MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO.
Festival della Matematica gemellaggio con New York*
ROMA come New York e stavolta è proprio il caso di parlare di binomio. La prima sessione del Festival Matematica 2009 si terrà infatti nella Grande Mela, poi nella Capitale. Due giorni divisi tra l’Italian Academy alla Columbia University e l’Istituto Italiano di cultura il 10 e 11 marzo, poi, dal 19 al 22, l’appuntamento con i numeri proseguirà all’ Auditorium Parco della Musica. «Roma caput mundi mathematicae», ma visto che si tratta di una materia a dir poco transnazionale il "gemellaggio" è direttamente con gli Usa.
La terza edizione della manifestazione (sotto il Patronato del presidente della Repubblica, promossa dalla Provincia, prodotta dalla Fondazione Musica per Roma) si avvale ancora della direzione scientifica di Piergiorgio Odifreddi. Il primo tema del Festival era stato la bellezza, lo scorso anno l’ argomento - perno dell’ iniziativa è stato la matematica applicata ai diversi campi della conoscenza (citando Wittgenstein, «solo con lo zaino colmo di matematica posso scalare l’ enorme montagna della scienza e dell’ arte»), stavolta il filo rosso è "Salvare il mondo con i numeri".
A New York ne parleranno otto premi Nobel, da Daniel Kanheman (Economia), a Benoit Mandelbrot conosciuto come il "re dei frattali" (oggetti geometrici che si ripetono nella loro struttura allo stesso modo, su scale diverse), John Nash, il celebre matematico Harold Kuhn, Shelly Glashow (fisica), lo scopritore della quarta dimensione Thomas Banchoff, il filosofo Achille Varzi. Ci sarà anche un’"intervista impossibile" a Galileo con Odifreddi e Claudio Bartocci.
La "Regina delle Scienze" a Roma avrà come ospiti le medaglie Fields (massima onoreficenza per giovani matematici) E d w a r d W i t t e n , T i m o t h y Gowers, Vaughan Jones oltre ad Arno Penzias (Fisica), al grande fisico italiano Nicola Cabibbo (le particelle dell’angolo), Roald Hoffmann e Richard Ernst (Chimica), Robert Mundell (Economia), ancora John Nash, Thomas Schelling e lo scrittore Paolo Giordano, premio Strega 2008, autore del libro "La solitudine dei numeri primi".
A presentare incontri e tavole rotonde ecco Gabriele Beccaria, Marco Cattaneo, Riccardo Chiaberge, Giulio Giorello, Armando Massarenti. Una rassegna, quella sulla matematica, che a dispetto dei sondaggi che ne parlano come di una brutta bestia per gli studenti italiani , ha avuto un notevole successo: nel 2008 si è chiusa con circa sessantamila partecipanti.
Al Festival 2009 non ci saranno solo gli scienziati: tra sfere, bolle, palle, globi la MaTe si potrà scoprire nei fenomeni naturali e nella quotidianità, o con il "meccano - la misura del tempo", una ventina di orologi realizzati con i pezzi del mitico gioco di costruzioni.
Nella serata conclusiva, per la prima volta sarà assegnato il premio Grinzane Scienza Festival, per esercitare le meningi è confermata la "palestra della matematica", il laboratorio interattivo per le prove di Archimede.
E a conferma che la matematica piace, è uscito in questi giorni un divertente libretto, scritto dall’ inglese Tim Glynne-Jones che si intitola "Il magico libro dei numeri, da zero a infinito tutti i numeri speciali" (Avallardi, pagg. 190, euro 10) dove l’universo algoritmico è coniugato in ogni sua manifestazione, dall’ algebra, all’ astrologia, alla mitologia, fino alle curiosità più sfiziose come: "Perché James Bond è identificato con il numero 007?".
www.auditorium.com - ALESSANDRA ROTA
* la Repubblica/ - 14 febbraio 2009 pagina 17 sezione: ROMA
FLS
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, EDUCAZIONE CIVICA, E PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA: UNA QUESTION HAMLETICA E UNA DOMANDA AI MATEMATICI E ALLE MATEMATICHE.
La crisi della matematica è un problema politico: un’ipoteca sui cittadini del futuro
di RAFFAELE CARIATI (Domani, editoriale, 27 novembre 2023)
In Francia nel 2019 succede questo: «Emergenza matematica repubblicana», dichiara Emmanuel Macron durante il suo primo quinquennio di presidenza in Francia, riconoscendo il problema dell’esclusione dall’insegnamento-apprendimento della matematica. L’esclusione dall’apprendimento della matematica ha un impatto sulla fiducia in sé stessi, induce senso di inadeguatezza, porta i cittadini a delegare sui ragionamenti complessi e a preferire le semplificazioni e le diffidenze ostacolando la formazione di una cittadinanza consapevole.
Il governo francese di Emmanuel Macron pensa di governare centralmente il problema, di migliorare le sorti dell’apprendimento della matematica e di affidarne la soluzione a uno dei nomi più prestigiosi della matematica, Cedric Villani (medaglia Fields 2010, deputato della Repubblica). Il risultato è il “Rapporto Villani” che propone ventuno “misure”, senza però suscitare grandi entusiasmi: tanti buoni propositi, ma una visione elitaria ha iniziato a farsi strada. Infatti, la riforma dei licei à la carte voluta da Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione Nazionale, ha come conseguenza la significativa diminuzione della partecipazione all’insegnamento della matematica.
La matematica non fa più parte delle materie insegnate a tutti gli studenti, può essere scelta solo come materia di indirizzo possedendo certi requisiti di ingresso. Il risultato è l’abbandono dello studio della disciplina, gli studenti dal primo all’ultimo anno del liceo perdono il 20% delle ore di insegnamento della matematica. Le intenzioni di Macron si rovesciano nel loro contrario. ll quotidiano Libération denuncia: «È uno scandalo che non scandalizza nessuno». E Le Monde aggiunge: la riforma ha fatto scendere dal 90% al 59% la percentuale di alunni che seguono un insegnamento di matematica durante l’ultimo anno. Ancora più grave: l’abbandono coinvolge in maniera maggioritaria le studentesse.
Questa breve storia triste si conclude con il riconoscimento da parte di Jean-Michel Blanquer di un errore di calcolo e con il tentativo del suo successore, Pap Ndaye, di invertire la tendenza introducendo un’ora e mezza di matematica nel tronco comune.
Qualcosa di simile avviene anche in Italia. Molti hanno dimenticato che una “emergenza matematica” è stata dichiarata anche nel nostro Paese, e che è si è tentato di gestirla con un metodo molto simile alla strategia Villani. Nel 2007 Giuseppe Fioroni, ministro dell’Istruzione, insedia il Comitato nazionale dei Matematici con il compito di definire le iniziative per contrastare quella che definisce, appunto, “emergenza matematica”. L’opinione pubblica è stata investita da semplificazioni e slogan del tipo «matematica bestia nera degli italiani», «italiani asini in matematica», alimentando le forme più feroci di innatismo, impotenza appresa.
La matematica, dunque, è un problema di tutti. Il Comitato, costituito da trenta esperti e presieduto dall’altissimo profilo di Edoardo Vesentini, rettore della Normale di Pisa, già senatore della Repubblica, studia il problema e indica cosa fare. Ma purtroppo il comitato non va avanti, a causa di un’incapacità collettiva. Resta un’occasione persa insieme alla questione: cosa vuol dire politicamente l’emergenza matematica?
Il tema è stato ben argomentato da Martine Quinio-Benamo nell’articolo “Les mathématiques, c’est politique” apparso su Libération nel febbraio 2022: per fare matematica non si tratta solo di calcolare e ragionare, ma anche di distinguere i punti di vista e di comunicare.
Per esempio: «Dall’inizio del quinquennio di governo Macron il potere di acquisto dei più ricchi è aumentato del 4,1% ed è diminuito dello 0,5% quello dei più poveri. Il potere di acquisto è aumentato in media dell’1,6%». La conclusione sull’aumento medio dell’1,6% è stata ripresa con enfasi dai decisori della comunicazione mass-mediatica, ma si riferisce a una media impossibile da verificare in quanto non riflette l’aumento delle disuguaglianze. Pur supponendo che il potere di acquisto sia aumentato in percentuale (il che è falso per i più poveri), un aumento debole di una o due percentuali si traduce in un incremento salariale bassissimo per le classi medie.
Il tema insomma è l’assenza della formazione a un pensiero-atteggiamento matematico.
I giornali spesso non sono in grado di esaminare i dati numerici avanzati dai politici. E le informazioni che contengono dati numerici corretti possono essere smentite da interlocutori mal formati al ragionamento matematico. Il piano del dibattito diventa «Ci mentono tutti!». Ovviamente, non sono i numeri a mentire, ma una loro interpretazione pigra e decontestualizzata. Secondo la professoressa Quinio-Benamo, si fa strada l’ipotesi per cui «l’incompetenza scientifica prevale sulle cattive intenzioni», e se le decisioni sono assunte anche in nome della realtà e dell’interpretazione dei numeri, allora la matematica è politica e il suo insegnamento-apprendimento è una questione politica.
La matematica è quindi politica nella misura in cui si cerca di rispondere alla domanda: cosa può fare la matematica nella nostra comprensione del mondo? Potrebbe essere “fare politica” gestire l’emergenza matematica non focalizzandosi solo sulle abilità matematiche in chiave professionalizzante, ma anche e soprattutto sul processo educativo che stimoli ad assumere un atteggiamento filosofico che supporti la trasformazione delle informazioni in conoscenze e nella capacità emancipatrice di operare scelte.
In Italia la questione è stata ampiamente affrontata da Bruno D’Amore (professore di Didattica della matematica all’Università di Bologna) che definisce l’educazione matematica come «il sistema sociale complesso ed eterogeneo che, in sinergia con l’epistemologia, la sociologia, la psicologia, la semiotica e la pedagogia include la teoria e lo sviluppo e la pratica relativa all’insegnamento-apprendimento della matematica ed include la didattica della matematica come sottosistema».
L’insegnamento-apprendimento della matematica sembra essere in uno stato di crisi cronica, ma il vero problema non è l’insegnare ad insegnare. All’origine di questo fenomeno ci sono molteplici cause, ma il problema ha a che fare con il ruolo che la matematica recita nella società e la sua influenza sul dibattito pedagogico.
Possiamo allora rovesciare la questione: Guy Brousseau nella Théorie des situations didactiques e la teoria del Contrat didactique analizza cosa determini un mancato apprendimento, studia il fallimento elettivo in matematica determinato dalle abitudini specifiche dell’insegnante attese dall’allievo e i comportamenti dell’allievo attesi dal docente. Queste attese sono dovute a una concezione della scuola percepita come direttiva ed essenzialmente valutativa: anche situazioni didattiche proposte come “libere” vengono elaborate e vissute dall’allievo come un test o come un controllo. Queste attese nascono da concezioni sulla matematica (“in matematica bisogna fare solo calcoli”) e soprattutto alla ripetizione di modalità sociali.
Perdiamo “il corpo umano della matematica”! A causa del “si devono fare i calcoli”, si ritiene che le parole non siano importanti, sia sufficiente usare i dati numerici, anche a caso, per fornire risposte formali. Si perde l’obiettivo culturale della matematica, si smarrisce l’agire matematico che si confonde con le richieste degli insegnanti. Soprattutto: l’unica occasione che hanno gli studenti di entrare in contatto con la matematica è la scuola. Ciò alimenta la credenza diffusa secondo la quale i libri di matematica sono le raccolte stereotipate di esercizi presenti nei libri di testo scolastici.
Secondo Bruno D’Amore, «tutto risale all’ignoranza beota di chi distingue le culture creandone una di serie A e una di serie B, facendosi forza talvolta con lo spirito e le parole di Giovanni Gentile secondo cui l’intrusione delle scienze nel mondo scolastico ha arrecato dannosissimi frutti e la matematica, in particolare, è morta, infeconda, arida come un sasso». Come si può contrastare l’accanimento anti-matematico di matrice gentiliana?
Nel testo Faire l’école, faire la classe, il pedagogista Philippe Meirieu delinea lucidamente un principio su cui istituire la scuola che curi l’educazione matematica: «Per poter costruire uno spazio pubblico orientato alla trasmissione delle conoscenze, la scuola deve sospendere violenza e seduzione, collocando al centro della propria organizzazione le esigenze di esattezza, precisione e verità».
1+1 non fa (sempre) 2 - recensione dell’ultima lezione di John Barrow
di Roberto Natalini (MaddMaths, 14 Dicembre 2020
Teorie del tutto di John Barrow è uno dei primi libri di divulgazione che abbia mai letto (era il 1992!). Quando uno decide di fare lo scienziato solitamente non ha molto tempo per leggere esposizioni non tecniche di teorie scientifiche. Gli sembra sempre di leggere la “versione per bambini” della cosa vera, quella su cui dovrebbe lavorare se avesse altro tempo da dedicare alla scienza, oltre a quello sprecato per produrre dei piccoli progressi infinitesimali nel proprio ristretto ambito di ricerca. Eppure se so qualcosa, in questo momento un ricordo confuso, sulla teoria delle stringhe, sui problemi cosmologici, e poi su alcune questioni di fondo della filosofia matematica, il principio antropico e la matematicità dell’universo, è proprio per la lettura dei libri di divulgazione di questo collega britannico di pochi anni più grande di me.
Questo libro, 1+1 non fa (sempre) 2. Una lezione di matematica, non è un libro come gli altri. Si legge in poche ore, è come una lunga chiacchierata con un amico che ti racconta qualcosa sui numeri, sulle domande su cui ha riflettutto per tutta la vita, sul senso del fare matematica e del ricercare le leggi matematiche che governano il mondo. Si parte dai numeri, dal significato del contare, da cosa abbia voluto dire arrivare all’astrazione dei numeri per tutta l’umanità. Certo, tutti i sistemi di numerazione al mondo, ma più in generale tutta la nostra scienza e tecnologia, poggiano su questo semplice fatto di addizionare uno a uno. All’inizio non doveva essere semplice riuscire a concettualizzare il concetto di numero. Popoli come gli indigeni della British Columbia avevano per esempio parole diverse per diversi oggetti. Le parole che si riferivano alle quantità uno e due cambiavano a seconda che si riferissero a oggetti piatti o curvi, uomini, oggetti lunghi, canoe o misure. Per contare come facciamo noi, bisogna avere l’idea di “una cosa” che sommata a “una cosa” la vediamo come “due cose”. Da qui parte il ragionamento di Barrow, che non vuole essere sistematico e nemmeno dettagliato. È un libro pieno di suggestioni e di echi, che fa venire voglia di saperne di più, che accenna ad alcuni snodi importanti del pensiero matematico, li connette tra loro, ma lascia a noi il compito di approfondire. Si parla del contare e delle basi, quando 1+1 può fare 10, di come la somma di due vettori unitari possa fare 2 o 0 o altro ancora, della definizione di numero da Frege a Peano, e della celebre dimostrazione di Whitehead e Russell, che dura per centinaia di pagine nei loro Principia Mathematica, del fatto che 1+1=2.
E poi, a un certo punto, Barrow argomenta su come la funzione successore possa sembrare naturale per la nostra mente, e parrebbe seguire dalla nostra esperienza dello scorrere del tempo e dal principio di causa ed effetto. E qui, come per minare la nostra certezza sulla naturalità di questo concetto, richiama il racconto La storia della tua vita, di Ted Chiang, per me il più grande autore di fantascienza contemporeaneo, da cui è stato tratto il film Arrival di Denis Villeneuve. In cui si racconta che degli alieni comunicano con spruzzi di inchiostro che si trasformano in strani vortici. E la linguista Louise Banks, interpretata nel film da Amy Adams, che li decifra in parte, capisce che questi alieni non hanno il senso del tempo, per loro è una dimensione come le altre, e i messaggi che ci mandano comprendono tanto il nostro passato che il nostro futuro.
E questa citazione mi ha fatto piuttosto pensare alla struttura stessa del libro. Un libro circolare, che ritorna spesso sui suoi passi, ma che ogni tanto parte in un’altra direzione, dai numeri transfiniti di Cantor, al teorema di incompletezza di Gödel, alla legge di Benford, per ritornare sulla questione centrale su cui Barrow, come tanti di noi, deve aver ragionato per tutta la vita: ma insomma, alla fine, che cos’è questa matematica? E perché funziona così tanto bene nelle nostre vite? Se è vero che la nostra intelligenza si è sviluppata per rispondere alle sfide del mondo circostante, sviluppando schemi e modelli capaci di garantirci la sopravvivenza, queste osservazioni nascono e si sintetizzano nel momento in cui riconosciamo l’identità degli oggetti, e di come, in tanti modi diversi, è molto utile sapere come e quando 1+1 sia uguale o non sia uguale a 2. E il libro ricomincia.
Roberto Natalini
2+2=4
Sarà un caso che l’ultimo libro di John D. Barrow, prima della sua assai prematura scomparsa, in edizione originale italiana vale la pena sottolineare, si intitolava, 1+1 non fa (sempre) 2? [...]" (Pino Donghi, "Odifreddi: matematica dappertutto e per tutti", Doppiozero, 10 Dicembre 2020)
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E MATEMATICA. A PARTIRE DA DUE... *
Festival dei Matti, Alberta Basaglia: “Non è tardi per parlare di mia madre Franca Ongaro e del suo ruolo nella rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi”
di Emanuele Salvato *
“Fondamentale”. Con quest’aggettivo Alberta Basaglia, psicologa figlia dello psichiatra Franco Basaglia e di Franca Ongaro, definisce il ruolo avuto dalla madre nel percorso che ha generato enormi mutamenti nella psichiatria italiana culminato nella cosiddetta Legge 180 o Legge Basaglia. Una Legge che ha, di fatto, portato alla chiusura dei manicomi in Italia, luoghi in cui la malattia e i malati venivano nascosti, dimenticati e non curati. Eppure raramente il nome di Franca Ongaro è stato associato alla rivoluzione che Franco Basaglia ha prodotto nel mondo della psichiatria insieme al suo gruppo di lavoro, di cui faceva parte anche la moglie la cui figura viene messa al centro nel libro “Contro tutti i muri” (Donzelli editore) scritto da Anna Carla Valeriano, studiosa di storia della psichiatria e delle istituzioni totali, che verrà presentato sabato 25 giugno al festival dei Matti di Venezia alla presenza, oltre che dell’autrice, anche di Alberta Basaglia, Maria Teresa Sega, presidente dell’associazione rEsistenze-memoria e storia delle donne in Veneto e Federica Esposito, psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Festival dei Matti.
“Non è mai troppo tardi - spiega al fattoquotidiano.it la figlia di Franco Basaglia e Franca Ongaro attualmente vicepresidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia - per far emergere la figura di mia madre che con il suo lavoro vicino a mio padre è stata determinante per arrivare a generare quella rivoluzione nel mondo della psichiatria iniziata da Gorizia (città in cui Franco Basaglia diresse l’ospedale psichiatrico nel 1958 e dove iniziò a mettere in pratica le sue idee rivoluzionarie in termini di cura, ndr) in poi. E tutti i libri e gli studi usciti in quegli anni sono stati il frutto della collaborazione fra mia madre e mio padre. Sono convinta che mia madre abbia dato un apporto importante soprattutto in termini di concretezza del discorso teorico”. Aggiunge Alberta Basaglia: “Il fatto che sia sempre passata come ‘la moglie di’ fa parte di un determinato periodo storico in cui per una donna era ancora molto complicato cercare di mettersi in evidenza ed avere la giusta considerazione in un ambito prettamente maschile”. Eppure, come spiega Anna Carla Valeriano nel libro, il suo approccio sociologico all’interno di un’istituzione totale come l’ospedale psichiatrico di Gorizia, il suo interessarsi alle storie dei pazienti è stato fondamentale per arrivare a comprendere l’origine di molti disturbi psichiatrici, spesso generati proprio dal contesto sociale.
A proposito dei lavori e degli scritti realizzati insieme al marito, vale la pena di citare “Morire di classe”, un libro fotografico del 1969, nel quale gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno rivelato all’opinione pubblica quale era la condizione dei malati nei manicomi italiani. Fotografie senza filtri, con malati legati ai letti, con gli sguardi persi nel vuoto e abbandonati a loro stessi. Un vero e proprio pugno nello stomaco che contribuì ad accendere una luce su realtà scomode e che mise in evidenza la necessità di attuare quei cambiamenti necessari e non più procrastinabili che Basaglia con la moglie e il suo gruppo di lavorò iniziò ad attuare, facendoli culminare nella realizzazione della Legge 180. Il libro uscì qualche mese dopo un altro documento molto importante e utile a mettere in evidenza quanto drammatica fosse la situazione nei manicomi italiani, il documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” mandato in onda da rai Tv7 nell’autunno del 1968 e girato proprio nell’ospedale psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia che aveva iniziato a trasformare l’ospedale facendolo diventare una comunità terapeutica. “Sono cresciuta in un clima - racconta Alberta Basaglia, che quegli anni, seppur piccola li ha vissuti e se li ricorda - in cui vedevo persone intorno a me lavorare per qualcosa in cui credevano e, visti i nostri tempi attuali, non è facile immaginare tutto questo. Ho il ricordo della presenza contemporanea di mia madre e mio padre inseriti e attivi in questo gruppo di lavoro nel quale era evidente la volontà di cambiare il mondo. La rivoluzione di Basaglia nel mondo psichiatrico italiano è stata pensata e realizzata con un gruppo di persone che hanno lavorato senza sosta affinché questa rivoluzione cambiasse davvero qualcosa”. Dopo la morte di Franco Basaglia, l’impegno di Franca Ongaro per attuare concretamente i cambiamenti previsti dalla Legge 180 è proseguito anche in Parlamento dove venne eletta per due legislature, dal 1983 al 1992, nelle fila del gruppo parlamentare di Sinistra Indipendente. Fra le sue principali battaglie si ricorda quella di fare in modo che la Legge 180, promulgata nel 1978, venisse messa in pratica nei territori. In tal senso ha elaborato due disegni di legge rivelatisi poi fondamentali per creare di Dipartimenti di salute mentale.
*Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2022 (ripresa parziale - senza allegati e note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89)..
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E QUESTIONE ANTROPOLOGICA: UT UNUM SINT... *
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 14 febbraio 2001
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
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NOTA:
PER UNA RICAPITOLAZIONE ANTROPOLOGICAMENTE "INTERA" IN GESU’ ("ECCE HOMO"), NON ANDROLOGICAMENTE "DIMEZZATA" IN PAOLO ("ECCE VIR")!
DUE SOLI IN TERRA E UNO SOLE IN CIELO. La Monarchia di Dante è una lezione di antropologia prima che di politica: il giardino dell’intera umanità (impero e chiesa) è uno solo - o l’aiuola della guerra o il paradiso terrestre
FLS
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
"La matematica salva i nostri figli e la democrazia"
L’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta: "Vi spiego perché insegnare le Stem ai bimbi aiuta a colmare diseguaglianze e disparità di genere"
di Adele Sarno (HUFFPOST, 10.10.2021).
Il giorno dopo aver vinto il Nobel per la Fisica, il professor Giorgio Parisi, ha raccontato che suo nipote di quattro anni da grande vuole fare il dinosauro. Nell’intervista spiegava che se oggi la scienza è in difficoltà è anche per la mancata diffusione della sua cultura. E aggiungeva che andrebbe insegnata ai bambini fin da piccoli, ovviamente in modo semplice. Ersilia Vaudo Scarpetta, è un’astrofisica, è chief diversity officer e special advisor on strategic evolution dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), e la scorsa estate ha dedicato parte del proprio tempo a girare la Sicilia per portare il cielo lì dove non arriva.
Con l’associazione fondata con Alessia Mosca e altre tre donne, “Il cielo itinerante”, è partita a bordo di un pulmino con un telescopio per mostrare le stelle ai bambini che vivono in territori disagiati. Ci racconta: “La possibilità di scoprire il cielo e avvicinarli alla scienza attraverso il gioco, può mettere in atto una trasformazione profonda. La voglia di proiettarsi in avanti e immaginare per sé stessi prospettive nuove. Sì, un telescopio può fare piccole magie”.
Abbiamo chiesto a Ersilia Vaudo Scarpetta di spiegarci perché è così importante studiare le STEM (acrostico che sta per Science, Technology, Engineering and Mathematics) già da bambini e quali magie possono fare.
“Le STEM sono le materie che consentono di occupare quegli spazi dove si immagina e si rende possibile il futuro. In un paese dove l’ascensore sociale è in discesa, che ha vissuto una crisi pandemica che ha approfondito la ferita delle disuguaglianze, io dico che le pari opportunità passano anche dall’inclusione nella matematica, un ‘abilitatore di futuro’. E’ importante che già dalle elementari, fase della vita in cui si forma nei bambini e nelle bambine l’identità STEM, nessuno ne rimanga fuori. Impariamo l’italiano perché viviamo in Italia, l’inglese per essere cittadini del mondo, la matematica è il linguaggio dell’Universo a cui apparteniamo e anche delle STEM. Includere tutti nel linguaggio quantitativo significa rafforzare le capacità di analisi e spirito critico e poter dare a bambini che diventeranno adulti degli strumenti per esercitare una cittadinanza consapevole. La matematica serve anche per la tenuta della democrazia”.
Nelle interviste o negli interventi che ha scritto, lei ha detto più volte quanto sia importante per le ragazze studiare la matematica. I dati Istat appena pubblicati ci dicono che le laureate in discipline scientifiche sono la metà dei maschi. Tra i ragazzi un laureato su tre, tra le ragazze solo una su sei.
“L’Italia soffre di due record. I dati dell’Ocse ci dicono che in Italia abbiamo la più grande prevalenza di adulti che dicono di non maneggiare la matematica. Oltretutto non è raro trovarsi in situazioni in cui qualcuno considera perfino un vezzo non capire niente di numeri. Non solo, i risultati dei test PISA, che misurano le competenze dei 15enni, fanno emergere un grande divario di genere tra adolescenti: c’è un baratro di competenze matematiche tra ragazze e ragazzi. In questo siamo praticamente ultimi nella classifica mondiale Ocse, dietro di noi ci sono solo Colombia e Costa Rica. C’è un dato sconcertante su cui riflettere. Il World Economic Forum nell’ultimo rapporto indica che ci vorranno 267.6 anni per la parità economica di genere. Non è tanto l’assurdità del valore assoluto che preoccupa quanto il fatto che ogni anno il numero aumenta. Non solo non si fanno progressi ma si va indietro. Al cuore di questa regressione il WEF identifica proprio la scarsa, diffusa, presenza di donne nelle materie STEM. Perché sono questi i settori a più alto empowerement economico e le competenze in grande domanda nel futuro”.
Da cosa dipende?
“L’Ocse ci offre una serie di prospettive da cui guardare al fenomeno. Per esempio, al liceo ci sono tre volte più aspettative da parte delle famiglie che il maschio faccia ingegneria e la ragazza medicina, o che studi materie umanistiche. Il linguaggio dei genitori verso i maschi tende ad essere molto più quantitativo che con le femmine. E poi c’è l’idea che vuole “i ragazzi interessati alle cose e le ragazze alle persone”, che rafforza stereotipi, anche per esempio nella scelta dei giocattoli da regalare o dei libri da leggere”.
Quindi lei dice, facciamo amare la matematica, facciamo vivere ai ragazzi e alle ragazze già dalle elementari lo stupore della scienza, anche sporcandosi le mani, valorizziamo la curiosità e il saper guardare, e avremo persone che potranno davvero scegliere di dedicarsi a ciò che desiderano?
“Si, e aggiungerei anche l’importanza di valorizzare l’errore come tappa necessaria al processo di apprendimento. “Sbaglia presto e sbaglia bene” è uno degli slogan che la NASA ha promosso come stimolo durante la concezione dei suoi programmi più innovativi. I dati PISA dimostrano anche che in Italia, il gap di competenze matematiche riflette i diversi assi di disuguaglianza di cui offre il nostro paese. Geografica, con la distanza dei risultati tra Nord e Sud, di genere, ma anche socio-economici. I bambini che vivono in situazioni di disagio sociale e povertà educativa, non solo in Italia ma in tuti i paesi OCSE, rimangono fuori dalla matematica. Una sorta di determinismo sociale spaventoso. Non è quindi solo una questione di riuscita scolastica. È importante poter offrire le condizioni di reali pari opportunità per tutti i ragazzi rispetto al futuro che li attende. Ed è urgente. L’inclusione nella matematica può avere il potenziale di cambiare le cose al di la del fatto che poi si scelga di fare il poeta e non gli ingegneri. La Francia nel 2017 ha dichiarato la matematica priorità nazionale, perché c’era stata una lieve flessione nei risultati PISA degli adolescenti. Con l’idea che un paese debole in matematica rischia di esserlo anche sul piano dell’economia. Ma non solo. C’è stata la considerazione che chi si sente inadeguato rispetto al linguaggio quantitativo sarà più incline a delegare ragionamento complessi, a diffidare dell’opinione degli esperti, a dubitare della scienza. E’ quindi in gioco anche la tenuta della democrazia”.
Inoltre le competenze STEM saranno sempre più richieste in futuro...
“Sono quelle che più difficilmente i robot possono rimpiazzare e saranno certamente le competenze più richieste nel futuro. Anche per affrontare le grandi sfide che abbiamo davanti. Come il cambiamento climatico, la transizione digitale, l’energia, la lotta alla povertà. Cerchiamo un modo nuovo di insegnare e di parlare di matematica. Molto del mondo di domani comincia da li”.
Quale è il modo in cui lei si è avvicinata alle STEM?
“Mia madre era chimica e biologa. Ha sempre incoraggiato me e i miei fratelli a sperimentare, ad osservare, anche con la consapevolezza che la natura parla linguaggi diversi. Per esempio, in cucina sui barattoli del sale o dello zucchero scriveva sulle etichette formule chimiche invece dei nomi per stimolarci a imparare. Ritengo poi che il contatto con la natura fin dall’infanzia sia molto importante, perché stimola nei bambini la curiosità e la voglia di fare domande. Mio padre navigava e mi ha insegnato che il viaggio è un’opportunità di scoperta. Sono cresciuta a Gaeta, a contatto con il mare, e la presenza dell’orizzonte come margine verso lo sconosciuto. Ho scelto l’astrofisica perché la dimensione di una realtà anche oltre le possibilità offerte dai nostri 5 sensi, mi faceva sentire libera. Anche se la letteratura e la poesia erano due grandi passioni, occuparmi di spazi infiniti, mi offriva la possibilità di sentirmi parte di qualcosa più grande di me”.
Cosa può fare un genitore?
“Coltiviamo nei nostri figli la voglia di fare domande, di saper guardare, di esplorare punti di vista diversi. Può essere un’occasione per fare delle cose insieme. Raccontiamo loro il principio di Archimede mentre fanno il bagnetto, capiamo insieme perché la barchetta di gomma galleggia e un sassolino affonda. Stimoliamo delle domande. Ed è bello anche avere le risposte da cercare insieme. Una mamma o un papà che vivono l’avventura della scienza insieme ai figli può essere un momento di grande divertimento e ispirazione per i bambini. Cerchiamo il dialogo continuo con maestri e professori sui progressi in scienza e matematica. Non accettiamo mai risposte tipo “Non è portato per le materie scientifiche”. Se un bambino o una bambina pensano di non essere portati, è il dovere di un sistema educativo moderno sapere come « portarli » e non lasciarli indietro”.
Lei ha portato in giro un telescopio per far guardare le stelle ai bambini. Nel presentare l’iniziativa ha scritto: “Portiamo il cielo dove di solito non arriva”.
“I bambini sono mini esploratori, hanno una curiosità infinita. Sono insolenti nelle loro domande, non accettano qualsiasi risposta. Ed è proprio quello spirito là che dovrebbe essere preservato quando si entra nel ciclo scolastico. Raccontiamo loro che il sole è la stella più vicina, ma si può guardare solo di giorno. Che abbiamo dei superpoteri, perché possiamo guardare nel passato e lo facciamo ogni volta che guardiamo un cielo stellato, perché la luce deve arrivare a noi da lontano. La povertà educativa, che si è aggravata soprattutto nella parte di scuola d’obbligo, esclude da un futuro fatto di possibilità e di opportunità. I bambini e le bambine devono poter proiettarsi nel futuro al di là dei condizionamenti che vengono dal loro ambiente sociale. Devono poter desiderare qualcosa per loro stessi. Il termine desiderare viene da de -sidera, ovvero “essere lontani dalle stelle”. Abbiamo tutti dentro di noi un anelito a raggiungere qualcosa più grande di noi”.
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Matematica e virtù civili: una recensione di “La matematica è politica” di Chiara Valerio
di Marco Verani (MaddMaths! Matematica Divulgazione, Didattica - 12 Settembre 2020)
“La matematica è politica” di Chiara Valerio ci parla di virtù civili, così importanti e così dimenticate, e del ruolo che la Matematica ha nel forgiarle.
Diverse sono le virtù civili che affiorano, come fari, tra le pagine di Chiara Valerio.
Amore per la verità. Verità che deve essere conosciuta, ricercata, detta anche quando e’ scomoda. Mai imposta, mai subita.
Perseveranza. La matematica è palestra per allenare la perseveranza, per coltivare l’attenzione.
Bello ricordare e affiancare a questo punto le parole indimenticabili sull’attenzione di Simone Weil e Cristina Campo.
Umiltà. Fare matematica è ripartire dai propri errori, spesso riconoscere la propria incapacità, confrontarsi con il limite, il non-possibile. Smantellare l’idea del tutto è possibile sempre, subito.
Cura del bene comune. Tra i beni comuni più preziosi che abbiamo vi è la democrazia. Fare matematica è difesa ed esercizio di democrazia.
Chiara Valerio usa una bella espressione: ci dice che la matematica è una “disciplina di manutenzione”, manutenzione della democrazia, del con-vivere nel rispetto e nella solidarietà. Bellissima parola “manutenzione” che richiama il gesto paziente, lento e accudente delle mani. Sì, e’ vero: la matematica è politica.
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L’amore ai tempi del coronavirus
di Jeanette Winterson *
Il virus è arrivato del tutto inaspettato. Stavamo vivendo come al solito e, all’improvviso, le nostre esistenze sono cambiate. Ciò su cui avevamo fatto affidamento fino a quel momento era scomparso. Una situazione nuova, strana.
L’amore è lo stesso. Abbiamo le nostre vite in ordine e, poi, compare qualcuno, e il mondo viene messo sottosopra, capovolto. Abbiamo un bambino e niente è più come prima. Perdiamo qualcuno che amiamo e la vita diventa l’ombra di ciò che era.
L’amore ha effetti dirompenti. Quando bruciano le foreste, un metodo per spegnere il fuoco è con il fuoco, contenere l’incendio creandone uno nuovo. Proprio adesso, nel momento in cui le nostre vite sono state interrotte da un nemico che sfugge alla nostra vista, tranne che per gli effetti che determina, possiamo ricordare che anche l’amore è un alleato che sfugge alla nostra vista, non lo possiamo vedere, se non che per gli effetti che determina.
L’amore può arginare la nostra paura. Con l’amore, non siamo soli, isolati o sperduti. Quando troviamo l’amore, in ognuna delle sue forme, non ci preoccupiamo di ciò che interrompe. Con un bambino appena nato non dormiamo, non possiamo più lavorare, fare quello che ci piace. Con qualcuno che amiamo, siamo in grado di pensare solo a quella persona. Un nuovo amico o un nuovo interesse sottrae tempo e attenzione da quello che c’era già, eppure ce la caviamo piuttosto bene. Spesso anche meglio di prima.
L’amore che conosciamo ci rende resilienti. L’amore che c’è in questo momento nelle nostre vite ci dà forza. È il momento di rendere l’amore ancora più grande, di condividerlo con gli altri, così che nessuno sia solo.
Se ti sembra che non tu non stia ricevendo amore, allora dallo tu. E questo comprende dare amore a noi stessi. Pulire la casa può essere un’incombenza o un atto d’amore. Cucinare un pasto può essere un peso o tutto l’amore di cui puoi cibarti. Vestirti bene per te stesso non è suonare la lira mentre Roma brucia, è un atto di rispetto verso noi stessi. C’è una grossa differenza tra amare se stessi ed essere egoisti. Quando ci amiamo nel modo in cui potremmo amare un caro amico, siamo anche più bravi ad amare gli altri.
Sono cresciuta in una famiglia religiosa. C’erano degli svantaggi: una mentalità chiusa, pregiudizi, disinteresse verso i cambiamenti sociali. Ma alcune cose erano comprese meglio di quanto lo siano nel mondo moderno e laico. La Bibbia ci insegna questo: l’amore perfetto scaccia la paura. Significa che l’amore è un antidoto contro la paura. Sappiamo sulla base delle nostre esperienze che quando amiamo qualcuno siamo coraggiosi in suo nome. Facciamo sacrifici e assumiamo rischi. E ci sentiamo protetti dall’amore degli altri. Il vantaggio psicologico che ci dà l’amore non può essere mai sopravvalutato. L’amore ti fa bene. Soprattutto in tempi di paura.
C’era qualcos’altro appeso al muro di casa: l’amore è forte come la morte. È un’affermazione importante. Se la esaminiamo, ci rendiamo conto che l’amore è ciò che sopravvive alla morte fisica degli altri. Continuiamo ad amare qualcuno anche quando se n’è andato. E se scaviamo più a fondo in questa idea, capiamo che l’amore può opporsi al desiderio di morte che tutti, ogni tanto, proviamo. Non parlo di suicidio, ma di auto-sabotaggio, di certi comportamenti distruttivi nei quali ci ritroviamo impigliati. Amarci un po’ meglio, insieme all’amore degli altri che ci protegge, combatte la negatività che può sopraffarci.
Proprio ora dobbiamo liberare amore come colombe sopra la città. Lasciare che l’amore atterri nelle piazze, sui balconi, alle finestre, sulle spalle di tutti. Amore è il messaggero e il messaggio. Fatelo uscire. Portatelo a casa. L’amore è il meglio di noi.
*Jeanette Winterson è una scrittrice inglese, autrice, tra i tanti, di Non ci sono solo le arance (Mondadori, 1999) e Perché essere felice quando puoi essere normale? (Mondadori, 2012), che in Italia hanno avuto grande successo. Il suo ultimo libro si intitola Frankissstein (Mondadori, 2019).
*Fonte: VF, 23 aprile 2020
Sondaggio, il mondo è d’accordo su una cosa: l’importanza della parità di genere
Secondo la ricerca dell’istituto statunitense Pew Research Center in 34 paesi, il 94% degli intervistati definisce “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%
di STEFANIA DI LELLIS (la Repubblica, 30 aprile 2020)
Forse può sorprendere, ma una delle cose su cui la maggior parte del mondo è d’accordo è l’importanza della parità tra uomo-donna. A raccontarlo è l‘ultimo studio del Pew Research Center, un accreditato istituto americano di ricerche e sondaggi.
Pew ha contattato 38.426 persone in 34 paesi e il 94% degli intervistati ha definito “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%. La maggioranza in 30 nazioni sostiene che la parità di diritti sia anzi “molto importante”: tra queste la Svezia dove a pensarlo è il 96%. In Italia però la percentuale delle persone convinte di ciò (ovvero che sia molto importante) è la più bassa nell’Europa occidentale: 74%
Più di metà (54%) degli intervistati nella maggior parte dei paesi Ue, negli Usa, in Giappone, Israele, Australia e Corea del Sud dice che gli uomini sono favoriti quando si tratta di occupare posizioni lavorative con stipendi alti. Una valutazione che in Italia è condivisa dal 63%.
La ricerca è stata condotta tra maggio e ottobre dello scorso anno e viene pubblicata solo oggi. Ma ci offre spunti di riflessione molto attuali: il 40% delle persone nella maggioranza dei paesi ascoltati ritiene che gli uomini debbano avere la precedenza sulle donne in caso di scarsità di posti di lavoro. In Italia la percentuale di uomini fautori di questa corsia preferenziale tocca il 46% contro il 34% della popolazione femminile.
L’ottimismo sulla parità futura è più maschile che femminile. In Italia il 71% delle donne ritiene che si arriverà al traguardo, contro l’84% degli uomini. E più di metà dei sondati in Italia, come in Francia, Grecia, Slovacchia, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Israele, Libano Tunisia pensa che la strada delle donne verso la leadership politica sia decisamente più in salita rispetto a quella degli uomini.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
FILOSOFIA, ARITMETICA, E ANTROPOLOGIA. I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE ... *
Discussioni
Il lato matematico di Platone
Così Reale recuperò i Greci
Esce una raccolta di studi del grande antichista italiano, difensore dei classici contro la visione scientista e il disprezzo diffuso per la teoria. La concezione delle idee come principi numerici, il primato della dottrina non scritta
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 25.11.2018, p. 11)
Nel corso degli anni Novanta, quando la filosofia analitica, quella che si concepisce come analisi logico-formale, aveva raggiunto il suo apice, c’era chi aveva cominciato a gettare discredito sul pensiero antico, nonché ovviamente sullo studio della lingua greca e di quella latina. A che pro studiare quel capitolo chiuso e concluso? Perché perdere tempo con Platone anziché risolvere i problemi attuali?
In quel delicato frangente, che ha lasciato segni evidenti altrove, Giovanni Reale (scomparso nel 2014) ha svolto in Italia un ruolo decisivo a difesa della filosofia classica. Ne è testimonianza il volume Storia della filosofia greca e romana che, appena pubblicato da Bompiani, raccoglie gli studi del grande antichista in un percorso suggestivo che va dai primi frammenti, risalenti almeno al VI secolo a.C., fino al decreto con cui l’imperatore bizantino Giustiniano chiuse nel 529 d.C. tutte le scuole dell’Impero guidate da pagani. Oltre mille anni di storia della filosofia narrati con perizia, sapienza, semplicità.
Reale ha lavorato a quest’opera per quattro decenni, intendendola quasi come un commento e un supporto alla fortunata collana del «Pensiero occidentale», dove sono usciti in edizione italiana, con testo a fronte, numerosissimi classici.
Il richiamo a Martin Heidegger è significativo. L’inizio greco non è destinato ad essere superato in grandezza dalle altre epoche. Al contrario: la filosofia dei Greci è la più grande. E la filosofia è prettamente greca. Perciò è peculiarità dell’Occidente; non esiste in altre tradizioni nulla di paragonabile. Da un canto Reale punta l’indice contro lo scientismo, che pretenderebbe di misurare la filosofia con i criteri della scienza, dall’altro denuncia il dilagante disprezzo per la «teoria» che non servirebbe alla vita pratica. Occorre guardare alla filosofia greca dove la teoria è una forma di prassi. Come sostiene Aristotele nella Politica, attivi al più alto grado sono coloro che esercitano un’attività di pensiero; tanto più che theoreîn non significa solo «vedere», ma anche «partecipare».
Reale si riconosce nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer che, rilanciando l’insegnamento di Heidegger, ribadiva l’attualità del pensiero greco. Erano gli anni in cui il conflitto con la filosofia analitica veniva letto secondo il paradigma: «Noi greci, loro moderni». Ma la ripresa della riflessione antica non è antiquaria. Se la filosofia è indissolubilmente legata alla sua storia, questa storia non segue la freccia del progresso. Ecco perché, nell’apertura circolare di un dialogo, ammette e, anzi, sollecita la partecipazione. Al contrario di quel che avviene nella scienza, le domande della filosofia sono sempre le medesime, solo poste in modo differente. In tal senso l’incontro con la filosofia greca è «l’incontro con noi stessi».
Nata nelle vie e nelle piazze della pólis, dove il cittadino è chiamato alla vita politica, la filosofia si sviluppa lungo il filo conduttore del lógos, del discorso, dell’argomentazione, della ragione. Ma per Reale ciò che contraddistingue la tradizione greca è la metafisica, quel modo di pensare oltre i dati sensibili della realtà presente. Ne scorge le tracce già nell’orfismo, in quella iniziale religiosità ascetica, che per la prima volta parla di un che di «divino», che alberga nel corpo umano, cioè l’anima, la psyché. La morte è una liberazione dalla prigione del corpo, un ritorno all’origine dopo le sofferenze patite in terra. Questa potente dottrina della trasmigrazione delle anime, scaturita dalla fantasia orfica, capace di dischiudere l’aldilà, si sarebbe poi innestata nel cristianesimo.
Protagonista del volume è Platone, in cui Reale riconosce il «vertice del pensiero antico». È stato infatti il primo filosofo a guardare la realtà con «nuovi occhi», quelli dell’anima. Reale ricorda la «seconda navigazione» descritta da Platone nel dialogo Fedone. A parlare è Socrate, deluso dall’indagine sui fenomeni naturali; il suo timore è che, seguendo coloro che si volgono immediatamente alle cose, pretendendo di coglierle con i cinque sensi, finisca per accecare la propria anima. Si prepara allora alla «seconda navigazione», metafora del linguaggio marinaresco, che indicava il caso in cui, non essendoci più vento, la nave poteva essere spinta solo dai remi.
Questo è il passaggio decisivo dal sensibile all’intellegibile, dalla conoscenza che si accontenta dei sensi a quella che si innalza alle idee, intese da Platone come le «forme» delle cose. In questo varco metafisico sta per Reale il vero inizio della filosofia. Le idee sono principi formali, numerici, sono anzi numeri ideali.
Vale la pena ricordare che Reale aderì alla Scuola di Tubinga, le cui figure più significative furono Konrad Gaiser, Hans Krämer, e in seguito Thomas A. Szlezák. L’insegnamento di Platone non può essere confinato agli scritti, ma va ricercato piuttosto nella dottrina «non scritta» trasmessa, fra gli altri, anche da Aristotele.
Ne risulta una filosofia sistematica e fortemente matematizzata, dove assume rilievo la riflessione sull’uno, ma soprattutto sul due - che cosa significa due? - sulla diade infinita, «principio e radice della molteplicità degli esseri». -Anche chi non ne condivida i contenuti, dovrà ammettere che questa interpretazione, di cui Reale è stato il maggior esponente in Italia, ha aperto nuove vie di ricerca.
L’ammirazione per Platone, il grande pioniere del soprasensibile, non impedisce a Reale di scrivere pagine eccellenti su Aristotele, dalla fisica all’etica, dalla logica alla poetica, ricostruendo la portata epocale del suo pensiero. Ma a segnare una cesura, capace di ripercuotersi sulla filosofia, è il tramonto definitivo della pólis nel tempo di Alessandro Magno. Al cittadino subentra il suddito e, mentre vengono meno le antiche passioni, ciascuno è rinviato a se stesso e alla propria individualità in un mondo dove l’etica si scinde dalla politica, come attestano le scuole filosofiche successive.
Il volume contiene un’ultima parte in cui, da Filone d’Alessandria ad Agostino d’Ippona, viene delineato l’incontro fra tradizione ebraica e filosofia platonica, da cui sarebbe scaturito il cristianesimo. Particolare risalto assumono anche le figure di Plotino e di Proclo.
Viene prospettata allora una «terza navigazione», quella che non si ferma all’oltresensibile delle idee, alle forme immutabili, ma si apre agli imponderabili misteri della fede.
Si legge qui in filigrana il cammino sia intellettuale sia autobiografico di Reale, molto improntato, in particolare negli ultimi anni, a un’ispirazione religiosa. L’oltre della metafisica, che riteneva di non trovare più nel mondo attuale, ha improntato la vita contemplativa di questo grande maestro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
CULTURE
Scoprì le stelle pulsar ma il Nobel andò al suo professore: 44 anni dopo, l’astrofisica si prende la sua rivincita
Jocelyn Bell Burnell era solo una studentessa di Cambridge negli anni ’70 e, per di più, donna. Come "risarcimento" riceverà un premio da 3 milioni di dollari
di Huffington Post (07.09.2018)
Per la scoperta delle stelle pulsar - merito suo - l’astrofisica britannica Jocelyn Bell Burnell non ricevette alcun premio. Anzi, il Nobel per la Fisica, che le spettava, invece che a lei andò al suo professore. D’altronde lei era solo una studentessa di Cambridge, giovane e per di più donna. Oggi, però, la scienziata si è presa una rivincita: in USA le è stato assegnato lo "Special Breaktrough Prize", un premio finanziato dai miliardari della Silicon Valley, del valore di 3 milioni di dollari.
Basterà questo risarcimento tardivo a compensare lo "scippo" del Nobel? "Sono rimasta assolutamente senza parole", ha affermato Jocelyn ai media dopo aver appreso la notizia, "e chiunque mi conosce sa che non sono mai senza parole. Non era mai entrato neppure nei miei sogni più bizzarri".
Jocelyn Bell Burnell fu autrice di una delle maggiori conquiste scientifiche del XX secolo. Nata nel 1943 in Irlanda del Nord, Jocelyn era arrivata all’università di Cambridge per un dottorato. Fu proprio durante il periodo di studio, precisamente nel 1967, che fece l’importante scoperta: mentre esaminava i dati provenienti da un radiotelescopio che aveva aiutato a costruire, si accorse di un segnale insolito, onde radio che pulsavano a intervalli regolari. "Me ne sono accorta perché ero molto attenta, molto precisa, a causa della ’sindrome dell’impostore’", ha raccontato al Guardian. Il riferimento è a quella sensazione di essere sempre in errore: Jocelyn dubitava delle proprie capacità e temeva di poter essere cacciata da Cambridge.
Fu il professore il primo a "smontarla": le disse che quel segnale era semplicemente un’interferenza, di origine umana.
Lei non si arrese: raccolse ulteriori dati e rilevò tre diversi impulsi radio provenienti da diverse parti della galassia. Questi provenivano da stelle pulsar, le quali, quando ruotano su se stesse, emettono onde radio che si diffondono nello spazio come da un faro cosmico.
La scoperta fu talmente sensazionale da guadagnarsi il Nobel, che però non andò a Jocelyn ma al suo professore. "Ero soltanto una studentessa", commenta oggi la scienziata. Come per riscattare il torto subito, l’astrofisica donerà i 3 milioni vinti per finanziare gli studi scientifici delle giovani donne.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti"? ..... *
Antropologia.
Caleb Everett: Siamo tutti figli dei numeri
Sono fondamentali per lo sviluppo della civiltà, delle relazioni umane e della coscienza di sé. Parla l’antropologo che ha studiato le società primitive che non ne fanno uso
di Eugenio Giannetta (Avvenire, mercoledì 15 agosto 2018)
Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa? Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Eppure ci sono società, popoli diversi dal nostro, che vivono senza i numeri per come li conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Tutto ciò è al centro del lavoro di Caleb Everett, docente di Antropologia all’Università di Miami, che ha ripercorso le tappe dell’invenzione dei numeri: «Un insieme fondamentale di innovazioni di carattere linguistico che hanno contraddistinto la nostra specie in modi che non hanno trovato adeguato riconoscimento».
I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici.
«Nella popolazione Munduruku dell’Amazzonia - spiega Everett -, non esistono parole esatte per i numeri superiori al ’due’. Nel caso di un altro popolo amazzonico, i Piraha, le parole per indicare i numeri non esistono affatto, nemmeno per il numero 1. Gli individui di queste popolazioni come fanno allora a rispondere alla domanda ’quanti anni hai?’, o ad altre domande che si basano sul concetto di numero e che per la maggior parte delle persone della nostra società riguardano aspetti fondamentali della vita?». Everett ricorda come i numeri siano protagonisti nel nostro presente, ma anche nel nostro passato, poiché segnano la cronologia degli eventi e la percezione del trascorrere del tempo. La sua analisi, però, non si limita a questo, tocca infatti altri aspetti, come quello simbolico, le concezioni numeriche di bambini in età pre-linguistica e le capacità numeriche di alcune specie animali.
È un lavoro antropologico tout court, che attraversa la storia dei numeri e del linguaggio, e che ne definisce appunto il tratto numerico e il valore della quantità, a partire da misurazioni primitive, quindi da unità di misura indicate inizialmente con parti del corpo umano, fino a un diverso e più sviluppato livello di astrazione. Il risultato finale di queste ricerche, che hanno portato Everett in Amazzonia e Nicaragua,- è il saggio I numeri e la nascita della civiltà. Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia (Franco Angeli, pagine 282, euro 25), di cui abbiamo parlato con l’autore, la cui tesi, riferita già dal prologo del volume, rivela come i numeri abbiano nel tempo consentito una fioritura di tecnologie materiali e comportamentali:
«Nella vita quotidiana ci affidiamo a conoscenze che non sono propriamente nostre, che possiamo ricavare dalle menti altrui, e che in molti casi sono state acquisite casualmente e in modo violento nel corso dei millenni. Pensate ad alcuni esempi della vostra cultura: non avete dovuto inventare l’automobile, gli impianti di riscaldamento o il modo più efficiente per sfilettare il pollo: sono tecnologie e comportamenti che avete ereditato. Le vostre azioni sono state modellate attraverso gli altri e siete stati educati ai vostri comportamenti, sia in modo formale che informale, attraverso il linguaggio».
Riflessioni, quelle dell’autore, che sono il risultato di un approfondimento capillare di ulteriori studi condotti da archeologi, linguisti e psicologi, che negli ultimi anni hanno provato a mostrare come i numeri siano un’invenzione in primo luogo linguistica, spesso creati a partire dalla parola mano, che ha consentito di definire le quantità con minore approssimazione. Un passaggio non distante, ad esempio, da quanto accadde con l’invenzione delle parole per definire i colori.
Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri?
«Ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma presumendo che siano magicamente scomparsi, dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Le popolazioni anumeriche, o quelle con pochi numeri, non tengono traccia di cose come ore, minuti e secondi».
Senza i numeri, come sarebbe la nostra vita?
«Senza numeri le nostre vite sarebbero probabilmente molto più simili a quelle delle persone di cui parlo nel libro. Probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non indu-strializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti concettuali che chiamiamo numeri».
I suoi genitori erano missionari e si sono occupati della traduzione della Bibbia in varie lingue, cosa che le ha dato la possibilità di passare molto tempo tra le tribù dell’Amazzonia. La sua esperienza da bambino in quei luoghi e con quelle culture ha ispirato questo lavoro?
«Certamente, mi ha dato un’esperienza di prima mano con un gruppo di persone che non ha numeri, che alla fine mi ha portato a interessarmi a questo argomento, come ricercatore, anni dopo».
È possibile che cambi la cultura numerica di una popolazione?
«Le culture numeriche cambiano continuamente. Basta considerare quanto sia cambiata la cultura numerica dell’Europa, o più specificamente la regione che ora è l’Italia. Durante l’impero romano fu usato un insieme di numeri completamente diverso, che aveva alcuni svantaggi rispetto al sistema numerico indù-arabo che ora usiamo. Fibonacci lo riconobbe nel XIII secolo e, in parte per via del suo lavoro, i numeri che ora usiamo arrivarono alla diffusione in tutto il mondo. E hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione scientifica».
Nella nostra epoca numeri e dati sono sempre più importanti, basti ragionare sul concetto di big-data. Quanto emerge questo aspetto dal suo lavoro?
«Faccio ricerche anche su altri argomenti, ad esempio sui suoni prodotti dagli esseri umani. E questa ricerca richiede l’utilizzo di big data. In un recente lavoro con migliaia di linguaggi, ad esempio, il mio lavoro suggerisce che il clima potrebbe influire sul modo in cui le lingue evolvono».
È possibile pensare a numeri scollegati dalla loro rappresentazione linguistica?
«Potrebbe essere possibile, ma possiamo dire con certezza che, prima di essere annotati o espressi in altri modi non verbali, in ogni cultura i numeri venivano prima pronunciati».
C’è una differenza tra tradizione orale e scritta riguardo ai numeri?
«La tradizione orale ha il primato, ma tornando a Fibonacci, ad esempio, i numeri che ha introdotto avevano una storia diversa rispetto ai numeri parlati italiani»
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Festa rococò per la pioniera della matematica Agnesi
A 300 anni dalla sua nascita, ’parla’ ancora alle donne di oggi
di Redazione ANSA *
E’ italiana la prima donna della storia ad aver scritto un libro di matematica, riscuotendo tra l’altro un enorme successo internazionale: è Maria Gaetana Agnesi, l’enfant prodige che nel ’700 ha prima stupito i salotti milanesi con la sua intelligenza e poi ha cercato di portare la matematica a tutti con un brillante stile comunicativo. Donna simbolo della scienza caduta poi nell’oblio, a 300 anni dalla sua nascita torna a ’parlare’ alle donne di oggi, ricordando che la loro affermazione in campo scientifico è una conquista da difendere ogni giorno.
Per celebrarla, venerdì 26 gennaio il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia si tuffa nelle atmosfere del ’700, per una festa-evento in stile Rococò aperta al pubblico che prevede attività nel laboratorio di matematica, balli d’epoca e un dj set che mescolerà sonorità antiche e moderne. Ci sarà anche un corner in cui si potrà scattare un selfie d’epoca con tanto di parrucche, trucchi e accessori.
A dare il via alla festa è un incontro con Massimo Mazzotti, storico e sociologo della scienza dell’Università della California a Berkeley, che ricorda: “Maria Gaetana Agnesi è stata una tipica bimba prodigio del ’700: fin da piccola ha mostrato un’intelligenza molto vivace, che nell’adolescenza l’ha portata ad approfondire le materie scientifiche riuscendo a raggiungere una preparazione superiore a quella dei coetanei maschi.
A soli 30 anni ha pubblicato un libro di matematica per guidare gli studenti italiani dai rudimenti dell’algebra al calcolo infinitesimale. Lo ha fatto spiegando concetti astratti con esempi intuitivi e concreti, alla portata di tutti, e la sua grande capacità di sistematizzare le conoscenze del tempo è stata apprezzata dai più grandi matematici, che hanno fatto tradurre la sua opera anche in inglese e francese”. La sua figura “ci ricorda che l’inclusione delle donne nella scienza non è avvenuta in maniera progressiva - sottolinea Mazzotti - e anche oggi, come allora, c’è sempre il rischio di tornare indietro”.
* ANSA 26 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Marie Curie. Radio e Polonio
di Francesca Serra (Doppiozero, 07.11.2017)
Una volta un’amica mi raccontò di un collega (maschio) che entrato in una stanza dove si trovavano sei colleghe (femmine) domandò: "Ah siete sole?". "No", rispose una di loro, "te sei solo, noi siamo sei". L’aneddoto mi è sempre sembrato esilarante. E tragico: per lui intendo, poveretto. Come un ventriloquo che si ascolti uscire di bocca cose turche, quanto si sarà sentito stupido da uno a cento?
Eppure facevano tutti e sette parte di una categoria composta non certo di stupidi ma anzi di cervelloni: erano infatti degli studiosi di fisica. Gente che avrà magari la testa tra le nuvole, ma dovrebbe saper contare. Invece il protagonista di questa scena, spinto da forze collettive a lui superiori, aveva cancellato perfino il ricordo del pallottoliere di fronte alle sei donne sole che lo guardavano allibite.
A sua parziale giustificazione bisogna riconoscere che in effetti non era solo, quando si è affacciato nella stanza dove si trovava il gruppetto solitario di colleghe. Dietro di lui premeva una folla di antenati a dir poco illustri: Francesco Petrarca, per esempio, il fondatore della soggettività lirica della cultura occidentale. In un famoso sonetto del suo Canzoniere Petrarca parla di dodici donne (dico 12: il doppio delle nostre 6 di partenza) che se ne vanno in barca da “sole”.
Lo cito per chi lo avesse letto dodici volte senza mai accorgersene: “Dodici donne onestamente lasse, / Anzi dodici stelle, e ’n mezzo un Sole, / Vidi in una barchetta allegre e sole”. Ricordiamoci di loro. Sei, dodici, ventiquattro. Si possono scalare tutti i gradi della moltiplicazione, quadrata o cubica, sempre sole rimangono: magari allegre, in buona compagnia l’una dell’altra, ma irrimediabilmente sole.
Ricordiamoci di queste donne quando ci avviciniamo al libro di Gabriella Greison, Sei donne che hanno cambiato il mondo. Le grandi scienziate della fisica del XX secolo, appena uscito per Bollati Boringhieri. Marie, Lise, Emmy, Rosalind, Hedy, Mileva: sei donne sole sulla barchetta della fisica moderna, nel mare in tempesta del Novecento.
L’ultima è la prima moglie di Einstein e riapre l’annoso capitolo delle ombre dei grandi uomini. Quelle donne che governano i figli con una mano, mentre con l’altra spingono i mariti verso la gloria. La penultima se ne sta distesa su uno spicchio di luna in copertina, somigliante come una goccia d’acqua a Vivien Leigh. Fu una celebre attrice hollywodiana e insieme l’inventrice di una tecnologia della comunicazione su frequenze radio che sta alla base del nostro Wi-Fi. Rosalind è una pietra miliare nella storia della scoperta del DNA. Emmy ha battezzato un famoso teorema matematico con il suo nome. Lise era considerata la Marie Curie tedesca. Infine Marie è Marie Curie in persona.
Marie Curie non è Che Guevara, ma poco ci manca. Le manca certo ogni sex appeal fotografico, eppure è diventata un santino di diffusione globale. Non la sua immagine: nei nostri tempi patinati francamente improponibile per cupezza e vecchiume. Ma proprio il suo nome. Dici “MarieCurie” tutto d’un fiato e si schiudono le porte del futuro. Una delle più prestigiose borse di studio europee per giovani ricercatori le è intitolata. L’austera polacca che veniva dal nulla e che ha vinto non uno ma due premi Nobel, è un monumento al genio scientifico. Costruito a forza di duro lavoro e sacrificio.
Gabriella Greison racconta che Marie da giovane era “attratta alla stessa maniera dalla letteratura e dalla fisica, e non riusciva a decidere quale delle due strade intraprendere”. A volte ci si chiede cosa sarebbe stato della storia del Novecento se Hitler fosse diventato un pittore invece che un dittatore. E se Marie Curie fosse diventata una poetessa? Oppure una celebre narratrice? Avrebbe potuto scrivere un romanzo, per esempio, su Radio e Polonio. Due fratelli nati all’inizio del XX secolo da un padre che si chiamava Pierre e da una madre di nome Marie, che attraversarono il secolo affrontando le più rocambolesche avventure.
Polonio nacque per primo e quando divenne famoso molti cercarono di attribuirsene la paternità. Ma Marie era donna sulla cui onestà non si poteva scherzare. Lo stesso avvenne per Radio, che vide la luce subito dopo e rubò ben presto la scena al fratello. Le differenze di carattere dei due erano sottili ma decisive: Polonio, nonostante tutto, era un ragazzo moderato e tradizionale rispetto all’irruenza del fratello. Mentre a Radio nessuno poteva dire nulla. Ribelle e incontrollabile, a volte sembrava sfuggire di mano perfino ai poveri genitori, che cercavano di trattarlo con i guanti.
Non appena entrarono a scuola, Radio e Polonio scombussolarono l’intera classe, che era tenuta insieme a fatica da un maestro di nome Dmitrij Ivanovič Mendeleev. Chiamato dalla Siberia per metterli in riga, Mendeleev aveva creato una ingegnosa classificazione dei suoi 63 studenti a seconda di quello che lui chiamava il loro “peso atomico”. Vale a dire la loro capacità di fare scoppiare una bomba di risate e confusione mentre lui spiegava per esempio i principi di chimica o il funzionamento dello spettroscopio.
I ragazzi iniziavano piano piano a scandire il nome Lju-ba, Lju-ba, che era la bellissima figlia minore di Mendeleev e ogni interesse per il sistema periodico spiegato da quel vecchio con i capelli lunghi e la barbona bianca decadeva all’istante. Finché qualcuno dall’ultima fila non si metteva a proclamare i versi che l’esimio poeta Aleksandr Block, nonché marito della stessa Ljuba, aveva dedicato all’incantevole moglie. Facendo montare su tutte le furie il vecchio che del suo celebre genero e della letteratura in generale se ne infischiava del tutto.
Eppure di quei turbolenti anni scolastici Radio e Polonio si ricordarono in seguito soltanto i versi per Ljuba. E la parola “radio-attività” che Mendeleev usava per prendere in giro Radio, minacciando di sbatterlo fuori dalla classe in quanto capo dei peggiori sbuccioni. Il maestro non aveva torto: la sua, infatti, era quella che oggi si definirebbe una spaventosa sindrome da deficit di attenzione e iperattività, che lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1927 la madre dei due ragazzi comparve in una fotografia scattata al quinto congresso di Solvay, sola in mezzo a 28 scienziati uomini. Quando molti anni dopo la foto fu mostrata ai figli, nel corso di un’intervista dedicata alla storia della loro bizzarra famiglia, Polonio scoppiò a ridere: “Sola?”. E Radio che era con lui continuò: “Voi siete soli. Lei è in mezzo ai fuochi d’artificio dell’eternità”.
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! ...
PER UNA SCUOLA CHE INSEGNI A VOLARE. Una nota a margine di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?" ...
EDUCAZIONE? CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Pur condividendo con l’Autore di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?", la linea strategica della sua riflessione ("della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa"), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è "nascosto", vale a dire su "CHI" educa "CHI" - a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( "ex-DUX-azione"), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ "Emilio"), sull’uomo virtuoso, sul diventare "padrone di se stesso", e sul comandare al proprio "cuore", e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: "L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri" ("Il contratto sociale"); e, insieme, sul tema del "CAPO" (preziosa al riguardo la "lezione" di Gramsci del 1924).
La questione è "eterna" ed è ... intrecciata con la questione delle Sibille e dei Profeti di Copertino (cfr. Pierpaolo Parsi: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: "Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una "Cappella Sistina" carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica", Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: "Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della "società civile". J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà" (pp. 101-110).
PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della "Critica della Ragion Pura", occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo "stato di minorità", non si può non tenerne conto!
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!
Federico La Sala
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.... *
INTERVISTA
L’invito di Alain Badiou: i filosofi imparino (dal)la matematica
La crociata di Alain Badiou: non basta avere opinioni per essere pensatori, occorre conoscere le scienze.
L’«Elogio» a teoremi e calcoli pubblicato da Mimesis
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi *
«Chiunque è ormai considerato un filosofo», protesta Alain Badiou. «Oggi è sufficiente avere delle opinioni (e relazioni mediatiche giuste) per farle credere universali, benché assolutamente banali». Il filosofo de L’essere e l’evento (il Melangolo, 1995) a 80 anni critica l’abitudine contemporanea, specialmente francese, a confondere tra le figure del filosofo e dell’opinionista. «Non si può certo dominare l’intero campo delle scienze ma si può, e si deve, averne una conoscenza sufficiente, un’esperienza abbastanza approfondita e ampia. Invece, oggi sono numerosi i “filosofi” ben lontani da questo requisito minimo e, in particolare, lontani dal sapere matematico che, da sempre, è stato il più importante per la filosofia». Così nasce Elogio delle matematiche (Mimesis), il libro con il quale Badiou reagisce a quella che ritiene l’usurpazione della qualifica di «filosofo». Il discrimine è lo studio e la conoscenza della matematica: «Con lei è impossibile barare». La matematica come via per il rigore filosofico dunque, e come fonte di gioia intellettuale per tutti.
Da dove deriva la sua fascinazione per la matematica?
«Si tratta senza dubbio di una tripla origine. Famigliare, per cominciare: mio padre era professore di matematica, e fino alla sua morte ha continuato a risolvere problemi per il semplice piacere di farlo. Un’origine scolastica, poi: ho avuto molti insegnanti di matematica capaci di entusiasmare la classe, in particolare mettendo in evidenza la raffinatezza e la formidabile inventiva che una dimostrazione, anche apparentemente semplice, può contenere. E un’origine filosofica, infine: ho dovuto constatare che, nella storia della filosofia, la matematica occupa un posto decisivo e questo dall’inizio, a cominciare da Platone. Due grandissimi filosofi moderni, Cartesio e Leibniz, sono anche dei grandissimi matematici. Pure Hegel, secondo il quale i matematici riescono a pensare solo un ”falso infinito”, consacra loro un capitolo molto brillante della sua Logica. Mi inscrivo in questa tradizione. Mi oppongo dunque, in ragione della stessa origine della mia passione, a due correnti contemporanee: quella che trascura completamente la matematica o addirittura la disprezza, corrente che ha come iniziatore e leader senza dubbio Nietzsche; e la corrente che tributa alla matematica un culto accademico, sviluppando una filosofia molto povera, ovvero la filosofia analitica americana».
Lei si dedica con regolarità alla matematica?
«Sì. Lo faccio adesso in legame stretto con lo sviluppo della mia costruzione filosofica. Lo studio dettagliato della teoria moderna degli insiemi, con i magnifici teoremi di Gödel e di Cohen, ha accompagnato tutta la concezione e la scrittura de L’essere e l’evento (edito in Francia nel 1988, ndr). Mi sono immerso in seguito nella visione recente della matematica rappresentata dalla teoria delle categorie, secondo la quale non ci sono oggetti matematici in senso proprio ma solo delle relazioni. Faccio il bilancio filosofico di questo studio nelle Logiche dei mondi (2005). In questo momento sto completando un terzo libro sistematico, L’immanenza della verità, per il quale ho studiato a fondo la teoria contemporanea dei ”grandi infiniti”. Tutto questo rappresenta, mi creda, un numero di ore, giorni, o mesi, davvero considerevole»
Esiste un atteggiamento tipico, tradizionale, del filosofo nei confronti del matematico? Magari una diffidenza basata sull’incomprensione? E viceversa?
«La filosofia è nata in Grecia con la matematica, come dicevo prima, nello stesso movimento, e questa vicinanza si è mantenuta, sotto forme diverse, fino a oggi. È vero che una corrente empirista, esistenzialista, vitalista, spesso legata alla psicologia, ha sviluppato un disprezzo diffidente nei confronti della matematica, soprattutto dopo la fine dell’Ottocento. Ma penso che questo atteggiamento, anche in Sartre che fu uno dei miei maestri, è fondato nella maggior parte dei casi sull’ignoranza. Il dramma, in Francia, è che i due grandi pensatori della matematica a metà del secolo scorso, Cavaillès e Lautman, hanno scelto senza esitazione, durante la guerra, il campo della Resistenza e sono stati entrambi uccisi dai nazisti. Questo ha prodotto un ritardo importante, in Francia, nel legame fondamentale che deve esistere tra l’invenzione matematica più recente e la creazione filosofica. Possiamo dire che con il compianto Jean-Toussaint Desanti abbiamo cercato di contribuire all’eliminazione di questo ritardo. Peraltro, in un certo senso, c’è una risposta molto semplice alla sua domanda: chi pratica, davvero, la matematica, non può che amarla. Chi non la ama dimostra per questo stesso fatto di ignorarla»
Pensa che i filosofi potrebbero o dovrebbero trarre maggiore ispirazione dal rigore dei matematici?
«Certo! La filosofia è una disciplina argomentativa, anche se si autorizza retorica politica, transfert sulla persona del Maestro, e le risorse seducenti della poesia. Tutto questo si trova nel fondatore di quel che ancora oggi noi chiamiamo ”filosofia”, ossia Platone. Detto questo, c’è un limite. La matematica propone un modello rigoroso di dimostrazione, del quale conosciamo tutte le regole logiche, dove tutte le nozioni sono chiaramente definite, e che può pure essere formalizzato in una lingua artificiale. La filosofia, che opera nella lingua ordinaria, e che tratta dei problemi fondamentali della vita umana, individuale e collettiva, evidentemente non può pretendere questa trasparenza formale. Ma deve proporre degli argomenti quanto più rigorosi è possibile».
Una figura come Alexandre Grothendieck, con le sue prese di posizione filosofiche e politiche, potrebbe essere considerata come un esempio della relazione possibile tra i due mondi?
«È vero che per intendersi bisogna essere in due. Il legame tra filosofia e matematica deve, se possibile, coinvolgere anche i matematici. Ma è difficile. Era più facile ai tempi di Cartesio e Leibniz, che erano allo stesso tempo grandi filosofi e creatori matematici. È vero che alcuni giganti della matematica, come Poincaré, Gödel o, in effetti, proprio Grothendieck, hanno manifestato un reale interesse per la nostra disciplina. Non sono sicuro, tuttavia, che siano andati lontano quanto avrebbero potuto in questa direzione. Quello di Grothendieck è un caso limite, perché possiamo supporre che convinzioni di natura polito-filosofica lo abbiamo in qualche modo sviato dalla carriera matematica. In generale, tuttavia, la forza dimostrativa della matematica affascina molti filosofi ma la debolezza dimostrativa, inevitabile, della filosofia, i cui fini abbordano il destino umano nel suo insieme, delude i matematici. È normale che sia così...».
Un filosofo del passato come Spinoza è stato influenzato dalla matematica?
«Nel Seicento, il modello matematico ha un tale ascendente che alcuni grandi filosofi tentano di presentare il loro sistema sotto la forma deduttiva che troviamo nel più antico trattato di matematica conosciuto, ovvero gli Elementi di Euclide. Si dice allora che la presentazione della filosofia si fa ”more geometrico”, al modo della geometria. Cartesio ha affermato così i ”principi” della sua filosofia. Leibniz ha anche cercato, per tutta la vita, una lingua in qualche modo assolutamente pura e universale, una ”Mathesis Universalis”, per esprimervi ugualmente le sue scoperte matematiche come il suo sistema filosofico. Il grande libro di Spinoza, l’Etica, che parla di Dio, delle Idee, delle Passioni, della vera vita, è scritto dall’inizio alla fine sotto forma di assiomi, di definizioni, e di proposizioni seguite dalle dimostrazioni. Ma questo non ha assicurato a Spinoza un’adesione universale. Esistono, prima e dopo Spinoza, molteplici orientamenti filosofici, spesso conflittuali, e una sola matematica che è, tranne in qualche periodo di crisi, del tutto consensuale».
Sempre più spesso, soprattutto in Francia, la carriera scolastica di un allievo è determinata dai suoi risultati in matematica, principale strumento di selezione. La cultura generale «respirata in famiglia», come direbbe Pierre Bourdieu, vi gioca un ruolo inferiore rispetto alle scienze umane? La matematica potrebbe dunque essere un’arma di democrazia e di parità delle opportunità, ma viene accusata al contrario di accentuare la separazione delle élite.
«Questo ruolo selettivo della matematica è una piaga. Non c’è niente di più egalitario della matematica perché normalmente, con un po’ di attenzione, una dimostrazione esposta chiaramente, e nella quale il linguaggio sia stato precisato in modo corretto, può convincere chiunque, ovunque si trovi, alla sola condizione che questi appartenga all’umanità. Inoltre, c’è un aspetto ludico nella matematica, perché risolvere un problema è un gioco appassionante. Penso che la matematica possa e debba essere imparata e praticata a lungo e da tutti, tutta la vita, e tenuta lontana dai processi sociali di selezione e di gerarchia. La matematica deve essere considerata come la più bella musica della quale sia capace il pensiero puro».
Perché la matematica può renderci felici? E in che modo?
«Mi piace paragonare il lavoro matematico a un’escursione in montagna. La partenza può essere faticosa, su una salita ripida. La cima può sembrare lontana. Dopo un tornante, eccone un altro, e si perde il respiro. Ci si può perdere, e cercare la direzione su una bussola di fortuna. In matematica, allo stesso modo, l’enunciato del problema può apparire complesso. I teoremi già conosciuti sui quali appoggiarsi sfuggono alla nostra memoria. A un certo punto, ti accorgi che hai seguito una pista sbagliata, che devi ricominciare. Ma quando il camminatore arriva sulla cima, che gioia immensa! Che vittoria! Con la matematica succede la stessa cosa. Quando alla fine hai risolto il problema, ti trovi davanti a un paesaggio mentale illimitato, ammiri in te stesso ciò di cui è capace il pensiero. Provi allora quel che Spinoza chiamava “la beatitudine intellettuale”».
* Corriere della Sera, 13 luglio 2017 (modifica il 14 luglio 2017 | 22:34) (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI:
COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE.
Matematici nell’ombra
di Michele Emmer (Alfabeta2, il 26 marzo 2017 · in AlfaDomenica · 1 Commento)
“Mi sento un matematico” dichiara il protagonista del film. Si dirà che non è una novità, oramai di film sui matematici se ne sono realizzati tanti e alcuni nomi di matematici sono diventati noti agli spettatori di cinema. Però chi formula quella frase è una donna. E questa è una bella novità, perché - se non si considera quel polpettone di Agorà realizzato qualche anno fa sulla incredibile storia della matematica greca Ipazia, impersonata da Rachel Weisz - di donne matematici al cinema se ne sono viste pochissime, e in ruolo marginali o inesistenti, come in The Imitation Game. Senza voler sollevare la questione che sino al ventesimo secolo le matematiche importanti si contavano sulle dita di una mano. Il nesso tra personalità femminile e pensiero astratto: non ho mai creduto a queste differenze di genere e gli ultimi cento anni hanno dimostrato che ci sono tante matematiche donne di eccezionale livello. Dunque, “mi sento un matematico” lo dice la protagonista donna matematico in un film candidato all’Oscar come miglior film, Octavia Spencer per attrice non protagonista.
Dunque una donna matematico, nera. E questa sì che è una grande novità al cinema. Se poi la storia si svolge negli USA dell’inizio della corsa spaziale - siamo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta -, ecco allora che la novità emerge in tutta la sua importanza. Una storia sconosciuta, ma non per questo meno esemplare e importante, con il film che è uscito in coincidenza in Italia con quella festa della donna del tutto ingiustamente criticata (anche su Alfabeta2). Ma non vorrei divagare.
Scopriamo così che i matematici donne nere USA in quegli anni non erano solo tre, come le protagoniste del film Hidden Figures ("Persone nell’ombra", tradotto in italiano Diritto di contare con un banale gioco di parole. Tanto i matematici che fanno? Calcolano numeri!). In realtà erano decine e decine, donne e uomini, che lavoravano alla NASA. Negli anni Settanta gli ingegneri neri negli Stati Uniti erano il 1%, solo nel 1984 saliranno al 2%. Ma nel 1984 alla NASA gli ingegneri neri erano lo 8,4%. Lo scrive in Hidden Figures (Harper Collins Publishers, Londra, 2016) Margot Lee Shetterly, anche lei donna nera, figlia di ingegneri neri che lavoravano alla NASA, al National Aeronautics and Space Administration’s Langley Research Center a Hampton, nello stato della Virginia. La Shetterly quando era bambina pensava che la grande maggioranza dei neri americani, uomini e donne, si occupassero di scienza, di matematica, di ingegneria. La Shetterly voleva raccontare quella storia e lo avrebbe fatto anche se la storia fosse cominciata con le prime cinque donne nere che andarono a lavorare al centro di ricerca a Langley, in uno stato, la Virginia, segregazionista, nel maggio del 1943. “Posso citare i nomi di almeno 50 donne nere che hanno lavorato come computers (a fare calcoli a mano), matematici, ingegneri a Langley dal 1943 al 1980, e cercando meglio almeno altri 20 nomi si potrebbero aggiungere.”
L’autrice del libro è del tutto sensibile alla dissonanza cognitiva evocata dalla frase “black female mathematicians at NASA”. Ha incontrato di persona la favolosa Katherine Johnson (nel film Taraji P. Henson), colei che ha controllato la traiettoria di rientro dallo spazio per l’astronauta John Glenn, una delle protagoniste del film. Le altre due sono Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), Mary Jackson (Janelle Monae). Alla NASA devono essere fischiate le orecchie quando hanno saputo del libro, e poi del film, con un titolo che suona “Chi ha fatto dimenticare queste persone?”, e nel sito ufficiale c’è una pagina in cui si afferma che negli anni questa storia è sempre stata ricordata. Certo, un libro ed un film di successo hanno una eco molto maggiore. E probabilmente allora la NASA non voleva troppi problemi.
Nel sito della IBM ci sono pagine dedicate al famoso IBM Data Processing System 7090, il cui primo esemplare viene installato nel 1959. Chi è stato allora studente universitario di matematica ricorda bene i primi corsi di Fortran per programmare quegli enormi bestioni con pile di schede perforate che non facevano altro che incastrarsi. Il grande computer è uno dei personaggi centrali del film. È una delle tre ragazze nere ad avere l’idea di imparare il Fortran, il linguaggio di programmazione, e di insegnarlo alle altre decine di ragazze per essere pronte per l’arrivo del grande computer.
Il primo Sputnik viene lanciato dai Sovietici il 4 ottobre 1957, Jurij Gagarin è il primo uomo a volare nello spazio il 12 aprile 1961. Gli USA erano alla rincorsa per cercare di riprendere il ritardo, che aveva ovvie implicazioni militari. La crisi dei missili di Cuba, dopo l’invasione tentata nell’aprile 1961 e i missili nucleari a Cuba, inizia il 15 ottobre 1962. Allora la guerra nucleare sembrava possible, e chissà che non torni di attualità, considerando i geni che ci governano oggi. La risposta USA è il progetto spaziale Mercury, il primo programma USA (attivo tra il 1958 e il 1963) a prevedere missioni spaziali con equipaggio.
La storia incredibile delle tre matematiche nere si inserisce in una storia altrettanto incredibile. Le tre ragazze non sono eguali. Katherine è la più geniale matematica delle tre. All’inizio del film, ancora bambina, declama i numeri interi positivi segnalando i numeri primi (molto fotogenici al cinema e in letteratura). Poi le figure geometriche, i solidi platonici. E risolve il sistema di due equazioni algebriche di secondo grado moltiplicate tra loro. È lei la teorica, quella che si “sente un matematico”.
Interessante che la parola mathematics della versione inglese viene quasi sempre tradotta in italiano con calcoli . La frase inglese due to math (grazie alla matematica, è tradotto 2 + 2 = 4). Comunque la matematica che compare nel film è accurata e non banale, tipo le formule di Frenet, formule che consentono con tecniche differenziali di studiare la geometria delle curve, le loro proprietà qualitative. Ed è Katherine che deve eseguire i calcoli, pur dovendo bere da una macchina da caffè diversa dagli altri che lavorano con lei e avendo il bagno in un altro edificio, a quasi un chilometro di distanza. Un matematico bianco, appena la vede, afferma che lui non ha mai lavorato con una donna nera.
I calcolatori in quegli anni non ci sono, bisogna calcolare a mano le orbite: in particolare, calcolare i parametri per mettere in orbita la capsula Mercury in modo che prenda una orbita ellittica intorno alla terra. Bisogna calcolare a mano la trasformazione dall’orbita ellittica intorno alla terra a una parabolica discendente sulla terra che abbia una giusta inclinazione in modo che la capsula arrivi nell’oceano dove saranno presenti le navi per il recupero (pena l’affondamento). Quando arriva, il grande IBM non è ancora utilizzabile per fare questo calcolo e Katherine ha l’idea di utilizzare il metodo di Eulero, grande matematico tedesco del Ottocento. Permette di trattare equazioni differenziali di cui non si conoscono le soluzioni in modo numerico, approssimato, e ad oggi è alla base di alcuni dei metodi più usati in matematica applicata, con opportuni aggiustamenti.
La scena finale del film in cui John Glenn che sta per salire sulla Mercury 7 chiede che sia the Girl a verificare i dati delle orbite e di ritorno sulla terra è ovviamente inventata nei tempi. Come si legge nel sito della NASA i conti furono controllati da Katherine, ma una decina di giorni prima del lancio. E dirà Katherine: La matematica è solo numerica. Non è così, ma la vera Katherine lo sa di sicuro. È ancora viva, ha 97 anni. Così come le sue due compagne, una andrà a dirigere un settore di software all’IBM, l’altra diventa la prima ingegnere donna nera nella Virginia.
Nel film il ruolo di Al Harrison, ingegnere capo, burbero ma intelligente, capace e cordiale, è costruito su diversi personaggi veri della NASA di allora, come si legge sempre nel sito NASA. Nei giornali italiani interviste solo a lui, che ha una parte secondaria, afferma subito di non capire nulla di numeri e dice: “Non ho mai capito la nostra ossessione per la matematica. Pochi di noi usano nella vita quotidiana equazioni o numeri negativi. Eppure al liceo venivamo giudicati per quello". Da non commentare, avrà letta la sceneggiatura? In un film con tutte matematiche!
Il film è una commedia, brillante a volte, con pochissima tensione, non ci sono veri cattivi, la tensione razziale è molto sullo sfondo. È stato scelto il tono brillante e le tre matematiche sono spiritose, pieni di battute, piace loro essere corteggiate. Insomma una vera rivoluzione al cinema, ma non solo. Un film del genere colpirà molto le nuove generazioni alle prese con Trump, si spera. Era l’anno del cinema nero. È giusto abbia vinto Moonlight (e non La La Land che è stato anche beffato agli Oscar!), ma anche questa commedia era candidata. Era giusto.
Un’ultima cosa: un nero matematico USA Rudy Jr. Horne, University of Boulder, Colorado, ha fatto da consulente per il film, insegnando anche a Katherine a ricordare le formule da scrivere nell’ordine giusto.
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
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MATEMATICA PER TUTTI
I numeri per imparare a pensare
di Franco Lorenzoni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04 dicembre 2016)
«Alla scuola ebraica non si riusciva a immaginare che ci fosse qualcuno che non facesse domande: sarebbe stato un allievo inutile. Invece, chi non era d’accordo con qualcosa che aveva spiegato un professore, alla fine della lezione lo poteva dire e gli era richiesto di tenere lui stesso una lezione, alla sua classe o a quelle vicine, con la sua bibliografia o con una bibliografia che gli suggeriva il professore: insomma era una scuola di alto profilo».
La scuola di cui parla Giacometta Limentani fu fondata in 79 giorni dalla comunità ebraica di Roma, dopo il varo delle le leggi razziste del settembre 1938, con cui il governo fascista espulse dalla scuola ragazzi e insegnanti ebrei.
Lì insegnò per la prima volta Emma Castelnuovo, cacciata dalla scuola pubblica appena vinto il concorso. Ce ne parlano Carla Degli Esposti e Nicoletta Lanciano nella prima biografia dedicata a una delle più grandi innovatrici di didattica della matematica del mondo. Leggendola si comprende perché le grandi rivoluzioni in campo educativo siano così rare. Nel corso di un secolo si contano sulle dita delle mani perché, per rovesciare con audacia e radicalità pensieri, concezioni e comportamenti stratificati nel tempo e in quel bradipo abitudinario a cui troppe volte somiglia la scuola, ci vogliono condizioni eccezionali e un’audacia individuale visionaria.
Emma Castelnuovo, laica e non credente, era profondamente impregnata dell’aspetto più affascinante della cultura ebraica, che consiste nel non darsi tregua nel moltiplicare continuamente le domande. E la prima domanda che si pose la giovane Emma, che per il suo muoversi agitato veniva spesso scambiata per allieva, riguardava il come animare la curiosità dei ragazzi, di tutti i ragazzi, trasmettendogli l’idea che la scoperta delle verità matematiche era qualcosa che si faceva per se stessi.
Suo padre Guido Castelnuovo, di indole serena, nei terribili anni della guerra era angustiato dall’idea che gli studenti che frequentavano i suoi corsi integrativi di cultura matematica non potessero poi laurearsi. Riuscì a trovare un Istituto in Svizzera, disponibile a offrire un diploma legale a distanza agli allievi dell’università semiclandestina, a cui era riuscito a dar vita insieme a Guido Coen. Semiclandestina ma di alto profilo, dato che vi insegnavano Bisconcini, Cacciapuoti, Enriques, Lucaroni, “che teneva Euclide in una mano e Spinoza nell’altra”. L’angustia del padre ci dice quanto, nella famiglia Castelnuovo, cultura e istruzione fossero ritenute necessarie come e il pane.
Nata nel 1913, la figlia di Guido visse in famiglia lo spirito innovatore di chi all’inizio del secolo propugnava un’idea di cultura in cui scienza e arti umane intrecciassero le loro domande, avendo ben chiara l’idea che la diffusione di una cultura aperta al progresso e consapevole delle contraddizioni sociali fosse condizione indispensabile per lo sviluppo della democrazia. Chi maggiormente contribuì alla sua formazione fu certamente Federigo Enriques, suo zio, che la spronò a pubblicare, già nel ’48, il suo primo libro pazzo, come lei usava chiamarlo, che rovesciava radicalmente il tradizionale modo di insegnare la matematica, tuttora largamente e tristemente praticato.
La genesi de “La geometria intuitiva” è assai interessante perché, partendo dalla noia che avvertiva nei ragazzi, la giovane Castelnuovo comprende che deve cambiare tutto e pensa che la geometria possa “darci l’appoggio”, come usava dire. Facendo proprio il pensiero del matematico svizzero Jacob Steiner, uno spirito ribelle che a 18 anni scappò di casa per andare a studiare da Heinrich Pestalozzi, sosteneva infatti che “il calcolo sostituisce il pensiero, mentre la geometria stimola il pensiero”.
“Io mi rifaccio al concetto di intuire che è precisato dalla pedagogia pestalozziana, cioè intuizione intesa come costruzione dove l’attenzione non si rivolga tanto all’oggetto ma alla sua variazione, a un’azione, a una operazione con l’oggetto stesso”.
Lei, che si muoveva incessantemente per la classe e sosteneva che non si può insegnare stando seduti, faceva letteralmente uscire le figure dai libri perché i ragazzi stessi, con elastici, spaghi e stecchette mettessero in movimento mani e pensieri, scambiandosi congetture ed ipotesi in un serrato confronto che lei continuamente animava, allargando lo sguardo all’arte, all’architettura, alle varietà vegetali; a tutti quegli elementi della realtà di cui è appassionante scovare le leggi matematiche.
Qui sta il cuore della sua visione dinamica delle figure e la sua incessante ricerca nel costruire strumenti semplici per comprendere relazioni complesse e permettere a tutti di osservare costanti e varianti.
“Un libro tradizionale comincia dalle definizioni e dai concetti generali” ma “non dimentichiamoci che ciascuna delle nostre definizioni è il risultato di un lavoro durato secoli.” Il rischio è che “il professore farà fare degli esercizi su delle definizioni che lo studente non avrà assimilato, che lui non avrà condotto a scoprire e questo è assurdo”, scrive nel 1950 sui Cahiers Pédagogique. “Io non dò nessuna definizione, l’alunno dovrà sentire lui stesso la necessità delle definizioni, dovrà formulare lui stesso le definizioni”. In questo articolo c’è la sua ferma posizione contro i manuali ricalcati da Euclide che partono da definizioni astratte e il fondamento della sua rivoluzione didattica: una matematica per imparare a ragionare, per imparare a esprimere e a dare forma ai propri pensieri, una geometria che renda consapevoli che si può guardare la realtà “con gli occhi della mente”, scovandone le innumerevoli connessioni, come la invitava a fare da giovane Federigo Enriques, che nel 1906 diede vita, da matematico, alla Società Italiana di Studi filosofici.
Seguono nel libro i racconti delle tante avventure di Emma Castelnuovo nel mondo, tra cui l’esilarante episodio in cui la vediamo contrapporsi energicamente al matematico francese Jean Dieudonné del gruppo Bourbaki che nel 1959, negli anni della febbre insiemistica, in una sua relazione propugnò lo slogan “Abbasso il triangolo”. Dalla sala si alzò in piedi lei, donna e professoressa di scuola media in quel consesso maschile e universitario, e lo interruppe dicendo: “Il tavolo da cui vengono pronunciate queste frasi ed esposte queste considerazioni teoriche non reggerebbe e tutte le vostre carte volerebbero a terra se non avesse quei triangoli molto concreti sotto a sorreggerlo!”.
Così era Emma Castelnuovo: radicale nelle sue scelte, intraprendente e impertinente. La sua lungimiranza fu tale che molte sue invenzioni didattiche vengono ora avvalorate dai più recenti studi nel campo delle neuroscienze, che confermano quanto lavorare sulle trasformazioni continue con materiali dinamici aiuti chi ha maggiori difficoltà a costruire e a far propri i concetti di struttura e classificazione.
Un capitolo della biografia racconta la puntigliosità e precisione con cui redigeva i suoi testi cercando concisione, chiarezza e bellezza, perché le sue proposte didattiche erano sempre accompagnate da immagini suggestive e non banali. C’è un libro che Emma Castelnuovo ha scritto e riscritto per tutta la vita, di cui nel 2005, a 92 anni, ha voluto curare un’ulteriore edizione. E’ l’eredità più preziosa che lascia alla scuola, perché i 6 volumi intitolati semplicemente “La matematica” (La Nuova Italia), sono attualissimi e insuperati tra i libri di testo per la scuola media, per la genialità delle proposte e la capacità di offrire percorsi che aprirono la mente. Purtroppo sono tenuti nascosti dalle sciagurate scelte dell’editoria scolastica, che spesso privilegia novità redditizie alla qualità. Se conoscete qualche insegnante di matematica regalateglieli. Sono un dono prezioso per chi educa e per i ragazzi, che potranno incontrare un modo aperto e appassionante di provare a comprendere il mondo attraverso la matematica.
Una matematica dal volto umano
I ritratti dei grandi teorici come Turing, Wiener e Landau e l’incontro con la letteratura: il nuovo libro di Chiara Valerio
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.09.2016)
Nel primo volume dell’”Uomo senza qualità” (1930) l’autore-ingegnere Robert Musil fa dire al protagonista-matematico Ulrich: «Un uomo che vuole la verità, diventa scienziato. Un uomo che vuol lasciare libero gioco alla sua soggettività, può diventare scrittore. Ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio fra i due?». Bel problema, che Musil stesso non ha affatto saputo a risolvere, non riuscendo a venire a capo del suo capolavoro e lasciandolo non a caso incompiuto.
Due ovvie soluzioni sono possibili, e la prima è scrivere in maniera scientifica di argomenti soggettivi. Musil e Ulrich la pensavano così: «Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita. Infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatta la vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio. Agli uomini piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un “corso” si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos».
La seconda soluzione è scrivere in maniera soggettiva di argomenti più o meno scientifici. E poiché gli scrittori sono testimoni del proprio tempo che hanno giurato nel tribunale della letteratura di «dire di sé, tutto di sé, nient’altro che di sé», a seguire questa seconda via sono i letterati che il caos della vita ha portato ad avere una qualche competenza scientifica: ad esempio, matematica.
Per restringersi a quest’ultima, un caso emblematico è Aleksandr Solgenitsyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970. Benché la sua fama sia dovuta all’incessante requisitoria contro i campi di lavoro stalinisti, culminata nei tre volumi di Arcipelago Gulag (1973), Solgenitsyn non solo era laureato in matematica, ma lavorò quattro anni come matematico nel Gulag e insegnò matematica e fisica nei tre anni del suo successivo esilio siberiano. Il suo romanzo Il primo cerchio (1968) racconta appunto una settimana della vita di un matematico nel Gulag, e lascia affiorare a varie riprese argomenti quali topologia, probabilità, teoria dei numeri, teoria degli errori, integrazione numerica di equazioni differenziali, funzioni di Eulero e serie di Fourier.
Un secondo esempio è Jacques Roubaud, membro storico dell’Oulipo fondato dal letterato Raymond Queneau e dal matematico François Le Lionnais con lo scopo di realizzare opere letterarie a struttura matematica. Roubaud dedica uno dei volumi della sua sterminata autobiografia alla Matematica (1997), e oltre a raccontare gli studi di dottorato con personaggi del calibro di Laurent Schwartz e Claude Chevalley si lancia in interessanti divagazioni: da un’esposizione della filosofia bourbakista a un’analisi dello stile letterario (!) degli Elementi di matematica di Bourbaki, da una critica dell’etica elitaria di André Weil a una rivendicazione della poetica come una branca della matematica applicata.
Un terzo e ultimo esempio è John Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003. Anche lui è laureato in matematica, benché questo non traspaia mai nei suoi romanzi puri: solo nel romanzo-saggio Diario di un anno difficile (2008), che affronta anche problematiche quali “come contiamo” e “come impariamo a contare”, e discute di come «certi concetti matematici quotidiani possono aiutare a chiarire la teoria morale». Anche Coetzee, nel secondo volume della sua trilogia autobiografica romanzata, intitolato Gioventù (2002), racconta dei suoi studi matematici e dei cinque anni “sprecati” a lavorare come programmatore informatico.
È in questa nobile e alta tradizione che si inserisce il libro di Chiara Valerio Storia umana della matematica (2016), al quale il titolo redazionale non rende giustizia. A scanso di equivoci, infatti, e per la gioia del “lettore normale” che può tirare un sospiro di sollievo, non si tratta per niente di una storia della matematica nel senso convenzionale: una storia, cioè, in cui le teorie e i risultati divini costituiscono non solo il nucleo narrativo, ma il vero scopo della narrazione, mentre gli aneddoti sui loro autori umani non sono altro che un riempitivo per alleggerire la pillola, che i lettori più maturi possono anche saltare. Storia umana della matematica è invece un racconto autobiografico, in cui l’autrice racconta il proprio rapporto con la matematica.
Un rapporto non banale, perché Chiara Valerio ha una laurea e un dottorato in matematica, e per qualche anno l’ha insegnata in università e nella scuola. Ma poi è tornata alla sua vera vocazione letteraria, che era stata frustrata da un evento traumatico citato con rammarico per ben due volte nel libro: il fallimento all’esame di ammissione alla classe di lettere della Scuola Normale di Pisa.
Lei stessa conferma che si trattava di una vera vocazione: racconta di essere stata fin da adolescente una lettrice ossessiva e onnivora, e lo dimostra punteggiando il libro di acute, inaspettate e sorprendenti citazioni, quasi sempre di scrittori che non hanno nulla a che vedere con la matematica. E a volte anche di letterati che, benché ne scrivano, non ci capiscono comunque nulla: da Fëdor Dostoevskij al povero David Foster Wallace. Il primo, ad esempio, pur essendo di formazione un ingegnere, è riuscito in una famosa e sfortunata pagina dei Fratelli Karamazov (1879) a confondere fra loro ben quattro geometrie (sferica, euclidea, iperbolica e quadridimensionale), stabilendo un primato per il maggior numero di fraintendimenti nel minor numero di righe.
Pur senza conoscere ancora la matematica che avrebbe studiato da grande, Chiara Valerio ne aveva già avuta una visione privilegiata da piccola: non solo per gli stimoli ricevuti dal padre, fisico di professione, ma anche per la sua non comune ipersensibilità percettiva. È così che argomenti banali come le rotaie del treno, l’asciugacapelli, il gioco del lotto o il lancio di un gatto dal balcone fornirono a lei allora, e forniscono al lettore ora, altrettanti spunti per approdare alle geometrie non euclidea e quadridimensionale, al calcolo delle probabilità e alla balistica.
La voracità di lettura di Chiara Valerio, esercitata anche sui testi matematici, l’ha poi portata a leggere a suo tempo le opere di alcuni grandi matematici alla stessa stregua di quelle dei grandi scrittori, e a citare altrettanto acutamente e proficuamente pure quelle. La sua scelta è ovviamente personale e selettiva, ma dalle pagine del suo libro emergono le figure di giganti istituzionali come Pierre-Simon de Laplace e Norbert Wiener, e di protagonisti più inaspettati e curiosi come Mauro Picone e Lev Landau.
Le loro storie costituiscono la parte “umana” di questo originale libro, che forse si potrebbe intitolare più accuratamente Storia umana di una matematica, o Storia matematica di un’umana. Una matematica, o un’umana, che come il Jean-Paul Sartre de Le parole (1964) avrebbe potuto concludere dicendo: «Del mio libro, alla fine, cosa rimane? Una donna, fatta di tutte le donne e che le vale tutte e ne vale ciascuna».
* IL LIBRO GLI INCONTRI Storia umana della matematica di Chiara Valerio (Einaudi, pagg. 166, euro 18) L’autrice ( foto) sarà l’ 11 al festival di Mantova e il 17 a Pordenonelegge
La sfida dei numeri è letteraria
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 17.04.2016)
La matematica, come si sa, è la Cenerentola della cultura: un po’ dovunque, ma soprattutto in Italia. È difficile immaginare che la sua storia si concluderà felicemente come nella fiaba, con qualche principe azzurro che la sposerà. Ma ogni tanto, almeno, sulla porta di casa la matematica può appendere un fiocco rosa, per annunciare un suo qualche parto: verginale, ovviamente.
È il caso della nuova rivista mensile Mate, che reca come sottotitolo Da zero all’infinito. È pubblicata dalla casa editrice Centauria, e il suo primo numero si troverà in tutte le edicole da questo mercoledì. Avrà 100 pagine e sarà disponibile sia in edizione cartacea che digitale, per tablet o cellulare. Il suo direttore, Luciano Regolo, ha dichiarato che la rivista vuole «cercare di sfatare il pregiudizio che la matematica sia appannaggio di pochi eletti». Una sfida che verrà affrontata «offrendo uno spaccato di quanto numeri e formule siano nella nostra quotidianità, nella natura, nell’arte e nel tempo libero, nel nostro passato, nel nostro presente e nel nostro futuro».
Ogni numero di Mate conterrà almeno un’intervista, oltre a dossier, studi, approfondimenti, spiegazioni di teoremi teorici e pratici, analisi dei legami con l’attualità, una ricca sezione di giochi e, dulcis in fundo, un “giallo del mese”: tutto a sfondo matematico, ovviamente. Auguri, dunque, e 1000 numeri!
I contributi delle donne alla scienza: ieri e oggi
di Margherita Hack *
La storia delle donne nella cultura e nella vita civile è stata una storia di emarginazione fino alla fine dell’Ottocento e in gran parte ancora fino alla metà del Novecento, almeno nei paesi industrializzati. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Quali possono essere le cause di questa situazione che risale indietro nei secoli? Forse già nelle epoche preistoriche, la forza fisica necessaria per sopravvivere, le numerose gravidanze e il lungo periodo di allattamento e di cura della prole hanno portato alla differenziazione dei compiti. Oggi, i progressi della scienza e della medicina, e le conseguenti applicazioni tecnologiche hanno annullato la condanna biblica - uomo lavorerai con fatica, donna partorirai con dolore - almeno nei paesi industrializzati.
Per secoli le donne che potevano avere accesso all’istruzione erano quelle rinchiuse nei conventi. Forse per questo le donne che sono emerse nel passato erano soprattutto umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse, ma molto più raramente scienziate. Infatti chi ha attitudini artistiche o letterarie può emergere anche senza una preparazione specifica, mentre le scienze, e in particolare le cosiddette scienze "dure" come matematica e fisica richiedono una preparazione di base, senza la quale è quasi impossibile progredire. Solo quelle poche favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie cognizioni, potevano farsi una cultura scientifica. Basta ricordare che ancora all’inizio del XX secolo in molti paesi europei alle ragazze era precluso l’accesso alle università ed anche ai licei.
Perciò le donne, escluse dalle università, escluse dall’educazione scientifica, sono emerse là dove potevano emergere. Così è sorto il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero più adatte alle materie letterarie e linguistiche che non a quelle scientifiche. Le stesse ragazze crescono in mezzo a questi pregiudizi e se ne lasciano influenzare, e scelgono le facoltà umanistiche anche contro le loro naturali inclinazioni, contribuendo così a rafforzare i pregiudizi stessi. Comunque oggi cresce sempre di più il numero di ragazze che scelgono materie ritenute tipicamente maschili come ingegneria.
Malgrado le difficoltà incontrate, non sono poche le scienziate che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate. Ce ne furono una ventina nell’antichità, fra cui emerge il nome della matematica Ipazia; solo una decina nel medioevo, soprattutto nei conventi, quasi nessuna tra il 1400 e il 1500, 16 nel 1600, 24 nel 1700, 108 nel 1800. Oggi solo nel campo dell’astronomia sono più di 2000, ed in ogni campo dei sapere le ricercatrici universitarie superano il 50%, con punte ded’80% nelle facoltà umanistiche, del 60% in quelle di scienze biologiche, dal 30 al 40% nelle scienze abiologiche, più dei 50% nelle matematiche, mentre sono ancora al di sotto dei 20% in facoltà come ingegneria e agraria.
Fra le matematiche va ricordata la già citata Ipazia (370-415 d.C.), figlia del matematico e filosofo Teone. Diventò capo di una scuola platonica di Alessandria d’Egitto frequentata da molti giovani. Fu uccisa barbaramente da monaci, forse anche perché tanta genialità matematica in una donna poteva sembrare indice di empietà. Nel 1700 Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) fu la prima donna ad essere chiamata a ricoprire una cattedra universitaria, all’Università di Bologna, e Sophie Germain (1 776-183 1) fu una riconosciuta esperta di teoria dei numeri e di fisica. Nel XIX secolo ci sono numerose grandi matematiche, fra le quali emergono soprattutto Sofia Kovaleskaja (1850-1891), professore all’Università di Stoccolma, e Emmy Noether (1882-1935), fondatrice dell’Algebra moderna. Fra le matematiche italiane di questo secolo ricordo Pia Nalli ( 1866-1964) professore ordinario di analisi matematica all’università di Cagliari e poi di Catania; Maria Pastori (1895-1975) ordinario di Meccanica Razionale all’università di Messina, Maria Cibrario Cinquini (1905-1992), ordinario di Analisi matematica a Cagliari e professore emerito dell’università di Pavia, Maria Biggiogero Masotti ordinario di geometria presso il Politecnico di Milano.
Fra le fisiche e le astrofisiche vanno ricordate, naturalmente Marie Sklodwska Curie (1867-1934), premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911, e prima donna professore alla Sorbona e la figlia Irene Curie (1897-1956) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1856) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1968) che scopre il fenomeno della fissione nucleare ed è la prima donna ad avere una cattedra universitaria di fisica in Germania; Marie Goeppert Mayer (1906-1972) premio Nobel per la fisica nel 1963 per la sua teoria sui "numeri magici" che determinano la stabilità degli atomi; Wu Chieng-Shiung (1913-1997), professore di fisica alla Columbia University, scopritrice della non conservazione della parità nelle interazioni deboli.
Fra le astronome e astrofisiche va ricordata Caroline Herschel (1750-1848) che insieme al fratello William iniziò lo studio fisico del cielo, occupandosi di quello sfondo di stelle fino allora considerato poco più di uno scenario su cui si muovevano i pianeti. A loro si deve lo studio delle nubi interstellari, la scoperta di regioni apparentemente prive di stelle, che oggi sappiamo essere regioni ricche di polveri che ci nascondono le stelle retrostanti, e lo studio della distribuzione delle stelle sulla volta celeste.
Maria Mitchell (1818-1889) è stata la prima famosa astronoma americana, docente di astronomia al Vassar College e direttrice di quell’osservatorio, che ha preso il suo nome.
Un terzetto di astronome americane che hanno legato il loro nome a scoperte e ricerche fondamentali per la moderna astrofisica sono Henrietta Swan Leavitt (1868-1921), Anne Cannon (1863-1941) e Antonia Maury (1866-1952). La prima scoprì la relazione che lega il periodo di variazione di luce di una classe di stelle variabili dette "Cefeidi" al loro splendore assoluto, facendo di questa classe di stelle uno dei migliori mezzi per la determinazione delle distanze delle galassie. Alla seconda si deve la classificazione degli spettri di più di 225.000 stelle; il risultato del suo lavoro è raccolto nel poderoso catologo "Henry Draper" (dal nome dei finanziatone dell’opera) che è ancora oggi largamente consultato. La terza scoprì alcune caratteristiche degli spettri stellari, che permettevano di stabilire lo splendore assoluto di una stella, e quindi - misurato lo splendore apparente - risalire alla distanza. Essa ha anticipato di almeno due decenni il metodo di determinazione delle distanze dal semplice studio dello spettro.
Una grande astrofisica, iniziatrice dei metodi di studio delle atmosfere stellari e della determinazione della loro composizione chimica è stata Cecilia Payne Gaposchkin (1890-1979). Iniziatrice dello studio dell’evoluzione chimica della Galassia è stata una giovane astrofisica, Beatrice Tinsley, scomparsa prematuramente una ventina di anni fa. Oggi sono numerosissime le astrofisiche di fama internazionale che guidano gruppi di ricerca nei più svariati campi, dalla fisica stellare alla cosmologia, e delle più svariate nazionalità. Si può stimare che in tutto il mondo rappresentino dal 25 al 30% di tutti gli astronomi e astrofisici.
Altrettanto numerose sono le scienziate nel campo della biologia e delle scienze mediche, molte insignite di premio Nobel. Per tutte ricordiamo Rita Levi- Montalcini (1909) premio Nobel per la medicina nel 1986.
Sebbene oggi i contributi delle donne alla scienza vengano riconosciuti, resta il fatto che le scienziate per emergere devono generalmente lavorare di più dei loro colleghi e devono ancora superare numerosi pregiudizi, che, contrariamente a quanto si crede, sono maggiori nei paesi anglosassoni che non in quelli latini.
Spesso mi viene chiesto se ho incontrato molte difficoltà nel corso della mia vita scientifica. Ritengo che molti degli ostacoli di cui si lamentano parecchie ricercatrici dipende anche dall’educazione ricevuta che, almeno fino a qualche decennio fa, tendeva a fare delle bambine persone arrendevoli e servizievoli, poco combattive e desiderose di protezione. Oggi mi sembra che le cose vadano cambiando, la vita e l’educazione comune a bambini e bambine li lascia più liberi di sviluppare le proprie attitudini naturali, senza imporre loro condizionamenti dovuti al sesso.
lo ho avuto la fortuna di avere una famiglia in cui babbo e mamma erano perfettamente eguali, si dividevano i compiti in piena parità, e che non mi hanno mai imposto comportamenti o giocattoli legati a stereotipi sessuali. Anche lo sport che ho praticato per parecchi anni mi ha aiutato a sviluppare quella competitività che e necessaria per riuscire nell’atletica come nella scienza, per vincere sportivamente, allenandosi e studiando e avendo la costanza di perseguire lo scopo di battere un record o di ottenere un risultato scientifico, senza scoraggiarsi davanti agli insuccessi, perseverando con costanza. Credo perciò che l’ambiente familiare in cui ho avuto la fortuna di nascere sia stato estremamente importante per darmi fiducia nelle mie possibilità, e per non provare complessi di inferiorità che ho spesso notato in colleghe della mia generazione e anche più giovani.
Malgrado i grandi progressi fatti dalle donne, ci sono ancora notevoli disparità nel mondo del lavoro, della politica e della ricerca. Nelle università per esempio le ricercatrici sono ormai più della metà di tutti i ricercatori, ma appena si passa al livello superiore, quello dei professori associati, le.donne sono meno del 30% e al più alto livello dei professori ordinari sono appena il 10%. In politica è a tutti nota la scarsa rappresentanza femminile alla camera dei deputati e al senato. Al governo dei comuni sono ancora una minoranza le donne sindaco, mentre sono frequenti gli assessorati alla cultura assegnati a donne, il che mi fa malignamente pensare quanta poca importanza i politici tendono ancora a dare alla cultura, ritenuta un trascurabile centro di potere locale. Quasi sempre si attribuisce questa scarsa presenza femminile nei livelli più alti all’impegno familiare, alle cure dei marito e dei figli, e si chiede un maggiore impegno dello stato nel fornire asili nido, scuole materne, scuole a tempo pieno. Giustissimo! Però rarissimamente si afferma il diritto delle donne e il dovere degli uomini di dividersi al 50% le cure familiari, dalle più umili alle più importanti, anche se la legislazione familiare dà alle donne la possibilità di rivendicare questa reale parità. Sta alle giovani donne educare i propri compagni e ai giovani uomini di incitare le loro compagne ad affermarsi nella vita.
Comunque ritengo che il crescente numero di donne affermate nella scienza, nella politica, nello sport e in tutti i campi dell’attività umana fornisca quei modelli che finora mancavano alle bambine, e che possono dar loro fiducia e stimoli ad eguagliarle.
Saperi. L’esperienza umana non è riducibile ad algoritmi: l’attacco di Giorgio Israel agli eccessi del meccanicismo
L’abuso della matematica
I modelli che funzionano bene nel campo della fisica mostrano gravi limiti se applicati alle scienze sociali
Non possono dirci che cosa succederò nell’economia
di Michele Emmer (Corriere della Sera, La Lettura, 06.12.2015)
Olivier Peyon ha realizzato nel 2013 un documentario dal titolo Comment j’ai détesté les maths. In realtà il film vuole essere un elogio dei matematici, della loro vita di ricercatori, della loro passione. Alla fine del film intervengono due matematici che si sono occupati di economia, George Papanicolaou, greco, e Jim Simons, che, dopo una brillante carriera scientifica, è diventato un ricco uomo d’affari creando il fondo speculativo Renaissance Technologies.
Parla della matematica economica e dei dannati algoritmi che hanno mandato in rovina l’economia globale, rendendo lui miliardario con le speculazioni sulla finanza virtuale. Per Papanicolaou gli algoritmi matematici di Simons non erano stati testati a sufficienza. Nessuno sapeva in che modo avrebbero reagito in situazioni di emergenza. Insomma, ci si può fidare della matematica?
Di matematica, matematica applicata e modelli matematici parla il libro di Giorgio Israel Meccanicismo (Zanichelli), pubblicato poco dopo la morte dell’autore. Nel film di Peyon, Cedric Villani, direttore dell’Institut Poincaré di Parigi, afferma che la separazione tra matematica e matematica applicata è superata. Frasi tipo quelle di G. H. Hardy, scritte nel 1940 per elogiare la matematica inutile, oggi non hanno senso. Hardy non sapeva che a Bletchley Park, matematici, fisici, ingegneri stavano lavorando alla decriptazione del codice nazista Enigma, usato in guerra per rendere incomprensibili i messaggi. Tra quei matematici Alan Turing, alla cui vita è dedicato il film Imitation Game, Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.
Uno dei problemi centrali del libro di Israel è la questione della applicabilità di modelli e metodi matematici nelle discipline non strettamente matematiche e fisiche, in particolare all’economia e alle scienze sociali. Il capitolo «Oltre il mondo inanimato» si apre con una frase del matematico dell’Ottocento Augustin Cauchy: «Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, senza volerle ostentare al di là del loro dominio; non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o del calcolo integrale». Israel parte da Galileo, dall’«idea che la struttura su cui Dio ha edificato il mondo è la matematica». Ma in nessun modo si può pensare che Galileo «includesse nel “mondo” anche la sfera dell’uomo, della soggettività, del pensiero».
Poi abbiamo i tentativi di trovare un equo sistema elettorale del matematico Condorcet, alla vigilia della Rivoluzione francese, e i modelli per lo studio della diffusione del vaiolo alla metà del Settecento da parte di Daniel Bernoulli, con l’introduzione del calcolo delle probabilità. Il primo modello matematico per l’economia è di Dupont de Nemours alla fine del Settecento: «L’aspetto più interessante da evidenziare - scrive Israel - è l’importanza attribuita alla nozione di equilibrio, che testimonia l’influsso della mentalità fisico-matematica, del modello della meccanica, e di un indirizzo che la matematizzazione dell’economia, e più in generale delle scienze sociali, sta prendendo».
Agli inizi del Novecento la svolta, con i modelli per la dinamica delle popolazioni, l’epidemiologia matematica. Ed ecco la motivazione di Israel: «Conosciamo bene la versione più famosa e influente del riduzionismo, la concezione epistemologica che tende a formulare i concetti e il linguaggio di una teoria scientifica nei termini di una teoria considerata fondamentale. È l’argomento centrale di questo libro: il meccanicismo, che consiste nel ritenere che tutti i fenomeni si riducono a fenomeni di moto, per cui il fine fondamentale della scienza è ricondurre ogni forma di conoscenza alla meccanica». Ed è questa la malattia di fondo delle teorie matematiche utilizzate in ambiti non matematici e fisici.
Il matematico von Neumann nel 1932 scrive: «Le scienze non cercano di spiegare, a malapena tentano di interpretare, ma fanno soprattutto modelli. Per modello si intende un costrutto matematico che, con l’aggiunta di interpretazioni verbali, descrive dei fenomeni osservati. La giustificazione è soltanto e precisamente che funzioni, descriva correttamente i fenomeni in un’area abbastanza ampia, e soddisfi dei criteri estetici, cioè deve essere piuttosto semplice». Nei modelli biologici, a partire dalla dinamica delle popolazioni, via via che la complessità del sistema aumenta, non si ha un aumento di stabilità bensì del suo contrario.
Si trattava quindi di mettere in discussione i modelli matematici, cosa che, sottolinea Israel, non è mai stata lontanamente considerata. Tanto che nel 1976 i matematici Oster e Guckenheimer osservano: «Vi sono persone che affermano che non esiste un solo progresso nel campo della biologia che possa essere attribuito alle teorie matematiche. Quando entrano in gioco i sistemi complessi, il linguaggio appropriato è l’inglese, non quello matematico».
Alla luce delle ricerche recenti, ricorda Israel, «l’espansione della modellistica matematica in ambito biologico è diventata talmente frammentata da distruggere persino la possibilità di un confronto e sintesi tra le miriadi di modelli... malgrado alcune marginali differenze, si dimostra il ruolo centrale dell’analogia meccanica nel processo di fondazione dei più importanti settori della biologia matematica».
I successi predittivi della matematica in fisica non garantiscono analoghi successi in ambiti di natura ben diversa. Il tutto si complica ulteriormente quando si passa ai rapporti sociali ed economici. Entrano in gioco modelli teorici di matrice fortemente ideologica, come nel caso della teoria dell’equilibrio economico generale, i cui paradigmi fondazionali sono: dimostrare che l’equilibrio economico esiste, che tale equilibrio è unico, che il mercato possiede la virtù salvifica di realizzare tale equilibrio, purché non si introducano vincoli e legacci e l’azione dei singoli soggetti economici possa esplicarsi in piena libertà. Un paragrafo è dedicato alla scienza della complessità. «Il concetto di complessità - osserva Israel - continua a vagare in un limbo situato tra ontologia ed epistemologia. L’aspirazione a definirlo come una proprietà del mondo reale si scontra con la vaghezza delle definizioni di carattere empirico... D’altra parte ogni sua caduta nella sfera puramente epistemologica fa di esso una versione disillusa e pessimista del concetto di complicazione».
Le conclusioni di Israel: «La modellizzazione nell’ambito dei contesti non fisici non ha mai raggiunto neanche lontanamente l’ombra della precisione che ha raggiunto in gran parte dei contesti fisici... confrontare il grado di precisione che è possibile ottenere nel contesto dei fenomeni meccanici propriamente detti con quello sociale è desolante; nessun modello matematico è in grado di dire, neppure con un grado di approssimazione generoso, che cosa accadrà domani all’economia».
Un esempio è la valutazione della attività scientifica dei ricercatori mediante indicatori «oggettivi», che tendono a sostituire l’esame della qualità dei risultati. L’International Mathemathical Union ha osservato che si sta creando una cultura dei numeri per cui le istituzioni e gli individui credono che si possano ottenere decisioni eque mediante valutazioni algoritmiche e alcuni dati statistici. Non è certamente un caso che tale mitologia faccia presa su coloro che meno capiscono di numeri e scienza. Nell’ultimo capitolo si parla delle due culture, dello stretto legame tra letteratura, narrazione e matematica. Classico esempio la questione dell’infinito.
Nell’ Eloge des Mathématiques (2015) il filosofo francese Alain Badiou, invitando i filosofi a studiare la matematica moderna, scrive: «La matematica è la più convincente delle invenzioni umane per esercitarsi a quello che è la chiave sia di tutto il progresso collettivo comune che della felicità individuale: dimenticare i nostri limiti per arrivare all’universalità del vero». Dobbiamo ancora inventare e creare tanta matematica per affrontare le grandi questioni del nostro mondo, non solo nel senso di Galileo. Fortunatamente.
Scienze esattissime. Jonathan Swift aveva capito tutto quando descriveva i sapienti del regno di Laputa, nei «Viaggi di Gulliver», che utilizzavano la matematica per apprezzare il fascino delle donne. Lo confermano gli studiosi di oggi
Sei bella come un parallelogramma
I numeri sono meravigliosi e fondamentali. Vince il primo che capisce che tre è più di due
di Giulio Giorello (Corriere della Sera - La Lettura, 14.06.2015)
Ingordi di matematica, gli scienziati del regno di Laputa «si aggirano sempre fra linee e figure. Volendo lodare la bellezza di una donna, la descrivono con rombi, circoli, parallelogrammi, ellissi», anche se le «vivacissime» signore «disprezzano i mariti e sono pronte a cornificarli con tutti gli uomini che vengono da fuori». Così Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver (1726) caratterizza i sapienti di quel Paese immaginario.
Nonostante la loro scarsa popolarità col gentil sesso, i maschi laputiani riescono a vantare una grande scoperta, l’aver individuato «due satelliti che girano intorno a Marte», di cui specificano con buona approssimazione numerica periodo e distanza dal pianeta principale, in omaggio alle Leggi di Keplero e alla Teoria della gravitazione di Newton: fatto assai curioso, dato che i due satelliti del Pianeta rosso, Deimos e Phobos, saranno individuati dall’americano Asaph Hall solo nel 1877.
Come ci fosse arrivato Swift resta un mistero, a meno che - come ha sostenuto qualche brillante ufologo - il «decano pazzo di San Patrizio» fosse un marziano in missione segreta sul nostro Globo. Resta che l’ossessione per il dato numerico qualche volta paga, anche se a Laputa come altrove forse più sui testi di astronomia che in camera da letto.
D’altra parte, la mania dei numeri sembra aver contagiato, seppur secondo modalità differenti, tutti i popoli della Terra, dagli antichi mesopotamici agli abitanti dell’odierna città globale. E forse non ci si dovrebbe limitare all’ Homo sapiens , come si può sospettare scorrendo l’affascinante casistica presentata da Giorgio Vallortigara e Nicla Panciera nel loro Cervelli che contano.
Come minimo, osservano a loro volta Claudio Bartocci e Luigi Civalleri in Numeri (nato come catalogo di una fortunata mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma su Tutto quello che conta, da zero a infinito ), l’aritmetica «è una facoltà molto diffusa, anche perché procura un ovvio vantaggio selettivo: per esempio, l’animale che capisce la differenza fra un ramo che contiene due frutti e un altro che ne ha tre ha più possibilità di alimentarsi con efficienza».
Ciò che davvero «conta» in fatti come quelli appena citati non è tanto che si tratti di due satelliti o di tre frutti, quanto della circostanza che tre è maggiore di due, qualunque sia la natura degli oggetti considerati. E tutto ciò «comporta un atto di astrazione, che tuttavia non è la stessa di quella che abitualmente porta da un aggettivo come bello al sostantivo bellezza», osserva il logico e filosofo della matematica Gabriele Lolli nel suo Numeri. La creazione continua della matematica, comparso in questi giorni presso Bollati Boringhieri: l’astrazione, almeno in matematica, «consiste nel vedere qualcosa che non si vede, non nel non vedere qualcosa che si vede, cioè nell’ignorare o trascurare alcune proprietà degli oggetti quali la forma, il colore, la consistenza», poiché essa generalizza una relazione (persino apparentemente banale come quella che tre è maggiore di due) che lo sguardo semplice coglie solo come appartenente agli oggetti che ha sott’occhio. In questo senso l’astrazione contiene già un elemento ineliminabile di arricchimento e di creazione.
Forse prima ancora della scrittura, il genio dell’aritmetica ha cominciato a introdurre segni per indicare conteggi e misure, e da allora non si è più fermato. Dai numeri interi «naturali», cioè 1, 2, 3, 4... ecc., e mettiamoci - con qualche sforzo intellettuale - anche lo zero, una sorta di nome per il nulla, si è così passati alle frazioni, ai numeri relativi (positivi e negativi), ai numeri reali (essenziali nella descrizione dei processi continui) come la radice quadrata di due e ai numeri immaginari come la radice quadrata di meno uno .
Tutto ciò è stato ottenuto - scrive Lolli - in una vicenda fatta di «sorpresa, incredulità, rifiuto, ripresa, trionfo». Una storia epica, talora anche drammatica, come mostra la follia di Georg Cantor (1845-1918), il creatore della teoria dei numeri transfiniti, con la quale intendeva domare il più elusivo concetto della matematica, quello di infinito, commettendo quello che Borges ha chiamato il massimo peccato d’orgoglio dell’umanità.
Che strano bestiario, quello evocato dai matematici. Anche loro sembrano tipi alquanto bizzarri quanto i laputiani. Come osserva Umberto Bottazzini in un altro bel libro, anch’esso dedicato ai numeri (ed edito dal Mulino), «c’è chi ritiene che i matematici siano di stirpe divina perché hanno la capacità di creare dei numeri per spiegare la natura del continuo; c’è chi Dio lo chiama in causa per averci dato i numeri naturali e chi si considera un fedele scriba della natura che trascrive per gli uomini i numeri transfiniti come verità rivelategli da Dio» - come Cantor diceva di sé. E c’è chi, infine, come l’americano John Conway «mostra che tutti quei numeri non sono altro che giochi... surreali, lasciando in pace Dio». Bottazzini preferisce concludere che a creare i numeri naturali non è stato il Signore onnipotente (era questa, invece, l’intima convinzione del grande avversario di Cantor, il matematico berlinese Leopold Kronecker, 1823-1891, che aggiungeva che «tutto il resto è opera dell’uomo»). Più umilmente «è stata l’evoluzione a creare i numeri reali, e l’uomo non ha fatto altro che riscoprirli partendo dagli interi», proprio per il carattere discontinuo del linguaggio, incapace di esprimere adeguatamente i processi continui dentro cui noi stessi siamo immersi. La difficoltà è stata anche un’occasione.
Oggi, scrivono Georg Glaeser e Konrad Polthier, a ogni invenzione numerica della matematica corrisponde ormai una raffigurazione nella computer graphics , e l’immagine sullo schermo consente «la visualizzazione di strutture matematiche la cui natura astratta potrebbe ostacolare la nostra comprensione». Basta sfogliare lo stupendo catalogo di Immagini della matematica , frutto della loro ultima fatica all’incrocio tra scienza e arte, per capire che non sbagliavano troppo gli sfortunati mariti di cui si faceva beffe Swift a ricorrere a linee e figure per rappresentare la bellezza.
Da Socrate a Nash. La matematica della bontà
La teoria dei giochi fornisce una base scientifica all’intellettualismo etico del filosofo ateniese, dimostrando il primato della ragione cooperativa
di Franca D’Agostini (La Stampa, 01.06.2015)
La morte del grande matematico americano John Nash dovrebbe stimolare una riflessione più allargata sul significato filosofico del famoso «equilibrio di Nash». Gli sviluppi della teoria dei giochi sulla base della scoperta dell’equilibrio in questione hanno avuto una sempre più pronunciata accentuazione etica, anzitutto a partire da Amartya Sen, e hanno portato a trasformazioni profonde nella concezione della «razionalità collettiva», come spiega Paul Weirich in Collective Rationality (Oxford University Press).
Ma l’aspetto più interessante dal punto di vista filosofico è che le conseguenze della teoria costituiscono una dimostrazione inaspettata di quel che in filosofia è stato chiamato intellettualismo etico, o anche utilitarismo socratico. Si tratta, in breve, dell’implicazione da intelligenza a bontà, vale a dire: chi è intelligente è buono. Il che non vuol dire che chi è buono è intelligente, o, peggio, che solo gli intelligenti sono buoni, ma piuttosto che chi non è buono non è intelligente, non sa o non ha capito qualcosa. In altri termini: il malvagio intelligente non esiste, è un’assurdità logica e pratica.
Il dilemma del prigioniero
Il risultato sorprendente della teoria dei giochi è che la tesi socratica (di solito liquidata sbrigativamente come una insensatezza intellettualistica) viene confermata a livello matematico. Il dilemma del prigioniero, il grande paradigma della choice theory di cui Nash è stato maestro, prevede (in una delle moltissime versioni) che vi siano due prigionieri sottoposti alla scelta se confessare o non confessare: se entrambi confessano tradendo il proprio compagno, sconteranno entrambi tre anni di prigione; se confessa solo uno dei due, il traditore sconterà un anno e l’altro quattro; se entrambi non confessano, ne sconteranno solo due. Dal punto di vista dell’immediato interesse individuale, conviene tradire (nella peggiore delle ipotesi si scontano tre anni, nella migliore solo uno). Dunque entrambi i prigionieri confesseranno, realizzando così il celebre «equilibrio». Però in questo modo i due prigionieri saranno inchiodati alla soluzione mediocre tre-tre, mentre le opzioni migliori (solo un anno, solo due) verranno a priori scartate. Da un punto di vista più ampio e più raffinato, è chiaro che non confessare è la scelta migliore, e se i prigionieri se ne rendessero conto, dovrebbero adottarla.
L’interesse dell’altro come parte del proprio
Il dilemma ha dunque una semplice soluzione, che può essere così espressa: tutti, ragionando nei termini del proprio esclusivo interesse, ottengono un benessere mediocre, e inferiore a quello che otterrebbero se tenessero conto degli interessi degli altri e della collettività. La società che si forma a partire dall’interesse personale non è economicamente «ottima» (nel senso di Pareto). La società ottimale si modella invece sul «principio di cooperazione», che ci dice di prendere decisioni sulla base dell’intersezione dell’utile proprio e altrui. Amartya Sen ha mostrato che proprio questa era l’intuizione di Adam Smith. Assumendo l’interesse dell’altro come parte del proprio, l’ottimo è a portata di mano: la società e gli individui diventano economicamente felici.
Naturalmente il discorso non si ferma qui, e ci sono rischi e perdite nel primato della cooperazione. Ma l’idea di base è semplice: i fallimenti della cooperazione nei giochi sociali (siano o meno apertamente giochi «di coalizione») sono dovuti a un difetto di joint rationality, come dice Weirich. Chi è malvagio non può, matematicamente, essere intelligente.
È evidente allora il legame con il socratismo. Socrate (per quel che ne sappiamo) dimostrava la scarsa moralità dei sofisti, la loro scarsa considerazione del bene e della «cura della propria anima», ma dimostrava anche (e ciò viene di solito dimenticato) il loro scarso acume dialettico. Si dimostrava dunque l’idea del primato intellettuale del bene: un’idea intorno a cui gira tutta la tradizione filosofica (e che è tra l’altro l’idea di base delle imprese che chiamiamo scienza, giustizia, politica), ma che viene spesso dimenticata, o tradita.
Un calcolo che diventa benessere collettivo
Se ricordiamo quanto spesso figurano le espressioni «intelligenza diabolica», o «genio del male» nella nostra lingua, ci accorgiamo che non siamo affatto inclini ad accettare il principio socratico. Se ricordiamo che la nozione di razionalità è stata correlata sistematicamente alla nozione di pensiero strumentale - vale a dire: «è razionale chi agisce in funzione del proprio esclusivo interesse» -, siamo pronti a registrare la sfortuna del socratismo, il suo svilimento all’esortazione dell’anima bella, che dice «siate buoni» solo per essere giudicata buona essa stessa. Ma l’intellettualismo etico non è questo. È invece il fondato collegarsi degli interessi degli individui all’interesse della collettività. Non è l’altruismo narcisista di cui ci parla Nietzsche, ma un livello superiore di calcolo, un calcolo che diventa benessere collettivo.
L’analisi di Nash ha fornito lo sfondo matematico alla teoria, confermando che Socrate non aveva torto. Ma ha fatto anche un passo in più. Sappiamo infatti che Socrate dimostrava l’errore dei sofisti, ma solo per via negativa; confutava cioè la ragione strumentale, ma non dimostrava il primato della ragione cooperativa. Il principio di Nash dimostra l’argomento positivo: che la razionalità cooperativa ha un oggettivo primato, e la moralità non è per nulla un affare di emozioni, o di opinioni.
Siamo tutti femministi
Ridotta a macchietta, caricatura o anacronismo. Oppure recuperata con operazioni più glamour che politiche. Invece ora la più giusta rivoluzione del XX secolo ritorna
A patto di farla insieme agli uomini
Perché l’unico numero primo pari è il due
di Melania Mazzucco (la Repubblica, 10.05.2015)
DOVE eravamo rimasti col femminismo? In Occidente da almeno vent’anni la parola è andata fuori corso, come una vecchia moneta. Rottamata, liquidata, trasformata in un ironico insulto. Non fare la femminista. Non sarai mica femminista? Oppure in un anacronismo. Negli ultimi vent’anni per una donna proclamarsi femminista era un boomerang, come presentarsi a un party con un vestito fuori moda. Una dichiarazione di inattualità, un modo sicuro per raccogliere l’esecrazione universale - anche di molte fra quante, a loro tempo, furono orgogliose di esserlo. Il rancido dibattito sugli errori e sui fallimenti del femminismo storico è diventato un pretesto per affossare, con la parodia del femminismo, e delle femministe, l’unica giusta rivoluzione del Ventesimo secolo.
Ci voleva una bravissima scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, che sa essere diretta senza essere semplice, sia quando inventa romanzi sia quando recita una conferenza di trenta minuti, per riaccendere l’attenzione. Poi una star planetaria come Beyoncé ha campionato alcune frasi del discorso di Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, inserendole nella sua canzone Flawless, e la parola “femminista” è diventata di nuovo attraente. Fotografie patinate con la parola femminista in bella vista dietro l’icona di una giovane donna di successo, vibranti discorsi di attrici intelligenti e graziose davanti a platee attonite di signori attempati hanno completato il recupero del concetto - rendendolo glamour per le nuove generazioni: l’operazione di marketing, o di restyling, è perfettamente riuscita. Ma forse non si tratta solo di questo. Liberato dalla zavorra dell’ideologia, ricondotto ai comportamenti minimi della vita quotidiana, questo neofemminismo “pop”, o “light” (copyright Annie Lennox), ha avuto il grande merito di ricominciare a far discutere di disuguaglianza. Perché è di questo che si tratta.
Letteralmente, femminista è «persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica, giuridica ed economica dei sessi». Potrebbe sembrare una convinzione ormai acquisita, trascorso più di un secolo dalle prime rivendicazioni delle suffragette (che chiedevano, si badi, il diritto di voto alle elezioni, cioè semplicemente la voce, ovvero la fine di una millenaria esclusione e segregazione): oggi non si incontra nessuno che pubblicamente osi proclamarsi in disaccordo, e osi riesumare i vecchi stereotipi dell’inferiorità mentale, o biologica, della donna.
Ma - al di là delle buone intenzioni e della correttezza politica di facciata - questa parità che tutti teoricamente ritengono cosa buona e giusta, nella società, nella politica, nel diritto, nell’economia, è stata raggiunta? Per rispondere, bisogna tener conto di troppe differenze - geografiche, culturali, economiche, anagrafiche, religiose - e forse questa è già la risposta.
Non è stata raggiunta la parità se, facendo lo stesso mestiere e avendo le stesse qualifiche, gli stessi diplomi, la stessa esperienza, una donna guadagna meno di un uomo, solo perché è una donna. Se a casa, a scuola, all’università, in azienda, non ha realmente le stesse opportunità dei suoi compagni. Se il lavoro per lei è un miraggio o un lusso, se lo studio è un privilegio, se la famiglia è un’alternativa o una missione, se l’indipendenza è una colpa, se ritrovare la libertà dopo un rapporto o un matrimonio sbagliato è un crimine da pagare con la vita. Se anche solo dover dimostrare di valere qualcosa pretende il sacrificio della sua identità (meglio non sembrare troppo donna, se vuoi essere presa sul serio).
La parità non è equivalenza. Essere uguali non è essere identici. Su questo equivoco si è giocato il destino del femminismo storico - che i suoi avversari hanno facilmente ridotto a fenomeno psicosessuale, stigmatizzando la femminista come una virago ambiziosa e rabbiosa, una donna frustrata e negata che vuole prendere il posto dell’uomo diventando come lui, assumendone modi e comportamenti, ed esercitando il potere allo stesso modo.
Da qui anche la caricatura che, in questi anni di riflusso, si è a poco a poco stratificata nell’immaginario collettivo del Ventunesimo secolo: nella versione apocalittica la femminista essendo sinonimo di donna sgradevole e poco attraente, refrattaria alla depilazione, che siccome non piace agli uomini li detesta; nella versione integrata di manager single, anaffettiva, sterile e crudele tagliatrice di teste (nuova incarnazione dell’eviratrice che ossessionò il pensiero misogino di fine Ottocento). Invece la parità è altro. Si può essere pari essendo differenti. Per essere pari, inoltre, bisogna potersi dividere per due. Eccetto il due, i numeri primi sono tutti dispari. Non si può essere femministe da sole.
Fino a oggi, stranamente, si è sempre declinato il sostantivo al femminile - sia al singolare sia al plurale. La femminista, le femministe. Come se fosse un problema che riguardava solo le donne, e il loro modo di stare al mondo. Invece, è necessaria una piccola, ma immensa, rivoluzione grammaticale. «Dovremmo essere tutti femministi», invita la Adichie. Perché anche gli uomini, di oggi ma soprattutto di domani, possono esserlo (e in verità, parecchi già lo sono: basti pensare ai mutamenti che hanno ri-orientato i traguardi dell’esistenza, liberato le manifestazioni degli affetti e delle emozioni, capovolto la dinamica della genitorialità e parentalità, perfino i canoni dell’estetica). In fisica, la parità è una proprietà di simmetria della funzione: invertendo il segno alle coordinate spaziali un fenomeno si ripete immutato. Se questo nuovo femminismo basico avrà un futuro sarà proprio perché cerca di spostarci insieme. Di cambiare il segno alle coordinate dello spazio, del tempo, dell’educazione che diamo o vogliamo dare ai bambini, delle relazioni fra i generi, e - anche o soprattutto - con noi stesse. Esistono anche femministi felici.
* L’ANTICIPAZIONE Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi, traduzione di Francesca Spinelli, pagg. 50, euro 9)
Elisabeth Badinter racconta la straordinaria Madame du Châtelet
Ode a Émilie nostra signora dei Lumi
“Fu il grande amore di Voltaire che da lei imparò la filosofia e il pensiero astratto”
“Fu la prima scienziata e matematica madre spirituale delle donne moderne”
di Anais Ginori (la Repubblica, 19.03.2015)
IN ITALIA esce adesso il Discorso sulla Felicità di Émilie du Châtelet (Elliot edizioni), in cui Badinter firma la prefazione. «Era un personaggio moderno, una delle madri spirituali delle donne del ventunesimo secolo» racconta la filosofa nella sua casa affacciata sui giardini del Luxembourg, con due ritratti di Émilie du Châtelet appesi sopra alla sua scrivania.
Cosa la affascina in questa intellettuale del Settecento in fondo poco nota?
«Intanto le donne intellettuali all’epoca erano poche, e lei è stata la prima scienziata di Francia. Soprattutto, era estremamente libera. A dispetto degli obblighi sociali, Émilie du Châtelet è la persona che si è sottomessa di meno ai pregiudizi della sua epoca e che ha saputo dar prova di stravaganza, indipendenza e ambizione contro un mondo ostile a tali pretese. A trent’anni, la marchesa du Châtelet lascia Parigi, marito, bambini e amanti per andare a vivere con Voltaire nel castello di Cirey, al confine con la Lorena. Dal 1733 al 1746 ne è l’amante, la compagna e la musa. Muore nel 1749 a causa di una gravidanza in età avanzata, mentre ha appena finito di tradurre Newton».
«Siamo dei filosofi molto voluttuosi » scriveva Voltaire a proposito della sua relazione con la marchesa.
«Vivevano nel lusso, ognuno aveva il suo appartamento. Nel castello c’era un teatro, nel quale la marchesa recitava fino all’alba. Oltre che essere filosofa, scienziata, era anche un’ottima attrice. Aveva un’energia formidabile, dormiva e mangiava poco. Amava pazzamente il sesso, anche se Voltaire non era sempre all’altezza delle sue attese. Andava sempre in cerca di sensazioni forti. Giocava d’azzardo, scommettendo soldi che non aveva e spesso Voltaire doveva saldare i suoi debiti. Ma era anche una donna razionale, studiosa, erudita ».
Perché scelse di studiare matematica?
«Era una disciplina quasi sconosciuta alle donne del suo tempo, anche se nell’aristocrazia c’era una piccola moda. Ma al contrario delle duchesse de Chaulnes, d’Aiguillon o de Saint-Pierre, che ci provarono per qualche tempo solo perché il seducente Maupertuis aveva portato i matematici in voga, Émilie du Châtelet ne ha fatto un impegno costante fino agli ultimi anni della sua vita. Dalla matematica alla fisica, e dalla metafisica all’analisi dei testi biblici, è il più solido e completo personaggio di scienza del suo tempo».
Il suo soprannome era “Pompon Newton”?
«Così la chiamava Voltaire per indicare la passione che nutriva sia per i fronzoli che per lo scienziato inglese. Contribuisce alla divulgazione e allo sviluppo delle teorie di Leibniz e di Newton. La prima tappa del suo riconoscimento scientifico è sancita quando concorre anonimamente al Prix de l’Académie des Sciences nel 1738. Il tema, “De la nature du feu et de sa propagation”, aveva ispirato Voltaire. Lei decide, senza avvertirlo, di inviare un testo cui aveva lavorato segretamente. Nessuno dei due ottiene il premio, ma entrambi vengono pubblicati a spese dell’Académie. La sua più grande impresa è stata però la traduzione in francese dei Principia di Newton».
Ha influenzato anche l’opera di Voltaire?
«È stata la sua maestra dal punto di vista filosofico. Fino a quando non incontra la marchesa du Châtelet, Voltaire scrive più che altro pamphlet, teatro. È lei che lo introduce all’astrazione filosofica, al mondo dei concetti. Madame du Châtelet era agnostica e probabilmente atea, anche se non si poteva dire all’epoca. Lei e Voltaire, all’inizio della loro passione, passavano le giornate al letto, analizzando l’Antico e il Nuovo Testamento, e facendosi un sacco di risate. È un aneddoto straordinario, che ben rappresenta la storia dei Lumi. Tra loro c’era una complicità intellettuale forte. Anche dopo che Voltaire la lascia per un’attrice e soprattutto per la nipote, Madame Denis, il legame non si spezza ».
Una relazione conflittuale?
«Nel 1740, Madame du Châtelet pubblica Institutions de physique , testo che la rende la rappresentante ufficiale di Leibniz in Francia, con grande malcontento di Voltaire, che invece è rimasto fedele a Newton. A lei non importa. Non si cura neanche delle critiche della setta cartesiana e dei devoti di Newton, al quale tra l’altro tornerà a dedicarsi successivamente. Anche nei momenti più tesi, Voltaire ha sempre difeso pubblicamente la libertà di pensiero della sua compagna. Era solidale in tutto. Dopo la sua morte prematura commentò: “Era un grande uomo la cui unica colpa fu essere una donna”».
Qual è il valore filosofico del “Discorso sulla Felicità”?
«Scritto subito dopo la fine del sodalizio con Voltaire e pochi anni prima di morire, è stato pubblicato postumo nel 1779. Non sarebbe mai potuto uscire mentre Madame du Châtelet era ancora in vita: si sarebbe coperta di ridicolo. Rispetto ai tanti trattati sulla felicità dell’epoca, è un testo molto personale, una sorta di diario, un breve saggio autobiografico in cui fa un bilancio di conquiste e sconfitte, ma soprattutto parla delle sue tante e diverse passioni. È un inno all’ambizione femminile. Quando non si è credenti, la voglia di lasciare una piccola traccia in questo mondo è una sorta di eroismo. Nei testi religiosi l’ambizione è considerata un peccato. Per me, invece, è una virtù che molte donne dovrebbero coltivare».
Voltaire e il suo Trattato sulla tolleranza sono tornati in cima alle classifiche dopo gli attentati parigini. Cosa ne pensa?
«Sulla lotta contro il fanatismo religioso, non c’è niente di meglio. Voltaire è un militante della tolleranza, non un intellettuale da salotto. Interviene pubblicamente, cerca di scuotere le coscienze, vuole creare un movimento. Ha una penna di una strepitosa ironia e di una crudeltà terribile. Neppure Rabelais, predecessore illustre nella lotta contro il fanatismo, è così chiaro, efficace. Voltaire fa ridere ma anche riflettere: un altro livello rispetto a Charlie Hebdo».
Matematica
L’arte di scolpire teoremi
Da Pitagora a Gödel la domanda ricorrente sui numeri è sempre la stessa: esistevano già prima che li scoprissimo oppure li inventiamo?
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.03.2015)
«Oh, amici, cosa sono dunque questi meravigliosi “numeri” sui quali voi state ragionando?». Così Platone ai matematici, nel VII libro della Repubblica. Ventiquattro secoli più tardi ci poniamo ancora la domanda. La risposta sembra facile: i numeri sono quelle “cose” come 1, 2, 3, 4 eccetera. Ma intanto ci sono altri numeri oltre a questi numeri “naturali”; per esempio, 3,14 è un numero. E poi, cosa sono queste “cose-numero”»? Sono una nostra invenzione, oppure sono qualcosa che esiste indipendentemente da noi?
Molti matematici rispondono con convinzione che i numeri, con tutta la matematica, esistono indipendentemente da noi. L’insieme delle verità matematiche forma una realtà astratta che i matematici vanno esplorando e scoprendo un po’ alla volta, come gli esploratori dell’Ottocento esploravano l’Africa. Alain Connes, grandissimo matematico francese, scrive che per lui i numeri hanno «una realtà più stabile della realtà materiale che ci circonda». Roger Penrose, grandissimo matematico inglese, gli fa eco: «C’è qualcosa d’importante che si guadagna pensando che le strutture matematiche abbiano una realtà in se stesse». Raro caso di accordo fra francesi e inglesi. Platone sarebbe stato felice di queste risposte: lui immaginava un mondo di idee perfetto, del quale il nostro mondo non sarebbe che un pallido riflesso. In questo ideale mondo platonico, la matematica aveva una posizione regina.
Ma ci sono altri modi di pensare cosa siano i numeri: per esempio un’utile costruzione che noi abbiamo inventato. Oppure l’utile sviluppo di un sistema di regole che noi decidiamo di studiare, perché è bello e perché ci torna utile. Insomma, una costruzione umana, molto umana. «Noi creiamo nuovi numeri», scriveva per esempio nel XIX secolo Richard Dedekind, il matematico che ha formulato la moderna teoria dei numeri che misurano quantità continue, come la lunghezza di un segmento.
La domanda sulla natura dei numeri apre e chiude un testo di Umberto Bottazzini, Numeri. Il libro è di facile lettura, ma denso di fatti di storia della matematica. Ripercorre secoli di evoluzione del concetto di numero, da Pitagora al teorema di incompletezza di Gödel. Si parla dei numeri naturali, delle complesse strutture che questi nascondono, come i numeri primi, ma anche dei numeri razionali, come 0,1, dei numeri reali, come la radice quadrata di due, dei numeri complessi, come la radice quadrata di -1 eccetera. Ciascuna classe di numeri con le sue proprietà, ciascuna rivelatasi poi utilissima, anzi essenziale, per la scienza.
Bottazzini prende risolutamente parte nella disputa sulla natura dei numeri, fino a concludere: «La credenza nell’esistenza di una matematica platonica che trascende i corpi e le menti umane e struttura il nostro universo - credenza che corrisponde alla filosofia “spontanea” diffusa fra i matematici - appare sempre più destinata a essere relegata a materia di fede, non dissimile dalla fede religiosa». Questa posizione anti platonica è illustrata ricordando il pensiero classico dei matematici dell’Ottocento che l’hanno sostenuta, ma soprattutto viene collegata da Bottazzini ai risultati recenti delle ricerche scientifiche sul modo in cui i numeri sono codificati nel nostro cervello, sulle capacità numeriche di altre specie animali e sulla variabilità nella padronanza dei numeri delle diverse culture umane.
Quello che emerge da questa sintesi è che forse non è del tutto vero che i numeri li «creiamo liberamente noi», come voleva Dedekind, ma solo nella misura in cui la nostra istintiva padronanza dell’azione del numerare non è che un risultato della nostra evoluzione biologica. Come in molti altri campi, la sensazione dell’esistenza di realtà trascendenti indipendenti da noi è un abbaglio, che viene dall’assumere che i termini del nostro linguaggio facciano sempre riferimento a qualcosa, quando invece spesso la loro funzione è diversa da quella di designare. Insomma, i numeri sono strumenti e forme di una attività in cui siamo impegnati, e alla quale in parte l’evoluzione ci ha predisposti, non entità con esistenza autonoma. E la sensazione dei matematici di scoprire cose che già esistevano?
Michelangelo ci ha lasciato scritto che uno scultore non crea una statua, perché la statua esiste prima dell’artista: è già nel blocco di marmo. Quello che l’artista deve fare è solo levare la pietra in più e «tirare fuori» la statua dal blocco di marmo. Nello stesso modo, dall’insieme amorfo e privo di senso di tutte le «proposizioni vere» che seguono dall’insieme di «tutti i possibili sistemi assiomatici», il matematico estrae, come Michelangelo dal marmo, gli scintillanti teoremi che fanno la bellezza e l’utilità della matematica. Agli occhi di Michelangelo, di Alain Connes o di Roger Penrose, forse non si tratta che trovare quello che già “esiste” - in fondo “esistere” è un verbo che possiamo usare come ci pare -. Ma agli occhi del resto di noi, sono Michelangelo e i Matematici che creano le forme. Le forme che parlano a noi che sono utili a noi che hanno senso per noi creature naturali in un mondo naturale. Senza bisogno di immaginare realtà al di là della realtà.
Due libri indagano su come si forma il sapere scientifico
Ecco perché non possiamo non dirci matematici
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 14.01.2015)
«IO non ho mai capito niente di matematica». Questa è la frase che un matematico si sente più spesso rivolgere, praticamente da chiunque venga a sapere il mestiere che fa. Eppure, pochi sono così matematicamente analfabeti da non essere in grado di fare correttamente i conti al mercato o in banca.
L’ excusatio non petita è dunque, più che altro, un’inconscia presa di distanza da una materia che ci ha fatto penare da bambini, lasciandoci brutti ricordi, e alla quale non vogliamo più dedicare un’attenzione conscia da adulti. Parte della motivazione psicologica di un simile atteggiamento è ormai nota.
Nel suo studio sulle intelligenze multiple, iniziato nel 1983 nel libro Formae mentis ( Feltrinelli, 1987), lo psicologo Howard Gardner di Harvard ha infatti mostrato che l’intelligenza non è un rigido singolare, ma un fluido plurale. Ne esistono diversi tipi, che tutti possediamo in minor o maggior grado: le abilità cinestetiche per muoverci, linguistiche per parlare, musicali per cantare, logico-deduttive per ragionare, eccetera. E i vari tipi di intelligenza maturano in periodi diversi dello sviluppo.
Il motivo per cui la matematica è così invisa sembra essere che l’abilità logico-deduttiva da essa richiesta è l’ultima a svilupparsi e matura verso la pubertà. Durante le elementari e le medie, anche per coloro che la sceglieranno come professione, la matematica risulta poco congeniale, e lo sforzo richiesto per apprenderla “contro natura” è superiore alle capacità di dimenticarne il fastidio. Da qui una rimozione che perdura tutta la vita, e fa dire di non aver mai capito nulla di matematica anche coloro che in realtà se la cavano benissimo, almeno con i conti quotidiani.
In Cervelli che contano ( Adelphi), il neuroscienziato Giorgio Vallortigara e la giornalista scientifica Nicla Panciera ci aggiornano sulla ricerca delle basi neurofisiologiche dell’intelligenza matematica. Scopriamo che si sono identificate varie aree del cervello deputate allo scopo: la corteccia temporale inferiore per l’analisi delle forme geometriche, la corteccia parietale posteriore per l’analisi della numerosità aritmetica, e la corteccia prefrontale per la coordinazione logica fra le due analisi.
Per quanto riguarda i conti, sia gli umani che gli animali possiedono neuroni specifici che permettono, da un lato, di confrontare la numerosità di due insiemi di oggetti. E, dall’altro, di compiere su queste numerosità le quattro operazioni elementari: addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Si tratta però di un sistema analogico, che fornisce soltanto valutazioni approssimate dei numeri coinvolti, e costituisce un substrato neurofisiologico più alla teoria degli insiemi che all’aritmetica.
Esiste però un secondo sistema, complementare al precedente, che permette di valutare la numerosità di insiemi piccoli. In altre parole, siamo in grado di percepire la differenza tra uno, due, tre, e al massimo quattro oggetti, stimandone il numero in maniera automatica. Questo secondo sistema digitale fornisce un substrato neurofisiologico alla vera e propria aritmetica. E fin qui gli uomini e gli animali, almeno quelli “superiori”, si assomigliano tutti, perché possiedono tutti la stessa predisposizione per un’aritmetica minimale.
Per arrivare a ciò che noi chiamiamo matematica tout court , è però necessario estendere i due sistemi mediante una rappresentazione simbolica in grado di procedere anche a numeri maggiori. Bisogna cioè arrivare al concetto di numero, che per quanto ne sappiamo è tipicamente umano e si forma in un preciso momento dell’evoluzione del bambino. Verso i due anni, infatti, egli identifica l’unità e impara la differenza tra “uno” e “molti”. Circa nove mesi dopo identifica la dualità, e qualche mese dopo la trinità e la quaternità.
È a questo punto che gli umani, sembra diversamente dagli animali, estrapolano dalla successione “uno, due, tre, quattro” il senso della sua costruzione attraverso l’aggiunta di un’unità, in un processo che può continuare indefinitamente. Ma non sappiamo ancora quale ruolo, contingente o necessario, svolga il linguaggio in questa maturazione. Anche perché le aree del cervello deputate alla matematica e al linguaggio sono distinte e separate.
Sia come sia, verso i cinque anni il bambino è in grado di compiere il primo passo di un lungo processo evolutivo che gli permette di sviluppare il senso della matematica, di imparare l’aritmetica e la geometria, e se è fortunato e persistente addirittura di arrivare a Dimostrare l’impossibile , secondo il titolo di un bel libro di Claudio Bartocci (Cortina).
Il matematico genovese corona con quest’opera un’intensa attività divulgativa, che l’ha portato a inaugurare al Palazzo delle Esposizioni di Roma la fortunata mostra «Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito», aperta fino al 31 maggio, e a curarne con Luigi Civalleri l’omonimo catalogo illustrato (Codice). Ma il suo impegno culturale va ben oltre questi miseri cenni, perché la sua voracità intellettuale è proverbiale. Chi ha la fortuna di conoscerlo, infatti, non ha anche quella di potergli citare il titolo di qualche libro che lui non abbia già letto e catalogato negli scaffali della propria Biblioteca di Babele mentale.
Come gli onnivori Borges o Eco, anche Bartocci sembra infatti conoscere tutta la letteratura esistente, e dalle sue scorribande letterarie ha tratto una sorprendente e raffinata antologia di Racconti matematici ( Einaudi, 2006), con trofei che vanno da Omar Khayyam e Lewis Carroll a Julio Cortazar e José Saramago. Ma, a differenza di Borges o Eco, Bartocci sembra conoscere anche tutta la matematica esistente, e ne ha forgiato una bacchetta che gli ha permesso di dirigere la sinfonica quadrilogia La matematica ( Einaudi, 2007-11), con un centinaio di solisti che vanno dallo stesso Eco a un nutrito numero di medaglie Fields e altri menti straordinarie.
Il suo primo libro da autore, Una piramide di problemi ( Cortina, 2012), ci aveva offerto un’intricata e intrigante storia della geometria da Carl Gauss a David Hilbert, basata su una conoscenza approfondita dei testi. Dimostrare l’impossibile è invece di tutt’altro tenore: tanto leggibile, accessibile e destinata a un pubblico colto ma generico, quanto la prima era complessa, impegnativa e riservata agli specialisti.
I brevi testi giornalistici che compongono il nuovo libro si possono leggere indipendentemente, ma sono collegati dai molteplici fili di una fitta trama. Essi spaziano dalle pillole biografiche sui matematici, alle miniature di teoremi e teorie, alle osservazioni filosofiche, alle connessioni tra la matematica e il resto della cultura. Guidato da questo catalogo di un’immaginaria mostra di idee, invece che di numeri, anche il lettore più avvezzo a dire: «Io non ho mai capito niente di matematica» dovrà ricredersi, e ammettere che non solo la capisce, ma ne può apprezzare il pervasivo ruolo nel nostro mondo e nella sua propria vita.
Ci salverà la matematica
I numeri come strumento di libertà (e amore)
Cosa ci ha lasciato Alan Turing, oltre al computer
di Luca Mastrantonio (Corriere della Sera, 07.01.2015)
«Beh, il carattere di Alan Turing viene fuori un po’ troppo romanzato, ma il film mostra bene che la matematica può avere applicazioni pratiche in tempi rapidi». Andrea Malchiodi è appena uscito dalla sala del cinema di Brescia dove ha visto The Imitation Game, dedicato all’invenzione di Turing, una macchina da cui discenderà il computer, che permette agli alleati di decrittare il codice segreto dei nazisti.
Il professore di Analisi Matematica alla Normale di Pisa, parla lentamente. Alterna, staccate da un silenzio spesso, risposte brevi e molto lunghe. Sembra codice morse. Deve essere deformazione professionale. Uno degli ambiti di ricerca di Malchiodi è stato in parte inaugurato da Turing, la morfogenesi , cioè lo studio delle forme geometriche ricorrenti nelle fasi di formazione negli esseri viventi, come embrioni o piante, che prima sono sferici, o simmetrici, e poi diventano più complessi: «Turing era affascinato, ad esempio, dalla forma dell’ananas e dai semi di girasoli, con le loro doppie spirali».
Qual è la scena che le è più piaciuta del film?
«Quando la telegrafista che collabora con Turing capisce che il telegrafista nemico ha una fidanzata, perché inserisce sempre una sequenza riconducibile a un nome di donna».
Cosa le è piaciuto meno?
«Alcuni aspetti caratteriali di Turing che qui sono troppo stressati: non credo fosse così asociale. Sì, aveva delle fissazioni, come molti matematici. Ne ricordo una che nel film non c’è: la catena della bici cadeva dopo un certo numero di pedalate, diciamo trenta. Lui non la riparava. Alla ventinovesima si fermava e assicurava la catena».
La morale del film è che la matematica, grazie a un genio eccentrico (poi perseguitato in patria per la sua omosessualità), ha salvato la libertà dai nazisti.
«Churchill dice che con la macchina di Turing la durata della guerra si è accorciata, di almeno due anni. Plausibile».
La matematica ha una missione?
«Certo - risponde Malchiodi - la matematica in fondo è trovare ordine, cioè ricorrenze e ripetizioni, dove gli altri vedono caos. Nel film questo c’è. Che dire: sarebbero utili finanziamenti come quelli di Churchill. E oggi in Italia siamo indietro; eppure per le tante ricadute pratiche ci sarebbe bisogno di un cambiamento». In quali settori? «Io sono un teorico. Ma sappiamo che la matematica permette di fornire modelli di lettura dei mercati finanziari o del volo degli uccelli».
Qualcosa di più concreto?
«Il comportamento dei liquidi, letture ecografiche mediche o della terra, per studiare conformazioni e possibili fenomeni idro-geologici. E poi farebbe sviluppare il settore tecnologico. Noi non siamo in guerra, ma a confronto serrato con Paesi molto più avanti di noi».
Come traduce, un matematico, la parola libertà?
«La matematica è libertà. Di espressione. Per risolvere un problema ci si può sbizzarrire con nuovi metodi. Inventarne uno dà più soddisfazione che risolvere il problema, perché può aprire la strada ad altri problemi, altre soluzioni».
Qualcosa di simile all’amore?
«Sì. A vantaggio degli altri. E pure per sé, per l’ambizione di voler lasciare una traccia. La libertà d’espressione permette di fare delle scelte anche di stile. In questo la matematica è arte».
Come la poesia? «Sì». Silenzio.
In cosa il personaggio interpretato da Benedict Cumberbatch corrisponde al Turing reale?
«Nel carattere».
Cioè?
«La testardaggine. Si vede che Turing è ossessionato dal problema che deve risolvere, cioè ridurre le possibili combinazioni che i nazisti usano per crittare i loro messaggi. Lo fa perché c’è l’impellenza della guerra e per interesse personale per quel problema».
Un altra caratteristica dei matematici?
«La distrazione. Perché si lavora con la testa, la soluzione può arrivare in qualsiasi momento, creando inconvenienti».
Per esempio?
«Non so, magari sono distrazioni comuni. Quando insegnavo in Inghilterra mi capitava di fare due volte lo stesso biglietto, o sbagliare aeroporto. Una volta in un bar ho pagato un caffè e il resto se l’è preso un mio collega. Però ci sono anche dei vantaggi».
Quali?
«Il conto al ristorante. I matematici sanno dividerlo in maniera equa, secondo quanto uno ha mangiato».
Alan Turing, anche i servizi segreti si scusano
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 17.04.2016)
LONDRA. Fu l’artefice del colpo probabilmente più importante per lo spionaggio alleato nella seconda guerra mondiale: la decifrazione del Codice Enigma dei nazisti, un contributo decisivo alla vittoria contro il Terzo Reich. Settantun anni dopo, i servizi segreti britannici presentano finalmente scuse postume per la sua tragica fine. Condannato nel 1952 per omosessualità (rimasta un reato fino agli anni Sessanta nel Regno Unito), il grande matematico Alan Turing, uno dei padri dell’odierno computer, fu sottoposto a castrazione chimica, non resse al dolore e nel 1954 si tolse la vita con il cianuro. Ci è voluto mezzo secolo per la sua riabilitazione: nel 2010 con le scuse del primo ministro Gordon Brown, nel 2013 con il “perdono” della regina, due anni fa con The imitation game - L’enigma di un genio, omaggio del cinema alla sua memoria.
Ieri è stato il turno del Gchq, il servizio segreto elettronico, in un certo senso l’erede del celebre gruppo di Bletchley Park che decifrò il codice di Hitler. «Voglio chiedere scusa per le persecuzioni a cui furono sottoposti lui e altri omosessuali», ha dichiarato Robert Hannigan, direttore del Gchq, a un evento organizzato a Londra da Stonewall, l’associazione che si batte per i diritti dei gay. «Turing fu sottoposto a un trattamento orribile e nemmeno in seguito imparammo da quell’errore».
Meglio tardi che mai: ora in Gran Bretagna i gay, oltre che sposarsi, possono prestare servizio nello spionaggio. Ma nella realtà, diversamente dai film su 007, si vive solo una volta. Nessuno ridarà ad Alan Turing e ad altri omosessuali perseguitati l’esistenza che potevano avere.
Turing sulla nuova banconota da 50 sterline
Il matematico svelò i codici nazisti, ma fu arrestato perché gay
di Redazione *
Non sarà una donna né Stephen Hawking a comparire su una delle due facce della nuova banconota britannica da 50 sterline (sull’altra come sempre ci sarà la regina). Ma Alan Turing, il matematico-eroe perseguitato dopo la guerra dal sua Paese solo perché gay. La decisione è stata annunciata oggi dalla Bank of England e si tratta di un atto di omaggio, ma anche di riparazione postuma.
Turing, nato nel 1912 a Londra e morto suicida a nemmeno 43 anni a Manchester dopo aver sperimentato il carcere per l’allora reato di omosessualità, è considerato uno dei matematici più brillanti della sua generazione, nonché un pioniere dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. Durante il secondo conflitto mondiale lavorò per conto dell’intelligence di Sua Maestà nel centro di crittoanalisi di Bletchley Park, ideando una serie di tecniche in grado di far breccia nei cifrari della Germania nazista inclusi quelli generati dalla macchina Enigma. Nel 2014 la vita di Turing è stata raccontata nel film ’The Imitation Game’.
* ANSA 15 luglio 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Enigma, 80 anni fa la cattura della macchina della ’guerra segreta’
Fu la svolta per decriptare le comunicazioni naziste
di Redazione ANSA *
ROMA. Il 9 maggio 1941 la corvetta britannica HMS Aubrietia metteva le mani per la prima volta su una macchina Enigma perfettamente funzionate, sottratta a un U-Boot tedesco: una svolta che permise di decriptare, con l’aiuto di alcuni dei più grandi matematici dell’epoca, le comunicazioni segrete dei nazisti. Circondata da storie incredibili, intrighi e personaggi straordinari, Enigma è la macchina crittografica più celebre della storia, da cui hanno preso ispirazione decine di romanzi e film - tra cui The Imitation Game - e segnato una parte importante del destino della seconda guerra mondiale. Enigma era un dispositivo usato dalle forze armate naziste e garantì nelle fasi iniziali della guerra la sicurezza delle comunicazioni tedesche per coordinare le operazioni militari.
Una svolta arrivò il 9 maggio 1941 quando, in occasione di uno scontro navale, la corvetta britannica HMS Aubrietia e il cacciatorpediniere britannico HMS Bulldog riuscirono ad abbordare il sommergibile tedesco l’U-Boot 110. Sin dall’inizio del conflitto la marina britannica aveva cercato di impossessarsi di queste macchine, ma senza successo: in caso di cattura gli equipaggi tedeschi riuscivano sempre a distruggere il congegno e i codici.
I materiali requisiti vennero trasportati in Gran Bretagna, a Bletchley Park dove, in una villa di campagna era stato istituito il sito dell’unità principale di crittoanalisi del Regno Unito. Lì erano stati riuniti alcuni dei maggiori matematici del mondo, un ’dream team’ della crittografia di cui faceva parte anche Alan Turing, eclettico scienziato vittima di forti persecuzioni a causa della sua omosessualità e forti disturbi psichici a cui si devono anche i primi fondamentali passi per la nascita dell’informatica.
La matematica da Cenerentola a Principessa
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica 29.6.14
COM’È noto, i premi Nobel scientifici esistono per la fisica, la chimica e la medicina, ma non per la matematica. Non, come a volte si vocifera, perché Nobel ce l’avesse con i matematici per motivi di rivalità sentimentale. Bensì, più semplicemente, perché era interessato alle scienze applicate.
I matematici rimediarono creando nel 1936 un loro analogo del premio Nobel, chiamato medaglia Fields. Viene assegnato nei quadriennali Congressi internazionali di matematica: il prossimo si terrà a Seul ad agosto, e ci regalerà altri quattro nuovi vincitori, tutti sotto i 40 anni per regolamento, che oltre alla gloria riceveranno soltanto un “misero” assegno di 10 mila dollari.
Un analogo dell’Oscar alla carriera è invece il premio Abel, istituito nel 2001 in Norvegia. Questa volta il premio è più sostanzioso, e non troppo inferiore al Nobel: circa un milione di dollari. Ed è già successo più di una volta che a vincerlo sia stato un matematico anziano, che da giovane aveva vinto la medaglia Fields.
La scorsa settimana è stato infine istituito il premio Breakthrough, che già esisteva da due anni per la fisica, e da uno per la biologia. È finanziato da una mezza dozzina di magnati americani, e arriva a tre milioni di dollari: circa il triplo del Nobel. Finalmente, ed era ora, la matematica cessa di essere la Cenerentola delle scienze, per diventarne la Principessa.
La "scienza per tutti" in un saggio dello studioso
WILLIAM CLIFFORD E IL SENSO COMUNE DELLA MATEMATICA
di Paolo Zellini (la Repubblica, 07.01.2014)
IL LIBRO Etica, scienza e fede di William K. Clifford (Bollati Boringhieri trad. di S. Bourlot pagg. 154 euro 12)
Una teoria matematica non è perfetta finché non risulta comprensibile alla prima persona che si incontri per strada. Ne era convinto David Hilbert quando proponeva, in occasione del celebre Congresso a Parigi ne11900, 23 problemi ancora irrisolti alle future generazioni de1XX secolo. Ma Hilbert non era certo il solo a esigere che le astrazioni matematiche risultassero comprensibili a chiunque. Richard Dedekind, nel suo fondamentale trattato Sulla natura e sul significato dei numeri del 1888, spiegava che alla sua teoria poteva accostarsi qualsiasi persona dotata di buon senso. E ancora prima William Kingdon Clifford, matematico inglese della seconda metà dell’Ottocento, dichiarava che è cattiva algebra quella che, voltata nella nostra lingua, non soddisfi il senso comune.
La dichiarazione di Clifford merita ora attenzione anche per l’uscita di una raccolta di suoi interventi dal titolo Etica, scienza e fede, con un bel saggio introduttivo di Claudio Bartocci e Giulio Giorello. Clifford pubblicò il suo più celebre articolo scientifico sulle algebre geometriche nel 1878, un anno prima della sua morte a soli 34 anni. Per descrivere le proprietà delle particelle elementari scienziati come Pauli, Dirac e Majorana si sarebbero poi serviti di algebre che portano il loro nome senza accorgersi che stavano usando algebre di Clifford.
Una coincidenza singolare ma frequente: accade spesso che diversi matematici inventino teorie simili a loro insaputa e a poca distanza di tempo, come se le teorie si sviluppassero da sé, in modo fatale e univoco, in virtù di una loro necessità intrinseca. L’autorità e la forza logica con cui si impongono alla nostra attenzione potrebbe pure dipendere dalla continuità che sembra esistere tra pensiero scientifico e pensiero comune, o dalla connessione logica delle nuove scoperte con idee più antiche, consuete e incontestate. Come fece poco più tardi Ernst Mach con le sue celebri Lezioni divulgative, Clifford scrisse The common sense of the exact sciences, un libro che ripropone di ricondurre fondamentali concetti alle più elementari operazioni della nostra vita quotidiana.
Al senso comune, dimostrava Clifford, possono rapportarsi non solo teorie acquisite dal canone, come l’aritmetica dei numeri complessi o una computatio deducibile dai numeri pitagorici, ma anche idee innovative che poco sembrano condividere con la nostra esperienza del mondo reale. Tra queste l’idea, poi ripresa da Einstein, di interpretare come una curvatura dello spazio ciò che realmente succede in quel fenomeno che chiamiamo "moto della materia".
Come interferiva tutto ciò con la filosofia di Clifford? Clifford era convinto che gli scienziati non facessero ancora abbastanza per liberare l’uomo dal peso dei dogmi. Egli perseguiva l’idea di un Illuminismo radicale, di un rischiaramento incentrato sulla responsabilità e sulla libertà individuale, in polemica con il principio di autorità su cui si basava la società vittoriana del suo tempo.
Un secolo prima Kant aveva sostenuto che al «rischiaramento non occorre altro che la libertà; e precisamente quella di fare pubblico uso della ragione in tutti i campi», e che «regole e formule, strumenti meccanici di un uso razionale» possono diventare «ceppi di una eterna minorità».
Ora, cercare un nesso tra scienza e senso comune e ricollegare ciò che è astrattamente deducibile alla conoscenza più intuitiva e immediata, avrebbe allontanato il rischio che "regole e formule" matematiche diventino per i più una verità a cui si deve credere senza ragionare, come sarebbe stato per i numeri complessi del giovane Tórless di Robert Musil (1906): «Caro amico, devi semplicemente avere fiducia; quando conoscerai la matematica dieci volte tanto rispetto a ora sarai in grado di capire, ma intanto devi credere!».
Non a caso Clifford scrisse un breve saggio sull’Etica della religione. Quello era per Kant il punto culminante del rischiaramento: «La minorità in cose di religione è, fra tutte le forme di minorità, la più dannosa ed anche la più umiliante». E Clifford manifestava un aperto scetticismo nei confronti dei dogmi di qualsiasi religione, pur apprezzando la profonda religiosità del Buddha o di Spinoza.
Sembra paradossale ma, se la religione può essere un ostacolo al rischiaramento, non si può escludere che possa esserlo anche la scienza. Max Weber notava come l’uomo razionale ignora tranquillamente, di solito, come funziona il tram da cui si lascia trasportare; e Norbert Wiener avvertiva che lo studio delle scienze informatiche, a cui lui stesso aveva dato preziosi contributi, avrebbe potuto incoraggiare l’inclinazione diabolica a delegare la propria ragione e responsabilità a una "mente superiore". Questa, egli spiegava, si incarna volentieri in congegni elettronici il cui funzionamento è solo in parte compreso e che possiede tuttavia una presunta obiettività; e allora non ci deve stupire che l’uso di grandi sistemi di calcolo per un’infinità di scopi elementari possa diventare «l’esatto equivalente della Magia e della Simonia».
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
I difetti di un mercato che privilegia l’uomo
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 20.02.2012)
Investire nelle donne converrebbe alla società, dal punto di vista dello sviluppo economico, del bilancio fiscale, dell’utilizzo pieno di tutte le risorse umane disponibili. Ma per investire nelle donne e favorirne una partecipazione al mercato del lavoro adeguata alle loro capacità e competenze, sono molte le cose che dovrebbero cambiare nell’organizzazione del mercato del lavoro, nell’offerta di servizi e nella divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia. Gran parte del benessere familiare è infatti a carico del lavoro gratuito delle donne. E l’assenza di servizi di cura, non solo per i bambini, ma per le persone non autosufficienti, è compensata solo dal lavoro gratuito di mogli, madri, figlie, nuore, nonne.
Già ora le donne stanno salvando, se non l’Italia, gli italiani, tramite il loro lavoro gratuito quotidiano - che non viene meno neppure quando hanno un lavoro per il mercato e che la crisi ha in molti casi intensificato. Senza questo lavoro gratuito, le famiglie sarebbero molto più povere e molti bisogni di cura rimarrebbero insoddisfatti. Esso andrebbe meglio e più equamente ridistribuito, tra uomini e donne, tra famiglia e società. E l’organizzazione del mercato del lavoro dovrebbe meglio riconoscerne la necessità, per le donne e per gli uomini.
Come è stato ricordato di recente agli Stati generali sul lavoro delle donne organizzati presso il Cnel, le lavoratrici italiane che hanno una famiglia lavorano complessivamente, tra lavoro pagato e non pagato, oltre un’ora in più al giorno dei loro compagni. Tuttavia guadagnano sostanziosamente meno dei loro colleghi; perciò accumulano anche una minore ricchezza pensionistica. La loro capacità di guadagno, infatti, è compressa due volte. La mancata condivisione del lavoro familiare da parte degli uomini, unita ad una bassa offerta di servizi di cura accessibili e di buona qualità, vincola il tempo che possono dedicare al lavoro remunerato.
A ciò si aggiungono le discriminazioni nel mercato del lavoro - nelle possibilità di carriera e nelle retribuzioni orarie, a parità di qualifiche - che, come segnalano anche i dati di Almalaurea per quanto riguarda le giovani laureate, iniziano prima ancora che le donne formino una famiglia. Se poi sono lavoratrici "flessibili", si trovano spesso costrette a considerare una possibile gravidanza come un rischio professionale che non possono permettersi.
Molte donne ancora oggi abbandonano il lavoro per motivi familiari, perché non ce la fanno a tenere il ritmo del doppio lavoro, spesso accompagnato da pressioni e vessazioni più o meno sottili sia in casa (perché "trascurano la famiglia") sia sul lavoro (perché "hanno la testa altrove"). Soprattutto se sono a bassa qualifica e vivono al Sud, la maggior parte delle donne, anche giovani, non entra neppure nel mercato del lavoro, o viene scoraggiata presto dal presentarsi. Costituiscono la stragrande maggioranza dei "Neet": dei giovani che né studiano né lavorano per il mercato.
Costituiscono anche la grande maggioranza sia dei lavoratori scoraggiati sia dei disoccupati invisibili: di coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano più, e di coloro che, pur dichiarandosi non forze di lavoro, di fatto si arrabattano tra un lavoretto e l’altro. Un rapporto Svimez uscito in questi giorni stima che queste due figure coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, portando il tasso di disoccupazione femminile effettivo al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
L’Italia è uno dei paesi sviluppati con un divario di genere tra i più alti a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nella presenza nei luoghi di presa di decisione, quindi nel potere, nella divisione del lavoro familiare.
È un divario aggravato dalle disuguaglianze sia territoriali che di istruzione. Anche questo è uno spread di cui ci si dovrebbe preoccupare ai fini non solo dell’equità, ma dello sviluppo. Credo che i suoi effetti negativi siano almeno altrettanto gravi, se non peggiori e con effetti di più lungo periodo, di quelli dello spread con i bond tedeschi.
Perché conviene investire sulle donne
di Cinzia Sasso (la Repubblica, 20.02.2012)
L’uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni - prima fra tutte la Banca d’Italia - ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà, in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri. L’ultimo, a Roma, quello dell’associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l’inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua - autorevoli studiose di economia e demografia - a confezionare l’ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all’America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell’occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà delle famiglie. Insomma, l’uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell’obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell’Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell’università di Leeds, invece, se c’è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità che l’impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all’appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà a 3.
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d’Europa, l’Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi.
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l’aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità e dell’istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d’infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo - salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia - è l’equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L’unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell’istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent’anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c’è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall’altra c’è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c’è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all’Università di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare.
Dall’indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall’incentivare l’offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand’era governatore della Banca d’Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità in un’occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all’investire - e non tagliare - nei servizi di cura per i bambini.
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità è un costo irrisorio e che quindi non c’è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all’imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità. Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l’Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».
Per secoli la Royal Society ha escluso le studiose. Adesso un libro racconta le invenzioni al femminile
Dall’astronomia alla matematica Londra riscopre le donne scienziate
In età vittoriana i colleghi uomini facevano di tutto per sminuirne il valore
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 23.11.2010)
Fondata nel 1660 per discutere le idee del filosofo Francis Bacon, la Royal Society non è solo l’accademia delle scienze inglese e una delle confraternite di scienziati più antiche e prestigiose del mondo: è anche, e soprattutto, il simbolo della scienza intesa come progresso umano, come costante avanzamento della società in cui viviamo. Ma c’è un campo in cui l’illustre istituto londinese è avanzato poco, tardi e male per gran parte della sua storia: quello della parità dei sessi. La lista dei suoi cervelloni, da Isaac Newton in poi, è un elenco maschile, come se fossero stati soltanto gli uomini a scrivere la storia delle scoperte e della sperimentazione. Solo nel 1945, in effetti, la Royal Society ha emendato le proprie norme ammettendo le donne fra i soci (prima fece un’eccezione per la regina Vittoria, nominata membro onorario). E perfino oggi, nelle celebrazioni per il 350esimo anniversario della sua fondazione, fra i tanti seminari, mostre e pubblicazioni che hanno festeggiato l’evento, risaltava una vistosa assenza: quella delle scienziate, sebbene ora nelle sue file ce ne siano sessanta su 1200 membri, tra cui l’italiana Rita Levi Montalcini.
Non si tratta di semplice dimenticanza o indifferenza. Uno storico inglese, Richard Holmes, il primo a ottenere libero accesso agli archivi della Royal Society, ha portato alla luce una politica di deliberata discriminazione nei confronti delle donne e di occultamento del loro ruolo. C’erano anche delle scienziate, studiose di matematica, astronomia, botanica e altre discipline, nell’era del grande progresso scientifico: ma i loro colleghi uomini, a dispetto dell’ambiente illuminato dell’accademia delle scienze, facevano di tutto per sminuirne il valore e tenerle nascoste. Giunge dunque come atto riparatore il libro di Holmes, The lost women of Victorian science (Le donne dimenticate della scienza vittoriana), pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna.
Nell’Inghilterra vittoriana, il concetto di donne impegnate nella ricerca scientifica veniva regolarmente ridicolizzato, scrive l’autore. Un famoso studioso del tempo, il naturalista Thomas Henry Huxley, soprannominato "il bulldog di Darwin", così scriveva nel 1860 a un collega geologo: «I cinque sesti delle donne si fermano allo stato evolutivo delle bambole, degradando qualsiasi cosa in cui si intrufolano». Gli unici settori in cui veniva tollerata la loro presenza erano la geologia e la botanica, sebbene quest’ultima fosse giudicata dai puritani moralmente pericolosa, a causa dell’esame degli apparati sessuali delle piante. Molti scienziati, ha appurato Holmes frugando negli archivi, condividevano il luogo comune secondo cui il cervello femminile sarebbe "fisiologicamente inadatto" al lavoro scientifico, alle procedure di laboratorio, alla matematica. In realtà era adatto, eccome.
Da Caroline Herschel, l’astronoma scopritrice di comete, ad Ada Lovelace, la matematica autrice dell’algoritmo poi considerato il primo "programma per computer", da Anna Barbauld, la chimica che notando le reazioni ai test di laboratorio scrisse il primo trattato sui diritti degli animali, a Jane Marcet, autrice dei primi manuali scolastici per popolarizzare la chimica e la botanica, da Mary Sommerville, che coniò il temine "scienziato", a Margaret Cavendish, autrice del primo racconto di fantascienza, le donne diedero un contributo fondamentale allo sviluppo della scienza, afferma il libro-denuncia dello storico. Un contributo riassumibile nelle parole dell’astronoma Maria Mitchell: «Anche la scienza ha bisogno di immaginazione. In essa non c’è solo matematica e logica, ma pure bellezza e poesia». Un uomo, da solo, non ci sarebbe mai arrivato.
Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza
Il convegno Due giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero
L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva «insegnare a pensare»
Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della filosofia, che anticipa i temi
dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia il prossimo 20 aprile a Milano.
di Mariateresa Fumagalli (l’Unità, 13.04.2010)
Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo.
Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto.
Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio.
Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa».
Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo. Quanto alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di Costantino e Teodosio - la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare).
Da dove nasceva allora il conflitto che opponeva filosofi e cristiani? «La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente, Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e assimilavano la virtù alla ragione.
UOMINI COLTI, UOMINI SEMPLICI
Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti, mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o «illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni, annullava le speranze di quei tempi duri.
Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una età segnata dall’angoscia.
Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura.
Ipazia parlava in pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato essere un uomo «diminuito» e inferiore... La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia, ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.
Due incontri
Da Canfora e Eco a proposito di Ipazia
l’Unità 13.4.10
In occasione dell’uscita in Italia il 23 aprile di «Agora», il nuovo lavoro di Alejandro Amenábar, la casa di distribuzione Mikado organizza due incontri per approfondire la vicenda del personaggio principale del film: Ipazia. Domani a Roma (ore 18,00, alla Sala Igea di Palazzo Mattei-Istituto della Enciclopedia Italiana, via Paganica, 3-4), in collaborazione con l’Istituto Treccani, interverranno il filologo e saggista Luciano Canfora, la storica bizantinista Silvia Ronchey, il filologo e critico letterario Carlo Ossola, il filosofo della scienza Giulio Giorello, i giornalisti Antonio Gnoli e Gabriella Caramore. A Milano, il 20 aprile alle 18, presso la Sala delle Colonne della Banca Popolare (via San Paolo, 12), in collaborazione con la rivista «Reset», saranno presenti all’incontro introdotto dal direttore della rivista Giancarlo Bosetti, lo scrittore Umberto Eco, la studiosa di diritto romano Eva Cantarella, il teologo Vito Mancuso, la medievalista Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (che interviene in questa pagina). Parteciperà anche Alejandro Amenábar.
Amenábar, dopo Cannes finalmente arriva in Italia-l’Unità, 13.04.2010
Protagonista di «Agora», il nuovo film di Alejandro Amenábar (regista di «Mare Dentro» e «The Others»), è la regina Ipazia (interpretata dall’attrice Rachel Weisz), prima scienziata della storia, celebre per la sua attività di matematica e astronoma. La sua è una figura tragica, inghiottita da improvvisa morte violenta per mano di quelle armate cristiane che nel IV secolo dopo Cristo annientarono intere civiltà in nome della verità rivelata. Le guerre che ne seguirono videro molti intellettuali di estrazione platonica massacrati crudelmente, specialmente quando di sangue ebreo. Tra questi c’era anche Ipazia. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 23 aprile per Mikado, con enorme ritardo rispetto agli altri Paesi europei. «Agora» era stato presentato al Festival di Cannes 2009, tra applausi e fischi.
Ipazia
La donna che sfidò la Chiesa
Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell’antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte
Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise
La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi
di Roberta De Monticelli (la Repubblica, 09.04.2010)
"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po’ frenetico deliquio...". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l’inizio del V, nell’incendio della più grande biblioteca dell’Antichità, l’ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell’astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c’è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l’ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l’epoca cristiana, l’orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l’editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell’antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un’epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E’ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull’impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l’azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l’intimazione della verità è un’arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi.
Si dice che sia "un duro atto d’accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell’armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all’istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po’ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d’aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E’ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C’è tutta l’enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l’estremo sacrificio. "Non c’è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."
Ma non c’è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo". Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d’essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell’assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l’urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un’idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".
L’Italia, il potere e il silenzio delle donne
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 30.06.2009)
Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c’è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell’harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c’erano eunuchi. È questo l’esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?
Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l’educazione, che la ragione dell’assoggettamento delle donne fosse da cercare nell’ignoranza e nell’esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un’occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».
La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l’inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l’esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l’arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.
Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un’altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l’abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l’interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".
Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull’altare della religione secolare e dall’altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l’informazione, facendola passare come un’intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l’uno e l’altro a seconda dell’interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l’arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.
In giuoco, è stata l’unanime e giusta diagnosi, c’è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L’Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch’a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell’altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l’aria.
Il sesso, il gender, le femministe e la Chiesa cattolica
di Ritanna Armeni (il Riformista, 5 maggio 2010)
Che cosa diventerebbe il mondo senza i sessi? Che cosa potrebbe accadere se non ci fossero più maschi e femmine, ma solo “persone” nelle quali si incrociano e si incontrano caratteri femminili e maschili ma nessuno dei due è così assoluto da determinare una differenza incolmabile? Ed è questa un’eventualità reale? Sicuramente per molti è un fantasma, uno spettro pericoloso che distruggerebbe un pilastro “naturale” della vita e della storia degli esseri viventi (non solo degli umani) quello che li divide in maschi e femmine. Ed è un fantasma soprattutto per la Chiesa.
Di questo fantasma è dominato il libro - agile e intenso - di Giulia Galeotti “Gender - genere”. In esso si descrive con precisione, preoccupazione (e qualche esagerazione) la teoria femminista del Gender e i timori che provoca, le conseguenze gravi a cui - secondo l’autrice - si va incontro. Secondo questa teoria l’identità sessuale dell’uomo e della donna non sono il prodotto di una differenza biologica ma il frutto di cultura, costruzione sociale e rigida determinazione dei ruoli. Sono questi ad aver provocato la disuguaglianza fra i sessi e la conseguente costrizione della donna in un ruolo emarginato e subalterno. Devono quindi essere smantellati, ma insieme ad essi si chiede che sia cancellata anche la differenza sessuale.
Il “gender” - scrive Galeotti - si contrappone al sesso. Di sesso maschile e femminile possiamo nascere, ma questo non impedisce - se si eliminano gli ostacoli culturali - di divenire “un genere” che non coincide esattamente con esso. Così si può essere insieme donne e uomini, si può nascere donne e divenire uomini e viceversa. Oppure l’umanità potrebbe scivolare verso una neutralità sessuale.
Alla cultura del “genere” che ha acquistato un peso nella cultura planetaria e si è diffusa nelle organizzazioni internazionali si contrappongono due forze diverse, ma alleate: il femminismo della differenza e la Chiesa cattolica. Entrambe sono interessate a confermare la differenza fra i sessi e a contestare le teorie del genere. Entrambe pensano che la differenza femminile contenga una ricchezza che non contrasta con l’eguaglianza ma la potenzia e la arricchisce.
L’alleanza di cui parla Giulia Galeotti effettivamente esiste. Nella Mulieris dignitatem fu affermata da Giovanni Paolo II. «La donna nel nome della liberazione dal dominio dell’uomo - scriveva - non può tendere ad appropriarsi delle caratteristiche maschili, contro la sua propria originalità femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si realizzerà, ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme...» E ancora «Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l’uomo - deve intendere la sua realizzazione come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’immagine e somiglianza di Dio».
Quella alleanza diventò evidente nel 2004 quando Benedetto XVI, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, nella sua lettera «sulla collaborazione fra uomo e donna» attaccò sia il femminismo paritario perché - scriveva - «sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione» e poi una seconda tendenza del femminismo quella secondo cui «per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa».
Le femministe gridarono alla svolta. Stupendosi e compiacendosi della cultura di colui che sarebbe diventato Benedetto XVI. Luisa Muraro, la più nota esponente del femminismo della differenza giudicò la lettera una «novità interessantissima» e «dirompente». Ratzinger, sentenziò, ha assunto e ha fatto proprio il pensiero della differenza. Ida Dominjanni sul Manifesto trovò nella lettera del cardinale «un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile che va riconosciuto e incassato». Marina Terragni scrisse sul Foglio: «Nessun pensiero politico maschile oggi dialoga con il femminismo della differenza, come la Chiesa mostra di voler fare».
Il libro di Giulia Galeotti lascia però senza risposta alcune domande. Perché la Chiesa nei suoi ordinamenti istituzionali ha dato sempre alla donna un ruolo secondario facendo coincidere la differenza con la subordinazione e la relazione con l’abnegazione? Quando la teoria del gender è nata e poi si è sviluppata negli anni 70 a partire dal femminismo statunitense aveva poi tutti i torti a individuare nelle costruzioni sociali e culturali della femminilità l’origine di tanta discriminazione nei confronti delle donne? L’assenza di una donna-Papa per fare il più banale degli esempi, non è una delle dimostrazione di quanto quelle costruzioni sociali abbiano avuto cittadinanza anche nella Chiesa? La teoria del gender non era un passaggio storico necessario per arrivare a quella nuova libertà femminile che oggi può anche rivendicare la differenza? Una libertà femminile con cui persino la Chiesa che tanto ha contribuito nella storia alla costruzione sociale della donna “costola dell’uomo” oggi deve fare i conti? Insomma le teorie e le loro conseguenze sono importanti. Ma la storia e l’esperienza lo sono altrettanto.
Dopo il caso della maestra sospesa per una lezione "hard", si discute su quando sia bene
iniziare a essere espliciti La psicologa americana Sharon Maxwell, in un libro,
avverte: "Meglio essere i primi ad affrontare questi temi"
Sesso. Perché va insegnato insieme alle tabelline
"I ragazzini sono già bersagliati di informazioni sull’argomento. Ci pensano amici e tv"
L’esperienza italiana dell’Aied: un tempo teneva corsi nei licei, oggi va nelle elementari
di Anais Ginori (la Repubblica, 03.04.2009)
«Mamma, tu lo sai che cos’è una spogliarellista? E una prostituta?». Ben Maxwell aveva appena 7 anni. Quando fece quella domanda, era imbrigliato dalla cintura di sicurezza sul sedile posteriore della macchina, di ritorno da scuola. «Faticai a tenere saldo il volante - ricorda la madre Sharon - . Dove diavolo aveva sentito parlare di spogliarelliste e prostitute?».
A Novara una maestra è appena stata ammonita dal preside perché durante la lezione di scienze ha risposto in modo esplicito a quesiti che assomigliavano molto a quelli del piccolo Ben. I genitori della scuola elementare non hanno gradito e la maestra è stata temporaneamente sospesa.
Negli Usa, invece, Sharon Maxwell è ormai diventata una star, specializzata in lezioni di sesso per bambini. Dopo aver tentato di rispondere alle domande piccanti del figlio, questa psicologa americana ha infatti deciso di trasformare l’istintivo imbarazzo in una sfida professionale. Dieci anni fa ha iniziato organizzando centinaia di corsi e incontri di educazione sessuale nelle scuole. Il successo è stato tale che ha pubblicato un manuale diventato bestseller, "The Talk", in cui invita i genitori ad affrontare il tema del sesso già alle elementari e spiega come superare il disagio. Nostro, non loro. «Dobbiamo essere i primi a farlo» ammonisce la psicologa nel suo libro, "È ora di parlarne", in uscita per Feltrinelli. «Oppure - avverte - lo farà qualcun altro al posto nostro».
L’invito della psicologa americana nasce da una semplice constatazione. «Bisogna aprire gli occhi sul fatto che il mondo intero parla di sesso ai nostri figli». Suo figlio Ben aveva scoperto la parola "prostituta", ma l’originale era ancora più triviale, imparata passando il pomeriggio a casa di un amico a divertirsi con un videogioco. Nel libro, Maxwell nota come - a dispetto della liberazione dei costumi - discutere di sesso in famiglia è ancora assai complicato.
«Prima se ne parla, meglio è». Anna Sampaolo, coordinatrice dei corsi dell’Aied (associazione per l’educazione demografica), condivide la tesi della Maxwell. L’episodio di Novara non deve quindi stupire. «Dalla mia esperienza - racconta Sampaolo - posso dire che le domande dei bambini di quinta elementare sono precise. Vogliono sapere cos’è un omosessuale, cos’è una prostituta. Utilizzano spesso un linguaggio molto crudo». L’Aied è stata costretta a cominciare sempre più presto le sue lezioni. «Trent’anni fa ci occupavamo solo dei licei - ricorda la psicologa - . Poi siamo passati alle medie, e oggi andiamo anche nelle quinte elementari». Tutto su base volontaria, visto che l’educazione sessuale non è prevista da nessuna legge. «Ci affidiamo a quei pochi illuminati dirigenti scolastici che ci chiamano».
La difficoltà ad affrontare il sesso in famiglia non è prettamente italiana. Secondo un sondaggio europeo, la principale fonte di informazione sessuale per i ragazzi sono i media (stampa, tv e Internet) e gli amici. «I bambini ne parlano tra di loro in un modo differente. La parola dell’adulto è dunque fondamentale».
I corsi dell’Aied sono di «affetto e sesso», cercano di estendere il discorso a emozioni e sentimenti. Per chi se la sente, consiglia l’Aied, è giusto intavolare un discorso su come nascono i bambini, o almeno provarci. «Se c’è vergogna da parte dei genitori, meglio esplicitarla piuttosto che mantenere un non-detto».
E comunque, rispondere sempre. «Per non perdere un’occasione di integrare e correggere l’educazione sessuale che i bambini si fanno altrove». È quel che ha potuto verificare Sharon Maxwell. «Ben, so cosa sono una spogliarellista e una prostituta. E tu lo sai?». «Sì. La spogliarellista è una che si sfila il reggiseno, la prostituta è una che si toglie tutto».
IL CASO
Odifreddi, giallo sul licenziamento
dopo il successo del Festival di Roma
Il matematico liquidato con una mail: "Mi hanno detto che è venuta meno la fiducia".
L’Auditorium nega
di SIMONETTA FIORI *
ROMA - Se la matematica è la scienza esatta per definizione, non c’è niente di esatto o di logico nell’epilogo del festival dedicato al genio aritmetico appena concluso all’Auditorium di Roma. Doveva essere la celebrazione dell’indole matematica, elevata a paradigma di ciò che servirebbe in questa confusa fase storica: pensare, ragionare, contare sull’intelletto. Così è stato per alcuni giorni, con otto premi Nobel, tre medaglie Fields, cinquantamila spettatori. Il seguito, però, inclina penosamente al teatro dell’assurdo o alla commedia degli equivoci. Tutto comincia con una mail, arrivata nel pomeriggio sul computer di Piergiorgio Odifreddi, direttore scientifico del festival. "Un messaggio di poche righe, racconta lo studioso. "È firmato da Carlo Fuortes, amministratore delegato dell’Auditorium. Mi comunica che è venuto meno il rapporto di fiducia". Licenziato, così, sui due piedi.
Dopo la pagina nera del Grinzane, il nuovo caso del Festival della Matematica. Tempi cupi per il matematico impenitente, costretto a nuova penitenza. Grazie per la collaborazione, ma finisce qui. Non ti rinnoviamo il contratto. Una comunicazione asciutta e inequivocabile. "No, non me l’aspettavo", è il solo commento di Odifreddi. "Ci sono stati dissapori, ma niente lasciava prevedere una simile conclusione".
Che succede nel "festivalificio" della capitale? Su suggestive ipotesi politiche sembrano prevalere ragioni di carattere personale. La versione d’una "censura politica" da parte di un’amministrazione cittadina ossequiosa verso le gerarchie ecclesiastiche non sembra sufficientemente argomentata, almeno in questa occasione. Semmai "l’irregolarità" di Odifreddi potrebbe aver suggerito al Comune di Roma di tagliare per quest’anno i finanziamenti alla manifestazione, che è stata sovvenzionata dalla Provincia guidata da Nicola Zingaretti. Solo supposizioni, che peraltro rimangono estranee all’improvvisa decisione di Fuortes di far fuori Odifreddi.
Ruggini personali, incomprensioni, un antagonismo tra lo studioso e l’amministratore delegato avrebbero prodotto in queste settimane la rottura definitiva. Secondo alcuni, Fuortes sarebbe stato infastidito dalle iniziative autonome d’un indisciplinato Odifreddi. In fondo era stato Fuortes a difenderne la direzione scientifica dai tanti nemici politici accumulati dal matematico in questi mesi. Tu quoque, eccetera eccetera. Sul "venir meno del rapporto di fiducia" cui fa riferimento la lettera di licenziamento non è possibile sapere di più. Tace il licenziato. È irraggiungibile anche l’artefice del licenziamento. Per tutto il pomeriggio sceglie il silenzio il presidente dell’Auditorium Gianni Borgna. Sarebbe interessante capire con quali motivazioni sia stato allontanato un direttore scientifico che in tre anni ha portato a Roma una moltitudine di premi Nobel e una caterva di medaglie Fields. Bastano dei dissidi personali per mandare in fumo il festival?
In tarda serata, la soluzione dell’enigma. Che - come già detto - ha poco di scientifico o di esatto. "Odifreddi licenziato? Ma quando mai?", cade dalle nuvole Massimo Pasquini, capo dell’ufficio stampa dell’Audiorium, incaricato di rappresentare Borgna e Fuortes. "Una mail? Ma quale mail? Con Odifreddi c’è stato solo un pacato confronto sulla formula da adottare nelle successive edizioni del festival: come rinnovarlo ed eventualmente a chi affidarlo". Strana consuetudine: avete chiesto a Odifreddi chi possa sostituirlo nella direzione scientifica? "No, no. Ma è ancora tutto aperto, non s’è deciso niente. Stiamo ancora festeggiando per lo straordinario successo di quest’anno: otto premi Nobel, tre medaglie Fields, il record dei biglietti esauriti...". Odifreddi insiste: "La mail di licenziamento è nel mio computer". Più che un epilogo "matematico", un canovaccio teatrale con poca logica e molte bugie.
* la Repubblica, 26 marzo 2009
intervista ad Achille Varzi
Giovedì al via il festival su "creazioni e ricreazioni"
La scienza dei numeri non fa miracoli ma risolve problemi
Giovedì parte la nuova edizione del Festival della matematica, al Nuovo auditorium di Roma, dopo una tappa a New York. Il tema è "Creazioni e ricreazioni", ne parliamo con il filosofo Achille Varzi, protagonista negli Usa e a Roma.
di Francesca Bolino (il Riformista, 17.3.09)
Achille Varzi. La sua natura è cumulativa, mentre nelle altre discipline scientifiche ci sono stravolgimenti e rivoluzioni. I suoi valori? Il rigore e la chiarezza.
Perché continua a funzionare la formula del festival?
In Europa la formula funziona molto bene e direi che negli ultimi tempi funziona bene soprattutto in Italia, dove in pochi anni le iniziative di questo genere si sono moltiplicate con successo, spaziando dalla scienza in senso ampio alla filosofia, all’economia, sino alla matematica. Naturalmente si tratta di capire bene quali siano le ragioni di questo successo, e anche quali siano i rischi di questo modo di fare cultura, ma per ora i numeri parlano di un consenso senza precedenti da parte del pubblico. Può essere sorprendente che la formula funzioni bene anche per la matematica, considerato che in questo settore i temi su cui verte la ricerca sono meno"caldi" e apparentemente meno avvincenti di quelli di cui si occupano discipline come la biologia, la filosofia o l’economia. Ma precisamente questo è il dato interessante su cui riflettere: ogni sorpresa nasconde un errore di valutazione, o un pregiudizio, e il fatto che il grande pubblico abbia risposto con entusiasmo alle precedenti edizioni del festival di Roma deve farci riflettere. Resta da vedere se anche negli Stati Uniti, dove le iniziative di questo genere sono rare, la formula registrerà il successo che si spera.
Secondo lei la formula del festival serve, quindi, a far avvicinare il pubblico ad una materia percepita così austera come la matematica?
Più che dalla materia, direi che il pubblico si sente attratto dal mondo della matematica: un mondo complesso, astratto, per certi aspetti esotico e comunque molto diverso da quello in cui consumiamo le nostre battaglie quotidiane, ma proprio per questo affascinante e seducente. È difficile farsene un’idea a scuola, dove la matematica è una "materia", per di più ardua e austera e solo parzialmente motivata dalla sua utilità sul piano pratico. Tuttavia prima o poi si finisce sempre col chiedersi perché la matematica appaia così diversa dalle altre materie. Le sue verità sono conoscibili a priori, mentre quelle delle scienze empiriche si fondano sull’esperienza e la sperimentazione. La matematica è per sua natura cumulativa, mentre nelle altre scienze il progresso passa attraverso i grandi cambiamenti di paradigma e le rivoluzioni concettuali. La stessa nozione di scoperta matematica è molto diversa da quella a cui siamo abituati in altri ambiti di ricerca, e siamo indotti a pensare che mentre possiamo intervenire anche pesantemente sul mondo fisico e sociale che ci circonda, non possiamo fare nulla per cambiare il mondo dei numeri. Prima o poi queste stranezze catturano la nostra attenzione e la nostra curiosità, proprio come successe al giovane Törless di Musil. E siccome generalmente è difficile trovare il contesto e le parole giuste per parlarne con gli amici e i colleghi, l’opportunità di una vera e propria full immersion non può che risultare attraente, tanto più se accompagnata dalla possibilità di vedere all’opera alcuni dei principali protagonisti del settore.
Pensa davvero che i numeri possano salvare il mondo? O forse possano aiutarci a tenerlo in ordine?
No, non penso proprio che i numeri possano salvare il mondo. Se non ci riusciamo noi, che in questo mondo ci viviamo, figuriamoci le entità matematiche, che invece abitano uno spazio astratto tutto loro. Quello che penso è che la matematica possa darci una mano ad affrontare i nostri problemi in modo razionale e disciplinato. Non mi riferisco semplicemente alla sua utilità pratica, sulla quale peraltro non sarebbe inopportuno insistere: se non facciamo quadrare i conti, è difficile che i nostri progetti diano i risultati desiderati. Alludo anche al fatto che le teorie matematiche costituiscono un modello di rigore e chiarezza che potrebbe (e dovrebbe) guidarci nella messa a punto di qualunque progetto che abbia ambizioni serie. Non solo. Molte teorie matematiche sono il frutto di uno sforzo di astrazione e immaginazione che non conosce confini. Si pensi alle geometrie non-euclidee, all’aritmetica dei numeri transfiniti, allo studio topologico degli spazi multidimensionali. Prima ancora che nella loro immediata utilità pratica, il valore di queste teorie risiede nella sfida intellettuale che esse rappresentano: una sfida a uscire dall’ovvio, a spingerci sino ai limiti dei nostri orizzonti mentali, a concepire come possibile e coerente ciò che a prima vista sembra impossibile e contraddittorio. Tanto più riusciamo a tenere alto questo senso di sfida anche in altri settori (a partire dalla politica e dalle altre scienze sociali), quanto più possiamo sperare di liberarci almeno in parte dal provincialismo mentale che ci tiene imprigionati, impedendoci di vedere la giusta strada lungo la quale indirizzare le energie che vogliamo dedicare a migliorare il mondo.
I numeri però possono essere usati anche per controllare i nostri movimenti: quante volte visitiamo un certo sito? Al supermercato, quante volte compriamo un certo prodotto?
A volte, aziende e governi utilizzano i numeri per prevedere i nostri prossimi movimenti... È vero. Però questo è un problema generale: ogni scienza e ogni derivato tecnologico possono essere usati per scopi anche molto diversi da quelli che inizialmente ne hanno motivato lo sviluppo, e spesso si tratta di scopi che mirano a controllare e quindi a soffocare i nostri movimenti piuttosto che a renderli più liberi. Purtroppo è un rischio con cui bisogna sempre fare i conti. Ma è un rischio che riflette le bassezze del genere umano, non la natura della ricerca. Altrimenti è anti-scientismo bell’e buono.
Insegnare matematica è già un compito difficile. Come dicevamo prima, è importante rendere questa materia meno austera e i festival, forse, sono una via. Ma le recenti polemiche in Italia sul sistema scolastico ci portano in un’altra direzione? Cosa ne pensa?
Qui mi mette in difficoltà, anche perché non operando nel sistema scolastico italiano mi è difficile esprimere un’opinione fondata sull’esperienza diretta. Non credo comunque che il problema principale del sistema italiano risieda nelle tecniche di insegnamento. Semmai si tratta di ripensare le materie che si insegnano, e soprattutto perché le si insegna.
Vogliamo dotare i nostri giovani di cultura, o vogliamo dotarli degli strumenti necessari per pensare con la propria testa e contribuire così al progetto globale a cui tutti siamo chiamati?
Entrambe le cose sono importanti. Ma così come la persona ignorante farà fatica a pensare con la propria testa, inculcare una montagna di sapere nella testa d una persona incapace di pensare serve a poco.
La scelta ha provocato un duro attacco da parte del piu’ diffuso giornale israeliano
Israele: le donne del governo Netanyahu «fatte sparire » sui giornali ortodossi
Le due donne ministro cancellate dalla foto ufficiale pubblicata su 2 quotidiani ebraico-fondamentalisti
MILANO - Sono solo due su trenta le donne ministro nel nuovo governo di Benyamin Netanyahu: Limor Livnat alla Cultura e allo Sport, e Sofa Landver all’Immigrazione. Ma sono già due di troppo per qualche ebreo ultra-ortodosso. E se i precetti rabbinici proibiscono la pubblicazione di foto di figure femminili per ragioni di modestia, e un aiuto in tal senso può arrivare dal programma Photoshop, il gioco è subito fatto: nella foto ufficiale di gruppo pubblicata su due quotidiani ultra-ortodossi, scattata mercoledì scorso subito dopo l’insediamento dell’esecutivo, le due donne sono misteriosamente scomparse. O meglio, oscurate con due macchie nere o in un altro caso addirittura sostituite da due colleghi maschi che così appaiono due volte.
OSCURATE - Le foto così alterate sono apparse su due giornali ultra-ortodossi: la prima sul settimanale «Sha’a Tovah», la seconda sul quotidiano «Yated Ne’eman». Una scelta che ha portato ad un attacco senza riserve da parte di «Yedioth Ahronoth», il più diffuso quotidiano israeliano che messo a confronto le due foto titolando ironicamente: «Cerca la donna». Gli ebrei ultra-ortodossi in Israele sono tra l’8% e il 15% della popolazione.
Elmar Burchia
INTERVISTA. Serve pure per lanciare i missili nello spazio, ma l’essenza della matematica sta altrove. Parla Nelson, che sarà al Meeting di Rimini
Ma far di conto è un’arte spirituale
«Il mio ruolo è interiore Quando Dio chiederà conto della mia vita, gli riferirò della ricerca sui numeri perfetti...» «Il 99% del nostro lavoro ha solo interesse tecnico, però le formule più affascinanti e belle sono quelle ’inutili’»
DI LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 17.08.2010)
Sono i primi anni Sessanta e a Edward Nelson, giovane professore a Princeton, dove segue gli studenti appena iscritti al Department of Mathematics, si presenta una matricola proveniente da Scienze della Religione: -«Vorrei passare da voi». «E perché?», chiede Nelson. -«Perché i corsi di matematica sono veramente difficili. Provocano un’enorme sofferenza. E la sofferenza è un bene per la mia anima». «Come motivo per studiare la mia disciplina mi sembrò strano - racconta oggi lo scienziato -. Per procurarsi la sofferenza, quel ragazzo non aveva bisogno dei corsi di matematica; c’erano tanti altri modi. Allora gli dissi: ’Tu vorresti usare come un cilicio la scienza di Euclide e Archimede. Debbo proprio sconsigliartelo. Resta nel dipartimento di Religione, e studia con impegno. Se invece sceglierai la matematica, sappi che questa disciplina è anche gioia e spiritualità’».
A 78 anni, Edward Nelson è uno dei ’mostri sacri’ del pensatoio scientifico più prestigioso del mondo (quello di Princeton, dove ha insegnato per più di mezzo secolo) e il 24 agosto sarà al Meeting di Rimini a parlare nel quadro della mostra «Da uno a infinito. Al cuore della matematica».
Professore, il confine tra «ars mathematica» e filosofia è sempre più labile. La matematica si pone domande molto simili a quelle che da millenni inquietano l’uomo e riguardano la sua origine e il suo futuro...
«Forse questa è un’idea un po’ romantica della matematica. Il 99% del nostro lavoro ha solo interesse tecnico. Ma ci sono eccezioni, come la scoperta (o l’invenzione) della geometria non-euclidea, che hanno una profonda importanza per la filosofia e l’umana conoscenza».
Quali sono le «fonti misteriose» (come le ha chiamate felicemente lei) da cui trae ispirazione il matematico?
«Una mattina stavo preparando una lezione sui campi vettoriali (dunque un tema molto astratto) e, misteriosamente, ho sentito come un’orma di memoria muscolare nelle braccia. Mi sono reso conto che la formula astratta descriveva proprio il movimento che uno fa quando parcheggia un’auto». È vero che scoprire nuove proprietà o dimostrare un nuovo teorema fa percepire al matematico quella intensa emozione creativa che prova l’artista quando sente di aver realizzato un capolavoro?
«Sì, di solito è così. E non è necessario aver realizzato un ’capolavoro’... Conta la bellezza concettuale della formula».
Ma qual è oggi il ruolo della matematica?
«Il suo compito principale sembra quello di sostenere la scienza e la tecnologia. Ma ce ne è un altro, più vicino alla sua essenza. Le più grandi scoperte della matematica in anni recenti (sono stati dimostrati l’ultimo teorema di Fermat e l’ipotesi di Poincaré) non hanno nessun rapporto (almeno così sembra, ma non si sa mai!) con la scienza o la tecnologia. E il pubblico è affascinato da queste scoperte e comprende che il ruolo più importante della matematica è spirituale».
È vero che il matematico non chiede finanziamenti, e vuole soprattutto che la società si renda conto della funzione della matematica nel progredire della conoscenza?
«Purtroppo, non vedo evidenza di questo. Noi siamo tanto avidi di denaro quanto gli altri esseri umani».
La matematica è già oggi la scienza senza la quale le altre non potrebbero né esistere né svilupparsi. È così?
«Al Meeting di Rimini i visitatori potranno vedere, tra gli altri, un pannello con l’immagine del lancio d’un razzo. E la seguente annotazione: ’È solo grazie alla matematica che l’uomo può mettere in orbita, in un punto preciso dello spazio, i satelliti artificiali’».
Lei ha detto che l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, come vuole la Bibbia, deve sempre tentare di realizzare qualcosa di bello e di profondo. È vero che il matematico ha soprattutto il compito di pensare, cioè «viene pagato per pensare», specie in una culla della genialità quale è l’università di Princeton?
«Il matematico viene pagato per pensare e per insegnare. Chi insegna trova difficoltà e ricompense ben diverse da quelle della ricerca; almeno è così nei primi anni dei corsi universitari. Una volta stavo correggendo, con un gruppo di colleghi, dei compiti di analisi elementare. Gli studenti avevano fatto un sacco di errori. Dal subconscio mi venne fuori un’esclamazione: sono quarant’anni che insegno a questi ragazzi, ma ancora non capiscono! Poi mi arriva la lettera di uno studente: ’Ho sempre odiato la matematica, ma questo corso è stato un piacere’. Non si può immaginare la gioia che questo riconoscimento infonde».
Su che cosa vertono ora i suoi studi?
«Sto tentando di dimostrare che la matematica contemporanea è inconsistente».
Gli studi cui ha lavorato di più?
«Esiste, o no, un’infinità di numeri perfetti? (I ’numeri perfetti’ sono quelli uguali alla somma dei loro divisori. Per esempio: 6=1+2+3). Quando il Signore mi chiederà: ’Che cosa hai fatto della vita che ti ho dato?’, gli riferirò su questa mia ricerca».