Tutta la grande stampa e le più alte gerarchie della Chiesa Cattolica, alleate, sparano a zero e tentano di alzare una densa cortina fumogena per non far leggere l’opera di Dan Brown. Ma perché? Cerchiamo di non nasconderci dietro questioni (pure importantissime) di filologia e storia, e chiediamocelo.
Perché del “Codice da Vinci”, di un’opera “tra realtà e fiction”, non tentiamo finalmente di spiegare le ragioni profonde del successo invece di ripetere quanto molti (in modo molto conformistico vanno ripetendo da tempo) hanno già detto? Perché il “Codice da Vinci” è considerato allo stesso modo dell’opera di Salman Rushdie, Versi Satanici? E perché in Libano è stata pronunciata una fatwa contro l’autore, Dan Brown?
La ragione principale, a mio parere, sta nel filo della storia d’amore che è sotteso a tutto il racconto e nei problemi che ad esso sono collegati. Una citazione (tanto) per cominciare: “La donna, un tempo celebrata come un’essenziale metà dell’illuminazione spirituale, era stata bandita dai templi del mondo. Non c’erano rabbini ortodossi di sesso femminile, né sacerdotesse cattoliche, né donne di religione - imam - islamiche. L’atto, un tempo sacro dello hieros gamos, l’unione sessuale naturale tra uomo e donna, con cui ciascuno dei due acquisiva l’unità spirituale, era stato ridefinito come peccato. Gli uomini di fede, che un tempo avevano bisogno dell’unione con le loro equivalenti femminili per entrare in comunione con Dio, adesso temevano i loro naturali impulsi sessuali e li vedevano come opera del demonio, il quale operava in collaborazione con la sua complice preferita... la donna”(pp. 150-151).
Questo è il problema dei problemi - un tema, se si riflette bene, molto prossimo a quello affrontato nel Cantico dei Cantici. Leggere per credere - e credere per leggere! E allora cerchiamo di essere onesti con noi stessi (prima, leggiamo l’opera) e (poi, facciamo i ‘conti’) con lo stesso autore e il suo lavoro: vediamo quali sono i temi e il tema centrale del romanzo-thriller... e così forse possiamo capire un po’ di più le ragioni del suo planetario successo e un po’ di più anche il senso della cronaca (cfr. Anais Ginori, “Le donne imam cambieranno l’islam”. Una giornalista Usa dietro lo “scisma”: La Repubblica, 27.03.2005, p. 15) del nostro stesso tempo!!!
Non accodiamoci alle varie gerarchie: “Sapere aude!” - cerchiamo di avere il coraggio di usare la nostra personale intelligenza e di co-noscere e di co-nascere.... finalmente, al di là delle fantasie e delle cecità teo-biologistiche e teo-razziste di una dis-umanità, zoppicante e moribonda.
Federico La Sala
già su:
www.ildialogo.org/filosofia/codicedavinci30032005.htm
"ANDRAGATHIA" (’NDRANGHETA). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
Indagine sulla fine del Profeta
Parla La studiosa tunisina Hela Ouardi, autrice del libro-inchiesta “Gli ultimi giorni di Maometto”: «Un crimine? Non lo sapremo mai. Ma qui nasce il malessere islamico»
di Karima Moual (La Stampa, 08.12. 2018)
Hela Ouardi, tunisina, insegna letteratura francese all’Istituto Superiore di Scienze Umane dell’Università di Tunisi ed è ricercatrice presso il Laboratorio di Studi sul Monoteismo al Cnrs di Parigi. Il suo libro Gli ultimi giorni di Maometto (Enrico Damiani editore) è la ricostruzione di uno degli eventi più misteriosi della storia dell’islam: la morte del Profeta. Con un taglio da romanzo la studiosa cerca di far emergere l’uomo sepolto sotto la leggenda eroico-religiosa per restituirlo alla storia. E lo fa, provando a porre le domande giuste che ancora coprono di mistero e leggenda quell’evento che segnerà per sempre la comunità musulmana. Ad arricchire l’inchiesta sono le numerose fonti tradizionali sunnite e sciite, studiate e approfondite da restituirci il ritratto di un uomo indebolito e minacciato da più parti.
«La prima generazione dei musulmani probabilmente non considerava Maometto un personaggio sacro. Lui stesso ha rivendicato di essere solo un mortale tra i mortali», scrive Hela Ouardi». Oggi l’adorazione dei musulmani per il Profeta è spinta a un tale parossismo che al personaggio si accompagna una vera e propria ossessione per la blasfemia. In un certo senso, la venerazione di cui è oggetto lo ha fossilizzato».
Un’inchiesta su Maometto, figura per molti fedeli intoccabile, non è un po’ rischiosa?
«Se prima di scrivere un libro sull’islam prendessimo in considerazione ciò che pensano i fedeli, non scriveremmo più una riga su questa religione. Non mi sento di aver preso un rischio particolare, perché da anni ormai vediamo bene che il fanatismo è un mostro cieco che non distingue le sue vittime. Colpisce tutti e dappertutto (anche i musulmani nelle moschee non vengono risparmiati!). Tuttavia, l’indagine sulla morte del Profeta è una vera e propria sfida intellettuale che mi sono prefissata: il lavoro su un argomento così delicato, la minuziosa esplorazione di decine di fonti della Tradizione, il lavoro di riferimento e di confronto dei diversi racconti, la raccolta dei pezzi del “puzzle” è stata un’avventura scientifica al tempo stesso difficile e appassionante».
Dal suo lavoro emergono elementi interessanti proprio perché contrastanti rispetto alla storia comunemente accolta dai fedeli musulmani. Scricchiola fortemente quel racconto divulgato da secoli sul ruolo del Profeta e sui suoi compagni più fidati, tutt’altro che «ben guidati». Com’è stata accolta questa lettura dal pubblico musulmano?
«Quando si pubblica un libro, si getta una sorta di bottiglia in mare, non sappiamo chi la prenderà e cosa ne farà. Ma posso dire che il libro è stato accolto molto bene. Ha incontrato molti lettori e non ho ricevuto alcuna minaccia. C’è una ragione molto semplice per questo, ed è che il mio libro è pieno di riferimenti alla Tradizione musulmana. Il lettore vede immediatamente che non sto inventando nulla e che questa immagine poco gloriosa dei Compagni del Profeta non viene fuori dalla mia immaginazione ma dai libri più ortodossi dell’islam».
L’immagine dei personaggi e anche degli eventi che li interessano è molto più politica che spirituale, il Corano stesso, come lo conosciamo oggi, è frutto di una redazione fatta molto tempo dopo la morte del Profeta. Quasi a perdere quella sua infallibilità, come autentica parola di Dio e di Dio solo. E così?
«Ci sono due modi di percepire il Corano: i credenti ci vedono la parola di Dio, infallibile e miracolosa; gli storici, i filologi eccetera lo vedono come un oggetto storico che ha subito un’evoluzione e in cui è intervenuta la mano dell’uomo. Da sempre (non solo oggi) sappiamo che il Corano, così come fu rivelato al Profeta, è perduto per sempre e che circolano molteplici versioni differenti di questo libro. L’argomento è stato trattato da diversi autori della Tradizione come Ibn Abî Dawûd, nel IX-X secolo, nel suo libro Kitâb al-Masâhif (il Libro dei manoscritti del Corano), dove passa in rassegna le diverse versioni del testo sacro. Penso che l’esistenza di diverse versioni del Corano non sia totalmente incompatibile con la fede: il musulmano può credere che sia un testo di ispirazione divina e ammettere che la compilazione e la trasmissione di questo testo sia un’opera umana quindi imperfetta».
Sappiamo però che un cospicuo numero di fedeli è invece convinto che il Corano sia opera perfetta, e quindi fuori da ogni discussione. Approfondire le incongruenze sulla morte del Profeta cosa potrebbe comportare non solo tra gli studiosi ma anche tra intellettuali e uomini di fede musulmana?
«In nessun momento la Tradizione dice categoricamente che la morte del Profeta è stata naturale; al contrario, la maggior parte delle fonti afferma che è stato avvelenato da una donna ebrea; altre versioni dicono che è morto di pleurite. Io non metto in dubbio nulla, non difendo alcuna ipotesi: espongo le storie della Tradizione, le commento, sottolineo le contraddizioni. E quando è di fronte a narrazioni contraddittorie dei testimoni che interroga, un investigatore inizia ad avere dubbi. Quindi per me la morte del Profeta è semplicemente misteriosa: c’è stato un crimine? La sua morte è stata naturale? Io non lo so e non lo saprà nessuno (a meno che non apriamo la sua tomba!), ma quello di cui sono sicura è che aveva dei sospetti sulla sua cerchia e pensava che potessero ucciderlo. Ne parlo a lungo nel mio libro».
Qual è l’obiettivo della sua inchiesta?
«Lo scopo di ogni indagine è la ricerca della verità. Ma la verità che stavo cercando non erano le circostanze della morte fisica del Profeta. Quella è una storia antica e ora è in prescrizione. La verità che stavo cercando sono le profonde cause storiche del malessere dell’islam nella storia moderna».
Ci sono sicuramente molte ombre su cui far luce nella storia dell’islam. I tabù sono tanti e la censura è molto forte, ma, oltre agli ultimi giorni del Profeta, quali sono i personaggi o gli eventi che meriterebbero una nuova rilettura storica?
«Vorrei rispondere: tutto nella storia dell’islam meriterebbe una nuova rilettura, perché la storia dell’islam è stata schiacciata troppo a lungo sotto il peso della leggenda che mostra personaggi santificati, idealizzati. Ora è necessario rileggere - e riscrivere - tutto, in modo tale da riportare quei personaggi alla loro umanità e mostrare che hanno un lato glorioso e un lato poco glorioso, come in fondo tutti i protagonisti della storia. L’islam sfortunatamente ha per troppo tempo confuso la mitologia e la storia, ed è giunto il momento di distinguerle».
Ha già avuto proposte per una edizione del suo libro in lingua araba?
«La traduzione in arabo è all’ordine del giorno. Probabilmente verrà pubblicato presto».
"PADRE NOSTRO ... NON CI INDURRE IN TENTAZIONE": MA CHI E’ IL "PADRE NOSTRO", IL PADRE DELLE NOSTRE MADRI E DEI NOSTRI PADRI?! DIO Amore ("Charitas") o DIO Mammona ("Caritas")?!
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
SERPENTE? PRESENTE! - UN ANAGRAMMA, IL SERPENTE DI BRONZO, E LO SDOGANAMENTO DI SATANA.
Lo sdoganamento di Satana
Dalla Polonia al Bataclan, invocare Lucifero sta diventando normale
Gli adoratori del demonio hanno aperto un tempio a Salem dove una volta s’impiccavano le streghe
Il loro obiettivo è essere riconosciuti e legittimati come ogni altra religione
di Marco Ventura (Corriere della Sera, La Lettura, 09.10.2016)
Una tipica casa vittoriana di Salem, nella contea di Essex, sulla baia del Massachusetts. Tetto scuro a punta, pareti d’assi orizzontali in legno bianco, portico con colonne. Sul cartello nero, la scritta «The Satanic Temple». Il Tempio di Satana. È qui il quartier generale mondiale di un’organizzazione che vanta 40 mila aderenti nei soli Stati Uniti, la maggior parte a Detroit. Appena inaugurato. Per chi subisce il fascino del diavolo, per chi è contro la religione dei più, Salem è la città giusta.
La sede del Tempio di Satana si trova a un chilometro da Gallows Hill, dove a fine Seicento morirono sul patibolo in 19, i più sfortunati tra i quasi 300 inquisiti e imprigionati per stregoneria. Nella Salem puritana della caccia alle streghe, dove apparivano ancora impensabili l’Illuminismo, le rivoluzioni francese e americana, la tolleranza e la libertà, il diavolo era il nemico della comunità e se ne sapeva riconoscere la presenza.
Ereditava un lungo passato, la gente di Salem che trascinava gli amanti del demonio sulla collina del patibolo. Per secoli di storia cristiana, gli adoratori di Satana sono stati l’antitesi del credente. Il diavolo combattuto dai cristiani riassumeva in sé tutte le divinità nemiche dell’unico vero Dio. Gli idoli dei popoli nemici di Israele, il vitello d’oro degli Ebrei fedifraghi, il culto dell’imperatore di Roma, le statuine sugli altari privati dei Romani, le divinità naturali di Britanni e Germani. Sbaragliati i quali, l’Inquisizione aveva ritrovato il nemico di sempre in eretici e streghe: diverse le forme d’espressione, identica l’impronta della Bestia.
Nel lungo percorso verso la tolleranza, la mappa era ancora cambiata. Il diavolo papista e il satana luterano erano divenuti, l’uno per l’altro, sempre meno diabolici. Poco a poco, i cristiani avevano smesso di vedere lo zampino del demonio nelle difformi dottrine di altri battezzati.
Satana si spostava nei territori di missione, nelle colonie. Uscito dal corpo di cattolici e luterani, era entrato nelle statue dei templi taoisti e nel ghigno rosso fuoco di una delle tante facce del Buddha; nelle maschere ancestrali del Congo e nell’inferno del Punjab; nelle possessioni degli schiavi neri di Bahia. Lo riconoscevamo, sempre spaventoso, sempre temibile, in quelle nuove forme. Sono diavoli dalla pelle scura, sulla stampa britannica, gli indiani che ammazzano migliaia di inglesi nell’ammutinamento del 1857.
Pensavamo che grazie a noi, alla nostra civilizzazione, anche i popoli del mondo potessero riconoscere la potenza diabolica, abbandonare la superstizione e abbracciare la nostra fede nell’unico Dio. Invece no. Proprio allora, quando tutto sembrava di nuovo chiaro, il diavolo si rimetteva in viaggio. Per tenere le colonie, gli occidentali imparavano ad accettare le braccia di Kali e il sorriso del Bodhisattva, a leggere i Veda e la Gita. Ne beneficiò Gandhi, che a Londra comprese la religione dell’India e incontrò il nuovo avatar di Satana: sul marciapiede di una stazione, quel giorno di gennaio del 1891, quando vide un sacerdote aggredito da militanti atei.
Dall’altra parte dell’Atlantico era appena stata costruita la casa di Salem in cui oggi ha sede il Satanic Temple; dopo due anni, a Chicago, si sarebbe riunito per la prima volta il Parlamento mondiale delle religioni. A Gandhi il diavolo era sembrato farsi ateo, ma durante la lotta moderna tra i credenti e i materialisti il principe delle tenebre parve piuttosto eclissarsi. Se era morto Dio, perché non sarebbe dovuto morire il suo Nemico? Poi vennero Khomeini e Wojtyla, i mujaheddin pagati dai protestanti americani cacciarono i sovietici. Tirammo giù il muro; e dietro le macerie c’era lui.
Fin dagli anni Sessanta il diavolo era apparso anzitutto ai cristiani che ritrovavano la fede antica e popolare, spronati dall’energia carismatica. Per tanti nuovi battezzati il demonio non apparteneva più a una religiosità negativa e isterica, da riscattare nella modernità cristiana positiva e razionale. L’inferno esisteva davvero, e non era certo vuoto. Il ritorno del diavolo divise i cristiani buoni da quelli che militavano per i diritti gay, le donne prete e il dialogo ecumenico, quelli che facevano guerra alla verità e al matrimonio, quelli, appunto, che non credevano più a Belzebù, agli inferi, all’Apocalisse.
Il ritorno del diavolo, tuttavia, fu molto più ampio. Fiorì l’interesse per il demonio di teologi e letterati. Sadik al-Azm scrisse fin da metà anni Sessanta che il rinnovamento religioso islamico dipendeva da una rilettura del rapporto tra Satana e Allah basata su fonti sufi. Salman Rushdie pubblicò i suoi dirompenti Versi satanici. Vi fu poi la protesta generazionale di chi percorreva all’inverso le scale verso il paradiso dei Led Zeppelin, ascoltava i Black Sabbath, simpatizzava con il diavolo dei Rolling Stones. Crebbe inoltre il pubblico interessato all’occultismo e alla magia. Per l’opinione pubblica tutto si esauriva nel settarismo satanista, nei suoi riti blasfemi e nei suoi atti criminali. Eppure le sette sataniche erano solo un pezzetto di un fenomeno molto più grande.
L’occasione per comprenderlo capita il 13 novembre 2007. Al club Ucho di Gdynia, a nord di Danzica, si esibiscono i Behemoth, band metal polacca affascinata dal diavolo. Il leader Adam Darski, noto come Nergal, canta il suo pezzo più celebre, Lucifero, poi straccia una Bibbia e ne getta frammenti al pubblico. È un libro di bugie, grida, è sterco, ipocrisia, la Chiesa cattolica è la religione più assassina del pianeta. Ne nasce un caso che tiene occupati i giudici polacchi fino al 2012, quando la Corte suprema risparmia la condanna a Darski per ragioni procedurali. Non è un caso eccentrico, isolato. Come tanti altri, Nergal usa il diavolo per aggredire il cattolicesimo nazionalista e conservatore. E usa la denuncia del cattolicesimo retrivo di Radio Maryja e dei fratelli Kaczynski per costruire intorno al diavolo un credo polimorfo. C’è identità, visibilità mediatica, politica, commercio. C’è il collegamento con pezzi di società. C’è la resistenza in tribunale che si tramuta in indiretto riconoscimento.
Stentiamo a crederci, ma è proprio così. Stanno diventando una religione i seguaci del demonio. Imparano da chi negli ultimi decenni ha fatto la stessa strada: da chi era un’associazione criminale, e poi non riconosciuta, e gode ora dello statuto di religione. Come i mormoni, i testimoni di Geova, i seguaci di Scientology e, quasi quasi, gli atei. Come il movimento Wicca dei neo-pagani e delle neo-streghe.
Anche il satanismo sta diventando una delle tante religioni organizzate che lottano per la propria legittimità, e persino per il proprio diritto a essere eguali alle altre. La società è propizia. I satanisti organizzati seguono il flusso della corrente che porta al mare sempre più vasto delle organizzazioni di religione o di credo. Mitigano gli eccessi, si mostrano socialmente impegnati, propugnano il dialogo, curano la comunicazione, proclamano i diritti dell’uomo, si compromettono col mercato.
Cambia di conseguenza la percezione della dimensione criminale del fenomeno satanico. Non c’è differenza, per il giudice, tra il bambino di Satana che stupra un’adolescente e un prete reo di pedofilia. Per i gruppi satanici, come per la Chiesa di Scientology e la Santa Sede, l’importante non è non delinquere, in ogni organizzazione c’è un delinquente, ma è schivare l’accusa di associazione a delinquere.
Il Tempio satanico di Salem, come gran parte del satanismo americano rifugiatosi sotto l’ombrello della libertà religiosa, è l’esempio perfetto. I cittadini di Salem non hanno niente da temere, sostengono i rappresentanti «della maggiore organizzazione satanista al mondo», hanno anzitutto da guadagnare da un’associazione di gente onesta, dedita all’interesse sociale, all’emancipazione dall’oscurantismo, alla libertà individuale, al pluralismo e al progresso. La corrente trascina i gruppi satanici verso il mare della religione.
Adorare il diavolo può catalizzare significati diversissimi, e al contempo avere senso per molti. La prova più significativa, e più drammatica, viene la notte del 13 novembre 2015. Al Bataclan di Parigi, la nostra migliore gioventù canta «bacia il diavolo» in un gesto di libertà, di evasione, di sfogo, di energia, e viene ammazzata dalla peggiore gioventù islamica, nichilista e omicida, persuasa che non meriti altro chi inneggia a Satana. Si è capovolto l’ordine di un tempo.
Il Tempio del Massachusetts non è un’americanata, Salem e Parigi sono connesse. Si è allargato il mare delle religioni e del credere: c’è spazio per tutti, e per ogni contraddizione; per far festa col diavolo, e per morirne. Parigi e Salem si chiamano. Anche in Europa, tra pochi giorni, si celebra Halloween. A Salem si preparano le zucche: in 250 mila visiteranno la città dove per il diavolo si finiva impiccati.
Il poeta e artista Ashraf Fayad condannato a morte in Arabia Saudita / Poet and Artist Ashraf Fayadh Sentenced to Death in Saudi Arabia / *
Stando all’Independent, l’Osservatorio dei Diritti Umani, dopo aver visionato gli atti del processo, riferisce che i capi d’accusa contro Fayadh includono il reato di apostasia e quello di abiura della fede musulmana. Tra gli artisti che sono stati recentemente perseguitati dai regimi conservatori, ricordiamo la fumettista iraniana Atena Farghadani e il regista ucraino Oleg Sentsov.
Fayad è membro di Edge of Arabia, un’organizzazione britannica-saudita, che il 16 novembre ha realizzato un’istallazione di due murali alla Nazioni Unite nell’ambito di Our Mother’s House, iniziativa artistica portata avanti con Art Jameel in supporto delle donne del sud-ovest dell’Arabia Saudita. I due gruppi sono stati segnalati alla Focus Section 2015 dell’Armoury Show.
“Fayad è stato un importante tramite per l’introduzione dell’arte contemporanea saudita nel Regno Unito e per connettere Tate Modern alla contemporanea scena emergente”, ha detto il co-fondatore di Edge of Arabia Stephen Stapleton al Guardian. “Ha curato un’importante esposizione a Jeddah nel 2013 e co-curato un’esposizione alla Biennale di Venezia nello stesso anno.”
Fayad è stato arrestato il 1 gennaio del 2014, con l’accusa di aver promosso l’ateismo nella sua raccolta poetica (Instruction Within, Le istruzioni sono all’interno), pubblicata nel 2008. Nell’agosto del 2013 era già stato fermato dalla polizia, per poi essere rilasciato il giorno dopo su cauzione. Sui social gli amici hanno affermato che la polizia, non riuscendo a provare il suo ateismo, avrebbe preso a pretesto i suoi capelli lunghi e l’abitudine di fumare in pubblico.
“Mi hanno accusato di ateismo e di diffusione di idee distruttive”, ha detto Fayadh al Guardian, spiegando come le sue poesie trattassero invece “semplicemente della sua condizione di rifugiato palestinese.... Di questioni filosofiche e culturali. Ma i religiosi estremisti le hanno interpretate come idee distruttive contro Dio.”
Inizialmente condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate nel 2014, Fayadh ha poi subito un nuovo processo. Ora ha trenta giorni a disposizione per fare appello contro la nuova decisione, presa in base alla legge islamica di Sharia, su cui il sistema legislativo saudita si fonda.
Stando a quanto riportato, durante il processo un testimone dell’accusa avrebbe accusato Fayadh di maledire Dio, Maometto e l’Arabia Saudita. Fayadh è convinto che queste affermazioni siano scaturite da una discussione sull’arte contemporanea avuta in un bar con un altro artista.
Stando al Guardian, gli atti del processo riportano che Fayadh avrebbe affermato: “Faccio ammenda al cospetto di Dio l’altissimo e mi dichiaro innocente rispetto a quanto compare nel mio libro, menzionato in questo caso.”
“Sono rimasto davvero scioccato,” ha detto Fayadh rispetto al nuovo verdetto, “ma me lo aspettavo, sebbene non abbia fatto nulla per meritarmi la morte.”
* FONTE: IRISNEWS (ripresa parziale, senza allegati).
Ashraf Fayadh, poesia di libertà
Arabia saudita. Cresce la mobilitazione internazionale a sostegno del poeta e artista palestinese condannato a morte da una corte saudita per "apostasia" e "abbandono dell’Islam"
di Michele Giorgio (il manifesto, 25.11.2015)
All’inizio del 2014 cento artisti, intellettuali, scrittori e poeti del mondo arabo firmarono un appello che chiedeva la sua immediata liberazione. E in seguito tanti altri hanno denunciato la sua detenzione.
Niente da fare. Ashraf Fayadh resta in carcere. E nei giorni scorsi l’artista e poeta palestinese, cresciuto in Arabia saudita, è stato condannato a morte per “apostasia” e per “aver abbandonato l’Islam”.
Il suo nome si aggiunge a quelli del blogger Raif Badawi (al quale il mese scorso è stato assegnato il Premio Sakharov), condannato al carcere e alle frustate, e del giovanissimo attivista Nimr Baqir al Nimr, arrestato nel 2012 e condannato anch’egli a morte.
Fayadh, Badawi e al Nimr sono soltanto i più noti dei numerosi detenuti per reati d’opinione e politici che languono nelle carceri dell’Arabia saudita alleata di ferro dell’Occidente e impegnata, con armi e soldi per i “ribelli” siriani, a «portare la democrazia e la libertà» a Damasco.
Ora molti, ovunque, si stanno mobilitando per salvare Fayadh dalla morte. Nessuno sa se questi sforzi avranno successo. Le proteste internazionali sino ad oggi non sono servite a ridare la libertà a Badawi e al Nimr.
Fayadh è stato arrestato la prima volta ad Abha, al termine di una accesa discussione con un altro artista, da agenti della muttawa, la polizia religiosa, per aver pronunciato, secondo l’accusa, frasi contrarie alla morale e alla fede. Rilasciato su cauzione è stato di nuovo arrestato e condannato con l’accusa di «aver promosso l’ateismo» nella sua raccolta di poesie “Instructions Within” del 2008.
Molti credono che Fayyadh in realtà sia stato arrestato per aver postato il video di un uomo fustigato in pubblico ad Abha. Comunque sia, un tribunale minore, ribaltando la sentenza del 2014 che aveva condannato Fayadh a quattro anni di prigione e a 800 frustate, lo ha ora condannato a morte.
A carico del poeta ci sono anche le accuse di uno studioso islamico che ha denunciato come «blasfeme» le sue poesie, a suo dire, pericolose perchè potrebbero «spingere altre persone ad allontanarsi dall’Islam».
Fayadh in primo grado aveva presentato le sue scuse ottenendo una sentenza più leggera rispetto a quella richiesta dalla pubblica accusa. In appello le cose sono andate diversamente. I giudici peraltro non hanno tenuto in considerazione i testimoni della difesa.
Ecco una delle poesie del condannato a morte, tradotta da Chiara De Luca di Irisnews.
«Asilo: Stare in piedi in coda alla fila. Ricevere un boccone di pane. Resistere! Qualcosa che tuo nonno era solito fare. Senza saperne la ragione. Il boccone? Tu. /La patria: Un documento da mettere nel portafoglio. /Denaro: Carta con sopra immagini dei leader. /La foto: Il tuo sostituto previo tuo ritorno. /E il ritorno: mitologica creatura... uscita dai racconti di tua nonna. Fine della prima lezione».
Versi dal significato pernicioso per gli inflessibili giudici delle corti saudita.
D’altronde nel regno dei Saud la letteratura è sempre stata guardata con diffidenza perchè potrebbe aprire le coscienze e portare i cittadini ad esprimere dissenso verso un sistema sociale sotto il controllo dalle gerarchie religiose wahabite. Nel 2014, alla Fiera del libro, furono sequestrati migliaia di volumi - specie sulla condizione delle donne - di centinaia di autori ritenuti poco rispettosi della fede.
Le pressioni internazionali, sollecitate da Human Rights Watch, potrebbero evitare a Fayadh di seguire la sorte delle 150 persone che sono state decapitate con la spada nel 2015 per decisione dei giudici sauditi.
Si teme in questi giorni anche per la sorte dell’avvocato Waleed Abulkhair, arrestato e condannato lo scorso anno per «incitamento dell’opinione pubblica».
Abulkhair inizialmente era stato condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi, a sorpresa, inasprita da un altro tribunale, specializzato in «terrorismo», che a inizio 2015 ha sentenziato una pena di 15 anni.
Il pugno di ferro delle autorità saudite si è inasprito durante e dopo la «primavera araba». Il timore che il malcontento crescente tra i sudditi più giovani sfoci in manifestazioni di protesta ha spinto la monarchia a usare la repressione con i dissidenti politici e gli attivisti delle riforme.
L’Arabia mette a morte il poeta dei versetti “blasfemi”
Fayadh, artista palestinese di 32 anni, è stato accusato di “apostasia” da una corte saudita.
Appelli di grazia dagli Usa alla Cisgiordania
di Maurizio Molinari (La Stampa, 02/12/2015
corrispondente da Gerusalemme
«Ha scritto poesie blasfeme»: con questa motivazione il tribunale saudita di Abha ha condannato a morte lo scrittore palestinese Ashraf Fayadh innescando proteste e appelli di grazia, da Ramallah a New York, destinati al sovrano wahabita Salman.
CHI È
Fayadh ha 32 anni, è nato in Arabia da una famiglia palestinese originaria della Striscia di Gaza, ed è una figura di spicco dell’arte saudita non solo per le sue poesie ma anche per essere stato protagonista del gruppo «Edge of Arabia» che ha curato una propria esposizione alla Biennale di Venezia del 2013. Proprio in quell’anno è stato arrestato a seguito di un vivace alterco, in un caffè di Abha, con uno degli avventori che affermava di non gradire le sue strofe considerate in contrasto con i dettami dell’Islam.
FOTO DI DONNE SUL TELEFONO
Nel processo che seguì, il procuratore lo accusò di «relazioni sessuali improprie con persone del sesso opposto» - sulla base della scoperta di foto di donne sul suo cellulare - con una conseguente sentenza a quattro anni di detenzione e 800 frustate. Le foto divennero un capo di accusa sebbene, per il poeta, fossero di «donne vestite». L’accusa voleva la condanna a morte ma il giudice la negò, affermando che il poeta palestinese si era «pentito» riconoscendo gli errori commessi. Più organizzazioni per i diritti umani, come «Human Rights Watch», chiesero in quel caso la liberazione del poeta ma l’effetto è stato opposto: a metà novembre è stato assegnato al caso un nuovo giudice che ha ritenuto «non sufficiente» il pentimento di Fayadh in quanto i «versetti apostati» avrebbero richiesto «un comportamento e un linguaggio assai più convinto».
Fra i versetti di Ashraf Fayadh tradotti in Occidente vi sono quelli in cui definisce il petrolio «incapace di fare del male a eccezione delle tracce di povertà che si lascia alle spalle», descrive l’anziano nonno «come una persona a cui piaceva stare in piedi, completamente nudo» e parla di «danzatrici seducenti» per affermare anche che «i profeti si sono ritirati e aspettarli è oramai inutile». Per il giudice del tribunale saudita si tratta di strofe «malefiche» e ha così dato luce verde alla pena di morte, senza tuttavia indicare la data dell’esecuzione.
Alla genesi dell’intera vicenda, secondo la sorella Raeda Fayadh che vive a Gaza, vi sarebbe una «colossale incomprensione» perché l’alterco originale «avvenne in un bar mentre stavano guardando una partita di calcio in tv e sono volate parole grosse» fino a quando uno dei presenti ha chiamato la polizia religiosa del regno accusando il poeta di aver «insultato Maometto e l’Islam nel suo libro di poesie» determinandone l’arresto.
ONG IN CAMPO
A Ramallah sono molti i poster di Ashraf Fayadh esposti in pubblico, i media palestinesi lo descrivono come un «caso di libertà di coscienza» e sul web è iniziata la campagna #freeAshraf a cui hanno aderito anche il poeta siriano Adonis e quella britannica Carol Ann Duffy, co-firmatari di una lettera aperta al re Salman nella quale affermano di essere «sotto choc» a causa di una «sentenza da rivedere» perché «avere delle idee non significa commettere crimini» in quanto «ognuno ha il diritto a esprimere le proprie opinioni». Amnesty International ha raccolto oltre 22 mila firme per una campagna tesa a obbligare Riad a rivedere la condanna. «La sentenza di morte dopo un processo farsa ai danni di Ashraf Fayadh - afferma Sevag Kechichian, ricercatore sull’Arabia di Amnesty - è un’ulteriore dimostrazione di come le autorità del regno intendono piegare i diritti umani ai loro bisogni privati».
Da qui l’appello di «Human Rights Watch», con Sarah Leah Whitson direttrice per il Medio Oriente, a re Salman affinché conceda la grazia perché «non è accettabile che l’Arabia Saudita decida di mettere in prigione una persona solo in quanto afferma ciò che pensa». A far crescere l’ondata di proteste verso la casa reale wahabita c’è la prospettiva che «un poeta di trent’anni venga decapitato in pubblico», aggiunge Whitson.
Ashraf Fayadh’s “Disputed” Poems / Le poesie “contestate” di Ashraf Fayadh
Ashraf Fayadh, Poems / Poesie
La pugnalata ai «Versi satanici»
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 15 giugno 2011)
Vent’anni fa, Ettore Capriolo era già uno dei più noti traduttori italiani dall’inglese. Solo negli ultimi tempi, aveva tradotto per Mondadori La tamburina di Le Carré e Fiesta di Hemingway. Dal 1989 Capriolo era soprattutto il traduttore dei Versi satanici di Rushdie, il libro che era costato all’autore anglo-indiano e ai suoi editori la celebre fatwa di Khomeini: ogni «intrepido musulmano» sappia che solo la morte può ripagare il sacrilegio; ogni «islamico fervente» esegua al più presto la sentenza capitale.
I riflettori si puntarono su Rushdie, la star. Ma nessuno di coloro che avevano avuto a che fare col volume era al riparo. Il 3 luglio 1991 Ettore Capriolo ricevette nella sua abitazione milanese di via Curtatone un sedicente iraniano interessato ad una certa traduzione. Dopo aver invano chiesto il recapito di Rushdie, l’uomo aggredì Capriolo: lo prese dapprima a pugni e poi, estratto dalla giacca un coltello, menò fendenti al torace, al collo, agli avambracci e al volto, prima di dileguarsi.
Nove giorni dopo, l’inviato del «Corriere», Paolo Chiarelli, trovò Capriolo convalescente a casa, il braccio destro ingessato. Era stato necessario un intervento di ricostruzione di un tendine, si era scoperta una lesione all’occhio. Nell’intervista, la normalità di Capriolo sfidò l’eccezionalità dell’evento. Il traduttore parlò delle spese sostenute per la porta blindata, il sistema d’allarme, le cure; del lavoro di traduzione interrotto. Della Mondadori «che si è fatta viva soltanto in ospedale con un mazzo di fiori e un biglietto firmato dal suo presidente»; di Rushdie che «dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma».
L’editore e l’autore prosperavano. Il traduttore pativa. Poche ore prima, dall’altra parte del mondo, in un ascensore dell’Università di Tsukuba, veniva ucciso Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei Versi. In questi vent’anni abbiamo imparato a considerare la storia dei Versi satanici come l’apertura di un mondo nuovo fatto di guerre di religione, di scontro globale, di libertà occidentale in pericolo, di culture contro.
Le migliaia di manifestanti anti Rushdie di Bradford e Londra suggellarono la metamorfosi. In piazza a cospargere di paraffina e incendiare i libri di Rushdie, il mondo si scoprì non più pakistano, iraniano, egiziano, ma musulmano. Fu così forte quel «siamo tutti musulmani» che ne trascurammo allora e ne abbiamo trascurato per vent’anni sfumature, differenze, limiti, ambiguità.
Quella storia, del resto, era la storia di tutti noi, e non c’era barriera religiosa o culturale che tenesse. Negli stessi anni in cui respingevano i ricorsi contro Rushdie perché offendere l’Islam non è reato, i giudici inglesi condannavano chi offendeva il cristianesimo e vietavano la visione di film blasfemi su Santa Teresa d’Avila. E i milanesi che in quel luglio 1991 leggevano sul «Corriere» dell’attentato a Capriolo e delle polemiche per l’attacco a Papa Wojtyla del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli, alzando gli occhi trovavano le pubblicità giganti con il bacio tra il prete e la suora fotografato da Oliviero Toscani per Benetton.
Per i cristiani come per i musulmani, la sfida era la stessa, nello stesso spazio e tempo. Salman Rushdie lo aveva previsto nel 1984: «Nel mondo globale non abbiamo dove nasconderci, dove trovare certezze». Sul «Corriere» del 13 luglio 1991, nel suo commento agli attentati contro Capriolo e Igarashi, Carlo Bo resistette a quella piena aggrappandosi alla potenza delle lettere. E denunciò l’«oltraggio portato alle ragioni della letteratura», esaltò «la natura della poesia, la forza della sua libertà, la purezza del suo discorso che va ben al di là della regola e della norma delle religioni». In quel paesaggio, l’Ettore Capriolo ferito nel fisico e nel morale, blindato nell’appartamento di via Curtatone, apparve una vittima minore.
«Ma che seccatura» commentò al policlinico, subito dopo il suo ricovero, «adesso sono diventato un martire». Martire secondario però. In fin dei conti era solo il traduttore. Lo avevano colpito perché non c’era di meglio. O almeno così ci parve. Perché invece, vent’anni dopo, le cose appaiono diverse. Nel mondo globale la traduzione è divenuta la grande metafora del lavoro da fare contro l’odio e la paura. Un’incessante, umile, meticolosa, opera di traduzione tra lingue, culture, religioni, norme. Tradurre. Pagina dopo pagina. Realtà dopo realtà. La discrezione di Capriolo, la sua normalità, ci nascose allora questa verità, e ce la svela oggi.
Certo l’attentatore avrebbe preferito pugnalare Rushdie. Ma colpendo il traduttore al posto dello scrittore, «l’intrepido musulmano» aggiunse senza saperlo un obiettivo ancora più profetico: il traduttore, appunto. «Sono soltanto un professionista. Ho fatto il mio dovere», commentò Capriolo dopo l’aggressione. E poi tacque, senza vendere la sua grande storia ad un mercato pronto a comprare anche i fatti più meschini. Il suo dovere di allora è il nostro dovere di oggi. Tradurre per disinnescare ogni fanatismo.
Dibattito sul più famoso capolavoro LEONARDESCO
Dal Codice Da Vinci agli studi degli esperti
Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo
Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili.
La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna
MILANO - Il Cenacolo di Leonardo è uno dei capolavori più noti e studiati al mondo. Il lungo restauro, le condizioni di difficile conservazione dovute ai «vizi d’origine» della parte sulla quale è stato realizzato l’affresco, sono tra gli elementi che negli anni lo hanno riportato all’attenzione del pubblico.
Ma c’è poi un versante legato alle interpretazioni del «linguaggio» di Leonardo che ha attratto,da sempre, molti studiosi. Un filone che, per la quantità di misteri che sembra racchiudere, ha perfino avuto una traduzione «popolare» di grande successo grazie al libro (e al film che ne è stato tratto) Il Codice da Vinci di Dan Brown. Un successo mondiale, quello dello scrittore americano, che ha indirizzato anche le principali attenzioni del pubblico su alcuni particolari dell’affresco. Non necessariamente i più importanti, però. Come quello della «figura femminile» accanto a Gesù, molto funzionale alla ricostruzione di Dan Brawn per la tesi del matrimonio tra Cristo e la Maddalena e la successiva discendenza, mantenuta segreta e protetta dai Templari. Il romanzo fa riferimento sia alla simbologia (la V che si forma tra San Giovanni e il Cristo) sia alla rappresentazione, effettiva, di una donna (la Maddalena) e non dell’evangelista, alla destra di Gesù. Ovviamente la verità romanzata, che pure si basa su ipotesi di studio consultate da Dan Brawn, affascina. Ma davvero, nel suo affresco, Leonardo ha dipinto una donna al posto di San Giovanni?
LO STUDIO SULL’ARAZZO - Panorama, questa settimana, pubblica un’intervista a Sabrina Sforza Galizia, studiosa che pubblica ora un libro intitolato «Il Cenacolo di Leonardo in Vaticano. Storia di un Arazzo in seta e oro», aggiunge nuovi particolari sia sulle profezie astronomiche che la versione leonardesca dell’Ultima Cena conterrebbe, sia sul particolare della figura femminile. La novità è che gli elementi sui quali ha potuto basarsi la studiosa derivano (anche) da un arazzo, copia esatta del Cenacolo commissionata a Leonardo da Luigi XII, custodito ora in Vaticano. In base all’esame dell’arazzo, risultano più chiari tanti indizi sulle profezie «cifrate» nel capolavoro, in particolare il calcolo sulla fine del mondo. E, anche, sulla figura femminile. «Quello di Dan Brawn - dice a Panorama Sforza Galizia - è un pasticcio che ha suggestionato milioni di persone, ma non offre un cifrario per decrittare il messaggio del Cenacolo. Leonardo dipinge davvero San Giovanni con tratti somatici di una donna e lo fa volutamente, perché nel linguaggio che usa San Giovanni è "femmina"».
Il motivo? Perché, secondo la studiosa «utilizza la tradizione pittorica che fa uso della dualità maschio-femmina per simboleggiare una disgiunzione astrononomica necessaria per il calcolo dei tempi (...). Complicato? Forse, ma nulla è semplice negli studi su Leonardo. E poi, spiega, la terminologia maschio-femmina vige tuttora anche tra i nostri falegnami ed elettricisti e rispecchia un termine tecnico applicato anche all’astronomia».
«GIOVANNINA , VISO FANTASTICO» - Certamente i lettori di Dan Brawn e quanti che hanno visto il film si saranno sorpresi di sapere che nel Cenacolo fosse rappresentata una donna. Magari hanno pensato anche a una forzatura romanzesca. Invece la «presenza» femminile era già nota agli studiosi. Diversa cosa è attribuirle poi significati precisi e legati a messaggi cifrati. Le spiegazioni per la presenza della figura femminile possono essere anche altre. E persino molo più semplici, perché lasciate dallo stesso maestro nei suoi scritti. «Per trovare i volti degli apostoli - spiega infatti Vittoria Haziel, studiosa dell’opera leonardesca - Leonardo girava per le strade di Milano e segnava appunti sui suoi manoscritti sulle figure incontrate. Per una di queste egli scrive chiaramente che si tratta di "Giovannina, viso fantastico sta a Santa Caterina allo spedale"». Non si sa se si trattasse di un’infermiera o di una malata. Ma secondo la Haziel, che ha pubblicato di recente il libro «La Confessione di Leonardo» è proprio lei che dà origine alla figura alla destra di Gesù. «Questo appunto si trova infatti proprio sotto a quello della figura che ispira Cristo, o meglio Crissto, con due esse, come scrive Leonardo: "Giovan Conte, quello del cardinale del Mortaro". «Nessun apostolo "travestito" da donna quindi - conclude la Haziel - ma una donna vera e propria».
Redazione Online
Cenacolo, quell’Apostolo è una Donna
di Dario Fo
Anticipiamo, in un pezzo che parte dalla prima pagina del giornale, un brano della lezione che Dario Fo terrà domenica sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma (ore 20). Il premio Nobel presenterà il volume «Leonardo, l’Ultima Cena-Indagini, ricerche, restauro» (a cura di Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, Nardini Editore) e subito dopo terrà una lezione-spettacolo sullo stesso argomento. *
Quasi tutte le guide che illustrano ai visitatori il Cenacolo di Leonardo si soffermano abbondantemente sulla scansione dei personaggi: «Osservate come gli apostoli siano radunati a gruppi di tre, mentre nel mezzo, quasi isolato e inscritto in un perfetto triangolo equilatero, sta il Cristo come assorto con le mani stese, quasi abbandonate sul tavolo».
Ancora descrivono le guide: «Alla destra di Gesù vediamo l’immagine di quello che è comunemente chiamato Giovanni o l’apostolo prediletto del Salvatore».
Osservandolo però con attenzione viene il fiero dubbio si tratti di una giovane donna. A questo riguardo sono nate dispute alle volte feroci. Uno dei libri di maggior successo degli ultimi vent’anni, che ha fatto grande scandalo, Il codice da Vinci di Dan Brown, si muove proprio dal presupposto che questo apostolo sia di sesso femminile, anzi più esattamente sia la Maddalena, che la tradizione popolare e più di un Vangelo apocrifo indicano come la moglie di Gesù.
Qualche anno fa, a Palazzo Reale a Milano, fu allestita una grande mostra dal titolo Il genio e le passioni in cui venivano esposti diecine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo; inoltre nella prima parte della mostra erano esposte tavole, miniature e strappi di affreschi realizzati da artisti vissuti prima di Leonardo. Nella gran parte di queste Ultime Cene si nota sempre la presenza di una donna vicino a Gesù, evidentemente la Maddalena che spesso si ritrova abbandonata fra le braccia del Messia.
Tornando all’Ultima Cena di Leonardo, le figure, con la loro gestualità e in particolare col movimento delle braccia, del corpo e delle mani, producono un agitarsi quasi di onde marine che disegnano archi distesi e spezzati, arabescanti su se stessi.
Flutti che scendono e riprendono, sorpassando, la figura di Cristo che sta immobile come inscritta dentro una piramide.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.02.08, Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.17
ONORI SATANICI PER SIR RUSHDIE *
Il Parlamento pakistano ha approvato all’unanimità una mozione di condanna nei confronti della decisione della regina Elisabetta che, solo pochi giorni fa, aveva conferito a Salman Rushdie il titolo di baronetto.
«L’Assemblea nazionale - si legge nel documento diffuso dal ministro per gli Affari parlamentari Sher Afgan Khan Niazi - è costernata per il titolo concesso al blasfemo Salman Rushdie dal governo britannico per il suo libro ’I versetti satanici’, che mira alla profanazione del Corano e della Sunna».
Ma il rappresentate del governo pakistano si è spinto ancora più in là, affermando che i libri del «miscredente» Rushdie giustificano milioni di «attacchi suicidi». È l’occasione, ha rincarato la dose Mohammed Ijaz ul-Haq, ministro per gli affari religiosi, affinché «un milione e mezzo di musulmani considerino con gravità questa decisione. L’Occidente accusa i musulmani di terrorismo, ma se qualcuno si facesse saltare in aria con una bomba addosso sarebbe nel giusto, a meno che il governo inglese non chieda solennemente scusa e ritiri il titolo di sir».
* il manifesto, 19.06.2007
DIVAMPA LA PROTESTA PER «SIR» RUSDHIE *
Il ministero degli Esteri iraniano ha convocato l’ambasciatore britannico a Teheran per protestare contro il conferimento in Gran Bretagna dell’onorificenza di baronetto allo scrittore Salman Rushdie. Ne ha dato notizia l’agenzia iraniana Fars, spiegando che all’ambasciatore Geoffrey Adams è stato comunicato che Teheran considera la decisione di Londra come «un atto provocatorio destinato a suscitare la rabbia di mezzo miliardo di musulmani in tutto il mondo». Immediata la reazione inglese, che in una nota ha spiegato che l’onorificenza è stata conferita allo scrittore anglo-indiano per i servizi resi alla letteratura britannica e che non deve essere considerata un insulto contro l’Islam. Nel 1989 contro Rushdie era stata emessa una «fatwa», una sentenza di morte per i contenuti considerati «blasfemi» del suo libro «I versetti satanici».
Ad aggiungere benzina sul fuoco, viene sempre da Tehran la notizia che i cittadini iraniani invitati dall’ambasciata inglese in occasione del compleanno della regina Elisabetta saranno sottoposti a un’«indagine della polizia» perché sospettati di aver picchiato alcuni contestatori fondamentalisti del party. È da ricordare che in quella occasione un gruppo di giovani integralisti contestò il ricevimento con lancio di uova e pietre contro gli invitati. Intanto in vari altri paesi musulmani, anche con governi decisamente laici, si acuiscono le critiche a Londra. in Malaysia e in Pakistan ci sono state nuove manifestazioni popolari di protesta, mentre in Egitto il parlamento ha condannato l’onorificenza di baronetto conferita a Salman Rushdie.
* il manifesto, 21.06.2007
La stessa tradizione cristiana confuse la Maddalena prima con una prostituta, poi con la sorella di Marta e Lazzaro: ma la deformazione vera nacque con lo gnosticismo
Maria di Magdala, troppi equivoci
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 03.01.2007)
Una storia di equivoci è quella che ha segnato fin dalle origini la figura di Maria proveniente da Magdala, un villaggio posto sulla costa occidentale del lago di Tiberiade, allora centro commerciale ittico, tant’è vero che in greco si chiamava Tarichea, cioè «pesce salato». Da questa località, Maria emerge all’improvviso nel Vangelo di Luca (8, 1-3), in un elenco di discepole di Cristo. Il ritratto è abbozzato con una sola pennellata: «Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni». Il «demonio» nel linguaggio evangelico non è solo radice di un male morale ma anche fisico che può pervadere una persona. Il «sette», poi, è il numero simbolico della pienezza. Non possiamo, dunque, sapere molto sul male grave, morale o psichico o fisico che colpiva Maria e che Gesù le aveva eliminato. La tradizione popolare, però, nei secoli successivi non ha avuto esitazioni e ha fatto diventare Maria Maddalena una prostituta. Ma perché? La risposta è semplice: nella pagina evangelica precedente, il capitolo 7 di Luca, si narra la storia di un’anonima «peccatrice nota in quella (innominata) città». L’applicazione era facile ma infondata: questa «peccatrice» pubblica dovrebbe essere Maria di Magdala, presentata poche righe dopo! A lei venne, allora, attribuita tutta la vicenda raccontata dall’evangelista. Saputo della presenza di Gesù a un banchetto in casa di un notabile fariseo, essa aveva compiuto un gesto di venerazione e di amore particolarmente apprezzato dal Cristo: aveva cosparso di olio profumato i piedi del rabbì di Nazaret, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli.
A questo primo equivoco ne subentrava un altro, in una specie di giuoco delle sovrimpressioni. È noto, infatti, che nel capitolo 12 di Giovanni, Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, amici di Gesù, compie lo stesso gesto - che, tra l’altro, era segno di ospitalità e di esaltazione dell’ospite - dell’anonima peccatrice di Luca. Infatti, durante il pranzo, «cospar ge i piedi di Gesù con una libbra di olio profumato di vero nardo assai prezioso e li asciuga coi suoi capelli». È così che nella tradizione cristiana Maria di Magdala viene trasformata in Maria di Betania, sobborgo di Gerusalemme! Frattanto, però, Maria Maddalena era effettivamente giunta a Gerusalemme alla sequela di Gesù per vivere con lui e coi discepoli le sue ultime ore tragiche. Tutti gli evangelisti sono, infatti, concordi nel segnalare la sua presenza al momento della crocifissione e della sepoltura di Cristo. Ed è proprio accanto a quella tomba nella luce ancora pallida dell’alba di Pasqua che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) ambienta il celebre incontro tra Cristo e Maria di Magdala.
Come è noto, Maria scambia il Cristo col custode dell’area cemeteriale. Ora, la «cecità» è tipica di alcune apparizioni del Risorto: si pensi solo ai discepoli di Emmaus che gli camminano insieme per ore senza riconoscerlo (Luca 24, 13-35). Il significato è naturalmente teologico: pur essendo ancora Gesù di Nazareth, il Cristo glorioso travalica le coordinate umane, storiche e fisiche. Per poterlo «riconoscere» è necessario mettersi su un canale di conoscenza trascendente, quello della fede. È per questo che, solo quando si sente chiamata per nome in un dialogo personale, Maria lo «riconosce» chiamandolo in aramaico Rabbuní, «mio maestro». Ma in agguato per la Maddalena ci sono altri equivoci.
Usciamo dai Vangeli canonici ed entriamo nel mondo, magmatico e insicuro, degli apocrifi gnostici, sorti nella cristianità d’Egitto attorno al III secolo. Ora, in alcuni di questi scritti Maria di Magdala viene identificata con Maria , la madre di Gesù! Identificazione, certo, nobilissima, ma che ancora una volta impediva a questa donna di conservare la sua identità personale. Anzi, la trasfigurazione raggiungerà in quegli scritti una tale altezza da sciogliere la figura di Maria Maddalena fino a renderla quasi un’idea, un simbolo, a Sapienza per eccellenza. E questo risultato viene paradossalmente ottenuto attraverso un’immagine sulla quale la lettura posteriore con malizia ricamerà allusioni voluttuose ed erotiche. Si legge, infatti, nel vangelo apocrifo di Filippo, scoperto nel 1945 a Nag Hammadi in Egitto: «Il Signore amava Maria Maddalena più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli, vedendolo con Maria, gli domandarono: Perché l’ami più di tutti noi?»
Ce n’è abbastanza per chi, ignaro di simbolica biblica (la Sapienza esce dalla bocca dell’Altissimo secondo l’Antico Testamento), voglia seminare sospetto su Maria e su Gesù, fantasticando una relazione sessuale tra i due. In realtà, in tutti gli scritti gnostici cristiani la Maddalena è solo l’esempio della conoscenza piena dei misteri divini. In un altro testo gnostico, il trattato Pistis Sophia, ove appare per ben 77 volte, la Maddalena diventa l’emblema dell’umanità redenta di tipo androgino (un’altra deformazione!) perché, secondo Paolo, «non ci sarà più né uomo né donna ma tutti saranno uno in Cristo Gesù» (Galati 3, 28). Ma la sua funzione di segno della Sapienza divina sarà esplicita in questa beatitudine messa in bocca a Gesù dall’autore gnostico: «Te beata, Maria, ti renderò perfetta in tutti i misteri dell’alto. Parla apertamente tu, il cui cuore è rivolto al Regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli!» (17, 2). Una santa vittima di equivoci, quindi, sospesa tra due estremi: carnalmente abbassata a prostituta o ad amante, spiritualmente elevata a Sapienza trasfigurata. Per fortuna l’unico che la chiamò per nome, Maria, e la riconobbe confermandola come sua discepola fu proprio Gesù di Nazareth, in quell’alba di Pasqua.
Cresce la tendenza a ridurre il personaggio evangelico a icona gnostica o spiritica o addirittura a divinità contrapposta a Gesù. Ora un pamphlet smonta travisamenti e mistificazioni (buon ultimo Dan Brown)
Giù le mani da Maria Maddalena
Chi ne fa un idolo del movimento stregonesco Wicca, chi ammicca alle teorie di Gaia e del neopaganesimo femminista: un altro segno dell’attacco alla fede cristiana
di Roberto Beretta (Avvenire, 02.01.2007)
Forse stava meglio nei panni (tradizionali ancorché apocrifi) di una prostituta, invece che nelle vesti - certo più sontuosamente seriche però ambigue - di cui l’ha rivestita il cinquecentesco Giovanni Gerolamo Savoldo e nelle quali appare anche sulla copertina del recentissimo pamphlet Maria Maddalena e la dea dell’ombra (Sugarco, pp. 248, euro 18,80).
Era infatti più semplice e pure gratificante - povera Maddalena! - fare la parte della peccatrice pentita, anziché incarnare «il sacro femminile e la spiritualità della dea» nell’«immaginario contemporaneo»; ruolo cui l’hanno costretta non tanto le romanzate pagine di Dan Brown, quanto due secoli di precedenti mistificazioni e travisamenti, di ideologie, di progetti occulti e no, di riletture gnostiche o spiritiche, che alla fine hanno ridotto il personaggio evangelico a icona di un fenomeno culturale inquietante. Così, almeno, stando al complesso e informatissimo saggio di Mario Arturo Iannaccone, il quale per una volta non sfrutta il trailer del solito Codice da Vinci per un libro su verità e/o bugie della «Maddalena sposa di Cristo», bensì traccia un assai più impegnativo excursus di storia della cultura intorno alla nascita della «seconda Maddalena».
Che sarebbe poi quella che fa da idolo del movimento stregonesco della Wicca, per intenderci, o si adegua alle teorie antropologiche del matriarcato; che sposa il neopaganesimo femminista e ammicca alla «teoria di Gaia», s’ammanta di junghismo e fiancheggia l’esoterismo popolare delle Madonne Nere... I risultati del lavoro di Iannaccone sono choccanti, proprio perché la figura della «nuova» Maddalena che viene descritta è tutt’altro che innocua: non nasconde cioè il pretesto per una semplice riscoperta del ruolo della donna nella religione, ma costituisce la punta emersa di un iceberg di credenze avallate da incredibili falsità storiche eppure ormai strisciantemente diffuse nell’opinione comune.
Prendiamo la teoria del matriarcato originario, una sorta di stato edenico (studiato soprattutto da Johann Bachofen e più di recente dall’archeologa Marija Gimbutas) in cui il potere femminile avrebbe assicurato pace universale e parità tra i sessi: l’ipotesi è tutt’altro che provata (la costruzione «matriarcale» basata sui ritrovamenti archeologici di Catal Huyuk in Turchia, per esempio, è attaccata come mito dalla maggioranza degli storici), eppure è già diventata «articolo di fede» per la nuova religione del femminino, secondo un «fondamentalismo rovesciato» nel quale chi nega valore dogmatico al cristianesimo lo attribuisce poi ad altri fatti ben più immaginari.
Allo stesso modo l’idea dell’«eterno femminino» - già introdotta da Goethe - e la filosofia dell’androgino come stato perfetto, in quanto unione divina del principio maschile e di quello femminile (ricordate in Dan Brown la storia dell’apostolo Giovanni che nell’ Ultima Cena di Leonardo è in realtà la Maddalena?), scaturisce dalla cultura alta come contraltare di un cristianesimo «maschilista e patriarcale», che avrebbe represso nei secoli le religioni misteriche (Eleusi) e le dee-madri della fecondità (da Iside a Demetra o Diana, non a caso oggi molto rivalutate), i culti dionisiaci del libero amore e la «ierodulia» o prostituzione sacra, le eresie «lunari» o estatiche (ottenute anche attraverso le droghe o la musica, Wagner su tutti), e così via. La rivoluzione sessuale sarebbe dunque una fase necessaria per tornare a quel mai dimostrato androgino originario, simboleggiato dal matrimonio tra Cristo e la Maddalena; mentre resta da chiedersi quanto dei movimenti trans-, bi- e omo-sessuali dipenda almeno inconsciamente da tali condizionamenti ideologici.
Insomma, si capisce finalmente perché questa Maddalena «nuova» e gnostica susciti oggi tanti entusiasmi, benché di lei non esista alcuna traccia storica in tutto il lungo arco che intercorre tra i vangeli apocrifi e l’Illuminismo. Ed è singolare - nota appunt o Iannaccone - che una figura del genere «non abbia interessato i pensatori atei o fortemente critici nei confronti del cristianesimo ortodosso, come l’umanista Pomponazzi, gli anabattisti svizzeri e il riformato Vanini che nega la divinità di Gesù. Per non parlare di Giordano Bruno che tratta Gesù come un truffatore, ma nulla dice della Maddalena». Nessun critico anti-cattolico, materialista o ateo (né Voltaire né Renan, per sparare due grossi calibri), e nemmeno una femminista prima del 1970 sollevò mai l’ipotesi di una Maria di Magdala «sposa di Cristo» o custode della vera dottrina apostolica; il che non solo smonta l’idea di una confraternita di «iniziati» (i vari Dante, Leonardo, Botticelli...) che avrebbe perpetuato con codici simbolici segreti una conoscenza «proibita» dalla gerarchia ecclesiastica, ma prova che «la "nuova" Maddalena è un fenomeno culturale recente».
E interessato, probabilmente: la «spiritualità della dea» infatti, nella sua (presunta) nonviolenza e «correttezza politica», risulta tanto congeniale alla New Age quanto pagana nel suo intimo. Non per nulla il movimento della neo-stregoneria o Wicca strizza l’occhio alle mode innocue delle tecniche «dolci», delle culture naturalistiche o comunque «alternative»: occultismo, sapienza tellurica femminile e spiritismo hanno sempre offerto alle donne (le «streghe», appunto) una forma di libertà e di riscatto impedita nei normali ambiti sociali o religiosi. Perciò esoterismo e teosofia si trovano strettamente legati agli esordi del femminismo fin de siècle, anche se di nuovo il mito fa aggio sulla storia: i lavori di Julius Michelet sulla stregoneria sono difatti infarciti di invenzioni e altrettanto fantasiosi vengono considerati ormai gli studi «matriarcali» dell’egittologa Margaret Murray o dell’antropologa Margaret Mead.
Secondo Iannaccone tuttavia non bastavano le scoperte degli apocrifi gnostici (che peraltro divennero popolari già nel tardo Ottocento, pur se oggi si continua a pr esentarle come «novità» occultate dal «potere» della Chiesa), o la teoria dell’«archetipo femminile» sistematizzata da Jung, per rendere possibile la «costruzione culturale» del «sacro femminino» che vede la Maddalena come suo simbolo. Servivano tre condizioni: la diminuzione della fede in Cristo come Dio incarnato; l’accresciuto interesse nei confronti della donna; la rivoluzione sessuale. Su tali fondamenta sprofondate in un secolare lavorio sulla psiche collettiva, «più che su un’irruzione di nuove nozioni storiche», possono ora poggiare le più traballanti interpretazioni. Il risultato? Oggi «convivono due Maddalene, del tutto incompatibili, una tradizionale e una innovativa»; e la seconda «è risultata più promettente, relativista, multiculturale per obbligo di coscienza, insomma adattissima alla mentalità moderna». La dea perfetta per un immaginario politically correct.
Celibato di Cristo “IL CODICE DA VINCI”: UN FALSO PROBLEMA
di p. Ortensio da Spinetoli
Il noto biblista, p. Ortensio da Spinetoli, partendo da un commento al famoso testo di Dan Brown, interviene autorevolmente su una questione d’attualità: “Il problema della famiglia di Gesù, dato abitualmente per risolto, potrebbe darsi che sia da considerare ancora aperto”.