L’uso globale del corpo femminile: gli anelli mancanti nella discussione sull’aborto
di Lea Melandri *
Domenica sera, intervistato dal Tg1 - non si sa a quale titolo -, Giuliano Ferrara apre la sua personale campagna elettorale con l’appello per una "moratoria sull’aborto", che spera di far giungere fino alle Nazioni Unite.
Il giorno dopo, lunedi’ 28 gennaio 2008, sul quotidiano "La Repubblica", esce la risposta lucida, ampiamente argomentata di Gustavo Zagrebelsky, che riporta i termini della questione ai suoi presupposti giuridici, oltre che economici, sociali e culturali. Cade l’ipocrita copertura che vorrebbe far credere che l’iniziativa di Ferrara non abbia niente a che fare con la "revisione" della legge 194.
Scrive Zagrebelsky: "Lo slogan ’moratoria dell’aborto’, stabilendo una ’stringente analogia’ (card. Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto", di fatto li accomuna "come assassinii legali... Una cosa e’ chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l’aborto come strumento di controllo demografico e di selezioni ’di genere’... diverso, in riferimento alle societa’ dove l’aborto non e’ imposto, ma e’, sotto certe condizioni, ammesso. ’Moratoria’ non puo’ significare che divieto. Per noi sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, e rischiava severe sanzioni".
Sulla scena pubblica, la "crociata" aperta da Giuliano Ferrara, e dalle piu’ alte gerarchie della Chiesa, vede protagonisti quasi unici uomini contro altri uomini, accusatori o difensori di un "femminile" che, in assenza di voci reali di donne, si colora inevitabilmente a tinte contrastanti: Bene e Male, Vita e Morte, vittima e aggressore.
Se il "mettere a tu per tu la donna e il concepito" permette a Ferrara di sostenere la necessita’ di una legge che protegga "l’inerme, l’incolpevole" dall’"arbitrio del piu’ forte", l’analisi dettagliata che Zagrebelsky fa della "catena di violenze" - "psicofisiche, morali, sociali, economiche"... che incombono sulla donna, lo porta alla conclusione inconfutabile che essa e’ a sua volta un "soggetto debole", e che, caricarla integralmente "dell’intero peso della violenza di cui la societa’ e’ intrisa", vuol dire continuare a vederla come "strumento di riproduzione".
Ma se andiamo poi a vedere il contesto entro cui si va a collocare questa "violenza dei deboli sui piu’ deboli", non e’ difficile accorgersi che l’aborto torna ad essere una questione essenzialmente "femminile".
La "condizione umana", che nessuna minaccia di pene e’ mai riuscita a cambiare, e che percio’ grava come una fatalita’ sulla vita delle donne, ha a che fare, secondo Zagrebelsky, con "la crudelta’ della natura e l’ingiustizia della societa’", mentre richiama, per il credente, il senso profondo della maledizione divina: "Moltiplichero’ i tuoi dolori e le tue gravidanze".
Se la natura e le sue risorse non possono far fronte a una crescita demografica illimitata, la societa’ a sua volta non sembra far molto per garantire occupazione, stabilita’ nel lavoro, servizi sociali e sostegni economici alle coppie che vogliono figli. A cio’ si aggiunge il fatto che, se in "condizioni normali" una gravidanza e’ "onorata e protetta", in "situazioni anormali" puo’ diventare la vergogna o la pietra dello scandalo.
Nel discorso di Zagrebelsky, ci sono almeno due passaggi mancanti - ma si potrebbe anche dire rimozioni -, che possono tuttavia aiutarci a capire perche’ sia cosi’ restia a venire alla coscienza storica una verita’ evidente: cioe’ il rapporto della gravidanza con la sessualita’, e della sessualita’ con il dominio maschile - appropriazione del corpo della donna, espropriazione della sessualita’ femminile, incanalata verso l’obbligo riproduttivo, esaltazione della virilita’ come potere fecondante.
"Questo atto, che nell’eterosessualita’ appare scontato, un percorso ’naturale’ e preordinato il cui momento finale e unico orientamento e’ la penetrazione/eiaculazione/fecondazione, si rivela come uso globale del territorio corporeo femminile, indifferente alle esigenze delle donne, di ciascuna donna... Se un sesso ha piu’ potere dell’altro, non si riflettera’ tutto cio’ sulla sessualita’?" (Paola Tabet, La grande beffa, Rubbettino 2004). L’incitamento verso una sessualita’ riproduttiva al servizio di un uomo nel matrimonio, eredita’ di un passato tutt’altro che estinto, non e’ forse la ragione prima di quel senso di colpa, di quella vergogna che intervengono, come dice Zagrebelsky, nelle "situazioni anormali", come le gravidanze fuori dal matrimonio, i figli indesiderati all’interno di legami coniugali?
L’assenza, quando si parla del problema dell’aborto, dell’unico "soggetto" a cui e’ stata riconosciuta una sessualita’ propria - una sessualita’ riproduttiva -, il potere di imporla anche con la forza, e quindi di provocare gravidanze indesiderate, dovrebbe quanto meno indurre a chiedersi dove e’ finito l’attore primo di quello che continua ad apparire come un "dramma" con una protagonista unica.
Forse, a leggere attentamente lo scritto di Zagrebelsky, ci si accorge che in realta’ l’uomo c’e’: c’e’ come figlio potenziale, promessa racchiusa in quel "tu" che "deve ancora diventare persona", ma che la "tutela del concepito", prevista oggi da una legge dello Stato italiano, ha fatto assurgere a soggetto titolare di diritti, primo tra tutti il "diritto a nascere". Il che significa, di conseguenza, che la donna deve portare avanti la gravidanza, "costi quel che costi".
Il fatto che Zagrebelsky veda nella Legge 194 la soluzione intermedia fra "due soggetti", garantiti entrambi da diritti costituzionali - da un parte i diritti inviolabili dell’uomo, dall’altra la salute della donna -, dice indirettamente che non viene messa in discussione la personalita’ giuridica dell’embrione, sancita dalla legge 40, a cui fanno appello oggi tutte le "crociate" contro l’aborto, in Italia e fuori. Ne e’ prova il fatto che, al primo posto nella "catene delle violenze", Zagrebelsky nomina "la violenza sull’essere umano in formazione, privato del diritto alla vita".
L’immaginario che cancella il rapporto uomo-donna, sovrapponendogli la coppia madre-figlio, deve essere una delle invarianti piu’ coriacee della cultura maschile, se puo’ accostare senza turbamento l’iconografia cattolica delle Vergini Madri con Bambino allo scenario "irriverente" delle biotecnologie, che trasferisce lo status di essere umano su un "fatto scientifico", isolato in laboratorio - lo zigote -, mentre, come va ripetendo Barbara Duden, trasforma la donna nell’"ambiente uterino" in cui dovra’ svolgersi la "crescita fetale".
Ma sono solo il desiderio e la nostalgia di figlio a tener lontano dalla cultura politica l’asservimento che l’uomo ha fatto del corpo che l’ha generato? Una rimozione analoga e’ quella che si nota in molti comunicati, appelli e volantini di donne, che in questi giorni si moltiplicano in difesa della Legge 194, preoccupati di salvare il diritto della donna a decidere del proprio corpo e della propria vita, ma silenziosi su tutte le condizioni storiche che hanno reso questa liberta’ impraticabile.
La ribellione delle donne torna a farsi sentire, nelle vie delle citta’ e nelle piazze virtuali dei blog, delle mailing list, ma rischia di presentarsi smemorata rispetto all’intuizione che ha sovvertito coscienze, pregiudizi antichi come il mondo, costruzioni sociali dell’uomo passate come leggi naturali o volonta’ divina.
Sulla "catena delle violenze", che pesano sulle donne e che continuano tutt’oggi a renderne cosi’ flebile e sporadico il protagonismo sulla scena pubblica, manca ancora una parola articolata, estesa a tutti gli aspetti di un potere che unisce, come scrive Paola Tabet, "sfruttamento economico, oppressione sessuale, limitazione della conoscenza".
E’ su questa "globalita’" del dominio piu’ duraturo della storia che resta ancora molto da dire, mettendo insieme i tasselli dei tanti saperi che il femminismo va esplorando pazientemente da anni, riconoscendo i cambiamenti che ha prodotto e che oggi vede con sorpresa riaffiorare in una generazione piu’ giovane.
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Nonviolenza. Femminile plurale.
Numero 158 del 15 febbraio 2008
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo pubblicato sul quotidiano "Liberazione" del primo febbraio 2008, dal titolo "L’uso globale del corpo femminile: gli anelli mancanti nella discussione sull’aborto"....]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
USCIAMO DAL SILENZIO. UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE...
AL DI LA’ DELLA TRINITA’"EDIPICA" - E DELLA TERRA E DEL SANGUE!!!
RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE ...
I soggetti sono due, e tutto e’ da ripensare...
FLS
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
Non umano
di Lea Melandri *
Prima del post-umamo viene il non-umano: le guerre, le migrazioni forzate, la fame, i disastri ambientali e climatici, le pandemie, le tirannie, la morte, ma anche e prima di tutto i femminicidi, la guerra che un sesso fa da millenni all’altro e che ancora passa quasi inosservata.
Per quanto lo si nomina e per quanto, al contrario, appare sfuggente il suo oggetto, l’“umano” si può dire che è oggi come l’araba fenice: qualcosa che c’è, ma “dove sia nessun lo sa”. È, vistosamente, nei corpi spezzati dalle guerre, dalle migrazioni forzate, dalla fame, dai disastri ambientali e climatici, dalle epidemie, dallo sfruttamento lavorativo, è nei corpi senza nome dei naufraghi del Mediterraneo - ma in questo caso si parla di “dis-umano” -, è negli artefatti della sua onnipotenza tecnologica, in procinto di farglisi contro come una “seconda natura” - e in questo caso la parola calzante è il “post-umano”, così come postumano appare il desiderio di sporgersi verso quel sostrato biologico che l’uomo ha lasciato in destino all’altro sesso: il “divenire donna”, il “divenire animale”.
Quello che non si dice è che, pur essendo sia l’uomo che la donna fatti di quell’humus (terra) che ne segna la radice etimologica, solo il maschio della specie si è considerato storicamente l’umano perfetto.
Nel momento in cui l’interezza del potente Io della tradizione greco romano cristiana comincia a vacillare - vuoi per l’emancipazione delle donne e la femminilizzazione degli uomini, vuoi per l’insorgere degli spiriti guerrieri che porteranno l’Europa al disastro di due guerre mondiali - , Otto Weininger sacrificherà la sua stessa vita sull’altare della Ragione che aveva fatto del solo sesso maschile il depositario della immortalità di un dio. Ma con l’ingresso nella modernità non tramonta certo il dualismo sessuale su cui si erano retti fino allora il patriarcato e la cultura occidentale egemone nel mondo, e neppure il rapporto ottimistico che essa aveva intrattenuto con le sue mete tecno-scientifiche.
Il dibattito che si è avviato ormai da anni sul “post-umano”, più che l’uscita dalla visione dualistica che ha contrapposto e complementarizzato corpo e pensiero, natura e storia, sembra esserne lo svelamento. Se la Ragione kantiana, l’Io di Weininger, si erano limitati a porsi come “vita superiore” rispetto alla “naturalità” dell’umano, le intelligenze artificiali, prodotto del progresso inarrestabile dell’era digitale, sembrano mirare a un traguardo più ambizioso: porsi come “seconda natura”, razionalizzare la società e i comportamenti umani, imporre modelli di esistenza individuali e collettivi considerati i migliori applicabili.
La domanda più interessante che si pone Sadin - ma che ha alle spalle riflessioni analoghe tra i pensatori che prima di lui hanno dato l’allarme riguardo alla cancellazione dell’umano - è da dove viene “quella particolare fame di generare una replica di noi stessi”, quale presunzione di onnipotenza ma anche, al contrario, quale senso di inadeguatezza o vergogna dei propri limiti, la muovono. Ciò che spinge l’uomo a costruire un surrogato di mondo, sempre più conforme al proprio Io, è, per Gunter Anders, “l’originaria indeterminatezza della sua natura”, la carenza istintuale che lo differenzia dall’animale, esiliandolo dalle sue radici biologiche e costringendolo a far uso di una libertà “patologica”. La “vergogna” rispetto alla propria nascita sembra per Anders riferirsi solo ai limiti dell’umano, a una corporeità imperfetta e perciò da controllare e ricreare artificialmente. Con più attenzione alla natura sessuata dell’umano, scrive André Gorz:
Gli uomini conoscono il corpo femminile che li ha generati nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità. Quanto può aver contato nel riservare a sé la ragione ordinatrice del mondo, fino a farsi sottomettere dalle cose che hanno prodotto, quel rapporto originario con la potenza materna? A che cosa fa pensare quel “vampiro benevolo” che, secondo Sadin, sta divorando la società tecnologica, pronta a “rassicurarci, accudirci, gratificarci, cavandoci contemporaneamente il sangue”?
Forse non è un caso che, di fronte all’accelerazione tecnologica verso un’intelligenza artificiale che assorbe e sostituisce le più essenziali relazioni umane - per esempio i “robot da compagnia” all’interno di ospedali e case di riposo -, ma anche all’emergere di una violenza selvaggia, come nel caso dei femminicidi, si torni a parlare di vulnerabilità e fragilità maschile, di rifiuto e diniego rispetto alla sofferenza e alla morte. Dietro la facile etichetta del “post-umano”, applicata a cambiamenti di cui quasi mai vengono indagate le ragioni profonde, si può pensare che ci siano vicende essenziali dell’umano considerate “impresentabili”, per le quali è il racconto delle esperienze individuali a poter dare voce.
Ancora una volta, tuttavia, passa sotto silenzio quella morte in vita che è toccata alla donna, considerata per secoli un umano inferiore.
* Comune-info, 04 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagine).
Donna e libertà
Il manifesto per un nuovo femminismo di Rossana Rossanda
Tutte le sfide della maternità in una società che resta maschilista da una protagonista delle battaglie comuniste il decalogo per la parità
di Rossana Rossanda (l’Espresso, 13 maggio 2019).
Si può pensarla in modi molto diversi su sessualità e filiazione, ma un fatto è incontrovertibile, e cioè che per venire al mondo bisogna passare da un corpo di donna, che deve alimentare l’embrione per nove mesi. È dunque venuto il momento nel quale tutte le donne farebbero bene a esprimersi nel merito. Lo faccio anche io partendo dal presentarmi.
Sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva.Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme - fra altri - a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.
In quella posizione ho diretto il manifesto e in quella veste non ho goduto sempre della simpatia del movimento delle donne, che mi ha definito sovente “figura di potere”, invitandomi a mettermi in gioco, cosa che, a dire il vero, credevo di aver fatto, ma - si vede - non abbastanza; sono stata semplicemente espulsa a suo tempo dal Pci. Ora chi ha preso (e fatto vivere) il manifesto, mi permette di scriverci, ma non di aver voce in capitolo sui suoi indirizzi (e posso capirlo). Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva. Non ne ho, ad esempio, nei confronti del testo fatto circolare da “Non una di meno” per convocare uno sciopero generale l’8 marzo scorso.
È importante che la battaglia per i diritti delle donne sia più estesa e condivisa possibile, contro una “cultura maschilista”, intesa anche nell’accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune una visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta il principio della famiglia patriarcale come “società naturale “, basata sulla divisione gerarchica fra maschio e femmina.
Non penso che questo schema sia da sottovalutare, esso conforma una parte rilevante degli esseri viventi, sia nella zoologia che fra i vegetali, ha determinato gran parte delle nostre culture ed arti, e penso sia utile tenerne conto, limitandomi a riproporre la tesi di un polimorfismo della sessualità, avanzata già da Freud, che non scaricherei così allegramente.
Ne fanno esperienza anche donne e uomini che si iscrivono nello schema binario, anche patendone, o forse appunto patendone; non è detto che la definizione di un terzo sesso non comporterebbe gli stessi inconvenienti della gerarchia binaria, una volta che fosse stabilita come tale (personalmente in genere propendo piuttosto per lo sdoganamento di incertezze e disordini più che di nuove leggi, sempre ultimative).
Forse dovremmo riflettere criticamente sul bisogno di avere o darci una o più leggi, per essere più certe e certi, ma sempre “modi” del potere, cui soggiacciono anche le donne.
Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare.
Ecco dunque come la penso, sia in tema di libertà, sia di filiazione.
1. Ognuno deve essere libero nella scelta della sua sessualità e può praticarla, purché il suo partner sia assolutamente consenziente. Per “assolutamente” intendo che deve sapere di che si tratta ed essere in chiaro con se stesso oltre che con l’altra/o. (Si tratta quindi di regolare l’età in cui si è in grado di capire; e il come assicurarsi il consenso dell’altro/a).
2. Ogni violazione della libertà altrui sul punto 1 va punita come reato grave.
3. Anche la scelta della filiazione deve essere libera con precise garanzie per la creatura messa al mondo. Non mi appartiene perciò né l’attuale legislazione né l’assoluto rifiuto della gravidanza per altri. Non mi pare sostenibile che debba esistere il diritto ad avere un figlio proprio. Il bisogno di maternità non può essere un bisogno proprietario, mentre una donna può adottare uno dei molti bambini abbandonati anche se l’adozione comporta dei problemi. L’esperienza mi ha insegnato che la situazione dei maschi e delle femmine è nel merito molto diversa.
4. In particolare, la donna ha diritto di rivendicare il riconoscimento di paternità, che il maschio ha spesso rifiutato, scegliendo la propria figura di padre sotto il profilo sociale, economico, culturale piuttosto che nei confronti della donna che ha contribuito a mettere incinta. Allo stesso modo si è assicurato una libertà o responsabilità come padre: anche qui l’esperienza mi ha insegnato che in caso di continuazione o interruzione di una gravidanza il maschio di una coppia è perlopiù decisivo, soprattutto con l’argomento che il fare figli è un ruolo storicamente determinato e di interesse collettivo.
5. Anche se può essere non semplice, lo Stato deve assumersi il carico affinché la continuazione o interruzione di gravidanza possa essere libera.
6. Continuare o interrompere la gravidanza può essere difficile; ancora adesso legislazioni laiche, religioni e consuetudini sono lontane dal rispettare questa libertà.
7. Non è ammissibile nessun ostacolo a questa libertà: l’esistenza di coppie genitoriali omosessuali è una delle variabili della libertà stessa.
8. Per quanto riguarda la gravidanza per conto terzi (il cosiddetto utero in affitto), impedirla significa mettere un limite alla libertà della donna o dell’uomo che la vorrebbe, consentirla però comporta un pericolo permanente di mercificazione.
9. Va eliminata dalla Legge 194 la cosiddetta “obiezione di coscienza” da parte dell’operatore della sanità pubblica, che svuota di fatto la libertà di non continuare una gravidanza per le donne che non hanno i mezzi per ricorrere al privato.
10. Si deve considerare “famiglia”, e quindi avvalersi delle misure che la collettività stabilisce come aiuto o supporto, qualsiasi coppia, comunque formata che si proponga di mettere al mondo o crescere un bambino.
RICOMINCIARE DA “CAPO”! PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” ... *
” Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento , solo due sono, degni di nota : Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d’Etat di Proudhon.
Victor Hugò si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l’autore responsabile del colpo di stato. -L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.
Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica ; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato. Egli cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe.”
(K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869] ).
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza”
(K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
SIMONE WEIL: “L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo : nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi ; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo : ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura” (Simone Weil, 1942.)
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE : LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto. Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
di Lea Melandrii (l manifesto, 12.10.2’18)
Il 12 maggio 2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro: «Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (...) è come affittare un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon, promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come “emergenze” - il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le aggressioni di matrice fascista - la rapidità con cui si sta allargando in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è la crisi demografica - quella che guarda alla “integrità della stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina (...) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194, insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai cambiamenti interni alla famiglia - separazioni, divorzi, coppie dello stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla “sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna. Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli uomini, comunque lo si voglia chiamare - complicità, adattamento, ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto, il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o, meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili. Quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
Quarant’anni di legge 194
di Paola Govoni (Il Mulino, 21 maggio 2018)
I dati del Guttmacher Institute indicano che, ovunque ci siano leggi che consentono l’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg), questa è in calo, anche in Italia. Eppure, negli ultimi anni in molti di quei Paesi, inclusa l’Italia, si sono accese polemiche sull’aborto e le leggi che lo regolamentano.
Basta una rapida occhiata alla letteratura per vedere che a dimostrarsi preoccupati - ossessionati? - da questioni relative all’aborto sono più spesso uomini che donne. L’interesse nei confronti del tema sembra infatti nascere soprattutto da campagne denominate pro-life o “teoria gender”, i cui portavoce sono spesso uomini.
D’altra parte, anche in ambito storiografico, nonostante nell’ultimo secolo e mezzo la storia delle donne a opera di donne sia diventata via via più ricca, i testi importanti (o più citati) su questioni di donne e sessualità restano quelli degli uomini. Su qualsiasi tema gli uomini sono più citati delle donne, ma su questioni di sesso sono imbattibili, anche quando si tratta di allattamento, come già nel caso del botanico Linneo.
Si tratta di una tradizione colta antichissima che ha spesso condiviso con la società, anche la meno acculturata, l’equazione donna = sesso. Questo spiega come sia possibile che ancora oggi e ovunque nel mondo il sesso resti il principale strumento di controllo delle donne: una responsabilità che è sociale, che ci coinvolge tutti e tutte e che non possiamo delegare, come molti ancora fanno, alla scienza.
Come racconta in Una stanza tutta per sé, una mattina dell’autunno del 1928 Virginia Woolf si recò alla British Library per preparare alcune lezioni su creatività e indipendenza economica delle donne. Una scorsa al catalogo le bastò per rendersi conto che ogni anno veniva pubblicato a firma di uomini un numero impressionante di libri sul “sesso - e cioè le donne”. In dialogo con le ragazze del Newnhan e del Girton College per le quali stava preparando lezioni divenute memorabili, esclamò: “Vi rendete conto di essere, forse, l’animale più discusso dell’universo?”. -Woolf si accorse subito che a scrivere del tema non erano tanto biologi e medici, quanto gli autori più disparati, spesso senza alcuna qualificazione. Scelta una dozzina di quei volumi “in maniera assolutamente arbitraria”, ne cercò di analoghi di donne su uomini. Non ne trovò e il lavoro proseguì spedito.
Quel vuoto è un sollievo anche per le storiche che, come me, coltivano un certo orgoglio di categoria. Restando in ambiti di privilegio, sono diverse le umiliazioni che ci sono state inflitte, per esempio una secolare esclusione dalle università. Ma nonostante la nostra ignoranza, ci è risparmiato almeno l’imbarazzo di doverci occupare di autrici di libri su uomini e sesso analoghi a quelli incrociati da Woolf.
Bertrand Russell seppe ammettere con ironia il problema quando osservò che “Aristotele maintained that women have fewer teeth than men; although he was twice married, it never occurred to him to verify this statement by examining his wives’ mouths” (The Impact of Science on Society, 1952). Vero o meno che fosse il dettaglio dei denti, Aristotele, come molti altri filosofi naturali e scienziati, resta utile per indagare i pregiudizi in cui gli uomini più intelligenti e colti possono cadere quando si tratta di donne.
Sebbene la tentazione sia forte, le considerazioni rapide fatte fin qui non vogliono portare a conclusioni del tipo: quando uomini come quelli a capo dei movimenti pro-life parlano di aborto, conviene sorridere e occuparsi d’altro. L’aborto è una questione che, ancorché flaianamente seria, è drammatica. Penso tuttavia che sia salutare considerare con distacco chi (per ragioni che lascio alla psicoanalisi), oggi come nell’Ottocento, sente il bisogno di scrivere di aborto sostituendo dati verificati e approcci pragmatici a un problema sociale, con invettive moraleggianti contro le donne: antico strumento di battaglia ideologica (non politica) che dire scomposta è poco. Ho l’impressione che nei confronti di quelle prese di posizione convenga mantenere bassi i toni per evitare fenomeni cosiddetti di backslash, cioè un inasprirsi di atteggiamenti negativi nei confronti delle donne. In ambito accademico è per esempio probabile che certe derive costruzioniste degli anni Settanta e Ottanta, coltivate da élite prive di contatti con il mondo sociale reale, non abbiano giovato alle battaglie delle donne per la parità, ma semmai alimentato confusione tra i/le giovani (la vaghezza di certe argomentazioni può solo diventare gergo da ipse dixit) e insoddisfazione in chi è esclusa/o dai privilegi di cui godono quelle élite.
Il mio invito a mantenere bassi i toni non significa subire in silenzio. Tutt’altro. Bisogna parlare e molto di questi temi, soprattutto in ambito educativo, dal nido all’università. Per esempio, gli/le adolescenti dovrebbero conoscere i vantaggi sociali concreti che porta un’educazione alla piena parità di diritti e di doveri (già, ci sono anche quelli), per non dire dell’educazione sessuale che, come mostrano i dati del Guttmacher Institute, è cruciale perché cali il ricorso all’aborto. Un’educazione che in Italia è trascurata o osteggiata (per ragioni che pure lascio alla psicoanalisi). D’altra parte, l’ignoranza è la realtà con la quale il Paese si confronta (su questo punto, è noto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra i dati Pisa, i bassi investimenti in educazione terziaria, il posizionamento problematico delle università nelle diverse classifiche internazionali e così via). E le ripercussioni sociali sono pesanti, si tratti di corruzione, di diritti dei carcerati o delle donne: nella classifica che misura i diritti di queste ultime, l’Italia è passata dal 72° posto nel 2006 all’82° su 144 Paesi nel 2017.
La storia delle donne è ricca di esempi che mostrano che posizioni o diritti conquistati restano comunque precari. In ambito scientifico, nel 1984 fu Margaret Rossiter, dati quantitativi alla mano, a parlare di backslash nei confronti delle scienziate americane dopo la Prima guerra mondiale. Oppure, si pensi al caso più clamoroso, quello della computer science, il sapere che ormai regge le società e le economie mondiali. Nella Silicon Valley le donne sono sottorappresentate, benché siano state pioniere nel mondo dell’informatica, nella ricerca come nell’imprenditoria. La storia non è progressiva e sui diritti bisogna vigilare.
L’aborto va prevenuto con l’educazione, impedirlo porta le povere a ricorrervi in clandestinità, le abbienti a ottenerlo in un Paese confinante. Ogni decisione che riguardi la vita e la morte dovrebbe a mio parere essere possibile in un contesto normativo il più possibile flessibile che tutela le libertà. Su morte e vita non abbiamo dati e/o argomentazioni sufficienti per stabilire con certezza quei confini che alcune/i pretendono per demandare la scelta: chi alla scienza, chi alla religione, chi alla giurisprudenza. In dialogo con quelle culture, la scelta su vita e morte può solo essere nostra, libera, responsabile e valutata caso per caso.
Rimettere in discussione la legge che consente l’Ivg è pericoloso per la libertà di tutte/i. Come la scienza, anche la storia ci offre dati utili su cui meditare: ogni volta che si è preteso di limitare le libertà di qualcuna/o, fossero avversari politici, scientifici o religiosi, donne, ebrei o sinti, prima o poi sono state limitate anche le libertà di chi aveva iniziato a gridare.
Lea Melandri e il femminismo
Dal ’68 a #metoo la rivolta è donna
di Gregorio Botta (la Repubblica, 04.02.2018)
Non è una pentita del ’ 68. E non è neanche una reduce: non ne ha nostalgia perché, dice, «metto ancora in pratica le intuizioni nate in quegli anni straordinari » . Per Lea Melandri il movimento fu una rivelazione e una liberazione. «Ero arrivata a Milano, scappavo dalla provincia di Ravenna, da una famiglia poverissima. Ed ero appena diventata insegnante in una scuola media. Partecipai alle prime assemblee con i miei colleghi, fui colpita dall’idea di abolire voti, bocciature, di una scuola non autoritaria. Non mi parve vero poter abbandonare un ruolo nel momento in cui dovevo assumerlo. Abbandonarlo voleva dire ripensare a tutto il mio percorso scolastico, di figlia di contadini che aveva potuto fare un buon liceo, ma al prezzo di lasciare fuori dalle aule la mia vita reale, le esperienze, le mie condizioni sociali. Ricordo che in un tema di quinta ginnasio descrissi come vivevo. La professoressa disse: è scritto benissimo, ma sei fuori tema. Mi venne un esaurimento... Ecco con il ’ 68 finalmente il “ fuori tema” diventava il tema di cui parlare in classe: l’individuo nella sua interezza, storia, complessità».
Quell’inizio è stato l’imprinting che poi ha segnato la vita e l’impegno di Lea Melandri, il suo lavoro nel movimento, nella scuola, con Elvio Fachinelli intorno alla rivista L’Erba voglio e con il femminismo. Per questo si ribella quando a ogni decennio che finisce con l’ 8 si ripete il rito del ripensamento, delle critiche a una stagione riletta sempre con gli occhi del presente, e quindi con nuove accuse. Se c’è un processo al ’ 68, lei indossa volentieri i panni della difesa.
Partiamo dall’ultima accusa. È molto citata la frase di Mario Tronti secondo cui il ’68 ebbe una forza destituente ma non costituente: la usano per dire che quegli anni hanno incubato, in qualche modo, i germi dell’antipolitica di cui soffriamo oggi.
« A me dispiace che la memoria di quegli anni venga cancellata non solo da chi lo avversava, ma anche dai suoi protagonisti. In quegli anni straordinari nacquero pratiche che rovesciavano i rapporti tra vita e politica. Ma tutto era tranne che antipolitica. I movimenti non autoritari eclissavano il confine tra privato e pubblico. Si scopriva la politicità di tutto ciò che era stato considerato per secoli non politico. Sesso, famiglia, amore, morte, dolore, tutte le esperienze fondamentali dell’individuo erano confinate fuori dalla storia, condannate all’immobilità, a ripetersi sempre uguali. Uscire dal dualismo privato- pubblico, individuo- polis, natura- cultura, trovare i nessi e indirizzare il cambiamento: ecco quello che abbiamo fatto. Era l’embrione di un nuovo agire politico, ne allargavamo enormemente il campo».
Da cui sono poi nate la legge sul divorzio e sull’aborto.
« E sono state conquiste importantissime. Ma non vorrei ridurre a questo la novità di quegli anni, che è stata invece un salto di coscienza, scoprire quanta storia era confinata nelle esperienze del singolo».
Altro capo d’accusa. Tutto questo parlare del privato, del singolo, dell’individuo, del diritto al sogno e al desiderio, ha creato - dicono - la cultura del narcisismo e, infine, ha reso possibile il berlusconismo.
« Io trovo che questa sia l’accusa più avvilente e volgare, una vera deformazione di quel che accadde, che era la riscoperta di quella che io chiamo la singolitudine, la singolarità di ogni essere. Scoprivamo l’individualità delle persone, e in particolare quella delle donne, considerate per secoli un genere e basta. Questa è stata la forza del femminismo: svelare che nei vissuti di ogni singola donna c’è una rappresentazione del mondo che le donne non hanno contribuito a creare, perché hanno interiorizzato la visione maschile ».
Lei parla del femminismo che seguì il ’68. Molti dicono invece che il movimento ebbe vita brevissima, che la carica libertaria non durò che un anno, soffocata da gruppi e gruppetti che se ne contendevano la guida in nome di Marx, Mao e persino Stalin. Alla Statale risuonava il triste slogan Stalin-Beria-Ghepeù...
« Ma il ’ 68 non è solo una data, è tutto ciò che si è mosso prima e soprattutto dopo. Dura tutt’ora. Io considero il femminismo il vero seguito del ’ 68, ne ha portato avanti le intuizioni più originali. Abbiamo avuto un conflitto continuo con la sinistra extraparlamentare di allora: abbiamo indicato i pericoli della loro politica, del leaderismo, della passività. Gli dicevamo che avevano introiettato gli schemi che combattevano. Ecco un’altra grande novità di quegli anni: l’ingresso della psicanalisi nella politica. Il femminismo è il solo sopravvissuto agli anni Settanta. Per questo dico che non ho nostalgia del ’ 68: non ne sono mai uscita».
Anche il fenomeno #MeToo e le ribelli di Hollywood, e le cineaste italiane, fanno parte di questa rinascita?
«È un modo in cui sono venute alla scoperta contraddizioni e sopraffazioni. Ma non mi convince molto la modalità e quindi non vorrei parlarne. Preferisco parlare delle ragazze di “Non una di meno”, vicinissime alle ispirazioni degli anni Settanta: ne hanno colto la radicalità, hanno grande lucidità nell’analizzare i rapporti di violenza tra i sessi, sul lavoro, nei media».
Però è un lavoro sottotraccia. Non mi pare riesca a emergere nel discorso pubblico, dominato dalla semplificazione.
«C’è un impasto terribile di pubblico e privato, siamo di fronte a una forte personalizzazione della politica, a un uso terribile dei sentimenti, delle paure, delle peggiori emozioni. È come se nell’etere si fosse spalancato il vaso di Pandora dell’inconscio, siamo in un mare di inconsapevolezza. È pericolosissimo. Quando le viscere della storia diventano dominanti sappiamo che può succedere di tutto. Noi non volevamo questo, noi volevamo indagare il privato per conoscerlo, per stabilire legami e nessi, per cambiare il mondo e noi stessi. Non per farcene schiavi. Sapevamo che cancellare gli elementi repressivi doveva essere solo il primo passo, c’era molto altro lavoro da fare per la liberazione degli umani che hanno ereditato e introiettato secoli di violenza. A scuola, quando abolivo voti e bocciature non è che avessi poi di fronte una classe perfetta, di ragazzi tutti attenti e intelligenti. C’era un gran casino all’inizio, una gran confusione, e noi cominciavamo da lì il percorso di consapevolezza».
Ed eccoci a una nuova imputazione. Il ’ 68 ha distrutto scuola e università, l’istruzione di massa è un’illusione che nasconde meccanismi selettivi fortissimi.
« Sciocchezze. Ricordiamoci cos’era l’istruzione allora: cominciava la scuola di massa, ma la selezione era durissima. Noi demmo a tutti la possibilità di prendere la parola, fu un processo davvero liberatorio. Oggi quella lezione è più che mai valida. Se non parli della vita dei ragazzi, di ciò che accade “ sottobanco”, se non parli del corpo, della sessualità, dell’amore, di come affrontare paure e culture diverse, vuol dire che stai consegnando la loro formazione ad altri mondi, ai social network».
Il femminismo non è morto. L’abbiamo visto in piazza a Roma
di Lea Melandri *
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità. Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è stato sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è.
Una manifestazione come quella di sabato 26, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, deve darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc... - o forse proprio per questa varietà - è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto e analizzato, sia sulle sue forme manifeste - stupri, omicidi, maltrattamenti - sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella «normalità», nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora.
Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. È il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme, a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie.
Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto. Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta di dire che il femminismo è morto o silenzioso;
che quando interviene una «parola pubblica» a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali;
che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono «vittime» della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice «Io decido» della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan - «Io decido», «Non una in meno» - per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei «nessi» che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
Violenza sessista e nascita della politica
di Lea Melandri (comune-info, 8 ottobre 2016)
La politica, da sempre, sembra aver bisogno di semplificazioni, di proclami, di colpi verbali ben assestati, di simbologie facili e famigliari al senso comune. La guerra mai dichiarata al sesso femminile, che ha segnato fin dal suo atto fondativo il dominio di una comunità storica di uomini, non poteva non lasciare tracce durature nella vita degli individui e delle società, nella cultura e nelle istituzioni della vita pubblica, nelle abitudini quotidiane e nella storia dei popoli. Per questo è molto importante che ogni manifestazione contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’, evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che non dipendono dalla nostra volontà.
Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme del sessismo e sarebbe un errore considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di continuità con rapporti di potere e culture patriarcali che, nonostante la costituzione, le leggi, i ‘valori’ sbandierati della democrazia, stentano a riconoscere la donna come ‘persona’. La donna resta - purtroppo anche nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di adattamento e di sopravvivenza - una funzione sessuale e procreativa. È il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggior allarme per una civiltà che avverte segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente e dall’odio degli altri popoli, sia la denatalità.
È importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile - la sua penetrabilità e uccidibilità - non appartiene all’ordine delle pulsioni ‘naturali’, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi ‘barbari’, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture. Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la divisione dei ruoli sessuali del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona, individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento del suo corpo, l’assimilazione agli altri ‘corpi vili’ - l’adolescente, il prigioniero, lo schiavo - su cui l’uomo ha esercitato fino alle soglie della modernità un potere sovrano di vita e di morte.
Le ideologie, le abitudini del ceto politico e degli intellettuali che lo corteggiano non sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tuttora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile come ‘mancanza’, ‘subumanità’, soggetto debole da proteggere, tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi. Se l’emancipazione risulta spesso così respingente per le donne stesse che l’hanno desiderata è perché si configura come fuga da un femminile svalutato, insignificante, subalterno alla visione del mondo di cui è il prodotto.
Non suona purtroppo così lontana la definizione che ne dava, agli albori del ‘900, Paolo Mantegazza: “...questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura mobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose”. Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica, se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in declino?
Combattere la violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e nei saperi colti. Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori dalle ideologie che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento perverso di amore e odio, di legami di dipendenza, indispensabilità reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
La rimozione che ancor pesa sul dominio più antico del mondo ha senza dubbio a che fare con lo sconvolgimento, materiale e simbolico, che produrrebbe la consapevolezza di quanto la costruzione della sfera pubblica sia debitrice a quel retroterra famigliare che l’ha finora sostenuta e garantita.
La violenza contro le donne, che avviene prevalentemente nelle case e per mano di padri, mariti e amanti, parla non a caso di un “ordine naturale” o “divino” che dà segni di cedimento, di una libertà che si manifesta imprevista e perturbante là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento sicuro, obbediente e fedele, del suo agire pubblico. Gli uomini diventano violenti quasi sempre quando si profila una separazione, stuprano e a volte uccidono quando incontrano un rifiuto alle loro richieste sessuali. Uccidono per l’angoscia dell’abbandono, per il limite che la libertà dell’altra impone alla propria, o perché si trovano per la prima volta in balìa di bisogni e dipendenze rimaste in ombra o cancellati?
Il residuo più arcaico e più ‘selvaggio’ di un potere che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come ‘attualità’ nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società.
C’è chi legge questa ‘ricomparsa’ come regressione e imbarbarimento del rapporto tra i sessi. Preferisco pensare che, più che di un ritorno dell’uguale, si tratti della ‘ripresa’ di una ‘preistoria’ mai del tutto eclissata, che ora torna a scuotere la civiltà dalle sue viscere inesplorate, ma che non può non fare i conti con una coscienza diversa e con una libertà femminile finora inedita. I segnali che vengono da un movimento di donne oggi molto più esteso e diversificato nelle sue componenti, sia per età anagrafica che per interessi e pratiche politiche, fanno sperare che si stia riaprendo una stagione nuova di conflitti portati specificamente sul rapporto uomo-donna ma con la certezza di incrociare in questo modo alcuni dei passaggi oggi più difficili e inquietanti della convivenza tra gruppi sociali, popoli e culture diverse.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Violenza contro le donne
Quanto ha contato il silenzio della politica e della cultura maschile?
di Lea Melandri *
La recente sequenza di femminicidi deve aver fatto cadere, da parte maschile, alcune delle resistenze più forti a interrogarsi come «genere», a chiedersi se la «follia omicida» di pochi non sia imparentata, nel profondo di «antiche e oscure emozioni» - come le chiama Virginia Woolf -, con l’idea di «virilità» di cui sono improntati sia la cultura alta che il senso comune.
«Viviamo ancora, noi maschi in Italia - scriveva Nicola Lagioia sulla prima pagina di Repubblica (il 10 giugno scorso - in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto, consapevolmente o meno, cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede in differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali?».
Altalenando tra riflessioni più teoriche e testimonianze di vita personale, la parola degli uomini parla oggi con una coscienza di sé e della propria storia che il femminismo sollecitava da anni e che finora non era andata oltre la pratica politica di gruppi ristretti, come Maschile Plurale.
Sul Sole 24ore, un «intellettuale trentenne», Raffaele Alberto Ventura, descrive la nascita della figlia come una «piccola apocalisse»: la caduta di un intero edificio di valori e priorità, la scoperta che le «mutilazioni» che la paternità - e a maggiore ragione la maternità - avrebbe imposto a carriere, sogni di gloria, distrazioni, ecc., potevano non essere temute ma desiderate come tempo liberato dalle «promesse di un avvenire che non giungerà mai».
Si tratta di «legittimi dubbi su se stessi», sulle proprie fragilità, su logiche di potere interiorizzate inconsapevolmente e diventate «normalità», privilegio «naturale» maschile, che andrebbero però trasferite - come sottolineava giustamente Nicola Lagioia nel suo articolo - in un dibattito pubblico.
Sulla necessità del passaggio, dai cambiamenti che stanno avvenendo nelle esperienze singole e nella quotidianità a un impegno più esteso che investa la cultura e la politica, sono totalmente d’accordo, ma non posso non chiedermi perché non è ancora avvenuto, perché le riflessioni e le pratiche di mezzo secolo di femminismo siano tenute ancora nell’ombra, per non dire osteggiate, date per morte e richiamate in vita all’occorrenza.
Come ho scritto più volte, se c’è stato un silenzio, non è «del» femminismo ma «sul» femminismo. Nelle pagine dei maggiori quotidiani nazionali, che oggi sembrano aprirsi a una parola maschile inusuale, si aspetta ancora, e non si sa per quanto, la voce di quella rivoluzione delle coscienze che ha portato allo scoperto e analizzato nella sua complessità, un dominio del tutto particolare, che ha visto confuse logiche d’amore e di guerra, tirannie del privato e del pubblico. Gli archivi, i centri di documentazione, le case delle donne conservano scrupolosamente memoria di un sapere a cui pochissimi uomini, compresi gli insospettabili, hanno portato il loro sguardo: libri, riviste, documenti che per entrare nel dibattito mediatico, televisivo, dovrebbero prima di tutto essere letti.
È per questo che, a differenza degli altri, l’articolo di Michele Serra (apparso su Repubblica.it il 12 giugno) mi ha irritato e convinto che è stata prima di tutto le generazione maschile degli anni ’70 a volersi liberare del peso inquietante di relazioni, intellettuali e sentimentali, che stavano cambiando rapidamente, sotto la spinta di presenze femminili «impreviste», nelle case come nelle piazze e nei luoghi tradizionali della politica.
È vero che «per spiegare l’orrore delle tante donne assassinate» non bastano - come scrive Serra - le analisi della psicologia e della criminologia, che portano tra l’altro firme quasi esclusivamente maschili. La mancanza di una «parola politica» ha permesso che un fenomeno «strutturale», radicato nella storia di tutte le civiltà, restasse confinato nella patologia o in zone marginali di arretratezza, disagio sociale.
Ma le nostre convinzioni e le nostre idee non sono mai state separate da «materiali psichici complessi», e se hanno potuto spesso diventare «ideologiche», cioè un volontaristico «dover essere», goffamente svincolato da pulsioni profonde, durature e difficilmente modificabili, è proprio perché questi «nessi» raramente vengono visti e indagati. L’intuizione più radicale del femminismo degli anni ’70 è stata la messa in discussione di tutte le contrapposizioni astratte, a partire da quella che ha deciso del destino dell’uomo e della donna, a cui ha fatto seguito la ricerca di legami che ci sono sempre stati tra il corpo, la sessualità e la politica, tra la ragione e i sentimenti, la cultura e la vita.
Lo slogan «il personale è politico» - che Serra traduce erroneamente con «il privato è politico» - intendeva portare allo scoperto la storia non scritta che è rimasta sedimentata nella memoria dei corpi, nelle configurazioni inconsce, restituire alla cultura, alla storia tutte quelle esperienze dell’umano - le più universali - che sono rimaste confinate nella natura. E perciò immodificabili. In altre parole, si andava verso una «sprivatizzazione» del rapporto tra i sessi, ma anche tra individuo e società, famiglia-Stato, e così via. Può darsi che il femminismo sia stato vissuto dai «ragazzi» di quella generazione come una «forzatura ideologica» e che la scomparsa di slogan così mirati a un cambiamento che partiva dalle loro vite, dalle loro relazioni familiari e amorose, sia apparsa liberatoria.
Ma non si capisce allora perché Serra oggi li rimpianga, riconoscendo in quelle parole «brevi e di implacabile precisione» una idea rivoluzionaria capace di «modificare la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio». Se le idee che parvero allora «troppo determinanti» oggi valgono come detriti di un passato, o banalità scontate - come le definisce Serra -, se hanno perso appeal per quanto riguarda il discorso politico, non è certo perché le femministe abbiano smesso di pronunciarle e scriverne, farne oggetto delle loro pratiche. La sordità, l’indifferenza o la volontaria messa in ombra hanno contraddistinto innanzi tutto una politica e una cultura ancora saldamente in mano agli uomini, esitanti a volgere lo sguardo su di sé e a riportare al proprio interno le consapevolezze nuove che venivano dal movimento delle donne, che interrogavano allo stesso modo la sfera privata e quella pubblica, l’esperienza del singolo e la vita sociale, lo psichismo profondo e le storia che vi è cresciuta sopra.
Francesco, pericoloso «femminista»
Vaticano. Bergoglio, un uomo del nostro tempo
di Bia Sarasini (il manifesto, 18.09.2015)
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate». Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte - e anche molti laici - è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti - decostruiti per essere precisa - tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa
di Luisa Muraro ("Alias”, 24 dicembre 2011)
Maria di Nazaret (Palestina) è tornata di moda. Dico tornata perché chi sa un po’ di storia religiosa la conosce come una figura che si è regolarmente prestata a interpretare esigenze del momento, provenienti dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra.
La sua carriera comincia prestissimo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino e chiede al figlio di provvedere. Il culmine lo raggiunge nel Concilio di Efeso, quinto secolo, quando i padri conciliari le danno il titolo di madre di Dio. Chi ha lottato per questo risultato?
Sorpresa, quel Cirillo di Alessandria al quale gli storici imputano una parte di responsabilità nell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Cirillo era un politico spregiudicato,ma anche buon teologo. A lui interessava essenzialmente la dottrina su Gesù e la sua identità: doppia (uomo e dio) o una? Una, sosteneva Cirillo, quella divina; il titolo dato a Maria veniva di conseguenza. Non è finita lì, le peripezie continueranno, una storia in cui si trova di tutto, pensate soltanto alla Porta di Gaudí (la natività) nella Sagrada Familia di Barcellona, che fu concepita per recuperare alla religione le famiglie operaie.
La Maria di moda ai nostri giorni trionfa con il femminismo che combatte il patriarcato ancora annidato nella religione. Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico,ma anche le agnostiche si sono dedicate e strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti), che ha convocato una schiera di amici a commentare il canto che Luca mette in bocca a Maria. Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini.
Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni ’80, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso: memorabile quel numero della rivista “Inchiesta” (1989) da lei curato, Il divino concepito da noi, con numerosi testi mariani. Per i nostri giorni penso a Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente. Riaffiora a questo punto il titolo esorbitante dato a Maria dai padri conciliari di Efeso: madre di Dio. E perché non Dio lei stessa? La donna che dà corpo a Dio, come non vedere Dio nel suo, di lei, corpo? Mi pare che ci sia una sentenza dell’ex Sant’Uffizio che vieta di pensarlo, ma come fermare le idee? Solo la mediocrità e la paura fermano le idee, altrimenti premono per svilupparsi.
Teresa di Lisieux (una femminista, qualcuno ha scritto di lei) va in quella direzione. In una sua poesia di meditazione sulla Vergine che allatta Gesù, dice: il serafino contempla Dio faccia a faccia, beato lui, io su questa terra che cosa posso vedere? un’ostia bianca come il latte... Ecco che cosa io posso vedere e godere: il latte della Vergine. Cirillo, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa, aveva altro in testa, indubbiamente, ma la umana testa, per quanto robusta, sarebbe limitata, la fa grande e libera che la teniamo aperta al soffio delle idee.
La femminista e la violenza
Muraro: "quando possiamo dire sì all’uso della forza"
La provocazione della filosofa su "Via Dogana" rivista storica delle donne A cui replicano in tante, criticando una tesi mai condivisa: "Non esiste un modo di scontrarsi intelligente"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 07.03.2012)
"Violenza giusta": ma non è dissennato riproporla oggi? Nella redazione di Via Dogana devono averci pensato un po’ prima di dare alle stampe il centesimo numero, che non passerà inosservato. La storica rivista della Libreria delle donne di Milano s’apre infatti con una sorprendente riflessione di Luisa Muraro Al limite, la violenza, che non è certo un inno alla violenza ma non la «esclude a priori».
Un’apertura a «un uso della forza» adeguato alla violenza che è nelle cose e nei rapporti tra le persone. Esisterebbe in sostanza una «violenza giusta», distinta da quella «stupida» e «controproducente». E sarebbe sbagliato «separare la violenza dalla forza» perché «lo sconfinamento tra una e l’altra è inevitabile».
Accanto alla citazione de L’Iliade poema della forza di Simone Weil, ecco l’improvvido elogio della sassaiola contro i cattivi politici. Bisognava «mandarlo indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati», scrive Muraro rievocando la passerella di Berlusconi all’Aquila dopo il terremoto. "A fischi e sassate", proprio così dice l’autrice.
Ma che succede nello storico laboratorio del pensiero della differenza, di cui Muraro è indiscussa e mite sacerdotessa? Non erano state proprio loro, le femministe della Libreria delle donne, a liquidare negli anni Settanta la violenza come rispecchiamento di bellicose logiche maschili? E dopo gli esiti luttuosi di quella stagione, non è sbagliato e pericoloso rilanciare ora una riflessione sulla «violenza giusta»?
Al momento Muraro non parla. Il suo articolo di Via Dogana è l’anticipazione di un saggio che sarà pubblicato a giugno da nottetempo - Dio è violent... - e l’autrice preferisce aspettare l’uscita del libro. Per capirne di più, bisogna risalire all’estate scorsa, all’epoca dei disordini nella Val Susa, quando sul sito della Libreria compare una voce femminile che invita "a rompere un tabù", il silenzio sulla «violenza nella realtà e nel discorso della politica».
Muraro condivide: «È un tema urgente, bisognoso di una nuova e spregiudicata riflessione», dove spregiudicata significa «pensarci senza dire automaticamente no alla violenza». E ancora: «Bisogna cominciare a fare la differenza tra la violenza stupida e quella che tale non è, di cui abbiamo smesso di pensare e di parlare, dimenticando che l’agire umano non si dà senza questa componente».
Violenza stupida? Violenza intelligente?
A sette mesi da quella riflessione, ecco il nuovo articolo su Via Dogana, in un numero dedicato alla "forza necessaria". «C’è una violenza nelle cose e tra i viventi che prelude a un ritorno alla legge del più forte: dobbiamo pensarci», invoca Muraro. Alla propria forza non si deve rinunciare, «si tratterà dunque di dosarla senza perderla».
Ma come? La studiosa rifiuta il confine indicato dalla «predicazione antiviolenza», ossia quello che distingue forza e violenza. «No, lo sconfinamento è inevitabile». E allora? E allora «la misura da cercare» è in «una violenza giusta» misurata non sul diritto ma sulle circostanze storiche. Due gli esempi indicati nel breve scritto.
Il primo risale agli eccidi di Srebrenica, che potevano essere evitati dai militari dell’Onu, «incapaci di percepire il mostro dell’odio davanti ai loro occhi».
Il secondo è invece preso dalle storie di casa nostra, quando «era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione».
Della contundente soluzione suggerita da Muraro abbiamo già detto: sarebbe questa la violenza "intelligente"? «Muraro ha ragione, c’è una violenza stupida. Quello che però non riesco a concepire è la sassata intelligente, o la carica di polizia intelligente». Anna Bravo, storica dell’età contemporanea sensibile ai temi delle donne e della nonviolenza, appare piuttosto sorpresa. «Se Zizek sostiene che il pacifismo è facilmente assimilabile non mi turba molto. Muraro invece mi inquieta, perché è lei, e perché donna. Per noi donne, che abbiamo alle spalle una storia millenaria di disobbedienza e di manipolazione delle norme, è più semplice capire non solo che legge e giustizia sono due cose diverse, ma che si può agire di conseguenza senza inabissarsi nella distruttività. Per di più, il crescere della violenza e la militarizzazione dei movimenti - sia nella Resistenza che negli anni Settanta - ha sempre tolto respiro alle iniziative delle donne».
Nel suo bel saggio sul Sessantotto A colpi di cuore - titolo di per sé espressivo - Bravo rievoca il disagio delle donne di Lotta Continua quando portavano le molotov nel tascapane. La legittimità della violenza, annota la studiosa, è un tema estraneo alla tradizione femminista. E neppure nella letteratura di guerra e della resistenza l’argomento è centrale. «L’Italia è stata definita la patria del femminismo più forte e violento ma non è vero», dice ora Bravo. «Certo, i gruppi potevano risentire del clima di allora. C’era una pressione politica molto forte ed era acquisito il principio che si potessero fare cose illegali. Ma molte ragazze di Lotta Continua contestavano il servizio d’ordine e avevano paura di trovarsi in mezzo ai cortei più caldi. E quando Lc si sciolse, soprattutto per opera delle femministe, fu anche per una diversità di vedute sulla violenza».
Violenza legittima, uso della forza. Il pensiero corre a Carla Lonzi, la femminista che tra le prime liquidò la violenza dell’inconscio maschile, «ricettacolo di sangue e paura». La discussione sembra ora aperta all’interno della stessa Via Dogana, che ospita voci contrastanti.
«Alla sollecitazione della Muraro», scrive Annarosa Buttarelli, «fa obiezione la scelta storica di gran parte delle donne di lottare in modo non violento. La scelta di segno femminile è di custodire l’integrità dei corpi e dei luoghi». E Lia Cigarini chiude: «Schivare lo scontro guerresco è segno di forza, non di debolezza».
Al gioco del più forte, insiste ora Bravo, noi perdiamo sempre. «L’invito di Muraro a ripensare il nostro rapporto con la violenza si lega al giudizio sul presente, che prefigurerebbe un ritorno alla legge del più forte. Ammettiamo che sia così: ma spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con uno spirito militare. Voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell’oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo». Un meccanismo, conclude la studiosa, che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Sconcertante, davvero, riconsiderarlo oggi.
Perché il femminismo non «sfonda» adesso che potrebbe?
di LEA MELANDRI *
Perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?
Qualche giorno fa, per il decennale dell’Università Bicocca di Milano, sono stata invitata a parlare di «Democrazia di genere e processi formativi». Il tema in discussione richiama quello di una serie di seminari, che si sono tenuti tra Milano e Roma, a partire dall’inizio del 2000, dal titolo: «L’eredità del femminismo di fronte agli interrogativi del presente».
Evidentemente è un dubbio che periodicamente ci attraversa e a cui stentiamo a dare una risposta: come mai la cultura politica prodotta dalle donne, in un percorso di riflessione ormai più che trentennale, non ha la visibilità e l’incisività che ci aspetteremmo, soprattutto se si tiene conto che alcune delle tematiche su cui si è mossa sono oggi al centro della vita pubblica.
Penso alla crisi della politica, che oggi tocca il suo stesso atto fondativo -la divisione sessuale del lavoro, la scissione tra corpo e linguaggio, individuo e società -, la preminenza che hanno assunto il corpo, la sessualità, la salute, il nascere e il morire, la violenza maschile contro le donne, il rapporto col diverso, vicende essenziali dell’umano su cui oggi intervengono pesantemente i massimi poteri della vita pubblica: Stato, Chiesa, scienza, mercato, media.
Se è vero che la pacifica ‘rivoluzione femminista’ è l’unica sopravissuta alla fine degli anni ’70, l’unica che abbia avuto continuità in una vasta proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, è anche vero che è la più silenziosa, oscillante tra brevi comparse e altrettanto rapide sparizioni. Il pensiero e l’azione politica del movimento delle donne sembra aver perso estensione e radicalità proprio quando è il contesto storico in cui viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al trionfo dell’antipolitica, al risveglio del fondamentalismo religioso, potrebbero essere proprio quella ‘politica della vita’ che discende dalle pratiche e dai saperi degli anni ’70.
La domanda che viene da porsi allora è questa: perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?
Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna, esclusa dalle responsabilità della vita pubblica, dallo statuto stesso di “umano”, identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e riproduttiva, è stata da sempre ‘oggetto’ del sapere. Sono stati i saperi, oltre che i poteri, della comunità storica degli uomini a definire che cosa è “femminile”, a esercitare, più o meno direttamente, sui corpi, sulla vita psichica e intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento, violenza o, al contrario, esaltazione immaginaria.
Attraverso i saperi passa la violenza manifesta di un dominio, ma anche e soprattutto quella violenza più insidiosa, perché ‘invisibile’, che è l’interiorizzazione di un’immagine di sé dettata da altri: un modo di pensarsi, di sentire, di essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell’altro. Quando esclude le donne dal ‘contratto sociale’, quando descrive l’educazione della femmina, destinata a vivere “in funzione degli uomini”, “piacere e rendersi utile a loro”, Rousseau, il padre della democrazia moderna, sa di poter contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto di adattamenti, resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza - come il potere che viene dal rendersi indispensabili all’altro, l’uso sapiente di potenti attrattive, come la maternità e la seduzione.
Uscire da questa pesante eredità storica ha comportato, per le donne, un doppio ‘scarto’: smascherare la falsa ‘neutralità’ dei saperi creati dal sesso maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, già all’inizio del ‘900, chiamava “una rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”.
L’analisi che Aleramo affronterà in solitudine, attraverso un processo continuo di ‘svelamento’ e costruzione dell’ “autonomia dell’essere femminile” , è diventata poi nel femminismo degli anni ’70 la “pratica dell’autocoscienza”: un modo di procedere originalissimo, che tiene insieme scavo in profondità, modificazione di equilibri psichici profondi (“presa di coscienza”), e costruzione di sé come individualità che si pone per la prima volta nella sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.
Quello che avviene negli anni ’70, dunque, non è solo l’ingresso massiccio delle donne nella vita pubblica - lavoro extradomestico, istruzione, urbanizzazione, impegno politico, ecc. - , e neppure solo la nascita di una soggettività femminile singolare e plurale.
E’ una rivoluzione (pacifica) che va alle radici dell’umano, riportando alla storia quanto di umano è stato ‘naturalizzato’, sottratto perciò a possibili cambiamenti, una ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che sovverte l’atto fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni storiche della civiltà dell’uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un pensiero che si è strappato dalle sue radici biologiche e che su questa scissione originaria ha costruito tutte le dualità che conosciamo. Prima fra tutte, quella tra i ruoli del maschio e della femmina.
Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile, è un’idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di libertà, di politica. Non si tratta di un ‘sapere’ che si aggiunge ad altri, un’iniezione vitale di conoscenza, che va ad integrare, o “fecondare la sterile civiltà dell’uomo” -secondo l’idea di complementarietà che ha accompagnato l’emancipazione di inizio ‘900-, ma di un processo formativo e cognitivo che ha osato addentrarsi nelle “acque insondate delle persona” , in una “materia segreta, imparentata con l’inconscio”, e che da lì, da quelle “lande deserte”, da quella ‘preistoria’ pietrificata, ha cominciato a guardare con occhi diversi la storia, a sovvertire l’ordine esistente.
“Che cosa avverrà delle istituzioni quando si accorgeranno di essere funzionalizzate a un sesso solo?” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1979). E’ con questa domanda che il femminismo tentò allora di costruire un proprio “lessico politico”, ridefinendo parole già in uso -democrazia, uguaglianza, libertà, organizzazione, ecc.-, e introducendone delle nuove, frammenti di una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi il ‘sé’, rivisitato attraverso la pratica dell’autocoscienza (Lessico politico delle donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta (1978), ristampato da Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002).
La cultura femminista degli anni ‘70 rappresenta un eccezionale equilibrio tra un sapere inteso come processo formativo - aderenza alla memoria del corpo, all’immaginario sessuale, all’esperienza particolare di ognuna- , e, al medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse allora nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia, la violenza sessuale.
Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e pratiche di liberazione erano tra loro intersecati: non si voleva che restassero “un pezzo di riforma” isolata dalla messa in discussione della sessualità e dalla cultura dominante maschile. Quello che si stava abbozzando era un sapere che, partendo dalla costruzione di sé, si andava a collocare, con una forte conflittualità, sul confine tra sfera pubblica e privata, che si richiamava al corpo, alla sessualità, alla salute fisica e psichica, consapevole dei segni che la civiltà dell’uomo vi ha lasciato sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano reggere, e che perciò hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato.
Era, come capì lucidamente Rossana Rossanda, “una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma la mette in causa”.
Le difficoltà che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel riattraversare le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalità dell’assunto iniziale: un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era la soggettività femminile, collettiva e insieme rispettosa della singolarità, una ‘presa di parola’ che denunciava, non svantaggi o discriminazioni sociali, ma una “espropriazione di esistenza”, a partire dal destino toccato alla sessualità femminile, identificata con la procreazione e quindi cancellata come tale -da cui il ruolo ‘naturale’ di madre, la dedizione all’uomo, il sacrificio di sé.
Era una affermazione di ‘libertà’ che si poneva però come lento processo di ‘liberazione’ dalle tante ‘illibertà’ interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle relazioni famigliari, nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia, nell’assuefazione alla violenza quotidiana. Con l’autocoscienza, il processo conoscitivo si spostava in prossimità del corpo, della memoria che vi si è depositata sopra. Alle generalizzazioni della politica, opponeva il “partire da sé”. “Il blocco -scrisse Carla Lonzi- va forzato una per una, passaggio necessario per la nascita della propria individualità”.
Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un “accostamento di vissuti di ognuna”, della presenza fisica delle altre, del separatismo, cioè di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. “Il sapere sull’autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene praticandola” (M.Fraire).
La soggettività femminile nasce in questa particolare relazione tra simili e, in questo senso, l’autocoscienza non è la pratica di una fase storica, non è “a termine”, come si legge nella ricostruzione che la Libreria delle donne di Milano ha fatto di quegli anni (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987).
Insieme al suo portato teorico, è la forma che ha preso il discorso femminile sul corpo, sulla sessualità e che non poteva non fare i conti con la psicanalisi. La sua durata va messa in relazione col fatto che la sessualità non appartiene a questa o a quell’epoca in particolare, non è solo una componente della vita personale, ma una struttura portante della società in tutti i suoi aspetti. Sono d’accordo perciò con Manuela Fraire quando scrive che è stato “uno strumento abbandonato precocemente”, e che i suoi frutti maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne conservano traccia. Il riferimento è, in particolare, al gruppo milanese “sessualità e scrittura” (A zig zag, numero speciale, 1978), alle scritture di esperienza dei corsi delle donne (Associazione per una Libera Università di Milano), alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile” (1987-1997).
Difficoltà e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a entrare negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando “dal movimento femminista” si passa al “femminismo diffuso”. Se l’allargamento era augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che comportava: “Un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della politica e della cultura” (Marina Zancan)
Al convegno di Modena sugli “Studi femministi in Italia” (1987), si profilano due orientamenti: uno che vuole tutelare “spazi di autonomia e di autogestione, all’interno dell’università, attivare momento di autoriflessione sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi scientifici”, “decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad esse”; in altre parole, mantenere un “pendolarismo tra dentro e fuori l’Università” (Raffaella Lamberti).
L’altro, proposto da Luisa Muraro, mira invece a fondare un soggetto forte, una “tradizione” di donne, che come tale ha bisogno di una “autorità” e di un “linguaggio”, di un “ordine simbolico” su cui fondarsi. Nella costruzione identitaria di una “differenza femminile” con cui affrontare la vita pubblica, sparisce l’attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale, e anche il sapere che ne discende porta i segni di una posizione essenzialistica, rassicurante e destinata ad avere molto seguito, proprio perché sembra portare fuori dalla lentezza e dalle secche delle pratiche di ‘liberazione’.
Rispetto a queste due posizioni, la rivista “Lapis” ha rappresentato un percorso a parte, critico rispetto al “pensiero della differenza”, ma anche rispetto al proliferare di “studi di genere” in ambiti accademici. L’intento che muove la redazione è quella di dare continuità e sviluppo alla pratica con cui era nato il femminismo: ricerca di “nessi” tra politica e vita, tra il sapere di sè e i “cento ordini del discorso” di cui pure siamo imbevute; un’autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica; una “geografia, non una genealogia”, un sapere che non teme di addentrarsi in “paesaggi inquinati”, di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la sua complessità e contraddittorietà.
Ma torniamo all’oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle donne alla costruzione di una “democrazia di genere”. Io penso che la cultura prodotta dal femminismo -quella che ha mantenuto un’attenzione al corpo, alla storia personale, al rapporto tra individuo e società- abbia oggi una parte importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di solito, quando si liquida tutto come “barbarie”, “irrazionalità”, “regressione”.
Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a “questione femminile” - uscita dalla marginalità, riequilibrio della rappresentanza, politiche sociali e famigliari, ecc.-, ha molto da dire, non solo su questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie.
Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalità dello sguardo, del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi -quello che ha visto nel rapporto tra i sessi l’impianto originario di ogni dualismo-, dall’altro prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto ciò che è stato considerato “non politico”, sono oggi al centro della vita pubblica, sia pure sotto etichette che ne occultano il significato politico -ad esempio “questioni eticamente sensibili”, “problemi di coscienza”. Purtroppo lo sono in modo molto diverso da come ce lo prospettavamo. Sono temi che rimandano a vissuti, esperienze umane tra le più significative, ma che non riusciamo quasi più, non solo a ‘raccontare’, ma a ‘vivere’ come tali, tanto sono intersecate, confuse coi poteri e i linguaggi della sfera pubblica.
Noi volevamo trovare “nessi” tra poli apparentemente opposti, oggi ci troviamo di fronte a un amalgama, in cui privato e pubblico, casa e città, azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda. Sotto questo profilo si può leggere anche il protagonismo femminile: un esempio inequivocabile è Sarah Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e femminili tradizionali. Sempre più spesso è il discorso pubblico a prevalere: non parliamo più di maternità e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194. Altre volte invece sono la vita e le relazioni personali a prevalere: è il quotidiano, la casalinghità, ad assorbire e stemprare dentro il ‘senso comune’ le istituzioni della sfera pubblica.
Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici elaborati dalle donne, i quali, a loro volta, devono lasciarsi contaminare, modificare, da quei “barlumi di sapere che vengono dalla lenta modificazione di sé” (A zig zag, 1978).
Bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista “Lapis”, chiama “un salvifico bilinguismo”: “il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni” (Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998)
Ma si tratta anche di saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti
Lea Melandri
(www.liberazione.it)
Sinistra, non di solo pane...
Ecco cosa non hai visto
di Lea Melandri (Liberazione, 29.04.08)
Se molti operai non avessero votato Lega, il 13-14 aprile 2008, forse non avremmo mai saputo cosa pensano dei gay, dei migranti, delle donne, dei dirigenti di sinistra, e del loro stesso lavoro. Da questo punto di vista, aver perso le elezioni è una fortuna e un’occasione da cogliere. Peccato che, dopo una rapida comparsa e altrettanto rapide interviste, siano spariti di nuovo dalla scena, per ridiventare l’oggetto delle verbose e perlopiù astratte dissertazioni di politici e intellettuali, che vorrebbero "rifondare" la sinistra, ripensare il "comunismo", ma partendo sempre dalle stesse domande: «che fare?», «con chi?». Con questa premessa, anche la risposta finisce per avere un sapore antico, che è nostalgia del già noto e, insieme, attesa di una miracolosa palingenesi. Sull’orizzonte famigliare e perduto tornano ad allinearsi ancora una volta il popolo, il territorio, la gente, i lavoratori e le lavoratrici - un femminile d’obbligo dal momento che la questione di genere, rimossa come problema politico, è diventata una vera ossessione di correttezza linguistica.
Di fronte alle parole ricorrenti -"radicarsi nel sociale", "ritorno nei quartieri", "apertura all’esterno" - viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?». Forse in riunione. Con tutti quegli organismi impalcati l’uno sull’altro, fino alla cima della piramide del partito, l’autoreferenzialità è inevitabile, la schiera dei dirigenti si infoltisce e quando si cerca la "base" ci si accorge che non c’è più. Nel documento della Conferenza nazionale di organizzazione, approvato il 16-17 dicembre 2006, si diceva che la crisi della politica e della forma partito riguardava anche Rifondazione: separatezza dei gruppi istituzionali, burocratismo, centralismo, personalismi, ingessamento del dibattito democratico. Nel Comitato politico nazionale di circa una settimana fa, convocato a ridosso del terremoto elettorale e dietro la pressione di quanti, dentro e fuori Rifondazione, vorrebbero avviarsi rapidamente verso una nuova sinistra "unita e plurale", l’idea di un possibile scioglimento, reale o immaginaria che sia, ha risvegliato spinte contrarie: la difesa di una "comunità di appartenenza", il rafforzamento di un "corpo collettivo", della sua storia, delle passioni che lo hanno alimentato. Un riflesso noto, prevedibile, che parla del difficile rapporto tra "gruppo chiuso" e "gruppo aperto", tra processi di "accomunamento" e settarizzazione, è venuto a coprire un lutto duplice: la sparizione di elettori fedeli e l’affacciarsi su un vuoto organizzativo, spinto quasi fatalmente verso la figura rassicurante di un leader carismatico. Colpisce il fatto che la minaccia alla propria sopravvivenza, il pericolo di disgregazione, dispersione di qualcosa che è stato conquistato con fatica, si sia così massicciamente spostata sul versante da cui sembrava venire, al contrario, la possibilità di un’apertura e di un potenziamento.
«Se nell’estraneo al gruppo non viene colta l’ostilità ma il suo contrario, vale a dire se nell’estraneo noi troviamo non il diverso ma l’uguale, il comune a noi, che pure esiste, allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo si svolge con un senso diverso». La "comunanza stessa", in questo caso, diventa "un bene da estendere" (Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto? , "Quaderni piacentini", n.36, nov. 1968). Perché i gruppi, le associazioni, l’assemblea che si è riunita a Firenze il 19 aprile per proporre "case comuni della sinistra", sperimentazione di "laboratori di analisi e di pensiero", spazi decisionali aperti a tutti, "fuori da leaderismi e da centralismi democratici", non ha convinto a procedere nel ripensamento della forma partito avviato a Carrara, il 29 marzo-1 aprile 2007 con la nascita della Sinistra europea? Perché si invocano territori, radicamenti, soggetti sociali perduti, e non si vede la terra su cui si mettono i piedi, luoghi e persone che già ci sono? Perché tanto insistenza sull’ "ascolto" di interlocutori lontani e distratti, e tanta sordità alla voce del vicino? Perché l’accelerazione verso la "costituente" di un nuovo soggetto della sinistra, capace di "impastare" idealmente lotte sociali e culture politiche diverse, non convince neppure chi, come me, non ha storia di partito né desidera averla, e pensa che questa forma organizzativa sia esaurita, e non da ora? Se a molti oggi appare inadeguata l’idea di partito come "organizzazione di combattimento", centralizzata e gerarchica - una specie di "stato dentro lo stato" - anche il dibattito che dovrebbe aprire la strada a nuove forme organizzative, così come è stato finora, appare molto meno "aperto, ampio, plurale" di quanto prometta.
Al di là delle affermazioni, traspare il rischio, sollevato al Cpn da Franco Russo, che a mettersi insieme siano solo "gruppi dirigenti", e, soprattutto, che si tratti ancora una volta di un ceto politico "neutro", cioè sostanzialmente maschile, tanto da far rimpiangere la consapevolezza nuova che era apparsa nella relazione di Franco Giordano a Carrara: «E per noi maschi c’è un problema che riguarda l’abbandono di ogni universalismo neutro e del riconoscimento della nostra parzialità, di dismettere il narcisismo che è sempre il segno più pubblico del cerimoniale del potere».
Ma non è solo la partecipazione democratica a far difetto in assemblee che dovrebbero far dialogare o confliggere culture diverse, e che si limitano a far sfilare sequenze di interventi "preiscritti", cioè pensati prima e al di fuori della relazione personale che si crea in un incontro, fuori quindi dagli imprevisti e dai cambiamenti che ne possono sortire. Insieme al femminismo, il pesante rimosso che si porta dietro la sinistra è tutto ciò che, connesso al destino femminile, è stato messo al bando dalla politica: il corpo, la persona, l’intelligenza e la sensibilità legati a esperienze fondamentali come la nutrizione, la riproduzione, l’amore, la cura. Di questa "mutilazione" e delle conseguenze che ne sono derivate alla vita politica, scrive con grande lucidità Marco Deriu, nel suo articolo Gli uomini il desiderio e la crisi della politica ("Pedagogika", n.6, dic. 2004):
«Quando si parla della crisi della politica e della partecipazione, si fa riferimento alla crisi dello Stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni di ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto...La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura maschile, tende a deificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sforzo di consapevolezza che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l’esistenza di altri esseri. In altre parole, quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri».
Per un’azione politica che voglia tener dentro "unità e pluralità", differenza e condivisione, è necessario il rapporto diretto tra persona e persona, ma anche la disponibilità del singolo a lavorare su di sé, a mettersi in discussione. Quando si constata con sorpresa - come nel caso degli operai che hanno votato a destra - che "identità sociale" e "soggettività politica" sono scisse, si dice indirettamente che l’individuo, non solo non coincide col cittadino - anzi, diceva Tocqueville, è il suo "peggior nemico" - ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia.
L’essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell’aspetto dell’esistenza, facendolo diventare unico e centrale. Dire che nel "sé", nel vissuto del singolo si danno concentrati e amalgamati bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un "territorio" che sfugge, o esorbita, dai confini storici e geografici, dai luoghi della vita pubblica - e quindi irriducibile al sociale - che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.
Le "viscere" razziste, omofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l’ambientalismo.
L’individuo, la persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e se sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, è anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno preceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. "Il personale è politico", per chi si preoccupava negli anni ’70 di salvaguardare la grande "unità di classe", suonava come uno slogan "borghese". Oggi, chi sottolinea la dimensione metropolitana del politico, chi si batte per i diritti civili di conviventi, di gay e lesbiche, per la libertà femminile, per la cittadinanza dei migranti, passa per "radical chic". Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori, soprattutto, dalla cerchia del ceto politico, che il "sociale" tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire un’alternativa meno violenta e alienata di società.
Tatiana Gentilizi, giovane operaia della Zanussi di Forlì, nell’intervista pubblicata dalla rivista "Una città", così descrive il suo lavoro: «L’importante lì è non parlare del tuo lavoro, che è un po’ deprimente, ma di tutt’altro. Parli delle vacanze che hai fatto, di quello che ti sei comprata, del Grande fratello . Se non guardi il Grande fratello , là dentro sei un po’ tagliata fuori...I giovani che entrano in fabbrica lo fanno probabilmente per bisogno, ognuno ha la sua storia. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza, lo vedono come un momento di transizione, per cui non si interessano più di tanto del loro essere operai...Non c’è più una condivisione profonda del lavoro, l’importante è passare comunque le otto ore nella maniera più tranquilla possibile e poi del domani chissenefrega, si vedrà. Di positivo c’è che ti dà la possibilità di pensare ad altre cose, puoi anche ascoltare la musica: puoi portare il walkman e sentirlo in un solo orecchio..Oggi l’operaio si sente meno operaio e prevalgono le strategie individuali».
«Non si vive di solo pane», dice Bloch, «soprattutto quando non se ne ha». L’insegnante di una scuola per apprendisti commessi e impiegati spinge i suoi alunni a mobilitarsi il 1° maggio sul disagio della loro condizione. Lei porta in corteo il cartello "Viva l’unità delle masse popolari", loro, pochi numericamente, esclamano "basta con la politica". Alla richiesta di quali fossero i loro interessi, le ragazze rispondono: «Le nostre letture sono di tutti i generi, in particolare riviste come Grazia , Gioia , Grand Hotel ». «Il mondo cui tendevano e tendono - commenta l’insegnante sulla rivista "L’erba voglio" (n.1, luglio 1971) - e che vedono riflesso in tali letture, è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di automobili sportive, di profondi affetti e storie amorose...vita che non vivono, e a cui pure tendono». In nota all’articolo, la redazione commenta: «Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni». Non potevamo accorgercene prima?
L’aborto è di Stato
di Ida Dominijanni (il manifesto, 15 febbraio 2008)
C’è fra lo Stato moderno e le donne un’antica inimicizia, fatta di esclusione da una parte e di estraneità dall’altra, che la costruzione della cittadinanza non è mai riuscita a sanare del tutto ma solo a lenire. La legge italiana numero 194 è stata una tappa cruciale di questo lenimento: siglando, fra donne e Stato, non la pace ma un armistizio. La procura di Napoli che ha ordinato il blitz del Policlinico, i poliziotti che l’hanno eseguito con zelo in eccesso, i politici che lo approvano, lo sdrammatizzano o lo spoliticizzano, i predicatori che lo cavalcano per testare (scusate la volgarità della citazione letterale) la grandezza dei propri genitali, devono sapere che hanno rotto questo armistizio e assumersene, da adulti e non da bambini, da padri e non da figli in perenne rivolta edipica contro le madri e contro la Madre, le dovute responsabilità.
Da oggi sul tappeto non c’è solo la questione dell’aborto, o la difesa della 194. E sbaglierebbero anche le donne se si lasciassero prendere nella trappola strumentale di questo perimetro. La questione sul tappeto è quella dello Stato costituzionale di diritto. Quello che garantisce - o dovrebbe - che le leggi siano applicate correttamente e non in un clima di emergenza permanente, quello che stabilisce - o dovrebbe - procedure giudiziarie corrette, quello che ci tutela - o dovrebbe- dagli abusi delle forze dell’ordine, quello che difende - o dovrebbe - il rapporto fra medico e paziente da aggressioni e interferenze indebite. Prima di discutere dell’aborto si discuta di questo: a quando un’ispezione nella procura di Napoli? Da quando una telefonata anonima è quanto basta per ordinare un blitz? L’infermiere anonimo verrà gratificato con un encomio allo zelo pro-life? Noi comuni mortali dovremo munirci di avvocato prima di entrare in una sala operatoria? E i medici, prima di fare una disgnosi fetale, dovranno dare un’occhiata ai giornali per vedere che aria tira?
Non è la prima volta e non sarà l’ultima che l’aborto si fa segno di più generali questioni: proprio perché l’aborto, al contrario di quanto sostiene la scellerata campagna sulla sua «faciloneria», si colloca su un delicato crinale, fra coercizione e libertà, fra garanzie collettive e decisione individuale, fra specie e singolarità.
Bombardare questo delicato crinale a colpi di cannone significa bombardare, con la cittadinanza femminile, l’edificio dello Stato di diritto, tornare a uno Stato violento da un lato e paternalista dall’altro, che si fida più dei poliziotti che delle donne, e delle donne fa quando va bene delle vittime incapaci di intendere e di volere, quando va male delle assassine: feticide, come recita il brillante neologismo.
Lasciare tutto questo fuori dalla campagna elettorale, come va predicando la premiata ditta V&B, è un’illusione falsa e truffaldina, che serve a Veltroni per non sbarrarsi il voto cattolico, a Berlusconi per non sbarrarsi il voto femminile. Siamo abituati a una politica che si nutre di confusione, ma ci sono questioni che domandano chiarezza. E se non la ricevono, la fanno.
Perchè le donne si sono riprese la parola
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 16/2/2008)
Dopo settimane di continuo, violento attacco al diritto delle donne di decidere se portare a termine una gravidanza da parte sia dei massimi vertici della Chiesa cattolica che dei vari teodem e teocon, le donne si sono ripresa la parola e lo spazio pubblico da cui di fatto quell’attacco cerca di estrometterle. Prima ancora che una manifestazione a difesa della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, la manifestazione spontanea di giovedì è stata la rivendicazione del diritto prioritario delle donne a decidere su ciò che riguarda innanzitutto loro e che per esistere deve passare attraverso il loro consenso e accoglimento.
Di fronte al silenzio imbarazzato dei partiti, incluso il Pd, timorosi di urtarsi con la Chiesa e per questo troppo spesso dimentichi della necessità di difendere i diritti civili, a partire da quello fondamentale dell’habeas corpus, le donne che sono scese in piazza ricordano che il corpo delle donne non è, come denunciava già anni fa la filosofa tedesca Barbara Duden, luogo pubblico, su cui tutti, salvo loro stesse, hanno diritto di intervenire. La mediazione necessaria del corpo femminile per mettere e venire al mondo non può che passare dal riconoscimento della libertà e della dignità femminile. La manifestazione di giovedì reagisce alla degenerazione del dibattito pubblico attorno alla questione dell’aborto, che ha raggiunto nel nostro Paese impensabili abissi d’inciviltà e mancanza di rispetto per le donne e le loro scelte difficili. È vero che i teodem, che fino a ieri appoggiavano entusiasticamente Ferrara, al punto che sembrava volessero farlo «santo subito» cominciano a prendere cautamente le distanze rispetto alla sua lista pro-life. E l’Osservatore Romano addirittura raccomanda di abbassare i toni e evitare «strumentalizzazioni ad uso elettorale sui temi etici», auspicando un «dibattito sereno e obiettivo». Ma non possono facilmente chiamarsi fuori dalla responsabilità di aver creato questo clima violento, che pretende di zittire chi la pensa diversamente sull’esistenza di una vita umana fin dal concepimento e ha ridotto tutta la discussione sul diritto alla vita al diritto dell’embrione. Non si sente infatti, da parte di questi difensori degli embrioni, un’indignazione, una proposta di mobilitazione, neppure vagamente paragonabile per le condizioni di povertà, malattia, sfruttamento in cui si trovano a vivere molti bambini e alla violenza e negazione di sé cui sono condannate le donne in molte parti del mondo. La vita sembra contare ed evocare solidarietà solo prima che ci siano esseri umani in carne ed ossa. Poi diviene molto meno importante, se non irrilevante. Molte delle donne che sono scese in piazza sono madri, figlie, compagne, che quotidianamente costruiscono le condizioni di una vita decente per i loro figli, mariti, compagni, genitori anziani, nella cura quotidiana richiesta dalla riproduzione della vita. Sono scese in piazza perché loro e le altre possano continuare a farlo liberamente. C’è ancora molto da fare perché le condizioni di questa libertà siano garantite nel nostro Paese. Ma l’ultima cosa da fare è obbligare le donne a mettere al mondo un figlio che non vogliono o non possono avere, mettendo sotto tutela il loro corpo e impedendo loro di decidere su di sé.