RICERCHE...

MUSICA, LINGUAGGIO, E CERVELLO. Studi di Oliver Sacks, Steven Mithen, Aniruddh D. Patel. Un "aggiornamento" di Stefania Scateni e di Pietro Greco - a cura di pfls

venerdì 13 giugno 2008.
 

IN «MUSICOFILIA» il celebre neurologo Oliver Sacks affronta il tema, ancora misterioso, di un’attività esclusivamente umana, la musica, attraverso le storie di malati che hanno perso il gusto dei suoni o lo hanno ritrovato.

Il nostro cervello? È del tutto suonato

Già alcuni scienziati hanno trovato delle forti connessioni tra la nostra musicalità e il linguaggio Ma nessuno ancora è riuscito a svelare i suoi lati «metafisici» e strettamente affini all’esperienza mistica

di Stefania Scateni (l’Unità 13.06.2008)

«My life was saved by rock’n’roll», cantavano i Velvet Underground; «My life was saved by rock’n’roll», ripeteva, citandoli, Wim Wenders. «La mia vita è stata salvata dalla musica» potrebbero dire milioni di persone in tutto il mondo. Perché la musica può curare e può anche salvare. Ma perché la musica ci salva? Perché può mandarci in estasi? Perché può aprirci le porte della percezione? Perché siamo spinti a suonare e cantare? Perché in tutto il mondo si suona e si canta? Perché la musica è anche un’esperienza spirituale? Perché siamo gli unici esseri viventi sulla terra a farla? Perché questa «attività» così specificamente umana ci dà sollievo, consolazione, gioia, tristezza, disperazione, serenità? Perché ci cambia il corpo, ci fa venire la pelle d’oca, ci muove i piedi? La risposta è ancora nel vento, inseguita da scienziati, paleontologi, neurologi, musicologi, etnologi e quanti altri hanno cominciato a studiarla. La musica è ancora uno dei grandi misteri dell’umanità, e forse rimarrà tale finché non ci rassegneremo ad accettare questo suo aspetto.

Intanto possiamo azzardare l’affascinante ipotesi che il genere umano sia nato cantando. Due gli studi che hanno ampliato le conoscenze in proposito, portando prove alla teoria che i nostri antenati abbiano «cantato» prima di parlare. Il primo, tradotto lo scorso anno dalle edizioni Codice, è quello che Steven Mithen ha raccontato ne Il canto degli antenati. Il lavoro dell’archeologo britannico è partito da una constatazione: la propensione a fare musica è uno dei più affascinanti e al tempo stesso trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha sottovalutato questo campo di studio, relegandolo a prodotto ludico e ricreativo. Diversamente, Mithen, definisce la musica come un adattamento selettivo dell’uomo, ponendola non solo allo stesso livello del linguaggio, ma dimostrando che sarebbe stata la prima forma di comunicazione umana. Una specie di nenia, ipotizza, che usciva dalla bocca degli australopitechi come un «hmmmmmm»...

Il secondo studio è apparso una settimana fa sulla rivista scientifica Nature (e in queste pagine ne ha parlato lunedì scorso Pietro Greco) ed è stato realizzato dal neurobiologo americano Aniruddh D. Patel. Anch’esso «lega» insieme la musica e il linguaggio. Tra i primi ricercatori a studiare le basi neurologiche dell’attitudine musicale, Patel ha analizzato linguaggi e musiche utilizzati nei paesi non occidentali. E, oltre ad aver scoperto quello che ogni musicista e musicologo sa, cioè che la nostra scala musicale non è universale come non lo sono le nostre basi ritmiche, ha trovato molti legami neurobiologici tra musica e linguaggio. Molto probabilmente, scrive lo scienziato, nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori, il cervello usa lo stesso sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni.

Tutto questo ci dice che il nostro cervello potrebbe essersi evoluto da una musicalità primitiva a suoni articolati. Tutto questo comunque non svela né sminuisce l’ascendente misterioso che la musica esercita sulla nostra mente e sul nostro corpo. Non ci riesce - per fortuna - neanche il nuovo studio di Oliver Sacks, Musicofilia. Non ce lo svela nonostante il celebre neurologo inglese utilizzi anche in questo volume il classico metodo scientifico dell’«esposizione» di casi clinici. Un metodo che nei primi anni del secolo scorso permise al neurologo sovietico Aleksandr R. Luria di intraprendere un pionieristico studio sul funzionamento del cervello che permetteva di ottenere una visione sistematica dell’organizzazione cerebrale e del rapporto tra questa organizzazione e i processi mentali, non solo quelli elementari ma anche quelli complessi come il linguaggio, la memoria, il pensiero. Il metodo di Sacks è lo stesso: una serie di casi clinici che, in questo caso, «tirano in ballo» la musica. Come al suo solito, però, Sacks ci mette di più: una scrittura narrativa e una passione che trasformano i malati in personaggi e i casi trattati in storie, cosicché al lettore sembra di leggere un romanzo corale sull’umana sofferenza.

In questo caso, tutti i disturbi e le anomalie «musicali» vengono esplorati. E sono tutti misteri. Ad esempio: un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: «Tutti, in quella stanza, sembravano in balia dei loro tic: tic ciascuno con il suo tempo. Vedevo i tic erompere e diffondersi per contagio». Poi il batterista inizia a suonare, e tutti in cerchio lo seguono con i loro tamburi: come per incanto i tic scompaiono, e il gruppo si fonde in una perfetta sincronia ritmica.

Altro esempio: Clive Wearing, musicista e musicologo, a 45 anni viene colpito da una grave forma di encefalite erpetica che lo lascia con una grave amnesia retrograda, in pratica il suo passato viene cancellato, e una altrettanto grave incapacità di ricordare nuovi eventi: la sua memoria copriva non più di qualche secondo. Un uomo senza passato né presente né futuro... Eppure Clive ricordava, suonando il pianoforte, tutto il repertorio classico che aveva suonato fino all’insorgere della malattia.

Sacks ci racconta di pazienti amusici (incapaci di «sentire» la musica, che appare loro come un frastuono), di sordi ossessionati da canzoni che suonano a tutto volume nelle loro orecchie, di savant con doti musicali eccezionali, di chi ha l’orecchio assoluto e di chi vede i colori delle note (sinestesia), della musica che «cura» il Parkinson, lenisce le sofferenze dell’Alzheimer, restituisce l’uso del linguaggio a pazienti afasici.

La sua indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: la memoria fonografica, l’intelligenza musicale in generale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, nei mesi successivi alla tremenda scossa viene assalito da un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Ogni sua storia illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono.

Oliver Sacks non sa spiegarci fino in fondo il perché della straordinaria forza neuronale della musica, come possa permeare quasi tutto il nostro cervello, pur avendo per certi aspetti delle zone specifiche (la memoria musicale è diversa e indipendente dalla memoria verbale, ed è localizzata nell’emisfero destro solo per i non musicisti). E nel capitolo dedicato alla vicenda di Clive Wearing, quando si chiede come mai una persona con il cervello devastato come il suo, una persona che non ricorda nulla del passato e del presente, possa suonare alla perfezione il Clavicembalo ben temperato di Bach, l’autore evoca un’immagine per nulla scientifica, ma molto illuminante, per spiegarci cosa possa «essere» ascoltare, ricordare, fare musica: «Quando “ricordiamo” una melodia, essa suona nella nostra mente; ridiventa viva... Qui, richiamiamo una nota alla volta, e sebbene ogni nota riempia interamente la nostra coscienza, simultaneamente entra in rapporto con il tutto. È come quando camminiamo o corriamo o nuotiamo - lo facciamo compiendo un passo o una bracciata alla volta; eppure ogni passo e ogni bracciata è parte integrante di un tutto, la melodia cinetica del correre e del nuotare».

L’analogia di Sacks ci dà il la per fantasticare sulla natura «automatica» della musica, sul suo fare perno, cioè, a una zona antica e primitiva del nostro cervello. Nella nostra storia la musica non è stata sempre un’attività «ludica», nell’antichità era un mezzo per riappacificarsi con i gesti della vita quotidiana e per congiungersi con quella parte del mondo che potremmo definire «metafisica». D’altra parte l’universo ha una sua musica: Mark Whittle dell’Università della Virginia ha analizzato la cosmic microwave background radiation, ossia il rumore cosmico di fondo, e si è accorto che nel corso della vita dell’universo si sono prodotte leggere variazioni nella sua densità, qualcosa che a noi apparirebbe come onde su un mare altrimenti calmo e uniforme e ha dedotto che per i primi 400mila anni di vita, l’universo ha emesso un acuto vagito, proprio come quello di un neonato, che si è successivamente abbassato di tono fino ad assomigliare a un ruggito profondo. Così come anche la nostra Terra «suona». E se il canto dei nostri antenati non fosse stato altro che una mimesi? E se la filastrocca che cantiamo ai nostri bambini non fosse altro che la nenia mugolata dalle australopiteche ai loro bambini?


NON C’È un luogo nei nostri emisferi cerebrali dedicato esclusivamente alle attitudini musicali che invece sono strettamente connesse alle lingue. I risultati di una ricerca pubblicata su «Nature»

Musica e parole: la stessa origine nel nostro cervello

Non esiste una scala universale di sette note. Tutto è legato alla cultura Le orecchie occidentali non sentono i microtoni delle melodie indiane

di Pietro Greco (l’Unità, 09.06.2008)

Non c’è un’isola della musica nel nostro cervello. Né nell’emisfero destro né altrove. La musica è legata ad altri processi cognitivi, il linguaggio in primo luogo; il suo apprendimento è largamente determinato da fattori culturali; coinvolge, sia pure in maniera differenziata, molte aree cerebrali; non c’è una scala musicale universale; tanto meno quella scala è la nostra, basata sulle sette note che dividono l’ottava.

È questo il messaggio che Aniruddh D. Patel, ricercatore dell’Istituto di neuroscienze di San Diego in California, autore del recentissimo libro «Music, Language, and the Brain» e tra i primi a studiare le basi neurobiologiche delle nostre attitudini musicali attraverso l’analisi dei linguaggi e delle musiche utilizzati nei paesi non occidentali, ha affidato a un articolo pubblicato sulla rivista Nature giovedì scorso. Ed è un messaggio in molte parti nuovo.

L’uomo è una specie musicale, così come è una specie parlante. Ma, come ci ricorda Silvia Bencivelli in un altro libro, «Perché ci piace la musica» pubblicato lo scorso anno dall’editore Sironi, le due funzioni sono state a lungo considerate poco connesse anche dai neuroscienziati che le hanno iniziate a studiare con scientifica sistematicità a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. Diana Deutsch, anche lei neurobiologa in California, nel 1969 dimostrò che la memoria musicale è cosa diversa e indipendente dalla memoria verbale. E pochi anni dopo la psicologa canadese Doreen Kimura ha dimostrato che la memoria musicale è localizzata nell’emisfero destro, mentre quella verbale è localizzata nell’emisfero sinistro.

Vero è che, negli ultimi anni, un’intera costellazione di studi ha dimostrato che questa indipendenza tra quelle nostre due capacità cognitive è più apparente che reale. Già dalla metà degli anni ‘70, per esempio, sappiamo che la localizzazione della memoria musicale nell’emisfero destro vale solo per i non musicisti, chi fa musica per professione o comunque con continuità usa l’emisfero sinistro. E quindi usano strategia di apprendimento e memorizzazione diverse.

Ciò che sappiamo oggi delle basi neurobiologiche della musica è molto di più e di più complesso rispetto a quello che sapevamo solo trent’anni fa. Ma pochi, finora, avevano studiato insieme linguaggi e tradizioni musicali che non appartenessero alla cultura occidentale. Aniruddh D. Patel è tra i pochi pionieri.

Abbiamo capito, per esempio, che la nostra scala musicale non è affatto universale e non si fonda su leggi matematiche assolute, come sosteneva Pitagora. Le scale pelog e slendro della musica gamelan di Giava e Bali, in Indonesia, usano timbri a noi sconosciuti. E le nostre orecchie occidentali neppure riescono a percepire alcuni microtoni della musica indiana e araba. È evidente, dunque, che la nostra scala musicale non è universale. E che non esistono scale universali.

Eppure sulla base di questo assunto (sbagliato) ci siamo formati un’idea (relativamente corretta) sulla percezione del ritmo con cui abbiamo stabilito le prime connessioni tra musica e linguaggio. In particolare tra la sintassi musicale e la sintassi linguistica. Per esempio pensavamo che appartenesse alla sintassi musicale universale il susseguirsi di suoni brevi e lunghi nella percezione normale del ritmo, come succede da noi. Ma in Giappone si verifica esattamente il contrario. E secondo Aniruddh D. Patel ciò è legato alla sintassi del linguaggio: in occidente quando parliamo costruiamo frasi in cui il suono breve di un articolo precede sempre il suono più lungo di un sostantivo - il libro (in italiano), the book (in inglese), le livre (in francese). In Giappone si verifica il contrario: il libro si dice hon-wo, dove hon è il sostantivo e wo è l’articolo. Il ritmo della frase ne è profondamente cambiato. E ciò in relazione con la percezione del ritmo musicale.

Patel ritiene che ci siano molti legami neurobiologici, anche di natura computazionale, tra musica e linguaggio. Per esempio il cervello usa meccanismi simili per processare i suoni non periodici prodotti sia in ambito musicale che in ambito linguistico. E, molto probabilmente nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori usa il medesimo sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni. Ma nel suo articolo su Nature, Patel insiste sullo studio comparato delle musiche e dei linguaggi non occidentali. Ci diranno, sostiene, se i due sistemi di comunicazione hanno un’origine comune e se si sono evoluti da un sistema unico e più generale di riconoscimento dei suoni prodotti nell’ambiente. Diventando al tempo stesso effetto e concausa dello sviluppo delle nostre capacità cognitive.

l’Unità 9.6.08

Il linguaggio del tamburo

Linguaggio e musica sono strettamente correlati, sostiene Aniruddh D. Patel. Lo dimostra tra l’altro il fatto che alcune popolazione del Congo usano il tamburo non solo per fare musica o «parlare», inviandosi messaggi a distanza. Ma anche per fare musica e «parlare» nel medesimo tempo.

Con due particolarità davvero degne di nota. La prima è che il suono prodotto passa del tutto inosservato per chiunque ascolti la musica e non conosca il «linguaggio del tamburo». Il secondo è che il «linguaggio del tamburo» usato dai congolesi mentre fanno musica è un vero linguaggio, perché consente di formare frasi nuove, proprio come facciamo noi con le parole. Anche se la sua efficienza non è paragonabile al linguaggio parlato, a causa del fatto che molte parole nel «linguaggio del tamburo» hanno un tono simile e possono essere facilmente confuse.

Un altro surrogato del linguaggio parlato, sostiene Aniruddh D. Patel, è quello dei fischi, ben modulati nei toni per formare vere e proprie sillabe. Viene usato da diverse popolazioni in Africa, in Asia e in America centrale. Spesso con la stessa ricchezza linguistica. Il bello è che, a differenza del linguaggio parlato, anche il linguaggio dei fischi non viene neppure percepito da chi non lo sa parlare. Le popolazioni Hmong dell’Asia sud-orientale, per esempio, possono dialogare a lungo e noi occidentali neppure ci accorgiamo che lo stanno facendo.


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