“Questa è la nostra fede”: IL BEL TESTO (ANZI BELLISSIMO) DELLA CEI... Ma quale testo ha letto Sequeri?
Una nota di Federico La Sala *
Caro Direttore
Ho cominciato a leggere “Questa è la nostra fede”, la nota pastorale della Commissione Episcopale Italiana (per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi), diffusa ieri (19.05.2005), quando - disgustato e inorridito, per quello che leggevo - ho smesso.
Alcuni passaggi e citazioni (per non dire altro), mi hanno fatto letteralmente ‘saltare’ (e non di gioia - come scrive Sequeri, riprendendo da un opera di Martin Buber, un delizioso apologo chassidico!!!): nel cap. 1, pf.3: “Il Dio dei nostri Padri ha resuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore”(At. 5.30); nel cap. 1, pf. 4: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”(At. 2.36); - «ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre»(Fil., 2.11). Acclamare e confessare che Gesù è il Signore significa riconoscere lui, e nessun altro, come unico Signore della propria esistenza. Questo riconoscimento di fede ci procura la salvezza, perché mentre ci sottomettiamo alla sua signoria, volgiamo le spalle agli idoli per volgerci verso il Dio vivo e vero, che ha risuscitato Gesù dai morti(cfr. 1 Ts., 1, 9-10)».
Se è vero che il nome “Gesù”, tradotto, significa precisamente e solo “Dio salva”, allora ho pensato a quel famoso detto zen e mi sono detto: è proprio vero - “quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito”. E, a mio conforto, mi sono citato il passo di Luca (18, 19-20): Gesù gli rispose: “Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo: Dio. Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora il tuo padre e tua madre”... e ho smesso. Per saltare meglio, e di gioia (finalmente guariti - lezione di tutta la tradizione ebraica e freudiana! - dallo zoppicamento edipico) - consiglierei a Sequeri la lettura del mio art. “Con Wojtyla, oltre (2000*): un consiglio al nuovo Papa (2005). I "due corpi" del Papa-Re e la nostra sovranità”.
M cordiali saluti,
Federico La Sala
Sul tema, volendo, si cfr. anche:
Il Dio «ignorato»
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 20.05.2005)
L’antica testimonianza racconta. Alzatosi in mezzo all’Areòpago, Paolo disse: "Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio" (Atti 17, 22-23). Il discorso di Paolo, filosoficamente istruito, conclude con l’annuncio di "un giorno nel quale Dio dovrà giudicare la terra per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti la prova sicura col risuscitarlo dai morti" (Atti 17, 31). E’ anche questo, in forma di essenziale folgorazione, annuncio dell’evangelo inaudito di Dio: proprio in Gesù si rivela il Signore della creazione e il fondamento del suo riscatto. Si ironizza talora - benevolmente - su questo testo, alludendo alla reazione di alcuni che, sentendo parlare di risurrezione di morti, ridevano dicendo "Ti sentiremo un’altra volta". La morale, in verità un po’ demagogica, che se ne vorrebbe trarre, è appunto che con la "filosofia" non si va molto lontano e non si raccoglie granché. Però si dimentica che alcuni altri "aderirono a lui e divennero credenti" (Atti 17, 32.34). Dunque, non sarei così drastico, e apprezzerei di più l’abilità dell’intreccio sapiente del linguaggio di Paolo che orchestra insieme la religiosità degli interlocutori, la filosofia dei classici e il nocciolo incandescente dell’assoluto cristiano di Dio, impiantato nel cuore del mondo in Gesù Signore: "per mezzo di un uomo" Dio compie la creazione e disvela la qualità della storia. Agli inizi del millennio che è appena iniziato, abbiamo però in Occidente uno scenario relativamente nuovo. E persino inedito. E’ la nuova evidenza culturale di un "Dio ignorato", più che di un "Dio ignoto", che ci sollecita e ci interpella. Comprendere il senso di questa inedita costellazione del pensiero e dell’epoca è un giusto motivo di leale confronto fra credenti e non credenti. Per i credenti, la nuova l ingua dell’annuncio deve transitare coraggiosamente di qui. Il bel testo (anzi bellissimo) della Commissione Cei per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi ("Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo") non elude fumosamente il punto che fa la differenza. E dà l’esempio, parlando una lingua cristiana precisa, limpida ed essenziale, ma non un gergo intra-ecclesiastico. Si confronta direttamente con la complessità del nuovo Areopago, in cui convivono modi culturali, forme di costume, e persino epoche diverse della "nominazione" e dell’"ignoranza" di Dio. E mette a fuoco, con efficacia non ancora così frequente, la dimensione esistenziale di un annuncio che deve lampeggiare nel quotidiano il senso di una dichiarazione dell’evangelo esplicita e vigorosamente raccolta sulla verità essenziale. Non c’è alternativa fra annuncio e dialogo, testimonianza e discorso, rigore e slancio. Molte belle espressioni però mirano a creare affezione e coinvolgimento per una felice scoperta che entusiasma e risana. Ché questo è prima di tutto, l’evangelo di Gesù Cristo che chiama la fede. Ne raccolgo lo spirito, invitando caldamente alla lettura, dedicandovi un delizioso apologo chassidico raccolto da Martin Buber. "Una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto. Mio nonno era zoppo. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo Maestro. Allora raccontò di come il santo Baal-Schem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il Maestro. Da quel momento, guarì. Così vanno raccontate le storie".
Per il testo della Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo a cura della Commissione Episcopale per la dottrina della fede della CEI, vedi la sezione www.ildialogo.org/Ratzinger.
Filosofia.
Gustavo Bontadini e la metafisica del ’900, un genio da riscoprire
Nel XX secolo il pensiero del filosofo è un "unicum" oscurato in primis dai pensatori cattolici e dalla Chiesa. Un libro di Messinese ne riscopre genialità e capacità dialogica con la modernità
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, martedì 27 febbraio 2024)
Il termine “metafisica”, la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel), ritorna nella forma di un appello alla serietà “politica” - nientemeno - del pensiero (Cacciari). Ritorna come paradosso del mondo, prima che come domanda su Dio. Ma infine, l’uomo non potrà separare ciò che Dio ha congiunto.
Il segreto della concretezza del mondo, sta certamente “nel mondo” (se stesse fuori, il mondo sarebbe solo virtuale, un’astrazione); ma, altrettanto certamente, “non è del mondo” e lo trascende (proprio come il Logos del vangelo di Giovanni). Che accada un mondo, e che non si possa fare a meno di domandarsi se il mondo è tutto quello che accade, non ha nulla di ovvio. Dal nulla non viene assolutamente niente: ed è ovvio, questo sì, che alla luce di questa banale considerazione l’essere non è mai incominciato e non saprebbe dove finire. Il nulla non è un tempo, non è un luogo, per l’accadere. Ma nella nostra esperienza, “niente” di ciò “che è” (che acrobazie deve fare il nostro linguaggio, per parlare dell’accadere) assomiglia neppure lontanamente all’essere che non incomincia e non finisce. Con ciò si è già enunciato il tema - e il paradosso - di questo choc del pensiero: che appare inevitabile anche quando cerca di essere evitato.
Una cosa che sembrava così ovvia - l’essere è, il mondo esiste, il nulla non esiste - non lo è più. Possiamo anche scrollare le spalle e pensare di aver digerito male. Ma il tarlo è lì, nella coscienza, ormai. La domanda metafisica è una domanda alla quale, in ogni caso, l’inconscio risponde sempre: nelle pratiche e nelle culture, nelle scienze e nelle politiche. Nelle religioni e nelle stesse filosofie.
Le premesse teoretiche per una ripresa cosciente della “metafisica concreta”, all’altezza del “problematicismo radicale” della contemporaneità, erano già apparse nel progetto messo a punto dal pensatore cattolico Gustavo Bontadini (1903-1990). Tale progetto, radicalmente innovativo anche nell’ambito della tradizione filosofica di ispirazione cattolica, ha rivelato la sua potenza attraverso gli sviluppi che ne ha tratto il suo allievo Emanuele Severino (1929-2020), divenuto, a differenza del suo maestro, una figura di rilievo nel confronto filosofico contemporaneo e un critico della cultura noto anche al grande pubblico. In effetti, l’irruzione nella scena contemporanea di una filosofia che proclama “l’eternità di ogni essente”, mentre denuncia il radicale “nichilismo” della stessa concezione cristiana-cattolica dell’eternità di Dio e della creazione del mondo, aveva di che suscitare impressione. Bontadini, pur apprezzandone l’ispirazione (come “pungolo” per il laicismo decostruttore di ogni assoluto, e ragione filosofica ospitale per la “nostalgia” dell’eterno), ha contrastato la deduzione “eternistica” del “principio di Parmenide” che imponeva la necessaria rimozione del “principio di Creazione”. Ma Bontadini non fu ascoltato, né fu presa in considerazione la questione di coerenza dell’impianto che Bontadini stesso aveva inventato.
Il dibattito, all’interno del mondo cattolico, si risolveva e si spegneva nel semplice accertamento della contrapposizione fra Severino, che negava la creazione, e la Chiesa che, ovviamente, la difendeva. In certo senso, questa semplificazione faceva torto a entrambi. Ma soprattutto, essa ha oscurato la reale portata innovativa , speculativa e culturale del progetto metafisico di Bontadini, nel quadro complessivo della contemporaneità filosofica novecentesca.
Quello che ci siamo persi nell’oscuramento della “invenzione” bontadiniana, è puntualmente e puntigliosamente narrato nel “romanzo metafisico” di Leonardo Messinese (Dopo Kant, oltre il problematicismo. Il Novecento come un ‘romanzo metafisico’, Schibboleth, pagine 428, euro 26). Messinese, narra la storia della costruzione bontadiniana, dalle origini fin dentro il dibattito con Severino, attraverso un “racconto” per eventi e attori (come Giovanni Gentile e Benedetto Croce, Ugo Spirito e Ludovico Geymonat, e molti altri), dei quali Bontadini fu interlocutore, diretto e dialogico, acuto ed esigente. Messinese è già intervenuto con molti saggi di ricostruzione critica e di approfondimento teorico dei temi implicati nel confronto fra Bontadini e Severino, sia per quanto riguarda la metafisica, sia per quanto si riferisce al cristianesimo. Il valore aggiunto di questo “romanzo” è nella esposizione della storia vissuta, oltre che teorica, della progressiva costruzione del modello metafisico di Bontadini.
Nella minuziosa ricostruzione storico-teorica di Messinese emergono infatti anche due mosse metodologiche, trascurate dalla filosofia e dalla teologia del cattolicesimo, che offrono indicazioni di intatta originalità. La prima è la proposta di essenzializzazione - che è insieme semplificazione e rigorizzazione - del paradosso metafisico, che l’ipertrofia dell’ontologia scolastica ha finito per indebolire del suo vigore e per svuotare della sua provocazione. La seconda invenzione, anche più elegante della prima, consiste nella deduzione storica dell’approdo metafisico: inteso come inevitabile auto-superamento del problematicismo radicale, col quale si devono fare i conti ragionando metafisicamente, appunto. Il problematicismo radicale, cifra del nostro tempo, secondo Bontadini, prepara obiettivamente il ritorno inevitabile della metafisica: infatti, nel momento in cui il problematicismo radicale diventa teoria trascendentale della totalità reale, lascia spuntare un assoluto metafisico indimostrato e indimostrabile.
Il tracciato filosofico della contemporaneità, nell’ermeneutica speculativa di Bontadini, apre così obiettivamente un solco favorevole alla ripresa della metafisica come sapere essenziale e dialogico. In questo Bontadini è stato sorprendentemente innovatore - in termini di contenuto e di stile filosofico - rispetto alla postura polemica allora prevalente nella filosofia cattolica. Il genio di Bontadini si manifesta infatti proprio nella disposizione a valorizzare dialetticamente le fasi della storia della metafisica inclusa nella storia della stessa filosofia moderna.
Messinese rende giustizia a questa genialità e si impegna a esaminare e valutare il confronto polemico di Bontadini e di Severino anche in termini di reale affinamento speculativo della questione di merito (il negativo del divenire, garantito dall’eterno, è la sua accertabile finitezza processuale, ma non la sua impossibile nientificazione assoluta). Dopo la lettura di questo racconto verrebbe da aggiungere una domanda “fuori testo” (ma non ”fuori argomento”). Che cosa sarebbe successo se la teologia cattolica - che l’ha ignorata - avesse preso sul serio, almeno in Italia, l’invenzione bontadiniana? Forse c’è materia per un nuovo romanzo (che immagina il futuro, questa volta).
NOTA.
RISALIRE AL PRIMA DELLA "CADUTA" (NELL’ORBITA DI PLATONE - DI PAOLO DI TARSO):
Finché abbiamo il corpo e la nostra anima è intrisa assieme a tale malanno, non raggiungeremo mai adeguatamente ciò che desideriamo: e diciamo che questo è il vero. Innumerevoli impegni infatti ci procura il corpo per il necessario sostentamento. E ancora, se si abbattono delle malattie, impediscono la nostra ricerca della realtà. (Esso) poi ci riempie di amori e di passioni e di paure e di immaginazioni di ogni genere e di molta vanità, cosicché, come si dice, veramente in realtà per colpa sua non ci accade neppure di concepire nel pensiero mai nulla.
E infatti guerre e rivolte e battaglie null’altro le procura se non il corpo e le sue passioni. Infatti per l’acquisto dei beni materiali tutte le guerre avvengono, e i beni materiali siamo costretti a procurarceli per il corpo, servendo alla di lui servitù; e in seguito a ciò non abbiamo tempo libero per la filosofia per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore fra tutte (è) che, se anche ci capita un qualche momento libero da esso e ci volgiamo al considerare qualcosa, nelle ricerche ancora intromettendosi dovunque procura confusione e turbamento e ci sconvolge, tanto che, per colpa sua, non possiamo scorgere la verità.
Ma in realtà a noi è dimostrato che, se intendiamo mai conoscere qualcosa puramente, dobbiamo distaccarci da esso e guardare con l’anima stessa le cose in sé: e allora, come pare, ci sarà per noi ciò che desideriamo e (di cui) diciamo di essere innamorati, la saggezza, quando saremo morti, come indica il ragionamento, ma da vivi no. (Platone, Fedone, 66 c-d).
Il Sabato Santo delle donne
di PierAngelo Sequeri ( Vita e Pensiero, 16.04.2022)
Il Sabato Santo è, tradizionalmente il giorno del Grande Silenzio. Il dramma si è consumato, si muovono intorno al corpo morto di Gesù le poche persone che l’hanno amato di un amore così personale, che non si lascia spostare dalle dispute teologiche che si sono accese introno al suo corpo vivente. Donne, per lo più, a incominciare dalla Madre: dopo che l’abbiamo vista raccogliere l’ultimo respiro del figlio ai piedi della croce, la identifichiamo al centro del gruppo dei Discepoli, rinchiusi in preghiera, nella sala nella quale sta per irrompere lo Spirito Santo (Atti 1, 14).
Sabato Santo, dunque. Giuseppe di Arimatea ha provveduto all’ospitalità di un sepolcro nuovo di zecca, «nel quale ancora nessuno era stato posto» (Luca 19, 41-42). Il sepolcro è nel bel mezzo di un giardino: la quiete della morte è ospitata nel luogo della creazione della vita (Genesi 2, 8.35). Le donne osservano attentamente il sepolcro e tornano a casa per preparare aromi e oli profumati: sono spuntate le luci di shabbath, il giorno sacro del riposo. Il corpo di Gesà riposa, finalmente. Dopo il sabato potrà essere amorevolmente accudito e onorato, accarezzato e profumato. Una donna lo aveva già fatto, guadagnandosi la gratitudine di Gesù, versando sul suo corpo unguento prezioso. Gesù l’aveva protetta dal finto scandalo di un ospite ipocrita, che non aveva neppure offerto acqua per le mani, e dalla falsa malizia di un discepolo, che reclamava più attenzione per i poveri mentre intascava le offerte (Matteo 26, 6-13; cfr. Giovanni 12, 1-8).
Il Sabato Santo è anche il giorno dell’indifferenza, però. L’affare di Gesù è liquidato, la macchinazione dei duri e puri ha avuto successo, il popolo non si è ribellato: anzi si è potuta persino costruire una piazza favorevole alla sua condanna. I Discepoli sembrano dispersi, Pilato ha risolto la grana, l’opposizione interna al Sinedrio è ridotta al silenzio. Quando shabbath sarà finito, molti non ritorneranno neppure sugli eventi. Gesù non ha acceso passioni politiche utilizzabili, il suo rinnovamento religioso non appare istituzionalizzabile. Proprio come oggi. La prima pagina non è più cronaca: fa la storia, ormai. La fioritura del seme deposto nella terra col Crocifisso apparirà soltanto dopo. E sarà un doppio shock a produrla. Il primo sarà l’avvento e l’incontro del Risorto: le donne per prime, anche questa volta. Il secondo sarà il vento e il fuoco dello Spirito: quando i discepoli sono con la Madre, di nuovo.
Verosimilmente, questo Sabato Santo del 2022 sembra destinato ad inaugurare, una volta per tutte e per sempre, l’iscrizione delle donne - madri o non madri che siano - nel dispositivo testimoniale dell’annuncio evangelico e della ripresa di iniziativa della fede cristiana. Gesù affida la profezia della sua morte redentrice ai Discepoli, ma è alle donne che viene affidato il segreto del suo morire per amore e del suo risorgere come amore. Mi domando se possiamo essere abbastanza fedeli al corpo del Figlio - corpo di parola e di guarigione, corpo di ospitalità e di amicizia, corpo di crocifissione e di risurrezione - tenendoci a distanza dalla tenacia con la quale le donne lo tengono al centro della loro fede, senza farsi spostare di un millimetro dalle dispute ideologiche e dalle opposte passioni che se lo contendono.
Dopo due millenni di cristianesimo, appare definitivamente chiaro che ad una Chiesa dei discepoli che non si ricompone intorno alla scena-madre del corpo del Signore, e degli affetti che le sono necessari per rivelare l’imprevedibile e impensabile verità del corpo di Dio, finirà per mancare ben più che una costola.
Nessuno dubita più, nell’attuale congiuntura, del fatto che l’esperimento della cristianità occidentale - cristianesimo di nazioni politiche e istituzioni giuridiche, che ha generato una tradizione culturale di tutto rispetto - abbia anche esaurito tutte le sue varianti possibili. Esso ha prodotto fatti di comunione sovra-etnica di apprezzabile vitalità, ma ha pure accumulato divisioni anti-ecclesiali di durevole ostacolo. Entrambe, in realtà, mostrano oggi di resistere “sopra la testa” dei popoli e delle culture, più che “nel corpo” degli uomini e delle donne reali. L’ecumenismo formale è platealmente in ritardo sulla comunione reale. La Chiesa è nata come rete famigliare, amicale, fraterna di uomini e donne reali: e ha tratto di qui la sua dolorosa e gioiosa storia di disseminazione evangelica nel cuore degli imperi. Il nostro Sabato Santo è, oggi, una grande passaggio di purificazione e di disincantamento. La fede offerta e chiesta dal corpo del Signore, che non va abbandonato disinvoltamente alla storia, come se non fosse all’altezza della fede, non è utilizzabile politicamente, non si lascia requisire fondamentalisticamente, ospita Dio nelle promesse affettive della vita reale, dissolvendo le superstiziose magie di un mondo a parte.
Le donne sono sensibili alla mistica del corpo del Signore, ma impermeabili alla gnosi che pensa di poterlo sostituire con una qualche metafisica dell’Ideale, che poi va ad ogni costo applicata alla storia reale.
Essere fedeli al corpo del Signore, anche quando giace morto sotto i colpi dell’accanimento politico e dispotismo religioso, è una qualità che Gesù - contro ogni prevedibilità culturale e sacrale - ha riconosciuto alle donne. Le donne non rimangono inerti, nel passaggio difficile e nel tempo sospeso del Sabato Santo. Come lo sapessero - senza saperlo - che il corpo del Signore ritorna, insieme con lo Spirito che spalanca le porte, inventa un linguaggio, riapre l’ospitalità di Dio per gli uomini e le donne duramente provati dalle durezze della storia. E noi? Non sarà ora di incominciare a ricomporre ciò che Dio ha unito intorno al corpo del Signore? E che noi abbiamo troppo a lungo tenuto separato e persino occultato? Se le Donne reggono alla morte di Dio, i Discepoli troveranno il coraggio di assecondare il soffio dello Spirito. E Dio sa se ne abbiamo bisogno, ora come ora.
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
Questa Pentecoste.
Fare un altro mondo, essere davvero Chiesa
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, sabato 30 maggio 2020)
Il nostro mondo si è fermato : a memoria d’uomo, non avevamo mai fermato il mondo. Il nostro mondo si è fermato proprio a Pasqua. Il Signore risorto è arrivato anche per noi "a porte chiuse", mentre eravamo chiusi in casa "per paura". Non importa quale paura, la paura ti paralizza sempre, poco o tanto. I Discepoli non sono rimasti inerti, però, dopo l’incontro con il Signore risorto e prima dell’avvento dello Spirito che farà "uscire" la Chiesa.
Nel tempo degli incontri con il Risorto, i Discepoli riflettono insieme sugli eventi emozionanti e traumatici dell’avventura vissuta con Gesù e pregano Dio - insieme con la Madre - perché li custodisca in attesa della loro ora, che deve venire. Dopo cinquanta giorni, un rombo di tuono, un passaggio di vento, un lampo di fuoco. E i suoi "ragazzi" (così li chiamava il Signore, anche da Risorto, cfr. Vangelo di Giovanni, 21, 5) sono tutti fuori, a riaprire le promesse della vita "per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani" (Atti degli Apostoli, 2, 39).
Finiscono oggi, praticamente, anche i nostri cinquanta giorni. Vorrei prendere ispirazione dal significato di questa coincidenza della drammatica chiusura del tempo della pandemia, per illuminare l’appello che ci viene incontro : per noi e per tutti. Lo faccio, allusivamente, con due parole-chiave.
La prima è interiorità. Il lockdown ha imposto prepotentemente la forza vitale di questa risorsa, massacrata dalla società dei consumi e del godimento e dalla scuola delle competenze e delle prestazioni. Senza riserve di interiorità, ogni paura sconfina nell’angoscia e nello smarrimento totale. La nostra separazione forzata, l’isolamento, la perdita di esteriorità (pur necessaria) hanno messo alla prova le riserve dell’anima : la capacità di colloquio con sé stessi, l’attitudine a dare il giusto peso alle emozioni, il gusto di dare forma creativa ai pensieri e forza delicata alle relazioni, anche quando rimaniamo distanti. L’abitudine all’arricchimento della nostra interiorità è la riserva strategica della nostra resilienza alla forzata perdita di mondo. Questa riserva si apprende, si coltiva, si sviluppa affettivamente e culturalmente nell’intero tempo della scuola. (Nessun segno di conversione, su questo punto, è pervenuto : nonostante qualche accorato e motivato appello).
La seconda parola è delicatezza. Delicatezza è un modo di toccare i corpi che crea un contatto con la nostra anima. Lo abbiamo visto : la competenza e l’organizzazione affondano - e ci affondano - nei loro stessi apparati, senza interpreti generosi, all’altezza dell’umana capacità di toccare con delicatezza e maneggiare con cura l’umano. Una società manesca, una società dell’ammucchiata, una società delle tecniche, questa ricchezza dell’umanità la perde più velocemente della discesa del Pil. La delicatezza umana è virtù tipicamente familiare : la sua iniziazione nasce lì, non c’è altro inizio possibile. Il virus lo ha portato allo scoperto : la forma dei legami famigliari ha sopportato il peso maggiore, e retto nel modo più degno, all’aggressione. La grammatica delle relazioni famigliari è più istruttiva ed efficace di qualsiasi prontuario politicamente corretto delle buone maniere. Qualcuno ha intenzione di sostenere politicamente ed economicamente questo rovesciamento di prospettiva, nell’interesse delle giovani generazioni e della comunità tutta ?
E la Chiesa ? La Chiesa sapeva già da tempo che la parrocchia (Dio la benedica sempre) non è certamente più in grado di contenere neppure tutti i suoi figli battezzati : né tutti i credenti o tutti i lontani e gli estranei che il Signore chiamerebbe. L’opportunità di trarre dal segno apocalittico, che ha fermato il mondo per una buona "mezz’ora" (Apocalisse 8, 1), un cambio di passo ormai quasi obbligato, apre il verso per un tempo favorevole. Deve essere voluto, naturalmente. La piccola comunità eucaristica, ritrovata in termini di "rappresentanza" e "intercessione" di un più vasto popolo che Dio ama, ridiventerà segno irradiante - letteralmente : per noi e per tutti - di una nuova cultura del regno che Dio va costruendo fra tutte le genti, senza eccezione di persona. E non appena lo Spirito darà il segnale, tutti fuori, per il piacere di vederla crescere.
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
Sul tema, in rete, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
FLS
TRASFIGURAZIONE. LA LEZIONE DI DANTE: CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! *
Coronavirus.
Un’altra domenica lontani dalle chiese: la riflessione di Sequeri
Il teologo sulle Messe “sospese” nelle zone più colpite. "L’epidemia già ci insegna che non possiamo abitare solo il virtuale. E avvertiamo la nostalgia dei luoghi fisici"
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, domenica 8 marzo 2020)
Chiesa è il nome del corpo, prima che del luogo. In questi anni, riallacciandosi all’originaria ispirazione biblica, i predicatori non hanno perso occasione per ricordarci la Chiesa è fatta di «pietre vive», che siamo noi. La lezione l’abbiamo imparata: non siamo un luogo, siamo un corpo.
Però, adesso che molti di noi devono stare lontani dal luogo fisico della celebrazione, cominciano ad avere una strana sensazione: si sentono un po’ come acciughine spirituali, spellate e sfilettate, senza corpo. Adesso che ci viene a mancare il luogo, ci sentiamo anche senza corpo. E un po’ anche senz’anima.
Una delle nostre ragazze, intervistata a proposto della forzata astinenza dai luoghi imposta dall’emergenza Covid- 19, si è espressa con disarmata franchezza: «Mai avrei immaginato di arrivare a pensare una cosa simile, ma ora la dico: la scuola mi manca ». Pensa un po’. Proprio i nostri ragazzi, che ormai davamo per persi nei non-luoghi nel virtuale, sono i primi ad avvertire che la mancanza dei luoghi reali, che orientano eventi relazionali e attivano percorsi mentali, rende insignificanti i corpi e svuota la mente. Il dinamismo dell’interiorità reale ha bisogno di luoghi capaci di renderlo possibile e di arricchirlo. E l’iPhone non lo è affatto. Molti genitori, sull’orlo di una crisi di nervi a causa della mancanza di luoghi alternativi a quelli domestici, sono pronti a confermare.
La fine dell’emergenza ci riaffezionerà al rapporto fra luoghi e corpi in modo nuovo? Lo farà, sperabilmente, anche per le chiese? Da troppo tempo il luogo-chiesa manca di amore, di bellezza, di mistero, di sapienti incanti delle penombre e delle luci, di narrazioni suggestive del genius loci e della lingua materna della fede. Non vedete che in queste chiese non-luoghi anche i corpi - personali ed ecclesiali - ci diventano un po’ smunti e acciughini?
Le Letture evangeliche di questa domenica quaresimale, considerate nella prospettiva di coloro ai quali, provvisoriamente, è imposto il sacrificio della separazione tra corpi credenti e luoghi celebranti, ci vengono incontro. La lettura evangelica della trasfigurazione di Gesù (Mt 17, 1-9), proclamata nel rito romano, è come una folgorazione, a proposito della profondità simbolica del legame fra il corpo nel quale abita la «pienezza del divino» (Col 2, 9) e il luogo di una creazione trasfigurata in cui si compiono tutte le tradizioni della promessa (simboleggiate da Mosé ed Elia).
Una nuova casa, la Gerusalemme eterna, un nuovo corpo, quello della creatura risorta. Esperienza forte, che scuote il corpo e la mente di Pietro. E che cosa gli viene in mente: «Farò tre capanne».
Non c’è realtà per un corpo trasfigurato, se non c’è dimora che lo accolga e lo custodisca. Nemmeno corpi risorti avremo, senza luogo adatto. La lettura evangelica dell’incontro con la Samaritana (Gv 4, 1-39), proclamata nel rito ambrosiano, è appoggiata a due luoghi di appoggio per il corpo, a partire dai quali la grazia di Dio ti sconvolge l’anima: il pozzo di Giacobbe e la città di Sicar. Il pozzo che simboleggia l’eredità dei padri è un buon luogo per annunciare ai figli la novità del Vangelo. Gesù, prima di offrire la sua acqua viva, chiede da bere l’acqua che è a disposizione della donna samaritana.
Speciale, perché è quella dei padri, che fa vivere la città: il luogo lo attesta, scritto nelle pietre. L’acqua di Gesù è viva e fa rivivere l’anima di tutta la città («Venite!», dice la donna): com’è vero il corpo che è seduto a quel pozzo e chiede da bere. La disputa sui luoghi giusti dell’adorazione di Dio non deve far perdere di vista l’obiettivo, che è l’adorazione pura di spirito e abbandonata alla sua verità. La trasfigurazione del luogo, tuttavia, operata dal corpo di Gesù, è quella che decide la realtà.
L’anima si trasforma, se c’è un pozzo al quale incontrarsi. Il Vangelo non sa arrivare ai corpi reali, senza luoghi reali. Quando c’è un luogo d’appoggio - il monte, le capanne, la città, il pozzo - il tocco di Dio ci cambia la mente e la pelle. La fisicità del luogo, che si trasfigura insieme col corpo, è indispensabile all’accadere del tocco di Dio che ti segna la vita. Lo so che ti fa impressione, ma questo è il cristianesimo: non un grammo di meno. I non-luoghi di puro transito, i flussi di connessione virtuale, da soli, destabilizzano la mente e producono corpi isterici. (Stava succedendo, infatti, fino al coronavirus: la malattia dell’anima era già molto avanti). Una nuova forma d’amore e di cura per i luoghi adatti alle profondità di cui sono capaci solo i corpi viventi renderanno più facile la guarigione. Ricordiamocelo, non appena potremo riprendere la strada del pozzo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Teologia e psicoanalisi (lacaniana)
Alleanza nel segno dell’umanesimo
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 07.06.2017)
Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e - persino - di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre». Un dialogo nei propositi non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi «Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia, pubblicato dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo», sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni. L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso, è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi, in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.
Il saggio
«Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia di Rossano Gaboardi è pubblicato da Glossa (pp. XXIV-620, e 50), la casa editrice della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale che ha sede a Milano. -La presentazione al volume - l’esito della tesi di dottorato di Gaboardi - è di Pierangelo Sequeri, dallo scorso agosto preside del Pontificio istituto «Giovanni Paolo II». Il francese Jacques Lacan (1901-1981) era psichiatra e filosofo. È stato uno dei maggiori psicoanalisti del Novecento. La sua psicoanalisi si basa sulla tesi secondo cui l’inconscio «è strutturato come un linguaggio»
Papa: vescovo Usa a Laici-Famiglia-Vita
Prefetto mons.Farrell (Dallas). Mons.Paglia ad Accademia Vita
(ANSA) - CITTA’ DEL VATICANO, 17 AGO - Papa Francesco, con un Motu Proprio datato 15 agosto, pubblicato oggi, ha istituito il nuovo dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, varato dalla riforma accorpando i due Pontifici Consigli per i Laici e per la Famiglia. Il Pontefice ha nominato prefetto del nuovo dicastero mons. Kevin Joseph Farrell, attuale vescovo di Dallas (Usa), americano di nascita irlandese. Il nuovo organismo, di cui il Papa ha approvato lo statuto lo scorso 4 giugno, sarà attivo dal prossimo 1 settembre.
Il Papa ha nominato inoltre monsignor Vincenzo Paglia, finora presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita e gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, entrambe strutture che lavoreranno in connessione con il nuovo dicastero.
Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II è stato nominato invece mons. Pierangelo Sequeri, attualmente preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
il "senex-puer aeternus", laico e devoto. Il narcisismo sistemico (i vecchietti che vogliono mantenersi giovani): La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo
«La giovinezza non è più una condizione anagrafica,
è una categoria dello spirito: i figli diminuiscon
o,
ma i vecchietti che vogliono mantenersi giovani cre
scono. Essere giovani è costoso (fin da bambini
ormai): però mantenersi giovani lo è ancora di più.
È scoccata l’ora della
desublimazione
: l’ultima
frontiera del freudismo alla rovescia.
Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsias
i
forma: senza cura per la generazione e senza fatica
dell’uso di parole. Essere se stessi, come si dice
,
senza orpelli ideologici.
Un piccolo passo per un adolescente, ma, come si dice, un grande balzo per
l’umanità.
Sulla soglia di questa regressione, per
«rimanere giovani» a loro volta, si affollano
pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemen
te più pensosi).
L’ultimo atto (prima
dell’abbandono dell’uomo senza età al mito dell’ord
a primitiva) è l’incorporazione del concepimento
fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni «si rimane giovani» e ci si sente
«adolescenti onnipotenti», anche «facendo» un figli
o; e persino facendoselo fare).
Quando si dice non
farsi mancare niente, pur di realizzarsi pienamente
. L’estrapolazione della giovinezza dalla
transitorietà della sequenza della storia individua
le si è saldata con la sua sovrapposizione all’idea
lità
dell’umano emancipato, liberato, felice e signore d
i sé. [...] Nell’adolescenza prolungata, la deriva
verso il narcisismo
sistemico
si cronicizza socialmente.» (Pierangelo SEQUERI,Contro gli idoli del postmoderno, Lindau, Torino 2011)
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 17 gennaio 2014)
Fino all’altro ieri, ’monoteismo’ era una categoria d’uso corrente, soprattutto fra i dotti studiosi di storia delle religioni, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di ’Dio’: di fatto, la concezione del divino più coerente con la filosofia occidentale della ragione, e anche la più degna del pensiero umano del trascendente. In una manciata di anni, ’monoteismo’ sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.
Le tre religioni monoteistiche dell’area mediterranea (giudaismo, cristianesimo, islam) appaiono così, essenzialmente in virtù di questo presupposto, come il seme radicale della violenza fra gli uomini.
La compulsiva diffusione della formula, che interpreta il monoteismo religioso come l’ideologia radicale della volontà di potenza, è certamente frutto dell’ignoranza. Ma anche una semplificazione grave.
La formula è culturalmente nobilitata dagli effetti della nuova recezione progressista di Nietzsche, la cui ossessione antireligiosa ha indotto la tradizionale critica occidentale (greca e cristiana) nei confronti della violenza a rivolgersi contro la verità e il bene: che sarebbero le sue più insidiose coperture. Una parte dell’intellighenzia occidentale si è così applicata con metodo alla denuncia totale della religione, della metafisica, della spiritualità e della morale: indicando il cristianesimo come regista e garante dell’alleanza dispotica che le abita. La critica smantella così, con metodico puntiglio, anche tutti i presìdi del logos che ha storicamente cercato il contenimento della violenza, distraendo la nostra attenzione dalla violenza vera e propria. Questa irresponsabile deriva della cultura chiede nervi saldi e senso critico.
È certo che esiste, storicamente, un oscuro rapporto fra le umane tradizioni del sacro e l’oscura pulsione della violenza, che ritorna di generazione in generazione (e la Bibbia spiega anche la ragione dell’umana corruzione del sacro, che sta all’origine di ogni peccato).
La violenza è un tema cruciale dell’intera storia umana proprio perché essa è in grado di contaminare anche ogni presidio religioso e razionale del suo contenimento culturale. In questo senso, contrastarla è problema comune e dovere sacro di tutte le culture umane. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione.
La testimonianza riflessiva della fede cristiana nell’unico Dio deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica associata al concetto di monoteismo (insieme con la generale intimidazione nei confronti della religione, che vi si accomoda).
Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, indica esplicitamente questa consapevolezza (come appare chiaramente dal primo capitolo, che ne istruisce i termini). Nondimeno, lo svolgimento del testo è guidato da una convinzione propositiva: la riflessione teologica può e deve trarre dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i princìpi della decostruzione di questo pregiudizio.
L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione della violenza omicida in nome di Dio, come fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede.
Il successivo sviluppo della riflessione, che illustra le premesse e le implicazioni del nucleo cristiano della rivelazione non-violenta di Dio, è dunque ispirato da una duplice attenzione, la quale marca anche l’attualità della sua istruzione e della sua offerta di sintesi. Da un lato è mantenuta una puntuale attenzione all’articolazione della rivelazione di Dio con l’umanesimo non violento della sua attestazione. Dall’altro lato, speciale cura è dedicata al fatto che la rivelazione dell’intimità e della comunicazione trinitaria dell’unico Dio, lungi dal violarla, custodisce intatta l’unità e semplicità dell’essere divino, sigillandola come perfezione della vita e dell’amore.
Il documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate.
Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole al disinnesco definitivo di antiche ambivalenze. Il cristianesimo ora ha maturato anche storicamente - ai livelli più alti e autorevoli della coscienza di sé, e della forma del suo annuncio - la serietà irrevocabile dell’interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione fra religione e violenza.
Inoltre, chiunque parli in questi termini, oggi - nelle sedi degli incontri interreligiosi, come nelle aule del consesso mondiale dei popoli - parla un linguaggio obiettivamente cristiano. Il compito di essere all’altezza di questo kairòs, anche mediante una teologia più trasparente della sua intrinseca verità cristiana, è un impegno dal quale il cristianesimo, per primo, non potrà più regredire.
Il testo dei 30 teologi, che vengono da ogni parte del mondo, non si limita a incoraggiare gli adoratori di Dio a far seriamente lievitare la testimonianza della religione verso la compiuta separazione dall’anti-umanesimo della violenza. Il loro discorso, non senza un tratto di garbata audacia, si spinge anche a suggerire alla filosofia critica e alla cultura politica dell’epoca di riprendere coraggio, per riscattarsi dalla decostruzione alla quale, mestamente o imperativamente, ci esorta.
In altri termini, sembra venuta l’ora di chiudere i conti con il lavoro distruttivo del caos, per riprendere fiducia nel lavoro costruttivo del logos. In ogni modo, ognuno esamini se stesso e risponda onestamente all’appello dei popoli. La teologia cattolica ha fatto la sua mossa.
Non avrai altro Dio. Processo al monoteismo “è sinonimo di violenza”
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21 gennaio 2014)
La Commissione Teologia Internazionale (Cti) è un organismo di 30 teologi di ogni parte del mondo scelti dal Papa in quanto «eminenti per scienza, prudenza e fedeltà verso il Magistero della Chiesa» con l’incarico di «studiare i problemi dottrinali di grande importanza» (così gli statuti ufficiali).
Pochi giorni fa è stato pubblicato su Civiltà Cattolica l’ultimo suo lavoro, disponibile anche nel sito della Santa Sede, dal titolo: Dio Trinità, unità degli uomini . È però il sottotitolo che chiarisce l’argomento: Il monoteismo cristiano contro la violenza.
Lo scritto prende infatti spunto da una tesi sempre più diffusa in occidente secondo cui vi sarebbe «un rapporto necessario tra il monoteismo e la violenza», con la conseguenza che il monoteismo, prima considerato la forma più alta del divino, ora viene ritenuto potenzialmente violento.
Le religioni monoteistiche sono ebraismo, cristianesimo e islam, ma secondo la Cti è soprattutto il cristianesimo a essere sotto tiro da parte di ampi settori dell’intellighenzia occidentale definiti «ateismo umanistico, agnosticismo, laicismo», i quali invece risparmierebbero l’ebraismo per rispetto della shoà e perché privo di proselitismo, e legherebbero l’intolleranza islamica più a motivi politici che teologici. Il che per la Cti dimostra l’aria anticristiana che tira in occidente, ingiustificabile anche alla luce del fatto che è proprio il cristianesimo la religione che oggi cerca di più il dialogo con la cultura laica.
A favore del monoteismo la Cti propone la tesi opposta secondo cui «la purezza religiosa della fede nell’unico Dio può essere riconosciuta come principio e fonte dell’amore tra gli uomini». Ribalta quindi l’equazione: non monoteismo = violenza, bensì monoteismo (trinitario) = amore universale. Con la logica conseguenza che «l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è la massima corruzione della religione».
Gli argomenti presentati a sostegno sono molteplici. In primo luogo si contesta l’idea secondo cui il politeismo sarebbe più tollerante, visto che la persecuzione ellenista contro gli ebrei e quella romana contro i cristiani indicano il contrario. Ma è soprattutto il cuore del cristianesimo a mostrare come dall’insegnamento e dalla vita di Gesù non può che scaturire un umanesimo non violento, per cui la rivelazione cristiana «consente di neutralizzare la giustificazione religiosa della violenza sulla base della verità cristologica e trinitaria di Dio», e per questo vi è un «irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa».
Altri punti importanti sono la distinzione del concetto di monoteismo (ritenuto in sé troppo generico per abbracciare unitariamente ebraismo, cristianesimo e islam), l’ermeneutica delle pagine bibliche colme di violenza, la discussione con l’ateismo contemporaneo, le riflessioni di teologia trinitaria.
Ma il documento della Cti è riuscito nel suo intento principale, cioè rendere convincente la connessione organica tra cristianesimo e non-violenza per quei laici che accusano il cristianesimo di intolleranza? A mio avviso no, e il motivo sta nel non aver preso adeguatamente in considerazione la parte di verità della critica laica.
Il documento infatti non indaga a sufficienza le ragioni delle accuse mosse al cristianesimo, basti considerare che fenomeni quali inquisizione, roghi di eretici e di libri, caccia alle streghe, Index librorum prohibitorum, conversioni forzate di individui e di popoli, neppure sono nominati. È vero che si afferma di «non poter ignorare considerando la storia del cristianesimo i ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa» e che si evoca «un atteggiamento di conversione permanente che implica anche la parresia ossia la coraggiosa franchezza) della necessaria autocritica», ma invano si cerca tra i 100 paragrafi del documento almeno un esempio di tale parresia. Al contrario l’argomentare si risolve spesso in una concatenazione di pensieri speculativi con un linguaggio non sempre limpido e perspicuo.
Oltre all’insufficienza a livello storico, in sede concettuale le lacune sono soprattutto tre: 1) la violenza nella Bibbia viene considerata solo per l’Antico Testamento senza mai menzionare il Nuovo, dove pure è presente, si pensi all’Apocalisse e ad alcuni passaggi di san Paolo, con la conseguenza di riprodurre la contrapposizione «Dio di Gesù buono - Dio dell’ebraismo cattivo» altrove condannata dalla stessa Cti; 2) non si spiega perché la Chiesa abbia preso congedo dalla violenza solo in tempi relativamente recenti; 3) vi è una problematica considerazione delle religioni non cristiane.
Tralasciando per motivi di spazio il primo punto, riguardo al secondo occorre chiedersi perché la Chiesa che per secoli praticava e giustificava la violenza ha poi mutato atteggiamento. La risposta è semplice: grazie alle battaglie del mondo laico che, togliendole potere, le hanno permesso di tornare a essere più fedele alla propria essenza.
La Cti però non spende una parola su questo, al contrario ripropone la campagna di Benedetto XVI contro il relativismo dimenticando il bene che deriva dal prendere coscienza della relatività delle proprie posizioni. Non è dal relativismo, infatti, ma è dal suo contrario, l’assolutismo, che nascono l’intolleranza e la violenza. Il che non significa che il relativismo non abbia i suoi limiti, ma occorre una saggezza disposta a riconoscere il bene e a denunciare il male ovunque siano, anche e soprattutto a casa propria insegna il Vangelo (Matteo 7,3: «perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?»), mentre tutto ciò nel documento dei teologi prescelti dal Vaticano scarseggia.
C’è poi il punto sulle religioni non cristiane. Con l’affermare più volte che «la rivelazione cristiana purifica la religione», quale immagine delle religioni non cristiane consegna la Commissione? Scrivendo che «la purezza della religione e della giustizia viene dalla fede in Gesù Cristo», quale immagine dei credenti non cristiani propone la Cti? Sembra inevitabile concludere che le religioni senza Gesù siano destinate all’ingiustizia e alla violenza, sennonché la realtà insegna che sono proprio religioni come induismo, buddhismo, giainismo a essere giunte all’ideale della non-violenza (anche a livello alimentare!) secoli prima della nascita di Gesù e millenni prima che vi arrivasse la Chiesa cattolica.
L’intento della Cti è più che lodevole, ma su temi tanto delicati la Chiesa di papa Francesco avrebbe meritato un documento diverso, più umile sul passato e più coraggioso sul presente, capace così di vero dialogo con i non cristiani e di smuovere le acque nella Chiesa, invocando al suo interno quella libertà religiosa che ieri la Chiesa negava a tutti, oggi promuove nel rapporto tra credenti e potere politico e domani dovrà giungere a riconoscere in materia teologica, etica e di pratica sacramentale ai singoli credenti se vorrà essere veramente del tutto libera dalla violenza.
Sequeri: «Intuizione che supera i pregiudizi positivistici»
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 03 luglio 2013)
Ai miei studenti di solito dico: per conoscere la tradizione su Gesù, non occorre interrogare tutta la storia del mondo o fare innumerevoli comparazioni (come invece oggi accade, perché il cristianesimo è stato diffuso e fatto conoscere a tutti, con l’inevitabile infittirsi della selva delle interpretazioni).
In realtà, non abbiamo molto di più dei Vangeli. Questo fatto mi induce a proporre due considerazioni. In primo luogo, ciò che nei Vangeli impressiona - deponendo a favore della serietà della loro testimonianza - è che i garanti della loro attendibilità sono d’altra parte costretti a figurare, negli stessi racconti evangelici, come protagonisti del quotidiano fraintendimento di colui di cui erano discepoli, cioè di Gesù.
Questi testi, concepiti certamente con un’intenzione kerigmatica, quindi anche apologetica e propagandistica (nel senso più alto della parola), contengono autorevolmente non solo la testimonianza su Gesù, ma anche la cronaca del quotidiano fraintendimento di coloro che ne garantivano l’attendibilità. Questo fatto - verrebbe da dire con una battuta - è quasi una prova dell’esistenza dello Spirito Santo!
Proviamo infatti a calarci nella situazione: quando si leggevano i testi evangelici, di fronte al nome di Pietro, Giovanni o Giacomo, per fare degli esempi, si levava il capo e si stava in religioso silenzio.
Ora, però, in quei testi c’è scritto anche (senza peraltro che ci fosse bisogno di scrivere una tale storia, perché il cristianesimo aveva già una dogmatica, una liturgia, una misterica) che Pietro non ha capito Gesù, Giuda l’ha tradito, quell’altro l’ha abbandonato, l’altro ancora voleva fare la propaganda secondo il proprio modo di vedere...
Ebbene, per esprimere una tale sconcertante verità bisogna avere un coraggio straordinario, che si può pensare solo dello Spirito Santo, perché io non ho ancora mai visto nessun ciclostilato parrocchiale e nemmeno una enciclica papale così critici nei confronti della propria parte!
E tuttavia credo che questa peculiarità delle Scritture sia del tutto pertinente, perché soltanto le Scritture sono ispirate, nel senso inteso anche dal dogma cattolico quando afferma che in esse è presente una qualità differenziale della confessione della fede (che è insieme apologetica e autocritica, quando viene dallo Spirito) che non si è mai più riprodotta a quell’altezza. Questo fatto mi impressiona molto e trovo che solleciti un confronto serio con questa testimonianza.
In secondo luogo, si impone all’attenzione l’atteggiamento che Gesù ha rispetto al punto cruciale e delicato di Dio e del rapporto dell’uomo con Dio. Io vedo Gesù come folgorato da un’intuizione, da una percezione, si potrebbe dire anche da una fede (non ho paura di questo termine, giacché la stessa Lettera agli Ebrei parla della fede di Gesù, intesa non in senso intellettualistico ma dal punto di vista del legame) nei confronti di Dio, del Padre, che potrebbe lasciarsi esprimere in questi termini: «Voglio che vi affidiate totalmente a Lui, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, come dice la vecchia Legge, a costo di essere io in secondo piano, e sapendo anche che ci sono cose che non debbono essermi chieste perché solo il Padre le conosce».
Il rigore di questa mediazione risplende anche nel fatto che in Gesù vedo un unicum, uno cioè che non parla semplicemente di Dio in terza persona, come un profeta. Questo è clamoroso, perché rispetto all’antica Legge di Dio nessuno si sarebbe permesso di dire: «Ma io vi dico... », come invece Gesù fa (cfr. Mt 5, 21 ss.), men che meno un uomo religioso, il quale sa che non ci si può accreditare così.
Questo modo di fare di Gesù avrebbe suscitato dubbi anche in me, come del resto in tutti, per la sua enormità. E invece ne viene una fede che corrisponde alla sua, la quale osa un tal modo di esprimersi, manifestando al tempo stesso anche la chiara consapevolezza della differenza fra lui e Dio (in quanto egli ne è la rivelazione), come quando ad esempio Gesù dice che neanche il Figlio dell’uomo sa quando verrà la fine del mondo, o che stare alla sua destra o alla sua sinistra lo decide non lui ma il Padre.
A mio parere è qui il nocciolo della questione. In una cultura come la nostra, piena ancora di vieti pregiudizi positivistici, Vattimo si apre e dice: i racconti evangelici mi dicono che qui è accaduto qualcosa di enorme per il nostro destino ed io mi trovo all’interno di questo annuncio, non ho motivo per non esservi.
A mia volta, io faccio un’operazione simmetrica: anziché esprimermi - come sarebbe fin troppo facile fare - sul fondamento della resurrezione, della missione trinitaria del Figlio, ecc., vorrei dire: quando di notte mi interrogo sulle cose sulle quali è giusto che ciascuno si interroghi per essere onesto nel renderne ragione, ciò che mi tiene rispetto al cristianesimo è questo: mi sentirei un vigliacco se non continuassi ad avere la stessa fede di Gesù.
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
La lezione di Martini: la Parola di Dio prima di tutto
Nella lingua di
ciascuno
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 1 settembre 2012)
Dopo una lunga vita spesa a farsi eco della Parola di Dio, era rimasto quasi senza parole. Quando gli ultimi suoni che dovevano esserci consegnati - puri respiri, quasi - sono stati consegnati, il cardinale Martini ha consegnato anche lo spirito. L’ha consegnato a Dio, certamente. Ma tutte le sue parole, fino all’ultimo respiro, le ha prima consegnate a noi. Che cosa ci dicevano queste parole? E chi le eredita? E come deve fiorire il seme, ora che ha assolto il suo compito fino a nascondersi nella terra e morire?
Le sue parole dicevano, alla fine, una cosa sola: che c’è una sola Parola veramente degna di ascolto. Non era ancora stata così semplice e così possente, nei tempi della nostra giovinezza, questa primavera della Parola di Dio. Negli anni del nostro indecifrabile scontento, del nostro conflitto civile, delle nostre nevrosi ecclesiogene, questo primato dell’ascolto della Parola sull’eccitazione dei nostri progetti rivoluzionari, ci arrivò - in un primo momento - come una pietra lunare. E poi, poco a poco, si fece domestica. Incominciò a insegnarci la differenza fra la paura e la fede. Fra il giudizio degli uomini e il giudizio di Dio. Fra la stizza per il nostro sentirci abbandonati ai giochi delle potenze mondane, e la conquista di una indomabile determinazione a custodire la fede che vince il mondo. Amandolo, persino. Di fronte alla persuasiva suggestione di questa fiducia incrollabile nella Parola di Dio, alcune coscienze stravolte dalla convinzione di dover consegnare all’odio e alla violenza la regìa di una storia diversa, consegnarono - letteralmente - le armi. E molti, che avevano archiviato lo smarrimento di Dio, imparando a convivere con il vuoto, si persuasero di poterne parlare di nuovo.
Il primo erede delle parole di Carlo Maria Martini è, di diritto, la Chiesa. Nessuno, meglio della Chiesa, sa che cosa fare di questa eredità, e con questa eredità. La Chiesa, custode della Parola di Dio, discerne la sua tradizione. E sa che c’è un solo Maestro. Anche questo rispetto e questa obbedienza ecclesiale ereditiamo da Martini. La parola “discernimento” è diventata famosa proprio come una cifra caratteristica del suo insegnamento. Essa rimanda, per definizione, alla necessità di non farci presuntuose controfigure dell’autorevolezza della Parola di Dio, fronteggiando la Chiesa. Noi siamo parte, affettuosa e solidale, del discernimento della Chiesa. Non lo rendiamo più difficile, lo agevoliamo con le mille risorse dell’intelligenza di agape (1Cor 13, 413).
Ma l’eredità che la Chiesa riceve dai suoi servitori fedeli non è un geloso possesso, un orgoglioso sequestro. Molti uomini e donne proprio questo impararono dallo stile evangelico e umano di Martini. Furono colpiti con loro sorpresa dall’immagine di una Chiesa che non è avara dei suoi beni, a cominciare proprio dalla Parola di Dio. Impararono - e noi fummo costretti a ricordare - che la Chiesa non ha bisogno, né intenzione, di proteggere la Parola di Dio affogandola nel gergo di un linguaggio esoterico. Scoprirono che, dalla Pentecoste sino ad ora, l’autentica predicazione cristiana si fa intendere nella lingua di ciascuno. E dunque tutti possono rendersi conto che c’è, per ciascun essere umano, una Parola buona di Dio.
Questo ci basti, per dire una buona parola - una benedizione - su questo vescovo della Chiesa, e fratello nostro, che ha faticato al “remo della parola” di Dio (Lc 1, 2), fino a quando non ebbe finite le parole per insegnarcele. Le nostre parole, passano e muoiono, come devono. La Parola di Dio, però, se ne riscalda e vive. (Caro Cardinale Martini, tu sai che io sono stato il tuo teologo arruffaparole, al confronto con te, impareggiabile narratore della Parola. Eppure, non mi hai mai tolto la parola. Dio sa se non è un buon esempio di agape, questo. Dio ti benedica, indimenticabile fratello vescovo).
Una mancanza di stile. Cattolico. (Una breve replica a P. Sequeri)
di Andrea Grillo
in “http://grilloroma.blogspot.com/” del 16 maggio 2011
Caro Pierangelo,
questa volta non posso proprio seguirti. Non che non ritrovi, in molti passaggi del tuo breve commento, il tono lucido e costruttivo che ti contraddistingue. Su questi auspici di fondo concordo pienamente con te. Ma sono gli argomenti portanti che utilizzi come argomentazione, e che condividi con il documento appena pubblicato, che mi lasciano molto perplesso e un poco preoccupato. La tua sensibilità per gli "affetti", evidentemente, ha lavorato in profondità, facendoti aderire a quella logica degli "attachements" che già un altro teologo di valore, Cassingena-Trevedy, ha utilizzato per giustificare questo clamoroso pasticcio istituzionale, giuridico e liturgico. Come puoi pensare, in buona sostanza, che un principio affettivo e nostalgico - che protesta la "non ripudiabilità di ogni fase dello sviluppo del rito romano" (cosa di per sé incontestabile), possa essere tradotto nel principio giuridico e liturgico della vigenza parallela e contemporanea di diversi stadi di questo sviluppo?
Come puoi non riconoscere, in questa traduzione istituzionale, non una prova di saggezza e di pacatezza, ma il principio di una erosione modernistica e anarchica - assunta non dal basso, ma dall’alto, come ha ben detto G. Zizola - che mina alla base la irreversibilità delle scelte pastorali? Il parallelismo ufficiale di due diverse forme del medesimo rito - di cui la più recente è sorta per emendare e superare le distorsioni e le lacune della precedente - non ti pare che di fatto relativizzi e metta come "sotto embargo" la condivisione universale della scelta della "riforma liturgica"? E se questo viene dal punto più alto della piramide gerarchica, come puoi pensare che non accadrà - come già è cominciato ad accadere - che qualunque intenzione possa ripararsi sotto questo "ombrello" per far la guerra ad ogni cambiamento serio delle prassi rituali cattoliche? Come si potrà, domani, "adeguare" lo spazio liturgico, se la logica dello spazio attuale corrisponde a un rito "vigente"? Me lo sai dire?
Voglio precisare che anch’io sono consapevole che le logiche della Riforma Liturgica non sono sufficienti e che in questo abbiamo ancora molto da imparare e da precisare nel nostro "adeguamento". Ma, vedi, la insufficienza confessata non può coincidere con il dubbio sulla necessità. La Riforma è e rimane assolutamente necessaria, perché i riti possano riformare la Chiesa. Se si mette in dubbio questa necessità, se la si riduce anche solo a "possibilità", ci si può illudere che, anche senza Riforma, tutto sarebbe uguale, se non migliore. Questo so bene che tu non lo condividi. Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla "indifferenza" verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta...
Qui, caro Pierangelo, vedo una questione che chiede a tutti la massima responsabilità. Anche i teologi debbono fare la loro parte, con schiettezza e parresia e senza perdere il contatto con la realtà effettuale. Non dobbiamo trascurare come, attraverso i provvedimenti che dal 2007 sono stati adottati in questo ambito, venga introdotta nel corpo ecclesiale una tensione sempre maggiore tra due forme di esperienza del rito che, come tali, non sono affatto compatibili, ma rispondono a diversi paradigmi ecclesiali, affettivi e testimoniali.
Resto convinto che questo testo della Istruzione - come già il Motu Proprio e la lettere che lo accompagnava - non sia né istruttivo, né tanto meno possa essere una testimonianza di stile. A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico. Di quel grande stile cattolico che abbiamo re-imparato dalla grande stagione conciliare, della quale ora sembra opportuno doversi quasi vergognare. Non mi vergogno del Concilio Vaticano II, caro Pierangelo e anzi posso esserne orgoglioso grazie a quella sensibilità che ho imparato anchedai tuoi libri sapienti e dalle tue parole profonde. E per questo non posso dire affatto che questa Istruzione sia una testimonianza di stile cattolico. Se lo facessi, mi vedresti arrossire.
Con la consueta amicizia
Andrea
Una lezione di stile. Cattolico
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 14 maggio 2011)
Potrà un gesto di pacata saggezza magisteriale restituirci al senso della fede che ci è comune? E anche, se mi è consentito, ricondurci al senso delle proporzioni, nelle discussioni in materia di liturgia e tradizione?
L’Istruzione diffusa ieri dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, puntualizza dettagliatamente, con toni fermi e sereni la questione relativa alla teoria e alla pratica della forma liturgica precedente, e costituisce ora, a questo scopo, un autorevolissimo punto di riferimento.
Nell’evidenza di un eccesso di drammatizzazione dell’adeguamento liturgico ufficiale, il Papa Benedetto XVI (come del resto già il beato Giovanni Paolo II) ha giustamente difeso, a più riprese, la sua piena legittimità: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Il giudizio, naturalmente, vale dai due lati. Non esiste alcuna ragione per qualificare pregiudizialmente come una deviazione il giusto adeguamento liturgico che la Chiesa autorevolmente procura alla tradizione vivente della fede (la liturgia sarà finalmente perfetta solo in cielo). Così come non esiste alcun motivo per lasciar intendere che un tale sviluppo comporti necessariamente una sorta di ripudio per ciò che nella tradizione liturgica è stato "sacro e grande". E tale rimane.
La comprensione per la venerazione della forma precedente, e la regolata accoglienza del suo esercizio nella Chiesa odierna, confermano esattamente il principio ermeneutico confermato da Benedetto XVI.
L’effettiva percezione di una diffusa sensibilità, fra sacerdoti e fedeli, per il sostegno spirituale loro offerto dalla pratica dell’antico rito, lascia però intuire che quella sensibilità può essere gravemente manipolata (già è avvenuto, come si sa): persino in termini cattolicamente inaccettabili.
Quella sensibilità, infatti, può essere pretestuosamente forzata a intendersi come baluardo della dottrina liturgica autentica contro una forma liturgica - di per sé altrettanto ufficiale e in continuità con la tradizione apostolica - che ne rappresenterebbe la corruzione e la distruzione. O peggio, la sua rivendicazione, in termini a sua volta materialmente esclusivi di ogni vitale adeguamento delle forme, potrebbe essere persino esaltata come simbolo per una linea di resistenza e di lotta al Magistero recente, che reagisce a un processo di generale corruzione della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica. Corruzione alla quale gli stessi Sommi Pontefici non sarebbero in grado - o addirittura non avrebbero l’intenzione - di opporsi con la necessaria efficacia.
La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica. Il criterio ultimo della sua legittima "ospitalità ecclesiale", raccomandata al saggio discernimento dei vescovi, appare in tutta evidenza nel prologo del documento. Nulla deve ferire la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale: nella dottrina della fede, nei segni sacramentali, e «negli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica». Interesse rigorosamente comune e principio sicuro di pace ecclesiale.
Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene - e dove ci porta - questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? Umiltà e obbedienza non sono virtù essenziali alla tradizione della fede? Se ce ne fossimo dimenticati, antichi o moderni quanti siamo, questo testo non ci istruisce soltanto. Ci dà una lezione di stile. Cattolico.
L’arca di pietra che salva dal vuoto
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 2010-11-06)
Tra la Palestina e Finisterre. La dimensione più ampia del Cammino di Santiago apre il suo arco fra questi due estremi, all’interno dei quali si è scritta la storia cristiana dell’Europa. È l’apostolo Giacomo, qui, la cruna dell’ago. Fece la spola fra i due estremi in vita e in morte. Da secoli, un filo ininterrotto passa attraverso la cruna dell’ago, in mille modi e per mille ragioni, con un essenziale obiettivo: riconciliare la vita con la propria destinazione. Per essere all’altezza della propria origine, la vita non ha che un’ultima possibile destinazione.
Dio. Mettetela come volete, ma quando abbiamo trovato il nostro finisterre, nessuno di noi cade nel vuoto. Perché, anche se non te lo ricordi, e ti prende l’estro di darGli dei nomi di fantasia, agli estremi del cammino è nel grembo di Dio che muovi il primo e l’ultimo passo. Non spunti dal vuoto, in questo mondo. E per quanto ti spingano allo smarrimento, i lavacervelli di qui, quando poi ti mollano (perché poi, quando il gioco si fa duro, ti mollano) non rimbalzi nel vuoto.
È il Cammino, figlio bello. È per gente che sfida il vuoto della chiacchiera, e vuole vedere le carte. Anzi, percorre la strada fisicamente: perché, a volte, capita che ti passino carte truccate. Noi, in Europa, siamo i figli dei figli dei figli di quelli che hanno fatto il cammino fra Betlemme e Finisterre. È fra questi due estremi che abbiamo imparato il Cammino. E ognuno, poi, ne cerca i segni sulla strada di casa. Ciascuno la sua.
Le cose essenziali del cammino fra Betlemme e Finisterre sono scritte nella pietra di due cattedrali della memoria, attraverso le quali il Papa Benedetto traccia da oggi il suo filo, anche per noi. La basilica di Santiago de Compostela e quella della Sagrada Familia di Barcellona, che domani sarà consacrata basilica proprio dal passaggio del Papa. Una scintilla del lampo che viaggia da Oriente a Occidente, annunciando ogni volta il passaggio del Figlio dell’Uomo, si accenderà di nuovo. Le pietre focaie sono quelle del tempo delle cattedrali: quando la memoria del passaggio del Figlio consacrava il giunto del cielo e della terra, che impediva alla città di cadere nel vuoto. Lo sapevano tutti, questo: anche quelli che in chiesa non ci andavano. È una di quelle verità cosmiche, di cui tutti sono certi, dentro la quale il Cammino del Signore del Vangelo si è scavato il suo solco.
Le cattedrali hanno questo di singolare: le loro fondamenta sono assicurate al cielo (è per questo che le loro guglie si spingono fin lì). Le fondamenta che stanno sottoterra sono di complemento: necessarie, ma non sufficienti. Il filo che unisce le cattedrali impedisce alla terra di diventare piatta.
Un santo antico (l’apostolo Giacomo) ha indicato - dall’alto - il luogo giusto della prima: la tomba del testimone, come è accaduto all’inizio di tutto, quando le chiese proprio lì nascevano. Un "santo" moderno (Antoni Gaudì) ha fatto germogliare dalla terra il seme della nuova creazione: ci sono anche paperi e gufi nell’arca della Sacra Famiglia, con gli Apostoli e i Santi. È dall’intenerimento di Dio per la sorte del pulcino e del pesciolino che capisci la fantasia d’amore della quale parla la religione dell’incarnazione.
L’uomo moderno, malinconico com’è, fa lo spiritoso. Dice, con tono leggero e saputo, che staremo tutti meglio senza i segni del Cammino che custodisce i cammini dal vuoto. Il Papa proprio lì va, a infilare la fune nella cruna dell’ago. E benedice l’Arca dell’alleanza tra cielo e terra. Quella che, quando la terra finisce, salva anche i pulcini spiritosi.
Pierangelo Sequeri
Se il prete è un Assassino
di Maurizio Chierici (l’Unità, 11/02/200) *
C’È un prete assassino condannato all’ergastolo che per la Chiesa è ancora prete. La gerarchia tace e aspetta, ma cosa? Quando un sacerdote tradisce le regole che guidano la missione, la Chiesa lo isola dai fedeli: sospeso a divinis. Ancora nessuna sospensione per il sacerdote Christian Von Wermich chiuso nel carcere penale di Buenos Aires: testimoni e documenti hanno provato la sua responsabilità in 7 omicidi, 42 arresti illegali, 31 casi di tortura. Anni della dittatura militare. «Non odiate chi vi sta torturando. Volontà di Dio» erano le sue parole di conforto distribuite dal padre consacrato nelle quattro prigioni segrete attorno a Buenos Aires.
I militari lo invitavano a spiare e Von Wernich usava la confessione per far parlare quei prigionieri che non si arrendevano alla tortura. Per dire cosa, poi? Nomi di compagni di scuola scandalizzati dalla violenza dei generali P2; chiacchiere tra studenti. Von Wermich confessava con la doppia morale di un malandrino. Li sollecitava ad abbandonarsi al perdono di Dio, e se l’abbandono interessava la polizia, riferiva, e altre persone sparivano. Quattro mesi fa guardavo Von Wernich nel maxischermo che ne allargava il volto davanti tribunale di La Plata. Indifferente mentre i giudici leggevano la condanna. Appena un sorriso di scherno, come per dire «in qualche modo ne uscirò». Negli appunti ritrovo pagine che il silenzio della Chiesa obbliga a ricordare per far capire cosa non sta succedendo.
Hector Timerman, console generale dell’Argentina a New York, riferisce ciò che il padre - Jacobo Timerman, direttore di un giornale indipendente - ha raccontato e scritto a proposito del sacerdote. «Era presente ai miei interrogatori e quando la benda che fasciava gli occhi si abbassava per effetto delle scariche elettriche, vedevo Von Wermich seduto accanto al capo della polizia di Buenos Aires, Ramon Camps. Mi guardavano come si guarda un cane che sta morendo». Nei verbali del tribunale la commozione di Maria Mercedes Molina Galarza: è nata in una prigione segreta, Von Wermich l’ha battezzata promettendo a Maria Mercedes e ad altri sei ragazzi, tranquilli, vi accompagnerò al confine. La vostra pena sarà l’esilio. Von Wermich ha consegnato la bambina ai nonni: molto devoti, gli si erano rivolti per sapere qualcosa della figlia scomparsa. «Si farà viva lei, forse fra un anno, forse da un altro paese. Non posso dire di più». Con la piccola fra le braccia, il cuore dei nonni si è aperto. Hanno preparato una valigia, vestiti, qualche soldo. «Ne avrà bisogno. Gliela consegno personalmente. Mi raccomando, silenzio...». Ma il viaggio della ragazza madre (Liliana Galarza) e dei suoi compagni, è stato un viaggio breve. Julio Emilio Emmended, poliziotto condannato per sette delitti, racconta come è finito. «Padre Christian Von Wernich benedice i sovversivi ammanettati e mi raggiunge nell’automobile dove aspettavo assieme a Jorge Bergés, medico della polizia segreta. ’Adesso sono vostri’. Allora scendo con la pistola in mano e quando i sovversivi vedono la pistola cercano di disarmarmi ma hanno le mani legate. Colpisco col calcio dell’arma, li stordisco. Interviene il medico: due iniezioni per uno, sempre nel cuore. Il liquido è rosso, veleno. Sconvolto, li vedo morire ma padre Von Wermich mi rincuora. ’L’hai fatto perché la patria. Dio sa che hai agito per il bene del paese’. Avevo le mani sporche di sangue. E del sangue dei ragazzi era macchiato l’abito del padre ...».
Le voci sono tante, i documenti precisi. Crolla la dittatura e Von Wernich sparisce. Passa dal Brasile, lo ritrovano in Cile: un settimanale di Santiago lo fotografa mentre distribuisce la comunione non lontano dalla capitale. Il nome era falso, nessuno poteva sospettare. Possibile che la Chiesa cilena avesse affidato la cura di una parrocchia ad un sacerdote argentino senza voler sapere da Buenos Aires ’come mai è qui?’. Mistero che si perde nella rete dei cappellani militari.
Cinque minuti dopo la condanna, il comunicato della Commissione Episcopale argentina. Perché cinque minuti dopo e non quattro anni prima quando i delitti di Von Wermich erano da anni documentati? Martin de Elizaide, vescovo della diocesi della quale Von Wermich era sacerdote chiede che il religioso «venga assistito affinché riesca a comprendere e riparare il danno arrecato con scelte personali che non coinvolgono le istituzioni». Lascia capire che la procedura necessaria alla Chiesa per prendere una decisione sarà lunga: non ne fissa il tempo. In fondo, è solo uno dei tanti sacerdoti che hanno abbracciato gli ideali fascisti della dittatura. Le trame del piano Condor allargano le complicità ai cappellani militari delle squadre della morte: America Centrale, Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay. Con quale abbandono si sono rivolti a Dio mentre davano una mano agli assassini?
Quattro mesi fa la sentenza e la Chiesa non ha più parlato. Bisogna dire che i rapporti diplomatici tra Vaticano e Argentina sono congelati dal braccio di ferro che divide l’ex presidente Kirchner e la nuova presidente- moglie, dalla burocrazia diplomatica di Roma. Tre anni fa Kirchner nomina ambasciatore in Vaticano un ex ministro: Alberto Juan Bautista Iridarne, signore squisito ma divorziato e risposato come quattro milioni e mezzo di argentini.
Come Berlusconi, Fini e Casini considerato dal monsignor Ruini «esempio di cattolico in politica». Il Vaticano non accetta chi ha infranto il sacramento del matrimonio e un paese borghese e devoto viene rappresentato nel grigiore della routine di un incaricato d’affari. Comunicazione non interrotta, ma evanescente proprio nel momento in cui il congresso di Buenos Aires decide la dissoluzione del vescovado castrense, pastore guida dei cappellani militari.
Il passato continua ad impaurire il presente. I cappellani in divisa hanno accompagnato il golpe obbedendo ai vescovi che appoggiavano la dittatura dei generali.Von Wernich è il primo caso risolto dal tribunale, ma i nomi sono tanti, si annunciano altri processi. L’essere divorziato e l’essersi risposato non viene messo sullo stesso piano delle colpa di chi si è servito della confessione per far sparire ragazzi senza colpa, ma la soluzione è fulminea: no e subito all’ambasciatore; vediamo cosa fare per il prete assassino. Il clero argentino è diviso. Vescovi rigidi contro il governo e vescovi alla ricerca della soluzione.
Monsignor Casaretto, segretario della commissione episcopale, genovese di nonni e presidente della Caritas che ha sfamato milioni di affamati nei mesi bui della crisi economica non smette di dialogare. Intanto, nell’istituto penale dove è rinchiuso Von Wernich sono stati trasferiti militari e poliziotti arrestati dopo che il presidente Krichner ha annullato le due leggi (Punto Final e Obbedienza Dovuta) imposte dalle forze armate per consentire «la pacificazione nazionale». Molti di loro avevano atteso il processo in prigioni soffici come grandi alberghi. Camere con Tv, aria condizionata, palestre per tenersi in forma. Una certa libertà. Adesso si sono ritrovati dove dovevano essere dal primo giorno. Von Wernich li raccoglie in angoli non frequentati con l’aria di un confessore. Celebra la messa della sera e riceve la considerazione che è abitudine verso i religiosi nelle carceri argentine. Il silenzio della Chiesa continua. Forse i vescovi credono all’intrigo al quale Von Wernich si aggrappa dichiarandosi vittima di complotti senza prove mentre le prove e i racconti dei sopravissuti gli passavano sotto gli occhi in tribunale.
A Buenos Aires e in Vaticano la gerarchia cattolica è impegnata a difendere il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale. Questo diritto alla vita prevede la condanna di chi brucia la vita con torture e delitti? Passa il tempo e si aggrava il profilo morale di un assassino che ostenta dignità di sacerdote mentre la gerarchia medita dubbiosa sull’orrore delle colpe certificate dalla giustizia civile. La sopravvivenza sacerdotale di Von Wernich è lo sbalordimento che avvilisce non solo i credenti. E il mistero dei vescovi senza parole insinua nella fede dei cattolici il sospetto di uno scandalo istituzionale.
Solo qualche vescovo ha chiesto perdono alle vittime. Ma non basta mentre la memoria di un passato doloroso scuote ogni comunità: dal ricordo dell’Olocausto, alla Spagna impegnata a rileggere i crimini della guerra civile. Impossibile immaginare per Von Wermich la dolcezza di una esclusione senza sospensione a divinis che ha accompagnato la fine di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. «Ussari di una Chiesa combattente alla conquista mondo». È morto negli Stati Uniti quattro giorni fa, l’Osservatore Romano ne ha rimpicciolito la memoria. Sarà sepolto nel suo Messico dove i Legionari si mescolano alla politica del governo conservatore. Nel 1968 è stato accusato da 30 seminaristi; li aveva insidiati facendo pesare l’autorità di un generale intoccabile.
Il quotidiano messicano La Jornada ne ha ricostruito i peccati con una precisione che è valsa il premio nazionale di giornalismo. Ma Roma non se ne è accorta e il Vaticano non gli è mancato di rispetto accogliendo le raccomandazioni del nunzio apostolico in Messico, monsignor Girolamo Prigione, dell’arcivescovo Norberto Rivera e dei vescovi Onesimo Cepeda ed Emilio Berlié, estremisti della destra religiosa in America Latina.
Nel dogma di un integralismo esasperato, Marcial Maciel ha aperto a Roma l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. I Legionari controllano 150 collegi, dispongono di una serie di piccoli seminari, da Monterrey a San Paolo Brasile, attorno ai campus degli Stati Uniti, si aprono scuole nell’ex impero sovietico: 550 sacerdoti, 2500 novizi, 60 mila laici raccolti in una specie di terz’ordine, il Regno di Cristo.
Dopo aver ignorato per dieci anni le accuse largamente provate, nel 2004, il cardinale Ratzinger finalmente prende in esame il caso, e nel 2006 Marcial Marcel viene comandato a lasciare la guida dell’ordine per dedicarsi ad una vita di preghiera e penitenza. Nessun processo canonico per «l’età avanzata», solo la proibizione di dire messa e parlare in pubblico. Punizione veniale per i semplici credenti, ma terribile per il padre dei Legionari: sperava d’essere beatificato con la velocità del Balaguer fondatore Opus Dei. Vanità rinviata all’eternità e senza un santo protettore nel suo ordine si allungano le ombre. Marcial Marcel aveva 87 anni, Von Wermich 69. I fedeli argentini non hanno voglia aspettare diciotto anni per sapere se la Chiesa ha deciso di allontanarsi da un prete così.
mchierici2@libero.it
Pubblicato su l’Unità http://www.unita.it
Lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale
di Fausto Marinetti *
Caro Bruno Zanin,
grazie per il coraggio di riconoscere di essere un uomo. Non hai paura di te. E neppure "al figlio dell’uomo" fai paura, perché lui, ama ogni figlio d’uomo, qualunque cosa abbia fatto.
Tu non ti riempi la bocca di belle parole come facciamo "noi", uomini di chiesa. Sei quello che sei: "Sì, sì, no, no". Fai parte di quella stirpe, che il Cristo cercava allora come oggi: i pubblicani e le meretrici. E lui ha il coraggio di metterli in prima fila, scandalizzando gli osservanti della legge, i benpensanti, compresi coloro che dicono di "amare la chiesa, perché amano Cristo" (attenzione alla cripto-ipocrisia!). Quelli che antepongono la diplomazia al vangelo, quelli che predicano bene e razzolano male, quelli che impongono agli altri dei pesi che loro non muovono con un dito.
Il tuo coraggio ha dato frutto: altre vittime si sono fatte avanti a raccontare il loro trauma. E’ la riprova della mia ipotesi: se tutte le diocesi mettessero a disposizione un telefono verde, quante altre vittime verrebbero alla luce? Quello che noi vediamo è solo il top dell’iceberg... la "sporcizia" è sotto sotto, ma basta stuzzicarla e viene a galla.
Alcuni hanno rivelato nomi eccellenti, ma sono ancora in "coma emotivo", impigliati nella ragnatela della paura, del tradimento, dell’orrore che li paralizza.
Confessano di non aver neppure la forza di denunciare. Non ne vogliono sapere di andare in tribunale, sarebbe rivivere il Calvario, che stanno tentando di cancellare dalla loro carne. E poi ci sono monsignori intoccabili, una sorta di casta, perché, a volte, si servono delle "opere buone" per coprire i loro delitti. Il brutto è che non sono capaci di gettare la maschera come, invece, fai tu. Ma se è gente che fa professione di fede e di carità; se è gente votata al vangelo, come fa a servire Dio e stuprare i suoi figli? E si fanno chiamare "padri"...
Vedi? Io vengo dal di dentro e conosco certi meccanismi o strategie clericali. Credo che uno dei fattori ai quali imputare questa contraddizione, sia la "troppa verità", che li porta all’arroganza della verità (quella che in passato ha fatto le "sante" crociate, bruciato streghe, condannato Galilei, collaborato con la "conquista" e con la shoà, ecc.). Quanta saggezza nelle parole di Paolo: "Chi sta in piedi non si esalti troppo, perché anche lui può cadere...".
Oh se tutti i Fisichella avessero un po’ di spazio dentro di sé (oltre che per la teologia e il catechismo) per accogliere le vittime! Forse è per la troppa verità di cui sono sazi; forse è per la troppa dottrina, che hanno bisogno di nascondersi dietro agli "operai del bene", che, per fortuna, ci sono ancora tra le loro fila, e spesso tollerati quando non ostacolati, contrariati, ecc.? Tu sai che io sono stato dieci anni con uno perseguitato da loro: Don Zeno, il quale non gliele mandava a dire e, con il suo esempio ha criticato e messo in evidenza certa cultura cattolica che non ha niente a che fare con il vangelo. Non si tratta di virgole, ma di vedere la dignità umana secondo gli occhi e il cuore di Dio. Ti faccio qualche esempio:
1 - La cultura clericale non ha sempre trattato il figlio della ragazza-madre come "figlio del peccato"? E lui ironizzava: "Mai sentito dire che il diavolo abbia fatto dei figli!". Quando veniva accolta in comunità una gestante, ci insegnava che era come un ostensorio della vita e, quindi, dovevamo rispettarla, onorarla e anche venerarla come si venera l’eucarestia.
2 - Nel 1943 all’ombra del Santuario di Pompei trova un istituto con la scritta "Casa dei figli dei carcerati". E lui va in bestia: "Questi bambini non sono i figli dei carcerati, ma i gioielli di Dio Padre, carne battezzata, senza macchia d’origine" (27.2.1943). E quando la comunità verrà sciolta dal braccio secolare, con il beneplacito della S. Sede, circa 700 "figli" sono strappati alle madri e riportati negli istituti, scoppiando dal dolore, dirà: "C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato collegi e orfanotrofi? Un flagello! A Pompei hanno fatto perfino la Casa dei figli dei carcerati. Una scritta a caratteri cubitali. Tu, prete, hai il coraggio di chiamare così coloro, che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma anche dalla Chiesa non è troppo? É lecito commettere di questi guai? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano. Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità e Cristo continua a dire alla Chiesa: Donna, ecco tuo figlio. E alle vittime: Figli, ecco vostra madre".
3- Di fronte a un’Italia alla fame, nel dopoguerra, scrive a Pio XII: "In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi, senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, padri per divina elezione, di fronte ai figli siamo quindi contro natura, in peccato, dal quale hanno diritto di difendersi. Vuol cambiare rotta? Io ci sto e chissà quanti ci stanno..." (25.5.1953).
Ma Fisichella crede proprio che basta mascherarsi con le opere buone di madre Teresa per cancellare le migliaia di vittime della pedofilia clericale? Altro che insistere nel dire che si tratta di "casi isolati", di responsabilità personale di alcuni preti che "non dovevano diventare preti"! E quella dei vescovi che li hanno smistati qua e là? E la copertura...
La tua confessione "coram populo" ci invita tutti a gettare la maschera, a riconoscerci semplicemente uomini, a non ritenerci migliori degli altri, perché il nostro vanto è proprio quello di essere della stessa pasta di Adamo, creature fragili e perfettibili. Chi non ha bisogno di farsi perdonare qualche cosa? Perché i prelati non dovrebbero ammetterlo? Per salvare l’immagine? Che cosa è questa benedetta immagine se non, appunto, un’immagine?
Fisichella ha perso un’occasione unica durante la trasmissione di Annozero? Se invece di arrampicarsi sui vetri per difendere a tutti i costi la chiesa, (Cristo non ha bisogno di crociati, vecchi o nuovi), si fosse inginocchiato davanti alla donna stuprata per anni da don Contini, che cosa sarebbe successo? Un’occasione d’oro mancata. Mancanza di coraggio o di fede?
Certo, meglio la diplomazia, l’arte di non perdere la faccia, "l’istituzione va salvata ad ogni costo"! Ma Cristo, altro che faccia...!, non ha perso tutto quanto quando è andato ad "abitare" sul Calvario? Se è vero che vi sta a cuore l’istituzione, perché non prevenire tanto male, tanta aberrazione coltivata nei seminari, tanta cultura sessuofobica, che non vi fa vedere la corporeità, i figli, le donne, ecc. con gli occhi di Dio?
Perché non si ha questo santo coraggio? Perché siamo diventati ecclesio-latri, abbiamo messo la chiesa al posto di Dio? Ma dove esiste nel vangelo il "culto" alla chiesa, al papa, ai principi della Chiesa?
E quanti disastri continua a fare l’idolatria del prete? Cosa non si fa per fargli credere di essere "altro" dal popolo, un diverso, un eletto, un predestinato? Non si è forse elaborata una "dottrina" per metterlo sul piedestallo di Dio stesso?
La teologia distingue tra il sacerdozio di "uomini speciali" e il "sacerdozio comune dei fedeli". Al sacerdote sono affidati poteri essenziali per la salvezza: celebrare l’eucarestia e perdonare in nome di Dio. Il concilio di Trento dichiara: "Se uno dice che nel Nuovo Testamento non c’è traccia visibile del sacerdozio e del potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo e di rimettere i peccati, sia anatema" (n°. 961). Il celibato obbligatorio rinforza la mistica del prete, che lo pone al di sopra dei laici. Quando viene ordinato si unisce a Cristo in tale maniera che è sostanzialmente diverso dagli altri (catechismo, 1581), perché "possiede l’autorità di agire con il potere e nella persona di Cristo stesso" (1548). Viene messo sul pulpito, accanto a Dio, di cui gode onori e privilegi. Il curato d’Ars dice: "Che cosa è un prete? Un uomo che sta al posto di Dio, investito di tutti i suoi poteri. Quando perdona non dice "Dio ti perdoni", ma "Io ti perdono". Se incontrassi un prete e un angelo, prima saluterei il prete poi l’angelo. Questi è amico di Dio, il prete sta al suo posto". S. Teresa baciava dove passava un prete. "Il sacerdote agisce in persona Christi e questo culmina quando consacra il pane e il vino" (Giovanni Paolo II, giovedì santo 2004). La divisione tra preti e laici è di origine divina (can. 207). Ma l’aureola anzitempo gioca brutti scherzi: ti illude di essere costituito in grazia, immune dal peccato, specie da quello banale e volgare del sesso, che spetta ai comuni mortali. Il passaggio dal potere al privilegio, dall’elite alla casta è breve. E così va a finire che il clericalismo distorce, distrugge, avvelena la missione della Chiesa. Se non è la causa di molti problemi, certo li causa per conservare privilegi, potere, prestigio, immagine. Quindi non è ammessa nessuna debolezza, lo scandalo va soppresso, le vittime messe a tacere. Corruzione e abuso inevitabili (cf "Sex, priests & secret codes, R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Los Angeles, 2006).
Se si fa credere al prete di essere "come Dio", è chiaro che questo influisce e condiziona la sua psiche al punto di considerarsi al di sopra della legge umana e inconsciamente si permette delle libertà, che non sono concesse ai comuni mortali.
Non ce n’è abbastanza per riflettere e decidere di cambiare rotta?
* Il dialogo, Sabato, 04 agosto 2007
*Ringraziamo Fausto Marinetti per averci inviato questa sua lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale che ha raccontato la sua storia in un libro che fa tremare: "Nessuno dovrà saperlo" dove con raro coraggio ammette, come conseguenza, di essere diventato omosessuale, non pedofilo. Per lui, come per tanti altre vittime della pedofilia dei preti, nessuno muove un dito, neppure le scuse come avviene in America dove le vittime hanno diritto alle pubbliche scuse del vescovo, possono "raccontare" in chiesa il "fattaccio" o scriverlo sul giornale della diocesi. Possono anche giungere ad erigere nella piazza di Davenport, davanti alla casa del vescovo, una macina da mulino con le parole di Cristo: "Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare".
Verrà il giorno in cui in piazza S. Pietro, al posto della fontana, si metterà una gigantesca macina da mulino a perpetua memoria delle vittime dei preti?
IL TEOLOGO JOSÉ CASTILLO LASCIA LA COMPAGNIA DI GESÙ.
PER "IGIENE MENTALE" *
33930. GRANADA-ADISTA. “Mi sento felice, sono in pace, e ho ora più speranze che mai. Continuerò a lavorare al mio compito, il compito del Vangelo. Per questo sono uscito dai gesuiti. Perché vedo che, così come sta oggi la Chiesa, se si è intrappolati, controllati, censurati in una istituzione dominata dalla Curia Vaticana, non si può godere della libertà indispensabile per far conoscere Gesù. In una simile ‘Chiesa’ non c’è salvezza”.
Così si è espresso il teologo spagnolo José María Castillo, 78 anni, dopo la pubblicazione della notizia del suo abbandono della Compagnia di Gesù, in una lettera ai membri del Comitato Oscar Romero del Cile (pubblicata sul sito della rivista cilena “Reflexión y Liberación”), in risposta a un loro messaggio “di solidarietà, di umanità, di fusione in uno stesso progetto e in una stessa vita”. Era stato il portale Periodista digital, in un articolo apparso il 19 maggio, a rendere nota la decisione del teologo - già raggiunto in passato dai provvedimenti del Vaticano (che, nel 1988, gli revocò l’idoneità all’insegnamento) - di lasciare la Compagnia di Gesù (ma non il sacerdozio), “stanco delle pressioni e degli attacchi del settore più conservatore della gerarchia”. “Castillo - affermava nell’articolo il suo amico e teologo Luis Alemán - vuole recuperare la sua libertà per poter respirare, perché stava soffocando. Non tanto nella Compagnia quanto nel clima attuale della Chiesa spagnola, in cui si sente perseguitato dai vescovi e dai gruppi più conservatori”.
Secondo Alemán, “tre gocce hanno fatto traboccare il vaso”: “la recente ammonizione vaticana a Jon Sobrino, la proibizione della gerarchia alla pubblicazione del libro Espiritualidad para insatisfechos da parte della casa editrice Sal Terrae dei gesuiti, e i continui attacchi che riceveva dal programma di informazione religiosa della emittente radiofonica Cope La linterna de la Iglesia”. “Non se ne va - concludeva - irritato contro la Compagnia. Se ne va per igiene mentale. È un nuovo caso Boff. Come lui, Castillo ha subito talmente tante pressioni da decidere di rompere con tutto per salvaguardare la sua libertà”.
All’interno della Compagnia di Gesù, la voce di Castillo è stata sempre una delle più coraggiose e profetiche. Fino a mettere in discussione la credibilità stessa della Compagnia, la sua fedeltà alla missione di difendere la giustizia nel mondo. Come si può vivere - si interrogava nel 2006 sulle pagine di Promotio Iustitiae (la pubblicazione del Segretariato per la Giustizia Sociale della Curia Generalizia dei gesuiti; v. Adista n. 80/06) - ben integrati nel sistema economico dominante e pretendere di essere credibili nell’impegno di “denunciare, mettere in discussione e modificare questo sistema”? “Se i poteri di questo mondo - sottolineava - ci apprezzano e ci valorizzano, ciò vuol dire che tali poteri non si sentono scomodati, né tanto meno messi in discussione da noi”. (claudia fanti)
Preti pedofili
Chi ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura
di Pino Nicotri
Sorpresa: ecco chi, come e quando ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura. Non lo indovinereste mai... *
Prima si sono rivolti con fiducia alla Chiesa, anziché ad avvocati e tribunali, inviando fin dal gennaio 2004 alla curia di Firenze esposti e memoriali sulle violenze sessuali ai danni di minori consumate per anni dal parroco Lelio Cantini, titolare della parrocchia Regina della Pace. Con la complicità di una donna, la solita “veggente” di turno le cui visioni di Gesù servivano alla selezione degli “eletti”, Cantini ha imperversato per anni e anni imponendo violenze, psicologiche e fisiche, fra cui quella sistematicamente rivolta a ragazzine di dieci, quindici, diciassette anni, di avere rapporti sessuali con lui, come forma, diceva, di “adesione totale a Dio”, facendo credere a ognuno e a ognuna di essere il prescelto e intimando il segreto assoluto pena il “castigo divino”. A furia di insistere, le vittime di Cantini hanno ottenuto qualche incontro con l’allora arcivescovo Silvano Piovanelli, con l’arcivescovo Ennio Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Ma tutto quello che sono riusciti a ottenere è stato il trasferimento del parroco mascalzone in un’altra parrocchia della stessa diocesi nel settembre 2005, cioè ben 20 mesi dopo gli esposti, motivato ufficialmente “per motivi di salute”, vale a dire senza che venisse né denunciato alla magistratura né svergognato in altro modo né privato dell’abito talare con la sospensione “a divinis”.
Deluse, le vittime e i loro familiari si sono allora rivolti al papa, con una lettera del 20 marzo 2006 recante in allegato i dettagliati memoriali di dieci tra le almeno venti vittime di abusi. “Non vogliamo sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio”, hanno spiegato al papa il 13 ottobre 2006 con una nuova, nella quale parlano di “iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle esistenze quotidiane” e lamentano come a “quasi due anni” dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non fosse ancora arrivata né “una decisa presa di distanza” dai personaggi coinvolti nella vicenda né “una scusa ufficiale” e neppure “un atto riparatore autorevole e credibile”.
Alla loro missiva ha risposto il cardinale Camillo Ruini, ma in un modo francamente incredibile, di inaudita ipocrisia e mancanza di senso della responsabilità. Il famoso cardinale, tanto impegnato nella lotta incessante contro la laicità dello Stato italiano, a fronte alle porcherie del suo sottoposto si rivela quanto mai imbelle, omertoso e di fatto complice: tutta la sua azione si riduce a una lettera agli stuprati per ricordare loro che il parroco criminale il 31 marzo ha lasciato anche la diocesi e per augurare che il trasferimento “infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo nei fatti”. Insomma, fuor dalle chiacchiere e dall’ipocrisia, Ruini si limita a raccomandare che tutti si accontentino della rimozione di Cantini e se ne stiano pertanto d’ora in poi zitti e buoni, paghi del fatto che il prete pedofilo e stupratore sia stato spedito a soddisfare le sue brame carnali altrove. Come a dire che i parenti delle vittime della strage di piazza Fontana o del treno Italicus si sentano rispondere dal Capo dello Stato non con il dovuto processo ai colpevoli, bensì con una letterina buffetto sulle guance che annuncia, magno cum gaudio, che i colpevoli anziché andare in galera sono stati trasferiti in altri uffici e che pertanto augura, cioè di fatto ordina, “serenità” tra i superstiti e i parenti delle vittime. Un simile comportamento oggi non ce l’hanno neppure gli Stati Uniti: è vero che non permettono a nessuno Stato estero di giudicare i propri soldati quali che siano i crimini da loro commessi, da Mai Lay al Cermis, da Abu Graib a Guantanamo e Okinawa, ma è anche vero che gli Usa anziché stendere il velo omertoso del segreto li processa pubblicamente in patria e non sempre in modo compiacente.
Come sempre la Chiesa si comporta in tutto il mondo come uno Stato nello Stato, con la pretesa non solo di intervenire - come è particolarmente evidente in Italia - contro l’autonomia della politica, ma per giunta di sottrarre il proprio personale alla magistratura competente. Il dramma però è che Ruini ai fedeli fiorentini che hanno subìto quello che hanno subìto non poteva rispondere altrimenti, perché - per quanto possa parere incredibile - a voler imporre il silenzio, anzi il “segreto pontificio” sui reati gravi commessi dai religiosi, compresi gli stupri di minori, è stato proprio l’attuale papa, Ratzinger. Con una ben precisa circolare inviata ai vescovi di tutto il mondo il 18 maggio 2001 e che più avanti riproduciamo per intero, l’allora capo della Congregazione per la dottrina della fede, come si chiama oggi ciò che una volta era la “Santa” (!) Inquisizione e poi il Sant’Ufficio, non solo imponeva il segreto su questi orribili argomenti, ma avvertiva anche che a volere una tale sciagurata direttiva era il papa di allora in persona. Vale a dire, quel Wojtyla che più si ha la coda di paglia e più si vuole sia fatto “santo subito”, in modo da sottrarlo il più possibile alle critiche per i suoi non pochi errori.
Da notare che per quell’ordine scritto diramato a tutti i vescovi assieme all’allora suo vice, cardinale Tarcisio Bertone (oggi ancor più potente perché scelto dal papa tedesco come nuovo Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri del Vaticano), Ratzinger nel 2005 è stato incriminato negli Stati Uniti per cospirazione contro la giustizia in un processo contro preti pedofili in quel di Houston, nel Texas. Per l’esattezza, presso la Corte distrettuale di Harris County figurano imputati il responsabile della diocesi di Galveston Houston, arcivescovo Joseph Fiorenza, i sacerdoti pedofili Juan Carlos Patino Arango e William Pickand, infine anche l’attuale pontefice. Questi è accusato di avere coscientemente coperto, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori. Da notare che l’omertà e la complicità di fatto garantita dalla circolare Ratzinger-Bertone ha danneggiato non solo la giustizia di quel processo, ma anche dei molti altri che hanno scosso il mondo intero scoperchiando la pentola verminosa dei religiosi pedofili negli Stati Uniti (dove la Chiesa ha dovuto pagare centinaia di milioni di dollari in una marea di risarcimenti) e in altre parti del mondo. Un porporato che si è visto denunciare dalle vittime un folto gruppo di preti, anziché punire i colpevoli li ha protetti facendoli addirittura espatriare nelle Filippine, in modo da sottrarli per sempre alla giustizia.
Sono emersi casi imbarazzanti anche in Austria e Polonia, con l’aggravante che si trattava delle massime cariche ecclesiastiche, tra le quali l’arcivescovo di Cracovia pedofilo Julius Paetz, la cui pedofilia era nota fin da quando lavorava in Vaticano nell’anticamera del papa suo connazionale, Wojtyla, e proprio negli anni in cui è “misteriosamente” scomparsa la ragazzina cittadina vaticana Emanuela Orlandi. Ma a scorrere le cronache dei giornali locali si scopre che anche in Italia le condanne di religiosi per pedofilia abbondano, solo che - pur essendo gli stupratori scoperti solo la punta dell’iceberg - vengono tenute accuratamente nascoste. E perché vengano nascoste lo si capisce finalmente bene, e in modo dimostrato, leggendo il testo della circolare emanata dall’ex Sant’Ufficio.
A muovere l’accusa contro l’attuale pontefice, documenti vaticani alla mano, è l’agguerritissimo avvocato Daniel Shea, difensore di tre vittime della pedofilia dei religiosi di Galveston Houston. E Ratzinger sarebbe stato trascinato in tribunale, forse in manette data la gravità del reato, se non fosse nel frattempo diventato papa. Nel settembre 2005 infatti il ministero della Giustizia, su indicazione di Bush e Condolezza Rice, ha bloccato il processo contro Ratzinger accogliendo la richiesta dell’allora segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano, di riconoscere anche al papa, in quanto capo dello Stato pontificio, il diritto all’immunità riconosciuto non solo dagli Stati Uniti per tutti i capi di Stato. A questo punto è doveroso e niente affatto scandalistico porsi una domanda, decisamente scomoda: quanto ha pesato nella scelta di eleggere papa proprio Ratzinger la necessità di sottrarlo alla giustizia americana e di difenderlo per avere in definitiva eseguito la volontà del pontefice precedente? C’è anche un altro particolare: di solito non si riesce a portare in tribunale anche i superiori dei preti stupratori perché in un modo o nell’altro evitano di ricevere l’atto di accusa, specie se risiedono sia pure solo ufficialmente in Vaticano. Ratzinger invece l’atto di citazione ha accettato di riceverlo: si può escludere lo abbia fatto per obbligare i suoi colleghi cardinali ad eleggerlo papa quando Wojtyla - sempre più malato - fosse venuto a mancare?
Come che sia, Shea però non demorde. Due anni fa è venuto a Roma per protestare in piazza S. Pietro assieme ai radicali in occasione della Giornata mondiale contro la pedofilia. E oggi si dice pronto a ricorrere fino alla Suprema Corte di Giustizia degli Stati Uniti per evitare che i firmatari della circolare vaticana che protegge i sacerdoti pedofili la facciano del tutto franca. Intanto dobbiamo constatare con sbigottimento che i tre nomi più impegnati nella lotta contro la laicità dello Stato italiano e del suo parlamento, vale a dire Ratzinger, Ruini e Bertone, sono stati colti con le mani nel sacco della sottrazione alla magistratura dei preti pedofili e strupratori di minori.
Ecco il testo integrale tradotto dal latino dell’ordine impartito per iscritto da Ratzinger e Bertone:
«LETTERA inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica e agli altri ordinari e prelati interessati, circa I DELITTI PIU’ GRAVI riservati alla medesima Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001
Per l’applicazione della legge ecclesiastica, che all’art. 52 della Costituzione apostolica sulla curia romana dice: “[La Congregazione per la dottrina della fede] giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti, che vengano a essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio”, era necessario prima di tutto definire il modo di procedere circa i delitti contro la fede: questo è stato fatto con le norme che vanno sotto il titolo di Regolamento per l’esame delle dottrine, ratificate e confermate dal sommo pontefice Giovanni Paolo II, con gli articoli 28-29 approvati insieme in forma specifica.
Quasi nel medesimo tempo la Congregazione per la dottrina della fede con una Commissione costituita a tale scopo si applicava a un diligente studio dei canoni sui delitti, sia del Codice di diritto canonico sia del Codice dei canoni delle Chiese orientali, per determinare “i delitti più gravi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti”, per perfezionare anche le norme processuali speciali nel procedere “a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche”, poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore, edita dalla Suprema sacra Congregazione del Sant’Offizio il 16 marzo 1962, doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici.
Dopo un attento esame dei pareri e svolte le opportune consultazioni, il lavoro della Commissione è finalmente giunto al termine; i padri della Congregazione per la dottrina della fede l’hanno esaminato più a fondo, sottoponendo al sommo pontefice le conclusioni circa la determinazione dei delitti più gravi e circa il modo di procedere nel dichiarare o nell’infliggere le sanzioni, ferma restando in ciò la competenza esclusiva della medesima Congregazione come Tribunale apostolico. Tutte queste cose sono state dal sommo pontefice approvate, confermate e promulgate con la lettera apostolica data in forma di motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela.
I delitti più gravi sia nella celebrazione dei sacramenti sia contro la morale, riservati alla Congregazione per la dottrina della fede, sono:
I delitti contro la santità dell’augustissimo sacramento e sacrificio dell’eucaristia, cioè:
1° l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la profanazione delle specie consacrate:
2° l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la simulazione della medesima;
3° la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale;
4° la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica;
Delitti contro la santità del sacramento della penitenza, cioè:
1° l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo;
2° la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso;
3° la violazione diretta del sigillo sacramentale;
Il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età.
Al Tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede sono riservati soltanto questi delitti, che sono sopra elencati con la propria definizione.
Ogni volta che l’ordinario o il prelato avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolte un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale, a meno che per le particolari circostanze non avocasse a sé la causa, comanda all’ordinario o al prelato, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale. Contro la sentenza di primo grado, sia da parte del reo o del suo patrono sia da parte del promotore di giustizia, resta validamente e unicamente soltanto il diritto di appello al supremo Tribunale della medesima Congregazione.
Si deve notare che l’azione criminale circa i delitti riservati alla Congregazione per la dottrina della fede si estingue per prescrizione in dieci anni. La prescrizione decorre a norma del diritto universale e comune: ma in un delitto con un minore commesso da un chierico comincia a decorrere dal giorno in cui il minore ha compiuto il 18° anno di età.
Nei tribunali costituiti presso gli ordinari o i prelati possono ricoprire validamente per tali cause l’ufficio di giudice, di promotore di giustizia, di notaio e di patrono soltanto dei sacerdoti. Quando l’istanza nel tribunale in qualunque modo è conclusa, tutti gli atti della causa siano trasmessi d’ufficio quanto prima alla Congregazione per la dottrina della fede.
Tutti i tribunali della Chiesa latina e delle Chiese orientali cattoliche sono tenuti a osservare i canoni sui delitti e le pene come pure sul processo penale rispettivamente dell’uno e dell’altro Codice, assieme alle norme speciali che saranno date caso per caso dalla Congregazione per la dottrina della fede e da applicare in tutto.
Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio.
Con la presente lettera, inviata per mandato del sommo pontefice a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, ai superiori generali degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio e delle società di vita apostolica clericali di diritto pontificio e agli altri ordinari e prelati interessati, si auspica che non solo siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da parte degli ordinari e dei prelati prelci sia una sollecita cura pastorale.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001.
Joseph card. Ratzinger, prefetto.
Tarcisio Bertone, SDB, arc. em. di Vercelli, segretario»
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Come avrete notato, lo scippo della pedofilia alla magistratura civile e penale di tutti gli Stati dove viene consumata è nascosto tra molte parole che parlano di tutt’altro. E il ruolo “giudiziario”, cioè di fatto omertoso, della Congregazione ex Sant’Ufficio è comunque confermato in pieno dalla vicenda fiorentina. A difendere i fedeli violati sono scesi in campo anche i locali preti ordinari e a causa delle loro insistenze il cardinale Antonelli il 17 gennaio ha scritto alle vittime di Cantini che al termine di un “processo penale amministrativo” tutto interno alla curia e sentita per l’appunto la Congregazione per la dottrina della fede, l’ex parroco “non potrà né confessare, né celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della Madonna”. Tutto qui! Di denuncia alla magistratura, neppure l’ombra, e del resto il “segreto pontificio” non lascia scampo. Per uno che per anni e anni se l’è fatta da padrone anche con il sesso di ragazzine di soli 10 anni - e di 17 le più “vecchie” - senza neppure scomodarsi con un viaggio nella Thailandia paradiso dei pedofili, si tratta di una pena piuttosto leggerina.... Da far felice qualunque pedofilo incallito! Quanto alle vittime, Antonelli ha anticipato l’ineffabile Ruini: visto che “il male una volta compiuto non può essere annullato”, il cardinale invita le pecorelle struprate a “rielaborare in una prospettiva di fede la triste vicenda in cui siete stati coinvolti”, e a invocare da Dio “la guarigione della memoria”.
Ma a guarire, anche dai troppi condizionamenti opportunistici della memoria, deve essere semmai il Vaticano. E infatti i fedeli fiorentini, che hanno letto la missiva del cardinale con “stupore e dolore”, hanno deciso di non fermarsi. Finora non hanno fatto nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, “nulla è più escluso”. I preti schierati dalla loro parte chiedono al papa - nella lettera inviata tramite la Segreteria di Stato oggi retta proprio da Bertone! - “un processo penale giudiziario”, che convochi testimoni e protagonisti, e applichi “tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico”. Chiedono inoltre che Cantini, colpevole di avere rovinato non poche vite, sia “privato dello stato clericale” anche “a tutela delle persone che continuano a seguirlo”.
Però, come avrete notato, neppure i buoni preti fiorentini si sognano di fare intervenire la magistratura dello Stato italiano. I panni sporchi si lavano in famiglia... Che è il modo migliore di continuare a non lavarli. Come per la scomparsa di Emanuela Orlandi. 08.04.2007.
Pino Nicotri
Nella foto, Pino Nicotri giornalista investigativo del settimanale “L’Espresso” e autore di importanti libri inchiesta tra i quali “Mistero Vaticano - La scomparsa di Emanuela Orlandi” Kaos Edizioni.
Fonte e commenti:
* IL DIALOGO, Martedì, 10 aprile 2007
Giovedì Santo. E quella cura a preparare la «sala»
La diversa convivialità
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 05.04.2007)
La convivialità non è un fatto di massa. Devi fermare il tempo - il flusso, lo scorrimento e il tumulto - per aprire lo spazio della convivialità. Per la giusta prossimità, hai bisogno della giusta distanza. Di un certo raccoglimento, sia pure nel mezzo della confusione. Le distanze e l’accoglienza della tavola, insomma. Non è solo il fatto del prendere il cibo insieme, cucinarlo, offrirlo, dividerlo. Il fatto decisivo, è il simbolo originario e indistruttibile della prossimità affettiva e colloquiale dell’umano. Prossimità lietamente condivisa di tutte le cose intime e indifese dell’uomo, quelle che prendono l’anima per la gola. L’"abboffata" è il contrario della convivialità.
La convivialità è il luogo - materiale e spirituale - che viene spontaneamente cercato nel momento della vigilia e del ritorno dalle lunghe distanze e separazioni. Il più adatto per stemperarne le tumultuose emozioni, che rendono sproporzionatamente goffi e impacciati tutti gli altri tentativi di gesti o discorsi all’altezza dell’evento. È il tempo in cui facciamo rientrare le parti umane delle relazioni con i nostri simili, dopo che le abbiamo lasciate fuori dalla porta dei nostri ruoli, professioni, prestazioni, contratti, accordi, mentre adempivamo i protocolli doverosamente inodori, incolori e insapori, delle nostre funzioni. (Il fatto è che ormai siamo quasi sempre funzionari di qualcosa). È il luogo migliore per la conciliazione, quando il gelo dell’estraneità accumulata si scioglie dentro. E ci sembra quasi impossibile avere in comune di nuovo il profumo insostituibile del pane e il calore sincero del vino.
È il momento nel quale, più facilmente che in ogni altro, scopriamo la forza e la bellezza della parola, quando non è più semplicemente uno strumento artificioso e puntuto di comunicazione con l’altro. Il colloquio con i propri simili, che condivide cose buone della terra per incoraggiare l’anima ad uscire dal guscio, è l’essenza del rapporto umano. L’icona migliore della destinazi one sperata.
Leggere della minuziosa cura con la quale il Signore fa preparare il luogo dell’Ultima Cena, ci deve colpire. Tutti sanno che cosa accade poi, lì dentro. E come accade. Il grado di intimità che lì si accende, non si era mai prodotto prima, fuori di lì. E non si riprodurrà, se non quando - è il Signore a dirlo - Egli ritornerà con un vino nuovo. È nel segno della convivialità che il Risorto offrirà la certezza di essere stati, nel frattempo, perdonati, riconciliati, accuditi per tutto il tempo che resta.
L’icona della vita destinata, nella parola evangelica, risplende tipicamente nella forma del convito. Una lezione, per la mediocre qualità del nostro modo predicatorio di anticipare la vita eterna. Un giudizio, per la volgarità degli usi strumentali della convivialità, nella società del godimento e dello spettacolo. Una provocazione, per chi crede che la convivenza degli umani debba essere urgentemente riscattata e salvata dall’oscuramento della convivialità diffusa. Pagando il prezzo, naturalmente, che l’impegno delle sue pratiche più autentiche ci chiede. E cominciando dai luoghi in cui le parole e il parlarsi decidono il destino delll’anima. (Ne posso nominare uno? La scuola, l’ultimo legame colloquiale - non di massa! - fra le generazioni. Che abbiamo abbandonato a se stesso, codardi che non siamo altro). Ma come, tutto questo? La liturgia di oggi ce lo mostra, come.
Il monito durante la cerimonia della lavanda dei piedi in San Giovanni che ricorda l’ultima cena di Gesù. Ratzinger lo aveva già detto nel 2005 negli ultimi giorni del pontificato di Wojtyla
Il Papa: "Vincere la sporcizia della propria vita
è possibile solo amando e servendo" *
ROMA - La prima cosa da imparare è l’amore, per vincere la "sporcizia della propria vita" ed imitare veramente Gesù. E questo vale soprattutto per i sacerdoti. Per la vigilia del venerdì della passione di Cristo, Benedetto XVI concentra il proprio messaggio sulla "sporcizia" nella Chiesa che può essere superata solo amando e servendo. Ratzinger lo dice e lo ripete, ripetendo il gesto di Gesù nell’ultima cena, mentre lava i piedi a dieci uomini, in San Giovanni in Laterano per la messa in Coena Domini nella quale la Chiesa ricorda l’ultima cena di Gesù con i discepoli, a Gerusalemme.
La "sporcizia" era stata al centro anche della riflessione del mattino in San Pietro quando Ratzinger ha ammonito che senza amore non si entra nel regno dei cieli e la veste bianca richiesta da Dio è la veste dell’amore verso Dio stesso e verso i fratelli. Gli abiti del sacerdote, poi, "sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa", del dover "parlare e agire in persona Christi". Ma proprio celebrando, osserva il Papa, "ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da lui, quanta sporcizia esiste nella nostra vita".
Davanti al Papa, sia nella messa del mattino che in quella del pomeriggio, è sfilato quasi tutto il collegio cardinalizio e una miriade di vescovi e sacerdoti. E’ a loro, quindi, che ha voluto ricordare il comandamento dell’amore, i rischi della caduta, della sporcizia, appunto. Un concetto che, pur molto forte e scomodo, Ratzinger deve sentire molto. Già nel 2005, durante le meditazioni della via crucis alla fine del pontificato di Wojtyla, disse: "Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui. Quanta superbia, quanta autosufficienza".
Un’autocritica coraggiosa che in quelle settimane di due anni fa ha ripetuto anche quando condannò la "dittatura del relativismo" nella missa pro eligendo pontifice in apertura di conclave. Stigmatizzò le "correnti ideologiche" che hanno agitato "la piccola barca dei cristiani": "marxismo, liberalismo, libertinismo, collettivismo, individualismo radicale, vago misticismo religioso, agnosticismo, sincretismo...". Non faceva sconti il cardinale bavarese. E forse proprio questa franchezza spinse molti, il giorno successivo, ad eleggerlo Papa.
La condanna della sporcizia nella Chiesa è una lettura spirituale, le cui ricadute sul modo di governarla di papa Ratznger si potranno valutare in tempi più lunghi degli attuali due anni di regno. Comunque il tema è presente costantemente alla sua riflessione, come dimostra l’omelia di questa mattina.
Per far rivivere anche drammaticamente l’amore di Gesù per i discepoli e invitare allo spirito di servizio, Benedetto XVI, nella cattedrale di Roma gremita di fedeli, ecclesiastici, membri del corpo diplomatico stasera ha dunque ripetuto la lavanda dei piedi a 12 uomini in rappresentanza dei gruppi laici della diocesi di Roma.
* la Repubblica, 5 aprile 2007
Preti pedofili
Crimini sessuali e Vaticano (documentario italiano)
Video che smaschera le gerarchie ecclesiastiche per avere coperto i preti pedofili ... *
Un video della BBC (con sottotitoli in italiano) che ognuno dovrebbe vedere per capire come le gerarchie ecclestiastiche della chiesa cattolica romana coprono i preti pedofili.
Testimonianze dirette di pesone violentate da preti. Le prove che Ratzinger, quando era cardinale, sapeva dei crimini commessi da molti preti sui bambini in America ma comandò che i fatti fossero tenuti segreti. Un video veramente scioccante, che deve essere fatto conoscere anche ai Cattolici Romani.
http://video.google.it/videoplay?docid=3237027119714361315
*IL DIALOGO, Lunedì, 14 maggio 2007