DE KERCKHOVE: "INSTABILITY" DELL’UOMO ELETTRICO
di Guido Caldiron (Liberazione, 13.05.2006)
«L’utopia? Per me ormai il sogno è a portata di mano: mi appare come una sorta di palmare universale capace di offrire risposte istantanee e super dettagliate ad ogni mio quesito. Non solo, credo si possa dire che viviamo già in un’utopia perché siamo entrati in un terzo spazio, dopo quello fisico e quello mentale, siamo nel cyberspazio. Questo spazio non è un non-luogo, solo è uno spazio che non occupa posto, tutto qui».
Che si tratti della rete o dei processi legati alla globalizzazione, Derrick de Kerckhove non sembra avere dubbi: la terra promessa dell’utopia è qui e ora, va cercata nel mondo in cui viviamo, quello che si sta costruendo intorno a ciò che già da anni lui ha definito come “intelligenza connettiva”.
Ex allievo di Marshall McLuhan, docente all’Università di Toronto e direttore da oltre vent’anni del McLuhan Program, de Kerckhove indaga da tempo sul significato sociale della comunicazione e del rapporto tra tecnologia, linguaggio, forme di conoscenza e libertà.
Nell’accezione della riflessione filosofica che ha scelto per definirsi il neo-nato Festival della filosofia di Roma, quella di “Instability” - in corso da giovedì, la rassegna si concluderà domani all’Auditorium della capitale -, un personaggio come de Kerckhove sembra trovarsi pienamente a suo agio.
«L’instabilità è la condizione naturale dell’uomo elettrico - ci spiega - E credo che i giovani siano in grado di muoversi meglio degli adulti nel nuovo clima del mondo. Questa generazione attraversa una fase di transizione, un momento di passaggio come mai si era visto prima, ma non sembra averne paura». «Così, ad esempio - aggiunge l’intellettuale canadese - mai come ora credo sia stata evidente l’ndipendenza mentale dei giovani nei confronti dell’establishment. Magari negli anni Sessanta questo spirito era più enfatizzato, ma era certamente meno diffuso».
Nell’ambito di “Instability” de Kerckhove ha partecipato a una tavola rotonda dal titolo “Generazione instabile: precari, flessibili, polimorfi? ”. Quasi una sfida posta agli apologeti senza incertezza alcuna del nuovo mondo globale e interconnesso. Quasi una provocazione all’elogio dell’utopia tecnologica lanciato dallo stesso de Kerckhove.
Nel suo nuovo saggio, Vita liquida (Laterza), Zygmunt Bauman spiega che «una società può essere definita “liquido-moderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure» e aggiunge che «la vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo». Come coniugare questa incertezza liquida con l’instabilità creativa e cognitiva dell’uomo elettrico? In altre parole, come coniugare le possibilità offerte da un mondo globale con il rischio che al suo interno si sviluppino nuove povertà e nuove esclusioni?
«I precari che vivono nella parte del mondo più tecnologicamente sviluppata, penso in particolare all’Europa e agli Stati Uniti - ci risponde Derrick de Kerckhove - partecipano in ogni caso a una delle società e delle culture più ricche del pianeta. Questo non riduce i loro disagi ma gli offre in ogni caso delle possibilità di accesso più vaste, e questo sia in termini culturali che anche di risorse economiche e materiali».
«Inoltre, per come la vedo io, la globalizzazione assomiglia più a una geografia mentale che a un processo economico - precisa l’ex allievo di McLuhan -: si tratta di comprendere il mondo in maniera piena, totalizzante, senza alcuna barriera. E questo, i giovani mi sembrano averlo compreso perfettamente, anche se il loro lavoro è precario. Diciamo che dovremmo essere in grado di salvaguardare questo elemento riducendo invece le forme punitive che la globalizzazione ha assunto sia verso i singoli che verso le collettività».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INTERVISTA
de Kerckhove: Così Chesterton «convertì» McLuhan
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 7 giugno 2011)
«McLuhan? All’inizio l’hanno snobbato in tanti, mentre è fortissima la sua componente cattolica. Quest’anno, per il suo centenario, nel mondo si celebrano oltre 250 convegni a lui dedicati, pure in Cina e Corea. Il web? Va regolamentato ma, come dimostrano le rivolte arabe, la Rete è via di libertà, come lo fu la stampa nel Rinascimento». Derrick de Kerckhove, uno dei massimi massmediologi al mondo, spazia tra Onda verde, Chesterton e Facebook. Intervenuto ieri al Festival della comunicazione di Padova con una lectio su "Il volto e la maschera: potere e sapere nella società in rete", il docente dell’Università di Toronto promuove l’atteggiamento della Chiesa verso i nuovi media.
Un secolo fa nasceva il suo maestro Marshall McLuhan. Il suo pensiero è stato interpretato in maniera contraddittoria: "un antimoderno" e un guru dei nuovi media. Quale il "vero" McLuhan?
«Entrambi. Lui era completamente contrario ai cambiamenti operati dai mezzi di comunicazione. Da vero letterato, vedeva il diavolo dentro i media, li considerava la causa di un’imminente perdita dell’identità privata dell’individuo (io non ero sempre d’accordo con lui...). Egli però era soprattutto un osservatore. Solo dopo l’uscita de <+corsivo_bandiera>La sposa meccanica<+tondo_bandiera> il suo è diventato un giudizio morale. All’inizio aveva solo la volontà di capire. Certo, ad un punto in lui è prevalso il sentimento sintetizzabile nello slogan "Fermate il mondo, voglio scendere". Ma in realtà McLuhan voleva osservare e farlo con ironia, alla maniera di Nietzsche».
In quali aspetti la fede cattolica di McLuhan ha inciso nel suo pensiero?
«Un giorno un giornalista lo ha intervistato nel suo studio all’Università di Toronto. E a ad un certo punto gli ha chiesto cosa fosse quella cosa sul muro. "Un crocifisso" fu la risposta. E il reporter: "Ma lei non sarà cattolico?". E lui: "Della peggior specie, un convertito". Proveniva dall’anglicanesimo. Tutto risaliva al suo incontro con Chesterton: un giorno, con il suo amico Tom Easterbrook (in futuro un noto economista) entrarono in un negozio di libri usati. Dopo un’ora ne uscirono con un volume ciascuno: McLuhan aveva in mano un saggio sul distribuzionismo, Easterbrook invece Ciò che non va nel mondo del grande scrittore inglese. Se li scambiarono. E quello scambio determinò le carriere di entrambi. McLuhan era convinto che non sono le teorie e i concetti che cambiano la mente delle persone, bensì la percezione. Diceva: "Nella Chiesa non si entra con dei pensieri in testa, ma in ginocchio". Su questo era un vero artista, che puntava sull’importanza delle percezioni piuttosto che sul primato dei concetti».
Lei è considerato uno dei grandi interpreti del mondo digitale. Questo 2011 è segnato dalla Primavera araba che ha avuto come "ingrediente" decisivo l’uso della Rete. Internet come esperienza che fa democrazia reale?
«Nel Rinascimento la diffusione di scrittura e stampa favorì la separazione del potere temporale da quello spirituale. Quel fenomeno durò duecento anni (con relative guerre di religione ...), il tempo in cui la gente che sapeva scrivere, leggere la Bibbia e interpretarla iniziò a decidere del proprio futuro. Oggi, per la prima volta, proprio tramite la Rete, la gente può intervenire in tempo reale su quello che succede. Finora questo avveniva solo in modo mediato attraverso la politica. Tutto questo ha un peso decisivo nel contesto islamico, visto che la scrittura araba (come quella ebraica) è un tutt’uno con il suo messaggio: nel caso dell’arabo ci deve essere una persona per completare oralmente lo scritto. Dunque, se nella scrittura alfabetica esiste uno stacco tra chi scrive e il messaggio del testo, in arabo questo non avviene. Con la Rete le popolazioni arabe, e in particolare i giovani, si sono ripresi per la prima volta il potere della parola».
Quando va segnato questo punto di svolta?
«Decisivo è quanto accaduto con l’Onda verde in Iran nel 2009. In quell’occasione la società araba si è resa conto che qualcosa andava cambiato: perché - si chiedevano i giovani - bisogna studiare all’università per poi finire a guidare i taxi?».
Il filosofo Roger Scruton critica chi accusa Facebook di "manipolare i giovani". Lei come la vede?
«Io odio Facebook. Perché ha la pretesa di essere padrone delle mie immagini, delle mie informazioni e della mia e-mail. Esso causa la perdita dell’autonomia personale. Ora in Italia e in Francia, finalmente, si discute della sua regolamentazione, così come, a mio giudizio, vanno riviste i parametri di Google. In particolare va salvaguardato il diritto all’oblio dell’individuo».
Di recente il Vaticano ha organizzato un incontro con centocinquanta blogger di tutto il mondo. Quell’evento, in poco tempo, ha generato quattoridici milioni di pagine web. Come giudica il rapporto tra nuovi media e la Chiesa?
«Giovanni Paolo II è stato il pontefice della televisione: ha capito l’importanza del rapporto con il mezzo tv. Benedetto XVI, se all’inizio dava l’idea di essere molto conservatore, si è dimostrato - anche grazie a bravi consiglieri - molto avanzato: è andato fino su YouTube! Posso confidarle un sogno? La santità di domani, a mio giudizio, avrà molto a che fare con la trasparenza. Immagino una webcam che segua il Papa in tutta la sua giornata: lui potrebbe farlo perché è una persona davvero notevole!».
Lorenzo Fazzini