I video di YouTube: giovani, scuola, valori
Addio ai padri
di Ernesto Galli della Loggia *
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa:
Alunno: Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo? Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via...
Alunno: Ma lei quanto guadagna? Professoressa (come sopra): Non molto di certo...
Alunno: Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana? -Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute?
E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa? A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo ». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro. Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni.
Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?).
Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità-distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola-che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico- scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile.
Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
* Corriere della sera, 02 aprile 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«La giovinezza non è più una condizione anagrafica, è una categoria dello spirito: i figli diminuiscono, ma i vecchietti che vogliono mantenersi giovani crescono. Essere giovani è costoso (fin da bambini ormai): però mantenersi giovani lo è ancora di più. È scoccata l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia.
Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica dell’uso di parole. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Un piccolo passo per un adolescente, ma, come si dice, un grande balzo per l’umanità.
Sulla soglia di questa regressione, per «rimanere giovani» a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi).
L’ultimo atto (prima dell’abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva) è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni «si rimane giovani» e ci si sente «adolescenti onnipotenti», anche «facendo» un figlio; e persino facendoselo fare).
Quando si dice non farsi mancare niente, pur di realizzarsi pienamente . L’estrapolazione della giovinezza dalla transitorietà della sequenza della storia individua le si è saldata con la sua sovrapposizione all’idea lità dell’umano emancipato, liberato, felice e signore di sé. [...] Nell’adolescenza prolungata, la deriva verso il narcisismo sistemico si cronicizza socialmente.» (Pierangelo SEQUERI, Contro gli idoli del postmoderno, Lindau, Torino 2011)
I risultati di una ricerca mondiale presentata al Meeting internazionale di Bari
Ai primi posti il Turkmenistan e il Laos, ma anche nazioni sviluppate come Canada e Svezia
L’ottimismo? Non abita più qui
i giovani italiani ultimi in classifica
La scarsa fiducia nel futuro è quasi sempre legata al problema del lavoro
di GIULIA CERINO *
La platea dei delegati al Meeting internazionale dei giovani in corso a Bari BARI - Ultimi in classifica, insieme al Portogallo, Singapore, India e Ghana: l’ottimismo globale dei giovani italiani è sotto terra. A dirlo è un sondaggio condotto da Gallup Europe e presentato dal suo direttore, Robert Manchin, in occasione del Meeting internazionale dei giovani a Bari. I numeri parlano chiaro: l’indice di ottimismo dei giovani italiani è ben al di sotto della media mondiale, lontano anni luce dalla top ten della speranza, e li relega al 118esimo posto della classifica con un indice di ottimismo del 44 per cento.
Forse perché chi è più indietro non può che sperare in meglio, nella top ten ci sono paesi come il Turkmenistan (primo con un indice di ottimismo dell’87 per cento), il Laos, l’Uzbekistan e le Filippine. "Certo - dice Ila, 23 anni, delegato al Meeting - nei nostri paesi, peggio di così non si può stare". Eppure, il livello di sviluppo economico non è determinante. Rispetto ai coetanei italiani, ad esempio, ben altra fiducia nel futuro hanno gli svedesi, i canadesi, gli australiani e gli olandesi, tutti nelle prime dieci posizioni della classifica.
In bilico invece è la Francia che, con il suo 71esimo posto, si attesta sul valore medio mondiale di ottimismo (indice a quota 54%). "E chi ci crede che troveremo lavoro domani. Io non credo più a niente, mi sento inerme, incapace di realizzarmi". Nicola, che vive a Bari e al Meeting è presente come partecipante, sembra esprimere perfettamente la condizione rilevata dalla ricerca Gallup Europe. Le ragioni dietro il pessimismo delle giovani generazioni italiane si nascondono dietro due parole chiave: disoccupazione e precariato. Secondo l’inchiesta, infatti, la questione del lavoro rimane in testa a tutte le priorità indicate dagli interpellati.
"L’immigrazione, il crimine e le tasse - dice Lorenzo, delegato al Meeting barese - contano di meno quando si tratta di mangiare e poter vivere sereni, andarsene di casa e sentirsi soddisfatti di sé stessi e realizzati. Oggi si anche tenuto un workshop che si chiama ’A decent job is a right’. Non a caso era pieno d’italiani...". In realtà, neppure il problema della disoccupazione basta a spiegare il prevalere del pessimismo tra i giovani italiani: "Quella è un’emergenza che tocca tutti - dice Virginie, ventiquattro anni, francese di nascita - . Io ho vissuto in Francia, in Belgio e Inghilterra e loro sono messi anche peggio degli italiani. La questione non è solo la precarietà. Si tratta di un modus vivendi. Di un pessimismo generale e fisiologico intrinseco alla nostra generazione di insofferenti".
Dall’inchiesta Gallup emerge del resto che la ridotta spearanza dei giovani italiani non è isolata. Nel mondo, tra le nuove generazioni il 49% pensa infatti che nel futuro la vita sarà peggiore di come è adesso. In Europa, inoltre, gli ottimisti sono in netta minoranza: il 38 per cento. "Non andrà mai bene niente - dice Luca, 24 anni, anche lui al Meeting come spettatore - : siamo in Europa ma ci posizioniamo nelle classifiche con l’Africa. Prima eravamo quasi in Africa e volevamo l’Europa. Non ne usciremo mai".
Non è un caso, forse, che tra i ragazzi italiani la ridotta fiducia nel futuro vada di pari passo con la scarsa considerazione per gli effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente. I giovani italiani se ne curano poco, anzi, quasi per nulla. Dai dati riportati dall’inchiesta emerge infatti che sotto i 30 anni di età, le conoscenze in materia di climate change sono bassissime. Tanto basse da fare del Belpaese l’unica nazione europea con la0 Grecia a rientrare nella "fascia della bassa consapevolezza", la stessa di cui fanno parte tutti i paesi dell’Africa e buona parte dell’Asia. In altre parole, su una scala da 10 a 60 in cui 60 è la massima consapevolezza di ciò che accade e accadrà nel mondo a causa del climate change, i giovani italiani si fermano a quota 20/30. L’unica certezza condivisa con gli altri è che "la causa dei cambiamenti climatici è da ricercare nell’azione irresponsabile dell’uomo".
© la Repubblica, 20 gennaio 2010
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
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Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
Lo sguardo di De Certeau sul ’68 parigino
Un’antologia raccoglie gli scritti del gesuita, che nel maggio francese colse, con lungimiranza e un po’ di ironia, i primi sintomi del post-moderno
di Filippo Rizzi (Avvenire, 30.06.2007)
Il maggio del 1968 a Parigi? Rappresentò la «presa della parola» da parte degli studenti della Sorbona ed ebbe lo stesso valore simbolico della «presa della Bastiglia nel 1789». Fu l’immagine sferzante e allo stesso tempo suggestiva che utilizzò Michel de Certeau (1925-1986) in un saggio per la rivista Etudes per simboleggiare cosa significarono per la Francia laica e repubblicana e per il mondo intero i moti universitari del 1968. E oggi un libro - La presa della parola e altri scritti politici - a più di vent’anni dalla morte del noto intellettuale gesuita francese, storico, antropologo e psicanalista, ha voluto ripubblicare in una specie di collectanea tutti gli scritti profetici e inediti di quel tempo. Ma non solo. In queste pagine vengono riproposte le sferzanti analisi di De Certeau sulle dittature e le condizioni dei poveri e degli indios in America latina o sul ruolo dei media e della comunicazione nelle società occidentali. Merito di aver dato alle stampe questo piccolo gioiello letterario è dell’allieva di Michel de Certeau («il maestro che non voleva discepoli»), Luce Giard. «Cosa più preziosa di queste pagine - scrive la Giard nella prefazione - è l’assistere al lavoro di una intelligenza generosa e forte, capace di rispettare la differenza altrui, abitata da una segreta tenerezza per la folla anonima».
E infatti forse il merito indiscusso di questo volume sta nel permettere al lettore di conoscere un Michel de Certeau che non veste più i panni dello storico della spiritualità del Seicento ma quelli del sociologo che indaga sulle ferite e dinamiche del post-moderno. Certamente le pagine più acute sono quelle dedicate al maggio parigino, alla sua sferzante critica verso il sistema e incredibilmente anche verso uno dei fautori di quella protesta, il filosofo Jean-Paul Sartre, definito «un grande uomo, che invecchia così male».
Nei suoi saggi si sente l’eco implicito di ciò che avviene contemporaneamente a Praga e l’influsso di uno dei padri della sociologia moderna Alain Touraine. Nelle pagine successive De Certeau affronta le varie sfide della Francia che verrà, definita dallo stesso autore di origini savoiarde, come «prospera e insoddisfatta»: dal mito «dell’urbanizzazione del territorio», all’ingresso degli immigrati (algerini, vietnamiti) con il connesso problema delle identità nel tessuto vivo della società, al ruolo dei media (tv, radio, giornali) nella vita quotidiana dei francesi di ogni classe sociale ma anche all’affievolirsi, causa la secolarizzazione, del ruolo pubblico della Chiesa cattolica e del matrimonio ma anche delle autorità (da De Gaulle in giù).
Il merito indubbio di questo libro è quello di proporci un De Certeau meno conosciuto, meno indagatore della vita dei mistici del Seicento e più osservatore del suo tempo, di quella «folla anonima» e di quel «Mai senza l’Altro» che anche, in queste pagine, rimangono il filo conduttore e la traccia portante della sua ricerca di intellettuale e di gesuita inquieto.
Michel de Certeau
La presa della parola
e altri scritti politici
a cura di Luce Giard
Meltemi. Pagine 239. Euro 19,50
DIRITTO
Se a Roma il «pater familias» era sovrano assoluto e i cristiani introdussero l’idea dei «doveri» del genitore, dal Medioevo in poi l’autorità sui figli è entrata in crisi. Un saggio di Marco Cavina spiega perché
Paternità, un declino durato mille anni
di Giulia Galeotti (Avvenire, 02.06.2007)
Che l’autorità paterna sia un concetto giuridico ormai superato è noto. Meno note sono però le profonde variazioni che essa ha vissuto nei secoli, variazioni oggetto del recente volume di Marco Cavina, Il padre spodestato. Se l’autorità paterna era assoluta per i potenti padri biblici e romani, una novità l’ha proposta il cristianesimo, introducendo due principi rivoluzionari: la rottura dei vincoli familiari in nome di valori più alti e, soprattutto, l’affiancare al concetto di potere quello di dovere del padre. Altri snodi cruciali saranno poi due momenti piuttosto vicini tra loro, la Rivoluzione francese e gli anni Sessanta del Novecento: dopo una longevità millenaria, infatti, in soli due secoli si è realizzato il definitivo affossamento dell’autorità paterna. Il volume, ricco d’informazioni (specie fino a tutta l’età moderna), mostra che il quadro è più complesso di quanto ci si aspetterebbe. Una riprova sono gli oltre venti punti in cui i trattatisti del tardo Medioevo individuavano le articolazioni dell’autorità paterna. Molti i diritti, come la vendita dei figli per necessità di fame, il diritto del padre di uccidere la figlia colta in adulterio, l’obbligo del figlio di seguire la religione paterna (salvo che per i figli di ebrei), il potere di far incarcerare o castigare dal giudice il figlio. Non mancavano però i doveri, come la perdita della patria potestà per induzione della figlia alla prostituzione o l’obbligo di riscattare il figlio prigioniero. Al godimento di vantaggi e privilegi pubblici per meriti paterni, corrispondeva specularmente l’imposizione di svantaggi per peccati o delitti del medesimo.
Secondo Cavina, docente di Storia del diritto medievale e moderno, il progressivo annientamento del potere paterno ha dei precisi responsabili: l’individualismo borghese, l’industrializzazione, lo statalismo, la trasformazione del mercato del lavoro e l’emancipazione femminile. Come per il giusnaturalismo lo Stato non è più un’autorità per diritto divino, ma per libero contratto tra gli individui, così la famiglia è fondata non più su un padre investito di potere naturale, ma su una pattuizione. Si parlava dunque di legittimazione gerarchica sulla base dell’atto di generazione; di legittimazione contrattualista in nome del tacito consenso dei figli; soprattutto, però, era seguita la spiegazione funzionale-utilitaria: il potere del padre sul figlio era dovuto all’incapacità di quest’ultimo di gestirsi autonomamente (da cui il venir meno della perpetuità della patria potestà del modello romano). La motivazione per sottrarre all’autorità paterna buona parte delle sue articolazioni sarebbe stata l’interesse del figlio: è in nome di costui che lo Stato entra nella famiglia. «Un puerocentrismo promosso dallo Stato divenne la parola d’ordine delle democrazie liberali», scrive Cavina. Tra l’altro, ciò è l’ennesima riprova dell’infondatezza dello stereotipo che vuole i totalitarismi particolarmente invasivi nelle relazioni domestiche, mentre si tratta di un’"invasione" condivisa in toto dalle politiche democratiche.
Cavina coglie due "capitolazioni" emblematiche per l’autorità paterna in età contemporanea. Il primo durissimo colpo le viene inferto nell’Ottocento quando istituti come la diseredazione o la libertà testamentaria vengono fortemente ridotti: riformare il sistema successorio in senso egualitario significa, infatti, sottrarre al padre qualsiasi possibilità di investire patrimonialmente il proprio successore. L’altro attacco, molto più recente, è quello al cognome paterno, simbolo della supremazia del padre e strumento per garantire l’unità domestica. Via via che nei vari Paesi si è diffusa la possibilità di scegliere il cognome per i figli, infatti, «il cuore stesso del patrimonio simbolico trasmesso dal padre è stato annientato, o quasi». Con quali conseguenze, è da vedere. Questo però il diritto non lo dice, potendo solo registrare i cambiamenti in atto.
Marco Cavina
Il padre spodestato
L’autorità paterna dall’antichità a oggi
Laterza. Pagine 360. Euro 20,00
Il compito della scuola, la trasmissione del sapere e l’educazione, ma soprattutto i guasti provocati dalla contestazione di quasi 40 anni fa: nel testo inedito che qui pubblichiamo Aldo Agazzi, lo studioso scomparso nel 2000, sostiene che «il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, alla educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile». Un attacco alla bellezza e alla cultura, ai cardini della trasmissione del sapere e della formazione .«Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo Ma al movimento non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente»
’68. Fantasia al potere, somari in cattedra
Ricordo un sacerdote rosminiano, professore di psicologia, la bontà incarnata: venne contestato violentemente, tanto che abbandonò l’aula e lo ritrovarono in lacrime nel corridoio. Dopo l’episodio, radunai gli studenti e, tra le tante osservazioni, dissi loro: ricordatevi bene, figlioli, che prima di farmi uscire piangente dall’aula, ce ne vorrà... Difatti, non è mai avvenuto.
di Aldo Agazzi (Avvenire, 05.05.2007)
Il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, all’educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile. Altro che Apocalisse! I movimenti del Sessantotto non volevano più la cultura, contestavano i docenti, ingaggiarono la grande lotta contro il latino, che era poi la lotta contro la cultura classica e la lingua della Chiesa cattolica. Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo... Ma al movimento ciò non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente.
Università Cattolica a parte, dove si riusciva ancora a fare lezione, nel clima del ’68 non si studiava più. I docenti erano in crisi. Ricordo i miei colleghi, tra i quali il professore di storia antica, Albino Garzetti. Era bravissimo, ma non resistette alla contestazione e diede le dimissioni. E ricordo un sacerdote rosminiano, professore di psicologia, la bontà incarnata: venne contestato violentemente, tanto che abbandonò l’aula e lo ritrovarono in lacrime nel corridoio. Dopo l’episodio, radunai gli studenti e, tra le tante osservazioni, dissi loro: ricordatevi bene, figlioli, che prima di farmi uscire piangente dall’aula, ce ne vorrà... Difatti, non è mai avvenuto.
Il ’68 ha segnato la catastrofe, il baratro della cultura, che è stata compromessa per sempre. Nel ’68 fu consumato il divorzio con il sapere. Penso solo ad uno dei tanti fatti, avvenuto alla Statale di Milano, dove il docente di letteratura italiana fu contestato perché continuava, o avrebbe voluto continuare, a spiegare Dante... Per non parlare delle improvvisazioni, delle autogestioni, e dei voti politici, per cui si dava anche il 30 a chi non sapeva assolutamente niente. Non ho mai dato né voti politici e né voti gratuiti. E non davo mai meno di 28, n el senso che volevo dai miei studenti la dimostrazione che essi effettivamente avevano studiato e si erano preparati. E dicevo loro: «Credo sia importante, per la vostra vita e per la vostra scelta universitaria, che voi conosciate la materia di studio. Dovete essere preparati non per fare un piacere a me, ma perché ciò riguarda voi stessi; non venitemi a chiedere di darvi il 18 politico. Non mi interessa il voto che vi scrivo sul libretto, mi interessa che tu, studente, sappia la pedagogia perché andrai ad insegnare a bambini, ragazzi e giovani, perché lo studio avrà importanza per il tuo futuro, per la tua personalità...». In questa logica, ho sempre dato pochissimi voti di medio valore; per me il voto normale era il 30, che spesso diventava 30 e lode.
Vedo che i tentativi di condizionare lo studio continuano. Le cosiddette autogestioni studentesche ogni tanto ritornano. Vedo che anche i ministri, di fronte a questi fenomeni, sulle prime mostrano i muscoli, poi si adeguano. Mi ricordo ancora le parole dell’ex ministro Berlinguer, che conosco da tempo, e con il quale ho avuto anche degli accesi dibattiti: appena insediato nella carica disse che ci voleva una scuola seria, dove si studiava; poi, quando gli studenti hanno protestato, queste belle intenzioni non sono state seguite dai fatti. Anche Berlinguer si è adeguato alle proteste studentesche, anche perché è più comodo.
Purtroppo gli obiettivi del Sessantotto hanno centrato il bersaglio. Certe contestazioni sono state ampiamente condivise, nel senso che non vogliamo più gli esami, vogliamo il voto politico - vale a dire, un voto dato senza l’accertamento della propria cultura -, non vogliamo più i concorsi, non vogliamo più la selezione... Ricordo che a quell’epoca ebbi modo di rilevare il rischio in agguato per il nostro Paese, quello relativo a una Italia priva di educazione politica. Ed è poi quello che è successo, in tempi rapidissimi. Le università e le scuole hanno aperto le porte dell’insegnamento a persone laureate e diplomate con il voto politico, assunte senza concorsi, senza preparazione. Abbiamo visto l’ascesa di quelli che già allora venivano definiti «i somari in cattedra». E purtroppo i somarelli da essi formati, emetteranno dei ragli d’asino che non giungeranno in cielo... Sì, la chiamavano la «fantasia al potere», ma la fantasia è la creatività del genio; e dove non c’è il genio non ci può essere la fantasia. Sarebbe come uno spumante evaporato, senza bollicine.
L’«onnipotenza educativa» è uno dei concetti più tragici, oltre che assurdi, cari alla pedagogia marxista, o meglio alla pedagogia stalinista, che ha avuto pure un grande scrittore di questioni educative, Anton Semenovic Makarenko, autore di un corposo poema pedagogico, tradotto in italiano da Editori Riuniti, di cui avevo letto già una edizione francese.
Questo testo pedagogico, a leggerlo, ci appare esteticamente brillante, bello, sembra che descriva il paradiso in terra. Invece è la traduzione del peggiore stalinismo in campo educativo. Si ha una idea di come avevano impostato i sistemi educativi e di come erano stati ridotti scuola e scolari. Dire che erano marionette, è dire niente. Erano come argilla da modellare e forgiare distruggendone la personalità. Uno dei cardini dello stalinismo educativo - se si può adoperare questa parola - è il concetto, spaventoso e terribile, di rieducazione. Coloro che, a giudizio del regime, deviavano dai sistemi e dalle leggi stalinisti, dovevano essere internati nei lager per essere rieducati, ossia venivano annientati nella propria personalità fino ad assumerne un’altra, gradita al regime... Davvero assurdo e tragico questo concetto staliniano dell’«onnipotenza dell’educazione».
Ancora oggi un pedagogista italiano, Roberto Maragliano, riprendendo le tesi di Jean Claude Adrien Helvetius - che ai tempi dell’Illuminismo scrisse un testo sull’«onnipotenza dell’educazione» - sostiene che con l’educazione si può fare, rifare, forgiare, plagiare... Il con cetto dominante di tale teoria è riassunto in una massima scritta nientemeno che da Edmondo De Amicis nella sua ultima opera, rimasta incompiuta, Lotte civili, un testo di divulgazione di idee socialiste diremmo alla Andrea Costa, alla Treves, alla Saragat, insomma idee di una socialdemocrazia di stampo umanitario, improntata alla condivisibile promozione della povera gente, alla questione operaia.
In quell’opera, il De Amicis scrive che gli uomini sono come i liquidi e perdono la forma del recipiente in cui sono versati. La stessa frase l’ho trovata anche in un romanzo, Delitto e castigo di Dostoevskij - un altro dei miei autori preferiti - quando il giudice sottopone a un estenuante interrogatorio il protagonista, Raskol’nikov, il quale resistendo alle pressioni dice appunto che gli uomini sono come i liquidi: prendono la forma dei recipienti in cui sono versati. Ed anche così è lo stalinismo, ossia forgia gli individui distruggendoli come individualità, come personalità. E tutto ciò è l’anti-personalismo.
Nella psicologia dell’infanzia e dell’età evolutiva questo è un punto cruciale. Per millenni il bambino è stato visto - giusto per adoperare un’immagine di cui mi sono tante volte servito - con le lenti di un binocolo rovesciato, che mostra tutto rimpicciolito. Ma il bambino, come hanno detto anche molti psicologi, non è un nano, ossia un adulto visto in dimensioni minori. Ma il bambino è già essere umano, è già persona a tutti gli effetti; pur essendo diverso «in essenza» rispetto all’adulto, egli ha un suo modo di essere, di pensare, di immaginare, di costruirsi l’immagine del mondo.
Sì, il bambino è il piccolo dell’uomo, non un uomo in piccolo. Per dirla con un’altra espressione, il bambino è l’uomo nella sua età infantile. Perché il «piccolo dell’uomo» è completo, ha le proprie forme di pensare, di immaginare, di avere il senso del giusto, dell’ingiusto. Al pari dell’adulto, nel bambino esistono tutte le facoltà, ma esse sono espresse in una maniera sos tanzialmente diversa.
Tutto ciò ha poi una grande importanza in applicazioni educative concrete. Non dimentichiamo che uno dei grandi disastri storici della pedagogia è stato l’adultismo, ossia credere di poter parlare al bambino negli stessi termini con i quali pensa l’adulto. Per non parlare del precocismo, ossia il voler dare delle nozioni per le quali non c’è ancora la maturità. E qui si può cadere in un facile equivoco: ritenere che la ripetizione meccanica di concetti o nozioni, significhi il raggiungimento di una maturità.
L’anticipazionismo, secondo me, è un crimine per diversi motivi. Innanzitutto si dànno delle nozioni per le quali non c’è ancora la maturazione per la comprensione; si dànno delle nozioni incomprensibili. Il bambino non è privo di memoria, di capacità di ricordare. Può arrivare a ripetere anche le formule più complesse della matematica o delle leggi della fisica. Le ripeterà senza capire. Quindi, l’esigenza della comprensione, atto dell’intelletto, viene trasformata in un esercizio di memoria. E qui entra in gioco una legge primaria della didattica dell’educazione, quella che io ho chiamato la legge dell’esercizio, che fa il paio, con una formulazione del Pfliegler contenuta in un saggio, Il giusto momento, che avevo pubblicato nella collana Meridiani dell’educazione.
Il concetto è questo: l’insegnamento va impartito al momento giusto, non prima; occorre intervenire quando il bambino, il fanciullo o l’adolescente, sono arrivati a tale momento con le proprie forze. Mi ricordo in proposito che - giocando un po’ con le parole - dicevo alle educatrici d’infanzia, alle maestre: meglio cent’anni dopo che un minuto prima. Infatti, cent’anni dopo c’è tutto il tempo per capire, ma un minuto prima si corre il rischio di trasformare le capacità dell’intelletto in mnemonismo. E si sa che le leggi della psicologia agiscono tanto se io opero bene come se mi comporto male. Se osservo la legge del giusto momento compio l’esercizio della mente, ma se cado nel mnemonismo non esercito l’intelletto, ma la memoria meccanica. Non dimentichiamoci che c’è anche la memoria consapevole: tanto più si fa dell’adultismo, tanto più si uccide e si impedisce lo sviluppo dell’intelletto. Più si esercita la memoria meccanica, più si farà il... pappagallo a qualunque età.
L’educazione è il motore della perennità e della trasmissione di ciò che le generazioni vanno via via elaborando, con l’apporto del genio e del lavoro, anche collettivo. Ebbene, tutti i risultati raggiunti e prodotti da chi ci ha preceduto nella storia andrebbero perduti se con l’educazione non fossero trasmessi alla generazione successiva, la quale è fatta di intelletti, di teste pensanti, che a loro volta prendono ciò che è già stato fatto, lo accrescono, lo migliorano, lasciandolo in eredità alla generazione successiva. Purtroppo, il rischio presente è quello di interrompere questo processo di trasmissione.
Avevamo una cultura che l’educazione trasmetteva alle nuove generazioni. Ma se si tronca una generazione - ossia, se una generazione perde la sua capacità di trasmettere i risultati da essa prodotti - si tronca la tradizione. Non c’è più il presente e non ci sarà avvenire.
Non c’è fase storica, non c’è civiltà che, nel proprio progresso, non abbia vissuto contrapposizioni e contrasti; l’educazione è al centro di tutto questo processo, ne è al di sopra, è l’anima stessa delle generazioni, è l’anima stessa del popolo... Il popolo! Ma il popolo non è un dato numerico, il popolo è una comunità storica formata da tante personalità individuali, ciascuna delle quali è se stesso, è un valore irripetibile, non c’è una persona che sia uguale ad un’altra. È in questa diversità che scorre il grande flusso del fiume delle generazioni, con i contrasti, con le sue spinte opposte, si va avanti e qualche volta si indietreggia... Nella storia c’è anche il regresso, non c’è soltanto il progresso. Dobbiamo essere realisti: non sempre la storia ha portato progresso. Abb iamo avuto e poche di assoluto regresso.
Un pedagogista contro timidezze e superficialità
Suo il meritorio contributo nell’istituzione della scuola media unica e nella riforma della scuola materna Ebbe stretti rapporti con Roncalli, Montini, La Pira, Lazzati e con gli amici bresciani dell’editrice La Scuola
di Marco Roncalli (Avvenire, 06.05.2007)
Se è vero che l’anniversario della sua nascita - il 12 settembre 1906 - non è passato inosservato, e lo dimostrano almeno i convegni negli atenei di Bergamo, Brescia, Milano..., è altrettanto vero che la sua voce torna a farsi presente - come scriveva tempo fa Cesare Scurati - «nelle questioni di fondazione teorica, di analisi epistemologica, di ridondanza applicativa, di discussione politico-sociale, di delineazione istituzionale ed organizzativa, nelle quali l’intelligenza pedagogica contemporanea continua ad essere coinvolta». La voce è quella di Aldo Agazzi. Una voce modulata in particolare - come ha ricordato il titolo del Colloquio dedicatogli poche settimane fa all’Università Cattolica - su due registri: l’amore per l’uomo e la teoresi pedagogica. E con un’impronta legata sì alla tradizione personalistica (con la persona al centro sempre difesa come cifra di ogni possibile itinerario formativo, e con una concezione della storia, della cultura, axiologicamente fondate), ma tuttavia intesa in modo dinamico, ravvivata, aperta al dialogo, all’apporto dei saperi - filosofia, storia, antropologia...- e alla mediazione delle conoscenze psicosociali. Un’impronta originale, nel segno di una pedagogia nutrita di cultura e, al contempo, mai timorosa di misurarsi con aspetti empirici, problemi scolastici concreti, con gli stessi elementi politico-sociali assorbiti nei processi educativi. Non è un caso dunque se Agazzi che si definiva uno "studioso dell’educazione" (e del quale ricordiamo almeno due opere fondamentali, il Saggio sulla natura del fatto educativo del 1950 e Problematiche attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale del 1968; mentre in queste pagine pubblichiamo la sua ultima conversazione-intervista, pubblicata da poco con il titolo di «Nessuno è cretino», Edizioni Progetto, pagine 94, euro 9, a cura di Roberto Alborghetti), raccolse nella sua lunga vita (è mancato il 10 dicembre 2000) consensi, ma pure dissensi: oltre gli intrecci tra pensiero filosofico e pedagogico, le applicazioni dell’apprendimento o l’ermeneutica dei linguaggi e delle regole.
Si è detto sin qui del pedagogista, dell’uomo interessato all’interscambio società-persona. Ma l’arte di educare ha finito per obbligare Agazzi a rivestire molti altri ruoli. Ricercatore (specie nell’ambito metodologico-didattico), docente universitario (fu direttore dell’Istituto di Pedagogia presso la Cattolica di Milano), responsabile di movimenti e di associazioni professionali (dall’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi al laboratorio permanente di Scholé), direttore delle riviste Scuola Materna e Scuola e Didattica (con le quali influì su generazioni di insegnanti), interlocutore nell’evoluzione della politica scolastica in Italia (con la giovanile condivisione della "Carta della Scuola" del ministro Giuseppe Bottai per aggiornare la riforma Gentile, poi con il suo meritorio contributo nell’istituzione della scuola media unica e nell’affermazione della riforma della scuola materna).
E che dire della sua cultura umanistica? E dei rapporti con Roncalli e Montini, La Pira e Lazzati, i collaboratori o gli amici bresciani dell’editrice La Scuola, da monsignor Angelo Zammarchi a Vittorino Chizzolini? E, soprattutto, quale il segreto di una personalità poliedrica così incisiva?
Forse possiamo rispondere con le parole di un sacerdote che lo conosceva bene (e ne aveva curato scritti come L’educazione cristiana dopo il Concilio già nel 1966): Enzo Giammancheri, mancato il 4 novembre del 2005 dopo una vita per l’educazione. Lui più volte a spiegarci che la poliedricità non costituì mai frammentazione in Agazzi, a dirci che mai il pedagogista fu a rischio di superficialità tanto rigorosa e coerente era stata la sua testimonianza «capace di comporre - aggiungeva - elaborazioni teoretiche e iniziative pratiche». «Se poi ci si chiede quali possano essere le spiegazioni di una tale poliedrica unità, di una tale sinfonia esistenziale, la risposta va cercata in quanto vi è di più intimo in un essere umano», ha scritto lo stesso Giammancheri in apertura al volume Educazione Società Scuola. La prospettiva pedagogica di Aldo Agazzi, edito da La Scuola due anni fa e curato da Scurati. E lì continua: «Se si vuole una risposta filosofica, ossia di pura ragione, allora bisogna affermare che l’unità in Agazzi è la conseguenza dei principi del personalismo da lui sempre teorizzati e difesi; se poi si va oltre la ragione, al livello dei valori più alti, allora bisogna concludere che il segreto di Agazzi è stata la sua sincera e convinta fede cristiana, da lui sempre professata, e mai data per scontata o per implicita».