Il simbolo dell’8 marzo
Tre donne coraggiose
di Matteo Cosenza *
Avevo chiesto al collega Giuseppe Baldessarro un promemoria sulla vicenda tragica di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola prima di scrivere questo articolo, ma credo che la sua scheda nella sua scheletricità racconti benissimo e in modo inoppugnabile quanto è accaduto. Per questo ve la ripropongo così come me l’ha trasmessa in forma di appunti chiedendogli scusa per l’uso improprio che ne faccio e omettendo soltanto i nomi di qualche altro giornale e giornalista, non già per reticenza quanto soprattutto perché non meritano neanche di essere citati. Eccola.
Qui finisce la scheda del collega Baldessarro che lascia poco spazio ai commenti. Una sola notazione: qui non è in gioco una partita di calcio (e la cosca Pesce controllava anche questo mondo) tra due squadre mentre sugli spalti - come ha spiegato il procuratore Giuseppe Pignatone nella sua “lezione” all’Unical - ci sono gli spettatori che eventualmente tifano per l’una o per l’altra.
La partita drammatica si stava svolgendo in quel mondo schifoso nel quale hanno avuto la sfortuna di nascere Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola e, ricordiamola, Lea Garofalo.
Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli. E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte o minacciate la vita loro e dei loro figli, e infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità.
Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce.
In questi giorni si discute della ’ndrangheta e della sua penetrazione nella società e nelle istituzioni calabresi: esagera chi dice - e scrive - che la ’ndrangheta non esiste ed esagera chi la vede dappertutto rischiando così di non vederla dove c’è. Le inchieste - quelle che vanno a processo e a sentenze e che si spera possano esserci anche nel prossimo futuro - ci riconducono alla realtà, ed a questa bisogna attenersi.
Soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l’azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e delle ragazze deve essere così tragicamente legato all’ambiente e al luogo di nascita?
Che futuro diverso dal diventare ’ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di ’ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo. Ecco perché dobbiamo inchinarci davanti a Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Nonostante tutto sono riuscite a capire che vivevano nel male e hanno trovato il coraggio di dire: basta, non deve andare così, noi e i nostri figli dobbiamo vivere in pace e non in una guerra perenne. Hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra.
Calabresi, guai a voltarsi dall’altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l’immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c’è se non nel panorama.
Intanto, tra un mese è l’8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po’ di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest’anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla ’ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo.
Matteo Cosenza
* Il Quotidiano della Calabria, 13/02/2012.
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Ragazze antimafia
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 08.03.2012)
Dalle mie parti, cioè in Romagna ma anche nel resto d’Italia -, nelle famiglie contadine più tradizionali c’erano le azdore, in dialetto, le reggitrici, perché reggevano la famiglia. A decidere era sempre l’uomo, ma le azdore che spesso avevano studiato di più, riflettuto e pensato di più erano quelle che conoscevano le storie della famiglia.
Le azdore conoscevano le tradizioni e anche le leggende, i valori e lo spirito delle cose, quelle che educavano i figli e che la notte, poco prima di addormentarsi, sussurravano al marito il loro parere, in una «moral suasion», si direbbe adesso, che al mattino poi lasciava i suoi segni. Ecco, fatte le dovute differenze, è ovvio, le famiglie mafiose non sono meno tradizionali e al loro interno il ruolo della donna, dell’azdora comunque si dica in calabrese, siciliano, campano, pugliese o in uno dei dialetti del nord in cui le mafie si sono ormai radicate non è meno importante.
Sono le donne ad educare i figli e quando si tratta di una famiglia mafiosa i valori di cui si nutre il figlio del boss, dell’affiliato o del picciotto sono quelli di Cosa Nostra, della Camorra o della ’ndrangheta. Valori difesi con determinata ostinazione, come accade alla madre di Rita Atria, che distrugge a martellate la lapide sulla tomba della figlia collaboratrice di giustizia. E quando l’uomo, il boss, finisce dentro, impacciato dal 41bis, sono sempre più spesso le donne a prenderne il posto, a fargli da portavoce come Rosetta Cutolo col fratello Raffaele o a dirigerne in reggenza gli affari, come accade da un po’ di tempo nella ’ndrangheta.
Sono importanti le donne, anche nella mafia. La mafia lo sa e ne ha paura. Perché quando succede che le donne si ribellino, la forza e la loro capacità di scardinarli dall’interno quei valori, di rinnegarli e di combatterli, è enorme e dirompente. Perché succede che una madre capisca all’improvviso che i figli faranno la stessa fine dei padri, assassini e ammazzati, che non potranno fare la vita degli altri ragazzi per esempio innamorarsi e sposare qualcuno che non sia di un’altra famiglia di ’ndrangheta succede che veda il figlio ricevere fino da bambino gli omaggi degli affiliati come il boss che necessariamente diventerà. E allora le donne, le madri e le sorelle, si «pentono», ma sul serio, e collaborano con la giustizia raccontando non solo i segreti e i fatti della mafia, ma anche lo spirito, gli umori e i costumi. Oppure succede che le donne, sempre le madri soprattutto, diventino loro stesse antimafia, punti di riferimento per intere generazioni, in grado di dare coraggio e forza, come la signora Felicia, la mamma di Peppino Impastato.
Non è una cosa facile. La mafia lo sa e quando capisce che sta accadendo reagisce duramente. Opprime al punto di portare al suicidio, come succede a Maria Concetta Cacciola, ammazza e scioglie nell’acido, come Lea Garofalo, due donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta e ne hanno pagato il prezzo. Ma è proprio chi vive le cose dall’interno, nell’intimità più quotidiana che è in grado di capire quello che è sbagliato e fare a proprio modo la sua importantissima «moral suasion». Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne.
Maria Scarfò: «Denunciate le violenze, ora sono libera e viva»
Maria Scarfò, che vive in luogo protetto dopo aver denunciato gli autori delle volenze da lei subite all’età di 13 anni, invita tutti a denunciare le violenze subite *
«Credo che noi donne tutte insieme possiamo farcela, e non dobbiamo mai farci prendere dalla paura o dalla vergogna di raccontare una violenza subita». È questo l’appello lanciato alla vigilia della festa delle donne da Anna Maria Scarfò, la ragazza di 26 anni che dopo aver denunciato e fatto condannare i sei aguzzini che la violentarono a 13 anni ora vive in una località protetta. «Fate come me - ha aggiunto - che oggi sono viva e libera, anche se distrutta da tutto il male che mi hanno fatto. Ma nello stesso tempo sono felice di avercela fatta a dire basta a tutto ciò che mi stava accadendo». La ragazza dopo le sue denunce subì anche una serie di minacce e ingiurie dai familiari dei suoi aguzzini. Per queste ultime vicende è in corso un processo a Cinquefrondi (Reggio Calabria) durante il quale gli imputati hanno chiesto che il dibattimento venga spostato altrove per l’eccessivo peso mediatico della vicenda. Nel suo appello Anna Maria Scarfò rivolge un invito a tutte le donne perchè non bisogna «avere paura di sfidare l’omertà. Ci sarà sempre qualcuno che vi aiuterà».
* Il Quotidiano della Calabria, 07/03/2012
Dedicare l’8 marzo a tre donne vittime della ’ndrangheta
Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo si sono ribellate al codice criminale
E hanno pagato. La Calabria può cambiare se si è capaci di produrre fatti politici nuovi
di Vera Lamonica, segreteria Cgil (l’Unità, 06.03.2012)
Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, erano donne di ’ndrangheta, cresciute e vissute nel contesto di famiglie potenti della più potente tra le organizzazioni criminali. Di quell’appartenenza avevano assorbito le regole, e dentro quelle regole erano vissute fino alla negazione di sé, della propria libertà e della propria dignità. Maria Concetta, ad esempio, era stata sposata a 14 anni, a 15 era diventata mamma, più volte pestata a sangue, a 31 anni aveva tre figli ed è morta ingerendo acido muriatico. E le altre non hanno storie meno tragiche: sono tutte, insieme a tante altre, vittime della più sconvolgente delle sorti, quella di nascere in una famiglia di ’ndrangheta, l’organizzazione criminale che nella famiglia e nei legami di affetto e di sangue che la caratterizzano, trova una delle basi della sua forza e della sua impenetrabilità e una delle ragioni del radicamento anche culturale che la caratterizza nel contesto calabrese.
Perciò ribellarsi alla ’ndrangheta, ribellarsi dall’interno, non è solo un atto di pentimento e di dissociazione, è un atto di lacerazione profonda che porta con sé la messa in discussione di tutti i legami affettivi che caratterizzano una vita, fino ala stessa identità. È un travaglio che queste donne hanno vissuto fino in fondo, perché hanno scelto di contrapporsi, di denunciare, di intraprendere una via di legalità e giustizia, sfidando un mondo che conoscevano troppo bene e del quale sapevano che non avrebbe perdonato. Chi non ha pagato con la vita, in questi percorsi, si è tuttavia consegnata ad una condizione di straordinaria fragilità che rende arduo il percorso di ricostruzione della vita anche sotto la protezione dello Stato.
Il rischio della retorica è sempre in agguato. Viene voglia di non unire la propria voce quando si levano, stucchevoli e scontate, le dichiarazioni di solidarietà di coloro che, soprattutto nella politica, sono tra i principali responsabili dello stato di abbandono e di degrado, economico, civile e sociale, in cui vive la Calabria e che costituisce il contesto necessario a che il potere criminale cresca sempre più fino a diventare «strutturale». Il mal governo, l’incapacità di essere classe dirigente, il deficit istituzionale ed amministrativo producono lo stato di sofferenza altissima di quella popolazione ed offrono l’argomento a tutti i leghismi ed a tutte le deresponsabilizzazioni dei governi e della politica nazionale, e non certo da oggi.
Ma non c’è retorica nell’appello lanciato dal «Quotidiano della Calabria» che invita a dedicare l’8 marzo a queste tre donne, c’è l’invito a cogliere nelle loro storie e nei loro volti il segno di come, nella più cruda delle condizioni, possa nascere la voglia di riscatto e l’amore per la libertà, la scintilla della speranza e il coraggio di rischiare.
La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa.
E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione.
LA CALABRIA SOTTO TIRO, LA CALABRIA CHE RESISTE: NUOVE INTIMIDAZIONI, NUOVE INIZIATIVE ANTIMAFIA
di Adista Notizie n. 9 del 10/03/2012
36570. LAMEZIA TERME (CZ)-ADISTA. Non c’è pace per i preti calabresi impegnati nel sociale e contro la ‘ndrangheta. E non c’è pace in particolare per don Giacomo Panizza e la “sua” comunità Progetto Sud, che ha subito due attentati in due mesi: il primo nella notte di Natale, quando un ordigno venne fatto esplodere davanti al portone di ingresso di un centro di accoglienza per minori non accompagnati (v. Adista notizie n. 1/12); il secondo nella notte fra il 25 e il 26 febbraio, quando un colpo di pistola è stato sparato alla finestra del secondo dell’edificio - confiscato alla cosca dei Torcasio e assegnato a Progetto sud - che ospita un centro sociale per disabili non autosufficienti.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, presentando a Lamezia il libro del nostro redattore Giampaolo Petrucci Terra rossa. Viaggio nel cuore della Tanzania (Cambia una virgola, pp. 208, euro 15, acquistabile anche presso Adista), don Panizza aveva avuto occasione di dire: «Non è vero che sono così coraggioso come mi si descrive, io ho una grande paura, ma non si può far vincere la paura e rimanere senza fare niente». Poche ore dopo è arrivata l’intimidazione. Ma il prete, benché ammetta che «questa volta è stata un’azione proprio contro di noi», non ha cambiato idea: «Le pallottole fanno male, ma non ci fermeranno. È il momento di resistere tutti insieme per traghettare un’altra Calabria».
E la Calabria che resiste, infatti, non si ferma. Varie le iniziative. Il 26 febbraio, prima domenica di Quaresima, a Locri, la decima Marcia per la penitenza, promossa dalla diocesi e rivolta in particolare ai giovani, all’insegna dell’impegno per il bene comune: «Preferirei avere meno cristiani iscritti nei registri, ma più cristiani impegnati nella testimonianza, non avere una massa di cristiani allo stato anagrafico, ma che non incidono in una vita evangelica veramente rinnovata», ha detto il vescovo di Locri, mons. Giuseppe Fiorini Morosini, che negli ultimi tempi ha usato parole nette contro la ‘ndrangheta e le timidezze - se non le connivenze - di alcuni settori della Chiesa (v. Adista n. 64/10 e 65/11).
Il 29 febbraio, giusto a Lamezia, la manifestazione “Il giorno che non c’è... la ‘ndrangheta” (con incontri sulla legalità nelle scuole e un corteo per le vie della città), promossa e organizzata da varie associazioni (Acli, Arci, Cgil, Libera, Agesci) fra cui Progetto Sud, tanto che proprio questo potrebbe essere uno dei moventi dell’attentato: «Questa città deve uscire a testa alta. Dobbiamo essere comunità e non clan di mafia, si può fare comunità per il bene degli altri», ha esortato don Panizza. Infine l’1 marzo la quinta edizione della manifestazione anti-‘ndrangheta organizzata dal Goel, il consorzio di cooperative sociali della Locride fondato dal mons. Giancarlo Bregantini, ex vescovo di Locri-Gerace, a Caulonia (Rc), dove il giorno di capodanno ad essere colpito è stato il locale che ospiterà un ristorante multietnico gestito dai rifugiati politici inseriti in uno dei numerosi progetti di accoglienza del Goel (v. Adista Segni nuovi n. 3/12): anche in questo caso un evento «per riconfermare l’impegno nel contrasto alla ‘ndrangheta e alle massonerie deviate». (luca kocci)
Articolo tratto da
ADISTA
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* Il dialogo, Martedì 06 Marzo,2012
«Ci sono tante Concetta ma vanno aiutate davvero. Sono la speranza del Sud»
intervista a Luigi Ciotti,
a cura di Massimiliano Amato (l’Unità, 11 febbraio 2012)
Maria Concetta, Lea, Rita, Giuseppina. Storie di donne che, dice don Luigi Ciotti, «hanno deciso di ribaltare il piano inclinato della violenza lungo il quale le mafie fanno scivolare la vita di migliaia di persone, ed adesso si rifiutano di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile». C’è più di una nota di speranza, nelle parole del fondatore di “Libera”. C’è la consapevolezza ragionata che si è messo in moto un meccanismo inarrestabile, impensabile appena pochi anni fa nel Sud del padre-marito-figlio padrone.
È lo scardinamento definitivo di un modello ancestrale, don Luigi?
«C’è questo dato, che può interessare i sociologi, ma c’è ovviamente molto altro. La molla che fa scattare la ribellione è l’arrivo dei figli. È l’amore viscerale che produce la rottura: il pensiero delle creature che hanno messo al mondo le spinge a chiudere con quel mondo di sopraffazione e violenza. Lea Garofalo la conobbi a Firenze, al termine di una manifestazione di “Libera”. Si avvicinò e mi chiese aiuto, non per sé, ma per Denise, la figlia: Lea non voleva che la ‘ndrangheta le rubasse la vita come l’aveva rubata a lei. Le procurammo un avvocato, che ora assiste Denise nel processo contro i presunti assassini della madre. In fondo, che cosa mi aveva chiesto la povera Lea? Di aiutarla a riappropriarsi della propria dignità, e di esser messa nelle condizioni di far crescere la figlia in un mondo pulito».
Poi venne Maria Concetta Cacciola.
«Un’altra bella e alta donna del Sud, come Rita Atria, come la Buscemi, che sfidò i suoi fratelli nelle aule di Tribunale, come Felicia Bortolotti Impastato. Quando le uccisero il figlio Peppino disse una cosa meravigliosa: non voglio vendetta, voglio giustizia. Trasformò immediatamente il dolore in volontà di cambiamento. Ora sono loro, le donne, la punta più avanzata del risveglio antimafia che registriamo al Sud».
Uno spiraglio di luce.
«Più di uno spiraglio. C’è uno straordinario fermento sotterraneo, sicuramente frutto del grande lavoro culturale svolto negli ultimi anni nelle scuole e all’interno della società meridionale. Perché guardi, in queste donne non c’è solo la volontà di cambiare campo, c’è soprattutto il bisogno di ritrovare ciò che le mafie hanno rubato loro: la libertà, la vita, la dignità».
È un movimento importante?
«È un fiume che va progressivamente ingrossandosi. Non ci sono solo le collaboratrici e le testimoni di giustizia. Ci sono tante donne, come associazione ne seguiamo attualmente una quindicina, che fanno fagotto e basta. Scappano con i figli, decidendo di rompere per sempre con quella vita. Magari non hanno niente da offrire allo Stato, perché dei loro uomini, mariti, fratelli, padri, sanno solo che sono dei delinquenti e basta».
E chi le protegge?
«Ci sforziamo di farlo noi, e sono salti mortali. Recentemente sono stato contattato da una di loro, a cui hanno ammazzato il marito. Niente nomi. Ha una figlia piccola: mi ha detto che vuole che cresca al Nord, lontana dall’ambiente che ha deciso la morte del padre. È un problema del tutto nuovo, perché queste persone non rientrano nei parametri previsti dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione. Non hanno scorta, né sussidi economici dello Stato, non possono cambiare identità».
Come fate?
«Ci affidiamo alla rete di sindaci amici che abbiamo cercato di creare in tutta Italia. Ci danno una mano loro. Le facciamo spostare in continuazione da un comune all’altro, sempre sperando che non accada niente, perché il mondo che si sono lasciate alle spalle non dimentica: le cerca, le tampina. E loro, giustamente, hanno paura. Ma in tutte il riscatto della dignità è più forte del timore di eventuali ritorsioni».
Sarà necessario intervenire sul piano normativo?
«Basterebbe esercitare buon senso e umanità: è sufficiente la stipula di protocolli riservati, in grado di coprire la vacatio legis. Ci troviamo di fronte a persone che hanno deciso con coraggio di infrangere codici millenari, fondati sulla violenza e su un assurdo rispetto sacrale del ruolo subordinato della donna. Per le mafie, sono mine vaganti non per quello che possono rivelare ai magistrati, ma soprattutto perché simboleggiano il tramonto di un modello culturale».
8 marzo 2012, ancora streghe
di Giancarla Codrignani (“Adista” - Segni Nuovi, - n. 10, 10 marzo 2012)
A Bologna, un islamico osservante ha sentito «impuro» il proprio rapporto con una donna cristianoortodossa e ha tentato di decapitarla «come Abramo fece con Isacco» (la donna, un’u-craina di 45 anni, se la scampa, rischia di ritrovarsi paraplegica).
Non è solo un caso di fondamentalismo maniacale. In questi giorni, si apre a Palmi un processo di stupro che testimonia il persistere italico della maledizione di Eva: a San Martino di Taurianova una bambina di 12 anni (che oggi ne ha 24 e vive sotto protezione perché alcuni dei persecutori che ha denunciato erano mafiosi) per anni è stata considerata da tutto il paese la colpevole degli stupri di gruppo, delle violenze e dei ricatti subiti e anche il parroco a cui aveva tentato di confidarsi giudicava peccatrice una dodicenne violata che solo la penitenza poteva redimere. Sembra incredibile, ma nella santità delle religioni albergano tabù ancestrali che gli studi antropologici e le secolarizzazioni non sono riusciti a eliminare. Sono i tabù peggiori perché responsabili dei pregiudizi sessuofobici e misogini che, sacralizzati, hanno prodotto, nel nome di dio, discriminazioni e violenze.
Nel terzo millennio le religioni dovrebbero andare in analisi e domandarsi quanto la sessuofobia e la misoginia insidino nel profondo la loro possibilità di futuro. Il concetto di “purezza” che ha represso, nell’ipocrisia mercantile e proprietaria dei valori familiari, milioni di ragazze non è nato certo dalla scelta delle donne. Alla Lucy delle origini, mestruata e responsabile della riproduzione, non sarebbe mai venuto in mente di sentirsi sporca o colpevole. Forse percepiva già come colpa, certo non sua, la violenza che connotava la bassa qualità di molte prestazioni maschili. Tanto meno, quando si fosse inventato il diritto, avrebbe distinto i “suoi” figli in legittimi o illegittimi. Eppure si continua a credere che la mestruata faccia ingiallire le foglie e inacidire il latte; in Africa, in “quei giorni”, è confinata in capanne speciali per non contaminare le case; a Roma Paolo la voleva velata e zittita, mentre i papi, forse senza sapere perché, le hanno vietato di consacrare. Siamo ancora qui, a fare conti sul puro e l’impuro e a ripetere il capro espiatorio nel corpo di qualche altro Isacco per volere di qualche Abramo che credeva di interpretare Dio, di qualche altra Ifigenia proprietà di Agamennone padrone della sua morte.
Noi donne non siamo certo migliori degli uomini, ma nelle società maschili permangono residui di paure che neppure Darwin ha fatto sparire. I responsabili delle religioni che intendono salvare la fede per le generazioni future debbono purificarle dalle ombre del sacro antropologico: il papa cattolico deve non condannare, bensì accogliere come servizio di verità nelle scuole un’educazione sessuale che dia valore all’affettività non solo biologica delle relazioni fra i generi e al rispetto delle diverse tendenze sessuali; l’islam che fa imparare a memoria fin da piccoli le sure del Corano, si deve rendere conto che i tabù violenti producono strani effetti se un uomo si sente un dio punitore davanti a donne-Isacco; i rabbini dovrebbero fare i conti con Levy Strauss e smettere di chiedere autobus separati per genere e di insultare le bambine non velate; in Cina e in India non si deve perpetuare l’insignificanza femminile trasferendo gli infanticidi delle neonate alla “scelta” ecografica, mortale solo per le bimbe. Sono tutte scelte di morte. Per ragioni di genere.
Ma, se la responsabilità delle religioni monoteiste è particolarmente grave per l’immagine anche non raffigurata di una divinità di fatto maschile, più precisa è quella dei cristiani. Si è detto infinite volte: perché il nostro clero, ancora così pronto a chiedere cerimonie riparatrici per spettacoli che non ha visto, non pensa ad evangelizzare i maschi invece di sospettare costantemente peccati di cui non può essere giudice, condannato com’è al masochismo celibatario per paura della purezza originaria della sessualità umana?
C’è un salto logico - certamente non illogico per le donne che stanno leggendo i pezzi sull’8 marzo
ma anche la società civile persevera troppo nel negare rispetto al corpo delle donne: i tre caporali
del 33esimo reggimento Acqui indagati per lo stupro di Pizzoli (L’Aquila) sono rientrati in servizio
nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”...