La bulimia esistenziale nel Paese dei Balocchi
di MICHELE SERRA *
L’adolescenza è un’età di tentativi, non tutti congrui, non tutti fortunati. Questo lo sappiamo da sempre, almeno da quando gli adolescenti eravamo noi, inquieti e muti, pericolosi e in pericolo. Non tutti "bulli", non tutti a rischio, però diffidenti del buon senso dei grandi, questo sì. E avidi di esperienze, questo pure, e con i sentimenti tesi a tutto tranne che alle raccomandazioni dei nostri genitori.
Se però oggi i frequenti (e non nuovi) deragliamenti dei ragazzini sembrano destare un’angoscia speciale, e il cosiddetto bullismo figura sui giornali come un fenomeno quasi epidemico, forse è perché qualcosa è cambiato, radicalmente cambiato, non tanto nelle piccole e mutevoli società dei minori, assembramenti occasionali e veloci, quanto nella grande e strutturata società degli adulti.
Che cosa è cambiato? Per dirla bruscamente, è saltato il meccanismo che regola il rapporto tra i diritti e i doveri. O meglio ancora tra i desideri e il loro limite, come spiegava benissimo Marco Lodoli, giorni fa, su questo giornale. La moltiplicazione dei desideri, nel nostro mondo, è contagiosa, esponenziale e strutturalmente vitale per la moltiplicazione dei consumi.
Ognuno di noi sperimenta su se stesso, e più ancora sui figli, se ne ha, l’enorme difficoltà di introdurre, in questo meccanismo rotto, un calmiere, un contrappeso etico. Se l’aggressività dei minori ci spaventa più di quanto è fisiologico, questo dipende, io credo, dal fatto che la paura si manifesta per causa loro, ma non è paura di loro: è la paura - profondissima - di avere perduto in gran parte gli strumenti per affrontarla. E’ la paura di avere reso inarticolato il linguaggio dei meriti e dei demeriti, dei doveri e dei limiti, in un paesaggio sociale che letteralmente esplode di stimoli a desiderare e a possedere. In fretta. Adesso. Subito.
Per questo oscilliamo, incerti e preoccupati, tra rigurgiti punitivi che sentiamo necessari, e il dubbio che la punizione, anche se giusta, sia la goffa e occasionale ricucitura di uno sbrego così enorme, così irreparabile, che la diga nel frattempo è già crollata. Mentre la città scintilla di vetrine esorbitanti, eros a portata di mano, identità e modelli aggressivi e "di successo", e il mondo intero pare un infinito reticolo di scorciatoie identitarie, fisionomie virtuali, di trucchi per sembrare qualcuno a buon mercato, noi balbettiamo spesso, e con scarsa convinzione, le regole della rettitudine.
Con il terrore (tipicamente d’epoca) di sembrare moralisti per l’evidente, clamoroso scarto tra l’invito a contenersi e un mondo esterno (spesso anche familiare) che si è dato parametri di incontenibilità e di incontentabilità: avere di più, sembrare di più, desiderare di più.
E’ quasi ovvio che questa vera e propria bulimia esistenziale, che già molti adulti riescono a governare con difficoltà, produca effetti incontrollabili nei ragazzini, la cui natura anagrafica è già di per sé portata ad avere fretta di crescere e fretta di essere. E in questo, almeno in questo, le nostre adolescenze furono diverse: l’idea che ci fosse, per crescere, un tempo fisiologico, maledettamente lungo ma insormontabile, e da percorrere tutto intero, era per noi molto chiara.
La politica, per la mia generazione, fu sì un potente acceleratore formativo (come la guerra per i nostri padri, assai meno fortunati), ma era comunque intesa come un percorso, come un divenire. Ora per i ragazzi l’ansia di crescere, di dimostrarsi grandi e forti, potenti e ammirevoli, è diventata un’illusione quotidiana, la tentazione di ogni minuto, a portata di pubblicità, di pantaloni firmati, di chat, con la rete che diventa (vedi il caso di Torino) un facile battesimo per ogni genere di "successo".
Questa distruzione del tempo, il lungo tempo che lentamente plasma le persone e riempie le loro vite, è la voragine dentro la quale abbiamo il terrore di vedere scomparire i più fragili tra i nostri figli. Non riusciamo più a spiegare loro la gradualità del "successo" (che piace a tutti, a noi per primi: ma per definirlo, per capirlo, serve anche capire la fatica che costa), la gioia oscura dell’attesa, la differenza tra il facile che è l’ovvio, e il difficile che è il suo contrario.
Vacilliamo nel ruolo di autorevoli indecisi, di amichevoli inermi, che ci siamo dati anche nel timore di ripetere modelli barbogi e ottusi di tante vecchie famiglie, che credevano di esaurire nel divieto e nella durezza il compito faticosissimo dell’amore. Pure, qualcosa di differente dovremmo provare a dire, e a fare.
Tirarli per le bretelle, magari, i nostri pinocchi, e dirgli "aspetta, prova ad aspettare". Impara ad aspettare. Fai la fatica di aspettare. Tutto o quasi prima o poi arriva, ma solo se hai la forza di aspettarlo. Non c’è crimine, adulto o ragazzino, dei nostri giorni, che non abbia per fondamentale movente la tentazione orribile, falsa, del "tutto e subito". Era lo slogan dei rivoluzionari che fummo. E’ diventata la legge del Paese dei Balocchi. L’unico modo per tornare a essere rivoluzionari è violarla: non tutto, non subito.
*la Repubblica, 19 novembre 2006.
Sul problema, nello sforzo di andare alle radici antropologiche, e teologico-politiche ("cristiane"), nel sito, si cfr.:
TRADIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA E DEL MESSAGGIO EU-ANGELICO
Al lavoro tre ministri. Mastella propone un "tavolo con l’opposizione".
Bindi: "Tutte le Istituzioni insieme per l’infanzia"; Fioroni: "Formare i prof".
Bullismo, governo in campo
"Piano per scuole e famiglie" *
ROMA - Il caso del terribile video di Torino con un ragazzo disabile sottoposto ad atti di bullismo. E poi la denuncia, aperta da Repubblica.it, dei tanti atti di vioenza nelle classi filmate e scaricate nei maggiori siti internet: quasi una vera e propria "moda". E ancora i commenti in rete a volta più agghiaccianti delle stesse immaggini fino ad un inizio di indignazione su internet verso gli autori che ha portato alla rimozione di alcuni video. E, accanto a questo, l’ondata di violenze e molestie compiute da minori su loro coetanei.
C’è una emergenza che esplode nel mondo giovanile, e ora anche il governo inizia a far sentire la sua voce per contrastarla. Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, propone un tavolo di concertazione del governo aperto al contributo dell’opposizione per disegnare un piano di prevenzione. "Il primo passo - dice il ministro - è eliminare a monte tutto ciò che scatena violenza, ad esempio i videogiochi", e in questo senso insiste sulla sua proposta di istituire un Garante per verificare preventivamente il contenuto dei videogame prima della distribuzione sul mercato.
Interventi cui affiancare una strategia di più lunga durata che riguarda essenzialmente il mondo della scuola. Beppe Fioroni, ministro dell’Istruzione, la riassume nella parola d’ordine "alzare la soglia di vigilanza degli studenti", e insieme propone una formazione mirata degli insegnanti per attuare "una strategia del recupero di chi offende, e di difesa delle vittime". Si chiede il ministro: "Ma come è possibile che un istituto e una classe non vedano e non sentano?", ma aggiunge subito dopo che comunque "i responsabili sono stati puniti con una tempestività e una durezza che non ha eguali nella storia della Repubblica".
Più specificamente all’infanzia e alle famiglie si rivolge invece la proposta di Rosy Bindi. Il ministro per le Famiglie sente "la necessità di un nuovo Piano d’azione per l’infanzia con il coinvolgimento di Regioni, Comuni e di quanti (associazioni di volontariato, centri di ricerca e istituzioni culturali) lavorano a fianco dei bambini e delle loro famiglie". "Non possiamo ignorare - aggiunge Rosy Bindi - la solitudine e fragilità di troppe famiglie. Le violenze di questi giorni sono espressione di un disagio profondo e di una grave frattura tra mondo degli adulti e mondo dei bambini".
* la Repubblica,19 novembre 2006
Beni sequestrati per i figli violentatori
«E’ giusto punire i genitori»
Sentenza di Milano, coro di sì
Mastella: minori e abusi, subito un tavolo con
l’opposizione. Il procuratore: «I genitori devono
sentirsi coinvolti al 100 per cento» *
MILANO - Un provvedimento accolto «con immenso favore» dall’Osservatorio sui diritti dei minori, che trova «pienamente d’accordo» i sociologi, che piace alla Margherita e che i giudici commentano rispolverando un principio di diritto generale: se hanno peccato di poca o cattiva educazione o vigilanza, i genitori «devono rispondere dei danni commessi dai figli». Per i magistrati del tribunale civile di Milano è andata esattamente così nel caso dei cinque minorenni accusati di aver abusato sessualmente di una bambina di 11 anni.
I loro genitori non si sarebbero fatti carico della «strategia dell’attenzione» e dell’«educazione sentimentale» per favorire la «crescita sociale dei ragazzi». Di più. Non hanno saputo insegnare ai loro figli le «modalità relazionali con l’altro sesso». Anzi, hanno negato «la gravità dei fatti commessi». Risultato: sequestro dei beni di famiglia come garanzia per l’eventuale risarcimento della vittima in vista dell’esito della causa civile, ancora in corso.
«Purtroppo accade spesso che in questi casi i genitori neghino le colpe dei figli» spiega Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minori milanese. Che aggiunge: «Non conosco il caso ma evidentemente è stata rilevata l’omessa vigilanza dei genitori». Parla di «culpa in educando o in vigilando» anche il procuratore capo del tribunale dei minori di Milano, Vittorio Pilla. «I genitori devono sentirsi coinvolti al 100% nelle scelte di vita dei loro figli e se un sequestro patrimoniale può servire a questo fine, ben venga».
Il tema dei minori violenti preoccupa i politici al punto che il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, preannuncia di voler avviare sull’argomento «un tavolo di concertazione del governo che coinvolga anche l’opposizione, prima che la situazione precipiti». Tornando sul caso di Torino - le violenze filmate e diffuse in Internet contro il ragazzino down - il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni ipotizza «uno sforzo di umanizzazione da parte della scuola» e si chiede «com’è possibile che una classe, un istituto, non veda e non senta?».
Per Pietro Zocconali, presidente dell’Associazione nazionale dei sociologi, più che la scuola sono invece i genitori che non vedono e non sentono abbastanza. Per questo si dice «pienamente d’accordo con una ricaduta penale sulla madre e il padre dei minori che delinquono», perché sono «il riferimento essenziale nel processo di interiorizzazione di modelli e regole». A rivendicare da anni quella ricaduta penale è anche l’Osservatorio sui diritti dei minori.
Il presidente Antonio Marziale ha accolto «con immenso favore» la decisione dei giudici milanesi e ora avverte: «È scaduto il tempo di chi non si adopera pienamente per lo sviluppo psicosociale dei figli». Ancora un plauso ai magistrati, da Cristina De Luca (Margherita), sottosegretario alla Solidarietà sociale: «Non bisogna avere paura di essere severi di fronte al dilagare della violenza minorile. Chiamare i genitori a rispondere delle azioni dei figli è un principio di responsabilità doveroso su cui troppo spesso soprassediamo».
Giusi Fasano
* Corriere della Sera, 19 novembre 2006
CAMPAGNA "SMONTA IL BULLO" - DOCUMENTO: LINEE DI INDIRIZZO DEL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, 05.02.2007.
Scuola: ricerca, 1 vittima su 10 cyberbullismo tenta suicidio Skuola.net, bullismo coinvolge 1 ragazzo su 5
ddi Redazione ANSA *
ROMA. Tre le vittime di cyberbullismo, 1 su 10 ha tentato il suicidio. Lo rivela una ricerca di Skuola.net e AdoleScienza.it su 7000 studenti di 11 scuole superiori di tutta Italia. Il bullismo è di gran lunga più comune: circa il 20% del campione dichiara di esserne stato vittima, contro il 6,5% del cyberbullismo. Eppure, le conseguenze della violenza on line si rivelano ben più pericolose. Tra le vittime di cyberbullismo, infatti, circa la metà ha pensato di togliersi la vita, e una pari percentuale pratica autolesionismo: si fa cioè intenzionalmente del male, si taglia con lamette o altri oggetti appuntiti, si brucia, ha dato pugni al muro, ecc. L’11%, poi, dichiara di aver addirittura tentato di uccidersi.
Le vittime di bullismo online sono particolarmente esposte - osserva Skuola.net - a uno stress dalle conseguenze potenzialmente tragiche. Basti pensare che ben il 77% delle vittime si dichiara depresso e triste. Ad aggravare la situazione, si aggiunge il dato per cui circa il 62% delle vittime di cyberbullismo confessa di essere preso di mira anche nella vita reale.
Tra chi è stato vittima di bullismo, è il 65% a dichiararsi depresso o triste. I tentativi di suicidio dichiarati, anche qui presenti, riguardano circa il 7%. Dati decisamente preoccupanti, ma dalle percentuali significativamente più basse rispetto a quelle riscontrate per il bullismo online. Ancora, il 40% ha pensato al suicidio e il 30% ha praticato autolesionismo.
Le più esposte a entrambi i fenomeni risultano le ragazze, in particolare per il cyberbullismo, dove il 62% delle vittime è femmina. Per il bullismo, si tratta del 53%.
"Il cyberbullismo, il male nascosto agli occhi degli adulti e visibile negli smartphone e nei profili social di tutti i ragazzi, - commenta la dott.ssa Maura Manca, Presidente dell’ Osservatorio Nazionale Adolescenza e direttore di AdoleScienza.it - invade la psiche, distrugge l’autostima e aumenta notevolmente la probabilità di incorrere in un tentativo di suicidio rispetto alle forme di bullismo più fisiche e verbali, nonostante siano molto più diffuse. I dati sono fondamentali per capire cosa realmente abbiamo davanti se non si conosce la diffusione del fenomeno e soprattutto la sua gravità, non si può contenere e neanche prevenire".
CYBERBULLISMO UN “GIOCO” PERICOLOSO
di Maurizio Tucci *
Quali le dinamiche attraverso cui si sviluppa il cyberbullismo? Quale il profilo di “vittime” e “bulli”? Quali gli ostacoli ad un’immediata emersione dei casi critici? Quale il ruolo della famiglia e della scuola di fronte al fenomeno? Si è parlato di questi temi a Milano, sabato 17 maggio, in un incontro-tavola rotonda Cyberbullismo un “gioco” pericoloso, organizzato dall’Associazione Laboratorio Adolescenza e dal Consiglio di Zona 5 del Comune di Milano.
Sono tanti, troppi, gli eventi drammatici che hanno coinvolto, negli ultimi mesi, degli adolescenti e che avevano sullo sfondo, come comune denominatore, episodi di cyberbullismo sviluppatisi all’interno dei social network. E sappiamo bene che dietro ogni evento drammatico che arriva alla ribalta della cronaca ci sono purtroppo decine, centinaia, di casi che, seppure non hanno esiti fatali, compromettono gravemente la serenità di tantissimi adolescenti.
Il bullismo adolescenziale non è un’invenzione recente. C’è sempre stato e tutt’ora non è affatto scomparso, ma si differenzia profondamente da questa nuova versione “online” che, seppure può apparire più blanda perché non implica un “contatto fisico”, è in realtà molto più insidiosa e pervasiva.
Il bullismo “tradizionale” agiva in contesti circoscritti e non interconnessi; implicava un physique du rôle che inevitabilmente scremava a monte il numero dei potenziali bulli; consentiva una difesa più efficace e comunque, una volta cessato, lasciava raramente strascichi. Il bullismo attraverso il web è virale (spesso ci si aggrega per gioco senza nemmeno conoscere la vittima); raggiunge l’intera sfera di relazioni della vittima; mette tutti nelle condizioni di poter essere bulli; lascia segni incancellabili.
E la semplificazione: “cancellati da tutti i social network, non è obbligatorio esserci, anzi” è una “soluzione da adulti” che non hanno la minima idea di cosa significhi essere adolescenti oggi. Oggi la “socialità in rete” è il contesto in cui gli adolescenti trascorrono la maggior parte del loro tempo; è il cordone ombelicale che li tiene legati anche con coloro con i quali condividono una socialità “reale” (compagni di scuola, amici ...). Uscire dalla rete,oggi, è l’equivalente del tagliare i fili del telefono e chiudersi in casa dei nostri tempi.
E allora? Che strumenti abbiamo per difenderli? Quando abbiamo lasciato che i nostri figli iniziassero a uscire di casa da soli, non abbiamo preteso che andassero solo in aree teoricamente protette (scuola, oratorio, casa di amici ...) o che percorressero solo percorsi pedonalizzati (per evitare le automobili), ma abbiamo spiegato loro i rischi che potevano correre e come fare, in ciascun contesto, per ridurli al minimo: dal non accettare caramelle da uno sconosciuto al guardare a destra e sinistra prima di attraversare la strada. Dovremmo fare la stessa cosa anche per spiegare loro quali sono i rischi a cui la nuova socialità del web espone; quali sono i comportamenti prudenti da adottare e quelli imprudenti da evitare.
Il problema, che rende difficile passare dal condizionale all’indicativo, è che la maggior parte dei genitori non ha la minima idea di come si sviluppa la socialità nel web, che è cosa ben diversa dal saper utilizzare il computer e navigare in Internet. Oggi il genitore che ha “l’amicizia” del proprio figlio o della propria figlia su Facebook (e quindi può visitarne il “profilo”) è candidamente convinto di avere sotto controllo la situazione (e magari si compiace di condividere “post” e “mi piace” con una pletora di adolescenti “amici” dei figli), mentre questi vivono la loro socialità “vera” in contesti sempre nuovi e sempre più spregiudicati: da ASK a Chat Roulette a Snap Chat, ai tanti altri “social” che spuntano con la velocità dei nuovi modelli di smartphone.
Ma c’è di più: non conoscere le modalità e le “regole” che strutturano la socialità creata dagli adolescenti in questo mondo di social network, dei quali sono padroni assoluti, rende difficilissimo poter intervenire in modo adeguato nel momento in cui un adolescente non riesce più a controllare il “gioco pericoloso” al quale si è volontariamente esposto e dallo “scherzo” si passa al disagio, alla paura, al gesto estremo. Perché un adolescente non ha il coraggio - e questo ce lo hanno confermato proprio loro nei tanti gruppi di lavoro sul cyberbullismo che Laboratorio Adolescenza ha realizzato quest’anno nelle scuole - di raccontare ai genitori qualcosa che svelerebbe inevitabilmente un “sé altro” da quello che mamma e papà immaginano.
La strada che dobbiamo percorrere (e nel plurale c’è la famiglia, la scuola e tutte le professionalità che sono a contatto con l’adolescenza) è quella di arrivare ad avere un’adeguata conoscenza dei “funzionamento sociale” del mondo della rete. Solo così potremo essere in grado da un lato di indicare ai nostri figli un’etica comportamentale anche in quello “spazio”, dall’altro di apparire ai loro occhi un punto di riferimento affidabile in caso di necessità.
ARCIPELAGO MILANO: Maurizio Tucci
Presidente Laboratorio Adolescenza - 3 giugno 2014
Bullismo? Pericolosi sono gli adulti
intervista a Giovanni Bachelet
a cura di Delia Vaccarello (l’Unità, 21 novembre 2011)
L’Europa non è solo mercati. I progetti europei combattono le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale anche sui banchi di scuola. Secondo una ricerca Arcigay un ragazzo su cinque è un bullo potenziale. Chiediamo a Giovanni Bachelet, deputato e presidente del forum nazionale istruzione Pd, come si dovrebbe attrezzare il nuovo governo per affrontare il bullismo omofobico.
L’ultimo seminario del forum istruzione Pd, tenutosi lo scorso 15 ottobre, aveva per tema il mestiere di docente. I ragazzi vittima di bullismo descrivono docenti indifferenti o conniventi. Le risulta?
«Fin dal primo seminario nazionale di un anno fa intitolato “Scuola alla riscossa” ci siamo occupati di lotta all’esclusione come finalità primaria della scuola affinché nessun talento vada perduto e ogni ragazza e ragazzo possa svilupparsi con gioia fino al massimo delle proprie possibilità per il bene di se stesso, della società e dell’economia. Ammetto però che finora il problema del bullismo omofobico a scuola non è stato specificamente affrontato. L’unico segnale di attenzione è stata forse la mia personale adesione al Gay Pride. La ricerca dell’Arcigay è in questo senso uno stimolo da recepire, i risultati fanno impressione e suggeriscono l’urgenza di affrontare direttamente il tema in ogni sede.
Cosa potrebbe fare il neoministro Profumo per affrontare l’omofobia a scuola: educare i ragazzi al rispetto con attività extrascolastiche? Formare gli insegnanti?
«Punterei a una specifica formazione degli insegnanti non solo, in negativo, al precoce riconoscimento e rieducazione del bulletto, omofobo o meno, ma anche, in positivo, ad una conoscenza essenziale dei processi di formazione dell’identità di genere e di scoperta del proprio orientamento sessuale nell’età evolutiva, nel piú ampio contesto di una formazione in servizio obbligatoria ma finanziata dalla scuola e non dal docente. Nel frattempo un Ministro potrebbe fare qualche gesto altamente simbolico, come visitare il gruppo “Bocconi Equal Students” ed elogiare quell’università per aver espulso per un anno lo studente protagonista di scritte e insulti omofobi la scorsa primavera, negli stessi giorni in cui il Parlamento si rifiutava (vergognosamente) di approvare la legge contro l’omofobia».
Come si fa a far capire che omofobia non è solo la coltellata, ma un complesso di atteggiamenti e linguaggi che negano il valore all’orientamento omosessuale e feriscono ragazzi e ragazze portandoli alla depressione se non a tentare il suicidio?
«Gli studenti vanno aiutati a conoscere e amare se stessi e gli altri, nella pace e nella libertà. In questo lungo lavoro educativo ogni partito associazione o agenzia educativa è almeno altrettanto importante della scuola. Per non parlare delle religioni e delle chiese, che in molti casi sono invece parte del problema anziché della soluzione».
Gli omofobi non sono “eccezioni”, non sono “gli altri”, siamo “noi”. Che consigli darebbe ai docenti?
«Come genitore di quattro figli e professore universitario ho visto che l’ignoranza, l’imbarazzo e il silenzio sono la fonte principale di ogni diseducazione, indifferenza e connivenza. E ogni intolleranza contiene una paura segreta. Anche per l’omofobia ho l’impressione che gli adulti piú pericolosi siano gli ignoranti o quelli che hanno qualcosa da nascondere, a volte anche a se stessi. Consiglierei a tutti noi educatori di conoscere e amare se stessi e rispondere a tutte le domande dei ragazzi, avendo il coraggio di dire subito con un sorriso “non lo so” e poi studiare insieme a loro,quando la domanda ci trova impreparati: questo serve contro l’omofobia, ma è essenziale anche per l’insegnamento della fisica»
L’Italia? Ha dichiarato guerra ai giovani
di Tobia Zevi *
Inquinamento acustico. È questa la sensazione che proviamo quando si sente ragionare di «giovani». Tutti ne descrivono la condizione in termini più o meno pessimistici, propongono paragoni con altre generazioni e mostrano di cercare soluzioni che li possano favorire. Soprattutto tutti ne parlano. Il merito principale di Contro i giovani (Mondadori, pp. 158, euro 15) è quello di scegliere termini chiari, preferendo la descrizione al giudizio, e di elencare una serie ragionevole di misure da prendere. Gli autori, Tito Boeri e Vincenzo Galasso, sono professori alla Bocconi (il primo è indicato tra i consiglieri più vicini a Veltroni), e si collocano con forza nel recente dibattito sul riformismo. L’assunto di partenza è sferzante: «I genitori italiani sono molto generosi con i figli propri e molto egoisti con i figli degli altri». Ed ecco spiegato, in parte, perché i ragazzi di oggi non protestano col vigore che ci si aspetterebbe: considerano molto generosa la propria famiglia d’origine, che li accudisce a lungo, che acquista loro la casa con la liquidazione paterna, che concede confort senza pretendere il rispetto di tante regole.
Il libro prende spunto dalle storie di cinque italiani della classe media prese a caso negli ultimi 50 anni. Si passa dalla Ricostruzione ai giorni nostri, evidenziando le relazioni tra scelte professionali, sentimentali e familiari fino a quelle politiche. E si delineano alcuni sviluppi. Maria, nata nel 1938, racconta il sogno del «posto fisso»: con il suo primo stipendio da insegnante, 120 mila lire, in cinque mesi si comprò una 500, godendo di grande prestigio sociale per il suo impiego nella scuola. Gina, classe 1949, racconta l’inarrestabile ascesa del debito pubblico italiano dal 40% della sua infanzia al 124% del 1994, attraverso la vicenda di un caro amico che diventa progressivamente più povero. Fino a Carlo, 25 anni, dj in una radio locale, che terrorizza sua madre con la prospettiva di un Dico.
Perché le aspettative della «classe media» sono assai meno rosee di ieri? La nostra economia è molto esposta alla concorrenza globale: fonda la sua ricchezza su settori non high-tech, produce meno delle altre nazioni industrializzate ed è imperniata su imprese più piccole, meno portate ad investire su ricerca e formazione. Boeri e Galasso spiegano che, per mettersi al passo, occorre che lavorino tutti e meglio. Ma la forza-lavoro italiana è assai impoverita dall’età pensionabile bassa, dall’alta disoccupazione giovanile e dallo scarso impiego di donne nelle aziende. E bisogna intervenire anche sulla qualità: in particolare su scuola e università
La scuola non è basata sul merito, né per i docenti né per gli studenti. Significativamente, rilevano i due autori, i genitori sono più interessati alla promozione del figlio che alla sua formazione. Si incrina così l’asse scuola-famiglia sul quale si snoda il percorso didattico. Nel VI Rapporto giovani dell’Istituto Iard a cura di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio de Lillo (Il Mulino, pp. 400, euro 29), un’indagine molto ricca sulla condizione giovanile italiana, si registra la percezione della scuola nelle nuove generazioni: i docenti rimangono un punto di riferimento, ma ad esserne meno convinti sono le fasce estreme di studenti, quella dei più bravi e quella dei più carenti. La scuola non è dunque democratica, e utile per il Paese, proprio perché non gratifica i più preparati ma chi trae già gli strumenti in famiglia.
Ma se Sparta piange, Atene non ride... A parte la cronica carenza di fondi, anche il funzionamento degli atenei non consente di promuovere gli istituti e i docenti che si segnalano per ricerca, pubblicazioni e brevetti. Vige una logica di anzianità, che finisce, di nuovo, per penalizzare quei ragazzi che non possono permettersi soggiorni all’estero, corsi di specializzazione ed Erasmus. Un dibattito su questo tema si è acceso recentemente anche in Francia, dove le proteste studentesche prendono di mira le riforme di Sarkozy. Ma i laureati italiani vedono anche poco remunerato il loro «pezzo di carta». Secondo i dati dell’istituto Iard, i giovani non considerano il titolo utile nella ricerca dell’impiego, benché funzionale nello svolgimento del lavoro. E anche la tanto evocata «fuga dei cervelli», rilevano Boeri e Galasso, si riassume con un dato: la media di laureati tra quanti partono è doppia rispetto al resto della popolazione italiana.
Tutti questi nodi vengono al pettine al momento del primo impiego. Nel Dopoguerra il salario di ingresso era più alto di quello medio, mentre oggi i nuovi assunti guadagnano in media il 35% in meno dei lavoratori più anziani. La famosa flessibilità ha portato ad una precarietà generalizzata sia dei lavoratori, che faticano ad arrivare a fine mese, a pagarsi i contributi previdenziali e a formare una famiglia, sia delle imprese, che non ottengono garanzie per investire nella formazione degli impiegati più «giovani». La colpa è anche di alcuni ritardi culturali: dall’istituzione della legge, solo otto padri su cento (8!) usufruiscono del congedo di paternità, preferendo il lavoro ai pannolini e restando insensibili al fulgido esempio del Ministro inglese David Miliband, in famiglia per addirittura quindici giorni. Allo stesso modo, non si impenna la domanda di asili-nido a causa della sanzione sociale, ancora molto forte, nei confronti delle mamme che non si occupano personalmente del figlio; in Italia sono le donne a lavorare maggiormente (in media un’ora in più al giorno) ma ad essere pagate di meno.
I due economisti propongono una serie di soluzioni a queste problematiche: adozione di un contratto unico a tempo indeterminato con tre diversi scatti a tutela crescente (prova, inserimento e stabilità), simile per certi versi ad un’altra idea del presidente francese; istituzione di un reddito minimo garantito (solo a chi ne ha davvero bisogno), per ridurre la povertà tra chi non lavora; misure per favorire il reinserimento delle giovani mamme, prevedendo anche un congedo di paternità interamente retribuito; liberalizzazione delle professioni con pubblicità comparativa, preventivi con tariffe a forfait e nessun numero chiuso fissato per legge (con conseguente abolizione degli ordini); completamento della riforma delle pensioni con il definitivo passaggio al sistema contributivo, abolendo le pensioni di reversibilità per i nuovi lavoratori (che sarebbero comunque coperti dal salario minimo garantito). Sono, queste, strade percorribili: hanno il pregio di affrontare problemi endemici in maniera radicale e scevra da pregiudizi, dopo un’ analisi della società italiana, condotta per tutto il volume, a tratti impietosa ma certamente assai lucida.
Ma la vera sfida per tutti, forse, è abbandonare due vizi nazionali molto comuni nell’affrontare questo tema: disfattismo e paternalismo. Contro i giovani evita di indugiare sulle pecche evidenti della nostra classe politica («sport nazionale») preferendo piuttosto leggere le storture della società nel suo complesso. Allo stesso modo il Rapporto giovani fornisce un quadro privo di banalizzazioni e con qualche sorpresa: emerge che i giovani sono al 90% felici della loro vita, che sono disposti alla flessibilità all’inizio della propria carriera (come sostiene anche il Ministro Melandri nella sua prefazione) purché non diventi cronica, che puntano soprattutto ad un lavoro autonomo e che sono sempre più simili ai loro genitori. Per questa ragione aspirano meno alla propria autonomia, seppure il fenomeno della permanenza prolungata nella famiglia d’origine mostra i primi segni di regressione. Mostrano una maggiore tolleranza nei confronti dei fenomeni di devianza sessuale ed economica, si riavvicinano ai valori religiosi e recuperano forme di impegno sociale e, più raramente, politico. Forse incapaci di grandi entusiasmi, ma neanche generazione-Garlasco, i ragazzi non corrispondono all’immagine che gli adulti hanno di loro, in cui «prevalgono sicuramente i tratti negativi sui tratti positivi».
* l’Unità, Pubblicato il: 07.12.07, Modificato il: 07.12.07 alle ore 9.11
I risultati di una ricerca mondiale presentata al Meeting internazionale di Bari
Ai primi posti il Turkmenistan e il Laos, ma anche nazioni sviluppate come Canada e Svezia
L’ottimismo? Non abita più qui
i giovani italiani ultimi in classifica
La scarsa fiducia nel futuro è quasi sempre legata al problema del lavoro
di GIULIA CERINO *
La platea dei delegati al Meeting internazionale dei giovani in corso a Bari BARI - Ultimi in classifica, insieme al Portogallo, Singapore, India e Ghana: l’ottimismo globale dei giovani italiani è sotto terra. A dirlo è un sondaggio condotto da Gallup Europe e presentato dal suo direttore, Robert Manchin, in occasione del Meeting internazionale dei giovani a Bari. I numeri parlano chiaro: l’indice di ottimismo dei giovani italiani è ben al di sotto della media mondiale, lontano anni luce dalla top ten della speranza, e li relega al 118esimo posto della classifica con un indice di ottimismo del 44 per cento.
Forse perché chi è più indietro non può che sperare in meglio, nella top ten ci sono paesi come il Turkmenistan (primo con un indice di ottimismo dell’87 per cento), il Laos, l’Uzbekistan e le Filippine. "Certo - dice Ila, 23 anni, delegato al Meeting - nei nostri paesi, peggio di così non si può stare". Eppure, il livello di sviluppo economico non è determinante. Rispetto ai coetanei italiani, ad esempio, ben altra fiducia nel futuro hanno gli svedesi, i canadesi, gli australiani e gli olandesi, tutti nelle prime dieci posizioni della classifica.
In bilico invece è la Francia che, con il suo 71esimo posto, si attesta sul valore medio mondiale di ottimismo (indice a quota 54%). "E chi ci crede che troveremo lavoro domani. Io non credo più a niente, mi sento inerme, incapace di realizzarmi". Nicola, che vive a Bari e al Meeting è presente come partecipante, sembra esprimere perfettamente la condizione rilevata dalla ricerca Gallup Europe. Le ragioni dietro il pessimismo delle giovani generazioni italiane si nascondono dietro due parole chiave: disoccupazione e precariato. Secondo l’inchiesta, infatti, la questione del lavoro rimane in testa a tutte le priorità indicate dagli interpellati.
"L’immigrazione, il crimine e le tasse - dice Lorenzo, delegato al Meeting barese - contano di meno quando si tratta di mangiare e poter vivere sereni, andarsene di casa e sentirsi soddisfatti di sé stessi e realizzati. Oggi si anche tenuto un workshop che si chiama ’A decent job is a right’. Non a caso era pieno d’italiani...". In realtà, neppure il problema della disoccupazione basta a spiegare il prevalere del pessimismo tra i giovani italiani: "Quella è un’emergenza che tocca tutti - dice Virginie, ventiquattro anni, francese di nascita - . Io ho vissuto in Francia, in Belgio e Inghilterra e loro sono messi anche peggio degli italiani. La questione non è solo la precarietà. Si tratta di un modus vivendi. Di un pessimismo generale e fisiologico intrinseco alla nostra generazione di insofferenti".
Dall’inchiesta Gallup emerge del resto che la ridotta spearanza dei giovani italiani non è isolata. Nel mondo, tra le nuove generazioni il 49% pensa infatti che nel futuro la vita sarà peggiore di come è adesso. In Europa, inoltre, gli ottimisti sono in netta minoranza: il 38 per cento. "Non andrà mai bene niente - dice Luca, 24 anni, anche lui al Meeting come spettatore - : siamo in Europa ma ci posizioniamo nelle classifiche con l’Africa. Prima eravamo quasi in Africa e volevamo l’Europa. Non ne usciremo mai".
Non è un caso, forse, che tra i ragazzi italiani la ridotta fiducia nel futuro vada di pari passo con la scarsa considerazione per gli effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente. I giovani italiani se ne curano poco, anzi, quasi per nulla. Dai dati riportati dall’inchiesta emerge infatti che sotto i 30 anni di età, le conoscenze in materia di climate change sono bassissime. Tanto basse da fare del Belpaese l’unica nazione europea con la0 Grecia a rientrare nella "fascia della bassa consapevolezza", la stessa di cui fanno parte tutti i paesi dell’Africa e buona parte dell’Asia. In altre parole, su una scala da 10 a 60 in cui 60 è la massima consapevolezza di ciò che accade e accadrà nel mondo a causa del climate change, i giovani italiani si fermano a quota 20/30. L’unica certezza condivisa con gli altri è che "la causa dei cambiamenti climatici è da ricercare nell’azione irresponsabile dell’uomo".
© la Repubblica, 20 gennaio 2010
BULLISMO: IN ITALIA INTERESSA IL 25% DEI RAGAZZI *
FIRENZE - Un fenomeno che in Italia coinvolge il 25% dei ragazzi in età scolare e in alcuni paesi del mondo raggiunge persino punte del 40-50%. E’ il bullismo, secondo i dati presentati al XIII congresso dell’Escap, la Società Europea di Psichiatria Infantile e Adolescenziale, in programma fino a domani a Firenze. Un fenomeno che comprende, come spiegato dal professor Bennett L. Leventhal, docente di psichiatria all’Università dell’Illinois, diverse manifestazioni: uso di appellativi svalutanti, comportamenti di esclusione sociale, intimidazioni, vessazioni, fino a veri e propri soprusi fisici. "Prendere vittima ed esecutore ed agire sulla loro relazione non serve - afferma Leventhal -. Per poter essere efficace, l’intervento deve essere allargato alla comunità e anche la famiglia ha un ruolo in questo processo". Secondo il professore, "l’atteggiamento politico nei confronti del fenomeno deve essere più specificatamente orientato verso prevenzione ed educazione: l’azione è efficace se si parte dalla base, non dall’apice della società".
* ANSA» 2007-08-28 16:41
Lettera a Fioroni
«I nostri figli omo»
L’Agedo, l’associazione dei genitori di omosessuali, ha scritto una lettera al ministro della Scuola. Eccone uno stralcio. (il manifesto, 07.04.2007)
«Signor Ministro, bastava una telefonata. Ancora meno: bastava fornire al ragazzo un numero di telefono, o un indirizzo, o una sigla, per salvargli la vita. In una città come Torino c’era solo da scegliere a quale organizzazione affidarlo, che l’avrebbe preso in carico, lui e la tutta la famiglia. Ebbene questo non è stato fatto dalla scuola, per ignoranza profonda. Non è un caso. La risposta della vicepreside "solo sciocchi scherzi crudeli" è normale, identica a tante altre che abbiamo ricevuto. Possiamo fornirle un bel dossier sull’indifferenza o sui discorsi avventati del corpo insegnante e degli psicologi scolastici. È ora di rimediare e in fretta, Signor Ministro, questa morte deve essere l’ultima. I progetti contro il bullismo omofobico sono pronti da anni. Lei che si mostra sensibile al bullismo crescente, si deve rendere conto che quello omofobico, che c’è sempre stato, è in crescita esponenziale, alimentato sappiamo bene da quali poteri in questo momento, e dai docenti stessi, che non si rendono conto che le loro opinioni sugli omosessuali possono ferire e uccidere».
In certi istituti diventi qualcuno "almeno se tieni i piedi sul banco". Difficile piegare un ribelle che trasforma le sanzioni in medaglie
Bullismo, la scuola come un set
"Noi, violenti per diventare famosi"
Prepotenza e popolarità. "I prof? Sanno tutto ma non ci fanno caso", I casi di violenza hanno un comune denominatore "l’assenza degli adulti"
di MICHELE SMARGIASSI *
MILANO - C’è un’isola dei famosi in ogni scuola, forse in ogni classe. Guai a chi c’incappa: rischia di naufragare. Approdarci non è da tutti, bisogna esibire certe qualità. C, 12 anni, prima media, è fortunato: "Io gioco bene a calcio e piaccio alle ragazze", così non deve "cercare rissa" per diventare famoso. Invece nella scuola di V, 17 anni, istituto geometri, per diventare famoso devi almeno "tenere i piedi sul banco durante la lezione", ma è più facile se fai come quello che "rutta in faccia al prof". E il prof? "L’ha fatto sospendere per due giorni, ma quando è tornato era più famoso di prima, gli hanno fatto l’applauso". Come è dovuto ai famosi.
Noi li chiamiamo "bulli". Ma è un’etichetta inventata da noi adulti per far credere che abbiamo compreso il fenomeno. Invece è probabile che non abbiamo capito un bel niente. C e V non dicono "bulli". Dicono: "i più famosi della scuola". C e V sono due ragazzi "presi in carico" dal Centro terapia dell’adolescenza di Milano. Hanno entrambi storie pesanti di bullismo da riparare. Uno come bullo, uno come vittima. Ma senza sapere chi è l’uno e chi è l’altro sono indistinguibili. Perché C e V nuotano nello stesso brodo maleodorante. Volenti o nolenti s’adeguano agli stessi disvalori. "Da noi", racconta C, "quelli di terza mettono in fila i primini, poi fanno a gara di sputi, chi viene colpito deve fare un passo indietro, è una specie di flipper". "Da noi", racconta V, "quelli famosi si fanno "prestare" i soldi senza restituirli, o pretendono le merende, mica per mangiarsele, solo per far vedere che sono potenti".
Ripeto: e i prof? "È inutile, sanno tutto ma non ci fanno caso. Dicono solo: imparate a farvi rispettare". Dall’inizio dell’anno, V è accolto a scuola dagli sberleffi della sua isola dei famosi, "frocio-frocio". Non è certo il solo: secondo l’Arci-gay, più di metà delle vittime si sente apostrofare così. V è un ragazzo tutto sommato ottimista e paziente, però quando l’hanno incantonato, "bacia una ragazza davanti a noi oppure sei frocio", non ne ha potuto più, "Perché fanno così? Sono andato a dirlo alla prof, mi ha risposto ’ma dài, non te la prendere, sono dei bambocci’, poi s’è girata e ha continuato a scrivere al computer".
Di storie così Francesco Vadilonga, psicoterapeuta del Cta, ne ha ascoltate a centinaia, compresa quella emblematica di D, che estorceva accessori griffati ai compagni ma era a sua volta bersaglio di insulti razzisti, anello mediano della catena bullo-vittima-bullo. Non racconta casi clamorosi, le violenze da codice penale che bucano le cronache e impensieriscono le procure: ma sorde tirannie quotidiane, ossessive, esasperanti, ripetute per mesi. Hanno tutte un comune denominatore: "L’eclisse degli adulti. Non l’assenza, perché i professori reagiscono, ci sono punizioni. Eppure, per gli studenti, gli adulti restano presenze pallide, distratte, disinteressate a quel che accade davvero tra i banchi".
Le storie che i ragazzi scrivono sui giornalini online (sul portale La fragola di Repubblica.it) sembrano ambientate in comunità di soli minorenni: dalla famigerata scala antincendio della scuola Sordi di Roma che sembra la stradetta dove i bravi aspettano don Abbondio, al ragazzino "preso in giro da tutti" nelle medie di Arbus, a cui "non si trova una classe", fino al grido di dolore della Boccaccio di Certaldo: "Gli adulti non vengono mai a sapere". Quando lo sanno, spesso smorzano, come il preside dell’istituto di Monselice dove in novembre furono girati video di imbarazzanti beffe ai professori: "Non è bullismo, solo un caso di particolare esuberanza, un momento di vivacità, seppur esagerata".
Adulti e ragazzi condividono gli stessi spazi, ma vivono in mondi diversi. Quello dei ragazzi, come nel Ponte per Terabithia, film sul bullismo sotto un velo di fantasy, è popolato da figure spaventose che gli adulti non vedono, tranne quando un video irrompe su YouTube, e allora il mondo dei grandi esplode d’indignazione o di fastidio, oscillando tra l’allarme di Prodi e Napolitano ("prove di forza che sono prove di viltà") e la prudenza infastidita del ministro Fioroni ("Basta col tritacarne mediatico, siamo in presenza di cifre irrisorie"). C’è, in verità, un piano anti-bulli del ministero, con simpatici adesivi, spot, blog, numero verde e sostanziale delega alle scuole; ma inizia proprio buttando acqua sul fuoco: "I fatti di bullismo, talvolta eccessivamente enfatizzati dai media...".
Dovremmo invece essere grati ai cellulari. I video violenti e disgustosi, palpazioni di natiche docenti, sberle ai disabili, astucci contundenti, sono almeno feritoie che ci permettono di sbirciare in un mondo altrimenti invisibile. I cui protagonisti sono tre: i carnefici; le vittime; e l’audience. Le classi funzionano come un circuito mediatico. Chi "gira" i video? Non i bulli, ma la troupe dei vice-famosi, la corte che circonda i prepotenti e vive di luce riflessa. È l’omaggio dei gregari ai capi, e funziona solo perché c’è, un gradino sotto, la platea anonima che guarda e gradisce lo show, l’auditel che decreta il successo del "famoso" di turno.
A Saronno da cinque anni l’Ipsia "Parma" (cartelli con le "regole" nei corridoi, tutor di classe) affronta i prepotenti studiando i "normali". I loro valori. O disvalori. "Tredici ragazzi su cento trovano normale offendere un coetaneo. Per 12 non è grave tenersi i soldi avuti in "prestito". Per 9 è giustificabile picchiare un compagno", elenca senza entusiasmo il professor Mauro Pasqua, responsabile del "Progetto bullismo". "È su questa base etica che i prepotenti costruiscono la loro popolarità". Fama, celebrità: ecco i nomi corretti del bullismo. Il suo vero fine. La prepotenza è solo il mezzo.
Un’indagine della Società italiana di pediatria rivela che per l’84% degli adolescenti i bulli diventano tali "per essere ammirati". "Cercano di emergere da una massa in cui evidentemente temono di non valere nulla", continua Pasqua, "non a caso i problemi più gravi li abbiamo nelle prime classi, dove i ragazzi non si conoscono e cercano di affermare un’identità visibile, nel bene o nel male. La prepotenza è un biglietto da visita".
Farsi riconoscere. Essere additati con rispetto. Il quarto d’ora di celebrità di Warhol: "Se non hanno nient’altro da mostrare", insiste C, "diventano famosi facendo paura". Le regole? "Spesso sono regole stupide, fatte per essere sfidate. Da noi", C scuote la testa, "è vietato correre lungo le scale, e c’è chi corre apposta per far vedere che non ha paura dei prof". Difficile piegare un ribelle che trasforma le sanzioni in medaglie.
Se l’Osservatore romano invoca più severità, a Saronno hanno iniziato a sostituire le sospensioni con lavori utili, corsi obbligatori, attività di studio: "Inutile mandarli a casa a rimbambirsi con la tivù". Bisognerebbe forse smontare il giocattolo dall’interno, togliere ai "famosi" l’ammirazione che sta alla base del loro prestigio, ma un "famoso" umiliato può reagire in modo tutt’altro che ingenuo: "I video girati in classe spesso sono un’arma impropria di vendetta contro i professori", ha avvertito la direttrice scolastica regionale del Veneto, Carmela Palumbo.
Bisognerebbe lavorare con le famiglie. "Ma è difficile", sospira il preside dell’Ipsia di Saronno, Alberto Ranco, e racconta che "all’assemblea sul bullismo abbiamo invitato mille genitori, ne sono venuti ventisette. Comincio a pensare che le famiglie facciano parte del problema più che della soluzione". "Sospendere i violenti vuol dire rimandarli nell’ambiente che ha prodotto la violenza", ha esclamato l’assessore pugliese Silvia Godelli a un convegno sul bullismo organizzato a Bari, città dove un preside è stato picchiato dai genitori di un alunno.
Eppure i bulli non sono il prodotto automatico del disagio domestico. "Se tutte le famiglie difficili generassero bulli", dice Ranco, "avrei i carabinieri a scuola ogni giorno". Dev’esserci qualcosa, nel microcosmo scuola, prima esperienza sociale degli adolescenti, che amalgama in modo imprevedibile la "quantità spaventosa di schifezze", per dirla con Marco Lodoli, di cui i quindicenni vengono riforniti dalla tivù e dai miti collettivi. Per gli studenti qualunque, la scuola è un luogo di tensioni: due mesi fa un questionario del Minghetti, prestigioso liceo classico di Bologna, ha svelato che otto studentesse su dieci, tra i banchi, soffrono di ansia, stress, panico, tachicardia, vomito.
Per i bulli, invece, andare a scuola è gratificante: è il loro palcoscenico, senza copione da rispettare. Viene in mente Il signore delle mosche, romanzo anti-russoiano di William Golding: l’isola dei bambini senza adulti e la sua feroce legge naturale. La scuola, allora, è la nicchia ecologica dove un nuovo oggetto sociale, l’adolescente senza qualità, elabora in solitudine una nuova etologia morale. In realtà un’antica morale, che C riassume così: "Sei famoso se tieni gli altri sotto di te".
* la Repubblica, 4 aprile 2007
Il ministro lancia "La scuola siamo noi", giornata dell’orgoglio scolastico. A maggio più di 10mila istituti faranno entrare i cittadini a "dare un’occhiata"
Scuola, Fioroni lancia lo school-day
Porte aperte contro il bullismo
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni ROMA - Porte aperte, a maggio, per le scuole Italiane. Per un giorno, gli istituti mostreranno il loro lavoro a cittadini e amministrazioni locali. E’ l’obiettivo di "La scuola siamo noi", l’inizativa voluta dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni per dimostrare che non ci sono solo bulli e telefonini nelle classi, ma docenti, studenti e operatori che costruiscono il futuro del paese.
L’evento, spiega il ministro, "darà alla società italiana l’opportunità di conoscere lo straordinario patrimonio delle oltre 10mila scuole italiane che istruiscono i nostri ragazzi e continuano a sfornare buone pratiche e progetti innovativi che non sono filtrabili attraverso quella fessura pessima che è il telefonino". E, possibilmente, porre fine alla "gogna mediatica" a cui il mondo della scuola è sottoposto. "Gli episodi di bullismo - spiega Fioroni- che sono gravi, ma sono solo una goccia nel mare delle tante buone pratiche messe in campo dagli istituti"
La giornata dell’orgoglio scolastico coinvolgerà tutte le 10.769 Istituzioni scolastiche presenti sul territorio nazionale. "Sarà una grande mobilitazione - sottolinea il ministro - E servirà anche a dimostrare la straordinaria capacità di innovazione che hanno le nostre istituzioni scolastiche. Le scuole - chiude Fioroni - dimostreranno di non essere cittadelle arroccate, ma luoghi capaci di mettere in campo una straordinaria progettualità"
* la Repubblica, 3 aprile 2007
«Dietro il bullismo a scuola c’è una perdita di dignità della figura del docente, che è visto spesso come un "morto di fame"». Parla Vincenzo Cerami
Insegnanti umiliati e offesi
«Oggi il prestigio è legato al potere economico. Non è riconosciuto chi ha cultura o vive decorosamente. A chi insegna va ridato il proprio status sociale»
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 13.04.2007)
Vincenzo Cerami, negli anni Cinquanta, quando era ancora un ragazzino a Roma ha avuto la fortuna di avere un insegnante d’eccezione, Pier Paolo Pasolini, appena giunto nella capitale dopo aver lasciato il Friuli natale. Nello scrittore c’è sempre stata una passione pedagogica, sviluppata prima attraverso la pratica dell’insegnamento e poi attraverso la scrittura, con la sua forte attenzione ai mutamenti antropologici del mondo giovanile. Negli ultimi scritti "luterani", del 1974-1975, già metteva in rilievo, in modo fortemente polemico e paradossale, la crisi di una scuola italiana non più in grado di educare, ma di subire i valori negativi della nostra società. Cerami ora ci racconta come è cambiata la scuola in questi cinquant’anni, quali valori sono venuti a mancare, creando il disorientamento che stiamo vivendo oggi.
Ce n’è tanto di bullismo sulle pagine dei giornali e nelle cronache televisive. Non ti sembra la ricerca morbosa di un sensazionalismo ad effetto, più che la necessità di far riflettere sulla scuola di oggi?
«Se devo dire la verità, credo che questi fenomeni di bullismo non riguardano la scuola di per sé, non sono una diretta conseguenza di ciò che avviene nelle aule scolastiche. Fanno parte dei movimenti sociali dei giovani, in senso più esteso. Nascono da un contesto altro che si riflette sulla scuola in una forma involontaria. Sono il sintomo di una scontentezza, di una impossibilità a capire la vita, soprattutto di una crisi nei confronti dell’autorevolezza. Ci sono tantissimi insegnanti in Italia, maestri e professori, che svolgono con competenza il loro lavoro, credendoci e appassionandosi, apportando una sorta di miglioria in una situazione di crisi che non dipende totalmente da loro. Eppure restano nascosti. Hai mai visto un servizio in tv che racconti un’esperienza positiva svolta in una scuola italiana e ce ne sono moltissime? Tutto questo passa sotto silenzio. Gli episodi belli non fanno notizia. I giornalisti cerca no invece questi spunti e li fanno diventare totalizzanti, falsando la realtà. Ne esce una scuola ridotta. La vera scuola italiana è molto meglio di come la si descrive».
Non è certo tutto rose e fiori comunque... Qualche problema c’è, anche se non è propriamente quello del bullismo...
«Al di là di quelle che sono le strutture politiche, sociali e sindacali, credo che alla base ci sia la questione della perdita di dignità della figura del docente che è vissuto dalla società e soprattutto dai ragazzi come "un morto di fame" e non come una figura paterna o materna che sta lì a far del bene. C’è stata una progressiva perdita di dignità degli insegnanti e non certo per colpa loro. Loro hanno assunto nell’immaginario collettivo un’immagine degradata e umiliata e lo studente non si sente protetto. La scuola riguarda la cultura e il modello di sviluppo di un paese. La società di massa ora basa il prestigio sul potere economico. Non è più riconosciuto chi ha cultura e magari vive dignitosamente. Il modello vincente è quello dell’ignorante, ma ricco. Prima, nella civiltà contadina, l’identificazione avveniva attraverso valori seri, autentici e non fittizi come avviene oggi. È un processo di cui aveva parlato con grande acutezza Pasolini, descrivendo la rivoluzione antropologica degli anni Sessanta e Settanta e già anticipando quello che è avvenuto. A scuola quindi è necessario recuperare dignità e status sociale per gli insegnanti, affinché il loro lavoro educativo possa ritornare ad essere un valore e ciò comporta rispetto da parte degli alunni».
Tu eri un ragazzino e quando andavi a scuola ti trovavi di fronte non un insegnante qualsiasi, ma un professore colto, letterato come Pasolini. Qual è stata la sua lezione?
«Beh è un periodo lontano, si stava uscendo dalla guerra, faticosamente, eravamo negli anni Cinquanta. Ha immediatamente dato a noi ragazzi l’immagine della cultura come strumento per capire il mondo. Ci faceva studiare a memoria Dante Ali ghieri, ma non solo, anche Caproni e Bertolucci che allora non erano poeti famosissimi, che avevano solo quarant’anni. E noi, in questo modo, avevamo l’impressione di vivere anche la poesia di Dante come un fatto contemporaneo. Il suo grande merito è stato quello di proporci la cultura come fatto concreto, non come status sociale. E ciò implicava che noi intuissimo la cultura come fattore di crescita. Il sapere del resto serve a togliere la paura. Questo diventa un fatto vitale. La scuola non può perdere questa funzione».
Sulla scuola però allora, negli anni sessanta e sessanta, si era aperto un dibattito pedagogico molto interessante: tutto non si esauriva nei salotti televisivi. I grandi intellettuali proponevano idee per l’educazione. Non trovi?
«Certamente, anzi c’è un libro che è stato fondamentale per me, e che ancora oggi trovo molto attuale, Descolarizzare la società di Ivan Illich, in cui propone di cambiare la concezione del sapere, non più inteso come concezione ontologica, ma che si scopre attraverso i ragazzi, partendo dalle loro esigenze per allargare forme di cultura che sono già dentro di loro. Il grande poeta Giorgio Caproni che era stato maestro di scuola, a volte mi raccontava degli aneddoti. Una volta doveva fare geometria e allora è entrato in classe, molto preoccupato, dicendo che il direttore voleva sapere qual era l’area della lavagna. Allora hanno iniziato a discutere lui e i ragazzi e siccome le lavagne erano a quadretti, contandoli, misurandoli sono riusciti a trovare la superficie. Tutto partendo dal gioco».
Perché la scuola di oggi attraversa una profonda crisi?
«Perché riflette una società che si sta cercando, non trova più la sua identità. Un esempio? Una volta l’industria era molto attenta a studiare i bisogni, i sogni degli italiani. Li intercettavano e creavano l’oggetto giusto che potesse dare risposte a queste aspettative. Nascevano così la penna, la Lambretta, la Cinquecento, la Vespa. Con l’ omologazione culturale prima e la globalizzazione poi l’italiano è diventato uguale allo svedese, all’argentino, a qualsiasi altra persona. Il mercato ha bisogno di creare lui il sogno e tutta una mitologia che l’oggetto contiene. Non si parte più da un bisogno culturale. Aveva ragione Giovanni Paolo II quando nei suoi discorsi puntava il dito sul mercato. La scuola, per uscire dalla crisi, può contrastare in minima parte, lo strapotere imposto di questa società. Ha il ruolo delicato di aiutare a destabilizzare da queste mitologie, per aiutare i ragazzi a trovare la propria autenticità che non significa avere le scarpe alla moda a tutti i costi. È deleterio che le famiglie modeste, per non far sfigurare il figlio, facciano la fame, per usare un termine forte, pur di comprargli i vestiti alla moda, affinché non gli venga la depressione e non si senta diverso. La crescita come persona passa da un’altra parte: non ha niente a che fare con il mercato e con le mode».
A cent’anni ancora indomabile l’eterno monello Gian Burrasca
All’anniversario del celebre personaggio creato nel 1907 da Vamba il festival «Quantestorie» dedica oggi un convegno a Milano. Un’attenzione critica meritata per quello che resta ancor oggi uno dei nostri classici più audaci e originali
di Francesca Lazzarato (il manifesto, 21.03.2007)
Anche in un paese di arroccatissimi non lettori come il nostro accade che alcuni libri ci siano familiari perfino quando non li abbiamo letti, sempre che ad abitarli siano dei «tipi» immortali il cui nome è entrato a far parte del linguaggio corrente. È il caso, per esempio, del Giornalino di Gian Burrasca e del suo protagonista, trasformato dalla popolarità e dall’uso comune in sostantivo maschile invariabile, ovvero, dice il dizionario, in «giamburrasca: bambino terribile, monello, dal nome di un personaggio creato dallo scrittore italiano Luigi Bertelli, in arte Vamba (1858-1920)».
Ancora ben presente nell’immaginario di grandi e piccoli grazie alle innumerevoli edizioni del libro, ma anche alle molte versioni cinematografiche e televisive, a musical recenti e a fumetti non troppo remoti, il celeberrimo bambino ha appena compiuto cento anni e sembra portarseli piuttosto bene, visto che al momento le sue avventure figurano nei cataloghi di una dozzina di editori, da Einaudi al Castoro (la cui edizione per il centenario è uscita pochi mesi fa), da Feltrinelli a Nuages, che nel 2005 le ha pubblicate con le elegantissime illustrazioni di Andrea Rauch, da Rizzoli a Giunti, la cui classica edizione con copertina verde è stata letta da generazioni di ragazzi.
Fu il 17 febbraio del 1907 che sul «Giornalino della Domenica» fondato e diretto da Luigi Bertelli apparve la prima delle cinquantacinque puntate in cui erano suddivise le esilaranti sventure di Giannino Stoppani detto Gian Burrasca (raccolte poi in volume da Enrico Bemporad nel 1912), ed è proprio per celebrare questa ricorrenza che la quarta edizione del festival di letteratura infantile Quantestorie, organizzato dall’Associazione Nautilus con la collaborazione della Provincia di Milano, ha dedicato a Giannino una serie di manifestazioni: una bella mostra di illustrazioni sui monelli dei vecchi libri per bambini curata da Pico Floridi, lezioni per le scuole, proiezioni di film «giamburraschiani» e, infine, un convegno che si svolgerà questo pomeriggio nella Sala Napoleonica dell’università e che vede la partecipazione di Vittorio Spinazzola, Roberto Denti, Luca Clerici, Goffredo Fofi e Manuela Trinci.
Una attenzione critica del tutto meritata per quello che resta uno dei nostri classici più insoliti e originali, così audace da rinunciare al lieto fine e assai lontano dallo stile lacrimoso, edificante, retorico e normativo dei libri per bambini dell’epoca: un diario come Cuore, certo, ma da esso lontanissimo sia per i contenuti che per le soluzioni formali, legate all’uso di una lingua fortemente «parlata» che mimava il modo di esprimersi di un autentico bambino di nove anni e cercava di restituircene la logica e il modo di pensare, rafforzando l’effetto con le illustrazioni dell’autore, ispirate ai disegni infantili.
Tratto molto liberamente da un testo americano tradotto da Ester Modigliani (forse The Story of a Bad Boy di Thomas Baily Aldrich, forse un anonimo A bad boy’s diary) del quale Vamba utilizzò quasi per intero i primi capitoli, il Giornalino di Gian Burrasca fu accolto trionfalmente dai lettori giovani, un po’ meno dagli adulti che lo vedevano traboccante di «cattivi esempi» per nulla stigmatizzati e non erano affatto lieti di vedersi messi alla berlina.
Perché il senso vero del libro, saltava agli occhi, era non solo quello di dare finalmente voce ai bambini veri, raccontando l’epopea di un monello urbano inarrestabilmente vivace, ma anche quello di sbeffeggiare senza pietà l’Italietta giolittiana, che Vamba avrebbe voluto veder spazzata da un vento nuovo e alla quale proponeva, attraverso il «Giornalino della Domenica», un progetto pedagogico forte e definito. Ed è indubbio che Bertelli (interventista, irredentista, antisocialista: oggi lo definiremmo forse un qualunquista con sfumature prefasciste, come risulta chiaro, del resto, dalla lettura di certe sue opere successive) abbia voluto parlare contemporaneamente ai grandi e ai piccoli, mettendo alla berlina la doppia morale della classe politica del tempo e della borghesia che l’aveva espressa. Per farlo si è servito di un personaggio straordinario, traboccante di un’energia e di una curiosità che la pedagogia «contenitiva» dell’epoca non poteva domare, ma assai diverso, tutto sommato, dai monelli e dai cattivi ragazzi che pure abitavano in abbondanza la letteratura infantile, da Pinocchio al tragico Franti, dal picaresco Tom Sawyer a Pierino Porcospino e ai maligni, stilizzati mostriciattoli Max und Moritz, tutti in qualche modo espressione di una profonda alterità e di una ribellione a tratti realmente eversiva.
In Giannino, infatti, non c’è ombra di malignità e neppure autentica voglia di rivolta: è piuttosto un’anima candida piena di buone intenzioni che prende alla lettera quanto gli si dice, finendo ogni volta per sottolineare il grottesco divario tra i comportamenti «ufficiali» e la pantomima delle convenienze, tra l’apparenza e la sostanza, insomma lo scarto micidiale tra ciò che gli adulti dicono e quello che invece fanno, percepito con tanta chiarezza dagli occhi dei bambini.
Ecco dunque sfilare la zia bigotta che coltiva il dittamo legato a un vecchio e clandestino amore, le sorelle che praticano la maldicenza su vasta scala e fanno buon viso a persone detestate, il cognato Maralli, socialista e libero pensatore, che si sposa segretamente in chiesa, l’orribile coppia che governa il collegio Pierpaoli e, in un’orgia di nobili dichiarazioni, specula sul vitto dei giovani convittori... Giannino li smaschera tutti, limitandosi a seguire le istruzioni per l’uso della vita che loro stessi gli hanno fornito. E nel farlo parla costantemente di politica, in modo aperto ed esplicito, a un lettore bambino cui, invece, i libri usavano somministrare dosi massicce di ideologia opportunamente mascherata, come la medicina amara condita con una zolletta di zucchero che avrebbe dovuto farlo crescere da buon patriota e buon cristiano.
Proprio questo registro «politico», questo puntare il dito contro l’ipocrisia che connota in profondità comportamenti sia pubblici che privati, rende Gian Burrasca ancora leggibile, ancora esemplare in un’Italia contemporanea sepolta sotto una coltre di appelli ai «valori», di chiacchiere politically correct , di strenue difese della sacralità della famiglia, di cilici al vento, il tutto mediaticamente e incessantemente esibito.
Un’altra ragione per rileggerlo, tutt’altro che secondaria, è la possibilità di misurare un mutamento della condizione infantile sul quale sarebbe utile riflettere ancora una volta. Dall’infanzia borghese chiusa e costretta dell’epoca di Giannino (alla quale si affiancavano comunque altre infanzie, quella contadina e quella proletaria, poi cancellate e assorbite dal modello dominante), che consentiva tuttavia margini di ribellione e offriva spazi segreti in cui la figura del discolo aveva ampio diritto di cittadinanza, si è passati infatti a quella sedotta e sedata dai consumi e dal luccichio del video, in tempi in cui si può forse essere bulli, ma non monelli. Per sua fortuna, Gian Burrasca non abita più qui: oggi come oggi, una serie di sedute dallo psicologo e qualche assaggio di psicofarmaci non glieli toglierebbe nessuno.
Bullismo. Perché si è giunti allo scontro fisico?
di Umberto GalimbertiTratto ( la Repubblica, 13 marzo 2007)
Il bullismo c’è sempre stato come eccesso dell’esuberanza giovanile. Oggi ha passato paurosamente il limite, al punto da generare nei genitori angoscia, negli insegnanti impotenza, e nella società nel suo complesso disorientamento. Le ragioni vanno cercate nell’eredità del passato, nella cultura del presente e nell’incertezza del futuro. Vediamole ad una ad una.
A partire dal Sessantotto si è registrato un passaggio dalla "società della disciplina" dove ci si dibatteva nel conflitto tra permesso e proibito alla "società dell’efficienza e della performance spinta" dove ci si dibatte tra il possibile e l’impossibile, senza nessun riguardo e forse nessuna percezione del concetto di "limite".
Questo passaggio s’è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era "emancipazione" all’insegna del "tutto è possibile", per cui la famiglia era una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro un’alienazione, il consumismo un aberrazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si doveva liberare. La parola d’ordine era: "vietato vietare".
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini "sociali", si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di impostazione americana, giocata però a livello "individuale", dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all’infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il limite tra un atto di esuberanza e una vera e propria aggressione, tra un atto di insubordinazione e il misconoscimento di ogni gerarchia, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l’abuso sessuale?
E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone siano saltate, determinando un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi. Questa è la ragione per cui i giovani non si sentono mai sufficientemente se stessi, mai sufficientemente colmi di identità, mai sufficientemente attivi se non quando superano se stessi, senza essere mai se stessi, ma solo una risposta ai modelli o alle performance che la televisione e internet a piene mani distribuiscono, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, insubordinazione alle norme sociali.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano riscattato dall’eticità dei costumi». Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ha forse affrancato i nostri giovani dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d’obbedienza, ma li ha innegabilmente condannati al parossismo dell’eccesso e dell’oltrepassamento del limite. Per cui genitori e insegnanti non sanno più come far fronte all’indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isolano nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, all’escalation della violenza, allo stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia. Tutti questi sintomi sono iscrivibili, come scrive il filosofo francese Benasayag: «nell’oscurarsi del futuro come promessa e nell’affacciarsi di un futuro come minaccia».
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. O come scrive il sociologo tedesco Falko Brask: «Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra».
Ciò significa che nell’adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla "libido narcisistica" (che investe sull’amore di sé) alla "libido oggettuale" (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, accade che si inducano gli adolescenti a studiare con motivazioni "utilitaristiche", impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che "ci si salva da soli", con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
E così i nostri giovani hanno smesso di dire "noi" come lo si diceva nel Sessantotto, l’hanno detto sempre meno dopo il crollo delle ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete ossessivamente "io" dalle pareti strette come quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la "banda".
Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l’impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti nella scuola, negli stadi, all’uscita delle discoteche. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese.
E questo perché oggi i nostri ragazzi si trovano ad avere un’emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l’emozione e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo. L’eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo li portano a oscillare tra lo "stordimento dell’apparato emotivo", attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga, o il "disinteresse per tutto", messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia e della non partecipazione che conducono all’atteggiamento opaco dell’indifferenza.
Di fronte a questi ragazzi, che inconsciamente avvertono l’incertezza del futuro che li induce ad attardarsi in una sorta di adolescenza infinita, resta solo da dire a genitori e professori: non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in maniera distruttiva.
Quei bulli di genitori
di MASSIMO GRAMELLINI (La Stampa, 4/3/2007)
Quando portavo a casa un brutto voto, poteva succedere che mio padre mi rifilasse un ceffone. Era un genitore all’antica: quelli moderni i ceffoni li danno al professore. I veri bulli sono loro. Tendono agguati ai presidi, prendono a testate gli insegnanti, minacciano di morte l’arbitro che ha annullato un gol alla squadretta di periferia in cui milita il pupo. Non si comportano da padri e madri, ma da fratelli maggiori. Mossi dall’unica preoccupazione di difendere l’onore della famiglia, oltraggiato dai giudizi di un estraneo al quale non si riconosce più alcuna autorità.
Il codice a cui si ispirano è composto da un unico articolo: mio figlio ha sempre ragione. Se va male a scuola, la colpa è dei professori che non ne sanno esaltare il talento. Se la ragazzina lo fa soffrire, la colpa è di quella poco di buono e dei suoi genitori, che l’hanno tirata su così male. Se prende una multa in motorino, la colpa è del vigile che non ha multato anche il motorino del suo amico. E se alla partita di basket siede mestamente in panchina, la colpa è dell’allenatore che lo discrimina, preferendogli uno molto più scarso. La tendenza a considerare la prole un prolungamento vittimista del proprio ego era già assai sviluppata in passato. Ciò che le impediva di trasformarsi in violenza era il rispetto sacro del proprio ruolo e di quelli altrui. Una mamma convocata a scuola per discutere le attitudini manesche della figliola mai si sarebbe sognata di prendere a botte la preside, come invece è successo qualche giorno fa.
Non perché la preside avesse necessariamente ragione. Ma perché era la preside. E fare il genitore sovversivo veniva ancora considerata una contraddizione in termini, essendo il genitore l’archetipo di qualsiasi istituzione umana. Adesso si ragiona come nei clan e ogni critica ai figli e al modo di educarli viene vissuta come un’umiliazione da lavare col sangue. Non che ci si senta più responsabili di prima nei loro confronti. Ma non si è disposti a concedere ad altri il diritto di prendere una decisione che li faccia soffrire.
L’aggressione davanti alla scuola media Lombardi. La vittima: "Mi hanno detto di venire fuori, che mi dovevano uccidere". Poi la denuncia ai carabinieri
Bari, genitori picchiano preside Aveva vietato i cellulari in classe
Il ministro Fioroni: "E’un problema del Paese, non solo della scuola. Viviamo una vera emergenza del vivere civile e riguarda tutti: scuola, genitori, famiglie, mass media" *
BARI - Il preside della scuola media Lombardi di Bari è stato aggredito questa mattina da alcuni genitori. L’uomo, Ugo Castorina, era già stato insultato alcuni giorni fa, per imposto ai ragazzi di lasciare i cellulari prima di entrare in classe.
"Tu devi venire fuori, io ti devo uccidere". Queste le parole pronunciate dai genitori contro il preside, secondo quanto ha raccontato lui stesso. "In due si sono introdotti nella scuola - ha detto, uscendo dalla caserma dei carabinieri dove ha sporto denuncia - mentre entravano i ragazzini. Io normalmente mi metto in fondo al corridoio della scuola in modo da avere la visione generale della situazione. Ho chiesto a queste due persone che cosa volessero, perchè per loro non era il momento di entrare, ma loro pretendevano che li ascoltassi immediatamente. Gli ho detto: guardate, non si può e non si deve in questo momento, abbiate pazienza, attendetemi nella hall di ingresso e poi ne parliamo. Invece loro hanno reagito prima verbalmente e poi anche con i fatti, con qualche tentativo di calci e pugni. C’è stata una piccola colluttazione e poi sono intervenuti in aiuto alcuni insegnanti ed il personale della scuola".
"Non li conoscevo - ha proseguito il preside - sono persone che non si sono mai fatte vedere nella scuola. Non so cosa volessero dirmi. Sono scappati quando hanno capito che stavano arrivando i carabinieri ma l’ultima cosa che ha detto uno di loro è stata:"Io ti devo uccidere".
"In Italia - dice il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni commentando quanto accaduto a Bari - c’è una vera emergenza del vivere civile e del rispetto delle regole che riguarda tutti: scuola, genitori, famiglie, mass media. E’ un fenomeno di fronte al quale ciascuno deve assumersi la propria parte di responsabilità perché si tratta di un problema del Paese, certo non solo della scuola. Educare significa non solo dare competenze ma formare uomini. E questi cittadini - ha sottolineato il ministro - dobbiamo formarli tutti insieme: l’insegnamento del rispetto della legalità deve iniziare dando l’esempio, a cominciare da quello dei genitori". L’aggressione avvenuta oggi, conclude il ministro, è "intollerabile" soprattutto perchè ha come protagonisti dei genitori, che dovrebbero essere "il primo livello educativo" nella società. E non è la prima volta che accade.
* la Repubblica, 3 marzo 2007
Giovanni Bollea: «Il telefonino deve essere vietato, come a teatro»
di Massimo Franchi *
«Non è diminuita l’autorevolezza della scuola, è diminuito il rapporto genitori-scuola e genitori-figli». Con la lucidità che solo un 93enne come lui può avere, Giovanni Bollea è «preoccupato, ma ottimista» per il futuro della scuola italiana. Gli episodi di cronaca che hanno fatto parlare di emergenza bullismo portano il neuropsichiatra infantile a chiedere «a tutti un’assunzione di responsabilità». Ieri ha accolto il suo sesto pronipote (Francesco) che come tutti gli altri crescerà con la massima del bisnonno: «Un bambino felice sarà un adulto maturo».
Professor Bollea, non passa giorno che non si parli di bullismo e filmati pornografici su internet. Cosa sta succedendo agli adolescenti italiani?
«Da sempre l’adolescenza è un momento di scombussolamento. Oggi poi abbiamo un più veloce sviluppo dell’intelligenza: i ragazzi dai 10 ai 13 anni sono più precoci, dal punto di vista intellettivo sono al livello di un 15enne di 20 anni fa. Di diverso ci sono stampa, tv e internet che amplificano esempi deleteri che possono rovinare anche le belle intelligenze: non devono essere educate con “Saranno famosi” o lavori consimili. Su internet la creazione di filtri da frapporre in modo che certi esempi e settori non siano alla portata di tutti è da auspicare».
E la scuola come può attrezzarsi per evitare che accadano cose del genere?
«Il fenomeno del bullismo è cambiato. Una volta avveniva prevalentemente in classe, ora è invece fuori dalle aule che gruppi di compagni rubano il telefonino o picchiano i loro coetanei. Il problema è che con questi episodi la scuola si sente troppo sotto accusa da parte di media e genitori e quindi non riesce a reagire e a portare avanti al meglio la sua funzione educativa. Quasi tutti gli episodi sono a sfondo sessuale: ebbene, perché a scuola non si fa educazione sanitaria o sessuale? A 15 anni si è nel momento più difficile della maturazione sessuale. Bisogna parlare di questi temi, guidando gli adolescenti ed evidenziando i pericoli che poi i genitori devono riprendere nel rapporto con i figli stando più con loro».
E sull’uso dei cellulari a scuola qual è la sua opinione? Il ministro Fioroni ha detto che non vanno proibiti.
«Abbiamo abbandonato la divisa scolastica, però abbiamo aperto le porte al telefonino. Ora, la scuola è qualcosa di più delle sale da divertimento e il cellulare deve essere ritirato all’entrata e il suo uso vietato come a teatro o in un salone da musica. Questo non deve essere vissuto come un proibizionismo, ma come una norma di civiltà e di rispetto».
Lei insite spesso sul rapporto scuola-genitori. Cosa non funziona oggi?
«I genitori vedono la scuola solo come un distributore di diplomi e non come un formidabile aiuto educativo: è sbagliato e può portare ad una scorretta valutazione della funzione della scuola da parte dei loro figli. Se non c’è fiducia reciproca fra insegnanti e genitori non si va lontano».
E la funzione di media?
«Mi sento di rilanciare l’invito che feci anni fa ai direttori di giornale nel corso di un convegno a Trento. Gli lanciai questa sfida: se il fatto che pubblicate riguardasse vostro figlio, come vi comportereste? Ecco, la stampa non deve propagandare episodi di offesa sessuale che riguardano minori».
Scuola, genitori e media: tutti assieme con quale obiettivo e con quali strumenti?
«L’obiettivo deve essere quello di venire incontro ai desideri, dare risposte ed interessare i ragazzi per formare dei cittadini. Per ottenerlo io avevo già proposto di far votare i ragazzi almeno per le elezioni amministrative già a 16 anni. In più c’è un problema del salto tra il diploma e il mondo del lavoro e allora credo che alla fine delle superiori bisogna creare degli educatori d’indirizzo per guidare i ragazzi alla scelta giusta. Infine i media dovrebbero dare risalto ai tanti giovani che fanno, ad esempio, volontariato».
In conclusione, è ottimista per il futuro della scuola italiana?
«Sì, perché la scuola italiana è ancora una delle migliori in Europa. Senza lasciarsi prendere dal negativismo ha le risorse per formare nel modo più aperto ed europeo le nuove generazioni».
* l’Unità, Pubblicato il: 19.02.07, Modificato il: 19.02.07 alle ore 10.14
Fioroni: "Portiamo le classi allo stadio". Numero verde e "vedette" contro il bullismo di Massimo Franchi *
Si parla di bullismo ma la proposta più significativa arriva sugli stadi: «Sarebbe bello che le squadre consentissero di far frequentare le classi con insegnanti e genitori nelle curve: ci sarà qualche introito in meno, ma il calcio ne guadagnerà sicuramente». Il sasso è lanciato dal ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni all’interno di un discorso sul ruolo di tutto lo sport «per educare alla sconfitta, al rispetto delle regole, per imparare lo spirito di squadra».
E in questo senso arriva anche l’altra proposta di Fioroni: «Sarebbe anche bello vedere che dopo una partita ci si rischiera di nuovo perché non c’è stata una guerra con vinti e vincitori ma semplicemente una gara che si potrà ripetere senza bisogno di violenze», come avviene già in molti sport, rugby prima di tutti. Le proposte sono diventate ufficiali grazie alla lettera al ministro dello Sport, Giovanna Melandri, al commissario straordinario della Federcalcio, Luca Pancalli, e al presidente del Coni, Gianni Petrucci. Le reazioni per ora sono positive, anche se dalla riunione del pomeriggio non è venuto fuori niente di ufficiale.
Un cambio culturale per salvare il calcio, dunque. La medicina è la stessa per combattere il bullismo e la violenza nelle scuole. «Il prerequisito è sempre la vigilanza democratica e una partecipazione convinta degli altri studenti e dei docenti contro i violenti». Per il resto il ministero ha messo insieme 4 linee di indirizzo per un budget di 2 milioni di euro.
Una campagna di comunicazione che prevede azioni mirate per ogni ordine e grado di scuola con il coinvolgimento di stampa, radio e tv; un Osservatorio permanente in ogni Regione per monitorare il fenomeno, un numero verde (800669696) con in linea esperti e psicologi e un sito internet (www.smontailbullo.it) per fare rete fra tutte le scuole. Infine sanzioni disciplinari «eque, tempestive e proporzionate alla gravità delle azioni compiute»: sospensioni non superiori a 15 giorni, con deroghe in casi di particolare gravità, ma soprattutto la previsione di punizioni che offrano percorsi educativi di recupero.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.02.07, Modificato il: 06.02.07 alle ore 13.27
Presentato oggi il pacchetto di iniziative messe a punto dal ministero della Pubblica Istruzione. Ogni regione avrà un osservatorio permanente. Previsti percorsi di recupero per i ragazzi
Numero verde, sito web e sanzioni ecco il piano "Smonta il bullo"
Fioroni: "Dobbiamo sostituire il ’me ne frego’ con il ’mi interessa’"
ROMA - Osservatori regionali permanenti, un numero verde nazionale, un sito internet, una campagna nazionale di informazione e sensibilizzazione, sanzioni più severe e percorsi di recupero. Sono questi i punti salienti della campagna nazionale del ministero dell’Istruzione contro la violenza a scuola. Si intitola "Smonta il bullo," ed è costata due milioni di euro.
E allora ecco come si articola, il piano messo a punto dal ministro Giuseppe Fioroni. Cominciando col fatto che presso E dunque: presso ogni regione ci sarà un osservatorio permanente con il compito di lavorare in stretta collaborazione con le istituzioni locali per valorizzare buone pratiche e competenze. Il numero verde nazionale 800669696 funzionerà con dieci postazioni di ascolto alle quali segnalare casi, chiedere informazioni generali e consigli su come comportarsi in situazioni critiche. Una task force di psicologi, insegnanti, genitori e personale del ministero si farà carico di fornire pareri e consigli.
Parte poi il sito internet www.smontailbullo.it che sarà punto di raccordo, raccolta e divulgazione delle informazioni utili provenienti dagli osservatori e dagli operatori del numero verde, nonchè una vetrina per le azioni e le campagne promosse dalle singole scuole.
Quanto alle sanzioni, il principio sarà quello di grande attenzione e severità, ma soprattutto di attuare percorsi di recupero. Saranno commmisurate alla gravità del gesto; la più grave, è la sospensione che dovrà durare non più di quindici giorni, tranne casi di particolare gravità. Il Ministero promuoverà poi una serie di azioni tese ad educare gli studenti sul corretto utilizzo di nternet e delle nuove tecnologie, soprattutto in relazione all’esigenza di far acquisire agli studenti il significato e il rispetto del diritto alla privacy propria e altrui.
Non è casuale, dunque, che nella presentazione del piano antibullismo il ministro Giuseppe Fioroni fosse affiancato dal garante della privacy, Luigi Pizzetti. "Il modo per vincere la violenza nelle nostre scuole, come negli stadi - ha spiegato Fioroni - sta nell’educare i nostri ragazzi al rispetto della dignità delle persone e al rispetto dell’altro. Per questo docenti e studenti hanno una straordinaria opportunità, quella di non lasciare solo nessuno di fronte alla violenza e soprattutto di far sentire parte della comunità educante sia il diversamente abile che il più debole".
Secondo quanto spiegato da Fioroni, le iniziative della campagna serviranno "a monitorare, informare, trasmettere buone pratiche, dare indicazioni, supportare l’autonomia scolastica, sapendo che le azioni educative spettano ai singoli piani dell’offerta formativa nelle scuole e partono da una straordinaria campagna di cittadinanza attiva fatta dai docenti e dagli studenti che si propongono di sostituire il ’me ne frego’ con il ’mi interessa’".
* la Repubblica, 5 febbraio 2007.
Bullismo in crescita, il germe della violenza
di Davide Madeddu *
Simone di andare a scuola non ne voleva più sapere. A casa non parlava, in classe anche meno. Per lui, tredici anni, un fisico molto esile per un metro e mezzo di altezza, gesti semplici e normali - come superare il cancello, varcare il portone d’ingresso della scuola - diventavano un supplizio. Sapeva che nell’andito avrebbe incontrato i suoi «aguzzini». I "bulli" con cui doveva fare i conti ogni giorno. Coetanei che lo «prendevano in giro» e gli davano «calci e pugni e schiaffi in testa». Simone, che per uscire dall’incubo ha cambiato scuola, non è che una delle tante vittime della violenza tra gli adolescenti.
Le cronache d’altronde sono ricche di episodi che comprendono aggressioni fisiche, casi di violenza sessuale e psicologica, telefonini usati come armi per filmare angherie e crearsi una claque. È quello che gli studiosi chiamano «bullismo». Un fenomeno che gli studi e le statistiche danno in forte crescita soprattutto negli ultimi due anni.
I dati elaborati dalla Società italiana di pediatria sono eloquenti. Quasi otto ragazzi delle scuole medie su dieci hanno conosciuto da vicino atti di bullismo, o perché ne sono stati vittima, o perché lo hanno subito i loro amici.
«Negli ultimi due anni la Società italiana di pediatria ha effettuato uno studio sugli adolescenti che frequentano le scuole medie - spiega Maurizio Tucci, responsabile comunicazione della Sip e responsabile dello studio - ebbene oltre il 70 per cento del campione ha detto di avere avuto a che fare con questo fenomeno come protagonisti o spettatori».
Un fenomeno che, come spiega il responsabile dello studio, continua a crescere in maniera vertiginosa. «Rispetto all’anno scorso c’è la percentuale è lievitata di almeno dieci punti percentuale - prosegue - un dato, a nostro avviso, allarmante e pericoloso che fa sicuramente riflettere, soprattutto perché sono veramente pochi coloro che dicono di essere pronti a chiedere aiuto agli adulti». Il fenomeno non riguarda solamente le scuole medie ma anche gli altri gradi. «Il nostro studio riguarda le scuole medie - prosegue -ma questo fenomeno si registra già dalle scuole elementari e alle superiori».
Dati confermati anche da quelli elaborati dall’Osservatorio nazionale per l’infanzia che segna una crescita esponenziale del fenomeno dal 2001 a oggi. «Se i dati vengono posti a confronto con quelli di altri paesi - si legge nel rapporto - ne emerge a primavista un quadro sconfortante,dato che risultano assai più elevati ad esempio quasi doppi rispetto a quelli ottenuti nel Regno Unito».
Fernando Nonnis, antropologo, docente all’università di Cagliari nei corsi di specializzazione post laurea per anni si è dedicato allo studio del fenomeno. «Non possiamo certo dire che il bullismo sia una novità - spiega - certo però possiamo invece confermare che il fenomeno sia in crescita e che sia cresciuto anche il livello di comunicazione».
Per Nonnis, che per conto del ministero dell’Istruzione ha studiato il fenomeno tra Sardegna, Campania e Sicilia, ad alimentare il fenomeno c’è anche l’indifferenza. «Che interessa anche i docenti». «Davanti a certi comportamenti non basta indignarsi o dare le colpe alla famiglia, è necessario studiare l’intero contesto - dice -. La famiglia ideale esiste solamente nei programmi della Moratti. Chi sta a scuola deve fare i conti con la quotidianità e i problemi e quindi deve intervenire concretamente».
Anche perché, come aggiunge l’antropologo «la famiglia felice, unita che collabora con i docenti perché i ragazzi hanno problemi, esiste nella pubblicità dei biscotti e nei programmi della Moratti, non nella realtà». Un esempio? «I fatti di cronaca che si sono registrati i giorni scorsi sono una prova - aggiunge - e non devono essere sottovalutati». E le cronache dei giorni scorsi parlano di adolescenti che fanno sesso in classe e si fanno riprendere dagli altri alunni. Undicenni che filmano le violenze compiute su una coetanea. O ancora "baby gang" che picchiano altri adolescenti per rubare sotto lo sguardo vigile delle telecamere incorporate nei videofonini. Eppoi ci sono gli altri episodi: quelli del sesso all’ora di ricreazione o in classe ripreso con i telefonini e messo in rete. Quello che è successo all’istituto tecnico commerciale di San Benedetto del Tronto, dove una quattordicenne e un quindicenne hanno fatto sesso sulla cattedra, filmati dai compagni, i quali hanno poi scaricato il video su internet. Episodio su cui indaga oggi la magistratura.
Un fenomeno considerato preoccupante anche da Gaetano Dragotto, il procuratore generale di Ancona che all’inaugurazione dell’anno giudiziario non ha nascosto la sua preoccupazione per i casi di«devianza minorile, violenze di gruppo, diffusione di materiale pedopornografico», e per il «ripetersi di omissioni di denuncia per reati perseguibili d’ ufficio commessi in ambito scolastico».
Fenomeni preoccupanti dove, come spiega Emilio Lupo, psichiatra e presidente nazionale di Psichiatria democratica anche la società e il mondo degli adulti hanno la loro fetta di responsabilità. «L’uso dei telefonini e, nel caso particolare, della nuova tecnologia - spiega- fa vedere e vivere la vita ai giovani come se fosse un grande gioco o videogioco». Telefonini che diventano alla fine lo strumento di comunicazione degli adolescenti. «È come se uno comunicasse - aggiunge -i filmati e la violenza per dare una risposta ai propri problemi». Un contesto in cui gli adolescenti, a sentire Lupo, diventano vittime e carnefici. «Come la società della comunicazione ti brucia tutto, così succede per la violenza: ti brucia tutto senza che tu ti assuma le tue responsabilità. La violenza diventa la risposta ai problemi».
Come uscire da questa situazione? «Secondo me si può fare a tutti i livelli, coi ragazzi bisogna parlare e non bisogna essere funzionale alla loro fretta, parlarci, fare conoscere - spiega -. Molto spesso a loro è proprio sconosciuto il dialogo. Naturalmente poi questa fretta coinvolge anche gli adulti e la qualità e il livello di comunicazione ne risente molto». Non a caso lo psichiatra cita l’esempio del pranzo e dei fast food. «Se andiamo a vedere sta scomparendo la condivisione, anche quella di mangiare tutti assieme a tavola, c’è la fretta, sempre fretta. Come nei videogiochi».
Quindi? «È necessario fare capire ai giovani l’importanza delle cose. Prendiamo l’esempio dei mezzi di trasporto. Se tu vuoi far diventare un buon cittadino, non devi dirgli che lui deve avere la possibilità di salvaguardare la metropolitana o la scuola perché lo fanno tutti,ma perché è per il bene della società e non è una cosa fine a se stessa». Non è tutto. «Ai ragazzi si deve spiegare che il rispetto dei senza fissa dimora, degli immigrati non è una cosa fine a se stessa ma è il bene della società. Di una società civile».
La psicologa Francescato: "E’ l’anticamera degli ultrà"
* l’Unità, Pubblicato il: 04.02.07, Modificato il: 04.02.07 alle ore 20.14
Le dichiarazioni del capo dello Stato durante l’incontro con i rappresentanti delle consulte degli studenti d’Italia ed il ministro della Pubblica Istruzione
Bullismo, interviene Napolitano: "E’ viltà e mina il vivere civile" *
ROMA - Il bullismo e la violenza nelle scuole sono atti di viltà che vanno ad impedire al ragazzo la propria realizzazione, e glli nega quelli che sono i primi diritti garantiti dalla Costituzione, a partire dal diritto allo studio previsto dall’articolo 3. Giorgio Napolitano è durissimo nello stigmatizzare gli ultimi episodi verificatisi nelle scuole italiane. Bisogna, ha detto ricevendo nel Salone dei Corazzieri i rappresentanti delle consulte degli studenti d’Italia ed il ministro Giuseppe Fioroni, giungere ad un rapporto di tolleranza e convivenza "anche tra italiani e stranieri" nel "rispetto delle regole sancite dalla Costituzione".
"Certo", ha sottolineato nel suo intervento il ministro Fioroni, il bullismo e la violenza sono "fenomeni infinitesimali" rispetto ad un corpo, come quello delle istituzioni scolastiche, sostanzialmente sano e forte. Sono comunque, secondo Fioroni, "fenomeni che vanno affrontati e risolti", "senza girarsi dall’altra parte" e facendo sentire "il debole non più solo ed avendo il violento reinserito e recuperato".
Napolitano è partito facendo i complimenti agli studenti per come si sono impegnati nello studio della Costituzione. "La Carta", ha spiegato, "va letta, studiata, imparata e messa in pratica" soprattutto alla luce della "vasta adesione della maggioranza dei cittadini ai suoi valori manifestata con il referendum dello scorso 25 maggio.
L’ostacolo maggiore alla sua messa in pratica inizia quando si ha nelle scuole "l’abbandono alla violenza ed al bullismo", ha proseguito, "che è arroganza, prevaricazione, prova di forza che sono viltà". Tutto questo si traduce nell’ "allontanare il giovane dalla realizzazione delle proprie aspirazioni". L’unica risposta a questo punto è la creazione di un "costume di tolleranza, tra italiani e anche tra italiani e stranieri, di impegno democratico, di rispetto delle regole che sono sancite dalla Costituzione".
(la Repubblica, 6 dicembre 2006)
Per questo Socrate fu messo a morte
Diceva Oscar Wilde: "Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol dire che le domande che ti sei posto non erano giuste"
Risponde Umberto Galimberti *
Gli studenti sono, e tutti noi siamo, in Italia, cattolici. Se non lo siamo più, lo siamo stati. Abbiamo ricevuto, sin dalla più tenera età, un’educazione religiosa. E ci siamo trovati cattolici senza averlo mai davvero scelto. Per questo il metodo della catechesi è il più diffuso, penetrante e non tematizzato metodo di insegnamento-apprendimento cui sia sottoposta la stragrande maggioranza degli italiani dai tre ai diciotto anni. Ciò comporta una serie, poco studiata, di implicazioni. Le quali, tra parentesi, sono abbastanza simili a quelle che conseguono dai metodi dell’imbonimento televisivo.
Intanto si bombarda subito il bambino con una serie di risposte già date e presentate come vere, e non si permette che nelle piccole menti acerbe si formi l’abitudine a porre domande e a cercare risposte. Difficilmente verrebbe in mente a un bambino di tre anni di domandarsi chi abbia creato il mondo. La domanda, così formulata, non è affatto spontanea e naturale, ma risente di millenni di cultura. Non può essere che una domanda indotta. Apprenderà la risposta e la ripeterà solo perché così gli è stato chiesto di fare e perché vede, che, facendolo, incontra approvazione.
Le risposte date continueranno a precedere le domande, nell’orientare il sapere. In questo modo non si trasmette la consapevolezza della storicità del sapere, della relatività dei punti di vista. Si otterrà il consenso, non la consapevolezza. Si indurrà ad aver fede nell’autorità, non a credere in se stessi e alla ricerca come metodo.
Lungo tutto il percorso degli studi una "materia" come la religione - fondata sulla credenza e sul principio di autorità - convive beatamente, nelle scuole di ogni ordine e grado, con discipline che si richiamano all’esperienza e alla razionalità scientifiche, cioè a fondamenti contrari a quelli della religione e sviluppatisi storicamente in conflitto con essa. Su menti così forgiate dalla pura ideologia faticheranno a mettere radici altri saperi.
Come stupirsi se nelle classi i visi, davanti alle sollecitazioni a pensare, restano attoniti, vagamente inebetiti? Se la lucidità e il rigore logico lasciano spazio a un disordine intellettuale in cui convivono un po’ di razionalità, un po’ di superstizione, in perfetta par condicio e non suscita problema alcuno consultare l’oroscopo e riconoscere il valore della scienza? E nessuno nota le contraddizioni, nessuno ne è disturbato o si premura perlomeno di spiegarle agli studenti. Ma se il professore, il preside, i capi non dicono niente, significa che andrà bene così. Dopotutto, è dall’alto che deve calare la predica, no?
Lei pone, per la pratica didattica nelle nostre scuole, un problema di fondamentale importanza che antecede la buona capacità o meno degli insegnanti di avviare al sapere e la buona volontà o meno degli studenti di accedervi.
Le scuole, non solo in Europa, ma in ogni parte del mondo sono state istituite dall’ordine religioso (sia esso cattolico, musulmano, ebraico, buddhista, taoista), il quale è persuaso di possedere la verità e di avere solo il compito di trasmetterla a quei vasi vuoti (vasum receptionis, diceva Paolo di Tarso) che sono le menti dei giovani. Di qui la loro passività nell’apprendimento, il loro disinteresse, la loro demotivazione.
Solo in Grecia, 2500 anni fa, con la nascita della filosofia, si affacciò un nuovo metodo che, in contrapposizione a quello "catechetico" che si pratica in ambito religioso dove si presume di possedere la verità, prese il nome di "metodo socratico".
Socrate, a differenza dei sapienti, riteneva di non possedere alcun sapere (sophia), ma solo amore per il sapere (philo-sophia), ossia di un buon metodo di ricerca per rinvenirlo, non cessando di interrogare e mettere in crisi le opinioni diffuse e condivise, ma mai verificate. Era il primo abbozzo del metodo scientifico, che rifiuta l’autorità perché questa paralizza e rende vana la ricerca.
Ciò era ben chiaro anche a Galileo che, nella sua difesa al processo che gli era stato intentato dalla Chiesa, ebbe a rispondere che sarebbe assurdo pensare che Dio abbia fornito agli uomini organi di senso e capacità mentali per scoprire i segreti della natura, la cui verità sarebbe già contenuta e rivelata nel gran libro della Bibbia.
Galileo fu costretto a ritrattare e il metodo catechetico, che abolisce la ricerca a favore dell’apprendimento passivo di una verità già costituita, ebbe il sopravvento e diventò la forma dell’insegnamento nelle nostre scuole anche quando furono laicizzate.
Se vogliamo costruire la testa ai nostri giovani dobbiamo stimolare in loro, in primo luogo, non tanto l’apprendimento quanto la "ricerca", che si combina con la naturale "curiosità" giovanile, su cui si radica l’"interesse", della cui carenza gli insegnanti sono soliti lamentarsi ogni volta che parlano con i genitori.
Ma che interesse può avere uno studente per un sapere che gli si offre come già costituito senza il suo anche minimo contributo? E ancora, che atteggiamento critico può acquisire uno studente se in tutti gli ordini di scuola che ha frequentato non gli è mai stata data la possibilità di interrogare il sapere costituito, ma solo di acquisirlo per poi riferirne nei termini in cui gli è stato insegnato? Nel metodo catechetico, invece che socratico, io vedo il peggior male della scuola e la sua funzionalità al potere, che meglio può governare se nessuno si pone domande e supinamente accetta tutto ciò che dall’alto gli viene detto.
* la Repubblica/D, 23.11.2006
Se non volete chiamarli mele marce
di LORENZO MONDO *
Ha tenuto campo a Torino il fenomeno del «bullismo» scolastico. E’ la storia del disabile malmenato da alcuni compagni di scuola, che hanno coscienziosamente filmato la loro prodezza, divulgandola su Internet a beneficio di quanti si dilettano di simili spettacoli. Negli stessi giorni emergeva il caso di un altro ragazzo, picchiato selvaggiamente da tre studenti che gli avevano ridotto il volto a una maschera di sangue. Gli episodi sono stati stigmatizzati da tutti, con attestati di solidarietà per le vittime che sembravano tuttavia sbrigativi, rispetto all’ardore profuso per evitare conseguenze troppo severe per i teppisti.
Quel dettaglio apparentemente marginale
Non sto a discutere se sospensioni e radiazioni dalla scuola siano i provvedimenti più giusti da emettere a loro carico, se sia opportuna l’intenzione del ministro Fioroni di costituirsi parte civile contro i persecutori del ragazzo disabile. Mi interessa piuttosto un dettaglio apparentemente marginale che riguarda i professori dell’istituto interessato. Hanno protestato contro il ministro, perché si è permesso di definire «carogne» e «mele marce» gli allievi incriminati, «invece di farsi carico delle difficoltà in cui il mondo della scuola opera anche a causa delle disastrose politiche scolastiche». Mi sfugge la connessione fra le politiche scolastiche largamente intese e la vicenda. E quanto al linguaggio usato da Fioroni non mi sembra così scandaloso e degno di riprovazione. Sono espressioni non forbite, magari scappategli di bocca sotto la spinta dell’emozione, tali comunque da non turbare i discepoli, abituati a un linguaggio ben altrimenti disinibito. Mi aspetterei semmai, dai professori in vena di petrarchismi, che proponessero sinonimi più accettabili rispetto a quei comportamenti. Coraggio, la gara è aperta. Purché non si parli di ragazzacci, di bulletti sventati, che trasgrediscono le regole per incontrollata esuberanza, malsano spirito di gruppo, imitazione di certi modelli. Meglio allora l’eventuale scossone provocato da «carogne» e «mele marce» che, oltre a evocare come deterrente il rischio di isolamento dal consorzio civile, hanno il merito di non allargare indiscriminatamente la colpa delle malefatte.
Non è vero che siamo tutti responsabili
Certo bisogna evitare che l’inadeguatezza del linguaggio si traduca in confusione di concetti e in lassismo morale. Nell’occasione, abbiamo sentito fior di educatori sostenere che siamo tutti responsabili di questi eventi. Chi crede nella responsabilità dell’individuo (quando la sua coscienza non sia appannata da inumane condizioni di vita) stenterà a riconoscersi in un generalizzato mea culpa che diventa una generale assoluzione. Chi non si è sottratto al suo compito di educatore e con molti sacrifici, sia pure con l’aiuto della fortuna, è riuscito a traghettare i figli oltre le secche della droga, della vita violenta, del disprezzo per l’uomo; chi ha pagato fino all’ultimo centesimo le tasse, che dovrebbero anche servire alla creazione di buone scuole e buoni cittadini, non sa come «farsi carico» di certe azioni. Ritiene, quanto meno, che non siamo tutti responsabili alla stessa maniera. Adesso, per i devianti, si parla di particolari percorsi educativi nell’ambito scolastico. Poveri noi, illusi che servissero alla bisogna anche una lezione sull’Iliade o sui totalitarismi del Novecento. Ci riflettano gli insegnanti, anziché perdere tempo, in presenza di fatti così gravi, sulle intemperanze verbali di un ministro.
* La Stampa, 03.12.2006
Liberare la leadership dei giovani
Il bullismo può prodursi anche per l’assenza di prospettive e di grandi richiami. Troppi adulti si comportano come addetti alla protezione civile
di FRANCO GARELLI *
Di tanto in tanto, nuovi e incresciosi fatti di cronaca riaprono la questione dei giovani, di quale sia cioè la vera faccia delle nuove generazioni e in che mani sarà la società del futuro. Il riferimento, ovviamente, è ai casi di bullismo che si diffondono nel Paese, con tanto di vittime e di carnefici che appartengono alla stessa classe di età. Giustamente Gramellini sulla Stampa ha invitato a non fare di ogni erba un fascio. Un conto è il bullismo leggero (o goliardia), attraverso cui ogni generazione costruisce i suoi codici di comportamento e impara a stare al mondo; altro conto è accanirsi contro coetanei palesemente deboli e in difficoltà, o addirittura menomati, con l’intento di costruire sullo stigma altrui la propria forza e identità distorta.
L’inquietante ricerca di «audience»
Di questi tempi, poi, uno esiste soltanto se partecipa ad un’«isola dei famosi», per cui le proprie bravate o nefandezze devono essere non solo filmate, ma anche messe a disposizione di un ampio pubblico di ammiratori o di emulatori. Proprio l’esistenza di un’audience è l’aspetto più inquietante della faccenda, assieme al fatto che dei filmati della vergogna possano circolare tranquillamente su siti Internet per molto tempo. La depravazione, dunque, non appartiene solo ai carnefici, ma sembra ben più diffusa.
Questi fatti non producono solo indignazione pubblica, ma anche sconcerto e inquietudine. Sono questi i nostri giovani? Chi stiamo crescendo? Quali le nostre responsabilità di adulti? Pure in questo caso ci vogliono dei distinguo. Non è detto che i bulli incalliti siano il prototipo dei nuovi giovani, anche se in pochi si oppongono alle depravazioni e i più pensano ai propri affari. La nostra gioventù non sarà la meglio della storia, ma comunque è sana e robusta, anche se tende a vivere nel proprio mondo. La maggior parte non si macchia di nefandezze, ma non si distingue nemmeno per particolari virtù o prese di posizione. Si servono di varie risorse che hanno a disposizione, ma non danno il meglio di sé negli spazi pubblici.
Capire una generazione ambiziosa
Questo discorso chiama in causa gli «imperativi culturali» con cui crescono i nostri giovani. Alcuni anni fa, due ricercatori di Chicago hanno pubblicato un libro sulla gioventù americana, descrivendola come The Ambitious Generation, un libro che non è stato tradotto in Italia, per l’improponibilità da noi di considerare in tal modo i nostri giovani. In America, come si sa, non esistono soltanto i giovani ambiziosi, ma anche le gang dei quartieri violenti delle metropoli e molti altri casi marginali. Ma accanto a questa povertà culturale e umana, si coglie anche che molti giovani intendono esercitare la loro leadership nella società, e si usa questa immagine trainante per richiamare tutti alle loro responsabilità.
Da noi, invece, prevalgono altri richiami, per cui l’idea dei giovani è perlopiù associata a quelle del disagio, del rischio, dell’assenza di prospettive, del condizionamento sociale. Si mette molto più l’accento sui problemi che sugli stimoli, con il rischio di disagiare la condizione giovanile nel suo complesso, di creare degli alibi anche in quanti hanno risorse e potenzialità. Questo atteggiamento assistenzialistico è tipico di una società in cui troppi adulti si comportano nei confronti dei giovani come degli addetti della protezione civile, come dei pompieri troppo ingombranti perché i giovani facciano delle loro scelte e diano il meglio di sé nelle diverse circostanze.
La questione educativa è dunque sempre più al centro dell’agenda sociale, magari da affrontare col motto coniato di recente da un gruppo francese: «Transmettre: partager des valeurs, susciter des libertés».
* La Stampa, 27.11.2006
Liberare i talenti dai parenti
Per oltre la metà degli italiani più dei meriti contano le relazioni. Potremo ridare slancio e fiducia soltanto togliendoci di dosso la camicia di lobbies e nepotismi
di MICHELE AINIS (La Stampa, 30.11.2006)
L’ultimo rapporto Censis sulla mobilità sociale attesta che per il 61% degli italiani risorse economiche e relazioni personali contano più del merito, se vuoi farti largo nella vita. E che solo il 2% reputa influenti i grandi tecnici e gli esperti, a riprova di quanto poco credito circondi il talento individuale. Nel frattempo la domanda di servizi notarili è cresciuta del 21,4% fra il 1995 e il 2005, ma i notai sono aumentati solo del 4,5%. La spesa per i farmaci è lievitata del 92,1%, mentre le nuove farmacie sono appena il 7,8%. Ordini e collegi fanno il pieno, e fanno il pieno per lo più di famuli e parenti (+59% di avvocati, +79% d’architetti, +84% di psicologi). E in conclusione l’Italia è il quinto paese regolamentato al mondo, stando al dato diffuso lo scorso 8 novembre dalla Roland Berger; mentre sul fronte delle professioni, rispetto agli standard europei sulla concorrenza, siamo penultimi dopo la Grecia.
Rompere la regola della cooptazione
Per recidere questo nodo gordiano l’esecutivo Prodi ha avviato un processo di liberalizzazioni. Ma la concorrenza esterna è soltanto un corno del problema. Non basta moltiplicare le licenze per essere davvero certi che gli ultimi venuti siano anche i più qualificati sul mercato. È inoltre necessario infrangere un tabù, rompere la regola ferrea dell’autogoverno e della cooptazione che protegge i nostri troppi ceti, i nostri corpi separati.
Se gli stipendi dei politici vengono decisi dai politici, se le sanzioni disciplinari ai magistrati sono erogate dagli stessi magistrati, se le cattedre universitarie formano un monopolio inespugnabile dei professori in cattedra, se i giornalisti sono reclutati dagli stessi giornalisti, allora non c’è affatto da stupirsi quando vince l’arroccamento, il nepotismo, il privilegio. Nessun sistema è capace di correggersi da sé. Nessuno storpio può drizzarsi in piedi senza l’aiuto d’un chirurgo.
Questo fenomeno perverso si consuma sotto un doppio schermo concettuale. In primo luogo attraverso una malintesa applicazione del principio di autonomia, che peraltro in molti casi è rivestito di dignità costituzionale. In secondo luogo attraverso il ruolo degli esperti, anzi del «denigrato personaggio dell’esperto», per usare un’espressione di Theodor W. Adorno. Chi altri infatti potrà mai selezionare medici e ingegneri se non chi abbia già in tasca i ferri del mestiere? Tuttavia l’esperto può ben vestire i panni del collega in pensione, del docente straniero, dell’arbitro terzo. E d’altra parte l’autonomia senza controlli e contrappesi degenera in separatezza, la separatezza in irresponsabilità, l’irresponsabilità in arbitrio.
Tra clan e familismo amorale
Ecco perché dobbiamo toglierci di dosso questa camicia di gesso. Per riuscirci bisogna sconfiggere il familismo amorale di cui ha parlato Banfield, l’idea che non esista spazio etico né interesse generale all’infuori del clan. Una rivoluzione culturale, ma innanzitutto normativa, se si tagliano le unghie degli ordini professionali, delle camarille, delle lobbies attraverso una legge che ne regoli la vita associativa. Certo non sarà semplice espellere accademici e notabili dalle rispettive commissioni di concorso, o convincere i bancari a rinunziare al posto per il figlio garantito da statuto. Ma quest’onnipotenza del gruppo a tutto scapito dei singoli individui ci toglie slancio, fiducia, dinamismo. Sicché la prossima frontiera è una liberalizzazione a costo zero: la liberalizzazione dei talenti.
LA PROVINCIA DI MILANO PRODUCE UN VIDEO CONTRO IL BULLISMO
MILANO - La rappresentazione che i mezzi di informazione stanno dando in questi giorni del bullismo nelle scuole è molto riduttiva. E per certi versi fuorviante. Serve di più. E’ per questo che la Provincia di Milano mette a disposizione di tutte le scuole italiane un video realizzato nei mesi scorsi per illustrare l’attività del Pronto Soccorso Violenza Sessuale (SVS), un’istituzione che - nella sola città di Milano - riceve in media cinque segnalazioni di violenza alla settimana.
"E’ vero che questo video affronta in particolare il tema della violenza sulle donne - ha spiegato l’assessore alla Cultura, Daniela Benelli, che ha organizzato oggi a Milano un apposito convegno - ma è vero anche che questo tema è assolutamente analogo a quello che porta al bullismo o alla violenza sui minori, o sui più deboli in genere. Si tratta di trovare un modo nuovo e diverso di coinvolgere in ragazzi, sia nelle scuole, sia fuori".
Secondo l’assessore Benelli, ma anche secondo le diverse associazioni che operano in questo settore, dare tutta la responsabilità alla scuola è sbagliato. Ma è sbagliato anche dare tutta la responsabilità ai genitori. Il fenomeno è molto più complesso e riguarda un malessere di fondo che attraversa tutta la società. Quella violenza che vede protagonisti dei ragazzi è figlia di quella cultura delle immagini che oggi, volenti o nolenti, riguarda tutti. I modelli di comportamento e di riferimento che la Tv, ma anche Internet, i videofonini, i film, riversano quotidianamente sull’immaginario collettivo travalica di gran lunga il ruolo e la funzione della scuola, e rende spesso impotenti i genitori. Dunque che fare?
"Si tratta di intervenire - ha detto l’assessore Benelli - per cercare di cambiare una cultura, che è quella che porta oggi un ragazzo a considerare vincente solo chi si fa notare".
Ma se è vero che cultura significa "comportamento appreso e ondiviso" (come per esempio un atto di bullismo), gli interventi per cambiarla non possono che passare attraverso altri "comportamenti appresi e condivisi". Come? Non è con una lezione apposita che i ragazzi, oggi, possono essere coinvolti. Serve di più. Il video può andare in questa direzione. Intitolato "Se potessimo cambiare il finale..." racconta la violenza subita da alcune ragazze di Milano, e le modalità in cui su questi casi operano l’SVS, ma anche la Polizia, i servizi legali, le associazioni, le scuole. "Noi ne siamo convinti - ha concluso Daniela Benelli -. Il salto di qualità può passare anche da un piccolo video. E comunque è un tentativo per fare in modo che di questi temi si continui a parlare anche quando i mezzi di informazione, passati i giorni dell’emergenza, smettono di farlo".
* ANSA » 2006-11-21 14:25
Bullismo, 8 ragazzi su 10 lo hanno conosciuto da vicino. Non ci sono differenze significative tra Nord e Sud Italia
(ANSA) - MILANO, 20 NOV - Quasi 8 ragazzi delle scuole medie su 10 hanno conosciuto atti di bullismo, con un aumento del fenomeno di circa il 5% rispetto al 2005. I dati sono stati presentati a Milano dalla Societa’ Italiana Pediatria, che ha condotto un’indagine su abitudini e stili di vita degli adolescenti. Dallo studio, su 1.200 ragazzi tra i 12 e i 14 anni, emerge che sono piu’ i ragazzi delle ragazze ad assistere ad atti di bullismo (77% contro il 68%), senza differenze significative tra Nord e Sud Italia.
Giornata Mondiale dell’Infanzia
Comunicato stampa del Servizio Gesuita per i Rifugiati
Minori dietro le sbarre
Detenzione come alternativa a conflitti, persecuzione e povertà: mai nel migliore interesse del minore *
“La detenzione è intrinsecamente sbagliata, ma quella dei minori, intesa come alternativa al conflitto, alla persecuzione e alla povertà estrema, è inumana. Negli ultimi 20 anni, abbiamo sperimentato attraverso il nostro lavoro come la detenzione di queste categorie di minori aggravi il danno psicologico causato dall’esilio”, ha detto P. Lluís Magriñà SJ, Direttore del Servizio Gesuita per i Rifugiati (JRS).
Il 20 novembre 1989, la comunità internazionale ha redatto la bozza della Convenzione sui diritti del fanciullo (CRC) mirata a riconoscere la vulnerabilità dei minori, stabilendo come principio guida il miglior interesse dell’infanzia. Sedici anni dopo, il JRS ha fatto appello ai diversi stati perché siano rispettati, senza alcuna riserva, tutti i diritti stabiliti nella Convenzione.
Sebbene sia riconosciuto agli stati il diritto di gestire il flusso migratorio attraverso i propri confini, tale diritto non è assoluto. La libertà dalla detenzione arbitraria è un diritto umano fondamentale. Gli stati non sono autorizzati a servirsi della detenzione quale misura deterrente, come spesso è il caso, soprattutto se ad essere detenuti sono i minori esposti, come sempre sono, a un maggiore rischio di trauma a lungo termine. Agli stati grava infatti il preciso dovere di avere cura dei minori all’interno della propria giurisdizione, e sono tenuti a cercare alternative alla detenzione - che si tratti di appositi centri di accoglienza o di famiglie affidatarie - prima che sia recato ulteriore danno alle giovani vite.
Michael Gallagher SJ, Regional Advocacy Officer del JRS Africa Meridionale, ha riferito che “nonostante sia stato firmato il CRC, senza tuttavia il sostegno dei paesi sviluppati, gli stati dell’Africa meridionale difettano delle risorse necessarie a fornire alternative alla detenzione dei giovani rifugiati, che rappresentano una categoria particolarmente vulnerabile L’anno scorso, intercettato un gruppo di minori congolesi vittime dei trafficanti, le autorità dello Zambia non hanno avuto altri mezzi di tutela se non quello di porli in stato di detenzione insieme gli adulti”.
David Holdcroft SJ, Direttore del JRS Australia, fa presente che “per 13 anni, migliaia di minori sono stati trattenuti nei centri australiani di raccolta migranti per periodi in media di 15 mesi. Esposti di continuo a episodi di violenza, hanno dato segno di crescente disagio mentale, al punto che si sono verificati casi di autolesionismo. Nel giugno 2005, il governo ha posto fine a questa politica, e allo stato attuale consente a 55 minori, che altrimenti sarebbero stati detenuti, di vivere in libertà con le proprie famiglie. Dove esiste la volontà, i governi possono trovare alternative umane alla detenzione”.
“Nell’ottobre scorso, il Tribunale Europeo per i Diritti Umani ha condannato la detenzione, avvenuta nel 2002 e durata due mesi, di una bambina congolese di cinque anni, sola. Il Tribunale ha stabilito che un minore straniero non accompagnato non debba essere posto in stato di detenzione, tanto meno insieme ad adulti. È, questo, un grande passo avanti, e speriamo che metta in tutta Europa la parola fine alla detenzione di famiglie con minori” auspica Marc-André Peltzer, Country Director del JRS Belgio.
In uno studio delle Nazioni Unite pubblicato nell’agosto di quest’anno si è sollecitata l’elaborazione, assolutamente prioritaria, di alternative di impostazione comunitaria alla detenzione dei minori, salvo nei casi in cui il minore costituisca un reale pericolo per gli altri. I centri di detenzione non possono offrire ai minori un ambiente che favorisca un sano sviluppo. Il permanere dei minori in condizioni spesso degradanti o di pericolo - insieme ad adulti, separati dai propri genitori, senza accesso all’istruzione o a luoghi di svago - non è mai nel loro migliore interesse.
Note per giornalisti e redattori
Il JRS lavora in più di 50 paesi, in cinque continenti nel mondo. Si avvale di uno staff di più di 1000 persone: laiche e laici, gesuiti e altre/i religiose/i, con il fine di rispondere ai bisogni educativi, sanitari e sociali di oltre 500.000 rifugiati e sfollati interni (IDP). Fornisce inoltre assistenza legale ed altri servizi ai rifugiati che si trovano in stato di detenzione, poichè immigrati, in Africa, Asia, Europa e nelle Americhe. Fornisce la propria assistenza indipendentemente da considerazioni razziali, etniche o religiose.
Il JRS é un miembro della Coalizione Internazionale per la Detenzione dei Rifugiati, Richiedenti Asilo e Immigrati. La coalizione riunisce oltre un centinaio di membri (organizzazioni non governative organizzazioni di ispirazione religiosa, accademici e singoli individui) di 36 paesi in Europa, Medio Oriente, Africa, Asia, Oceania, Caraibi, nord, centro e sud America. In tutti questi paesi delle persone vengono detenute solamente sulla base del loro status di immigrato.
Il comitato direttivo della coalizione riunisce un numero significativo delle più importanti ONG a livello internazionale, che condividono la preoccupazione circa il trattamento degli immigrati detenuti, come Amnesty International, Human Rights First, l’Osservatorio per i Diritti Umani, Il Servizio Gesuita per i Rifugiati, il Servizio Luterano per immigrati e rifugiati, La Commissione delle Donne per le Donne e i Bambini Rifugiati (Women’s Commission for Refugee Women and Children), il Consiglio Mondiale per le Chiese, e un certo numero di ONG nazionali.
Per maggiori informazioni:
Donatella Parisi, Responsabile dell’Ufficio Informazione, Centro Astalli JRS Italia; Tel: +39 06 6992 5099; d.parisi@fondazioneastalli.it
Andrew Galea Debono, Coordinatore dell’Advocacy, JRS International; Tel: +39-06 68977391; +39 329 564 2824; Fax: +39-06 6897 7380; Email: international.advocacy@mail06.jrs.net; www.jrs.net
................. James Stapleton, Communications Coordinator Jesuit Refugee Service (Int. Office) Tel: +39-06 68977390 Fax: +39-06 6897 7380 Email: james.stapleton@jrs.net
Per me è bull-ismo anche il "prendere per il culo" il Papa e il suo segretario personale, solamente perchè persone pacifiche, tolleranti e indifese ! Bisogna mica prendere per forza a cazzotti la gente o lanciare sedie al loro indirizzo, per diventare Bulli...
Dalla parte del toro...olè
Dalla parte del toro...olè
Dalla parte del toro...olè
Dalla parte del toro...olè !
Caro "Pescatore Caparezza"
o.k.!, o.k.!!! Sei fortissimo!!! Ovviamente, a te che sei vicino al grande Minosse ..... un toro scatenato, tutto è permesso!!!
Non ho niente da dirti - concordo!!! Anzi ti dico, insisti: vai in ’palestra’ a prendere ulteriori ’lezioni’. Non scoraggiarti: ... torna Casa-Lessi!!!
Bau, bau - fls
Nessun Toro Scatenato, nè Toro Seduto, caro Prof., ma unicamente un "gabbiano in volo" (ricordi il romanzo di Richard Bach?) che non ha paura di fallire, di essere giudicato, di dire sempre ciò che pensa !Perchè il senso della vita è la ricerca della propria libertà, lontani dalla banalità e dal vuoto della nostra esistenza. In tutti noi c’è un gabbiano che aspetta di spiccare il volo, anche se ciò comporterà scelte coraggiose e sofferte. Però la stragrande maggioranza preferisce il conformismo, seguire la corrente, diventando così succube del materialismo o di quel pensiero, di quella ideologia, di quella filosofia. Non abbiate paura ! continuava a dire il più Grande del secolo scorso. NON ABBIATE PAURA !
Non ho paura di dire la mia, di difendere ciò in cui credo profondamente. Si rassegni, caro Prof.; rispolveri pure tutti i suoi libri, la sua cultura, i suoi eroi mitologici; utilizzi pure le sue capacità espressive, la sua padronanza di linguaggio, i suoi artifici linguistici: non riuscirà mai ad abbattermi !
Fly, Robin, Fly. Up Up in the sky
bye bye - ba
Dal Sud il segnale di un’emergenza educativa
Se dietro il bullismo piccoli mafiosi crescono
di Domenico Delle Foglie (Avvenire, 20.01.2007)
Baciamo le mani. Quante volte ci è capitato di intercettare la fatidica espressione nei romanzi di Leonardo Sciascia e di Andrea Camilleri, o nei film di Francesco Rosi. E sempre un moto dell’anima ci portava a rifiutare non solo l’immagine, ma anche l’evocazione di un retroterra culturale fatto di antichi atti di vassallaggio. Difficile scindere quel gesto e quell’espressione dalle arcaiche leggi non scritte del mondo contadino meridionale, dalle violente sottomissioni ai latifondisti, dai soprusi e dalle violenze che le plebi del Sud hanno dovuto sopportare sino alla metà del secolo scorso. Per non parlare dell’altro livello, quello dell’obbedienza silenziosa e remissiva alle disposizioni del «padrino», che il più delle volte era anche il latifondista e l’uomo di rispetto del paese. Quello a cui chiedere favori, elemosinare le semenze per poter far fruttare i campi e al quale pagare il debito in natura. E guai a non essere puntuale.
Ecco perché non riusciamo a derubricare come un qualunque atto di bullismo quello perpetrato da un ragazzo in una scuola media di Bari. Lui, il violento, pretendeva che un compagno di classe gli rendesse omaggio baciandogli le mani. E all’ennesimo rifiuto, ha pensato bene di colpire il compagno tanto da spedirlo in ospedale per una settimana. Sembra di vederli: da una parte l’arrogante che intima «baciami le mani». E l’altro che dopo il secco «no» viene aggredito e malmenato nell’indifferenza dei compagni di classe. Il tutto durante il cambio dell’ora di lezione, approfittando dell’assenza dei professori.
Dalle indagini è emerso che l’undicenne violento «voleva comandare e pretendeva il rispetto dai compagni di classe». Ma che razza di rispetto potrà mai essere quello conquistato con la violenza? A quali codici diseducativi quel ragazzo ha attinto la propria condotta? E le domande a questo punto potrebbero moltiplicarsi fino a coinvolgere i genitori, i coetanei e le strutture educative. Su e giù per la scala sociale.
Di sicuro, il fattaccio di Bari dovrebbe indurre a ripensare le nostre categorie di giudizio, a partire da quella di bullismo. Ma al tempo stesso dovremmo riflettere sulla persistenza di modelli socio-culturali che spingono all’indietro le lancette della nostra vita civile. Sembra quasi che in alcune aree del nostro malandato Paese il modello mafioso-camorristico non voglia proprio mollare la presa. E che anzi voglia appropriarsi subdolamente dei luoghi del vivere civile, scuola compresa. Ricostruendo così nelle aree marginali e degradate il mito dei «piccoli mafiosi crescono».
Infine la vittima: quel ragazzo lasciato solo a difendersi dinanzi al violento è la metafora più efficace di chi trova il coraggio di ribellarsi al sopruso, ma non riceve la concreta solidarietà che merita nel contrastarlo. E chi ha vissuto situazioni simili sa bene che non c’è nulla di peggio della solitudine. Se dunque è assolutamente legittimo parlare di emergenza educativa, non c’è altra strada percorribile che quella della costruzione di una rete sociale in cui i ragazzi del Sud non si debbano sentire mai soli. Un terreno, questo, sul quale il mondo cattolico ha ancora risorse educative da spendere. Perché se proprio ci sono mani da baciare, possono essere solo quelle della propria ragazza, moglie o madre. Mai quelle del mafioso di turno.
Scuola, telefonini spenti o scattano le sanzioni*
In classe cellulari spenti. Altrimenti scattano le sanzioni disciplinari, compreso il ritiro temporaneo del telefonino. Il ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, ha presentato le linee di indirizzo e indicazioni in materia di utilizzo di "telefoni cellulari" e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica, irrogazione di sanzioni disciplinari, dovere di vigilanza e di corresponsabilità dei genitori e dei docenti: secondo le indicazioni di Fioroni vi è «un dovere specifico per ciascuno studente di non utilizzare il telefono cellulare o altri dispositivi elettronici durante lo svolgimento delle attività didattiche», altrimenti scatteranno «sanzioni disciplinari appositamente individuate da ciascuna istituzione scolastica, nell’ambito della sua autonomia, in sede di regolamentazione di istituto».
Le linee di indirizzo prevedono anche, in questo senso, che «nei regolamenti di istituto siano previste - ovviamente - adeguate sanzioni, compresa quella del ritiro temporaneo del telefono cellulare durante le ore di lezione. Come recita la direttiva che è stata diffusa dal ministero della Pubblica istruzione: «In caso di uso scorretto dello stesso (il telefonino, ndr)», ciascuna scuola dovrà «dotarsi di un regolamento di istituto che, sulla base dei principi fissati dallo Statuto degli studenti, garantisca con il massimo rigore l’effettivo rispetto delle regole poste a presidio del valore della legalità e di una corretta convivenza civile».
«La normativa c’era, le linee servono a rendere nel più breve tempo possibile urgente il divieto dell’uso del cellulare nelle classi e la possibilità per il docente di sequestrarlo e restituirlo, ove occorra, in presenza dei genitori», ha commentato Fioroni «Il divieto di accesso del cellulare a scuola va regolamentato per legge, non utilizzarlo nelle lezioni è cosa già stabilita dalla legge ma - ha concluso - che così diventa cogente da subito». La regola, ha specificato il ministro, vale anche per i prof.
* l’Unità, Pubblicato il: 15.03.07 Modificato il: 15.03.07 alle ore 18.11