IN «MUSICOFILIA» il celebre neurologo Oliver Sacks affronta il tema, ancora misterioso, di un’attività esclusivamente umana, la musica, attraverso le storie di malati che hanno perso il gusto dei suoni o lo hanno ritrovato.
Il nostro cervello? È del tutto suonato
Già alcuni scienziati hanno trovato delle forti connessioni tra la nostra musicalità e il linguaggio Ma nessuno ancora è riuscito a svelare i suoi lati «metafisici» e strettamente affini all’esperienza mistica
di Stefania Scateni (l’Unità 13.06.2008)
«My life was saved by rock’n’roll», cantavano i Velvet Underground; «My life was saved by rock’n’roll», ripeteva, citandoli, Wim Wenders. «La mia vita è stata salvata dalla musica» potrebbero dire milioni di persone in tutto il mondo. Perché la musica può curare e può anche salvare. Ma perché la musica ci salva? Perché può mandarci in estasi? Perché può aprirci le porte della percezione? Perché siamo spinti a suonare e cantare? Perché in tutto il mondo si suona e si canta? Perché la musica è anche un’esperienza spirituale? Perché siamo gli unici esseri viventi sulla terra a farla? Perché questa «attività» così specificamente umana ci dà sollievo, consolazione, gioia, tristezza, disperazione, serenità? Perché ci cambia il corpo, ci fa venire la pelle d’oca, ci muove i piedi? La risposta è ancora nel vento, inseguita da scienziati, paleontologi, neurologi, musicologi, etnologi e quanti altri hanno cominciato a studiarla. La musica è ancora uno dei grandi misteri dell’umanità, e forse rimarrà tale finché non ci rassegneremo ad accettare questo suo aspetto.
Intanto possiamo azzardare l’affascinante ipotesi che il genere umano sia nato cantando. Due gli studi che hanno ampliato le conoscenze in proposito, portando prove alla teoria che i nostri antenati abbiano «cantato» prima di parlare. Il primo, tradotto lo scorso anno dalle edizioni Codice, è quello che Steven Mithen ha raccontato ne Il canto degli antenati. Il lavoro dell’archeologo britannico è partito da una constatazione: la propensione a fare musica è uno dei più affascinanti e al tempo stesso trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha sottovalutato questo campo di studio, relegandolo a prodotto ludico e ricreativo. Diversamente, Mithen, definisce la musica come un adattamento selettivo dell’uomo, ponendola non solo allo stesso livello del linguaggio, ma dimostrando che sarebbe stata la prima forma di comunicazione umana. Una specie di nenia, ipotizza, che usciva dalla bocca degli australopitechi come un «hmmmmmm»...
Il secondo studio è apparso una settimana fa sulla rivista scientifica Nature (e in queste pagine ne ha parlato lunedì scorso Pietro Greco) ed è stato realizzato dal neurobiologo americano Aniruddh D. Patel. Anch’esso «lega» insieme la musica e il linguaggio. Tra i primi ricercatori a studiare le basi neurologiche dell’attitudine musicale, Patel ha analizzato linguaggi e musiche utilizzati nei paesi non occidentali. E, oltre ad aver scoperto quello che ogni musicista e musicologo sa, cioè che la nostra scala musicale non è universale come non lo sono le nostre basi ritmiche, ha trovato molti legami neurobiologici tra musica e linguaggio. Molto probabilmente, scrive lo scienziato, nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori, il cervello usa lo stesso sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni.
Tutto questo ci dice che il nostro cervello potrebbe essersi evoluto da una musicalità primitiva a suoni articolati. Tutto questo comunque non svela né sminuisce l’ascendente misterioso che la musica esercita sulla nostra mente e sul nostro corpo. Non ci riesce - per fortuna - neanche il nuovo studio di Oliver Sacks, Musicofilia. Non ce lo svela nonostante il celebre neurologo inglese utilizzi anche in questo volume il classico metodo scientifico dell’«esposizione» di casi clinici. Un metodo che nei primi anni del secolo scorso permise al neurologo sovietico Aleksandr R. Luria di intraprendere un pionieristico studio sul funzionamento del cervello che permetteva di ottenere una visione sistematica dell’organizzazione cerebrale e del rapporto tra questa organizzazione e i processi mentali, non solo quelli elementari ma anche quelli complessi come il linguaggio, la memoria, il pensiero. Il metodo di Sacks è lo stesso: una serie di casi clinici che, in questo caso, «tirano in ballo» la musica. Come al suo solito, però, Sacks ci mette di più: una scrittura narrativa e una passione che trasformano i malati in personaggi e i casi trattati in storie, cosicché al lettore sembra di leggere un romanzo corale sull’umana sofferenza.
In questo caso, tutti i disturbi e le anomalie «musicali» vengono esplorati. E sono tutti misteri. Ad esempio: un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: «Tutti, in quella stanza, sembravano in balia dei loro tic: tic ciascuno con il suo tempo. Vedevo i tic erompere e diffondersi per contagio». Poi il batterista inizia a suonare, e tutti in cerchio lo seguono con i loro tamburi: come per incanto i tic scompaiono, e il gruppo si fonde in una perfetta sincronia ritmica.
Altro esempio: Clive Wearing, musicista e musicologo, a 45 anni viene colpito da una grave forma di encefalite erpetica che lo lascia con una grave amnesia retrograda, in pratica il suo passato viene cancellato, e una altrettanto grave incapacità di ricordare nuovi eventi: la sua memoria copriva non più di qualche secondo. Un uomo senza passato né presente né futuro... Eppure Clive ricordava, suonando il pianoforte, tutto il repertorio classico che aveva suonato fino all’insorgere della malattia.
Sacks ci racconta di pazienti amusici (incapaci di «sentire» la musica, che appare loro come un frastuono), di sordi ossessionati da canzoni che suonano a tutto volume nelle loro orecchie, di savant con doti musicali eccezionali, di chi ha l’orecchio assoluto e di chi vede i colori delle note (sinestesia), della musica che «cura» il Parkinson, lenisce le sofferenze dell’Alzheimer, restituisce l’uso del linguaggio a pazienti afasici.
La sua indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: la memoria fonografica, l’intelligenza musicale in generale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, nei mesi successivi alla tremenda scossa viene assalito da un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Ogni sua storia illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono.
Oliver Sacks non sa spiegarci fino in fondo il perché della straordinaria forza neuronale della musica, come possa permeare quasi tutto il nostro cervello, pur avendo per certi aspetti delle zone specifiche (la memoria musicale è diversa e indipendente dalla memoria verbale, ed è localizzata nell’emisfero destro solo per i non musicisti). E nel capitolo dedicato alla vicenda di Clive Wearing, quando si chiede come mai una persona con il cervello devastato come il suo, una persona che non ricorda nulla del passato e del presente, possa suonare alla perfezione il Clavicembalo ben temperato di Bach, l’autore evoca un’immagine per nulla scientifica, ma molto illuminante, per spiegarci cosa possa «essere» ascoltare, ricordare, fare musica: «Quando “ricordiamo” una melodia, essa suona nella nostra mente; ridiventa viva... Qui, richiamiamo una nota alla volta, e sebbene ogni nota riempia interamente la nostra coscienza, simultaneamente entra in rapporto con il tutto. È come quando camminiamo o corriamo o nuotiamo - lo facciamo compiendo un passo o una bracciata alla volta; eppure ogni passo e ogni bracciata è parte integrante di un tutto, la melodia cinetica del correre e del nuotare».
L’analogia di Sacks ci dà il la per fantasticare sulla natura «automatica» della musica, sul suo fare perno, cioè, a una zona antica e primitiva del nostro cervello. Nella nostra storia la musica non è stata sempre un’attività «ludica», nell’antichità era un mezzo per riappacificarsi con i gesti della vita quotidiana e per congiungersi con quella parte del mondo che potremmo definire «metafisica». D’altra parte l’universo ha una sua musica: Mark Whittle dell’Università della Virginia ha analizzato la cosmic microwave background radiation, ossia il rumore cosmico di fondo, e si è accorto che nel corso della vita dell’universo si sono prodotte leggere variazioni nella sua densità, qualcosa che a noi apparirebbe come onde su un mare altrimenti calmo e uniforme e ha dedotto che per i primi 400mila anni di vita, l’universo ha emesso un acuto vagito, proprio come quello di un neonato, che si è successivamente abbassato di tono fino ad assomigliare a un ruggito profondo. Così come anche la nostra Terra «suona». E se il canto dei nostri antenati non fosse stato altro che una mimesi? E se la filastrocca che cantiamo ai nostri bambini non fosse altro che la nenia mugolata dalle australopiteche ai loro bambini?
NON C’È un luogo nei nostri emisferi cerebrali dedicato esclusivamente alle attitudini musicali che invece sono strettamente connesse alle lingue. I risultati di una ricerca pubblicata su «Nature»
Musica e parole: la stessa origine nel nostro cervello
Non esiste una scala universale di sette note. Tutto è legato alla cultura Le orecchie occidentali non sentono i microtoni delle melodie indiane
di Pietro Greco (l’Unità, 09.06.2008)
Non c’è un’isola della musica nel nostro cervello. Né nell’emisfero destro né altrove. La musica è legata ad altri processi cognitivi, il linguaggio in primo luogo; il suo apprendimento è largamente determinato da fattori culturali; coinvolge, sia pure in maniera differenziata, molte aree cerebrali; non c’è una scala musicale universale; tanto meno quella scala è la nostra, basata sulle sette note che dividono l’ottava.
È questo il messaggio che Aniruddh D. Patel, ricercatore dell’Istituto di neuroscienze di San Diego in California, autore del recentissimo libro «Music, Language, and the Brain» e tra i primi a studiare le basi neurobiologiche delle nostre attitudini musicali attraverso l’analisi dei linguaggi e delle musiche utilizzati nei paesi non occidentali, ha affidato a un articolo pubblicato sulla rivista Nature giovedì scorso. Ed è un messaggio in molte parti nuovo.
L’uomo è una specie musicale, così come è una specie parlante. Ma, come ci ricorda Silvia Bencivelli in un altro libro, «Perché ci piace la musica» pubblicato lo scorso anno dall’editore Sironi, le due funzioni sono state a lungo considerate poco connesse anche dai neuroscienziati che le hanno iniziate a studiare con scientifica sistematicità a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. Diana Deutsch, anche lei neurobiologa in California, nel 1969 dimostrò che la memoria musicale è cosa diversa e indipendente dalla memoria verbale. E pochi anni dopo la psicologa canadese Doreen Kimura ha dimostrato che la memoria musicale è localizzata nell’emisfero destro, mentre quella verbale è localizzata nell’emisfero sinistro.
Vero è che, negli ultimi anni, un’intera costellazione di studi ha dimostrato che questa indipendenza tra quelle nostre due capacità cognitive è più apparente che reale. Già dalla metà degli anni ‘70, per esempio, sappiamo che la localizzazione della memoria musicale nell’emisfero destro vale solo per i non musicisti, chi fa musica per professione o comunque con continuità usa l’emisfero sinistro. E quindi usano strategia di apprendimento e memorizzazione diverse.
Ciò che sappiamo oggi delle basi neurobiologiche della musica è molto di più e di più complesso rispetto a quello che sapevamo solo trent’anni fa. Ma pochi, finora, avevano studiato insieme linguaggi e tradizioni musicali che non appartenessero alla cultura occidentale. Aniruddh D. Patel è tra i pochi pionieri.
Abbiamo capito, per esempio, che la nostra scala musicale non è affatto universale e non si fonda su leggi matematiche assolute, come sosteneva Pitagora. Le scale pelog e slendro della musica gamelan di Giava e Bali, in Indonesia, usano timbri a noi sconosciuti. E le nostre orecchie occidentali neppure riescono a percepire alcuni microtoni della musica indiana e araba. È evidente, dunque, che la nostra scala musicale non è universale. E che non esistono scale universali.
Eppure sulla base di questo assunto (sbagliato) ci siamo formati un’idea (relativamente corretta) sulla percezione del ritmo con cui abbiamo stabilito le prime connessioni tra musica e linguaggio. In particolare tra la sintassi musicale e la sintassi linguistica. Per esempio pensavamo che appartenesse alla sintassi musicale universale il susseguirsi di suoni brevi e lunghi nella percezione normale del ritmo, come succede da noi. Ma in Giappone si verifica esattamente il contrario. E secondo Aniruddh D. Patel ciò è legato alla sintassi del linguaggio: in occidente quando parliamo costruiamo frasi in cui il suono breve di un articolo precede sempre il suono più lungo di un sostantivo - il libro (in italiano), the book (in inglese), le livre (in francese). In Giappone si verifica il contrario: il libro si dice hon-wo, dove hon è il sostantivo e wo è l’articolo. Il ritmo della frase ne è profondamente cambiato. E ciò in relazione con la percezione del ritmo musicale.
Patel ritiene che ci siano molti legami neurobiologici, anche di natura computazionale, tra musica e linguaggio. Per esempio il cervello usa meccanismi simili per processare i suoni non periodici prodotti sia in ambito musicale che in ambito linguistico. E, molto probabilmente nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori usa il medesimo sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni. Ma nel suo articolo su Nature, Patel insiste sullo studio comparato delle musiche e dei linguaggi non occidentali. Ci diranno, sostiene, se i due sistemi di comunicazione hanno un’origine comune e se si sono evoluti da un sistema unico e più generale di riconoscimento dei suoni prodotti nell’ambiente. Diventando al tempo stesso effetto e concausa dello sviluppo delle nostre capacità cognitive.
l’Unità 9.6.08
Il linguaggio del tamburo
Linguaggio e musica sono strettamente correlati, sostiene Aniruddh D. Patel. Lo dimostra tra l’altro il fatto che alcune popolazione del Congo usano il tamburo non solo per fare musica o «parlare», inviandosi messaggi a distanza. Ma anche per fare musica e «parlare» nel medesimo tempo.
Con due particolarità davvero degne di nota. La prima è che il suono prodotto passa del tutto inosservato per chiunque ascolti la musica e non conosca il «linguaggio del tamburo». Il secondo è che il «linguaggio del tamburo» usato dai congolesi mentre fanno musica è un vero linguaggio, perché consente di formare frasi nuove, proprio come facciamo noi con le parole. Anche se la sua efficienza non è paragonabile al linguaggio parlato, a causa del fatto che molte parole nel «linguaggio del tamburo» hanno un tono simile e possono essere facilmente confuse.
Un altro surrogato del linguaggio parlato, sostiene Aniruddh D. Patel, è quello dei fischi, ben modulati nei toni per formare vere e proprie sillabe. Viene usato da diverse popolazioni in Africa, in Asia e in America centrale. Spesso con la stessa ricchezza linguistica. Il bello è che, a differenza del linguaggio parlato, anche il linguaggio dei fischi non viene neppure percepito da chi non lo sa parlare. Le popolazioni Hmong dell’Asia sud-orientale, per esempio, possono dialogare a lungo e noi occidentali neppure ci accorgiamo che lo stanno facendo.
Le parole che abbiamo in testa
Esiste una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello
Gli scienziati dell’università di Berkeley hanno scoperto che in punti precisi della corteccia cerebrale trovano casa i vocaboli che adoperiamo per comunicare. È il primo passo per costruire un dizionario dei pensieri?
Sette volontari sono stati analizzati con risonanza magnetica mentre ascoltavano la radio
Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno oggetto delle prossime ricerche
di Elena Dusi (la Repubblica, 28.04.2016)
Ogni parola ha la sua casa, nel cervello. E da oggi il sistema semantico che usiamo per parlare non è più un “hic sunt leones”. Un atlante del linguaggio è stato disegnato dai neuroscienziati dell’università di Berkeley. Un migliaio di termini hanno trovato la loro casa in un punto preciso (in alcuni casi più di uno) della corteccia cerebrale, la parte più esterna, evoluta del nostro organo del pensiero. La scoperta conferma che tutto il cervello - e non, come voleva il vecchio mito, solo l’emisfero sinistro - è coinvolto nel linguaggio. E dimostra che, sia pur tra le differenze individuali, la “cartina stradale” delle nostre parole resta uguale tra una persona e l’altra.
Gli scienziati di Berkeley che oggi pubblicano il loro studio sulla copertina di Nature sono partiti da una radio accesa. Il “Moth Radio Hour” è un programma di successo americano in cui una persona sta in piedi in una stanza con una luce puntata sul viso e un microfono davanti alla bocca. Attorno ha un gruppo di estranei cui deve raccontare un episodio della propria vita. Trasmessi via radio, i racconti sono stati ascoltati a Berkeley da sette volontari, con gli occhi bendati, chiusi per un paio d’ore in una risonanza magnetica.
Mentre i narratori del “Moth Radio Hour” raccontavano, i volontari ascoltavano e la risonanza magnetica registrava quali gruppi di neuroni della corteccia cerebrale si “accendevano” a ogni parola. Tutta questa mole di dati è finita in una mappa del cervello a tre dimensioni, con i termini dal significato simile raggruppati in genere - ma con diverse eccezioni - in una stessa area. Accanto alla tempia destra, per esempio, racchiusi in uno spazio di pochi millimetri cubici, hanno la loro dimora pa-che role come “moglie”, “madre”, “incinta”, “famiglia”. «A volte - scrivono i ricercatori - questo atlante diventa intricato.
Non sempre a un termine corrisponde una sola localizzazione». La parola “moglie”, infatti, compare anche in un’altra area della corteccia, accanto a “casa” e ad altri vocaboli relativi a luoghi. La voce inglese “top” si ritrova in ben tre punti: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico, in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine tra i numeri e le unità di misura. Altri esempi sono raccontati in un video disponibile su www. nature. com. L’atlante semantico del cervello, in tutti i suoi dettagli e i suoi colori sgargianti può anche essere percorso online sul sito http:// gallantlab. org/ huth2016.
Come atlante sembrerebbe piuttosto caotico, ma il fatto che appaia molto simile fra tutti i volontari studiati suggerisce che una logica debba pur esserci. «Abbiamo trovato per esempio - spiega il coordinatore della ricerca, il neuroscienziato di Berkeley Alexander Huth - che i termini relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in un’area deputata anche al ragionamento spaziale. E questo ha molto senso».
Sarà forse prematuro oggi pensare a un dizionario in grado di decodificare i pensieri. «Ma nel momento in cui abbiamo una carta geografica delle nostre parole - spiega Stefano Cappa, professore di neurologia all’Istituto universitario di studi superiori (Iuss) di Pavia - possiamo ipotizzare di usarla per decodificare ciò che una persona sta pensando». Leggendo quali punti del cervello si illuminano in un determinato istante, un apparecchio simile alla risonanza magnetica potrebbe associarlo al termine relativo, permettendoci di leggere nel pensiero - come suggeriscono anche i ricercatori di Berkeley nel loro studio - di quelle persone cui una malattia impedisce di parlare.
Non è un caso che alla mappatura del cervello e delle connessioni fra i suoi 100 miliardi di neuroni - qualcuno li paragona al numero di stelle - siano dedicati due fra i più grandi programmi scientifici del momento: lo Human Brain Project, avviato nel 2013 e finanziato dall’Unione Europea con un miliardo di euro, e la Brain Initiative, annunciata sempre nel 2013 dal presidente americano Barack Obama e finanziata finora con svariate centinaia di milioni di dollari.
L’idea che una facoltà così complessa e per molti versi indecifrabile come il linguaggio possa essere racchiusa in una “cartina stradale” incontra ovviamente anche molte perplessità. «Mappare il nostro dizionario è un sogno che coltiviamo da tempo » spiega Andrea Moro, che allo Iuss insegna linguistica generale. «Ma prima di cercare come è organizzato il linguaggio nel cervello, bisogna capire come lo è nella mente». Se lo studio di Berkeley ha mappato un migliaio di termini, perlopiù concreti, «dove collocheremmo il verbo essere o una particella così complessa come “se”?» si chiede Moro. «Prima dei neuroscienziati, devono essere i linguisti a stilare una sorta di tavola periodica della facoltà del parlare, che descriva quali sono gli elementi primitivi del linguaggio».
Paolo Leonardi, che insegna filosofia del linguaggio all’università di Bologna, trova molte domande rimaste senza risposta nello studio americano: «Non si spiega ad esempio come le aree associate alle varie parole siano coinvolte nella produzione linguistica. O come siano collegate alle aree dove registriamo la percezione degli oggetti che queste parole nominano».
Per Alessandro Treves, fisico di formazione e docente di “Basi neurali della conoscenza” alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, «l’informatica e l’uso di algoritmi sempre più avanzati ci permettono di ottenere risultati così raffinati. Ma dobbiamo pensare al linguaggio come a un concerto che coinvolge varie aree del cervello. La corteccia va considerata come un tutt’uno. Associare una parola a un punto isolato rischia di portarci fuori strada».
Il fatto che tutti i volontari dello studio (fra cui lo stesso Huth) abbiano mostrato di avere lo stesso “atlante del linguaggio” sembrerebbe suggerire che nel nostro cervello esistono basi innate per la parola. Ma per dimostrarlo bisognerebbe estendere l’esperimento a persone di lingue o culture diverse, e soprattutto alla sintassi.
«La partita fra chi appoggia la teoria della grammatica universale di Noam Chomsky e chi propende per la tesi del linguaggio come frutto di apprendimento si gioca infatti sulla sintassi, non sulla semantica» spiega Treves.
Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno i prossimi tasselli da studiare, annunciano oggi i ricercatori di Berkeley. Il loro atlante è una prima rappresentazione di come il cervello organizza il suo linguaggio. Altri esploratori adesso dovranno occuparsi di tracciarne i dettagli.
Ma le emozioni che ci fanno unici resteranno un mistero
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 28.04.2016)
Come studiare il cervello, e il modo in cui comprende le parole e le storie? Non è affatto detto che la domanda sia ben posta: ma certo è necessario porsela almeno qualora si voglia trovare una possibile scorciatoia che colleghi ciò che fisicamente accade nel nostro corpo agli stimoli linguistici che riceve. La si può chiamare “scorciatoia”, perché in effetti taglia fuori tutto il regime del simbolico (per dirla con Jacques Lacan). Il presupposto è che quelli linguistici siano appunto stimoli, recepiti dal corpo (sia pure nella sua parte ritenuta più nobile): basterebbe trovare il punto di passaggio fra l’uno e gli altri per risolvere ogni questione. La psiche non è rilevata dagli strumenti diagnostici a disposizione e quindi viene espulsa dalla considerazione scientifica.
Ma sarà proprio così? Ed è davvero il “cervello”, inteso come organo anatomico, a comprendere il linguaggio? Le componenti chimiche emanate da un fiore raggiungono i recettori del nostro olfatto e vengono poi categorizzate dalla nostra mente: con le macchine giuste si può capire quali zone del cervello reagiscano agli stimoli olfattivi. Cosa succeda poi quando uno ascolta la canzone che fa «Fiori rosa, fiori di pesco», o quando assaggia una «petite madeleine » con Proust o ancora, con Mallarmé, sente levarsi «l’absente de tout bouquets» proprio non si sa, o almeno non se ne trova segno univoco nei tracciati della risonanza magnetica.
Il punto di partenza della ricerca pubblicata da Nature è che il «sistema semantico» sia «collettivamente riconosciuto» come corrispondente a certe «regioni della corteccia cerebrale», che occorre determinare. Punto di partenza: dunque presupposto, se non pregiudizio. È questa un’idea come un’altra, che però pone nel nulla almeno un secolo di riflessioni e analisi sul linguaggio come associazione psichica di significanti e significati (Ferdinand de Saussure, primo Novecento), e interrelazione di potenzialità associative e capacità combinatorie: una facoltà appresa socialmente, mobile, flessibile. Anche tipicamente umana, perché l’uomo è una creatura che viene al mondo precocemente e prolunga la duttile fase del proprio apprendimento sino a farne della capacità di variare il proprio comportamento il suo migliore atout.
La evoluzione dell’uomo (come specie e individuo) è appunto consegnata a questa strenua capacità di adattamento. L’ipotesi che si può fare, a partire dalle tesi linguistiche e semiotiche di Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Eco e da quelle evoluzionistiche di uno Stephen Jay Gould, è che quanto la specie umana ha di formidabile è la capacità eclettica dei suoi apparati.
Se uno dei maggiori misteri dell’antropologia è il linguaggio è proprio perché esso risiede in una sorta di “cloud”, raggiungibile da ogni organismo umano, appartenente a nessuno. Roger Caillois pensava che la differenza fra gli uomini e gli altri animali è che fra l’uomo e l’impulso che lo raggiunge esiste sempre “un’immagine interposta”. Il linguaggio sta lì, in quella zona intermedia. Difficile trovare scorciatoie. Detto questo, in bocca al lupo a chi le cerca.
Un solo cervello ma sguardi infiniti
Umanisti L’ultimo libro di Oliver Sacks, scomparso il 30 agosto dell’anno scorso, passa in rassegna una serie di disfunzioni e malattie neurologiche che, insieme, restituiscono una riflessione articolata sulla realtà e la percezione. Ogni sensazione sta in rapporto con altre sensazioni
di Pietro Citati (Corriere della Sera, La Lettura, 20.03.2016)
Oliver Sacks, di cui la casa editrice Adelphi pubblica un bellissimo libro, L’occhio della mente, è una delle persone più curiose che siano mai esistite. La realtà lo incanta, lo affascina, lo diverte: quanto più è diversa, strana, contraddittoria, multiforme. Nel cuore della realtà esiste qualcosa di vertiginoso: il cervello. In tutti i suoi ricchissimi libri, e specialmente negli ultimi, Sacks ha studiato le molteplici connessioni e interazioni di una parte del cervello con tutte le altre, e la loro adattabilità. Esso si può paragonare a un’orchestra enormemente complicata, formata da migliaia o decine di migliaia di strumenti: inutile cercare un direttore; l’orchestra si dirige da sola, seguendo un repertorio e una partitura in continuo cambiamento.
La vita del cervello dipende da malattie interdipendenti, che Sacks (1933-2015), nei suoi primi libri, studiava dal punto di vista di un uomo sano. Ora, ne L’ occhio della mente , egli è invece un malato che studia altri malati, rivalutando la malattia e le sue risorse. Dopo aver letto il libro, il mondo diventa immensamente più ricco e più vario: la malattia ha un fortissimo aspetto creativo. Sacks aveva sempre avuto difficoltà a riconoscere i volti e gli oggetti.
Quando era adolescente, non riusciva a individuare i suoi compagni di scuola. Se faceva una passeggiata, doveva ripetere sempre lo stesso percorso, sapendo che se se ne fosse distaccato anche di poco, si sarebbe irrimediabilmente perduto. Anche a settantasei anni, ha lo stesso problema: a volte, non sa riconoscere un uomo col quale aveva parlato pochi minuti prima. La malattia di Sacks ha un nome scientifico: prosopagnosia. I malati di questa malattia sono spesso incapaci di individuare il marito o la moglie o i figli. Uno studioso descrive un uomo «che non riesce nemmeno a ricordare la propria faccia». Oppure un uomo che vede benissimo gli occhi, il naso e la bocca di un altro uomo, ma non sa metterli insieme ed accordarli: vede le singole parti degli oggetti, senza riconoscerli.
Chi guarda possiede di solito un dono: la stereoscopia: i due occhi permettono di vedere il mondo in rilievo e in profondità; ma il dieci per cento degli esseri umani manca del tutto o in parte di questo dono. Qualche volta, un malato acquista la visione stereoscopica che non possedeva: all’improvviso, possiede un senso in più; è una specie di assoluta rivelazione. O, al contrario, egli perde la stereoscopia: allora il suo mondo visivo si appiattisce; non scorge i gradini di una scala, tanto che scenderla diventa per lui una esperienza quasi terrificante. La stereoscopia resta viva nei sogni, dove il mondo torna ad avere profondità e rilievo.
Questa incapacità di riconoscere trasforma il mondo in una selva mostruosa. Una pianista, Lillian Kallir, doveva eseguire il Concerto n. 22 di Mozart, che aveva suonato decine di volte. Quando esaminò la partitura, un giorno del 1991, la trovò totalmente inintelligibile. Sebbene vedesse, chiari e ben definiti, pentagramma, linee e singole note, nulla le pareva coerente o dotato di una minima logica. Col tempo le cose peggiorarono. Quando compiva tournée in giro per il mondo, doveva far sempre più affidamento sulla memoria, giacché ormai le era impossibile imparare nuovi brani leggendo le partiture. Cominciò ad avere difficoltà con le parole. C’erano giorni buoni e meno buoni: sulle prime, una frase poteva sembrarle strana e inintelligibile; e poi, all’improvviso, tutto si schiariva, e non aveva difficoltà a leggere. La capacità di scrivere era rimasta invece assolutamente integra. Era divisa: sapeva scrivere ma non leggere.
Lo stesso capitò a uno scrittore di gialli, Howard Engel. Una mattina del gennaio 2002, si alzò dal letto. Si sentiva benissimo: si vestì, fece colazione, ritirò il giornale davanti alla porta di casa. Ma non riuscì a leggerlo. Le lettere erano le solite ventisei: solo che, quando le metteva a fuoco, sembrava ora cirillico, ora coreano.
Nel dicembre 2005, un esame scoprì che Sacks aveva un tumore maligno all’occhio destro. L’oculista, David Abramson, lo sottopose a radiazioni. Sacks si svegliò come da un incubo. Nel momento in cui aprì l’occhio destro, scoprì che il mondo era trasformato. L’Oscurità aveva guadagnato terreno - adesso, a sinistra, intravide a malapena qualcosa. Sapeva che l’oculista era eccellente: era nelle migliori mani possibili; ma, dentro di sé, si sentiva un bambino terrorizzato, un bambino che chiedeva aiuto gridando: «Morirò di melanoma?».
Questo pensiero stava sempre fisso nella sua mente. Qualche giorno dopo, l’Oscurità era ancora avanzata, circondando la sua piccola isola visiva. Con il solo occhio destro non riusciva a leggere: le righe erano indistinte, sfuggenti, grossolanamente distorte; oscillavano da un momento all’altro. Poi non poté più leggere nemmeno i titoli cubitali del «New York Times». A malapena vedeva il cielo: guardando il centro del ventilatore nel soffitto della sua stanza, scoprì che tre delle cinque pale erano invisibili al suo occhio destro. L’idea della cecità completa lo terrorizzava.
Durante l’operazione all’occhio, Sacks scivolò in un’incoscienza più profonda del sonno più profondo. Quando si svegliò, era loquace, leggermente euforico, insolitamente gioviale e socievole, e continuava a chiacchierare con tutte le infermiere. A distanza di sei ore, disteso a letto, vedeva di tanto in tanto piccole luci, scintillii dell’occhio destro. Se guardava solo con l’occhio sinistro, non aveva alcuna percezione della profondità e della distanza delle cose: era un assaggio di quello che sarebbe accaduto se avesse perso la visione centrale dell’occhio destro. Poi subì un improvviso, violentissimo dolore all’occhio: scorse un tumulto di forme violacee raggianti - stelle marine, margherite, che si espandevano verso l’esterno da una moltitudine di punti separati. Tutto era instabile: egli guardava attraverso una moltitudine fluida in movimento. Ogni forma era mobile e distorta. Sentiva che sul suo occhio destro era calata, molto più velocemente di quanto attendesse, qualcosa di molto simile alla cecità. Ma non poteva sopportare di diventare cieco. Viveva in un mondo di parole. Aveva bisogno di leggere: gran parte della sua vita era fatta di lettura. Ora, questo mondo gli sarebbe stato interdetto quasi completamente.
Nell’aprile 2007, le distorsioni all’occhio sinistro erano divenute estreme: ciò comprometteva la visione anche quando aveva entrambi gli occhi aperti. Gli esseri umani si trasformavano davanti a lui in bizzarre figure allungate: personaggi di El Greco, tutti inclinati a sinistra. L’acume visivo dell’occhio destro precipitò a tre decimi. Non riusciva a leggere nemmeno le lettere più grandi sullo schermo. La vista era talmente diminuita, ed era così distorta, che Sacks cominciò a chiedersi se non avrebbe vissuto meglio senza residui di visione centrale all’occhio destro.
Fu di nuovo operato. Quando tolse la fasciatura, un’enorme opacità nera gli oscurava in parte la visione centrale. Quando andò davanti allo specchio del bagno, con l’occhio destro non vedeva la propria testa, ma soltanto le spalle e la parte inferiore del busto. Se scriveva, non vedeva la parte inferiore della penna. Quando uscì di casa, scorgeva soltanto le gambe dei passanti. Perse la stereoscopia. Il suo mondo visivo si appiattì: era una sensazione detestabile. Attraversare le strade, salire e scendere le scale - tutte operazioni che prima non richiedevano alcuna attenzione consapevole - gli imposero di essere previdente ogni minuto. La mattina si svegliava in un mondo caotico, dove tutto era sottosopra, ridotto a una piatta confusione.
L’ultimo saggio del libro è il più bello. Sacks racconta le avventure di un individuo privato di una singola forma di percezione: egli si riplasma completamente attorno a un nuovo centro, conquistando una nuova identità. In coloro, per esempio, che sono nati ciechi, le parti visive del cervello non degenerano: rimangono attive, elaborando funzioni visive, olfattive, uditive o tattili. Esiste una categoria di ciechi visualizzatori, che posseggono una prodigiosa capacità di immaginazione legata ad altri sensi; e diventano addirittura molto più sensibili alle emozioni degli altri. Dunque non possiamo affermare la natura esclusivamente visiva, uditiva, tattile od olfattiva di nessuna nostra percezione. Le diverse aree di quella meravigliosa orchestra di sensazioni che è il cervello, sono interconnesse. Ogni minima sensazione sta in rapporto con tutte le altre sensazioni. La nostra mente è un Uno.
Scienziato umanista
Nel profondo della psiche
Il viaggio di Oliver Sacks 1933-2015
Confessioni appassionate di un neurologo inquieto: sensi di colpa, esperienze estreme, sete di conoscenza ma anche voglia di vivere e amore per i pazienti
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 21.12.2015)
Come dice il titolo del suo libro ( In movimento. Una vita, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi) l’impulso fondamentale di Oliver Sacks era il movimento. Durante l’ultima guerra mondiale, venne rinchiuso ed esiliato in un collegio, dove provò una intensissima sensazione di prigionia e di impotenza: desiderava con tutto se stesso energia, spostamento, libertà e poteri sovrumani. I genitori lo vedevano come un figlio pazzo, dalle follie e dai comportamenti impropri: il padre e sopratutto la madre lo amavano con un amore senza ambivalenze e condizioni; sembrava che non ci fosse limite alla capacità di comprensione, all’apertura e alla generosità del figlio. Entrambi i genitori componevano storie cliniche; e gli comunicarono l’impulso e il gusto di scriverle.
Da ragazzo, Oliver Sacks vinse un premio letterario di cinquanta sterline, e subito comprò per quarantaquattro sterline i dodici volumi dell’ Oxford English Dictionary: l’opera, per lui, più desiderata e desiderabile; sino alla vecchiaia, ogni tanto ne prendeva un volume dallo scaffale, e leggeva qualche voce prima di addormentarsi. Il Dictionary era il simbolo del suo amore per l’Inghilterra: sebbene abbia trascorso la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti, tornava in patria appena possibile, e ogni volta che ci posava il piede immaginava di essere uno scrittore più profondo e più solido. In America Sacks sentì sempre se stesso come uno straniero: amico, rispettoso, attento a ciò che gli accadeva intorno; ma senza alcuna responsabilità civile come il voto, senza il dovere di servire da giurato, o la necessità di aderire alla attività politica. Come scrisse una volta, negli Stati Uniti, Sacks si sentiva come un «antropologo su Marte».
Avvertì presto le proprie inclinazioni omosessuali: quando la madre scoprì la vocazione del figlio, si indignò, e le sue parole di aspra condanna ebbero un ruolo fondamentale nel permeare la sessualità di Sacks di un profondo senso di colpa. Era timido e reticente: non era capace di conversare con disinvoltura: gli era difficile riconoscere le persone; conosceva poco gli avvenimenti correnti, politici, sociali o sessuali, per i quali nutriva uno scarso interesse. In vecchiaia, diventò sordo; e si ritirò in un angolo, sperando di essere invisibile e ignorato. Come diceva con qualche esagerazione, il suo pensiero era divagante, disordinato e approssimativo, composto di strane associazioni e divagazioni mentali. Si sentiva duplice. Cercò di rovesciare il senso di colpa e di disordine ubriacandosi: l’alcol saliva direttamente al cervelletto, saltando rapidamente oltre il resto del corpo.
Quando Sacks studiò alla facoltà di medicina di Oxford, lo affascinò la fisiologia delle sensazioni. Come facciamo a vedere il colore, la profondità e il movimento? Come facciamo a riconoscere qualsiasi cosa? Come facciamo a farci un’idea visiva del mondo? Aveva sviluppato quest’interesse fino dai primi mesi di vita, a causa delle sue emicranie visive: nel corso di un’aura emicranica, poteva perdere il senso del colore o della profondità o del movimento; e persino la capacità di riconoscere qualsiasi cosa. Davanti ai suoi occhi, ciò che vedeva era smontato e rimontato. L’atto del pensiero gli sembrava esclusivamente emotivo, libero da qualsiasi concetto.
Col passare degli anni, le sue conoscenze scientifiche diventarono quasi universali: studiò medicina, chirurgia, ortopedia, pediatria, neurologia, psichiatria, dermatologia, infettivologia, ostetricia. Sopratutto la medicina era, per lui, un’esperienza nuova: visitare i pazienti, ascoltarli, cercare di entrare nelle loro esperienze e nelle loro situazioni (o almeno immaginarle), sentirsi preoccupato per loro, assumersi la responsabilità dei loro casi: tutto questo, per lui, era ignoto. Non si accontentò dei limiti impostigli dalla condizione umana: studiava gli invertebrati, i lombrichi, le creature marine. Aveva un grande desiderio di sapere qualcosa di più sui sistemi nervosi e i comportamenti primitivi. Soprattutto nella vasta gamma degli invertebrati, scorgeva all’opera l’inventiva e la genialità creatrice della natura.
Nel 1960 Sacks fece il grande balzo. Arrivò a San Francisco, per studiare sotto la direzione di due neurochirurghi, pionieri nell’arte della chirurgia stereotassica, una tecnica che consente di inserire un ago direttamente in aree circoscritte del cervello, altrimenti inaccessibili. Era nel Nuovo Mondo: una società libera e senza classi, dove i professori universitari discorrevano con i camionisti. Entro certi limiti, poteva fare ciò che voleva: la collaborazione tra i due neurochirurghi, che avevano menti e culture diversissime, lo affascinò. Ascoltò una conferenza di Aldous Huxley, dominata da uno spirito, un calore, una memoria e un’eloquenza che gli parvero impareggiabili.
Quando era in Inghilterra aveva già cominciato a correre in motocicletta: di prima mattina si svegliava e si sentiva intensamente vivo, con l’aria sulla faccia e il vento sul corpo. Ora, giunto in America, comprese che quella del motociclista era la sua condizione mentale privilegiata. Acquistò una nuova motocicletta, una R60, il più affidabile di tutti i modelli Bmw; e in due mesi fece un viaggio di tredicimila chilometri, riempiendo diversi taccuini di appunti. Le strade erano meravigliosamente sgombre: viaggiava per ore senza vedere nessuno. Il motore silenzioso della moto, quell’apparente procedere senza sforzo, conferiva al movimento una qualità onirica. Il pilota e il veicolo diventavano un’unità indivisibile. Sacks guidava per tutta la notte, abbassato sul serbatoio: quando stava disteso, riusciva a fare più di centosessanta chilometri all’ora. Illuminata dal faro o dalla luna piena, la strada d’argento era risucchiata sotto la moto. Gli sembrava di stare scrivendo una linea sulle superfici del pianeta: oppure di essere immobile sul terreno, mentre il pianeta ruotava silenziosamente sotto le ruote. Ogni fine settimana, percorreva almeno millecinquecento chilometri: ma la mattina del lunedì si presentava al reparto di neurologia con un’aria fresca e riposata, come se avesse dormito per due giorni.
Negli stessi anni Sacks coltivò un’esperienza opposta: la vita dominata dalle droghe; viaggi segreti, mai condivisi, mai menzionati a nessuno. Diventò preda delle anfetamine: tutto era subordinato alla stimolazione dei centri cerebrali del piacere. Quando era pieno di anfetamine, si sentiva ossessionato e inerme: continuava a prenderne dosi sempre più alte, spingendo la frequenza cardiaca e la pressione verso livelli quasi letali. Non ne aveva mai abbastanza. L’estasi indotta dalle anfetamine era autosufficiente: non aveva bisogno di nulla e di nessuno per completare il proprio piacere; l’estasi era completa, anche se del tutto vuota. Ogni altro fine, obiettivo, interesse e desiderio scomparivano in questa vacuità assoluta. Quando i colleghi gli domandavano cosa avesse fatto nei giorni del fine settimana, rispondeva: «Sono stato via».
Diventò un consumatore di droga avventato, disposto a provare quasi di tutto, precipitando in stati simili alla schizofrenia, che a volte si protraevano per mesi. Le anfetamine producevano un enorme slancio afrodisiaco, e sviluppavano specialmente il senso dell’olfatto. Nel novembre 1965 prendeva ogni giorno enormi dosi di anfetamine e, ogni notte, incapace come era di dormire, enormi dosi di cloralio idrato, un ipnotico. Ebbe allucinazioni e deliri stranissimi: fu assalito dal delirium tremens. Mangiava pochissimo: perse trentacinque chili in tre mesi, e tollerava a mala pena la vista della sua faccia emaciata nello specchio. Dormiva tre ore per notte. Visse per mesi col rischio di cadere nell’abisso assoluto, e fu salvato dal lavoro clinico e dalle cure di un analista, senza le quali non sarebbe sopravvissuto.
Nell’autunno del 1966 Sacks cominciò a visitare i pazienti del Bath Abraham College: tra i cinquecento ricoverati, un’ottantina erano i sopravvissuti delle epidemie di encefalite letargica, che era dilagata in tutto il mondo al principio degli anni Venti. Molti di essi erano congelati in uno stato parkinsoniano profondo: alcuni pietrificati, non incoscienti, ma con la coscienza sospesa fino al momento in cui la malattia li aveva assaliti; dietro all’aspetto bloccato vi erano spesso menti e personalità intatte, che in talune occasioni potevano venir liberate per pochissimo tempo, ballare o cantare. Sacks passò un anno e mezzo a osservare i pazienti e a prendere appunti, talvolta registrandoli e filmandoli. Si chiese se la L-dopa (un precursore della dopamina) potesse soccorrere quelle figure gelate; e nel giro di qualche settimana essa produsse un effetto spettacolare. Molti pazienti tornarono in modo dirompente alla vita, alla mobilità e alla conoscenza: altri reagirono al farmaco in modo strano e complicato, come nella sindrome di de la Tourette.
Cominciò a scrivere il suo libro più noto, Risvegli: il modello era il capolavoro di un neuropsicologo russo, A.R. Lurija, una dettagliata e profondissima descrizione di un caso clinico, che combinava analisi scientifica e narrazione. Anche Sacks voleva fondere l’obiettività dello scienziato con l’intensa sensazione di un contatto umano: trovare la vicinanza con i pazienti e l’autentica meraviglia nata da questo contatto. Non avrebbe mai potuto scrivere il suo libro senza l’incoraggiamento e l’autorizzazione degli stessi pazienti, che avevano la sensazione di essere stati esclusi dal mondo, messi da parte, dimenticati; essi volevano che qualche medico raccontasse la loro storia, con solidarietà, empatia e compassione. Sacks sapeva di essere innamorato di loro: quel tipo di amore, di affinità che si trasforma in rivelazione e fa vedere la realtà con assoluta chiarezza.
Quando Harold Pinter portò sulla scena Risvegli, Sacks passò molto tempo sul set. Mostrò agli attori come sedevano i pazienti parkinsoniani, immobili con il volto inespressivo, senza alcun lampo negli occhi: la testa rovesciata all’indietro, o girata da un lato; la bocca spesso aperta, mentre un filo di saliva scendeva dalle labbra. Mostrò agli attori come essi stavano in piedi o si sforzavano di farlo: come camminavano, spesso curvi, a volte accelerando il passo: come si bloccavano, si congelavano, senza essere più in grado di muoversi; come giocavano a carte, con le carte disperatamente strette fra le mani, finché qualcuno pronunciava una parola, e tutto, all’improvviso, si scioglieva in movimento.
L’ultima parte di In movimento è bellissima e tragica: Sacks ambisce naturalmente alla condizione tragica, che si nasconde dietro l’apparenza mobile e variegata della sua prosa. Gli venne diagnosticata una commozione cerebrale: era incapace di distinguere i colori e le lettere, che gli apparivano in caratteri greci. Ogni cosa si presentava come se la stesse guardando su uno schermo televisivo in bianco e nero. Nel giro di qualche giorno, riuscì nuovamente a distinguere le lettere: il suo sguardo si fece acuto come quello di un’aquila; ma non riusciva assolutamente a scorgere i colori. Dopo una vita intera in cui aveva visto il mondo godendo di un senso ricco e magnifico della profondità colorata, ora Sacks trovava la realtà così piatta e confusa che gli sembrava di aver perso il senso stesso della profondità e della distanza.
Nel dicembre del 2005, un melanoma lo assalì all’occhio destro: con una fulminea incandescenza su un lato, e poi una cecità parziale. Il tumore fu irradiato e attaccato a più riprese con il laser: dapprima la vista dell’occhio destro fluttuò quasi ogni giorno, passando dalla quasi cecità alla quasi normalità; e la sua mente lo scagliava dal terrore al sollievo e dal sollievo al terrore. Sarebbe stato difficile, per Sacks, sopportare questa aggressione, se non avesse trovato interessantissimi alcuni fenomeni visivi che si verificarono nel suo occhio: disturbi, distorsioni, diffusione dei colori, allucinazioni. Le sue sensazioni costituivano un fertile terreno di indagine e gli sembrava di scoprire un intero mondo di fenomeni.
Cominciò a scrivere un saggio sul Dolore: un tema su cui non aveva riflettuto abbastanza. Una parte di questi dolori lo schiacciava, riconducendolo a una sorta di poltiglia tremante, quasi incapace di pensare: sotto l’aggressione la forza dell’identità e della personalità scompariva. Gli diventò impossibile leggere, pensare e scrivere; e per la prima volta nella sua vita ebbe la tentazione di uccidersi.
Mentre stava finendo il suo ultimo, bellissimo libro, Oliver Sacks allargò la sua visione del mondo. Pensava al cervello: gli sembrò che fosse «un telaio magico, su cui milioni di spore lampeggianti fanno e disfano un disegno: disegno sempre significativo anche se non permanente». Oppure pensava al tempo. Si chiedeva se l’apparente continuità del tempo e del movimento che ci viene offerta dai nostri occhi non fosse un’illusione. Forse la nostra esperienza visiva consiste in una serie di istanti senza tempo, che vengono saldati l’uno all’altro da qualche superiore meccanismo cerebrale.
Sinestesia audiovisiva
La musica che ispira Kandinsky
di Arnaldo Benini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 1.11.2015)
Edgar Allan Poe, nel 1844, scrisse che quando sentiva il ronzìo di una zanzara vedeva un raggio arancione, e viceversa. È il primo resoconto della sinestesia, sovrapposizione di una stimolazione vera e di una, di qualità uguale o diversa, che in realtà non c’è. L’esperienza di Poe era inconsueta, perché, di regola, la sinestesia é unidirezionale. È l’incrocio involontario di due sensazioni diverse, provocato da una stimolazione sola. Della doppia esperienza sensoriale in seguito ad una sola stimolazione sono capaci non più del tre-quattro per cento degli esseri umani.
Fra i sinestetici d’entrambi i sessi, ci sono molti musicisti, poeti, scrittori, pittori e persone sensibili. La sinestesia, a differenza dell’immaginazione, è involontaria e insopprimibile. Si sente, ad esempio, un suono e si vede una macchia, o si percepisce un odore. Un numero, una lettera o una parola, letti, sentiti o anche solo pensati, sono associati costantemente ad un colore, o una sensazione tattile è provocata da un odore.
La sinestesia più frequente è la cromestesia: si vedono colori sentendo suoni, il colour (o coloured) hearing degli autori anglofoni. La sensazione illusoria è semplice: sentendo un suono si vedono macchie di uno o più colori, mai un volto, un’azione o un panorama. Una mamma vedeva macchie gialle sgradevoli quando il figlio neonato piangeva.
Franz Liszt sconcertava gli strumentisti di Weimar, di cui era Kapellmeister, con incitazioni come «più rosa, qui», «questo è troppo nero» oppure «ora voglio tutto azzurro»: la musica che aveva in testa era comunicata come colore.
Il compositore Alexander Skrjabin vedeva un colore se l’emozione della musica era intensa. Il colore, diceva, accentua la tonalità. Egli richiedeva che il suo Prométhée Le Poème du feu fosse accompagnato da luci con colori cangianti, per sottolinearne le tonalità. Seduto accanto a Rimsky Korsakov a Parigi, Skrjabin gli disse che la musica che stavano ascoltando gli appariva gialla. Per Korsakov era dorata. Un brano successivo era violetto per l’uno e verde per l’altro.
Le sinestesie, certamente su base genetica (molti sono i casi familiari), sono così varie che non si può pensare ad un meccanismo nervoso omogeneo. La causa potrebbe essere un collegamento particolarmente intenso fra o all’interno dei meccanismi percettivi. La visualizzazione del cervello durante le sinestesie mostra l’attivazione delle aree primarie dello stimolo (ad esempio le aree sopra e sotto la fessura di Silvio in caso di parole, di aree parietali in caso di numeri, di aree temporali superiori in caso di suoni) e aree della sensibilità indotta.
Nella cromestesia l’area visiva primaria (compresa quella spe-cifica dei colori) è attiva senza stimolo visivo esterno. Inoltre sono attive l’insula, intensamente connessa al sistema limbico, anch’esso assai attivo, e la corteccia prefrontale destra, probabile tramite alla coscienza. Esiste una connessione strutturale e funzionale intensa fra aree della sensibilità acustica, particolarmente attive ascoltando musica, e visiva. La base genetica non è stata identificata con certezza.
La pittura astratta nasce in Wassily Kandinsky che fino al 1910 dipinge meravigliosi panorami di piccolo formato con colori intensi come sinestesia della musica. Kandinsky descrive un’esperienza cromestetica impressionante. A Mosca, nel 1895, durante il Lohengrin di Wagner al teatro di Corte, «I violini, i bassi profondi, e soprattutto gli strumenti a fiato scriverà nel 1913 incorporarono per me tutta la forza del tramonto. Vidi nella mente tutti i colori, che avevo davanti agli occhi. Linee selvagge e fantastiche s’incrociavano di fronte a me. Non osai dire che Wagner aveva dipinto musicalmente “la mia ora” [...] ma mi convinsi che la pittura può sviluppare la stessa forza della musica».
Commentando la scenografia per Quadri di un’esposizione di Modest Mussorgsky a Dessau nel 1928 (uno dei suoi capolavori), Kandinsky riferisce di forme che «mi stavano davanti agli occhi ascoltando la musica». Forme astratte trasmettono emozioni altrimenti inaccessibili: l’analogia con la musica è che entrambe suscitano emozioni intense senza linguaggio e riflessione. «Il tono musicale scrive Kandinsky ha un tramite diretto con l’anima». Nella cromestesia le aree cerebrali del linguaggio e della razionalità non sono attive.
L’impressione del Lohengrin, racconterà la moglie Nina, assieme alla vista, a Mosca nello stesso anno, di un Covone di fieno di Claude Monet, di colori senza forma, non lo lasciò più. Fu, dice Nina, l’alba dell’astrazione. Über das Geistige in der Kunst del 1911 e Rückblicke del 1913 sono la summa delle sue riflessioni. La prima opera astratta (un acquerello con figure di più colori in un movimento vorticoso) é del 1910.
Nel 1911, dopo un concerto di Arnold Schönberg a Monaco, Kandinsky dipinse una delle sue opere più famose, Impression III(Konzert), straordinaria opera sinestetica di un’esperienza musicale. Quadri come Fuga del 1914, e i grandiosi Gedankenklänge (Suoni del pensiero) e Gegenklänge (Controsuoni) del 1924, Drei Klänge (Tre suoni) del 1926 e Klangvoll (Sonoro) del 1929, assieme a varie Komposition e Improvisation e alla scenografia per l’opera di Mussorgsky del 1928, confermano l’ispirazione musicale di Kandinsky, verosimilmente spesso nella forma della sinestesia. «Il colore esercita un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto. [...] L’anima è il pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che ora con uno, ora con un altro tasto, fa vibrare l’anima umana», scrive in Über das Geistige in der Kunst.
Non si conoscono esperienze cromestetiche dell’altro artefice dell’arte astratta, Paul Klee. L’affinità della sua pittura con la musica è però evidente, nonostante sia così diversa, per regolarità e disciplina, dalla libertà di tante opere di Kandinsky, suo collega al Bauhaus a Dessau fino al 1933 e amico di tutta la vita.
Klee era un violinista provetto già da bambino. Amava soprattutto Bach e Mozart ma non disdegnava la musica contemporanea. Era amico di Ferruccio Busoni e a Dessau frequentò Béla Bartók, Paul Hindemith e Igor Strawinsky. Quadri come Im Bachschen Stil (Nello stile di Bach), e i meravigliosi Landschaft im Paukenton (Panorama al suono dei timpani), Polyphone Strömungen (Correnti polifoniche), Fuge in Rot (Fuga in rosso) e Notturno für Horn (Notturno per corno), dipinti fra il 1919 e 1929, furono composti probabilmente non per esperienza sinestetica (di cui non parlò), ma per analogia con l’emozione della musica.
Nella grandiosa mostra di 200 opere di Kandinsky e Klee, che dal Centro Paul Klee di Berna è stata portata dal 21 ottobre alla Städtische Galerie im Lendbachhaus a Monaco di Baviera, una sala è riservata alla musica, dove si vede quanto l’ispirazione che muove i due artisti all’origine della pittura astratta sia l’espressione pittorica del trasporto musicale.
Klee & Kandinsky, fino al 24 gennaio 2016, Lenbachhaus, Monaco di Baviera
Aleksandr Lurija (1902-1977)
La parola disintegrata
Le analogie tra il caso clinico commovente del tenente russo Zaseckij e il destino di un popolo vittima del regime staliniano
di Silvano Tagliagambe (Il Sole-24 Ore, Domenica, 1.11.2015)
La storia di Zaseckij, il protagonista del caso clinico analizzato da Aleksandr Lurija nel suo studio biografico Un mondo perduto e ritrovato, pubblicato da Adelphi con prefazione di Oliver Sacks e postfazione di Luciano Mecacci, commuove a affascina per quello che racconta e per le analogie che se ne possono tracciare con il destino di un intero popolo.
Il giovane tenente dell’Armata rossa, ferito nel 1943 sul fronte russo occidentale da un proiettile tedesco che gli penetra in profondità nel cervello, cancellando la percezione di una parte del corpo e pregiudicando sia la comprensione del linguaggio che la memoria, lotta tenacemente per vent’anni per riappropriarsi della propria identità e ricostruire il racconto della sua vita riuscendo a scrivere, tra mille difficoltà e superando grandi sofferenze, tremila pagine in cui ci ha lasciato la testimonianza del suo calvario.
Non sarebbe mai riuscito a ricomporre le parti isolate in cui era polverizzato e spezzettato ciò che era rimasto nella sua memoria, dando a esse un ordine e un significato, se non fosse stato seguito con pari tenacia e straordinaria competenza da un neuropsicologo, Lurjia appunto, che si era reso conto che il modo migliore di comprendere lo sviluppo delle funzioni mentali era quello di integrarlo con lo studio della loro disintegrazione. Aiutato, in questa sua visione, da una concezione della scienza medica basata su un’idea integrata tra corpo e psiche nella genesi delle malattie, ereditata dal padre Roman Albertovich, uno dei più noti gastroenterologi russi dell’epoca, e per questo refrattaria a ridurre a schemi astratti la ricchezza della persona umana nella sua unicità.
Lurija è stato uno dei grandi protagonisti della scienza russa del ’900 e ne ha vissuto e subito le contraddizioni e le tragedie che hanno portato, soprattutto dal 1934 in poi, a dissipare le sue migliori energie in una storia che si sviluppa anch’essa lungo il confine tra uno sforzo eroico di ricostruzione di una società in decomposizione e l’incomprensibile distruzione di vite umane e di intere linee di pensiero.
Di questa repressione Lurija è stato testimone diretto e vittima, non solo perché, nel 1952, fu accusato di far parte del cosiddetto «complotto dei medici» ebrei ai quali si imputava il tentativo di attentare alla vita di Stalin, ma per il fatto che la dura repressione del regime colpì, oltre alla ua famiglia, con la sorella Lidija, una psichiatra, a lungo detenuta in un lager e il marito di lei fucilato nel 1937, anche il suo maestro e amico Lev Vygotskij, incluso nella lista nera dei nemici del partito e del popolo e morto di tubercolosi a soli trentotto anni.
Anche il pensiero di Vygotskij - e sta proprio qui il senso dell’analogia proposta all’inizio - può essere considerato l’esempio di «un mondo perduto e ritrovato». Se Zaseckij aveva perso l’uso della parola, per cui era condannato a leggere solo sillabando, in seguito all’impatto di un proiettile nemico, Vygotskij fu colpito dai «nemici della parola», per riprendere quanto scrisse profeticamente nel 1921 il poeta Osip Mandel’stam, suo caro amico: «le differenze sociali e i contrasti di classe impallidiscono dinanzi alla divisione odierna degli uomini in amici e nemici della parola, in agnelli e capri».
I nemici della parola, i capri, si impegnarono a decostruire il senso dell’opera principale del grande psicologo,Pensiero e linguaggio, attraverso corposi tagli, la “semplificazione” dei passi troppo filosofici, l’aggiunta di nuovi vocaboli, la soppressione di altri, la riscrittura di intere frasi, l’eliminazione e l’introduzione arbitraria di corsivi: un lavoro incredibile di censura e “ricomposizione”, che ha finito con l’allontanare in maniera impressionante l’autore del testo dal Vygotskij reale.
C’è voluta la paziente e competente ricostruzione filologica di Mecacci per restituirci questo classico del pensiero psicologico, di un’attualità ancora stupefacente, nella sua versione originaria che rischiava di andare perduta. Ho avuto la fortuna di conoscere Luciano a Mosca nel 1970 mentre cominciava questa sua meritoria attività di recupero, entrambi lì con una borsa, lui del Cnr e io del Ministero degli esteri, impegnati ad addentrarci nei complicati meandri della cultura russa, lui in psicologia, io in fisica, e ne posso testimoniare la serietà e la passione.
Lurjia fu costretto ad assistere a questa distorsione e disintegrazione della parola dell’amico e a prendere anche parte a essa: forse questo può aiutarci a capire meglio le motivazioni profonde della febbrile e instancabile cura con cui si dedicò a restituire il linguaggio, orale e scritto, e la memoria a un giovane che li aveva perduti e per questo non riusciva più a organizzare il suo universo interiore. La storia di un mondo perduto e ritrovato è quella del tenente Zaseckij, ferito di guerra: ma era anche quella, ed egli ne era ben consapevole, di Lev Semënovich Vygotskij e dei suoi lavori, vittime, come tanti altri scienziati e pensatori, della repressione staliniana. Anche per questo il libro pubblicato in questi giorni da Adelphi merita di essere letto e meditato.
Perché capiamo una parola per un’altra? Oliver Sacks spiega cosa nascondono i fraintendimenti
L’uomo che scambiò un pubblicitario per una seppia
di Oliver Sacks (la Repubblica, 13.06.2015
QUALCHE settimana fa, Kate, la mia assistente, mi ha detto: «Vado alle prove del coro» [in ing. choir practice]. Sono rimasto sorpreso. Lavoriamo insieme da trent’anni e non le ho mai sentito esprimere il minimo interesse per il canto. Ma ho pensato, chi lo sa? Forse questa è una parte di lei di cui non ha mai parlato; forse si tratta di un nuovo interesse; forse suo figlio canta in un coro; forse... Continuavo a fare delle ipotesi, senza pensare nemmeno per un attimo di aver capito male. Solo al suo ritorno ho capito che era andata dal chiropratico [in ing. chiropractor]. Pochi giorni dopo, Kate scherzando mi ha detto: «Vado alle prove del coro». Di nuovo mi ha sconcertato: Petardi? [in ing. firecrackers] Perché parlava di petardi?Con l’aumento della mia sordità, tendo sempre di più a fraintendere ciò che dice la gente, anche se è una cosa abbastanza imprevedibile.
Nel corso della giornata, può accadere venti volte, oppure mai. Annoto con cura in un piccolo taccuino - rosso con l’etichetta “Paracisi” - anomalie nell’ascolto, in particolare fraintendimenti. Scrivo quello che sento (in rosso) su una pagina, quello che è stato effettivamente detto (in verde) nella pagina a fianco, e (in viola) le reazioni della gente ai miei fraintendimenti, e le ipotesi spesso improbabili che posso elaborare nel tentativo di dare un senso a ciò che spesso, essenzialmente, senso non ne ha.
Dopo la pubblicazione di Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, nel 1901, questi fraintendimenti nell’udito, insieme con una serie di fraintendimenti nella lettura, nel parlare, nell’agire o di lapsus erano visti come “freudiani”, un’espressione di sentimenti e conflitti profondamente repressi.
Anche se ci sono fraintendimenti occasionali non pubblicabili che mi fanno arrossire, la stragrande maggioranza non ammette alcuna semplice interpretazione freudiana. In quasi tutti i miei fraintendimenti, tuttavia, c’è un suono complessivo simile, una gestalt acustica simile, che collega ciò che si dice e ciò che viene udito. La sintassi è sempre mantenuta, ma questo non aiuta; è probabile che i fraintendimenti capovolgano il significato, che lo travolgano con forme sonore fonologicamente simili ma prive di significato o assurde, pur mantenendo la forma generale di una frase.
La mancanza di un’enunciazione chiara, degli accenti insoliti o una trasmissione elettronica difettosa contribuiscono a ingannare le nostre percezioni. Nella maggior parte dei fraintendimenti, si sostituisce una parola vera con un’altra, per quanto assurda e fuori contesto, ma a volte il cervello ci presenta un neologismo. Quando un amico mi ha detto al telefono che suo figlio era malato, invece di “tonsillite” ho capito “pontillite” ed ero perplesso. Si trattava di una sindrome clinica rara, di un’infiammazione di cui non avevo mai sentito parlare?
Se un fraintendimento sembra plausibile, uno può pensare di non aver capito male; è solo se il fraintendimento è sufficientemente inverosimile, o totalmente fuori contesto, che uno pensa: «Non può essere», e allora (forse con un certo imbarazzo) si chiede a chi parla di ripetere, come faccio spesso, o perfino di scandire le parole o le frasi capite male. Quando Kate ha detto di andare alle prove del coro, io l’ho accettato: poteva benissimo andare alle prove di un coro. Ma quando un amico, un giorno, mi ha detto che a «una famosa seppia ( cuttlefish ) è stata diagnosticata la SLA», mi sono detto che dovevo aver capito male. I cefalopodi hanno un sistema nervoso complesso, è vero, e forse, pensai per un attimo, una seppia potrebbe avere la SLA. Era piuttosto l’idea di una seppia “famosa” ad essere ridicola. (Si chiarì poi che aveva detto: «A un famoso pubblicitario - publicist - è stata diagnosticata la SLA».) Può sembrare che i fraintendimenti siano di scarso interesse, ma possono gettare una luce inattesa sulla natura della percezione - la percezione del discorso, in particolare. Ciò che è straordinario, innanzi tutto, è che essi si presentano come parole o frasi chiaramente articolate, non come un’accozzaglia di suoni. Uno fraintende quello che sente piuttosto che non sentire affatto.
I fraintendimenti non sono allucinazioni, ma come le allucinazioni utilizzano le abituali vie neurologiche della percezione e si pongono come realtà, se uno non si interroga su di esse. Ma poiché tutte le nostre percezioni devono essere costruite dal cervello, da dati sensoriali spesso scarsi ed ambi- gui, la possibilità di sbagliare o di ingannarsi è sempre presente. In effetti, è prodigioso il fatto che le nostre percezioni siano così spesso esatte, data la velocità, la quasi istantaneità, con la quale sono costruite.
Ciò che ci circonda, i nostri desideri e le nostre aspettative, consce e inconsce, possono certamente essere codeterminanti nel fraintendimento, ma il problema vero è nei livelli più bassi, in quelle parti del cervello coinvolte nell’analisi e nella decodifica fonologica. Nel fare quello che possono quando ricevono dalle nostre orecchie dei segnali distorti o carenti, queste parti del cervello riescono a costruire delle parole reali o delle frasi, anche se sono assurde.
Mentre spesso non sento bene le parole, raramente non sento bene la musica: le note, le melodie, le armonie, i fraseggi rimangono chiari e ricchi come sono sempre stati in tutta la mia vita (anche se spesso ho difficoltà a capire i testi). Suonare o anche ascoltare la musica (almeno la musica con una partitura tradizionale) non solo coinvolge l’analisi del tono e del ritmo, ma attiva la nostra memoria procedurale e i centri emotivi del cervello; i brani musicali rimangono nella memoria e consentono l’anticipazione.
Il discorso, invece, deve essere decodificato anche da altri sistemi nel cervello, compresi i sistemi da cui dipendono la memoria semantica e la sintassi. Il discorso è aperto, inventivo, improvvisato; è ricco di ambiguità e di significati. C’è un’enorme libertà in questo, che rende il linguaggio parlato quasi infinitamente flessibile e adattabile, ma anche vulnerabile al fraintendimento.
Freud si sbagliava totalmente, allora, sui lapsus e i fraintendimenti? Ovviamente, no. Fece delle considerazioni fondamentali sui desideri, le paure, i motivi e i conflitti di cui non siamo consapevoli, o che cacciamo dalla nostra coscienza, e che possono influenzare i lapsus e i fraintendimenti in ciò che ascoltiamo o leggiamo. Forse, però, ha insistito troppo sul fatto che le percezioni distorte dipendono totalmente da una motivazione inconscia.
Nel raccogliere i miei fraintendimenti negli ultimi anni, senza alcun pregiudizio o selezione esplicita, sono costretto a pensare che Freud sottovalutò la capacità dei meccanismi neurali, combinati con la natura aperta e imprevedibile del linguaggio, di sabotare il significato, di generare dei fraintendimenti che sono irrilevanti sia in termini di contesto che di motivazioni inconsce.
Tuttavia, c’è spesso un certo stile o un guizzo - un “tocco” - in queste invenzioni istantanee; esse riflettono, in una qualche misura, i nostri interessi e le nostre esperienze, e io mi ci diverto abbastanza. Solo nel regno del fraintendimento - almeno, dei miei fraintendimenti - una biografia di cancro può diventare una biografia di Cantor (uno dei miei matematici preferiti), la busta della spesa una bestia sospesa e un innocente “vado a piedi” un perentorio “baciami i piedi”.
Professore di neurologia presso la New York University School of Medicine, ha pubblicato recentemente la sua autobiografia On the
Move .
© Oliver Sacks, 2015 traduzione di Luis E. Moriones
La mappa della lingua è universale e infinita
Viaggio nella cartografia delle strutture verbali dove «istintivamente le aquile che volano nuotano»
I meandri del cervello
Ciò che ogni essere umano sempre padroneggia è un oggetto certo finito, ma di portata illimitata, cui è concesso un repertorio incalcolabile di espressioni
di Noam Chomsky (Corriere della Sera, 08.01.2014)
Il linguaggio è stato proficuamente studiato per 2500 anni, ma solo di recente è diventato possibile formulare chiaramente la sua proprietà fondamentale: in parole semplici, ogni lingua offre il modo di esprimere un repertorio infinito di pensieri. Nel corso degli anni vi erano stati tentativi sommari di cogliere tale proprietà. Per esempio, Charles Darwin osservò che gli animali inferiori differiscono dagli esseri umani solamente per il maggior potere, un potere quasi infinito , di associare e comporre i più svariati suoni con le più svariate idee.
L’espressione quasi infinito deve essere intesa come, semplicemente, infinito , e adesso sappiamo che il modo di fare tali associazioni è nell’uomo radicalmente diverso da quello di ogni altra specie. Ciò detto, Darwin aveva sostanzialmente ragione, sebbene non fosse ancora in grado di formulare in dettaglio un programma produttivo di ricerca su questa speciale facoltà umana.
Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersall, in una sua recente rassegna sulle origini dell’uomo, conclude dicendo: «L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata quasi certamente il portato dell’invenzione di quello che è il singolo più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio». In sostanza, ritroviamo il potere notevolissimo di cui parlava Darwin.
A partire dalla metà del XX secolo, le scienze formali (matematica, logica e teoria del calcolo) avevano offerto una ricca comprensione di come un sistema finito - il cervello umano o un calcolatore programmabile - possa generare un repertorio infinito di espressioni. Ciò rese possibile formulare precisamente la proprietà in questione e aprire la strada a un’indagine in profondità sulla proprietà che era stata fino ad allora inaccessibile a un esame specifico.
La lingua che ogni essere umano padroneggia è un oggetto finito, ma di portata infinita. È una proprietà interna alla persona, un sistema di elaborazione e calcolo di un cervello finito che rende possibile esprimere un repertorio infinito di espressioni strutturate, ciascuna delle quali viene interpretata su due livelli: quello dell’apparato sensorio-motorio (per lo più suoni, ma anche segni nei linguaggi dei segni) e quello dei sistemi di pensiero atti a interpretare il mondo circostante, pianificare le azioni, ragionare ed eseguire molti altri processi mentali. Uno schema di ricerca che vuole cogliere tale proprietà è (per definizione) una grammatica generativa . Tale tipo di grammatica cerca di rendere totalmente espliciti i processi finiti che subentrano nel normale uso della lingua nella sua varietà complessa e illimitata.
Il programma di ricerca della grammatica generativa , avviato in questi termini circa 60 anni orsono, ha enormemente arricchito l’ambito dei fenomeni empirici accessibili allo studio, includendo lingue di tipi assai diversi. Ha, inoltre, consentito di indagarli a un livello di profondità prima inimmaginabile e in domini nuovi: per esempio studiare in modo nuovo e molto illuminante in che modo il significato di espressioni complesse sia determinato dall’operare di poche e astratte regole interne al linguaggio.
Studiare il linguaggio come oggetto biologico ha anche consentito di ampliare enormemente il tipo di dati propri a una certa lingua, includendo il modo in cui il bimbo la acquisisce e come esso è dissociato da altre funzioni cognitive, inaugurando anche una bio-linguistica e una neuro-linguistica.
Un obiettivo ancora più ambizioso è stato quello di portare alla luce (usando le parole dell’insigne linguista Otto Jespersen) «i grandi principi che sottostanno alle grammatiche di tutte le lingue, ottenendo una più approfondita comprensione dell’intima natura del linguaggio e del pensiero umano».
Nell’era moderna, tale studio ha preso il nome di grammatica universale , adattando una terminologia tradizionale al nuovo contesto. Non mi sembra possa essere messo seriamente in dubbio che gli esseri umani sono accomunati da un bagaglio biologico prefissato, che è alla base della capacità di acquisire e usare il linguaggio, e questo è ciò che la grammatica universale studia. Che questa capacità sia, in essenza, il patrimonio unico dell’umanità, è quanto Darwin e molti altri studiosi avevano riconosciuto. Nella misura in cui comprendiamo le proprietà della grammatica universale , lo studio di una lingua può poggiare sui risultati ottenuti nello studio di altre lingue, consentendo, una volta di più, una maggior comprensione della natura e dell’uso del linguaggio.
Lo studio di ogni bagaglio biologico è sempre complesso. Cionondimeno, c’è stato un notevole progresso sul fronte della grammatica universale , sebbene molti problemi e ardui interrogativi siano ancora aperti e ne scaturiscano sempre di nuovi. Il progresso è stato sufficiente a rendere abbordabile un nuovo programma di ricerca negli ultimi anni: chiedersi quale sarebbe la soluzione perfetta per soddisfare le richieste fondamentali imposte dal funzionamento del linguaggio, imposte, cioè, dalla proprietà fondamentale vista sopra.
Quando si scoprono delle discrepanze tra ciò che si osserva e le soluzioni ideali, ci si chiede come reinterpretare i dati e come rivedere le intuizioni teoriche in modo da sanare tali discrepanze. Questo programma prende il nome di programma minimalista , e ben si attaglia al quadro della recente e subitanea emergenza evoluzionistica del linguaggio descritta da Tattersall. Adottando progressivamente questo programma di ricerca è stato possibile rivelare che alcune proprietà piuttosto sbalorditive della grammatica universale sono il portato coerente dell’ipotesi che il design del linguaggio sia ottimale sotto il profilo visto sopra.
Un esempio di tale ottimizzazione è il fenomeno onnipresente dello spostamento sintattico. I sintagmi possono essere uditi in una posizione nella frase, ma interpretati sia in tale posizione che in una diversa. La frase «Quali libri ha letto Gianni?» viene interpretata come se fosse «Quali libri sono tali che Gianni ha letto quei libri?». «Libri» è il complemento oggetto diretto di «leggere», ma non viene pronunciato o scritto immediatamente alla destra del verbo. Tale spostamento è stato a lungo, nella professione, considerato una strana imperfezione del linguaggio, ma possiamo oggi mostrare che risulta da una radicale semplificazione del calcolo mentale sintattico, mostrare, cioè, che è la più semplice operazione mentale sintattica immaginabile, il risultato automatico di una massima semplicità.
Contrariamente a quanto ritenuto fino a pochi anni fa, l’assenza di ogni spostamento sintattico sarebbe stata una strana e inspiegabile imperfezione. Un ulteriore esempio è il dato insolito e curioso che le regole del linguaggio sono, senza eccezioni, centrate sulla minima distanza strutturale, non superficiale (cioè calcolata lungo il numero di parole nella frase), anche se tale distanza sarebbe in linea di massima più facile da calcolare e da elaborare linguisticamente. Così nella frase «Istintivamente le aquile che volano nuotano» l’avverbio «istintivamente» è superficialmente più vicino a «volano», ma strutturalmente più vicino a «nuotano», al quale in effetti si applica.
Questa computazione mentale è più astratta e più complessa, ma è quella giusta. Non ci sarebbe niente di errato nel pensiero che le aquile che istintivamente nuotano volano, ma non lo si può esprimere con questa frase. Tale proprietà è linguisticamente onnipresente ed è automaticamente colta dal bimbo sulla base di dati praticamente miseri, se non del tutto assenti. Lavori recenti offrono una spiegazione sorprendente, basata sull’efficienza del calcolo sintattico mentale, con conseguenze di vasta portata che minano alla base svariate ipotesi tradizionali e ben radicate sulla natura e l’uso del linguaggio. In questo caso, i principi della grammatica universale sono stati verificati su studi delle funzioni cerebrali, un successo importante e arduo, ottenuto in lavori diversi, tra i quali spiccano quelli di Andrea Moro (Università di Pavia), il quale ha integrato contributi di spicco alla teoria linguistica con indagini pionieristiche nel campo della neuro-linguistica.
Una linea di ricerche molto produttive ha esplorato ciò che in termine tecnico si chiama la cartografia delle strutture linguistiche, cioè le gerarchie universali delle frasi, attraverso le modifiche apportate dagli avverbi e le strutture di informazione veicolata dalle frasi (con componenti tecnici come il fuoco, l’informazione topica e così via). In particolare, i più recenti lavori di Guglielmo Cinque (Università di Venezia) e Luigi Rizzi (Università di Siena) hanno rivelato strutture linguisticamente universali di notevole complessità, con interessantissime conseguenze sintattiche e semantiche, dischiudendo nuovi problemi sul perché il linguaggio è organizzato in tal modo e non in qualche altro modo.
È impossibile in questo breve spazio passare in rassegna i risultati conseguiti nel moderno studio del linguaggio, le sue rappresentazioni neurali, il suo intimo ruolo nelle nostra vita mentale e sociale. Né raccontare le molte sfide ancora aperte alla nostra comprensione del linguaggio che tali risultati hanno suscitato, segno che si tratta di una disciplina vivace e in continuo fermento. Tali ricerche procedono, senza dubbio, a un livello che travalica nettamente quanto potevamo immaginare anche solo alcuni anni addietro, e offrono prospettive entusiasmanti su scoperte ancora più profonde delle capacità linguistiche della nostra specie, appunto sul «singolo più notevole tratto dell’uomo moderno» e la nostra specialissima sensibilità moderna.
L’errore di sostenere che solo l’evoluzione ci abbia dato la parola
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 08.01.2014)
La disciplina linguistica chiamata grammatica generativa, inaugurata da Noam Chomsky oltre 60 anni fa, come lui stesso racconta nel testo qui accanto scritto per il «Corriere», conta oggi circa duemila studiosi in varie parti del mondo e in Italia, seconda solo agli Stati Uniti per quantità e qualità di contributi.
Quasi dall’inizio s’è scontrata con critiche e pretese smentite, come correttamente riferito ne «la Lettura» del 15 dicembre da Sandro Modeo («Il gene che creò la parola: due studi smentiscono le teorie di Chomsky sul linguaggio»). Questi attacchi sono stati tutti puntualmente e, a mio avviso, persuasivamente controbattuti non solo da Chomsky stesso, ma anche da altri insigni studiosi del settore. Un tema ricorrente in queste critiche consiste nel ribadire che il linguaggio, nella sua evoluzione biologica, nei correlati cerebrali e nel suo uso collettivo non è una facoltà unica e speciale, bensì la conseguenza di capacità cognitive generali e di una lunga storia di contatti sociali.
Tale tesi si scontra con molti dati fondamentali. Soggetti quasi completamente privi di movimenti volontari acquisiscono e usano il linguaggio senza problemi. L’ipotesi che il linguaggio sia un derivato della motricità in generale, tesi già sostenuta dal celebre psicologo svizzero Jean Piaget molti anni addietro, è del tutto infondata. Quanto poi alla modularità della mente e del cervello, si tratta di uno dei dati centrali meglio comprovati delle moderne scienze cognitive. Nel settore del linguaggio, molteplici patologie molto specifiche mostrano come una singola componente cognitiva possa essere compromessa senza intaccarne altre. Da un lato, si sono studiati soggetti con limitatissime capacità cognitive generali, ma competenza linguistica intatta. All’opposto, deficit linguistici assai specifici in soggetti che godono di competenze cognitive extra-linguistiche intatte.
Sul fronte della sintassi vera propria, innumerevoli dati su svariate lingue e dialetti mostrano che le esigenze della comunicazione tra parlanti non possono nemmeno cominciare a spiegare la natura fondamentale delle strutture sintattiche. Oltre agli esempi offerti da Chomsky nel suo testo qui a fronte, molti altri dello stesso tenore possono essere citati. Perché la frase «Ogni uomo ama sua madre» può benissimo significare che ciascun uomo ama la propria madre, mentre la frase «Sua madre ama ogni uomo» vuol dire tutt’altro? Perché è sintatticamente impeccabile chiedere «Con quale collega non sai mai come comportarti?». Ma orribile chiedere: «Come non sai mai con quale collega comportarti?».
Perché il tipico afasico di Broca e i bimbi piccoli capiscono senza problema «Mostrami l’elefante che sta innaffiando il leone», ma hanno seri problemi a comprendere la frase «Mostrami il leone che l’elefante sta innaffiando?». Perché in espressioni come «far ridere i polli», «far divertire i bambini», «far cuocere il brodo» è il soggetto stesso che compie l’azione, mentre in espressioni come «far licenziare gli operai», «far tagliare il bosco» si danno istruzioni a qualcun altro?
Niente di tutto ciò è misterioso per la grammatica generativa . Impossibile, invece, spiegare questi fenomeni invocando le regole della conversazione, la cognizione generale del mondo e l’impatto delle emozioni sui parlanti. Quindi, la sintassi è una sfera cognitiva specifica e non proviene dalle pressioni selettive della comunicazione, degli scambi sociali e nemmeno del pensiero in generale. «Lo ritengo intelligente», «lo sospetto colpevole» vanno benissimo, ma «lo nego intelligente» oppure «lo escludo colpevole» vanno malissimo, anche se i pensieri corrispondenti sono chiarissimi.
Bisogna ammettere che è molto difficile far passare l’idea che la sintassi non sia il prodotto evolutivo del movimento, della comunicazione e della generica conoscenza del mondo. Un mio studente americano, dopo aver seguito con attenzione tre lezioni nelle quali avevo spiegato in dettaglio perché la tesi di continuità tra linguaggio e altre sfere cognitive è insostenibile, mi disse candidamente: «Niente potrà mai persuadermi che il linguaggio non è il prodotto evolutivo della comunicazione e del pensiero in genere». Ne rimasi piuttosto scandalizzato, dato che si tratta di scienza e non di fede ideologica, ma almeno era più sincero di molti oppositori della grammatica generativa .
L’incontro al Festival delle Scienze
Corriere 8.1.14
L’universo mondo che ruota attorno al macro-tema «I linguaggi», declinato in ogni possibile sfaccettatura: linguistica fantastica e lingue immaginarie, genetica e patologie del linguaggio, i linguaggi della sessualità, il linguaggio della ricerca, la filosofia del linguaggio o il linguaggio dei segni... Questi alcuni degli argomenti affrontati nella nona edizione del Festival delle Scienze che si svolgerà a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, dal 23 al 26 gennaio prossimi (festival prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con Codice). -Quattro giorni tra analisi scientifica, indagine filosofica e incursioni nella fantascienza, fitti di incontri, conferenze, proiezioni, dibattiti e laboratori, con ospiti provenienti da tutto il mondo (gli eventi del festival, a esclusione degli spettacoli, sono a pagamento al costo di due euro). -Tra i tanti nomi presenti, oltre a quello di Noam Chomsky (per lui una serata speciale introdotta da Andrea Moro dal titolo Il linguaggio come organo della mente , ore 21 di sabato 25), Bernhard Nickel, Jason Stanley, Stephen Crain, Jesse Snedeker, Alfonso Caramazza, Simon Fisher, Tullio De Mauro, Nicla Vassallo.
I «fagioli» in movimento che conservano i ricordi
Le nuove scoperte sull’architettura dei neuroni
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 09.03.2012)
Andiamo per un attimo con il pensiero a una vicenda che ben ricordiamo e che è vecchia di cinque o dieci anni o ancor più. Come fa il nostro cervello a ricordare quanto ci è successo tanto tempo fa? Se è per questo, come fa perfino a ricordare qualcosa che risale a poche ore addietro? Le neuroscienze hanno a lungo studiato i processi della memoria, mietendo una mole impressionante di eccellenti risultati. Restano, però, molti problemi di fondo ancora aperti e perfino dei paradossi. L’articolo oggi pubblicato sulla rivista scientifica internazionale «PLoS Computational Biology» da due fisici canadesi, Travis Craddock e Jack Tuszynski (Università di Alberta) e da un neuroscienziato e anestesiologo americano, Stuart Hameroff (Università dell’Arizona), promette di aprire una nuova frontiera in questo settore.
Detto molto semplicemente, questi studiosi offrono un modello teorico e sperimentale di quello che succede dentro i neuroni. Sì, abbiamo capito bene, hanno sondato quello che succede all’interno dei singoli neuroni responsabili della fissazione e della successiva salvaguardia delle tracce mnemoniche. Occorre, qui, forse, fare un passo indietro. Nel lontano 1949, uno dei padri delle moderne neuroscienze, il canadese Donald Olding Hebb, aveva individuato l’autografo cerebrale della memoria: la fissazione stabile dei ponti che si creano incessantemente tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Il motto che lo ha reso famoso è «i neuroni che sparano insieme si sposano insieme» (in inglese è più grazioso: «neurons that fire together wire together»). In altre parole, due neuroni che si attivano allo stesso tempo, in uno stesso preciso momento, stabiliscono tra di loro un’alleanza stabile per il futuro. Attivate uno di questi, e anche l’altro risponderà prontamente all’appello.
Questo tipo di sinapsi si chiama, da allora, una sinapsi hebbiana. Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti. Nel 1966, all’Università di Oslo, Terje Lomo e Timothy Bliss, studiando il consolidamento della memoria nell’ippocampo del coniglio, scoprirono il fondamentale meccanismo chiamato potenziamento a lungo termine (in gergo internazionale Ltp). Lo sposalizio tra i neuroni veniva da loro certificato su precise basi molecolari. Il problema, però, mi spiega Stuart Hameroff, è che molte di queste molecole della memoria (delle speciali proteine) vivono solo pochi minuti o poche ore, mentre i ricordi vivono molto più a lungo. Un paradosso, questo, che il lavoro oggi pubblicato conta di poter risolvere.
Entriamo, allora, con Hameroff e collaboratori dentro questi benedetti neuroni e dentro queste benedette sinapsi. Scopriamo un’architettura di grande complessità e di grande bellezza: i cosiddetti microtubuli, parte dello scheletro delle cellule, ma che, nei neuroni, assumono proprietà particolari. Sono colonne di forma esagonale, formate da moltissime molecole, le tubuline, che hanno ciascuna all’incirca la forma di un fagiolo. Questi fagioli possono essere ripiegati su se stessi o invece aprirsi. E lo fanno in modo contagioso, facendo aprire o chiudere altre tubuline lungo tutto il tubulo. Il loro passaggio dalla forma aperta a quella chiusa racchiude informazione e questa informazione si propaga lungo l’intero tubulo e può poi trasmettersi a un neurone successivo. Il processo è assai simile a quanto avviene in un microcalcolatore. È così che l’immagazzinamento e la trasmissione di informazione possono restare stabili anche su lunghi periodi, in certi neuroni anche lungo molti anni. La quantità di energia consumata è bassissima. L’articolo oggi pubblicato spiega tutto ciò in grande dettaglio, con illustrazioni degne di un grande disegnatore. Ecco quindi trovata, secondo questi scienziati, la soluzione del paradosso della memoria.
Lascio la parola a Hameroff: «Abbiamo scoperto quello che sembra proprio essere il sito della memoria, il codice del ricordare, all’interno dei neuroni. Abbiamo scoperto la memoria, senza alcun paradosso». Poi aggiunge: «È forse solo un primo passo, ma le conseguenze possono essere molto importanti per capire il funzionamento del cervello, perfino per capire i fondamenti del linguaggio e della coscienza». Mi descrive anche le possibili applicazioni pratiche: «Il trattamento dell’Alzheimer e di altri disturbi del sistema nervoso, compresi i disturbi da stress post-traumatico. Diventerà forse possibile in futuro potenziare la memoria o, all’opposto, eliminare ricordi traumatici». Hameroff è autore di numerosi articoli e libri scientifici su quello che succede all’interno dei neuroni, uno di questi scritto a quattro mani con il noto fisico e matematico inglese Sir Roger Penrose (autore del discusso saggio La mente nuova dell’imperatore).
Nel comunicato stampa rilasciato ieri congiuntamente dall’Università dell’Arizona e dall’Università di Alberta, Hameroff non ha peli sulla lingua: «Molti articoli tecnici di neuroscienze concludono promettendo cure per l’Alzheimer e altri disturbi. Anche noi ora lo facciamo, ma questa volta potrebbe essere vero».
Tronchiamo di colpo l’intervista, perché deve andare in sala operatoria ad amministrare l’anestesia. Il camice che indossa e la mascherina che ora si porta davanti a bocca e naso sono verdi, un colore che ben si addice alle sue speranze.
Aleksandr Lurija.
La mente dimentica il corpo no
L’impresa titanica che Aleksandr Lurija tentò per rimettere insieme i frammenti della coscienza di Lev A. Zaseckij, il soldato la cui ferita al cervello provocò una scissione tra le parole e i significati
di Valentina Pisanty (il manifesto, 11.10.2015)
Lev A. Zaseckij aveva ventitré anni quando, il 2 marzo 1943, una pallottola gli si conficcò nella regione parieto-occipitale dell’emisfero destro. Si svegliò in un ospedale militare non lontano dal fronte russo occidentale con la memoria frantumata e il campo visivo dimezzato. La cartella clinica non autorizzava alcun ottimismo. Il proiettile aveva perforato la nuca sul lato sinistro, attraversato la massa del cervello, provocato infiammazioni nei tessuti circostanti e avviato un processo di cicatrizzazione e di atrofia cerebrale destinato ad avanzare negli anni a venire. Per effetto delle lesioni, Zaseckij aveva perduto interi settori di quella che oggi chiameremmo la memoria procedurale (quella che presiede alla lettura dell’orologio, alla vestizione o all’impiego degli utensili quotidiani), la capacità di rappresentare mentalmente le parti del proprio corpo, l’orientamento spaziale, il significato di molte parole, e tutte le conoscenze che aveva accumulato nella vita precedente, dal nome delle sorelle agli studi di ingegneria meccanica.
Nelle settimane successive fu trasportato da un luogo di ricovero all’altro finché, alla fine di maggio, approdò all’ospedale di riabilitazione neurochirurgica per i feriti di guerra negli Urali meridionali. Fu preso in cura da Aleksandr R. Lurija, direttore dell’istituto, già collaboratore del grande psicologo culturale Lev S. Vygotskij, le cui riflessioni sul «principio dell’organizzazione extracorticale delle funzioni mentali complesse» (le attività cognitive che si realizzano con l’ausilio di oggetti esterni, dal nodo al fazzoletto alla scrittura) avrebbero ispirato la linea terapeutica che durante la guerra Lurija decise di tentare con alcuni suoi pazienti cerebrolesi. Una sorta di ergonomia cognitiva che nel caso di Zaseckij si realizzò nella stesura pluridecennale di un’autobiografia faticosamente redatta giorno per giorno, parola per parola, pensiero per pensiero, per cercare di rimettere insieme, almeno sulla carta, i frammenti della sua coscienza polverizzata.
Pubblicato per la prima volta nel 1972 e oggi riedito con prefazione di Oliver Sacks (1987) e postfazione di Luciano Mecacci, Un mondo perduto e ritrovato (traduzione di Mario Alessandro Curletto, Adelphi, pp. 233, euro 18,00) racconta la storia di questa impresa titanica. Lo fa attraverso il montaggio di pagine tratte dal diario di Zaseckij, alternate a commenti e digressioni dell’autore-curatore, la cui principale preoccupazione è presentare il paziente nella sua unicità di persona in lotta contro i devastanti deficit che lo affliggono, anziché come caso clinico da incasellare nel bizzarro archivio delle neuropatologie.
Pur menomato nelle sue possibilità di pensiero e di azione, Zaseckij conservò intatta la forza d’animo, ed è sulla sua feroce volontà di non soccombere alla malattia che fece leva il terapeuta quando gli propose di reimparare a leggere e scrivere. Lo sforzo fu immane: non solo Zaseckij non riconosceva più le lettere e stentava a memorizzarle di nuovo, ma era anche incapace di vederne più di tre alla volta; il che, sommato ai problemi di memoria, fece sì che dopo mesi di accanito esercizio riuscisse a malapena a trattenere la traccia delle lettere appena decifrate per collegarle a quelle successive, prima che l’intera parola evaporasse nel nulla: «era come se gli occhi se ne andassero ognuno per conto proprio, portandosi via la lettera che stavo per guardare».
Con la scrittura non andava molto meglio. Come un bambino di quattro anni Zaseckij dovette imparare a tenere in mano la matita e recitare l’intero alfabeto dalla A alla Z per farsi venire in mente, uno a uno, i caratteri che gli servivano a comporre le espressioni più elementari, rileggendo la sequenza fin lì prodotta ogni volta che doveva aggiungere un simbolo ulteriore. E siccome la ferita aveva distrutto i circuiti cerebrali tramite i quali le impressioni dei diversi sensi confluiscono in rappresentazioni unitarie, le parole e i concetti - scrive Lurija - «sciamano come api» nella sua mente, senza coagularsi in immagini coerenti o in sintagmi complessi.
«Proprio nel mio linguaggio e nella mia memoria è avvenuta la scissione tra la “parola” e il suo «significato». Il ricordo di una parola e del suo significato sono come separati l’uno dall’altro da un intervallo non definito di tempo. E sono sempre quasi del tutto isolati l’uno dall’altro, cosicché nel ricordare devo in qualche modo unirli. Ma queste unioni non durano a lungo nella memoria, si dissolvono rapidamente e svaniscono...». Così Zaseckij descrive la sua afasia, ed è sorprendente la precisione con cui si esprime, quasi a smentire i contenuti del resoconto. Mentre riferisce della scissione che nella sua testa ha disgiunto i significanti dai significati, mentre racconta di sé come di un individuo a pezzi cui sono stati «strappati dei legamenti della memoria», mentre enumera le sue numerose défaillances quotidiane, vergognandosi di apparire come uno stupido, si rivela l’esatto contrario del personaggio che descrive: una persona lucida e consapevole, dotata di una notevole proprietà di linguaggio, in grado di produrre discorsi complessi e di ragionare sull’eziologia del suo male.
La scissione non riguarda dunque solo la parola e il suo significato, ma anche il narratore e il personaggio, separati da un vistoso scarto cognitivo, come se tra il tempo della storia e il tempo della narrazione fosse sopraggiunta una miracolosa guarigione e lo Zaseckij scrittore avesse ritrovato il lucchetto della memoria.
Tuttavia Zaseckij non era affatto guarito, e fin dalle prime pagine di Un mondo perduto e ritrovato si capisce che il lieto fine ventilato nel titolo non si realizzerà, o perlomeno non secondo i canoni del racconto tradizionale. «È il libro su una lotta che non ha portato alla vittoria, e su una vittoria che non ha messo fine alla lotta» - scrive Lurija - con buona pace della morfologia di Propp.
C’è però un corrispettivo del mezzo magico fiabesco che segna un punto di svolta in questa lotta perpetua senza vittoria. Constatati gli insuccessi della terapia logopedica, un bel giorno Lurija ebbe una intuizione folgorante: posto che le regioni uditive del cervello e tutte le attività motorie del paziente erano rimaste intatte, perché non sfruttarle per cercare di ripristinare la capacità di scrivere secondo un metodo alternativo? Gli propose dunque di scrivere la parola «sangue» non lettera per lettera, bensì tutta insieme, d’impulso, senza staccare la matita dal foglio, e senza riflettere sui movimenti della mano. Zaseckij scoprì che il suo corpo ricordava ciò che la mente aveva dimenticato: la parola si riversava meccanicamente sulla carta e, sebbene faticasse a rileggerla, da quel momento gli si dischiusero possibilità di azione sino ad allora impensabili. Con la pratica imparò a scrivere interi periodi di getto, non sempre linguisticamente ineccepibili (i problemi della memoria permanevano), eppure in grado di fissare un primo abbozzo di senso sul quale lavorare per giorni, mesi e anni, attraverso estenuanti correzioni, molteplici versioni, stesure via via perfezionate, che alla lunga ricucivano quell’indispensabile trama narrativa con cui gli umani si costituiscono come soggetti.
Lotto ancora! è il titolo dell’autobiografia a cui Zaseckij affidò la sua identità, tuttora frammentata nella vita reale, ma ricomposta nelle tremila pagine che compongono il diario. È come se il protagonista scaffalasse il suo sé in una memoria esterna a cui fare costante riferimento per recuperare, oltre alla continuità della propria esistenza, l’autostima necessaria per sentirsi persona tra le altre persone.