[...] Occorreva che la resistenza palestinese fosse trasformata in estremismo islamico. Ciò è avvenuto non lasciando ai palestinesi altra strada che quella di Hamas. Ed è qui che il problema palestinese cessa di essere un conflitto di indipendenza di un popolo i cui territori, pur ridotti al minimo, sono occupati, e diventa un capitolo della grande sfida dell’Occidente contro i suoi nemici: oggi l’Islam, sia arabo che iraniano, domani di nuovo la Russia, tra vent’anni forse la Cina e l’India.
La guerra mondiale, guerra di eredità tra i figli per aggiudicarsi le ultime risorse del pianeta che si stanno esaurendo (tra queste risorse c’è anche la democrazia), è già cominciata. È a questa guerra che serve la base nucleare di Vicenza.
A noi tocca pensare e propugnare un altro futuro.
Che cos’è umano?
Scuola di ricerca e critica delle antropologie
SEMINARIO NAZIONALE DI STUDIO
Il futuro della convivenza, Vicenza e la guerra annunciata
INVECE DELLA BASE NUCLEARE *
di Raniero La Valle
Prolusione del seminario del 16 giugno scorso a Vicenza sul tema: "invece della base nucleare".
Vicenza, sabato 16 giugno 2007
ULTIME NOTIZIE - Raniero La Valle
Questa volta è inusuale la sede in cui teniamo questo Seminario - tutti gli altri si sono svolti a Roma - ed è anche inusuale il rapporto tra le “Ultime notizie”, che sempre inaugurano i nostri incontri, e il contenuto del Seminario.
Inusuale la sede: siamo venuti infatti a Vicenza, e lo abbiamo fatto per stare nel luogo dove il dramma accade, perché nessuno possa dirci domani: e voi dove eravate? Vicenza è oggi il crocevia delle contraddizioni che scuotono il nostro tempo. Ed è in qualche modo l’emblema conclusivo del nostro tema di quest’anno, nel quale ci siamo interrogati sulla crisi della convivenza. Abbiamo sviluppato il tema della convivenza - nella politica, nella famiglia, nella scuola, nel rapporto di coppia, nella Chiesa - perché abbiamo avuto la percezione che oggi non solo la convivenza sia in crisi, perché non si riesce a vivere come pur si vorrebbe, ma addirittura che essa abbia cessato di essere un valore, una naturale prospettiva di vita, e sia diventata invece un ingombro, un ostacolo, l’oggetto di un rifiuto. Perfino nelle fasi più acute della guerra fredda, sempre in procinto di esplodere nella guerra nucleare, l’ideale della coesistenza era fuori discussione: si voleva coesistere, nel presupposto che tutti avessero diritto ad esistere. Oggi invece si vuole esistere, ma non coesistere; oggi c’è solo la propria esistenza vissuta come incompatibile con l’esistenza degli altri.
Allora la decisione di costruire la nuova base militare a Vicenza ha incrociato la nostra riflessione, che non è mai una riflessione astratta, accademica, perché per noi la cultura è sempre innestata nella realtà. In tale decisione abbiamo visto un caso limite di rottura e di rifiuto della convivenza; ed è per questo che siamo qui a discutere della convivenza nel luogo dove oggi questo tema si riveste di tutta la sua pregnanza storica. Ed è per questo che il tema di queste “Ultime notizie”, solitamente ricavato da una sollecitazione che viene dalla cronaca, anche se non pertinente col tema del seminario, si identifica oggi col tema stesso di questo seminario.
Tre rotture della convivenza
In tre modi la decisione di costruire la nuova base militare americana, nonché il modo in cui questa decisione è stata presa e resa nota, rompono la convivenza.
Prima di tutto rompono la convivenza interna della comunità cittadina. La passione con cui già oggi si discutono le due opposte prospettive che sono di fronte alla città, mostra che sempre più è destinato a radicalizzarsi e a imbarbarirsi il conflitto tra favorevoli e contrari alla base, finché la città stessa, rotta la pace sociale, si troverà irrimediabilmente divisa in due.
In secondo luogo si rompe la convivenza internazionale, per la sostituzione della guerra alla politica come modalità di rapporto tra i popoli.
Non siamo sicuri che a livello nazionale ciò sia stato percepito, che sia stata colta la portata politica generale del sacrificio di Vicenza; non crediamo che sia stato percepito in che modo la nuova destinazione d’uso della città di Vicenza diventi una grande questione nazionale, né è stata percepita la novità nella quale viene a trovarsi la situazione internazionale e mondiale per effetto di questo riarmo nucleare che qui viene avviato della piattaforma territoriale italiana. Il cuore del discorso sta infatti qui: non si tratta di un ampliamento e neanche di un raddoppio di una base preesistente, non si tratta di un accasermamento di altri duemila uomini di truppe aviotrasportate in modo che siano più vicini agli scenari di guerra. Si tratta di una base per azioni di deterrenza e ritorsione nucleare previste nel quadro di una pianificazione militare chiamata “Punta di diamante”. Lo ha detto l’ex presidente Cossiga con quell’aria un po’ beffarda con cui egli è solito rivelare delle verità che gli altri tengono nascoste. Nella sua dichiarazione di voto al Senato del 28 febbraio scorso, come si può leggere nel resoconto stenografico della seduta, egli si è rallegrato - “americano e guerrafondaio come sono” ha detto con autoironia - della conferma della concessione “al Pentagono” della base militare di Vicenza, dalla quale opererà “ il 173° reggimento d’attacco “Airborne”, strumento del piano di dissuasione e di ritorsione anche nucleare denominato “Punta di diamante” ”. Dunque ciò di cui si discute non è una caserma, ma una base per la guerra nucleare, ed una prospettiva politica secondo la quale il governo del mondo e delle sue risorse nei prossimi decenni sarà affidato non alla politica, ma alla guerra.
La terza rottura che in tal modo si è prodotta è quella tra la comunità e il governo. La domanda è perché il governo non ne ha voluto neanche parlare. Come se si trattasse di materia non disponibile, di “affari riservati” secondo una nomenclatura in uso in altri ordinamenti. Questo è un Paese in cui si discute di tutto, e questo è un governo che ha discusso su tutto. Per mesi si è fatta e rifatta la finanziaria con trattative con tutte le lobbies possibili e le parti sociali. Si è discusso e poi si è cambiato il tracciato della TAV. Si discutono i piani di settore con artigiani, professionisti, piccole imprese; si sono discusse le liberalizzazioni di Bersani con benzinai, farmacisti, notai; si è rinunziato ad abolire il PRA sotto la spinta dei suoi difensori. Si fermano i camion prima che arrivino alle discariche per non forzare la mano alle popolazioni locali. Perché solo sulla base militare di Vicenza non si può, non dico transigere, ma nemmeno discutere? La ragione è evidente: perché il governo ritiene la cosa fuori della portata delle nostre decisioni. Esso dà atto che l’Italia non ha la disponibilità non tanto della propria sovranità, ma di se stessa, del suo ruolo e del suo destino. Ma come non discutere della decisione di installare in Italia la prima base nucleare offensiva dopo la fine della guerra fredda, la rimozione del muro di Berlino e la scomparsa della contrapposizione tra i blocchi?
La politica come occultamento
Il segreto mantenuto dal governo Berlusconi si capisce. Berlusconi crede che il Paese sia suo, si è impadronito del suolo di questo Paese - da Milano 2 alla tenuta di Arcore alle coste della Sardegna al palazzo di via del Plebiscito a Roma - e anche dell’etere, paga 45 milioni di euro di tasse allo Stato e crede di esserselo comprato, quindi prende del suo e lo dà all’amico americano.
Ma il governo Prodi? Aveva tutto il diritto di discuterne. Perché la cessione di una parte della città di Vicenza agli Stati Uniti (e qui vale come non mai che “la parte è per il tutto”) era avvenuta senza alcuna deliberazione del governo e senza alcun dibattito parlamentare, solo in virtù di una lettera del 12 dicembre 2005 dell’allora capo di stato maggiore della Difesa ammiraglio Di Paola al suo collega americano, dopo un parere tecnico del Genio Dife; si poteva impugnare da parte del governo successivo. Invece la decisione è stata fatta passare per una “non decisione”: “per l’ampliamento di una base militare - ha detto Prodi - non si pone certo un problema politico”. Qui si apre una grande questione: la politica come occultamento. È una novità: prima a occultare erano i Servizi deviati, non a caso detti segreti; oggi è la politica che si fa alla luce del sole che occulta la verità. È un occultamento della realtà dire che Vicenza non è un problema politico. È il massimo dei problemi politici, perché riguarda la scelta di come stare al mondo nei prossimi decenni; se vogliamo stabilire una data diciamo fino al 2050, data entro cui secondo gli scienziati dovremmo trovarci un altro pianeta perché questo sarà esaurito.
Il mondo è davanti a un’alternativa molto precisa: o la convivenza, la decisione politica che tutti dobbiamo vivere, anche se giungeremo ad essere dieci miliardi, oppure il rifiuto della convivenza, la rottura dell’unità umana, e la guerra dei diversi aggregati umani - che già viene chiamata guerra di civiltà - per spartirsi l’ultima eredità della terra.
Gli Stati Uniti hanno fatto quest’ultima scelta, con la lunga premeditazione concepita dalla Nuova Destra americana e il suo progetto di instaurare “il nuovo secolo americano”, con la presidenza Bush W., con l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, con lo scudo spaziale, con lo spostamento delle frontiere militari e politiche del proprio Impero sempre più ad Oriente. Non sappiamo se dopo gli evidenti fallimenti di questa linea essa sarà confermata dalla prossima presidenza americana. In ogni caso Vicenza appartiene a questa scelta, a questa ipotesi di guerra continua per i prossimi decenni; una guerra a cui è chiamato tutto l’Occidente, e in cui gli atei devoti vorrebbero coinvolgere anche la Chiesa. I nemici non sono ancora dichiarati, ma già si profilano: l’Iran, la Russia, la Cina. Vecchi esperti del Pentagono hanno dichiarato ufficialmente che stanno preparando la guerra con la Cina, che ci sarà tra 20 anni, e che si svolgerà “nei cieli e sott’acqua” (la terra cinese è infatti troppo grande, meglio evitarla, visto come è andata nelle terre invase finora).
E allora ecco perché è così importante la base, da non potersene discutere neppure. È una base di intervento rapido nucleare, la casa madre dell’unica unità aviotrasportata del Comando europeo degli Stati Uniti la cui area di responsabilità abbraccia l’Europa, gran parte dell’Africa e del Medio Oriente. Essa dipende dal comando SETAF, il cui quartiere generale è anch’esso a Vicenza, e che è stato trasformato da comando di appoggio logistico in comando di teatro, responsabile - come viene spiegato - “del ricevimento, della preparazione al combattimento e del movimento avanzato delle forze che entrano nella regione meridionale per una guerra”. E ciò in collegamento con le basi aeree di Aviano e Sigonella e con quella logistica di Camp Darby, che insieme vengono così a formare il triangolo della piattaforma italiana per la guerra nucleare annunciata. La domanda è: può l’Italia opporsi a tutto questo? Non può, il governo, da solo. Può darsi, a voler guardare le cose con realismo, che per il governo questa decisione fosse obbligata, perché quella contraria, come ha detto D’Alema, sarebbe apparsa “un atto di ostilità verso gli Stati Uniti”. E non è possibile una ostilità con gli Stati Uniti perché il Paese non è ostile, non ci sarebbe affatto una base di opinione pubblica in Italia per alcuna ostilità agli Stati Uniti, che è un Paese amico; e nemmeno ce lo potremmo permettere, perché siamo entrati in un tempo in cui lo squilibrio delle forze nel mondo è tale per cui nessuno può sopravvivere all’ostilità degli Stati Uniti; in Italia, come si ricorderà, gli anni di Moro furono dominati dalla paura di una “sindrome cilena” per mano americana: perciò i missili vennero installati a Comiso anche allora senza alcuna obiezione ufficiale (ma con grandi lotte popolari) .
Però queste ragioni dovevano essere discusse, anche col movimento della pace. Il non farlo è un’offesa per il Paese, ma soprattutto è un atto di rottura del governo con i cittadini, con una parte rilevante della sua base elettorale, politica e perfino religiosa.
La resistenza alla base, quale si è così vigorosamente attivata qui a Vicenza, non può ora servire da sola a rovesciare con la forza, con una spallata, la decisione già presa. Ci vuole la politica. Perciò non crediamo e anzi riteniamo un grave errore il ricorso a mezzi di lotta che non siano non violenti. Crediamo alla politica. E la resistenza serve appunto a rendere di nuovo possibile la politica, serve a impedire che sia chiuso o dichiarato come non esistente il problema politico, serve a rivendicare alla politica (ma anche alla cultura e alla fede) il compito di esprimere e realizzare una alternativa allo strumento della guerra con cui l’Occidente si sta preparando ad affrontare le future sfide mondiali. Il Paese-comunità, non il governo da solo, può farcela. Insieme all’Europa, può farcela. Non contro gli Stati Uniti, ma anche “per” gli Stati Uniti, perché siano distolti dal correre verso la rovina trascinandosi tutto il mondo con sé.
Ma per fare questo non si può occultare la vera natura della scelta. Bisogna parlare col movimento della pace, con l’elettorato, con i giovani, con le donne, e anche con quella piccola Italia della provincia italiana che viene cavalcata dalla destra e dalla Lega, nel presupposto che l’interesse in gioco è lo stesso per tutti, e allo scopo di riaprire tutti insieme il problema politico, per vedere in che modo attraverso la politica, come diceva don Milani, “se ne può uscire”.
I frutti del rifiuto della convivenza: la questione palestinese
Proprio in questi giorni vediamo a quali tragedie portino delle politiche che esplicitamente si pongono contro la convivenza.
Non era mai accaduto quello che ora sta avvenendo in Palestina: una lotta di liberazione straordinaria condotta dal popolo palestinese per quarant’anni, dal 1967, viene fatta a pezzi, distrutta, rottamata, gettata nel crogiuolo di una guerra civile tra palestinesi, tra istituzioni palestinesi.
Chi in tutti questi anni ha congiurato per la cancellazione del popolo palestinese è riuscito ad ottenere ora che il popolo palestinese cambiasse il proprio nemico, e si facesse nemico di se stesso. Questo risultato è stato perseguito fin dagli accordi di Oslo, che avevano aperto una via politica alla costituzione di uno Stato palestinese, di cui l’Autorità Nazionale Palestinese doveva essere solo l’anticipazione.
Ma Israele non ha mai accettato questa prospettiva, non ha mai ammesso che accanto a sé, su quella che considera la terra d’Israele, nascesse un vero Stato palestinese. Rabin fu ucciso per questo, e da allora lo scopo della politica israeliana, sostenuta dagli Stati Uniti, è stato quello di rovesciare Oslo e di impedire che un’altra Oslo fosse mai possibile. Sharon dichiarò che gli accordi di Oslo erano stati il più tragico errore strategico di Israele, e avviò una strategia che chiudesse per sempre quella strada. Non doveva esserci nessuna “road map” di questa strada. Ciò doveva passare attraverso la liquidazione di Arafat, che rappresentava appunto l’ala politica e negoziale, laica e statuale, nella dignità, del movimento palestinese. Per Israele e per gli Stati Uniti la gestione di un conflitto con un movimento laico di liberazione nazionale era diventata troppo difficile, era in difetto di egemonia. Bisognava riuscire a togliere il conflitto palestinese dalla sua singolarità e riportarlo nella lotta generale contro il terrorismo, e in particolare contro l’Islam, che fin dal 1991 nei nuovi “Modelli di difesa” occidentali elaborati dopo la fine della guerra fredda, era stato individuato come il nuovo nemico dell’Occidente. Nel Nuovo Modello di Difesa italiano nel 1991 - subito dopo la prima guerra del Golfo - il conflitto israelo-palestinese veniva indicato come “il paradigma” del futuro conflitto tra Islam e Occidente.
Occorreva che la resistenza palestinese fosse trasformata in estremismo islamico. Ciò è avvenuto non lasciando ai palestinesi altra strada che quella di Hamas. Ed è qui che il problema palestinese cessa di essere un conflitto di indipendenza di un popolo i cui territori, pur ridotti al minimo, sono occupati, e diventa un capitolo della grande sfida dell’Occidente contro i suoi nemici: oggi l’Islam, sia arabo che iraniano, domani di nuovo la Russia, tra vent’anni forse la Cina e l’India.
La guerra mondiale, guerra di eredità tra i figli per aggiudicarsi le ultime risorse del pianeta che si stanno esaurendo (tra queste risorse c’è anche la democrazia), è già cominciata. È a questa guerra che serve la base nucleare di Vicenza.
A noi tocca pensare e propugnare un altro futuro.
* Il Dialogo, Mercoledì, 20 giugno 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il Comitato di cittadini e lavoratori di Vicenza Est
che si oppongono al progetto Dal Molin e chiedono la conversione ad usi civili della Caserma Ederle è lieto di invitarvi alla conferenza stampa con il Prof. Philip Rushton, Università di Napoli, autore del libro "Riportiamoli a casa - il dissenso nelle forze armate staunitensi" e Chris Capp, disertore americano impegnato con i movimenti per la pace per la fine della guerra e il ritiro delle truppe dal fronte.
Durante la conferenza verranno brevemente illustrati i progetti del Comitato Vicenza Est per lasciare spazio ai prestigiosi ospiti. Seguirà l’iniziativa "La Pace urlata al Megafono" di fronte alla Caserma Edrle per invitare i soldati a non partecipare alla guerra e a dissociarsi dai progetti di militarizzazione.
La conferenza stampa si svolgerà il giorno 12 luglio alle ore 18 presso i locali della Cooperativa Insieme, in Via Dalla Scola 255 a Vicenza. L’iniziativa di fronte alla Caserma Ederle si svolgerà alla sera. Le iniziative sono realizzate in collaborazione con altri importanti gruppi e comitati del movimento No Dal Molin-No Vicenza città militare la cui lista verrà diffusa durante la conferenza stampa (le adesioni sono in corso).
Sono previste iniziative della "Pace urlata al megafono" di fronte ad altri siti militari in città il giorno 13 luglio.
Siamo già in grado di diffondere la lettera scritta da Chris Capps che verrà distribuita di fronte alla Caserma Ederle, che risulta essere centro di progettazione e preparazione delle guerre in corso.
Per contatti mailto:comitato.viest@libero.it>comitato.viest@libero.it
Italiani, e soldati di stanza in Italia, mi chiamo Chris Capps. Ero di stanza in Germania poco prima del mio dislocamento a Baghdad, Iraq. Dopo averci completato il mio turno di servizio sono stato riportato in Germania dove ho appreso che fra meno di 9 mesi sarei stato inviato in Afghanistan. Per me far parte di un’occupazione, anche quando non si è nel ruolo di combattente diretto significa partecipare nell’oppressione del popolo indigeno del paese che stavo occupando. Per me tale situazione era inaccettabile e ho capito come uscire dall’esercito allontanandomi senza permesso. Ormai sono fuori dall’esercito e faccio parte di un’organizzazione che si chiama Veterani dell’Iraq contro la guerra (Iraq Veterans Against the War).
Sono qui in Italia come parte di un’iniziativa per prendere contatti con soldati che si trovano di stanza qui e farli capire che non sono soli nei sentimenti di disagio che provano nei confronti del conflitto in Iraq. Come ho imparato in prima persona, esistono altre scelte oltre a quella di accettare di essere inviato in missione. Mi trovo qui come ospite dei gruppi di pace locali in Italia che non vogliono assistere passivi né alla continuazione dell’attuale conflitto né al vostro coinvolgimento nello stesso. Non vogliono assistere a un’occupazione che venga supportata dal proprio territorio, né vogliono accettare che voi, i loro attuali vicini di casa, vengano inviati a fare parte dello stesso conflitto. Spero che ascoltiate sia la maggioranza degli Americani sia la maggioranza degli italiani che vogliono porre fine ora a tutto ciò.
Chris Capps
INTERVISTA
Nella cruenta lotta tra Hamas e Fatah, chi perde è la gente, i cristiani fra tutti: schiacciati ormai da ogni lato. Parla il vescovo Twal
Le croci della Striscia
«L’emigrazione dei credenti per le pressioni fondamentaliste e l’isolamento imposto da Israele è una perdita per la pace. Ma i politici europei non ci aiutano»
Dal Nostro Inviato A Venezia Luigi Geninazzi (Avvenire, 21.06.2007)
«I cattolici della Terra Santa vivono un forte senso d’abbandono e d’isolamento rispetto alla cristianità occidentale». È il grido accorato di monsignor Fouad Twal, il vescovo coadiutore di Gerusalemme che denuncia l’emorragia continua della presenza dei cristiani in Medio Oriente e la sostanziale indifferenza dell’Europa. Lo ha fatto durante i lavori, iniziati ieri, del Comitato scientifico di «Oasis», il Centro internazionale di studi e ricerche voluto dal Patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, al fine di stringere legami d’amicizia e di conoscenza proprio con le comunità cristiane che vivono nei Paesi a maggioranza islamica. Anche per questo monsignor Twal, arabo massiccio e imponente, non intende cedere al pessimismo. Pur se chiamato a sfide difficili, designato a diventare Patriarca dei latini di Terra Santa nel 2008. Ecco l’intervista che ci ha rilasciato a margine del convegno.
Monsignor Twal, la situazione nei Territori è sempre più drammatica. I palestinesi non hanno ancora uno Stato però hanno due governi, uno di Fatah in Cisgiordania e uno di Hamas a Gaza. Che sentimenti prova in questi giorni?
«Provo una grande pena e preoccupazione per la crisi interna alla Palestina. Ma quanto sta succedendo non è un fatto isolato, è la conseguenza di una crisi più vasta che riguarda i rapporti tra Israele e palestinesi. Non dobbiamo dimenticare che, fino ad un anno e mezzo fa, tutto il potere dell’Anp era in mano al presidente Abu Mazen ma l’Occidente non ha fatto nulla per aiutarlo. Né Israele, né gli Stati Uniti, né l’Europa. Hanno voluto le elezioni e, com’era prevedibile, la maggioranza dei palestinesi ha votato per un cambio di governo, affidandosi ad Hamas, un movimento radicale che però prometteva ordine e stabilità. L’Occidente ha detto che non andava bene. Pochi mesi fa Abu Mazen ha varato un nuovo governo di unità nazionale ma anche questo non andava bene. Ed ora il presidente Abu Mazen rivendica tutto il potere legittimo per sè, comanda da sol o e l’Occidente sblocca gli aiuti. Io mi domando: ma perché non l’hanno aiutato un anno e mezzo fa, quando non c’era ancora Hamas al governo?».
Intende dire che adesso è troppo tardi?
«No, non è mai troppo tardi! Spero davvero che finalmente Abu Mazen abbia tutti i mezzi - politici, finanziari ed economici - per stabilizzare la situazione. Il blocco degli aiuti che l’Occidente ha praticato negli ultimi mesi non può essere giustificato: volevano colpire il governo di Hamas, ma le conseguenze più dure le ha pagate la gente, non chi sta al potere».
Il blocco però continuerà e probabilmente diventerà ancora più rigido là dove comanda Hamas. C’è il rischio di una catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza?
«Spero che i responsabili politici abbiano cuore, testa e dignità per evitare un simile scenario. Ci sono tanti modi per condizionare un gruppo di potere con cui non si va d’accordo, ma quello di affamare la popolazione che vi è sottoposta non conduce da nessuna parte se non all’esasperazione».
A Gaza c’è una piccola comunità cattolica di 300 persone. Nei giorni scorsi il convento delle suore è stato oggetto di un assalto. Teme un’ondata di fanatismo anti-cristiano?
«Ho ben presente l’episodio, le tre suore provengono dalla Giordania ed una è mia cugina. Penso che quanto accaduto sia il gesto di una banda criminale, e non sia stato preordinato dall’alto. Nelle ultime settimane a Gaza c’era il caos più totale, di cui hanno approfittato banditi e malviventi».
Eccellenza, nel suo intervento qui ad «Oasis» ha detto che i cristiani d’Occidente non sembrano aver coscienza del ruolo di vitale importanza che i cristiani di Terra Santa possono giocare ai fini della pace...
«L’elemento cristiano è tra i pochi a favorire e garantire principi di moderazione nello scontro civile e religioso che dilania questa regione. L’emigrazione dei cristiani, dovuta alle pressioni del fondamentalismo islamico e all’isolamento imposto da Israele, è una perdita per il processo di pace. Ma chi gli presta attenzione? Solo il Papa alza la voce in nostra difesa». Cosa si aspetta concretamente? «Vorremmo che ci fosse un po’ d’attenzione anche da parte dei politici occidentali che si dicono cristiani. Ma raramente ci chiedono un parere quando prendono decisioni che riguardano la Terra Santa. Eppure noi viviamo qui, siamo parte della cultura araba e possiamo essere un ponte tra cristiani e musulmani, tra Oriente e Occidente. Purtroppo qualcuno preferisce costruire muri di separazione invece che ponti di dialogo. Ma così la pace non arriverà mai, resterà sempre un processo senza fine».
Un ordigno trovato nella notte a Piccadilly: aveva un potenziale enorme
La seconda auto in un garage di Park Lane. Falso allarme in Fleet Street
Disattivate 2 autobombe nel centro di Londra
"Stesso esplosivo, episodi collegati"
La polizia punta il dito contro Al Qaeda: bombe simili a quelle irachene
Nella notte sul web un messaggio: "Londra sarà bombardata"
LONDRA - Londra piomba di nuovo nell’incubo attentati. Nella notte in pieno centro è stata scoperta e disattivata una potente autobomba a Haymarket. La situazione si è fatta immediatamente molto tesa e nel pomeriggio un’altra autobomba è stata trovata in un parcheggio sotterraneo di Park Lane, accanto al famoso parco di Hyde Park. La polizia spiega che in entrambi i casi è stato usato lo stesso materiale esplosivo, e che i due fatti sono "ovviamente collegati".
Nel pomeriggio anche una sagnalazione in Fleet street, la mitica strada un tempo sede delle redazioni dei principali quotidiani britannici. Ma era un falso allarme.
Prima del ritrovamento a Haymarket, su un sito spesso utilizzato da Al Qaeda per diffondere i suoi comunicati era apparso il messaggio "Londra sarà bombardata" e una critica all’onorificenza concessa dalla Regina a Salman Rushdie, autore dei "Versetti satanici". Sulla chat Al-Hesbah un certo Abu Osama al-Hazeen aveva infatti scritto: "Nel nome di Dio il più compassionevole, il più pietoso, la Gran Bretagna cerca altri attacchi diAal Qaeda? Oggi dico: gioite, nel nome di Allah, Londra sarà bombardata".
Park Lane. A Park Lane il traffico è tornato a scorrere dopo che la zona era stata chiusa, nel pomeriggio, per almeno cinque ore. L’allerta era scattata quando gli addetti del garage avevano sentito "puzza di carburante" e lo avevano segnalato alle forze dell’ordine. Che avrebbero definito l’ordigno contenuto nell’auto "di notevole interesse", senza spiegare tuttavia di cosa si tratti. Anche in questo caso, come a Haymarket, si tratta di una Mercedes, blu: l’auto sarebbe stata portata al garage sotterraneo con il carro attrezzi dopo essere stata sequestrata la scorsa notte in Cockspur street, vicino Trafalgar Square, perché in divieto di sosta, come riferisce il sito del "Daily Telegraph".
"La mano di Al Qaeda". Scotland Yard in serata è costretta ad ammettere un’unica strategia e una sola mano, "la mano di Al Qaeda". Una fonte del ministero dell’Interno spiega che "anche in passato sono stati scoperti progetti di attentati con lo stesso modus operandi - gas, benzina, chiodi e inneschi a distanza - e con analoghi obiettivi: locali notturni e discoteche". Sempre fonti di polizia sottolineano la coincidenza degli allarmi con l’incarico di primo ministro assunto da Gordon Brown, una data che Al Qaeda avrebbe voluto "battezzare".
Haymarket. Tutto è cominciato intorno all’una di questa notte a Haymarket, una zona molto frequentata e piena di locali: una potente bomba composta da 200 litri di carburante, bombole di gas e chiodi è stata trovata in una Mercedes. Gli investigatori ritengono che fosse pronta a saltare in aria con un comando a distanza attivato con un telefono cellulare. Le autorità stanno setacciando le riprese delle telecamere a circuito chiuso della zona per scoprire altri indizi. L’allarme è stato dato da un’ambulanza chiamata da un locale per un giovane che si era sentito male. I soccorritori hanno notato del fumo che usciva dalla vettura. Alcuni testimoni citati da Sky Tv hanno invece raccontato che il conducente dell’auto sarebbe scappato dopo averla fatta schiantare contro alcuni bidoni della spazzatura presso il nightclub "Tiger Tiger" di Piccadilly.
In mattinata Peter Clark, responsabile dell’antiterrorismo di Scotland Yard, ha spiegato che "l’auto, una Mercedes verde metallizzato, era piena di taniche di benzina, due cilindri di gas collegati a una carica esplosiva e di chiodi". Più che un ordigno, quindi, una vera e propria autobomba "con una elevata potenza distruttiva moltiplicata dall’effetto mitraglia provocato dai chiodi. Poteva fare danni enormi e molte vittime".
Le piste. La zona è stata isolata, e lo rimarrà a lungo. "Non vogliamo fare supposizioni adesso e lanciare allarmi terrorismo - ha aggiunto Clarke - certo molti indizi ci portano in quella direzione anche se le nostre indagini restano a tutto campo". Un’altra ipotesi, infatti, potrebbe essere quella del racket: a Londra ci sono già stati attentati contro locali notturni, ma questa autobomba sembrava puntare a una strage.
Il responsabile dell’antiterrorismo ha sottolineato l’importanza dell’intervento "chirurgico" degli artificieri che sono riusciti a preservare intatto l’ordigno. A differenza di quanto accaduto in passato, quando le bombe sono sempre andate distrutte nell’esplosione, questa volta Scotland Yard potrà ricavare molte informazioni utili per capire la natura e quindi anche l’origine dell’ordigno. Tutti elementi che potenzialmente contengono la firma dei responsabili. In particolare, secondo quanto detto a SkyNews da fonti del ministero degli Interni, si starebbero studiando eventuali similitudini con le autobombe utilizzate dagli insorti in Iraq.
Gordon Brown. Secondo il nuovo premier Gordon Brown, la scoperta dell’ordigno dimostra che il terrorismo è ancora "una minaccia grave e persistente" per la sicurezza della Gran Bretagna. "Con il mio governo", ha aggiunto il successore di Tony Blair, "sottolineerò come si debba mantenere la sorveglianza anche per i giorni a venire".
In Gran Bretagna è tuttora in vigore l’allerta sicurezza al secondo livello, quello ’grave’, introdotto due anni fa. Il 7 luglio 2005, la rete della metropolitana londinese fu il principale bersaglio degli attentatori che presero di mira anche un autobus di linea: in tutto persero la vita 52 persone, compresi quattro terroristi, e circa 700 rimasero ferite.
L’Mi5, il servizio segreto interno, valuta come "serie e persitenti le minacce del terrorismo internazionale contro gli interessi britannici, anche all’estero", con particolare riguardo ad ’’Al Qaeda e ai gruppi collegati" e "alla diffusione di armi di sterminio". Di una minaccia così ravvicinata, però, non c’era traccia nelle segnalazioni.
* la Repubblica, 29 giugno 2007
Il presidente Usa: "Scontro tra chi vuole vivere in una società pacifica e chi vuole imporre tetra visione"
"Veto di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un rientro delle truppe"
Iraq, Bush esclude qualsiasi ipotesi di ritiro
"Siamo agli inizi di un conflitto ideologico"
Il Rapporto della Casa Bianca lo smentisce: "Raggiunti solo 8 dei 18 obiettivi posti dal Parlamento"
Pessimismo della Cia: "L’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile"
WASHINGTON - Il presidente degli Usa George W. Bush, in occasione della conferenza stampa di presentazione del viaggio in Iraq del segretario di stato Condoleezza Rice ed il ministro della difesa Robert Gates, difende la sua strategia in Iraq e avverte che "siamo nelle fasi iniziali di un grande conflitto ideologico: un conflitto tra quanti vogliono la pace e vogliono vivere in una società pacifica e normale e i radicali che vogliono imporre al resto del mondo la loro tetra visione".
Bush ha escluso ancora una volta qualsiasi ipotesi di un rientro anticipato delle forze militari statunitensi. "Un ritiro immediato delle truppe americane dall’Iraq sarebbe un disastro - ha detto il presidente - e favorirebbe solo i nostri nemici e renderebbe l’America più vulnerabile a nuovi attacchi terroristici".
Il veto al ritiro delle truppe. Di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un ritiro dall’Iraq, il presidente degli Usa ha poi ribadito che non esiterà a porre il veto. La decisione, secondo Bush "deve essere presa su basi militari riguardanti la situazione in Iraq e non su basi politiche riguardanti Washington".
La bocciatura del rapporto. Ma il rapporto della Casa Bianca che avrebbe dovuto sostenere le tesi del presidente lo smentiscono. Secondo il documento, dei 18 obiettivi posti dal Parlamento per un rifinanziamento, ne sono stati raggiunti soltanto otto. Pochi insomma i passi avanti nel disarmo dei miliziani e nella fine della violenza settaria.
Nuova decisione a settembre. Bush miminizza e dichiara che si tratta di un rapporto provvisorio e ha rinviato qualsiasi decisione alla metà di settembre. Aspettiamo, ha detto il presidente, che "il generale Petraeus ritorni a Washington a settembre per darci un rapporto su come vede la situazione". Solo dopo che il rapporto verrà presentato, il 15 settembre, si consulterà con il Congresso e con i comandanti militari per stabilire "se è necessario prendere un’altra decisione" sulla strategia da perseguire in Iraq.
Cia pessimista. Ma Bush si trova a fare i conti anche con lo scetticismo della Cia. Secondo quanto rivelato dal Washington Post, il capo della Cia Michael Hayden già a novembre scorso aveva espresso la sua convinzione in merito all’Iraq e in particolare sulla capacità del governo di Al Malikdi di guidare il paese. Secondo Hayden infatti "l’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile".
* la Repubblica, 12 luglio 2007