frequentavo, il nostro direttore (prete) ci invitò a sostenere quella voce, che rischiava di scomparire. Sono grato a quell’uomo per avermi insegnato cos’è la solidarietà, la democrazia, la libertà d’espressione, il grande privilegio che abbiamo nel nostro Paese di poter esprimere la nostra opinione liberamente e senza condizionamenti.
Con molto piacere sosterrò la causa di questo quotidiano e inviterei tutti a seguire l’invito del Manifesto per concorrere a mantenere in vita una voce che non può mancare nel panorama giornalistico italiano.