Una premessa*... di civiltà
di Federico La Sala *
Al di là dell’etica edipica, generale e cattolica, e dello spirito del capitalismo: cambiamo il paradigma che finora ha governato il mondo...
L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide vuol essere un ’manifesto’ sul coraggio di servirsi della propria intelligenza, oggi - per diventare uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadine sovrane, non imprenditori e imprenditrici, sfruttatori e sfruttatrici, della propria o dell’altrui ’forza-lavoro’. Esso riprende il discorso avviato in La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica (Antonio Pellicani editore, Roma 1991) e in Della Terra, il brillante colore (Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1996) e propone una nuova prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: una ontologia chiasmatica, segnata da una relazione non più azzoppata e accecata dalla cupidigia del sapere-potere edipico-capitalistico, ma da una relazione illuminata dal sapere-potere dell’amore, umano e politico, di sé, dell’altro e dell’altra.
Al fondo di questo lavoro, come di quelli precedenti, c’è la persuasione che “il campo - tavolo da gioco, la ben rotonda sfera entro e su cui ancora stiamo a giocare” (cfr. Le “regole del gioco” dell’Occidente, in La mente accogliente..., cit., pp. 162-189), sta diventando sempre di più un campo di sterminio, e c’è la volontà di contribuire al crescente e vasto sforzo di ritrovare le ragioni e le radici del nostro stesso esistere e di riaffermare - al di là della necessità e del caso - la libera scelta per l’essere, non per il nulla.
Uscire dai cerchi di filo spinato che delimitano dappertutto il nostro presente storico è la scommessa. Come fecero i militari italiani internati nel lager tedesco di Wietzendorf (cfr. il Presepio del lager - Natale 1944, ricostruito nella Basilica di sant’Ambrogio, nel Natale 2000) e fece Enzo Paci, anch’egli in un lager tedesco [nello stesso: con Paul Ricoeur, Mikel Dufrenne, Giovannino Guareschi e Altri - fls] nel 1944 (cfr. Nicodemo o della nascita, in Della Terra..., cit., pp. 120-125), oggi non possiamo che riaprire la mente e il cuore alle domande fondamentali e cercare di dare a noi stessi e a noi stesse le risposte giuste: Come nascono i bambini? Come nascono le bambine? Qual è il principio di tutti gli esseri umani? Come si diventa esseri umani? Come io sono diventato Io? Cosa significa che io sono il figlio, la figlia, dell’UNiOne di due esseri umani?... Essi avevano cominciato a capire l’enigma antropologico dell’Egitto dei Faraoni, delle loro Piramidi e delle loro Sfingi, e il ’segreto’ di Betlemme, del presepio di Greccio (1223) e di Francesco e Chiara di Assisi.
Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. (Milano, 20.01.2001 d.C.).
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela) (Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 7-8).
___
SUL TEMA, NIN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka - da una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock, l’amico medico, che lo seguì sino alla morte).
STATUA DELLA LIBERTA’- FOTO (Wikipedia).
In riferimento ai problemi qui accennati, sul sito e in rete, si cfr.,
"Superman è senza dubbio ebreo!",
Se Bush fa la bella statuina
di Barbara Spinelli (La Stampa, 03/6/2007)
Nell’intervista a La Stampa di venerdì, George Bush ha illustrato a Maurizio Molinari e ad altri giornalisti europei la sua visione del mondo. Non è molto cambiata da quando scatenò una guerra contro Afghanistan e Iraq, subito dopo l’attentato dell’11 settembre. Quasi sei anni sono passati e l’amministrazione sembra incontaminata dalle azioni che nel frattempo ha commesso. Una storia di stasi in Afghanistan, un’operazione precipitata in conflitto fra sette musulmane in Iraq, una frattura con l’Iran che s’inasprisce senza indebolire Ahmadinejad: il bilancio della strategia Usa è rovinoso, ma Bush quasi pare non rendersene conto. Nelle sue risposte a Molinari si comporta come quelle belle statuine che vincono a condizione di mostrarsi assolutamente immobili, in posa, al momento in cui l’esaminatore si gira e riapre gli occhi.
E cos’altro è Bush quando ripete che «compito degli Stati Uniti è di promuovere la democrazia nel mondo, anche in luoghi che non sembrano troppo ospitali »; che l’America resta minacciata; che «la migliore maniera di difenderla è andare all’attacco (preventivo, ndr) prima che la minaccia si materializzi »; che, di conseguenza, «le decisioni prese in Iraq e Afghanistan sono state giuste». I rovesci vengono occultati, quindi non servono a correggersi. Come diceva il politologo Raymond Aron: «Gli uomini fanno la storia, ma non sanno la storia che fanno». Perfino sul clima la posizione di Bush è nella sostanza impietrita: la Casa Bianca ammette d’un tratto che il male esiste, ma oltre non va. Ogni Stato deve disciplinarsi come crede, ogni cifra vincolante è sgradita, l’Onu non deve interferire.
All’ombra di questa immobilità si svolgerà il vertice degli otto industrializzati a Heiligendamm in Germania, dal 6 all’8 giugno. Un vertice cruciale, perché il clima sarà al suo centro e il clima è oggi il tema che determina la possibilità o non possibilità d’un governo della globalizzazione. Un tema-test, secondo il settimanale Die Zeit: perché per frenare la degenerazione climatica occorre la partecipazione di tutti, specie degli Stati Uniti che assieme a Cina sono i principali produttori di effetto serra: «Il clima conferma la necessità di una parità mondiale di diritti e doveri». Una parità assente, se è vero che il rapporto di forze si riassume oggi nella formula: 20-10-4-1 (ogni americano può produrre annualmente 20 tonnellate di anidride carbonica, ogni europeo 10, ogni cinese 4, ogni africano 1).
Le diplomazie d’Europa e America lavorano per restaurare fra loro l’armonia, dopo il cambio politico in Francia e Inghilterra.Ma la Zeit giustamente commenta, incitando Angela Merkel a tener duro sul clima: «L’ armonia transatlantica è importante, ma non è più la misura di tutte le cose». In altre parole: il mondo è cambiato dal 2001. E non è cambiato a causa del dissidio tra America e alcuni europei,ma del drastico vanificarsi dell’egemonia globale Usa. Due guerre potenzialmente fallimentari non sono passate senza incidere radicalmente su tale supremazia, e l’ascesa dell’ Iran di Ahmadinejad è conseguenza di questo. A ciò si aggiungano altri sviluppi. L’Africa sta ritrovando forze e crescita, ma i motori della rinascita non sono gli americani bensì Cina, India, Russia, Brasile: lo scrive sull’International Herald Tribune del 2 giugno Nicky Oppenheimer, presidente dell’azienda sudafricana De Beers.
Intanto, a Teheran, i democratici implorano Washington di non intervenire. Se vuol proteggere i democratici e non screditarli l’America stia lontana, scrivono sull’Herald Tribune del 31 maggio il premio Nobel Shirin Ebadi e Muhammad Sahimi («I riformisti non credono che la democrazia possa esser esportata: la sola cosa che Washington possa fare per la democrazia è lasciarli in pace»). Con ciò mettono in causa non solo il potere militare (hard power) ma perfino il soft power ovvero il potere culturale della grande superpotenza unica. Il disastro non potrebbe esser maggiore, nonostante la bella imperturbabile statuina, e il multipolarismo non è più un’opzione: è una necessità.
Lo stesso avviene per il clima. L’avanguardia nella lotta per preservare il pianeta è l’Unione Europea - con i suoi piani obbligatori di riduzione del biossido di carbonio - e gli americani le corrono dietro. Quando Bush esige che le nazioni libere si raggruppino attorno all’agenda Usa delle libertà dice un anacronismo. Scrive ancora Die Zeit che c’è una singolare coincidenza di opinioni, tra Bush e no-global pronti a manifestare a Heiligendamm e Roma: «Ambedue credono alla leggenda secondo cui la globalizzazione è una gigantesca marcia vittoriosa del capitalismo americano».
In realtà non lo è affatto, sempre che anche l’Europa smetta il gioco delle belle statuine e sia intransigente sul clima. Se l’Europa smette il gioco e medita i fallimenti Usa potrà anche influenzare Medio Oriente, Cina e India, Iran. L’immobilità Usa impregna i rapporti del mondo con Washington: su Medio Oriente, energia, clima, terrorismo. Questo significa che su peripezie e scacchi della politicaamericana converrà pensare e discutere, con fredda solidarietà e memoria viva del passato recente.
Certo la memoria può intralciare l’agire, ma serve a capire qualcosa di non irrilevante: che certi errori tendono tragicamente a ripetersi, se non riconosciuti come tali. Il più grande consistette nell’appoggiare Bin Laden, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Il falso alleato si rivolta appena passata l’emergenza, e questa è la lezione non appresa a Washington. È quel che rischia d’accadere alle statuine: per piegare e provocare l’Iran, Bush tende a gettare se stesso e l’Occidente nella nuova guerra settaria tra sciiti e sunniti, fiancheggiando questi ultimi dopo aver favorito gli sciiti in Iraq.
Secondo le indagini del giornalista Seymour Hersch, Bush giunge sino a finanziare l’estremismo sunnita in Libano, in combutta con il premier Siniora (New Yorker, 5 marzo2007). I movimenti Fatah al- Islam e Asbat al-Ansa (legati a Al Qaeda) avrebbero ricevuto aiuti da Beirut e Washington, salvo poi rivoltarsi contro i finanziatori. Nasrallah capo di Hezbollah e Ahmadinejad in Iran sono il bersaglio, ma sistematicamente, ormai, Bush si allea con Satana per combattere il Satana di turno. L’inquietudine di Nasrallah non va sottovalutata. Il timore, che confida a Hersch, è che l’America favorisca spartizioni ed epurazioni etniche diffuse: in Iraq, Siria, Libano. L’ex responsabile della sicurezza nazionale Brzezinski dice che questa è l’attuale strategia Usa: blame and run, incolpa gli altri e scappa. Incolpa Baghdad, Teheran o l’Europa, pur di ritirarti senza ammettere errori che son tuoi.
L’Europa ha un’occasione non indifferente per farsi valere: prendendo atto che l’egemonia Usa è in frantumi, assumendo proprie responsabilità non solo sul clima ma in Israele e Gaza, in Libano, Afghanistan, Iraq, Iran. È un peccato che non abbia ancora una costituzione, che le permetta di decidere a maggioranza e di ignorare il veto dei singoli. Questo dà a chiunque - a Usa, Russia - la possibilità di sfruttare le sue divisioni. Per esser precisi, dà a Bush la possibilità di puntare su chi più avversa un’unione politica europea: in Polonia, Repubblica Ceca o Romania. I negoziati bilaterali sullo scudo missilistico vanno in questa direzione, e nella stessa direzione va l’imminente viaggio diBush in Europa.
Il presidente non va a Parigi, Londra, Madrid. Va nella Repubblica Ceca, in Polonia, Albania, Bulgaria: dunque nell’area dove nevroticamente si condensa oggi la fobia antieuropea. Poi va a Roma, il 9 giugno, per vedere il Papa ma anche per verificare, forse, se i governi italiani restano malleabili, impiegabili. Tale fu il governo Berlusconi, quando Bush l’usò per separare la vecchia Europa dei fondatori dalla nuova, alla vigilia della guerra in Iraq.
Ora c’è Prodi a Palazzo Chigi ma le pressioni non mancheranno, soprattutto sull’Afghanistan. Manca poco all’uscita di scena di Bush: il 20 gennaio 2009 avremo un nuovo presidente. Ma il futuro si prepara già oggi. Non solo quello dell’alleanza e solidarietà euro-americana: l’armonia transatlantica, in effetti, ha smesso di esser la misura di tutte le cose. Ma il futuro dei rapporti mondiali, la natura che potrà avere la globalizzazione. Questo si deciderà, tra oggi e il gennaio 2009.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Peter Szondi, Speranza nel passato. Su Walter Benjamin, Aut Aut, n. 189-190 (maggio-agosto 1982):
[...] In una libreria d’antiquariato di Zurigo è stato trovato un esemplare del libro, proveniente dalle cose lasciate dalla sorella di Benjamin, sul quale era stata scritta la seguente dedica: “Quest’arca costruita secondo il modello ebraico, per Dora - Da Walter. Novembre 1936” 37. Che cosa doveva essere salvato per mezzo del libro? A che cosa pensava Benjamin quando giustificava il suo rifiuto di emigrare oltre Oceano affermando che v’erano “in Europa posizioni da difendere” 38? L’azione di salvataggio può essere intesa soltanto a partire da quella concezione benjaminiano della storia che nell’Infanzia berlinese è divenuta poesia. È certamente lecito riferire ciò che sta scritto nelle Tesi di filosofia della storia all’arca degli Uomini tedeschi: “Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere” 39. Benjamin non costruì l’arca solo per i morti, la costruì in grazia della promessa che egli aveva trovato nella sua propria vita passata. Giacché la sua arca non doveva salvare soltanto se stessa. Essa partì nella speranza di poter raggiungere anche quelli che avevano considerato come una feconda inondazione quello che in realtà era il diluvio universale.
fls
STORIA E LETTERATURA E ARTE:
"GREGOR SAMSA" E IL "QUADRO DELLA DAMA CON LA PELLICCIA", DANTE ALIGHIERI E WILLIAM SHAKESPEARE CON #KAFKA, A #PRAGA, PER CERCARE LA VIA DI #USCITA DALL’INFERNALE "STATO DI DANIMARCA" :
LA #METAMORFOSI (DELLA #FAMIGLIA): TOLTO IL #QUADRO (DELLA "DAMA CON PELLICCIA"), LA #STANZA DIVENTA UNA #TANA, E "LA FAMIGLIA CHE UCCIDE", "FELICE E CONTENTA", CAMBIA CASA: "[...] Quando la sorella tolse il #quadro dalla #stanza non annientò forse, senza volerlo, l’ultimo residuo di dipendenza dall’umanità di Gregor Samsa il quale poté vivere la sua autonomia e la sua diversità soltanto nelle spoglie di un insetto destinato a soccombere?" (A. M. Iacono, cit.).
NOTE:
Kafka cent’anni ("Doppiozero").
Kafka: la diversità e la fuga
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 19 Agosto 2024)
Nel racconto Una relazione accademica un’ex scimmia, da cinque anni divenuta uomo, racconta la storia della sua umanizzazione, dal momento in cui fu catturata e ferita al momento in cui imparò a stringere la mano e a parlare e ad essere dunque accettata nella nobile comunità degli umani. Dopo la cattura e il ferimento, l’ex scimmia si svegliò in una gabbia. Questa era troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduti. "Si ritiene vantaggioso, osserva l’ex scimmia, custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così". Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l’ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L’impossibilità di una via d’uscita. L’ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma appunto di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta, "o sarei morto presto o, se fossi riuscito a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare. A quel periodaccio sopravvissi". Sopravvivendo non trovava vie d’uscita. E poiché non poteva vivere senza almeno una via d’uscita, decise di fare l’unica cosa che a rigor di logica poteva fare: smettere di essere una scimmia e diventare uomo.
In una situazione come questa descritta da Kafka, la ricerca di una via d’uscita può essere obbligata per la sopravvivenza ma il passaggio può comportare il mimetizzarsi, l’accettare l’assimilazione all’altro, alle sue regole, ai suoi costumi, alle sue leggi, il farsi colonizzare, insomma una prigionia. La scimmia che si fa ammaestrare e diventa uomo rappresenta la più straordinaria e beffarda caricatura dello stato di libertà. Essa in realtà esprime una metamorfosi che non conduce affatto verso l’autonomia, ma dentro il mondo degli altri, dei carcerieri della scimmia, i quali hanno annichilito la sua alterità, rendendola così disponibile ad essere ammaestrata. È un’uscita senza scelta: o scimmia e prigioniera o morta, oppure uomo e libero, ma non autonomo. Del resto, in un mondo di uomini, chi potrebbe mai dubitare che essere uomo non sia meglio che essere scimmia? Come ci ha ricordato Nietzsche, andate a dire alla zanzara che non è il centro del mondo! Dal punto di vista di un uomo, quale migliore aspirazione per una scimmia che diventare uomo? Se, per ottenere la libertà, si è costretti ad essere assimilati, a mimetizzarsi, questa costrizione è il prezzo che inevitabilmente si paga per una libertà che non può essere affiancata dall’autonomia. Anche le lotte per la libertà possono creare costrizione e impedire l’autonomia.
Nel breve racconto di Kafka che Max Brod intitolò La partenza, mentre il protagonista sta sellando il cavallo per la partenza, il servo gli chiede: “Dove va il signore con il suo cavallo?”. “Non lo so”, dissi io, “purché sia via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta”. “Dunque conosci la tua meta”. “Sì”, replicai,“l’ho detto, no? Via-di-qua... ecco la mia meta”.
Per il protagonista mettersi alle spalle il luogo della partenza diventa dunque esso stesso una meta. A dire il vero, questa strana meta non sembra essere molto diversa dalla fuga. Cosa può far sì che una simile meta non si identifichi necessariamente con una fuga? Il fatto che il "Via-di-qua", il mettersi alle spalle il luogo della partenza diventi non la meta stessa, ma un momento di una meta che ancora non si conosce. Non si tratta della medesima cosa. Una differenza percorre la linea di confine tra la ricerca di una via d’uscita che assume i tratti caratteristici di una fuga e la ricerca di una uscita che invece assume i tratti caratteristici dell’autonomia. Nel primo caso la scelta è, per così dire, obbligata, nel secondo caso è, per così dire, voluta. Di solito si fugge per sopravvivere, quando si è prigionieri di altri o di sé stessi. La ricerca dell’autonomia sembra invece avere più a che fare con un atto di volontà che si accompagna a un processo di separazione e di isolamento dagli altri. L’autonomia, nella nostra cultura, tende a identificarsi con quel risultato della separazione e dell’isolamento che per solito chiamiamo indipendenza.
Ma le cose stanno davvero così? È davvero così marcata, chiara ed evidente la differenza tra fuga e autonomia, tra la disperata ricerca di una via d’uscita, come quella attuata dagli animali protagonisti di moltissimi racconti di Kafka, la cui sopravvivenza è affidata al loro nascondersi nel buio di una tana o alla loro abilità mimetica, oppure come quella di prigionieri in un carcere o in un lager, e l’uscita dalla minorità che Kant descrive come un volontario e consapevole passaggio alla luce, un processo di rischiaramento? E se invece la differenza fosse più ambigua e sottile di quel che sembra? E se il problema stesse proprio nel confine che, invece di separare il buio della sopravvivenza dalla luce dell’autonomia, li mette in comunicazione diventando esso stesso linea di una cornice, luogo di un passaggio che rivendica un proprio senso autonomo? In fondo, quando Robinson Crusoe si imbarcò per poi, dopo vari viaggi, naufragare nell’isola deserta e lì edificare i tratti dell’individuo borghese, maschio, bianco, adulto, isolato e indipendente, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, lo fece disubbidendo al padre. Fu una fuga? Quale è il confine tra la fuga dal padre e la ricerca della propria autonomia? E inoltre, quella Bibbia e quel fucile, insieme a tutti gli altri oggetti che egli recuperò dal relitto, non sono forse, come già aveva rilevato Marx, i testimoni silenziosi della sua dipendenza da quel mondo storico-sociale da cui era stato isolato a causa del naufragio?
Quando la sorella tolse il quadro dalla stanza non annientò forse, senza volerlo, l’ultimo residuo di dipendenza dall’umanità di Gregor Samsa il quale poté vivere la sua autonomia e la sua diversità soltanto nelle spoglie di un insetto destinato a soccombere?
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
Una ipotesi di ricerca...
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
Conversazioni con Kafka, di Gustav Janouch
Portai a Kafka alcuni libri nuovi della libreria Neugebauer. Quando sfogliò un volume con i disegni di George Grosz, disse: «Questa è la classica raffigurazione del capitalismo; un uomo grasso con il cilindro che siede sul denaro dei poveri».
«Ma è solo un’allegoria», osservai.
Franz Kafka corrugò le sopracciglia. «Lei dice ’solo’! L’allegoria, nel profondo degli uomini, diventa la rappresentazione della realtà, e questo è naturalmente falso. Ma il travisamento è già qui.»
«Allora, secondo lei, dottore, l’illustrazione è sbagliata.»
«Non intendo proprio questo. E’ giusta, ed è sbagliata. E’ giusta solo da un certo punto di vista, è sbagliata nella misura in cui dichiara che la visione parziale è una visione d’insieme. Che l’uomo grasso sia il capitalismo non è del tutto esatto. L’uomo grasso domina il povero all’interno di un determinato sistema. Ma non è il sistema stesso. Non è neanche colui che lo domina. Anzi, l’uomo grasso porta egli stesso delle catene che non mostra nell’illustrazione. Il disegno è incompleto. Per questo non è un buon disegno. Il capitalismo è un sistema di dipendenze: dall’interno verso l’esterno, dall’esterno verso l’interno, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è uno stato del mondo e dell’anima. »
«Lei allora come lo rappresenterebbe?»
Il dottor Kafka alzò le spalle e sorrise tristemente.
«Non lo so. Noi ebrei non siamo pittori. Non sappiamo rappresentare statisticamente le cose. Le vediamo sempre fluire, muoversi, mutare, siamo narratori.»
L’entrata di un impiegato interruppe la nostra conversazione.
Quando il visitatore importuno lasciò l’ufficio, avrei voluto riprendere l’interessante argomento della conversazione che avevamo appena iniziato Ma Kafka disse, per concludere: «Lasciamo perdere. Un narratore non può parlare di ciò che narra. Narra o tace. Questo è tutto. Il suo mondo comincia a risuonare in lui oppure affoga nel silenzio. Il mio mondo si sta smorzando. Sono completamente bruciato.»
* Cfr. Conversazioni con Kafka, di Gustav Janouch.
LA CRITICA DEL "CAPITALISMO COME RELIGIONE" (FRANZ KAFKA, WALTER BENJAMIN, GEORGE GROSZ).
STORIA E MEMORIA. Nel 1944, nello stesso anno dei militari italiani internati nel Lager di Wietzendorf, George Grosz, nel periodo americano, realizza il quadro "Caino o Hitler all’inferno".
ARTE E LETTERATURA. KAFKA Intorno al 1920, nel commentare un volume con i disegni di Grosz, esprime una opinione precisa sui limiti della teoria del rispecchiamento, della rappresentazione artistica: "Il capitalismo è un sistema di dipendenze: dall’interno verso l’esterno, dall’esterno verso l’interno, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è uno stato del mondo e dell’anima." (cfr. G. Janouch, "Colloqui con Kafka", in F. Kafka, «Confessioni e diari», Milano 1972). *
"THE TIME IS OUT OF JOINT" (Shakespeare). Come a dire, ciò di cui "invito" a prendere atto non è tanto il cosiddetto "tramonto dell’#Occidente" (di cui parla Spengler), ma è qualcosa di più radicale, di globale (riguarda tutta la società) ed epocale (riguarda un lungo periodo storico, quasi una "preistoria"); è, per dirla in "sintesi", un orizzonte spazio-temporale che tocca tutto e tutto il genere umano: è un problema biblico, di #caduta.
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (#Freud, 1929). Alla luce della considerazione di Kafka (una traccia di riflessione sul "capitalismo come religione" molto prossima a quella che svilupperà di lì a poco, quasi in contemporanea, Walter Benjamin), l’opera di Grosz del 1944 mostra tutto il suo lato infernale e denuncia il più che millenario #letargo (v. Dante Alighieri) in cui continuiamo a vivere e sognare: il nostro Padre e il nostro Fratello è Caino, il Mentitore, e, Giocasta è la nostra Madre e la nostra Sposa, come Edipo (v. Sigmund Freud).
* La cit. è anche presente nel mio lavoro: si cfr. Federico LA Sala, "Della Terra, brillante colore", 2013, p. 94).
MEMORIA E ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ:
DANTE ALIGHIERI, PRIMO LEVI, HANNA HARENDT, ED ENZO PACI.
"IL CANTO DI ULISSE" E IL "PIKOLO" SEGRETO DELLA STORIA...
COME UNO SQUILLO DI TROMBA. L’Ulisse di Dante ad Auschwitz svela a Primo Levi il Pikolo segreto della storia "che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie".
HANNAH ARENDT E IL PROBLEMA DELL’INIZIO, DELLA NASCITA: "Nella grande opera sulla Città di Dio Agostino enuncia, senza però darne spiegazione, ciò che avrebbe potuto divenire il sostegno ontologico di una filosofia della politica autenticamente romana o virgiliana. A suo dire, come sappiamo, Dio creò l’uomo come creatura temporale, homo temporalis; il tempo e l’uomo furono creati insieme, e tale temporalità era confermata dal fatto che ogni uomo deve la sua vita non semplicemente alla moltiplicazione della specie, ma alla nascita, l’ingresso di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo. Lo scopo della creazione dell’uomo fu di rendere possibile un inizio: «Acciocché vi fosse un inizio, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno», «Initium ... ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» [Agostino, De civitate Dei, libro XII, cap. 21]. La capacità stessa di cominciamento ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita" (H. ARENDT, La vita della mente, Bologna 1987).
UN PRESEPIO NEL LAGER. Nel Natale 1944, Enzo Paci con vari militari (tra cui Paul Ricoeur) prigionieri nel Lager di Wietzendorf, riflette su "Nicodemo o della nascita").
Federico La Sala
Il mistero rivelato /8.
I sette tempi della bestia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
I nostri atti di giustizia non sono il prezzo della nostra salvezza, sono solo espressione di una legge di reciprocità. L’interpretazione del sogno del grande albero si conclude con un consiglio di Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Daniele 4,24-25). La conversione del re e le sue opere di misericordia non sono la condizione per essere ristabilito un domani nel suo regno. Il consiglio di Daniele ci dice comunque che è conveniente convertirsi e fare atti di giustizia e di misericordia verso gli afflitti. È bene tornare giusti e misericordiosi. Potremmo non farlo, e Dio ci amerebbe lo stesso, perché se non lo facesse sarebbe peggiore di noi che amiamo i nostri figli anche quando sono cattivi e ingrati. Ma possiamo anche decidere di essere misericordiosi, possiamo desiderare di somigliare a Dio. Lo possiamo fare proprio perché siamo liberi, perché siamo certi di essere amati anche se non lo facessimo. Sta in questo incontro di eccedenze, in questo dialogo di libertà d’amore, il cuore della Bibbia e, forse, il mistero del suo Dio. Ci vogliono una intera vita e una infinita mitezza per riuscire a mantenere i nostri sguardi al livello degli occhi di Dio, e dentro questo incontro alto di pupille imparare che siamo più belli dei nostri meriti e meno brutti delle nostre colpe.
Terminata la spiegazione del sogno, il libro ci dice che la profezia contenuta in quella visione si compie: «Dodici mesi dopo, passeggiando sopra la terrazza del palazzo reale di Babilonia, il re prese a dire: "Non è questa la grande Babilonia che io ho costruito come reggia con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?". Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: "A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto!"» (4,26-28). Questo pensiero di Nabucodònosor è estremamente importante, una chiave di lettura di questo complesso e bellissimo capitolo. Possiamo immaginare il re mentre passeggia tra i giardini pensili. A un certo punto un pensiero cresce, si stacca da tutti gli altri, si impone nella sua anima fino a diventare il pensiero dominante: ho realizzato davvero qualcosa di straordinario, e l’ho fatto solo "con la forza della mia potenza".
Un sentimento opposto a quello che Italo Calvino attribuiva a Kublai Khan: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato (...); un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri (...); è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma» (Le città invisibili).
Nabucodonosor si trova invece in tutt’altro stato d’animo. È al culmine del proprio successo. Lo vede ovunque, ed è convinto di essere il principale, se non unico, artefice di quell’opera straordinaria. I greci avevano una parola precisa per descrivere questo sentimento del re: hybris, una combinazione di orgoglio, tracotanza e superbia.
Il libro di Daniele ci dice poi che ogni potere assoluto è ateo, anche quando è benedetto da sacerdoti e l’incoronazione avviene nel tempio, perché il re finisce per non riconoscere che l’origine dei suoi successi e della gloria è al di fuori e sopra di lui. Ed ecco allora il senso della pedagogia della sconfitta e della catastrofe, che arriva a ricordare ai re che non sono dèi e ai loro popoli di non trattarli da divinità. Tutto questo la Bibbia lo imparò durante la grande sconfitta dell’esilio babilonese, e non lo ha dimenticato più. Ma oggi non sono sufficienti neanche le catastrofi a farci comprendere la vera natura idolatrica di questi poteri: e i capi continuano indisturbati a sentirsi dio e noi a considerarli divinità.
La storia conosce una profonda legge dell’evoluzione e del declino dei popoli e delle persone. Il suo centro è la gestione di quel tipico sentimento che si era impossessato del re di Babilonia nel suo giardino. Quando una vita, una comunità, cresce e si sviluppa molto, è inevitabile che un giorno arrivi il pensiero dominante di Nabucodònosor. In un primo tempo, le persone più oneste e religiose riescono a pensare che loro sono soltanto degli strumenti, delle "matite" nelle mani di Qualcun altro che è il vero autore del grande trionfo; ma, quasi sempre, in un altro giorno arriva puntuale il momento quando i successi diventano così sbalorditivi da convincere i "re" che senza di loro tutto quell’impero non ci sarebbe stato, e ne diventano i padroni. Quasi nessun dittatore nasce dittatore, ci diventa un giorno passeggiando nel giardino.
Le storie individuali e collettive di successi straordinari che sono state capaci di durare nel tempo, sono quelle, rarissime, che non sono cadute in questa trappola tremenda, che non sono state colpite da questa "maledizione dell’abbondanza"; perché nel momento stesso in cui quel pensiero seducente e tremendo prende possesso della mente e del cuore, inizia la morte delle persone e delle comunità: "in quel momento stesso ... il regno ti è tolto". Muoiono perché il passato si divora il futuro. Lo studioso inizia a dedicare le proprie energie per promuovere i libri di ieri e non più per studiare per scrivere quello migliore di domani, a frequentare soltanto i luoghi del consenso e degli applausi e a fuggire le critiche, a iniziare a sfogliare i libri degli altri dall’ultima pagina per cercare il proprio nome nella bibliografia.
Nelle esperienze collettive i danni sono poi ancora maggiori e più gravi. L’illusione del grande impero si diffonde come peste tra tutti, si auto-rafforza nei dialoghi, diventa infrangibile e infalsificabile. Le voci critiche vengono taciute o, più facilmente, si auto-zittiscono e, magari in buona fede, la celebrazione del Dio della comunità lascia il posto alla auto-celebrazione della comunità diventata dio. Le poche storie di grande successo che riescono a non essere eliminate dal proprio successo sono quelle dove i loro protagonisti sono capaci di una sistematica politica di auto-sovversione, che riescono a curare questa sindrome dello stra-successo quando ancora è solo incipiente. Si fermano prima della soglia critica, tornano poveri e piccoli prima di essere diventati troppo grandi e ricchi per riuscire a farlo, smontano i palazzi e tornano costruttori di tende.
Quando tutto ciò non accade, inevitabile c’è il compimento della parola pronunciata dal cielo sul re: «Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli"» (4,30). Qui è molto probabile che il testo attribuisca a Nabucodònosor un episodio della vita di suo genero Nabonide, l’ultimo re di Babilonia (vedi la preghiera in esergo). È comunque straordinaria la forza narrativa di questi versi. Nello spazio di un mattino il re si ritrova trasformato da sovrano più grande della terra in essere immondo simile ai mostri dell’Eneide o della Divina commedia.
Da semi-dio a bestia. Quante volte lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo. La cattiva gestione del grande successo produce sovente queste metamorfosi: ci si addormenta nel letto di sempre e ci si sveglia scarafaggio, senza sapere perché. C’è bisogno di "sette tempi" per sperare di capirlo, e a volte non bastano.
Importante notare che a Nabucodònosor il sogno viene spiegato dodici mesi prima del suo avveramento. Sembra che il re avesse avuto un anno, un intero tempo, per cambiare condotta ed evitare la rovina. Ma è una falsa percezione. In realtà, neanche la presenza di profeti veri riesce a salvare gli imperi dal loro declino, perché quando i sogni tremendi arrivano dentro le notti dei re, il declino è già iniziato da tempo, il punto di non-ritorno è stato già superato. -La profezia è autentico dono non perché rivela il futuro, ma perché svela ciò che è già presente sebbene i protagonisti non ne abbiano ancora coscienza. Quel pensiero della passeggiata era già padrone del cuore del re, aveva già occupato tutta la sua vita, molte volte in molti tempi. I profeti non vengono ascoltati dalle loro comunità perché svelano ciò che le comunità sono già diventate, e non vogliono saperlo. Il profeta vede "in sogno" i segni della metamorfosi prima che essa si compia: e così vede già bestie dove tutti gli altri vedono ancora uomini e donne. E nessuno li prende sul serio.
Poi arriva il giorno in cui la metamorfosi si attua davvero e tutti vedono, dentro e fuori la comunità, che si è diventati davvero bestie. Lì, qualche volta, ci accorgiamo che eravamo usciti da molto tempo dal consorzio umano, che ci comportavamo già da lupi mannari e licantropi, e senza saperlo abbiamo divorato molte prede mentre costruivamo il nostro successo infinito. Il tempo della bestia è sempre un tempo tremendo. È un tempo lungo: sette tempi. Ci sentiamo circondati da fiere e ci sentiamo animali anche noi: abbiamo paura, proviamo molta rabbia e un infinito rimorso. Vorremmo scappare, ma dobbiamo restare, perché la sola cosa saggia che possiamo fare è attendere la fine dei "sette tempi". Chiediamo agli alberi di insegnarci la loro mansuetudine, alla terra la sua humilitas, diventiamo mendicanti di umanità verso piante, sassi, stelle, e con Giobbe impariamo il linguaggio dei vermi. E finalmente capiamo i Salmi, iniziamo a pregare dopo aver detto tante preghiere. Ci parlano Geremia e Osea, il canto del servo di YHWH diventa il nostro unico canto. È il tempo del dolore immenso, dell’umiliazione. Si può anche morire, alcuni muoiono davvero. Ma si può anche decidere di continuare a vivere: qualcuno ci riesce, qualche volta anche la comunità.
La Bibbia ci dona infatti una grande buona novella: anche i sette tempi della bestia possono essere un tempo di salvezza: «Ma finito quel tempo io, Nabucodònosor, alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo» (4,32). Al termine dei sette tempi, il re-bestia alza di nuovo gli occhi. È nel libro di Daniele dove la Bibbia iniziò ad un usare la parola "cielo" come sinonimo di Dio.
La seconda metamorfosi sta tutta in quel grugno che ritorna volto mentre si torce in cerca di stelle.
Milena, Dora e le altre: le donne di Kafka, una storia da romanzo
Intelligenti, colte, economicamente indipendenti, sfidarono i tormenti di uno dei più grandi autori di ogni tempo. Ora le racconta "Un cuore al buio. Kafka" scritto a quattro mani da Manuela Cattaneo della Volta e Livio Sposito, che qui spiegano come si sono documentati per recuperarne la memoria dimenticata
di Vera Mantengoli (la Repubblica, 17 Febbraio 2022)
Sembrava sempre sul punto di sposarle, ma ogni volta lo struggimento esistenziale lo trascinava in un abisso di angosce e Franz Kafka si ritirava nel buio del suo cuore. Loro, sensibili, colte ed economicamente indipendenti, pur di entrare nella vita reale dello scrittore lo attesero anche anni sperando che superasse le sue ossessioni, invano.
Delle cinque donne più conosciute che lo amarono soltanto Dora Diamant visse con lui quando era già malato. Se ne prese cura senza chiedere nulla, fino al 1924, quando morì di tubercolosi a Vienna, a 41 anni. Le altre - Felice Bauer, Grete Bloch, Julie Wohryzek, Milena Jesenska - vennero irretite dall’intelligenza di Kafka, dai suoi occhi profondi, dalle sue lettere vibranti di emozioni e perfino dalle sue nevrosi, ma gli incontri effettivi furono saltuari e a volte deludenti. Le storie di queste donne che sfidarono i tormenti di uno dei più grandi autori di ogni tempo sono raccontate nel libro Un cuore al buio. Kafka, in libreria per i tipi di Francesco Brioschi Editore, scritto a quattro mani da Manuela Cattaneo della Volta e Livio Sposito.
"L’idea è nata durante una mia permanenza a Boston, a casa di amici" racconta Cattaneo della Volta. "Stranamente non avevo un libro con me e, guardando tra i loro scaffali, ne ho trovato uno di poche pagine, Kafka Lovers, con la cronologia di tutti gli amori di Kafka e l’ho divorato. Quando l’ho finito ho pensato che si parlava solo di lui e non di quelle donne che si erano totalmente date e annullate per lui. Così ho iniziato a volerne sapere di più anche perché un anno prima avevo visitato il museo di Kafka a Praga e continuavo a pensarci". L’autrice del romanzo Buon Compleanno, edito da Sonzogno, torna in Italia e inizia a documentarsi riprendendo in mano i capolavori dell’autore, inclusi i diari. Per immergersi nel groviglio di emozioni kafkiane coinvolge una conoscenza di lunga data, il giornalista Sposito, a sua volta autore di Il mondo dall’alto e Mal d’avventura, editi rispettivamente da Sperling e Kupfer.
Nato da una ricca documentazione riportata nella bibliografia, il libro dà voce alle cinque donne, intitolando i capitoli con il loro nome preceduto dallo scritto che Kafka realizzò durante quella relazione. Dalla lettera ai monologhi, passando per il racconto di chi le conobbe, ogni innamorata ha il suo spazio e il suo stile, basati sulla loro biografia. "Kafka aveva bisogno di essere innamorato per produrre" prosegue Sposito. "L’unico modo per sbloccare il suo tormento era l’esaltazione che gli veniva dall’idea di essere innamorato perché poi, quando queste donne gli chiedevano di incontrarsi, lui si sottraeva con mille scuse. Non era capace di liberarsi dalle sue nevrosi o aveva paura che senza le sue ossessioni non sarebbe stato in grado di scrivere, come invece avveniva quando manteneva le relazioni a distanza. Per esempio, la storia con Felice Bauer durò cinque anni, ma ebbero soltanto tre incontri sessuali e si videro poche volte". Di queste cinque donne, soltanto Bauer e Diamant muoiono di morte naturale, le altre vengono deportate nei campi di concentramento.
La prima voce a raccontare i sentimenti per lo scrittore è la stenografa Felice Bauer, il cui carattere emerge dalle 600 missive che sono arrivate a noi firmate da Kafka dal 1912 al 1917, negli anni in cui le dedicò La condanna, scritto in una notte dopo averle inviato la prima lettera. Poi è la volta di Grete Bloch, la fiamma alla quale scriveva mentre prendeva forma Il processo. Amica di Bauer, Bloch conosce Kafka e viene risucchiata in un triangolo diabolico: inizialmente dovrà spiegare a Bauer perché lui la sta lasciando, ma poi anche lei finirà vittima del suo fascino. Segretaria e traduttrice, la donna cercherà di sfuggire alle leggi razziali, ma finirà prima internata a San Donato Val di Comino, poi deportata. Con Julie Wohryzek la storia va diversamente. Lei, la cui infatuazione porterà alla stesura di Lettera al padre, è cattolica e molto più giovane di Kafka. Si vedono, fanno lunghe passeggiate e hanno dei rapporti sessuali, ma ben presto lui (come al solito) sta già pensando a un’altra, alla giornalista Milena Jesenska, tra le protagoniste più intense del libro. Nel gelido campo di concentramento di Ravensbruck Margarete Buber Neumann incontra infatti di nascosto Jesenska. In quei momenti rubati alla morte, la giornalista le racconterà il suo grande amore per Kafka, durato cinque anni, fino al 1920. Ne nascerà il libro Milena, l’amica di Kafka, scritto dalla sopravvissuta Buber che qui prende voce per ricordare quegli incontri segreti, circondati da filo spinato, nel capitolo I diari. Infine c’è Dora Diamant sulla cui lapide si legge: "Chi ha conosciuto Dora sa cosa vuol dire amore" a memoria del suo carattere generoso e altruista che permise a Kafka di scrivere Il Castello. Sarà l’unica dalla quale Kafka si lascerà curare, come racconta Dora nel suo (ricostruito) monologo di attrice.
"Inizialmente vedevo Kafka soltanto come un narciso, uno che fa impazzire le donne riempiendole di attenzioni per poi sottrarsi, quello che oggi si chiama ghosting per capirci" spiega la scrittrice Cattaneo della Volta. "Il confronto con Livio mi è servito perché avevamo opinioni spesso diverse e questo aspetto è stato il punto di forza del libro. Kafka ne ha combinate di ogni. Per una donna è difficile non immedesimarsi e non vivere con loro questa sofferenza, ma dopo discussioni e discussioni, alla fine anch’io ho perdonato Kafka. Non ce la faceva davvero a lasciarsi andare e sembra proiettare nell’indipendenza di queste donne il suo desiderio di essere libero. Pur sottraendosi, cercava sempre di spronare le sue amate a realizzare i loro sogni, vedi Dora Diamant che, dopo averlo conosciuto, si dedicò finalmente al teatro. Inoltre tutte loro si sentirono amate e, anche se poi si sposarono o ebbero altri uomini, nessuna riuscì davvero a dimenticarlo".
Imprigionato dalle angosce, irretito nelle sue ossessioni, soffocato dall’autorità di un padre padrone, Kafka nelle lettere era un uomo presente e attento, ma davanti alla realtà dell’incontro fuggiva. "Per la prima volta mi chiede alla fine di potermi baciare. Soltanto con l’immaginazione, naturalmente. Perché non nella realtà?" si domanda Felice, per poi però sentirsi gratificata dal fatto che grazie a lei lui sta scrivendo un importante racconto.
"Queste donne soffrivano perché non riuscivano mai a concretizzare nulla con lui, ma nello stesso tempo si sentivano importanti perché capivano che con loro Kafka scriveva e, quindi, si realizzava" proseguono gli autori. "Il rapporto con ognuna di loro è estremamente complesso perché sono tutte indipendenti e forti. Si sacrificano, ma non si spezzano. Sembrano soccombere, ma poi riescono a liberarsi di lui e diventano ancora più solide, come Felice o Milena. Lui era intelligente, brillante e seduttivo, ma altrettanto evanescente, eppure considerarlo maschilista sarebbe davvero riduttivo".
Felice, Grete, Julie, Milena e Dora incarnano il desiderio di poter entrare nell’anima dell’altro, ma anche la sofferenza della consapevolezza del limite e la speranza di superarlo. Le donne che hanno amato Kafka non lo giudicano, lo ascoltano. Con loro ci si ritrova in un attimo laggiù, nel buio più buio, tra le struggenti viscere del suo cuore, palpitante, ma inafferrabile.
Franz Kafka e la bambola viaggiatrice: una storia vera, che spiega l’amore ai bambini
di Dominella Trunfio (greenMe, 2 Aprile 2021)
Un anno prima della sua morte, lo scrittore Franz Kafka visse un’esperienza davvero insolita. Mentre passeggiava al parco Steglitz com’era solito fare tutti i giorni, incontrò una bambina che piangeva disperata: aveva perso la sua bambola.
Elsi, questo il nome della bambina, era in lacrime, voleva la sua Brigida persa non si sa dove. Kafka rimase molto colpito dal modo in cui la piccola si disperava e dall’intensità del suo dolore, così si offrì di aiutarla a ritrovarla. Purtroppo le cose non andarono come sperava, la bambola non fu trovata, ma lui si inventò un modo singolare per consolare la bambina. In segreto scrisse una lettera e disse alla piccola che era proprio da parte della sua amata bambola.Brigida era partita per un viaggio, ma lei era stata fortunata, perché lui era il postino delle bambole.
“Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure”, diceva la lettera. Seguiva poi un bellissimo racconto di avventure immaginarie, di viaggi e di fantasia. Elsi leggendo quelle parole suggestive che la rimandavano a luoghi lontani, si sentì immediatamente consolata. Alla fine lo scrittore le regalò una nuova bambola, chiaramente diversa da quella perduta. Ma il suo aspetto diverso venne giustificato da un biglietto: “I miei viaggi mi hanno cambiata”.
Qualche anno dopo, la bambina trovò un biglietto proprio dentro la sua bambola che diceva: ‘ogni cosa che tu ami è molto probabile che tu la perderai, però alla fine l’amore muterà in una forma diversa’.
Questa storia talmente bella da non sembrare vera, fu raccontata da Dora Diamant, la compagna di Kafka, poi diventata un libro ‘Kafka e la bambola viaggiatrice’ e una trasposizione televisiva e racchiude un ponte di incontro tra il mondo degli adulti e quello dei bambini.
Proprio nelle pagine del libro di Jordi Sierra i Fabra si legge il racconto di Dora: *
“Quando eravamo a Berlino, Kafka andava spesso allo Steglitzer Park. Talvolta lo accompagnavo. Un giorno incontrammo una bambina, che piangeva e sembrava disperata. Le parlammo. Franz le chiese che cosa le fosse successo e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola. Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina era un po’ diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. La bambina, incuriosita, aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni, e Franz se ne tornò subito a casa, per scrivere la lettera.
Si mise al lavoro in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera. Era nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania o stava anche solo scrivendo a qualcuno. Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione. Il giorno successivo portò la lettera alla bambina, che l’attendeva al parco. La bambola spiegava che ne aveva abbastanza di vivere sempre nella stessa famiglia ed esprimeva il desiderio di cambiare un po’ aria, in una parola, voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina, cui per altro voleva molto bene. Prometteva tuttavia di scrivere ogni giorno - e Kafka scrisse effettivamente una lettera ogni giorno, raccontando di sempre nuove avventure, le quali, seguendo il particolare ritmo vitale delle bambole, si snodavano in modo rapidissimo.
Dopo alcuni giorni la bimba aveva scordato la perdita reale del suo giocattolo e pensava solo e semplicemente alla finzione che le era stata offerta come sostituto. Franz scrisse ogni frase di quella sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile: era cresciuta, era andata a scuola, aveva conosciuto altre persone. Rassicurava sempre la bimba del suo amore, ma alludeva anche a complicazioni della sua vita, ad altri doveri e altri interessi che, al momento, non le permettevano di riprendere la vita in comune. La piccola veniva pregata di riflettere sulla cosa e veniva così preparata all’inevitabile rinuncia.
Il gioco durò come minimo tre settimane. Franz aveva una paura terribile al pensiero di come avrebbe potuto finire il tutto. Perché la fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Cercò a lungo e decise alla fine di far sposare la bambola. Descrisse dapprima il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio, poi in ogni dettaglio la casa dei giovani sposi: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”. Franz aveva risolto il piccolo conflitto di un bambino attraverso l’arte, attraverso il mezzo più efficace di cui disponeva personalmente per riportare ordine nel mondo.”
Fonte: Libro Kafka e la bambola viaggiatrice.
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA... *
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi, proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” ("la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
*
Joe il cattolico nel paese dilaniato
di Ettore Bucci (Jacobin, 22 Gennaio 2021)
Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni degli afrodiscendenti. Invece, analizzando la sua cerimonia di insediamento, si capisce che Biden adopera lemmi religiosi per addomesticare conflitti irrisolvibili
Il rapporto tra ritualità politica, retorica pubblica e fede negli Stati uniti è studiato da anni, da diversi punti di vista e canali interpretativi. Sin dal sermone A Model of Christian Charity di John Winthrop (1630), con una prevalenza di concetti desunti dalla Bibbia e dalle confessioni cristiane, il discorso pubblico negli States trova nella fede forme di legittimazione e strumenti di lotta. Solo in ambito cattolico, su fede, pluralismo costituzionale e politica è recentissima la nuova edizione del saggio del 1960 del gesuita John Courtney Murray, We Hold These Truths (con nota introduttiva di Stefano Ceccanti, edito Morcelliana), pubblicato durante la campagna di John F. Kennedy, in pieno pontificato giovanneo.
Questo contributo indaga su parole e simboli di sicura o soffusa matrice cattolica che hanno segnato l’Inauguration Day del presidente Joseph R. Biden jr, ricavando, da questi, possibili condotte. Sul rapporto tra il Presidente, i cui slogan più diffusi sono stati i significativi Keep the Faith! e Battle for the Soul of the Nation, e la fede cattolica segnaliamo Joe Biden and Catholicism in the United States di Massimo Faggioli, edito da Bayard. Senza sovradimensionare un uso non inedito del religioso nella ritualità politica americana rispetto a scelte economiche o a programmi della Casa Bianca, la tesi di fondo è che determinati messaggi e linee di tendenza siano veicolati dall’Inauguration Day in preghiere, gesti, riferimenti. Inserimenti di atti religiosi nell’insediamento del Capo di Stato sono il prodotto di prassi sedimentate nel Novecento: dal 1933, a eccezione di Nixon, il President-elect partecipa a un Morning Worship Service privato secondo il rito della sua Chiesa; all’insediamento, dal 1937 in poi, uno o più ministri proclamano pubblicamente un’articolata invocazione a beneficio del nuovo Presidente; lo stesso giorno o in quelli immediatamente successivi, dal 1977 c’è un Public Prayer Service interconfessionale.
Gli eventi storici usati come riferimenti legittimanti sono la partecipazione di George Washington e dei congressmen alla messa celebrata il 30 aprile 1789 dall’arcivescovo anglicano di New York, il battagliero patriota Samuel Provoost, e i Prayer Meetings interconfessionali svolti dal 1869 (fine della Guerra Civile) dal cappellano del Congresso. Ulteriore connessione tra piano politico-istituzionale e religioso: la risoluzione parlamentare del 27 aprile 1789, che disponeva come, dopo il giuramento, il Presidente, «assieme al Vicepresidente e ai membri del Senato e della Camera dei Rappresentanti, si recherà presso la St. Paul’s Chapel, per partecipare alla sacra liturgia».
Per inquadrare con efficacia il tema, offriamo due significativi e storicamente recenti termini di paragone: gli insediamenti di Barack Obama (2009, primo mandato) e di Donald Trump (2017).
Inaugurations
Il primo Inauguration Day di Obama è seguito da oltre un milione di americani accorsi a Capitol Hill. La regina del soul, Aretha Franklin, emblema dei movimenti degli anni Sessanta con la celebre Respect e che aveva cantato al funerale di Martin Luther King, intona con appassionata voce stentorea il My Country ‘Tis of Thee che manifesta plasticamente l’auspicio di una presidenza capace di integrare del tutto le ansie e le speranze degli afroamericani nella sweet land of Liberty. È un momento storico accompagnato da invocazioni religiose che invogliano un senso di pacifica riconciliazione nel contesto liberale dell’American Dream, che aveva già trovato incarnazione nel keynote address di Obama alla convention democratica del 2004:
«Non c’è un’America liberale ed un’America conservatrice - ci sono gli Stati uniti d’America. Non c’è un’America nera e un’America bianca e un’America latina ed un’America asiatica - ci sono gli Stati uniti d’America. Agli esperti piace tagliare a cubetti il nostro Paese in Stati rossi e Stati blu; rossi per i Repubblicani, blu per i Democratici. Ma io ho una notizia anche per loro: noi crediamo in un grande Dio negli Stati blu e a noi non piacciono gli agenti federali che frugano nelle nostre biblioteche negli Stati rossi. Noi alleniamo la Little League negli Stati blu, e, si’, noi abbiamo amici gay negli Stati rossi. Ci sono patrioti che si sono opposti alla guerra in Iraq e patrioti che hanno sostenuto la guerra in Iraq».
Alla preghiera di Richard Warren, pastore conservatore e fondatore di una Megachurch nella Southern Baptist Convention, avrebbe fatto seguito quella di Joseph Echols Lowery, metodista, co-fondatore della Southern Christian Leadership Conference con King, dopo il cui omicidio ne avrebbe proseguito la battaglia. La scelta di Warren ha indignato le associazioni pro choice e Lgbt+ per le sue posizioni su aborto, same-sex marriage, preservativi, ricerca su cellule embrionali. Lowery, invece, era stato criticato nel 2006 per aver condannato la guerra in Iraq e l’amministrazione Bush al funerale di Coretta Scott King. «Per l’America è importante riunirsi, anche se possiamo avere disaccordi su certi temi sociali» avrebbe risposto Obama.
Se la retorica religiosa di tale Inauguration Day è in una tradizione liberal e democratica, di taglio molto diverso è l’insediamento di Trump, che avrebbe registrato, come primo dato specifico, il più alto numero di ministri chiamati a invocare i benefici divini. Dopo il gesuita Timothy Stafford Healy per Reagan (1985) torna un prelato cattolico: il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ex «grande elettore» di Bergoglio, ora tanto distante dalla linea della Santa Sede da essersi segnalato per il maldestro invio a tutti i cardinali (luglio 2020) del libro The Next Pope: the Office of Peter and a Church in Mission del conservatore George Weigel. Non un segnale di buon vicinato verso un pontefice vivo e regnante. Dolan si è distinto nel 2020 per aver benedetto l’apertura della convention repubblicana - mentre, sul versante democratico, la convention era aperta da sr Simone Campbell e dal gesuita James Martin - dicendo: «Preghiamo affinché tutte le nostre vite siano protette e rispettate nelle nostre travagliate città e la polizia le custodisca, in situazioni di tensione in cui i nostri uomini e le nostre donne in uniforme mantengono la pace». Erano in corso le mobilitazioni di Black Lives Matter e la violenza della polizia era nota. Nel 2017 con Dolan c’erano i pastori Franklin Graham e Samuel Rodriguez, il rabbino Marvin Hier, il vescovo Wayne Jackson, Paula White, consigliera spirituale di Trump, predicatrice di una Megachurch in Florida.
White è riferimento della prosperity theology che indica nella ricchezza il favore di Dio e nei cristiani, segno di perfezione, l’affidamento di ogni potere sulla Creazione. I richiami alla «Blessed Nation» gratificata da ogni dono divino si sprecava, quanto iconiche affermazioni come quella di Graham: «Signor Presidente, nella Bibbia la pioggia è segno della benedizione di Dio. Signor Presidente, quanto lei è arrivato sul podio, ha iniziato a piovere!». La battaglia di White e di numerosi predicatori di parte evangelica per il trumpismo prosegue e sarà un elemento di cui tener conto, poiché si tratta di referenti spirituali cui si rivolgono quote non indifferenti di elettorato bianco, middle-class e protestante: mentre White ha paragonato Trump a Ester, giovane ebrea divenuta regina dei persiani, poiché entrambi «unconventional choices» gradite a Dio, lo scrittore Lance Wallnau ha riferito di aver (sic!) parlato con Dio, che gli avrebbe mostrato in The Donald il nuovo Ciro, re pagano strumento di Jahvé. Pur non egemoni, sono posizioni di non ridotta capacità mobilitativa di frange del cristianesimo evangelico a sostegno delle opzioni più radicalmente conservatrici.
I due momenti testimoniano la capacità di offrire una legittimazione della linea della Casa Bianca, delineando altresì, su molti aspetti, la constituency che il Presidente entrante ha o si aspetta di avere nel mandato. Se in Obama il richiamo alla lotta per i diritti civili e l’enfasi sul primo presidente afroamericano era unita alla prospettiva di riappacificare il Paese in senso liberale anche al prezzo di alcune polemiche (caso Warren), Trump raggruppa un numero elevato di religiosi per esprimere l’aspettativa di una grandezza materiale per il Paese e il suo leader, alludendo a un carisma specifico di questo Presidente, benedetto da Dio quale mezzo provvidenziale e difesa dalle minacce di poteri esterni o nemici interni - anticipo embrionale di quell’approccio fideistico verso Trump da parte di estrema destra e suprematisti bianchi.
So, help me God
L’unità dei diversi, la riconciliazione dopo l’inedita insurrezione contro il baluardo della democrazia rappresentativa, il richiamo a una responsabilità collettiva a tinte moraleggianti: l’inaugural speech di Biden trova già rispondenza nelle personalità invitate a presenziare in ruoli non religiosi. Lady Gaga, convinta supporter democratica e sostenitrice di leggi contro le aggressioni sessuali, ha prestato la voce all’inno nazionale. Jennifer Lopez ha intonato This Land is your Land e America the Beautiful. Eugene Goodman, l’agente di colore della US Capitol Police che ha attirato e deviato i violenti in Campidoglio, ha scortato la VP Harris. Amanda Gorman, la più giovane Inaugural Poet della storia, con la poesia The Hill We Climb ha posto nella riconciliazione il carattere guida della cerimonia:
Come si sono inseriti gli elementi religiosi in tale prospettiva, rimarcata da un pluralismo dei generi e del colore della pelle più forte rispetto all’insediamento di Obama, confermata da Biden nelle annunciate nomine? Un pluralismo in cui a essere in minoranza sono quei White Anglo-Saxon Protestants (Males) rappresentati, al più alto livello, dall’ormai ex Vicepresidente Mike Pence e dai predecessori di Obama.
Una risposta affascinante è nella preghiera introduttiva del gesuita Leo O’Donovan, ex presidente (1989-2001) della Georgetown University. Il secondo presidente cattolico conserva un legame speciale con O’Donovan, che nel 2015 aveva celebrato il funerale del figlio Beau, deceduto per cancro. Biden ha firmato la prefazione al suo Blessed are the Refugees: Beatitudes of Immigrant Children (2018) su un tema segnato dalle posizioni opposte del pontefice e di Trump. O’Donovan si è distinto per aver tutelato la libera espressione in ateneo di un gruppo pro choice in materia di aborto, pur minacciato di sanzioni canoniche da Roma. Assieme all’impegno accademico, ha contribuito ad altri settori della vita pubblica come direttore per gli Usa dal 2016 del Jesuit Refugee Service o come membro del board della Walt Disney. Veniamo alla preghiera pronunciata a sostegno dell’idea di more perfect Union cifra della presidenza.
Ispirandosi all’augurio del primo arcivescovo cattolico di Baltimora (gesuita e fondatore della Georgetown University), John Carroll, a George Washington - che avrebbe risposto il 12 marzo 1790 con la missiva To the Roman Catholics in the United States of America - O’Donovan indica la base plurale della composizione del Paese («gente di molte razze, credi e colori, origini nazionali, culture e stili») per invitare gli astanti a riconoscere «i nostri passati fallimenti per vivere secondo la nostra visione di equità, inclusione e libertà per tutti». Non il richiamo alla grandezza che è base delle suppliche rivolte all’inizio della presidenza Trump: appare come una vera richiesta di perdono preventivo al Divino, necessaria per chiarire la prospettiva spirituale della nuova direzione politica.
La grandezza che suggerisce O’Donovan si colloca in una chiave di lettura più simile al principio della diakonia: «lo spirito di amare, prendersi cura e sostenere gli altri», che propone come definizione per un «patriottismo americano, nato non dal potere e dal privilegio ma dalla cura del bene comune». Pur riconoscendo un carisma specifico in Biden, lo connette alla «wisdom» di Salomone: sapienza che è base per quel discernimento cardine degli esercizi spirituali gesuiti.
L’idea di sapienza era al centro anche dell’invocazione di Dolan nel 2017: «Donaci la saggezza, perché siamo tuoi servi deboli e dalla breve vita, mancanti di comprensione del giudizio e delle leggi. Infatti, per quanto uno sia perfetto tra i mortali, se manca la saggezza che viene da Te, non contiamo nulla». Dalla sapienza per restaurare la forza alla sapienza come sorgente di comprensione per distinguere bene e male. L’invocazione finale sancisce l’intreccio con la chiave di lettura dell’insediamento Biden:
-*** Sotto il nostro nuovo Presidente aiutaci a riconciliare la gente della nostra terra, a riparare il nostro sogno e investire in esso con pace e giustizia e gioia, in cui trabocca l’amore.
La riconciliazione è nuovo inizio per il sogno americano, ove si inserisce la riflessione di Papa Francesco, desunta dal n. 8 dell’enciclica Fratelli Tutti, a sua volta estratta dal discorso all’incontro ecumenico tra Bergoglio e i giovani a Skopje il 7 maggio 2019 dedicata al riconoscimento della dignità della persona. La riportiamo poiché è cifra politica neanche tanto occultata su temi caratterizzanti delle agende politiche:
O’Donovan ricostruisce l’American Dream e il patriottismo non solo per dare spazio alla cattolicità: egli struttura una legittimazione transnazionale per il progressismo liberal e multiculturale su cui, con notevoli sfumature - specie in politica economica - si è impostata la campagna democratica. Una legittimazione non unanime nella cattolicità Usa: basti pensare al ruolo del rapporto tra Steve Bannon e l’ex nunzio Viganò in antagonismo conclamato verso il pontificato, a sostegno dell’Alt Right. Ecco perché O’Donovan connette tali concetti al sogno, a un American Dream riscritto. Sul dream corre il rapporto, diverso rispetto a quello di Trump, tra il pontefice e Biden: come rivelato in dicembre alla Cbs, il Papa si era congratulato con il democratico vittorioso attraverso Wilton Gregory, arcivescovo di Washington di fresca nomina cardinalizia, regalando una copia autografata del suo Ritorniamo a sognare, dedicato ai percorsi possibili per uscire dalla crisi.
Joe il cattolico nel paese dilaniato
di Ettore Bucci (Jacobin, 22 Gennaio 2021)
Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni degli afrodiscendenti. Invece, analizzando la sua cerimonia di insediamento, si capisce che Biden adopera lemmi religiosi per addomesticare conflitti irrisolvibili
Tali temi sono stati parzialmente anticipati a Biden nella messa alla Cathedral of St. Matthew cui ha preso parte la mattina dell’insediamento con la famiglia, le alte cariche istituzionali e la leadership repubblicana del Congresso - che ha usato l’invito per evitare il saluto a Trump prima della partenza per Mar-a-Lago. A officiare la celebrazione, ancora, un gesuita: Kevin O’Brien. Questi ha raccontato così il suo sermone sulla riconciliazione:
L’intervento di Biden ha raccolto tali suggestioni: oltre a ribadire il concetto di riconciliazione per una «One Nation» chiamata a sanare le proprie ferite come dopo una guerra civile, c’è l’appello all’unità di fronte all’epidemia, con la promessa, «as the Bible says», che al pianto della notte seguirà la gioia del mattino. Un’agenda di tolleranza in cui spicca la citazione da Agostino, «a Saint of my Church», tratta dal p. 24 del lib. XIX del De Civitate Dei (Il fine del Bene e la Pace in Dio) sulla «città dei Giusti»:
A unire l’ex vice di Obama e Agostino è il fulcro di una solida costituzione civile nella concordia tra ragionevoli, da instaurarsi nella corresponsabilità. Subito, infatti, Biden rimarca l’importanza della verità per la responsabilità pubblica:
È probabile che tale citazione non sia emersa uno studio teologico dei ghost-writers, quanto dalla citazione agostiniana che il Papa dà in È l’amore che apre gli occhi (2014). Ultimo elemento di relazione col pontefice è la richiesta di una preghiera silenziosa per i morti di Covid: pur usuale nella retorica politica e comprensibile per la modalità con cui il predecessore ha trattato il tema, impossibile non ripensare alla preghiera silenziosa, a capo chino su piazza San Pietro, chiesta la sera dell’elezione da Francesco in diretta mondiale. Entrambe auto-limitazioni dell’immagine onnipotente del «pio padre-sovrano» e tentativo, in un discorso improntato all’umiltà e al ricordo (dei defunti in un caso, del capo spirituale neo-eletto che chiede una benedizione popolare in un altro) di inoculare una responsabilizzazione individuale. A concludere l’insediamento è stato il reverendo Sylvester Beaman, metodista, amico di famiglia Biden.
America United
Cosa raccogliere da tali riferimenti? È superficiale dire che tali parole emergono solo dal discorso di attori religiosi o che siano significativi solo perché pronunciate nell’investitura. Il punto è che questa investitura, dopo un’amministrazione uscente tanto irrituale, ad appena due settimane dal traumatico attacco a Capitol Hill, racconta la consapevolezza non scontata della fragilità del corpo sociale e delle istituzioni.
Mentre Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni di varie generazioni afrodiscendenti, Biden deve farsi almeno soggetto capace di comprendere i cambiamenti in atto, provvedendo a una riconciliazione tutta da dimostrare, connessa a un’agenda che, rivolta a un Congresso a maggioranza democratica, deve confrontarsi col peso di lobbies e desideri di mero «ritorno» al liberalismo degli anni di Obama.
L’insurrezione di gennaio pare abbia cambiato le carte in tavola, ma nulla è scontato: il desiderio di riconciliazione traslato in lemmi religiosi può significare anestetizzazione del conflitto, oblio per il trumpismo non tramontato, riscrittura di regole del gioco insufficienti. È presto per capire se il composito establishment democratico sia all’altezza di una ri-legittimazione del sistema nel quadro in cui, come scrive Arnaldo Testi, una neonata presidenza a (possibile) trazione rooseveltiana-populista prova a disfarsi del regime politico-sociale conservatore repubblicano. Intanto, il discorso pubblico religioso e, in particolare, una certa retorica di matrice cattolica - spesso su bocche gesuite - è a disposizione di tale tentativo in una inusuale modalità militante.
*Ettore Bucci, perfezionando in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è cultore della materia in storia del pensiero e delle istituzioni politiche presso l’Università di Pisa e membro del Centro Universitario Cattolico della Conferenza Episcopale Italiana.
Oggi il giuramento.
Joe Biden entra alla Casa Bianca e fa posto per gli immigrati
Il presidente uscente non parteciperà all’evento. Ma, a sorpresa, ha invitato a «pregare» per il successo del nuovo governo
di Elena Molinari (Avvenire, mercoledì 20 gennaio 2021)
New York Davanti a un mare di bandiere anziché a una folla di americani, sui gradini di un Campidoglio circondato da transenne di metallo e pattugliato da militari armati in mimetica, Joe Biden diventerà oggi il 46esimo presidente americano. Il giuramento - sullo sfondo di una pandemia che ha ucciso oltre 400mila americani e alla fine di un’elezione dagli stralci violenti - sarà il momento iniziale di un mandato che presenta sfide enormi.
Assente il suo predecessore - che ieri, a sorpresa, ha invitato a «pregare» per il successo dell’Amministrazione Biden -il 78enne democratico, che ieri ha salutato il suo Delaware ricordando il figlio Beau - «doveva essere lui il presidente» - si rivolgerà ai connazionali invocando un’unità al momento inesistente negli Usa.
Subito dopo, firmerà una serie di misure che rischiano di creare ancora più divisioni nel Paese, ma che considera necessarie per riportare l’America in linea con i suoi valori storici.
Ci si attende infatti che oggi stesso il neo-presidente invii al Congresso un disegno di legge che delinei «una chiara tabella di marcia per condurre alla cittadinanza» i circa 11 milioni di immigrati che vivono negli Stati Uniti illegalmente. La stessa proposta renderà permanente il Daca, il programma che protegge dalla deportazione circa 645.000 dreamers, arrivati negli Usa da bambini e che Donald Trump ha tentato di eliminare. Biden ribadirà anche lo status di protezione temporanea, che consente permessi di lavoro a persone provenienti da Paesi colpiti da disastri naturali o conflitti armati (il repubblicano ha cercato di cancellare anche questo).
Il nuovo capo della Casa Bianca intende infine abbandonare i «protocolli per la protezione dei migranti» voluti da Trump, che hanno già costretto decine di migliaia di richiedenti asilo ad aspettare in Messico le udienze per l’immigrazione degli Stati Uniti. Una politica di «tolleranza zero» che ha portato anche alla separazione di migliaia di bambini dai loro genitori.
Biden si è inoltre impegnato a interrompere immediatamente la costruzione del muro di confine tra Stati Uniti e Messico, che Trump ha pubblicizzato come un risultato importante durante una visita in Texas pochi giorni prima di lasciare l’incarico.
Biden chiaramente non vuole perdere tempo e vuole approfittare della risicata maggioranza che i democratici hanno strappato al Senato per far passare una riforma che da anni elude i legislatori americani e per ridare, nelle sue parole, agli Stati Uniti «l’immagine di un Paese giusto e accogliente».
Ma se l’immigrazione può suscitare controversie, è sicuramente la questione della riconciliazione nazionale la sfida più ardua per il nuovo commander in chief, come faceva notare ieri anche l’Osservatore Romano. Non è chiaro infatti come il nuovo presidente potrà sanare le profonde ferite venute allo scoperto durante le manifestazioni della primavera e dell’estate contro il razzismo ed esplose nell’assalto senza precedenti al Campidoglio il 6 gennaio.
Secondo molti esponenti del partito democratico il Paese non potrà voltare pagina prima di aver fatto i conti con la pesante eredità di Trump e prima di aver inchiodato il presidente uscente alla responsabilità di aver fomentato la violenza in varie occasioni, soprattutto nel corso dell’attacco dell’Epifania. Biden finora ha preferito evitare l’argomento, ma ieri anche i vertici del partito repubblicano sembravano allinearsi con questa posizione.
Per la prima volta il capo del Grand old party al Senato, Mitch McConnell, ha sostenuto pubblicamente che «gli insorti che sono entrati con la forza in Congresso sono stati provocati dal presidente e da altre persone potenti. E hanno cercato di fermare un procedimento specifico del primo ramo del governo federale».
Il Senato riceverà in breve dalla Camera un singolo articolo di impeachment che accusa Trump proprio di «incitamento all’insurrezione». I commenti di McConnell potrebbero dunque indicare che ha deciso di votare per condannare il presidente, invitando i colleghi a fare altrettanto. Se 17 repubblicani si unissero a tutti i 50 democratici, Trump sarebbe ritenuto colpevole, e potrebbe essere interdetto dal ricoprire cariche pubbliche a vita.
Il processo di impeachment (il secondo nei confronti del repubblicano) potrebbe però distrarre la Camera alta da una rapida conferma dei membri dell’Amministrazione entrante e dalla discussione di misure urgenti per il contenimento della pandemia e il rilancio dell’economia - punti ai primi posti nell’agenda del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Lettere internazionali
L’eredità economica per Biden
di Michele Alacevich *
Nel suo ultimo Stato dell’Unione di fronte al Congresso, il 4 febbraio 2020, Trump descrisse la ripresa economica degli ultimi anni come una clamorosa inversione di tendenza rispetto agli otto anni dell’amministrazione Obama ̶ il «grande ritorno dell’America». La sua narrazione, benché costruita su dati reali, è però profondamente tendenziosa.
È vero, per esempio, che nei primi tre anni della sua presidenza Trump l’economia statunitense sia cresciuta notevolmente. Un exploit del genere ha fatto molta impressione, soprattutto su chi guardava all’apparente contrasto tra la crescita del 2,4% del 2017, primo anno di Trump, e quella dell’1,6% dell’ultimo anno di Obama. Il tasso di disoccupazione, allo stesso tempo, cadeva a livelli mai raggiunti dal 1969, intorno al 3,5%. -Eppure, benché Trump abbia sempre personalizzato questi risultati, la realtà è che essi sono la conclusione di un intero decennio di crescita per la gran parte sviluppatosi sotto Barack Obama.
Due tabelle, preparate da agenzie federali indipendenti, riescono a raccontare molto più di tante parole.
La prima, relativa all’andamento del Pil statunitense dal 2008 al 2020, mostra che con Obama la crescita economica è stata spesso più vigorosa che sotto Trump, benché caratterizzata da maggiore variabilità.
La seconda, relativa al tasso di disoccupazione, è ancora più chiara: la discesa iniziò nel 2010 e non si è arrestata fino all’arrivo della pandemia. Se le menzogne sono evidenti, rimane però da spiegare la continuità.
Le ricette economiche di Trump ̶ la cosiddetta Trumponomics ̶ hanno funzionato? Un’analisi settoriale della produzione industriale non sembra offrire chiavi interpretative interessanti: alcuni settori sono cresciuti più con Trump che con Obama, altri mostrano andamenti opposti. In ogni caso, le differenze sono relativamente piccole.
Ciò che è certo è che il reddito medio disponibile è cresciuto, per due ragioni. La prima è che i salari minimi sono cresciuti di più del 50%. Ciò però è avvenuto non in virtù di una crescita del salario minimo federale, fermo dal 2009, ma perché diversi Stati o aree metropolitane hanno aumentato la parte del salario minimo di loro competenza. Trump, in queste politiche, non c’entra nulla. C’entra eccome, invece, con la seconda ragione, cioè la riforma fiscale del dicembre 2017.
Messa in campo in fretta e furia dopo che Trump si rese conto di non avere i voti per abrogare la riforma sanitaria di Obama, la riforma fiscale ha di fatto barattato il potere di acquisto di gran parte della popolazione nel lungo periodo con un piccolo stimolo fiscale di breve periodo e soprattutto con un gigantesco trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi.
La riforma fiscale, entrata in vigore poco più di due anni fa, è la più importante dalla riforma fiscale attuata da Ronald Reagan nel 1986. A differenza della riforma di Reagan, che fu discussa a lungo e votata anche da molti democratici, la riforma di Trump è stata discussa in sole quattro settimane e approvata senza un solo voto democratico. In breve, riduce le tasse alle imprese, limita molte detrazioni a vantaggio delle fasce più deboli e riforma profondamente gli scaglioni per l’imposta sulle persone fisiche.
Quattro cose sono chiare. In primo luogo, l’enfasi sui tagli ai redditi più alti è un ritorno in piena regola a quella credenza mistica (o cinica) della cosiddetta trickle-down economics, cioè l’idea che una minore tassazione dei redditi alti significhi maggiori consumi e investimenti e dunque un beneficio per tutti gli strati della popolazione, anche i più poveri. In realtà, i fatti non confermano la teoria e come ha scritto Branko Milanovic, «c’è un limite al numero di Dom Pérignon che possiamo bere». L’effetto netto è semmai una maggiore disponibilità di risorse per investimenti speculativi, con un conseguente aumento dei margini di rischio e un’accresciuta instabilità sistemica del settore finanziario.
In secondo luogo, la riforma è enormemente regressiva. Secondo un’elaborazione del Tax Policy Center, il 60% più povero della popolazione beneficerà di piccoli tagli fino al 2025, dopodiché vedrà le tasse salire. Il quintile più povero della popolazione, per esempio, ha beneficiato di una riduzione dell’1% nel 2018 e beneficerà di un’ulteriore riduzione dell’1,3% nel 2025, ma vedrà crescere le tasse del 4,6% nel 2027. Il quintile più ricco, al contrario, godrà di un taglio del 65% e non vedrà alcun incremento. Un altro aspetto lascia particolarmente sgomenti, cioè che, se la riforma fiscale per le imprese è permanente, quella per le persone fisiche è solo temporanea. Non deve sorprendere: perché lasciare aperta una voragine fiscale che secondo il Congressional Budget Office porterà il debito americano al 180% del Pil entro il 2050? A quel punto il trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi avrà raggiunto il suo scopo. In ultima analisi, sempre secondo il Congressional Budget Office, la riforma costerà circa 60 miliardi di dollari ai redditi tra i 10.000 e i 75.000 dollari, e farà risparmiare 20 miliardi ai redditi superiori ai 75.000 dollari.
Il terzo punto è che la riforma non si pagherà da sola. La retorica dei suoi sostenitori, come già detto, è che meno tasse significhino più consumi, più investimenti, redditi in crescita e benessere per tutti. I calcoli del Congresso dicono invece che la differenza tra entrate e uscite, per il governo americano, salirà dal 3 al 5% all’anno. Come ha scritto il «New York Times» alla vigilia della riforma, «i Repubblicani non stanno semplicemente cercando di trasferire soldi dalla classe media e dai poveri di oggi ai ricchi e alle imprese, ma di trasferirli dalla classe media e dai poveri del futuro ai ricchi e alle imprese».
In quarto luogo, la riforma è molto più di una semplice riforma fiscale, perché limita le autorità dei singoli Stati e delle città nella loro capacità di raccogliere risorse con cui finanziare la spesa per istruzione, salute, trasporti e servizi sociali, che ricevono una gran parte dei fondi da tasse locali e non federali. Stati con sistemi fiscali più progressivi come California e New York, non a caso saldamente democratici, faranno più fatica a sostenere i servizi pubblici e quelli per i più deboli.
Infine, la riforma elimina le sanzioni per chi non rispetta l’obbligo di indicare la propria copertura sanitaria sulla dichiarazione dei redditi. Queste sanzioni avevano lo scopo di scoraggiare la scelta di fare a meno di una copertura sanitaria da parte di famiglie a basso reddito, una scelta che permette di risparmiare nel breve periodo, ma pericolosa per salute (e finanze) nel lungo periodo. Molti esperti concordano sul fatto che, a causa di questa piccola modifica, circa 13 milioni di persone perderanno la copertura sanitaria. Meno risorse a livello locale, insieme all’eliminazione delle sanzioni in caso di mancata dichiarazione di una copertura sanitaria, hanno di fatto trasformato la riforma fiscale in una riforma sanitaria mascherata.
Questa l’eredità che Biden si trova tra le mani, che ha conseguenze dirette sulle dinamiche della disuguaglianza negli Stati Uniti. Tra i Paesi Ocse, il livello di disuguaglianza interno agli Stati Uniti è superato solo da Turchia, Messico e Cile. La disuguaglianza, inoltre, si sviluppa su diversi piani che si rafforzano a vicenda: crescente disuguaglianza economica produce ed è a sua volta generata da crescente disuguaglianza nei livelli di istruzione e salute, di genere e razza, nonché di benessere e accesso alla giustizia, ai servizi sociali, e a lavori ben remunerati. La mobilità sociale, per secoli la faccia positiva della medaglia, quasi la controparte ideologica di un’alta disuguaglianza in base al principio che il successo è alla portata di chiunque voglia impegnarsi per raggiungerlo, si è bloccata. Oggi il sogno americano non funziona più, e ha funzionato sempre meno negli ultimi cinquant’anni.
La pandemia ha amplificato enormemente queste fratture sociali, offrendocene una misura ̶ quella dei morti per Covid-19 ̶ di sconcertante brutalità. La città di Chicago, per fare un solo esempio, ha il 30% di popolazione nera. Gli afroamericani, però, sono il 70% dei casi di Coronavirus e il 50% delle morti.
La disuguaglianza razziale, in altre parole, si combina con quella economica e incide sulla disuguaglianza nell’accesso al sistema sanitario nonché, in ultima analisi, sulle percentuali di chi soccombe e chi sopravvive. Ma ciò significa che un discorso sulle crescenti disuguaglianze deve anche affrontare il problema ideologico del razzismo e del suprematismo bianco. L’agenda che Joe Biden si trova ad affrontare è molto difficile. C’è da sperare che la vicepresidente Kamala Harris, espressione di una sensibilità molto attenta alle minoranze e alle fratture che segmentano la società americana, abbia un ruolo molto più centrale di tanti suoi predecessori.
* Il Mulino, 20 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Lo sguardo radicale di Helen Keller per raccontare l’America
Intervista. Una conversazione con John Gianvito, regista di «Her Socialist Smile», sull’attivismo politico dell’intellettuale sordo-cieca
di Giovanna Branca (il manifesto, 06.11.2020)
«Il Paese è governato per i più ricchi, per le corporation, i banchieri, gli speculatori terrieri, e gli sfruttatori del lavoro».
Le parole di Helen Keller, risalenti a oltre un secolo fa, sembrano raccontare il mondo di oggi. «È questa la ragione principale per cui ho fatto il film», spiega John Gianvito a proposito del suo
Her Socialist Smile - presentato nei giorni scorsi alla Viennale - in cui ripercorre il fervente credo socialista della celebre intellettuale sordo-cieca statunitense.
Nell’immaginario collettivo, la sua figura emerge dalla narrazione di Anna dei miracoli, ed è definita dal suo impegno per i disabili - ma quelli che lei definiva «gli occhi della mente» l’avevano portata a vedere molto oltre e più in profondità il mondo che la circondava - e quello a venire.
Come ha deciso di fare un film su Helen Keller?
Circa 21 anni fa, leggendo dei testi dello storico radicale Howard Zinn, ho scoperto che Helen Keller era stata un’ardente socialista. Ne ho cercato le prove, e le ho trovate in alcuni dei suoi discorsi. Sono rimasto profondamente colpito da quanto fossero rilevanti rispetto al momento storico attuale, come se fossero stati scritti quella stessa settimana. La maggior parte degli studenti qui negli Stati uniti impara la storia di come la giovane sordo-cieca Helen Keller ha imparato a leggere e parlare grazie all’impegno «miracoloso» della sua insegnante Anne Sullivan.
Ma cosa poi Keller abbia letto, scritto e detto è significativamente omesso dalle narrazioni ortodosse della sua storia. Così ho cominciato a esplorare la possibilità di fare un cortometraggio che delineasse questa dimensione poco conosciuta della sua vita. Ma dopo mesi di ricerca archivistica non ero stato in grado di trovare alcun film, materiale fotografico o audio che documentasse l’attivismo politico di Keller. Era un fatto particolarmente strano, soprattutto se si pensa che all’epoca era una delle donne più famose al mondo. Poi sono venuto a conoscenza dei molteplici incendi che hanno distrutto molti dei suoi materiali e il progetto di fare un film non mi è più parso possibile.
Infine tre anni fa il pensiero di questo progetto è riemerso. Una voce nella mia testa mi diceva: «Volevi fare un film sulla donna sordo-cieca più famosa al mondo, non hai immagini né suoni, e questo è in realtà un interessante problema creativo a cui non dovresti sottrarti». Il modo in cui ho «risolto» il dilemma della scarsità di materiali archivistici tradizionali rappresenta l’esperienza stessa del film. Con Her Socialist Smile non desideravo semplicemente correggere un’omissione storica nella biografia di Keller. Come Howard Zinn, sono interessato alla Storia nella misura in cui ci aiuta a pensare al presente, a costruire una strada migliore verso il futuro.
Le convinzioni socialiste di Keller sembrano ancor più stigmatizzate nell’America di oggi di quanto non lo fossero più di un secolo fa, quando ci si poteva apertamente definire socialisti e aspirare a ricoprire cariche pubbliche.
«La parola socialismo è uno spauracchio che i repubblicani hanno scagliato contro ogni progresso fatto dal popolo negli ultimi vent’anni». Non sono parole mie: le ha pronunciate il presidente Truman nel 1952. È senz’altro vero che negli ultimi decenni il concetto di socialismo è stato distorto, al punto che molti politici conservatori impiegano il termine come se dovessimo considerarlo per sua natura peggiorativo.
La strategia è sabotare una visione del mondo in cui, con le parole di Keller, «il benessere di ciascuno è legato al benessere di tutti». Ma nonostante tutti questi sforzi per denigrare il significato originario della parola, negli ultimi anni qui negli Usa abbiamo visto crescere la popolarità di figure dichiaratamente socialdemocratiche, come dimostra il caso di Bernie Sanders o l’elezione di parlamentari come Rashida Tlaib in Michigan e Alexandria Ocasio-Cortez a New York. E ripensando alla travolgente ascesa del movimento Occupy è evidente come sia montata una vasta insoddisfazione nei confronti del cosiddetto capitalismo del libero mercato. Anche se si tratta solo di un sondaggio, nel 2019 Axios/Harris ha stabilito che circa il 49% dei giovani statunitensi preferisce un sistema socialista a uno capitalista. E se ciò mi dà un po’ di ottimismo, questi restano per me ideali fondamentali per cui battersi anche se non si vede un progresso all’orizzonte.
Per Keller, il movimento femminista, la lotta di classe e quella razziale erano strettamente collegate. È una consapevolezza che è andata perduta nel discorso politico attuale?
Nel corso degli ultimi 10 anni il concetto di intersezionalità ha acquisito un notevole seguito qui negli Usa. Definibile come la natura interconnessa delle categorie sociali di genere, razza e classe, il termine è attribuito alla docente di giurisprudenza Kimberlé Crenshaw, che lo descrive come un «prisma da cui osservare il modo in cui le varie forme di ineguaglianza operano congiuntamente e si acuiscono a vicenda». Anche se non si serviva di questa parola, mi pare chiaro dagli scritti di Keller che fosse consapevole di queste connessioni, e che avesse letto Marx. La pressione perché Joe Biden scegliesse non solo una candidata donna alla vicepresidenza, ma anche nera, è a mio parere un’indicazione ulteriore che la consapevolezza di questi rapporti non è andata perduta.
«Her Socialist Smile» è anche una riflessione sulle parole e il loro potere. Sullo schermo le parole di Helen Keller appaiono come lunghi intertitoli, mentre altre volte vengono pronunciate dall’attrice Carolyn Forché. Come ha lavorato per portare il suo discorso politico al cinema?
Anche se Keller teneva periodicamente dei discorsi pubblici, comunicava con il mondo principalmente attraverso la parola scritta, e inoltre è attraverso la parola stampata che lei stessa coglieva gran parte di ciò che accadeva intorno a lei e nel mondo intero. Mi sembrava quindi appropriato fare esperienza delle sue parole concentrandosi, in silenzio, senza sentire il bisogno di immagini che catturino l’attenzione come accade nella maggior parte dei documentari storici.
Le immagini del film hanno una qualità tattile, e in qualche modo ci accompagnano in quella che Keller diceva essere la sua attività preferita: passeggiare nei boschi.
Leggendo le sue autobiografie ho scoperto quanto intensamente amasse passare del tempo da sola in mezzo alla natura. La sua capacità nel descrivere questa esperienza, in assenza di vista e udito, era straordinaria. Ad esempio questo passaggio di Midstream: «Avevo sempre amato le meraviglie della natura; ma non avevo neanche sognato l’abbondanza di piacere fisico in mio possesso finché non mi sono seduta e ho cercato di esprimere a parole i merletti di ombre sulle foglioline, le ali velate degli insetti, il mormorio della brezza, i palpitanti tremolii dei fiori, il respiro leggero del petto di una colomba, i filamenti sonori dell’erba agitata dal vento, e i fili delle ragnatele che si fanno e disfano senza sosta». La scoperta di questo aspetto del mondo interiore di Keller ha stabilito una connessione profonda con il mio spirito, e ha aperto una porta cinematografica attraverso la quale rapportarmi al film, specialmente perché per me il nostro rapporto con la natura ha una dimensione intrinsecamente politica.
Cosa pensa di quello che sta accadendo in questi giorni con le elezioni presidenziali, e del rifiuto di Trump di accettare il risultato se non dovesse essere il vincitore?
Virtualmente nulla di ciò che fa Donald Trump mi sorprende. Quando una persona è completamente priva di scrupoli morali, tutto è possibile. E tragicamente, questo individuo maligno e spregevole continua ad avere una vasta schiera di sostenitori. Se da un lato il testa a testa dei risultati elettorali mi sorprende e mi sgomenta, tutto questo va considerato anche attraverso la lente del nostro arcaico sistema del collegio elettorale. Con tanti voti ancora da conteggiare, il ticket Biden-Harris ha già diversi milioni di preferenze in più nel voto popolare. Sfortunatamente, mi aspetto ancora tanta divisione nei giorni, mesi, e anni a venire. La lotta continua.
Jill Biden, il cambio della first ladyship sulle orme di Eleonor
First Ladies. Nel primo anno da first lady Eleanor Roosevelt guadagnava quanto il presidente, spendendo i suoi soldi per cause sociali e l’emancipazione delle donne.
di Rossella Rossini (il manifesto, 13.11.2020)
Complice oltre un secolo di storia di emancipazione delle donne, di cui il suffragio universale, nel 1920 in tutti gli Stati dell’Unione, segnò una tappa importante, la svolta produsse un cambio di rotta nella first ladyship degli Stati uniti e continua a rappresentare un lascito prezioso. La scelta di Jill Biden di non rinunciare alla sua professione di insegnante di lingua e letteratura inglese colloca la nuova prima cittadina sulla strada dell’indipendenza aperta da Eleanor Roosevelt nei dodici anni trascorsi alla Casa Bianca (1933-1945), ma già imboccata come first lady dello Stato di New York, di cui Franklin Delano Roosevelt fu governatore.
Eleanor Roosevelt aveva nutrito dubbi sulla candidatura del marito e aveva accolto con perplessità la vittoria alla convenzione democratica, nel timore che ciò potesse comportare la rinuncia alla sua vita pubblica e alle sue molteplici attività. Invece, avrebbe saputo arricchire il nuovo ruolo di inedite funzioni, cementando l’unione con Franklin come «coppia politica» e divenendo negli anni una first lady a tutto tondo, che condivideva e sosteneva gli obiettivi del consorte e intanto faceva passi da gigante lungo il cammino dell’autonomia.
Leader riconosciuta nel mondo dell’associazionismo, si batteva per la pace, l’eguaglianza e la democrazia; per l’internazionalismo; per i diritti delle donne, degli afroamericani e delle fasce più emarginate della popolazione, destreggiandosi con la stessa maestria sulla scena pubblica e politica degli Stati Uniti e tra i suoi numerosi interessi e mestieri.
Di essi fecero parte l’insegnamento di storia, letteratura e affari pubblici alla Todhunter School di New York, una scuola privata per ragazze di cui era anche comproprietaria e co-direttrice; l’intenso lavoro giornalistico per testate e stazioni radiofoniche, anche commerciali, che portavano la sua voce e il suo pensiero fino negli angoli più remoti del paese; l’attività di imprenditrice, con la fondazione e gestione assieme a due amiche femministe delle Val-Kill Industries, di cui facevano parte una fabbrica di mobili, una fornace per metalli e una tessitura, che insegnavano un mestiere e davano lavoro a giovani non più in grado di mantenersi nei campi impoveriti dalla depressione.
Alla fine del primo anno da first lady della nazione Eleanor guadagnava quanto il presidente, spendendo tutti i suoi introiti per cause sociali e, forse, vedendo la sua lotta per consolidare la propria indipendenza anche economica connessa alla più ampia battaglia per i diritti e l’emancipazione combattuta per tutte le donne.
L’indipendenza non fu solo economica. Dopo l’elezione di Franklin alla guida della nazione, furono quasi 40.000 i chilometri percorsi da Eleanor nei primi mesi del primo dei quattro mandati del marito per diffondere i valori e le politiche del New Deal, avere un resoconto di prima mano dello stato in cui versava il paese sconvolto dalla Grande Depressione e riferirne al presidente, contribuendo attivamente all’adozione delle politiche di relief.
Ma se apparentemente si prestava a svolgere il ruolo di supporting wife, come aveva già fatto in qualità di first lady dello Stato di New York, nel corso di quelle visite e di quei viaggi maturava non solo la Eleanor «occhi e orecchie» del presidente, limitato nei suoi spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito nel 1921, ma l’attivista e riformatrice, colei che, già conosciuta e riconosciuta come leader politica autonoma e fortemente radicata in quella che oggi si definisce la società civile, rappresentava l’ala più progressista della nuova era, attenta e sensibile alle questioni di giustizia economica e sociale, ai diritti delle donne e dei giovani, delle minoranze e dei lavoratori e impegnata a battersi contro razzismo e discriminazioni.
All’interno della partnership politica con il marito, Eleanor cercò sempre di portare avanti i progetti che le stavano più a cuore: la battaglia per l’adesione degli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia; l’estensione alle donne dei programmi volti ad aumentare l’occupazione nei lavori pubblici; il progetto di riqualificazione abitativa per le famiglie povere dei minatori della Virginia occidentale; le politiche a favore degli afroamericani; programmi per i giovani, con la creazione della National Youth Administration, a lei dovuta e di cui andava fiera; una legge federale contro i linciaggi.
Oltre 200 disegni sono stati respinti al Congresso per 120 anni dal blocco dei suprematisti bianchi del Sud eletti al Senato, fino al Justice for Victims of Lynching Act of 2019 che rende il linciaggio crimine federale, discusso e approvato all’unanimità il 14 febbraio 2019.
A presentarlo come prima firmataria la senatrice democratica Kamala Harris. Dovrebbero mancare pochi passi perché diventi definitivamente legge ed entri nel codice penale.
ULISSE/KAFKA E "IL SILENZIO DELLE SIRENE". Una storia di lunga durata...
Mots-clés
Sirene
di Serena Cacchioli *
Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza.
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi - benché non riesca comprensibile alla mente umana - che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.
* Nazione Indiana, 04.10.2020 (ripresa parziale, senza immagine - c.vo, fls).
Materiali sul tema, nel sito, si cfr.:
MELUSINA: RITROVAMENTO DI SIRENE (E SIBILLE) NELLA CITTÀ DI CONTURSI TERME (SALERNO). Un’occasione per ripensare tali figure della tradizione culturale europea
Federico La Sala
Covid e la fine del sogno americano
di Alessandro Carrera *
Houston, 16 luglio 2020. L’ultimo giorno normale della mia vita è stato il 6 marzo 2020, l’ultima lezione che ho tenuto in classe. Ciò che ha salvato la mia università dalla pandemia, allora, è stato lo spring break, la vacanza di primavera che cominciava la settimana dopo. Tempo pochi giorni, e si è visto che tornare in classe non era più possibile. Io stavo insegnando un corso sulla biopolitica. Parlavamo e abbiamo continuato a parlare via Teams [...]
Perché la prendo così alla lontana, in un giorno in cui lo Houston Chronicle pubblica 43 pagine di necrologi di morti di Coronavirus, molti dei quali si potevano assolutamente evitare? Perché non so come fare altrimenti. [...]
Faccio fatica a parlare del presente perché la mente continua ad andarmi indietro nel tempo, ai primi anni dopo il mio trasferimento negli Stati Uniti, alle cose di cui mi accorgevo e alle quali non volevo dare troppo peso perché non volevo essere il viaggiatore che sa tutto, arriva in un paese nuovo e dopo due settimane ha già capito la psicologia, l’antropologia, la biologia e la fisica di tutta la popolazione ed è già pronto al vecchio gioco del vado, capisco l’America e torno - anche perché io sapevo che non sarei tornato, che sarei rimasto qui, ed ero io che dovevo capire, non ero io che dovevo spiegare.
Ma dalle impressioni non potevo difendermi, le potevo solo archiviare. Poiché non sto iniziando un libro, anche se potrei, devo solo riassumere queste forti impressioni in uno sgomento - lo provavo allora e lo provo ancora adesso - davanti all’intensità con la quale gli americani riescono a credere. A credere in qualunque cosa e senza distinzioni di valore: nella loro eccezionalità, nella serie televisiva che stanno guardando, nel loro Dio fatto a loro strettissima misura, nell’ultimo prodotto che hanno visto pubblicizzato in televisione, nell’ultima causa che hanno abbracciato, nell’ultima teoria di complotto che hanno visto su youtube, nelle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e in Barack Obama che è un alieno venuto da Sirio. Avevo già formulato un giudizio, molti anni fa, ma l’avevo tenuto per me, perché non sono un ingrato. [...]
Intelligenti, dedicati, tenaci, instancabili, sì. Ma furbi, ecco, quello no. La furbizia è una dote mediterranea, viene dall’essere stati conquistati e dominati per secoli, dal sapere che non ti puoi fidare di nessuno, che sulla pubblica piazza lo puoi dire e lo devi dire, che tu credi nel tuo sindaco, nel tuo partito, nel tuo parroco, nella tua nazione, nel duce, nel presidente e nel papa, ma dentro le mura di casa tua la storia può essere ben diversa, e ti prepari ad affrontare le cose non importa chi vince. Non è una bella dote, la furbizia, e soprattutto chi è convinto di essere molto furbo non lo è per niente.
Il vero furbo è quello che sa benissimo di poter essere ingannato anche e soprattutto da se stesso, e non dà troppa importanza alle sue opinioni. È una dote brutta e cinica, ma ti aiuta a sopravvivere. Gli americani delle grandi pianure, del centro del continente, quelli che guardano con disprezzo a New York e a Los Angeles e si ritengono, solo loro, i veri americani, questa dote brutta e cinica non l’hanno mai imparata (e anche gli altri non la praticano molto bene), non ne hanno mai avuto bisogno perché non sono mai stati sconfitti.
Un momento, si dirà, certo che lo sono stati. È dall’epoca del Vietnam che non hanno fatto altro che accumulare sconfitte militari. Ma non lo sanno. Hanno sviluppato un’arte della negazione della realtà che non ha uguali al mondo. Certo, lo so che la realtà ormai è un optional anche in molte altre parti del pianeta. Negare la realtà e costruirsi un castello incantato di fantasie paranoidi è un meccanismo di difesa dall’ineluttabile, valido (per un po’, non per molto) quanto ogni altro. Ma gli Stati Uniti non sono nati su queste basi, non dovevano esserlo, non doveva andare così.
Invece sta accadendo questo: che gli Stati Uniti vengono oggi sconfitti dal più stupido degli organismi, più stupido ancora del loro presidente, e si sono impegnati nel più grande esperimento di rimozione della realtà che si sia mai visto nella storia. Ce ne sono stati altri, ma non su questa scala. Del resto, la scala conta poi così tanto? Perché un piccolo esempio non può valere quanto uno grande? Non posso togliermi di mente la storia che Jared Diamond racconta in Collasso a proposito dei vichinghi e degli inuit in Groenlandia.
Arrivano i vichinghi, colonizzano la Groenlandia e vogliono vivere da vichinghi, mangiando carne di manzo, non quelle foche puzzolenti che mangiano gli inuit. Importano mucche dalla Norvegia, più mucche che possono. Le mucche mangiano tutta la poca erba disponibile, non hanno più niente di cui sostenersi e devono essere abbattute. E i vichinghi cominciano ad avere fame. Ora, il vichingo furbo cosa farebbe? Magari andrebbe a spiare come fanno gli inuit a sopravvivere, magari cercherebbe di imparare come si fa a cacciare le foche, anche se non gli piacciono. Ma il vichingo non è furbo. Lui ha il suo lifestyle, e non è mica un selvaggio come gli inuit. Continua a mangiare le sue mucche finché di mucche non ce n’è più, dopo di che comincia a morire anche lui. E Diamond si chiede: che cosa sarà passato per la testa all’ultimo vichingo rimasto mentre stava per morire, ultimo della sua razza, mentre intorno a lui quei selvaggi degli inuit sopravvivevano come avevano sempre fatto?
È la stessa domanda che mi faccio io ogni giorno che qui in Texas c’è qualcuno che muore di COVID perché credeva che fosse una bufala. Due giorni fa è morto uno di 37 anni che aveva postato sui suoi social: “Io non mi metterò mai quella maschera del cazzo!” Pochi giorni prima, a San Antonio, è morto uno di trent’anni. Ultime parole twittate: “Credevo che fosse una bufala, mi sono sbagliato”. Accendo la televisione e vedo un medico intervistato in un ospedale nella parte nord della città, le cui unità di cura intensiva sono strapiene. È fuori dalla grazia di Dio, e dall’accento capisco che è italiano: “Vengono i parenti dei ricoverati,” dice, “e non vogliono mettersi la mascherina, dicono che è una bufala!”
È vero, l’ha detto il presidente a suo tempo, che era una bufala. Ma era mesi fa, e ormai non lo dice più neanche lui. Dice che tutto è sotto controllo e che nessuno ha affrontato la situazione meglio di lui. Questo è un capitolo a parte, ma restiamo sulla bufala. L’ha detto mesi fa, appunto. Con tutto quello che è venuto dopo, perché così tanta gente si è attaccata a quella frase come a un’ancora di salvezza (“It’s a hoax!”) e ci sta ancora attaccata? Perché vogliono morire per difendere la loro convinzione? Perché morire per una bufala?
La gente muore per qualunque motivo. Per la patria e per il re, per Mussolini, per Hitler, per Lenin, per Stalin, per Mao e per Pol Pot. In Texas, c’è chi voleva morire perché il suo barbiere potesse riaprire. Nelle settimane di un lockdown peraltro non totale, quando le cose stavano andando meglio - finché il governatore ha deciso di annullarlo e la vera catastrofe è cominciata - una milizia armata si è presentata davanti a un barbiere dalle parti di Dallas per dargli il diritto costituzionale di riaprire, e il giovanotto intervistato con un AR-15 in mano ha dichiarato che lui per quel barbiere era disposto a morire. Spero almeno che facesse dei tagli eccezionali.
L’ordine simbolico si è ridotto a ben poco, se mettere una mascherina lo fa crollare. Eppure questo è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Siamo di fronte a quella che Ernesto De Martino chiamava “apocalisse culturale” o, per essere più chiari, una “fine del mondo”. “Non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il coronavirus” ha detto uno dei miliziani in difesa dei barbieri e dei saloni di tatuaggi. Quando il governatore del Texas ha imposto l’uso delle mascherine in tutte le contee dove ci sono più di 20 casi (ed è stata la prima volta in cui l’ho visto preoccupato, anzi spaventato), è stato sepolto da una valanga di insulti sui social media: venduto ai liberal, traditore, non ti voteremo più (e magari...). Il vicegovernatore, che per qualche motivo locale è più potente del governatore, è andato da Fox News a dire che i medici dovrebbero stare zitti e comunque lui a loro non crede.
Il vicegovernatore è lo stesso ad aver detto, già mesi fa, che i vecchi, lui compreso, devono essere preparati a morire purché l’economia non si fermi. Non è stato accolto da un coro di pernacchie, ma con il silenzio degli spartani alle Termopili.
Adesso muoiono anche i giovani. Meno. D’accordo, ma anche loro. Ma la vera questione è un’altra. La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, che per gli americani è il prequel della Costituzione, dice chiaramente che tutti hanno diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. Lasciamo perdere le implicazioni giuridiche e politiche di un linguaggio di fine Settecento e prendiamo le parole alla lettera. Dov’è finito il diritto alla vita in questa pulsione di morte che sta devastando gli Stati Uniti? Se non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il COVID-19, vuol dire forse che c’è il diritto costituzionale di contagiare gli altri? Cos’è questa fregola di morire per chiunque, per Trump, per un barbiere, per un bar? Forse i survival skills che si insegnano nei corsi di sopravvivenza nascondono una colossale pulsione di morte? È una psicosi di massa quella che coinvolge ormai il 40 per cento della popolazione - che è quella che voterà per Trump e forse riuscirà a farlo vincere ancora perché non è la paura della morte a fermarli, ma il godimento di sfidarla, e Trump questo godimento glielo dà. Una volta stavo spiegando in classe il concetto di pulsione di morte quando mi interruppe uno studente afroamericano. “So esattamente di che cosa sta parlando,” mi disse. “Io sono stato nell’esercito, e quando ci hanno chiesto perché volevamo diventare dei marines, quello vicino a me ha risposto: ‘Perché voglio sfidare la morte’”.
Chi muore perché “era una bufala” o perché lui quella maschera del cazzo non se la mette, forse non si ritiene un eroe nel momento in cui si rende conto che non ce la farà, ma i suoi amici lo trattano come tale, e come tale lo celebreranno. Il diritto alla vita di cui parlava la Dichiarazione d’indipendenza si è rivelato come l’altra faccia del diritto alla morte. E io - d’accordo, non ho le prove - sono certo, certissimo, che la maggior parte della gente qui non ha capito il concetto di “asintomatico”. Ti vuoi contagiare? Padronissimo, ma non sei padrone di contagiare me. Sembra facile da capire, no? No, non lo è. La parola “asymptomatic” era sconosciuta fio a pochi mesi fa, non fa parte del linguaggio di nessuno, è una parola di cinque sillabe, è greca, nessun cowboy l’ha mai usata, farebbe anche fatica a pronunciarla (sono ingiusto, lo so, mi sto sfogando, va bene?). Leggo articoli di dottori sconsolati, hanno capito che la malattia più grande non è il COVID, è la disinformazione. Le domande che gli vengono rivolte non hanno nessun legame con la realtà. Ancora una volta il bisogno americano di credere, per favore fatemi credere in qualcosa per cui vale la pena di morire prende il sopravvento.
La parola chiave è proprio godimento. La classe operaia in America non ha più nessuna fiducia nel futuro, sa di essere stata esclusa dal sogno americano anche se continua a sognarlo (“Lo chiamano sogno americano,” diceva il comico George Carlin, “perché bisogna proprio essere ben addormentati per poterci credere”), dunque vive nel presente, e nel godimento, qualunque godimento, che il presente può offrire. La classe medio-superiore, la borghesia, risparmia, fa progetti, pensa alla carriera, alla casa, all’università in cui mandare i figli. Sa trattenere, anche per tutta la vita, la ricerca del piacere. La classe operaia non ha più voglia di vivere così perché sa che non serve a nulla. Non ha più voglia di avere fiducia in qualunque progetto sociale che alla fine li lascerà da parte perché non sono abbastanza smagati, abbastanza istruiti, abbastanza consapevoli del mondo in cui vivono. E dunque prendono quello che c’è, e subito. Se hanno voglia di mangiare schifezze le mangiano, se hanno voglia di ubriacarsi si ubriacano, se hanno voglia di sesso lo fanno. Perché non dovrebbero? Che sicurezze hanno nella vita? Domani possono perdere tutto, il lavoro, l’assicurazione sanitaria, la casa, la famiglia. Che cosa gli succede di meglio se non lo fanno? Non puoi andare a fargli la morale, a spiegare che devono essere razionali, prendere precauzioni, informarsi, credere alla “scienza” o a chi ha una laurea in tasca. Sono disposti a credere a tutto tranne che alla scienza, perché la scienza (quando l’ho detto ai miei studenti sono rimasti sorpresi) ha sempre torto. La scienza non è l’informazione che ricevi oggi e che domani sarà superata da un’altra informazione. La scienza è un processo, non un fatto e nemmeno un dato. Ma questi sono discorsi da laureato e non gli è mai venuto niente di bene, a loro, da chi aveva una laurea in tasca, come è tristemente vero che per loro non cambierà molto a novembre (se ci arriviamo), non importa chi vincerà le prossime elezioni (se ci saranno).
30 marzo circa, una coppia dell’Arizona ha sentito Trump in televisione che incoraggiava l’uso di un certo preparato il cui nome cominciava con clor... Sono andati di corsa giù in cantina dove hanno trovato una bottiglia di detergente per vasche di pesci il cui nome cominciava con clor... L’hanno bevuta. Il marito è morto, la moglie è finita in ospedale. Non sono stati gli unici. C’è una “chiesa” in Florida, ardente sostenitrice di Trump, che predica il lavaggio intestinale a base di disinfettanti, per avere un corpo il più possibile pulito per quando Gesù ritornerà. Non è una novità. Ci sono esempi del genere nel cristianesimo del secondo secolo, quando si predicava la castrazione per andare in paradiso senza quegli imbarazzanti organi sessuali. Ma adesso siamo nel ventunesimo secolo e la mia domanda è questa: se un Imam fondamentalista dicesse a un membro dell’Isis di bersi una caraffa di candeggina, lui lo farebbe? Se Hitler avesse detto (detto, non ordinato) a una SS di bersi un litro di varechina alla sua salute, la SS l’avrebbe fatto? Se Mao avesse consigliato a una guardia rossa di pulirsi l’intestino con un bel bicchierone di clorochina, la guardia rossa l’avrebbe bevuta? Non ho una risposta, e so che il problema non riguarda più solo l’America, di casi ce ne sono stati anche altrove. Ma è dall’America che viene tutto, è all’America che abbiamo sempre guardato, e ora dall’America viene un desiderio di morte che fa impallidire il vecchio nichilismo mediterraneo (che è poi un altro nome della furberia).
Il serpente nel Giardino dell’Eden è proprio quella terribile paroletta, “diritti”. Io ho il “diritto costituzionale” di prendermi il COVID, se voglio, ho il “diritto costituzionale” di non mettermi la mascherina quando vado a fare la spesa, ho il “diritto costituzionale” di andare dal barbiere e di farmi un tatuaggio. Ma, primo: il proprio lifestyle non può essere e non sarà mai un diritto costituzionale; secondo (e qui mi rifaccio a Simone Weil, La prima radice), i diritti sono tali di fronte alla legge, non di fronte alla comunità. Davanti alla comunità il singolo ha solo degli obblighi, e la comunità ha degli obblighi verso di lui. Io ho l’obbligo di non fare del male alla mia comunità, e la mia comunità ha l’obbligo di non fare del male a me. La confusione tra diritto e obbligo distrugge ogni comunità. Purtroppo questa confusione è rampante anche dove non la si dovrebbe vedere, tra la sinistra (accademica e non), e perfino nei movimenti in difesa dei diritti civili e delle minoranze. Non ripeterò la vecchia, reazionaria frase, “Dove ci sono dei diritti ci sono anche dei doveri”. Dirò piuttosto che dove non ci sono diritti ci sono obblighi. Se il diritto viene ridotto al diritto di fare questo e di fare quest’altro - cioè il mio privilegio di classe o di razza di fare quello che mi pare, e a ramengo il mondo intero - lo stesso concetto di diritto alla vita non sta più in piedi, perché allora ci sarebbe anche il dovere di vivere. Ma se io sono vivo, allora devo fare di tutto perché la mia comunità viva, e la mia comunità ha l’obbligo di mantenermi in vita, anche se sono vecchio, anche se sono povero, anche se il colore della mia pelle non è quello della maggioranza dei miei concittadini, e anche se sono uno che sarebbe meglio per tutti se sparissi dalla faccia della Terra. Non ci sono eccezioni.
La conseguenza più triste di questo culto di morte che ha preso gli Stati Uniti per la gola, e che si riassume in Trump ma è cominciato prima di lui e non finirà con lui, è che anche le persone più miti finiscono per arrabbiarsi parecchio con i covidioti in marcia, e con qualche ragione (Gli idioti in marcia era il titolo di un racconto distopico degli anni Cinquanta, autore Cyril M. Kornbluth, in cui gli idioti, ormai la maggioranza sul pianeta Terra, vengono convinti a emigrare su Venere dopo essere stati convinti che è un paradiso tropicale). Non è bello leggere di un altro idiota che è morto perché “era una bufala” e pensare: “Bene. Uno di meno, e un letto d’ospedale in più per chi ne ha davvero bisogno”. È orribile, non foss’altro per tutto quello che ho appena scritto sugli obblighi che il vivere in una comunità impone (Simone Weil va ancora più in là: sostiene che un uomo solo nell’universo non avrebbe diritti ma avrebbe comunque degli obblighi). Non posso liquidare la questione sostenendo che chi mette a repentaglio la sua vita, quella della sua famiglia, e magari anche la mia, perché la Costituzione non dice che lui deve mettersi la mascherina, se l’è voluta e non è un mio problema. Purtroppo lo è.
Ma non posso neanche ignorare che, appunto, siamo di fronte a un esperimento epocale di disgregazione del concetto stesso di comunità, e la furberia di sopravvivenza, che è anti-comunitaria per eccellenza, è ormai necessaria. Lo stress che un presidente sociopatico esercita sulla psiche dei suoi cittadini, non importa se sono sostenitori od oppositori, sta raggiungendo limiti che la nazione non può più tollerare senza finire essa stessa soggetta a episodi psicotici acuti. Conferenza stampa di pochi giorni fa: Come stanno andando le cose, signor presidente? Bene, benissimo, stiamo facendo un ottimo lavoro. Si rivolge a un tale seduto alla sua destra: Quanti morti? 130.000, signor presidente. Ah, sì, 130.000, Dunque, dicevo, stiamo facendo un ottimo lavoro...
Queste iniezioni giornaliere di disempatia, in cui il presidente parla dei suoi cittadini come di un formicaio appena bruciato (nel plauso del già citato 40%) hanno l’effetto di farti sentire ancora meno empatico di quello che sei, e io non mi escludo. Non sarebbero così efficaci, però, se non si basassero su un fondo comune già presente, su una sociopatia diffusa che è sempre stata parte dell’anima americana. Insieme al puritanesimo e all’illuminismo, il libertarismo estremo, cioè il rifiuto totale dell’idea di società civile (quella degli obblighi e non dei diritti), ha contribuito per la sua parte a fare dell’America quello che è stata e quello che è oggi. Ma quello che sarà domani non lo sappiamo, perché questa creatura essenzialmente folle che è l’“americano” di razza bianca (gli altri hanno altri problemi), devastato dal suo Dio, dal suo paesaggio e dal suo clima (se non siete mai stati nel nord del Texas, diciamo tra Abilene e Lubbock, non potete capire la sensazione fisica che il resto del mondo semplicemente non esista), e che finora trovava sfogo nell’alcol, nelle armi o nella convinzione di essere razzialmente superiore, ora capisce che il suo mondo sta per finire, e nella sua caduta ci deve trascinare con lui.
* Doppiozero, 19 luglio 22020 (ripresa parziale).
Un messaggio dell’imperatore
di Franz Kafka *
L’imperatore - così si racconta - ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.
Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma questo mai e poi mai potrà avvenire - c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera
* Cfr. Franz Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1990, pp. 235-236.
UNA "TESTIMONIANZA" DELLA "CRONISTA CONZANA" [1691] SULL’AMICIZIA DELLA CITTA’ DI CONTURSI CON L’IMPERATORE CARLO V :
"Fù onorata questa Terra dall’imperatore Carlo V, il quale passò per Contursi e l’Auletta, ed in Contursi nobilitò quei cittadini dicendo “nobilitamus omnes cives contursinos” e perciò li cittadini di detta Terra sin’al presente giorno si vanno vantando essere nobili e tengono un certo libro de’ loro privilegi e capitolazioni, volgarmente detto il livro rosso, ove sono tutte le raggioni e decreti fatti nel S. C. [Sacro Consiglio] e R. C. [Regia Camera] à pro dell’Università e vi è in detto libro una cosa curiosa ed è che L’arciprete di Contursi antichissimo haveva non so che teneva col padrone di detta Terra ed il detto se n’andò à ritrovare Carlo V sino à Spagna e detto Imperatore ordinò al padrone di detta Terra, sotto rigorose pene, che non molestasse il detto Arciprete, mà perché detto padrone di Contursi prese à malo tal fatto, perciò ritornò un’altra volta il detto Arciprete à Spagna ed otten’ordine dal detto Imperatore diretto al detto padrone di Conturso che in ogni mese mandasse fede di quale verità della salute che godeva detto Arciprete e ciò à proprie spese dal detto Barone e sin’hora in detto libro se ne conservano le lettere originali" (Cfr. “La Cronista Conzana del Castellani", a cura di don Franco Celetta, Circolo Culturale Cristiano “Santa croce”, Montella [...] : cfr. il Libro rosso dell’Università della Terra di Conturso, A cura di Salvatore Bini, Arci Postiglione 2018, vol. I, pp. 21-22).
Federico La Sala
Teresa d’Avila.
Il «Castello interiore» come porta del paradiso
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 15 ottobre 2020)
Sarebbe “follia” cercare di entrare in Cielo senza prima entrare in noi stessi: è lì che possiamo cogliere i doni che Dio ci ha dato e renderci conto del nostro bisogno della sua misericordia. In questo cammino abbiamo testimoni autorevoli che ci aiutano e ci guidano, come santa Teresa d’Avila, la cui eredità più preziosa si trova nel suo “Castello interiore” e nella sua opera riformatrice del Carmelo.
Nata nel 1515 ad Avila, era entrata nel Carmelo nel 1535 prendendo il nome di Teresa di Gesù. All’età di 39 anni, dopo un travagliato percorso interiore, visse quella che lei chiamò la sua “conversione”, dedicandosi poi alla riforma dei monasteri carmelitani sia femminili che maschili. Morì ad Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582; santa dal 1622, nel 1970 è stata proclamata dottore della Chiesa. [...].
FRANZ KAFKA
[NOTE SU]
IL CASTELLO *
Il castello (titolo originale tedesco: Das Schloß) di Franz Kafka (1883-1924), scritto intorno al 1922[1] e pubblicato postumo nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi dello scrittore praghese. Rimasto incompiuto, Il castello, spesso oscuro e a volte surreale, è centrato sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, e quindi dell’alienazione e della frustrazione continua dell’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana emarginandolo.[1] [...].
Genesi e struttura
Kafka comincia a lavorare al romanzo presumibilmente intorno al 1921, ma lo completa in gran parte nell’anno successivo. Il 15 marzo di quest’anno ne legge all’amico Max Brod la parte iniziale. In una lettera giunta l’11 settembre, sempre a Max Brod, Kafka si lamenta di non essere in grado di tradurre in parole il «carattere demoniaco delle figure del romanzo»[1] e conclude di aver interrotto «per sempre la storia del Castello».[1] Sono questi gli anni in cui la tubercolosi si aggrava e i ricoveri si fanno più frequenti, ma anche gli anni nei quali la difficile relazione con Milena, probabile ispiratrice della figura di Frieda, può essere considerata conclusa. Kafka morirà due anni più tardi, ricoverato nel sanatorio di Kierling.[1]
Il manoscritto, che secondo le istruzioni di Kafka stesso doveva essere bruciato alla sua morte, presenta soltanto una suddivisione ed è privo di titolo. Sarà sempre l’inseparabile Max Brod che ne curerà la prima edizione nel 1926 suddividendo l’opera in venti capitoli e intitolandolo Das Schloß (Il castello), essendosi Kafka così sempre riferito al romanzo.[1]
I significati
Il romanzo di Kafka ha dato vita a numerose interpretazioni critiche nel corso del Novecento. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1926 a cura dell’amico Max Brod, il quale aggiunse una postfazione nella quale avanzava un’interpretazione teologica dell’opera. Secondo Brod il Castello rappresenterebbe la Grazia divina, mentre Il processo, il secondo romanzo di Kafka, sarebbe centrato sul tema della Giustizia di Dio. Il protagonista è dunque l’uomo che si barcamena fra le vicende del quotidiano cercando di comprendere il misterioso disegno del deus absconditus, quella legge che stabilisce il bene, il male e il destino stesso, alla quale legge è impossibile accedere ma alla quale l’uomo aspira fidando nella benevolenza di Dio, nella sua grazia. L’interpretazione di Brod condizionò pesantemente tutti i primi commentatori.[1]
Negli anni quaranta, a opera di Erich Fromm, Angel Flores, Charles Neider e altri, si diffuse l’interpretazione psicoanalitica del romanzo. Facendo riferimento alla celeberrima Lettera al padre, si è così visto ne Il castello l’espressione della persecuzione, della colpa e della solitudine dell’uomo al cospetto dell’autorità. Il villaggio in cui K. giunge è un ambiente estraneo, misterioso e avverso, sul quale la figura del Castello si erge come minacciosa e ostile.[1]
Successivamente la critica sociologica cercò di liberarsi da interpretazioni religiose e psicoanalitiche per mettere in luce la concretezza dei nessi che Kafka evidenzia nel rapporto fra l’uomo e la società. Walter Benjamin, Theodor W. Adorno, György Lukács sono i nomi più noti di un’analisi condotta in tal senso.[1]
Le vicende dell’agrimensore K. rappresentano la proiezione dell’impotenza e delle frustrazioni dell’uomo moderno, il quale si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione. Il protagonista si sente ovunque solo e alienato, il suo rapporto con il mondo esterno è ormai completamente compromesso, e la presenza cupa e minacciosa del Castello rappresenta un’entità superiore negativa che finisce per determinare e opprimere l’esistenza dell’uomo. In questa prospettiva, si è perduto il senso di ogni cosa. Per Kafka la ragione diventa così inutile: l’essere viene destrutturato fino a perdere la propria identità, come dimostra il nome stesso dell’agrimensore ridotto alla sola lettera K. (l’uso di questa iniziale richiama inevitabilmente il nome dell’autore). [...].
Santa Marta.
L’orfanezza che proviamo e la promessa che rincuora
di Marina Corradi (Avvenire, mercoledì 20 maggio 2020)
Nell’ultima Messa mattutina in diretta tv e social il Papa lascia il segno «Oggi nel mondo c’è un grande sentimento di orfanezza: tanti hanno tante cose, ma manca il Padre». È domenica mattina. Ascolti il Papa, per l’ultima volta nelle Messe da Santa Marta aperte al popolo della tv e dei social, e le sue parole ti sembrano una freccia che lascia il segno, cogliendo il bersaglio. Un bersaglio dolente e misconosciuto: qualcosa che riguarda il nostro modo di vivere, nel suo livello più profondo.
Orfanezza, dice Francesco, e ti pare uno strano sostantivo (esistente però, dice il vocabolario); un’espressione che tuttavia centra con precisione un malessere carsico del nostro tempo. Orfanezza: il sentimento di non avere un Padre e dunque di non essere un figlio. Di non camminare in un disegno, ma dentro un caso cieco. Forse lo può capire meglio chi non è sempre vissuto nella fede: percepirsi soli, chissà perché venuti al mondo, e non veramente cari a nessuno.
Chi ha ereditato in famiglia una fede di roccia stenta magari a immedesimarsi in questa assoluta solitudine, che però accomuna oggi un grande numero di uomini e donne. Quando le cronache raccontano di vandalismi gratuiti, di aggressioni ai deboli, di cattiverie senza ragione, ecco sembra di vedere sotto a questo male stupido, al male fatto per passare il tempo, quella vena sotterranea di cui parla Francesco: orfanezza. Sbandamento, noia, aggressività da figli di nessuno. Figli che nessun Padre, e forse nemmeno un padre in carne e ossa, aspetta a casa, la sera. «Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Sempre le guerre, sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di orfanezza: manca il Padre, che faccia la pace», ha continuato Francesco.
E di nuovo la sensazione di sentire evocare l’origine, una radice antica della violenza tra gli uomini. Da quella immane dei conflitti mondiali e delle persecuzioni, a quella “piccola” di certe liti di condominio, apparentemente banali, e che però si trascinano anni e creano “piccoli” odi tenaci. Perché se non si è figli di un Padre, non si è nemmeno fratelli. Se non c’è un vincolo d’appartenenza e amore forte come asse portante di sé, tutto il resto è sospeso alla consistenza della persona. Che può essere leale e perfino stoica, oppure instabile e incerta, o concentrata solo sul proprio interesse. Ma manca un centro, su cui gravitare. (Ha scritto Kafka: «Anch’io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c’è più il corpo relativo»). «E una delle conseguenze del senso di orfanezza è l’insulto», aggiunge il Papa.
Pensi all’odio che tracima sul web nei messaggi degli haters, gli odiatori: che odiano gli immigrati, o gli ebrei, o i musulmani, o quelli che non la pensano come loro. Protetti dall’anonimato vomitano un odio che probabilmente nella vita quotidiana dissimulano. Una quantità di odio che spaventa. Ma anche quello, dice Francesco, è un male che attinge all’orfanezza, al non essere figli, né fratelli. All’essere soli - e, forse, smarriti in fondo nell’angoscia e nello spavento.
Come bambini nel buio. «Non vi lascerò orfani», è la promessa di Cristo nel Vangelo di Giovanni, che il Papa ci ricorda. Promessa e memoria da rinnovare ogni mattina. Non siamo orfani venuti al mondo per un caso fortuito, abbandonati alla Fortuna cieca dei pagani. Pensiamo a come una madre e un padre guardano, istintivamente, un figlio appena nato. Non sarà infinitamente più grande l’amore di Dio per ogni uomo? Ricordarlo, per sottrarci dai vapori di questa orfanezza che marca il nostro tempo. Pieno, per molti, di tante cose che una volta non c’erano; ma mancante, dolorosamente, di ciò che è più necessario.
PANDEMIA E “APOCALISSE”. La rivelazione del “lato nascosto” della lezione di Marx: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo... *
A). A lezione di pandemia: "[...] La pandemia ha funzionato come l’apparizione di un nuovo idolo, terrificante e promettente al contempo, che imprigiona fisicamente ma libera lo spirito, che si presenta come un fenomeno brutalmente naturale - un’ennesima manifestazione della Natura matrigna indifferente all’Umanità - ma fin da subito agisce come enorme costrutto socio-culturale, ricettacolo di proiezioni immaginarie, dai sogni rivoluzionari più rosei agli incubi apocalittici più turpi. Soprattutto ha offerto la possibilità al cittadino di partecipare a un immane (e tragico) esperimento, la sospensione del modello produttivo capitalistico, e di riflettere a come uscire dal confino e al contempo dal mondo precedente, quello che sembrava avviato a un fatale deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta. Insomma, il fenomeno virale si è manifestato all’insegna di una costitutiva ambivalenza, che ha messo in scacco tutta una serie di opposizioni concettuali che avevano ampio corso nel mondo precedente [...]"(Andrea Inglese, "A lezione di pandemia: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo", 14 aprile 2020).
B). "VI è è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo": “[...] L’idea di - con un’espressione assai approssimativa - una socialità non capitalistica all’interno del capitalismo deriva da una visione antropologica e filosofica non solo del capitalismo, ma da una concezione globale delle società storiche e del loro funzionamento. In quest’ottica, questa idea vale come un dato di fatto. [...] Vi è una sorta di funzionamento solidale e coordinato che precede qualsiasi opzione morale specifica e qualsiasi opzione ideologica specifica. (Ed è questo tessuto sottostante che ha minacciato di rompersi, con l’opzione della moria indiscriminata dei più vulnerabili al virus.)
Detto questo, il discorso si puo’ fare anche rovesciato. Ossia, possiamo dirci anti-capitalistici finché vogliamo, ma ogni giorno il capitalismo, in tutti i suoi aspetti, funziona grazie alla nostra collaborazione, siamo noi che lo portiamo avanti a tutti i livelli dell’organizzazione sociale” (Andrea Inglese - cit. , 18 aprile 2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam) - Con Marx, oltre.
La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
Letteratura.
Humor e misericordia, l’arte ebraica del narrare
Un saggio di Daniele Castellari indaga il manifestarsi del sorriso umano e della pietà divina nei romanzi di grandi autori ebrei del Novecento, da Yehoshua a Grossman, da Roth a Singer a Elie Wiesel
di Roberto Righetto (Avvenire, giovedì 20 febbraio 2020)
[Foto] Marc Chagall, “Sogno e magia”
Umorismo e misericordia. Ma anche angoscia e rabbia. E tanto, tantissimo dolore. Sono alcune delle caratteristiche di gran parte della narrativa ebraica. Prendiamo il romanzo Il responsabile delle risorse umane di Abraham Yehoshua (Einaudi 2004), dove il protagonista deve svelare il mistero di un’ex dipendente dell’azienda, morta in un attentato terroristico a Gerusalemme e il cui corpo giace all’obitorio senza che nessuno l’abbia riconosciuto. D’accordo col proprietario dell’impresa, accusata da un giornale scandalistico di disumanità per aver dimenticato la donna, egli con un atto di magnanimità e fra mille peripezie conduce la salma di Julia nel Paese da cui era venuta, uno dei tanti dell’ex Urss. E qui scopre le origini ebraiche della vittima e, dopo averne incontrato i parenti, compie una scelta spiazzante: decide di riportare il corpo a Gerusalemme assecondando la richiesta della madre. Yehoshua mantiene un approccio laico alla vicenda e nel romanzo manca l’elemento della misericordia divina, ma c’è tanta compassione umana. Come non rassegnarsi all’orrore e far spazio all’accoglienza dell’altro, anche se non lo conosciamo?
A queste e a tante altre domande poste dalla letteratura ebraica cerca di rispondere un libro di Daniele Castellari, Non so se il riso o la pietà prevale, edito da Aliberti (pagine 190, euro 18; con prefazione di Moni Ovadia), che prende in esame sette romanzi del secolo scorso.
Umorismo e misericordia nel romanzo ebraico del Novecento è il sottotitolo del volume: nel caso di Yehoshua giustamente si annota come, in una vicenda che assume spesso toni grotteschi, il senso di responsabilità verso l’altro emerga a poco a poco nella coscienza dei personaggi coinvolti. Così anche in altre due opere contemporanee, Vedi alla voce: amore di David Grossman (Einaudi 1999) e La scatola nera di Amos Oz (Feltrinelli 2002).
In Grossman sembra prevalere l’humour nero, precisamente nel patto fra lo scrittore ebreo autore di novelle per bambini, prigioniero nel lager, e l’aguzzino nazista che ne ha ucciso la moglie e la figlia. Scoperte le qualità del prigioniero, il comandante tedesco vuole sfruttarne le abilità e lo costringe a comporre nuovi racconti, che poi farà leggere alla compagna, che l’ha lasciato a causa delle sue efferatezze, nella speranza che ritorni. Ma cosa spinge Anshel Wasserman ad accettare quella che ci pare una scandalosa sfida? Egli medita una vendetta paradossale: indurre a poco a poco il carnefice dei suoi cari a credere nella compassione. Con la storia che scrive riesce a «iniettare la belva nazista di umanità», come commenta Castellari.
Allo stesso modo i tanti personaggi del romanzo epistolare di Oz, incentrato su una famiglia in cui il rancore dell’uno verso l’altro sembra avere la meglio, si ritrovano avvolti sempre più nella logica del perdono. Non è un caso che Amos Oz più volte nelle sue interviste abbia dichiarato che il vero antidoto al fanatismo è il senso dello humour. Nell’articolata introduzione, Castellari distingue l’umorismo dall’ironia e ricorda come secondo il teologo André Neher il riso costituisca una sorta di pietrificazione capace di rendere inoffensivo il silenzio di Dio, tema di cui molto si parla in queste pagine in riferimento alla Shoah. Che è sempre presente negli altri romanzi esaminati, scritti da Joseph Roth, Israel Joshua Singer, Vasilij Grossman e Elie Wiesel.
Di quest’ultimo l’autore ha preferito analizzare Il testamento di un poeta assassinato (Giuntina 1981) invece che altre opere più note del premio Nobel per la pace dell’86, come La notte. Nel volume il riso si manifesta nella figura del guardiano del poeta padre del protagonista, incarcerato dai nazisti e poi dai comunisti. È il suo diario del gulag che Viktor preserva e grazie al quale egli ritrova, quando Paltiel Kossover (alter ego di Peretz Markish, figura realmente esistita a cui Wiesel di ispira) viene messo a morte, la capacità di ridere come riappropriazione della propria umanità. Il poeta e il suo custode in tal modo riescono a beffare il crudele regime sovietico, permettendo al figlio Grisha di conoscere la vera storia del genitore.
A sua volta il romanzo di Singer La famiglia Karnowski (Adelphi 2013), che si snoda attraverso tre generazioni, ristabilisce un clima di pietà e perdono al termine di lunghe tribolazioni. Lo stesso accade nelle due opere più famose prese in considerazione, Giobbe di Roth (Bompiani 1987) e Vita e destino di Grossman (Adelphi 2008). Mendel Singer, il primattore inventato dal più grande scrittore della Mitteleuropa, dopo immani sofferenze, esattamente come il personaggio biblico, recupera la pace e il senso di tutto il suo calvario. Singer voleva «bruciare Dio», fino al ritrovamento del figlio Menuchim di cui aveva perduto le tracce e che incontra per caso a New York senza riconoscere. L’aveva abbandonato perché gli pareva un idiota, ma è divenuto un musicista di talento e si è costruito una famiglia. «Mendel si addormentò. Si riposò così dal peso della felicità e della grandezza dei miracoli» sono le ultime parole del romanzo. Per non parlare di Vita e destino, una delle opere più importanti del ’900.
Nella messa a nudo delle efferatezze dei totalitarismi, pressoché gemelli come emerge mirabilmente nel dialogo fra il comandante delle Ss Liss e il suo prigioniero russo Mostovskoj, Grossman riesce ad enucleare una teologia della bontà. Condensata in una scena drammatica che si svolge dopo l’assedio di Stalingrado e la vittoria sovietica, allorché una donna russa offre un pezzo di pane a un ufficiale tedesco fatto prigioniero, mentre il nazista sta per essere linciato. Ma in vari altri episodi traspare «l’umanità semplice dei vecchi e dei bambini», «la bontà umile», come dice Castellari, una bontà che si esprime in gesti apparentemente illogici ma non è che il segno del «sollievo umoristico della misericordia ».
Alcuni critici hanno notato che Kafka, a Praga, mentre leggeva agli amici La metamorfosi, rideva fino alle lacrime e indubbiamente rimane un mistero la presenza del comico all’interno del tragico. Proprio per questo Milan Kundera, nel saggio L’arte del romanzo (Adelphi 1993), cita un proverbio ebraico: «L’uomo pensa, Dio ride». Il sorriso e lo humour sono uno dei volti della misericordia, come ben precisa Moni Ovadia.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
«Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ’Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3).
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Polonia. Beati i genitori di Wojtyla? I vescovi chiedono di aprire la causa
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale
di Redazione Catholica (Avvenire, venerdì 11 ottobre 2019)
Nel corso della 384ª plenaria dell’episcopato polacco (8-9 ottobre) i vescovi hanno discusso diversi aspetti delle celebrazioni del 100° anniversario della nascita di Karol Wojtyla che cadrà il 18 maggio 2020. L’arcidiocesi di Cracovia ha ottenuto così da parte della Conferenza episcopale, come riporta l’agenzia Sir, l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per il nulla osta all’istruzione a livello diocesano del processo di beatificazione dei genitori di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla e Emilia Kaczorowska.
«Non c’è il minimo dubbio che la spiritualità del futuro santo pontefice si sia formata in famiglia e grazie alla fede dei suoi genitori», ha osservato il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di Giovanni Paolo II. Il porporato si è detto convinto che «i genitori del Papa polacco possano diventare un valido esempio per le famiglie moderne» e ha ricordato che papa Francesco, durante la cerimonia di canonizzazione ha conferito a Wojtyla proprio il titolo di «Papa delle famiglie».
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale.
L’episcopato polacco, nel corso della plenaria ha inoltre appoggiato l’idea che Giovanni Paolo II diventi patrono della riconciliazione tra polacchi e ucraini, necessaria in seguito ai terribili crimini commessi durante l’ultimo conflitto mondiale. La «teologia del dialogo, della riconciliazione e del perdono» promossa dal Papa polacco «in base ai valori del Vangelo» ha permesso ad entrambi i popoli “di compiere dei passi importanti sulla strada della reciproca comprensione”, concordano i vescovi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Chiesa ed Eucharistia. Il comandamento dell’amore e la norma personalistica ....
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger)!!!
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Lo sguardo di un’antropologa /
Margaret Mead. America allo specchio
di Daniela Gross (Doppiozero, 02.10.2019)
Chi sono gli americani? A porsi la domanda, alla vigilia dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, è Margaret Mead. Siamo nel 1942 e un “inventario preciso” del carattere nazionale le appare necessario e urgente quanto la conta delle forze materiali in campo. Il risultato è America allo specchio - Lo sguardo di un’antropologa (pp. 264, trad. Lina Franchetti e Ada Arduini), uno dei suoi testi più noti appena riproposto da il Saggiatore, dove, spaziando dalla famiglia al mito del successo, s’inoltra nell’identità e nella cultura degli Stati Uniti per ritrarne i punti di forza e le debolezze.
Scritto nell’arco di poche settimane, il libro nasce dall’esperienza maturata nelle ricerche in Oceania ed è figlio di un’urgenza politica che si dichiara a ogni pagina. Vincere la guerra contro i totalitarismi è fondamentale, ripete Mead, al tempo impegnata nello sforzo bellico per conto di diverse agenzie governative. E nulla meglio del “carattere americano”, con il suo “miscuglio di praticità e di fede nel potere di Dio”, può riuscire in quest’impresa che è “preludio a un compito più grande - la ricostruzione della civiltà del mondo”.
And Keep your Powder Dry, come più bellicosamente il libro s’intitola in inglese dalla celebre esortazione di Cromwell “Abbiate fede in Dio, ragazzi miei, e tenete asciutte le polveri”, indica come si possa “combattere e vincere alla maniera americana”. Per dirla con Mead, è ciò “che l’antropologia come scienza può offrire per aiutare questa guerra, per dire a ogni americano: ‘Ecco uno strumento che potete usare, per sentirvi forti, non deboli, per sentirvi sicuri e orgogliosi del futuro’”.
È uno spostamento di prospettiva che conquista il pubblico. Scritto in un linguaggio semplice e diretto, America allo specchio sfonda i confini specialistici e diventa subito un classico che entra come libro di testo nelle università. Se alla luce di quel ritratto sia ancora possibile ottant’anni dopo leggere il Paese, è però un altro discorso.
Da quando vivo negli Stati Uniti, l’interrogativo di Mead mi tormenta ogni giorno. Chi sono gli americani? Perché fanno, pensano, ridono così? Sarà perché abito nel Deep South, lontana da New York o San Francisco che mi sembrano più familiari, ma la percezione di uno stacco fra me e loro non mi lascia e ogni tanto finisco a sbatterci la faccia.
È un mondo altro, ha le sue regole e i suoi codici. Ho smesso di chiedermi se è meglio o peggio. È così. È un’altra lingua da imparare. Ho dunque letto America allo specchio con la curiosità pressante di chi ha bisogno di capire. Più che impadronirmi di un pugno di risposte, mi sono ritrovata però a moltiplicare le domande.
Lo strumento messo a punto da Mead risente del mutare dei tempi, come lei stessa nota nell’introduzione all’edizione del 1965. La vibrante fiducia nel futuro che ha accompagnato l’uscita del libro lascia qui il posto a un disincanto alimentato da temi ancora di stringente attualità: la disparità crescente fra ricchi e poveri, le tentazioni isolazioniste e la reviviscenza dell’estremismo di destra. “Non è che gli americani siano cambiati poi molto”, conclude. “Ciò che è cambiato è il mondo e la nostra capacità di comprendere e agire in base alla nostra comprensione di questo mondo diverso”.
Da allora il mondo non ha smesso di cambiare e così l’America. Non solo i 130 milioni di americani di cui parla Mead sono diventati quasi 330, ma il loro profilo demografico si sta rovesciando come allora non si poteva immaginare. Entro il 2050, dicono le proiezioni, negli Stati Uniti i bianchi sono destinati a diventare minoranza e avviarsi a un lento declino. Le minoranze continueranno invece la loro rincorsa - al primo posto gli ispanici, seguiti dagli afroamericani, dagli asiatici e dalle sempre più numerose famiglie multietniche.
L’America di Mead è un’altra cosa. “Tutti siamo della terza generazione”, s’intitola il capitolo che celebra il mito fondativo del melting pot. E questa generazione, “sempre occupata a spostarsi, sempre occupata a sistemarsi”, abbandona le enclave dove i nonni e i padri si erano stretti ai conterranei (“le Piccole Italie”, “il Quartiere ceco”, la “Chiesa polacca”), cerca altre opportunità e lungo la via costruisce una nuova società, con nuove norme e nuovi rituali. “Ogni americano ha seguito una via lunga e tortuosa: se le vie sono cominciate nello stesso posto in Europa, meglio dimenticarlo - questo legame conduce addietro nel passato che è meglio lasciarsi alle spalle”.
Il paese che si riflette in questo specchio è bianco. E quel bianco si sfoca ad accomunare in una medesima identità tedeschi e irlandesi, polacchi e italiani. Come se la whiteness non si fosse articolata nel tempo in una gerarchia razzista portatrice di odio e discriminazioni - basti ricordare com’erano considerati allora gli italiani del Meridione, per non parlare degli ebrei. Quanto agli afroamericani, sono evocati ma non si vedono come le altre minoranze. Per la cronaca, nel 1940 le statistiche registrano come Non Hispanic White l’88.3 per cento della popolazione e Mead comunque esclude dalla sua analisi il Sud, dove la popolazione afroamericana si concentra.
La sua descrizione finisce così per prescindere dal colore, il genere o la classe, ignorando il retaggio di violenza razziale e sociale con cui peraltro l’antropologa si confronterà in altri scritti. È un ritratto d’epoca che, forse per l’imminenza della guerra, forse per la volontà di parlare a un ampio pubblico, tende a sfumare nell’idealità del mito. È un filtro che va aggiustato con cura per guardare all’America di oggi.
Se gli Stati Uniti non sono più quelli, il sistema di valori che Mead delinea in pagine memorabili resiste nel discorso pubblico e nell’intenzione dei buoni propositi. Non per caso il titolo inglese, perfetto per il tempo di guerra, rimanda a Cromwell. Nel motto puritano Mead rintraccia la formula che ha fatto grande l’America - quel misto di fede, buon senso e duro lavoro che crea e alimenta il successo perché in esso riconosce il favore di Dio e il premio alla virtù.
Non per caso al tempo del New Deal, ricorda Mead, la drammatica catena di fallimenti e il programma di sussidi pubblici hanno fatto vacillare “l’edificio morale dell’universo” agli occhi degli americani. Se non erano più il lavoro e il timor di Dio a portare con sé la loro ricompensa, il fondamento puritano su cui il Paese poggiava finiva per sgretolarsi.
Pur in uno scenario economico e sociale radicalmente mutato, quell’edificio per quanto traballante è ancora in piedi. Il successo rimane valore e desta ammirazione, come la ricchezza che ne deriva (basti pensare alla trionfale mitologia che circonda gli eroi della Silicon Valley o alla traiettoria del presidente Trump).
La competizione per riuscire non conosce sosta o reti di salvataggio. Si comincia da piccoli e si va avanti fino all’ultimo respiro. “L’orgoglio è possibile nei termini della distanza da cui [siamo] venuti”, scrive Mead. In altre parole, per riuscire si deve fare meglio dei nostri genitori e un giorno i figli dovranno fare meglio di noi. Ogni estate il rituale isterico della corsa al college più prestigioso ci rammenta questa verità. Chi non migliora, si vergogna. Fermarsi è un’alternativa da perdenti.
È il volto buio dell’American dream, la condanna morale di chi resta indietro. L’insuccesso è colpa di chi fallisce, spiega Mead. Il povero è tale perché non s’impegna. Ridotta a una questione di buona volontà del singolo, svincolata da ogni determinante storico-sociale, la povertà finisce per essere associata alla colpa. Non ce la fai perché non vuoi, è il leit motiv che ancora segna il discorso pubblico e affossa i tentativi di migliorare il sistema di supporto sociale o avviare un sistema sanitario universale.
È un tessuto morale che ogni giorno la realtà s’incarica di smentire. La fluidità sociale immaginata da Mead si spegne nel divario sempre più profondo fra ricchi e poveri, nel razzismo pervasivo, nella violenza delle armi da fuoco, nell’epidemia di overdose, nella crisi della classe media, nelle crudeltà della stretta sull’immigrazione. E i millennial che accorrono al richiamo di Bernie Sanders sono la testimonianza vivente del fatto che il sogno ha eluso perfino loro, la generazione più istruita di tutti i tempi.
Le pagine di America allo specchio non forniscono facili ricette per decifrare questa realtà così complessa e in costante evoluzione, ma senz’altro indicano la strada. Non per caso l’epigrafe del libro rimanda a Archibald Mac Leish - “Abbiamo imparato le risposte, tutte le risposte: è la domanda che non conosciamo”.
Spiega Margaret Mead, “Soltanto di recente abbiamo smesso di formulare risposte e abbiamo cominciato a fare domande; fare domande accurate, utili e adeguatamente elaborate, ponendoci dei problemi invece che sottometterci al disastro o trovare nuovi modi di sottometterci ai vecchi disastri”. Ottant’anni dopo, servono nuove domande. I disastri ormai li conosciamo bene.
L’Americaaaa!
di Romano A. Fiocchi (Nazione Indiana, 23 maggio 2019)
Pochi sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!
Ma l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il 1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di Americani.
Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi, come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da un intero romanzo...)
Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2, l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della Libreria del Mondo Offeso.
Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino, la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti: cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal vecchio continente.
Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli, Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi.
Gli altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto, TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta sino ad essere respinto.
Tutti insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un pugliese, all’altro capo - previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione - ne esce un americano”. Col tempo le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase: Welcome to America.
Perec non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale: “L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.
Tutto questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici ore al giorno. “I tacchini - scrive Perec - non cadevano già arrostiti direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave, fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum, corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo”.
L’American dream e la nuova sinistra americana
di Antonio Funiciello (Il Mulino, 24 maggio 2019)
Che cos’è il sogno americano? Lo storico premio Pulitzer James Truslow Adams ha scritto, in The Epic of America (1931):
Thomas Jefferson, sempre in polemica con l’Europa classista, aveva già fissato l’obiettivo della nuova Repubblica che gli americani stavano costruendo: opporre all’aristocrazia europea dei privilegi e della ricchezza un’aristocrazia americana delle virtù e dei talenti. Una Repubblica guidata da una siffatta aristocrazia non avrebbe potuto che accrescere le proprie potenzialità e disporsi a essere lo spazio di vita migliore per quel pursuit of happiness che, in ultima istanza, è il vero fondamento e lo scopo del sogno americano.
Ma come calibrare il primato dell’American dream in una società aliena o allergica alla lotta di classe che, a partire dalla metà dell’Ottocento, infiammava invece il vecchio continente come un enorme bosco di alberi secchi? Semplice: concependo il sogno americano in un’ottica espansiva e includente. Lo suggeriva anzitutto la filosofia: quell’illuminismo schietto a cui i padri fondatori erano legati. Lo consigliava anche la geografia: in una terra così immensa per una popolazione così esigua, non c’era motivo di pensare che non ci sarebbe stato spazio e fortuna per tutti. Ma lo ispirava anche la lontananza da quell’Europa bigia e litigiosa, organizzata in società dove il destino dei singoli era strettamente legato alla discendenza familiare.
Così l’American dream divenne l’essenza dell’ethos nazionale americano: perché era un sogno che univa senza dividere; un sogno da fare insieme, eppure ognuno a casa propria; un sogno cominciato con tredici colonie, ma che non poteva avere fine perché i suoi principi erano truths to be self-evident in ogni luogo e in ogni tempo. E da subito, infatti, i partiti maggiori e i leader americani più importanti cominciarono a modellare la propria identità sulla base di chi meglio sapeva interpretare la capacità di espansione e il potere di inclusione dell’American dream.
Se è vero che la Guerra civile scoppiò prevalentemente per ragioni economiche, essa fu in realtà così dirompente perché si nutriva di una stringente contraddizione: negare la partecipazione attiva all’American dream a esseri umani di diversa pigmentazione di quella della maggioranza degli americani. Una contraddizione che andava sradicata almeno nominalmente, con esplicito richiamo nella legge fondamentale dell’Unione. Consapevolezza che lentamente maturò in quel secondo padre della patria che, dopo George Washington, fu Abramo Lincoln.
Da Lincoln in poi, i soggetti del bipartitismo statunitense si sono definiti in relazione al sogno americano. Nel Partito democratico, si è assistito a una divisione interna tra gli ammiratori del sogno e i loro imitatori (la suggestione kierkegaardiana è qui voluta, con il conseguente parallelo tra sogno americano e cristianesimo). Da Woodrow Wilson a John Kennedy, una lunga schiera di democratici ammiratori del sogno hanno centrato su di esso il loro racconto. Da Lyndon Johnson a Bill Clinton, un altrettanto importante insieme di imitatori, interpreti e testimoni viventi del sogno (uomini venuti dal nulla e arrivati al 1600 di Pennsylvania Avenue) hanno rafforzato, con la loro esemplare biografia, il legame della sinistra americana con il sogno.
Sia gli imitatori sia gli ammiratori dell’American dream non sono mai venuti meno - e ciò li unisce indissolubilmente - alla versione di un sogno che fosse espansiva e includente. In fondo, anche il lungo dibattito post Seconda guerra mondiale, che portò alle leggi del presidente Johnson contro l’apartheid verso i neri d’America, era un dibattito centrato sull’American dream. In particolare, i leader dei diritti civili si dividevano tra chi (Martin Luther King su tutti) concepiva la battaglia per i diritti civili come l’ennesima tappa dell’espansione includente dell’American dream a ogni cittadino e chi proponeva una versione redistributiva ed escludente del sogno.
Alla fine, com’è noto, l’ebbe vinta ancora una volta la versione originaria, quella che allarga il campo, contro quella che s’incarica di creare divisione e conflitto. Il più bel discorso politico di tutti i tempi, l’orazione di King al Lincoln Memorial di Washington, era proprio il racconto di una visione espansiva e accogliente del sogno americano («I have a dream that one day in Alabama... little black boys and black girls will he able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers»).
Oggi che nuove minoranze pesano felicemente e finalmente nella politica statunitense, e i loro rappresentanti al Congresso cominciano a farsi sentire, il punto di complessità della questione democratica che pongono è ancora una volta sull’interpretazione dell’American dream. Martin Luther King, a differenza di altri leader neri, non ha mai detto che per dare ai neri (includendoli nel sogno) bisognava togliere ai bianchi (riducendo il loro spazio nel sogno). Oggi, viceversa, molti dei leader delle minoranze che vivacizzano la nuova sinistra americana propongono un’interpretazione redistributiva ed escludente del sogno.
C’è di buono che questi leader, a parte qualche sciocchezza detta su Israele, ripudiano la violenza e si sentono appassionatamente ingaggiati nelle forme istituzionali e nei modi costituzionali dell’Unione. Tuttavia le loro battaglie sono per lo più all’insegna di una contestazione feroce dell’occupazione degli spazi politici negati dai wasp e dalle piccole minoranze ai wasp alleate. Se le loro modalità di lotta non somigliano a quelle violente degli anni Sessanta, la loro retorica non somiglia purtroppo a quella di King.
È vero: l’incremento del gap tra chi ha di più e chi ha di meno negli States è costantemente cresciuto negli ultimi anni. In particolare sotto Barack Obama, l’uscita dalla grande crisi economica è stata accompagnata da un forte indebitamento generale, con il paradossale (per un presidente di sinistra...) ulteriore aumento del gap di cui sopra. Questo problema esiste, non solo in America, ed è enorme. Ma le minoranze che animano a sinistra la politica americana, sono poste di fronte a un tema che, prima di essere sociale ed economico, è filosofico e culturale.
Limitarsi, infatti, a una critica economica e sociale delle degenerazioni del sogno rende inefficace la critica in quegli Stati, in particolare del Midwest, dove la globalizzazione e la grande crisi economica hanno fatto danni non tra le minoranze emergenti, ma nella maggioranza bianca del Paese. Le policies economico-sociali della nuova sinistra americana non possono fare breccia in quegli Stati. Se si vuole davvero che la critica produca una proposta di governo nazionale capace di essere competitiva alle prossime presidenziali, l’esercizio intellettuale e politico va impegnato anche sul fronte dell’interpretazione filosofica e culturale dell’American dream a cui ci si vuole associare.
L’American dream funziona quando non nega ad alcuno di potercela fare: un americano non può usare l’America dream contro un altro americano. Quando è successo, c’è stata la guerra tra gli americani o tensioni sociali che hanno mietuto morti e feriti. Il sogno americano o è espansivo e includente o non è il sogno americano. È un punto concettuale dirimente, con il quale la nuova sinistra americana è chiamata, che le piaccia o meno, a fare i conti.
Reportage.
Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
Piccolo viaggio nell’isoletta alle porte di New York che è stata il punto di approdo dell’emigrazione europea in America fra Ottocento e Novecento. Oggi è il museo della nostra memoria
di Riccardo Michelucci (Avvenire, venerdì 29 marzo 2019)
[Foto] Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
Annie Moore arrivò il 1° gennaio 1892 dopo una lunga traversata sull’oceano. Si era imbarcata due settimane prima su una nave a vapore partita da Cork, nell’Irlanda meridionale. Quel giorno, nell’isoletta alle porte di New York, si respirava aria di festa. Il centro immigrazione era stato appena inaugurato e si preparava ad accogliere i primi emigranti in arrivo dal Vecchio Continente. Possiamo immaginare lo stupore e la felicità di quella 17enne irlandese quando il capo degli ispettori, John Weber, le consegnò una moneta d’oro da dieci dollari aprendole le porte del sogno americano. Una statua in bronzo all’interno del Museo nazionale dell’immigrazione di Ellis Island la ricorda oggi come la prima emigrante arrivata qua alla ricerca di una vita migliore. Dopo di lei sarebbero sbarcati altri dodici milioni di uomini, donne e bambini in gran parte europei, tantissimi dei quali italiani.
Annie Moore è diventata un simbolo di quell’emigrazione epocale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene uno studio recente abbia accertato che negli Stati Uniti non trovò mai la fortuna che cercava. Trascorse il resto della sua vita in povertà in un sobborgo di New York e morì poco più che 40 enne a causa di un attacco cardiaco, dopo aver seppellito cinque dei suoi undici figli, sfiniti dalle malattie e dalla denutrizione.
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo” e visitandola oggi è quasi impossibile non volgere il pensiero a chi, anche ai giorni nostri, è costretto a intraprendere viaggi simili, e vede spesso i suoi sogni sfociare nella disillusione. Un secolo fa questa era l’isola della speranza, nota anche come l’isola delle lacrime perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti. Le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure finire fatalmente divise da un destino crudele.
La Statua della Libertà è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. I grattacieli di Manhattan spiccano all’orizzonte lasciando immaginare la carica emotiva di chi arrivava qui dopo un’interminabile traversata oceanica. L’edificio principale di Ellis Island, in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno, è stato interamente restaurato e aperto al pubblico nel 1990 e ospita oggi l’unico museo statunitense che documenta la storia dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri. Ogni anno viene visitato da oltre quattro milioni di persone perché quasi la metà degli attuali abitanti degli Stati Uniti ha almeno un familiare passato dalle sue stanze.
Nel 1892 questa isoletta artificiale costruita con i detriti degli scavi della metropolitana di New York venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. Cinque anni dopo l’edificio principale finì distrutto da un incendio ma fu ricostruito e ampliato con nuovi spazi aggiunti per adeguare l’isola al crescente transito di persone provenienti da ogni parte del mondo. Le loro storie, in gran parte anonime, prendono forma al primo e al secondo piano con una serie di mostre fotografiche di grande impatto. Le sale e le stanze oggi adibite a spazi espositivi ricostruiscono esperienze di vita vissuta facendo ascoltare le voci registrate dei protagonisti e mostrando piccoli oggetti d’uso quotidiano come valigie, ceste, sacchi, utensili e abiti d’epoca.
«Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro», recitava un famoso canto degli emigrati italiani, «ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle». Ci sono stanze rimaste intatte da allora, come i dormitori nei quali sostavano i malati o le persone sottoposte a quarantena. Sempre al secondo piano si trova anche il luogo forse più evocativo dell’intero museo: l’enorme “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie.
Il restauro ha ricreato un ambiente identico a com’era cento anni fa: l’imponente soffitto a volta in mattoncini bianchi, il pavimento color vermiglio, le bandiere a stelle e strisce issate sui parapetti. L’assenza delle panche dove sedevano gli emigranti in attesa di giudizio conferisce al grande salone ormai spoglio un’atmosfera di tragica ineluttabilità. Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione. I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente.
Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza. Dai registri ufficiali risulta che appena il 2% degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa.
Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano.
Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500 mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile. In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ’20 posero fine alla politica di «porte aperte» degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità.
La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932. Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione. La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina.
L’ultima mostra fotografica racconta gli anni dell’abbandono e della successiva rinascita, con il lungo restauro che ha trasformato Ellis Island in un luogo imprescindibile della nostra memoria recente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" (Kafka).
Federico La Sala
Nella Rivoluzione americana, lo scontro di due Illuminismi
Storia. Nel suo saggio «Il grande incendio» (Einaudi), Jonathan Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense: una discussione
di Tiziano Bonazzi (il manifesto, 02.12.2018)
Nel 1959 lo storico americano Rober R. Palmer pubblicò un libro divenuto un classico, L’era delle rivoluzioni democratiche, 1760-1800, con il quale voleva dimostrare l’esistenza di una serie di movimenti democratici comuni a Europa e Stati Uniti dei quali le rivoluzioni americana e francese sarebbero stati i capisaldi. Palmer intendeva, così, sottrarre la Rivoluzione americana all’isolamento in cui sia europei che americani l’avevano relegata. Nell’individuare una comune matrice democratica atlantica, il volume aveva risvolti legati alla Guerra fredda; ma l’interpretazione ortodossa della Rivoluzione americana durante la Guerra fredda venne fissata da Hannah Arendt nel suo saggio Sulla rivoluzione, del 1963, in cui Rivoluzione americana e francese venivano rigidamente contrapposte. La prima, definita come esclusivamente politica perché si era compiuta in una società già largamente egualitaria, costituiva il modello di libertà a cui tutto l’Occidente non poteva non rifarsi; la seconda era il prototipo dell’incapacità democratica degli europei, il preludio necessario al totalitarismo novecentesco.
La tesi di Hannah Arendt si fondava sulla storiografia americana degli anni Cinquanta, la cosiddetta «scuola del consenso», che vedeva la società americana da sempre costituita dalla classe media, dove i conflitti sociali europei non avevano mai avuto spazio. Nel suo saggio appena uscito da Einaudi, Il grande incendio Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp. 880, euro 38,00) Jonathan Israel, storico delle idee inglese molto noto, che vive ora negli Stati Uniti, riprende la tesi di Palmer e controbatte quella di Arendt riconducendo la Rivoluzione americana al contesto europeo e dimostrando l’importanza che ebbe sia per i radicali europei che per quelli latinoamericani, fino al 1848. Del tutto necessaria, l’opera di Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense.
L’esempio dei radicali
Le sue tesi sull’Illuminismo e sulla Rivoluzione francese sono state molto discusse, e in particolare lo è la sua teorizzazione del dualismo fra l’Illuminismo moderato e quello da lui difeso, l’Illuminismo radicale, che proclamava l’universalità dei diritti e la necessità di garantirli ai gruppi esclusi, neri, donne, ebrei, istituendo una netta separazione fra stato e chiesa e battendosi per un effettivo pluralismo.
Priestley, Price, Paine, Condorcet, Volney, Raynal, Jefferson, Franklin, Filangieri sono alcuni degli autori che Israel elenca fra i radicali, per contrapporli ai moderati che si rifacevano al governo misto inglese, a Locke, a Montesquieu e a una visione ristretta della rappresentanza. In America John Adams e Hamilton ne furono i principali rappresentanti. Per Israel, entrambi gli Illuminismi nutrirono la Rivoluzione americana e vi si scontrarono non solo idealmente, ma politicamente. Ci fu, quindi, una rivoluzione radicale che ebbe nella Dichiarazione di indipendenza il suo manifesto e che si realizzò, ad esempio, in alcune costituzioni statali, dalla Pennsylvania al Vermont.
La versione moderata, invece - che si impose negli stati dove le élite erano più forti, come nella Carolina del Sud dominata dai piantatori di tabacco, per poi trovar spazio nella Costituzione del 1787 - pur partendo dagli stessi principi li interpretò in senso restrittivo, per esempio nella difesa pragmatica o di principio della schiavitù. Tuttavia, la Rivoluzione americana, in quanto tale, ispirò ovunque gli oppositori dell’ancien régime anche se per Israel - che su questo punto non è del tutto chiaro - fu quella radicale a servire da esempio. Così avvenne per i Girondini e Condorcet in Francia, per i rivoluzionari dell’America Latina che esplicitamente vi trovarono il modello a cui rifarsi, nonché per gli oppositori della Restaurazione in Germania, in Francia e altrove in Europa, compresa l’Italia.
Il grande affresco tracciato da Israel consente, quindi, di riportare la storia politica della Rivoluzione e della prima fase di vita degli Stati Uniti a un comune contesto euroamericano, che si consumò nel 1848 quando la reazione antimmigrati e il nazionalismo espansionista presero il sopravvento oltreatlantico, trovando nella guerra di conquista contro il Messico del 1848-49 il momento culminante. In Europa, invece, non solo fallirono le rivoluzioni liberali che in molti casi avevano la Rivoluzione americana e l’Illuminismo radicale come esempi, ma nazionalismo e socialismo sostituirono il richiamo a entrambi.
Per quanto essenziale a una rinnovata analisi dei decenni fra Sette e Ottocento, la massiccia monografia di Israel non può costituire l’unico punto di riferimento. Come anche altri storici del pensiero politico, infatti, Israel ritiene che il pensiero politico sia un sistema di idee dotato di un’autonoma dinamica intellettuale, in gran parte slegata dai movimenti e dagli eventi sociali, che a suo avviso non riescono ad andare oltre il ribellismo e rimandano alle élite intellettuali il compito di dare loro forma e obiettivi. È vero che per Israel lo scontro di idee e la lotta politica e sociale si svolgono contemporaneamente; ma fra essi esiste una gerarchia indiscutibile.
Leggere anche Alan Taylor
Delicato e ampiamente discusso, questo problema non trova tuttavia una soluzione nella prospettiva proposta dallo storico inglese, dalla quale si deduce che tolleranza e secolarizzazione, eventi sociopolitici centrali durante la rivoluzione in New England, Pennsylvania e Virginia, sarebbero il prodotto della filosofia illuminista senza alcun concreto riferimento al contesto in cui si manifestarono. Anche la separazione tra Illuminismo radicale e moderato sembra proporre una battaglia di ideali difficile da capire se riferita a una società americana, in realtà culturalmente assai più complessa. Così come non si comprendono bene le conseguenze concrete di quel dualismo, dal momento che Israel non è interessato alla lotta politica né alle istituzioni, non dedica attenzione al processo costituzionale e non cerca di comprendere i problemi concreti che gli alfieri dei suoi due Illuminismi hanno affrontato, quando crearono dal nulla uno stato capace di difendere la propria sovranità in un mondo atlantico in cui infuriavano i conflitti fra gli imperi.
E, per ultimo, nel criticare la solo parziale separazione di stato e chiesa negli Stati Uniti, Isarel trascura di considerare come i principali Padri Fondatori, deisti, abbiano dovuto agire in un contesto in cui le forze popolari erano politicamente decisive e profondamente protestanti. Se, dunque, il saggio di Israel funziona come un ottimo punto di partenza per smettere di vedere negli Stati Uniti un elemento estraneo alla storia dell’Europa fino a quando, nel Novecento, gli europei vi arrivarono da dominatori, occorrebbe quanto meno bilanciarlo con lo studio di Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale (anch’esso pubblicato da Einaudi), tutto centrato sullo scontro sociale che animò l’intera Rivoluzione americana.
La tragedia dell’Illuminismo
La Rivoluzione francese fu la fine dell’età dei Lumi, non la sua consacrazione
Robespierre ne eliminò gli uomini più lungimiranti e moderati, come Condorcet
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 Ore, 07 febbraio 2016).
Che libro strano questo di Jonathan Israel sulla Rivoluzione francese. Con le sue quasi mille pagine esso appare tanto affascinante e provocatorio quanto discutibile - se non inaccettabile, a mio parere - nella sua tesi di fondo che «l’Illuminismo radicale fu incontrovertibilmente l’unica “grande” causa della Rivoluzione francese» (pag. 790). Non v’è dubbio che Israel figuri in prima fila tra quanti hanno alimentato l’impetuoso e inevitabile rinnovamento della storiografia internazionale dopo il 1989 e la liquidazione dell’utopia comunista. Un rinnovamento che ha avuto il suo cuore pulsante soprattutto nel mondo di lingua inglese, e di cui, curiosamente, le motivazioni ideologiche e le forme che esso sta assumendo sono passate sotto silenzio in Europa. Spetta infatti a questo autorevole professore dell’ Institute of Advanced Studies di Princeton il merito di aver riportato la questione dell’Illuminismo al centro del dibattito storiografico mondiale, facendone un tema che per interesse e ricchezza di risultati è secondo solo all’ormai affollatissimo settore di studi della Global History.
In tre monumentali volumi, Israel ha dato vita a una suggestiva e potente narrazione unitaria dell’Illuminismo come da tempo non si era più vista. Lo ha fatto con una sorta di ritorno al passato, coniugando polemicamente storia e filosofia contro la storia sociale, la storia economica di matrice marxista, la nascente storia culturale e quel poco che ancora restava in circolazione degli epigoni delle «Annales».
Israel reinterpreta i Lumi come la concreta realizzazione nel corso del Settecento di un sistema filosofico, di una coerente e specifica ideologia spinoziana fondata sul monismo razionale e materialistico e sull’ateismo di Spinoza, e nutrita della circolazione e della diffusione di un sistema di idee eversive, repubblicane e democratiche che aveva i suoi nemici naturali nelle monarchie e le religioni. In questa prospettiva Israel divide, con tassonomica inflessibilità, gli illuministi buoni da quelli cattivi, gli atei dai deisti, i radicali dai moderati. Al Radical Enlightenment (titolo del suo primo volume sul tema, pubblicato nel 2001) rappresentato soprattutto da Helvetius, Diderot, d’Holbach, Condorcet - atei, anticlericali, fautori del repubblicanesimo, dei diritti umani, della democrazia rappresentativa - egli oppone una sorta di Illuminismo moderato, incarnato da Locke, Hume, Montesquieu, Voltaire, Turgot, Rousseau, fautori della religione naturale e del provvidenzialismo deista e “colpevoli” di posizioni politicamente conservatrici come l’assolutismo monarchico o il costituzionalismo inglese, o pericolose come la democrazia diretta celebrata dal grande ginevrino, padre spirituale di Robespierre e del Terrore.
Inutile dire che questa rigida rappresentazione di un Illuminismo radicale che vive di un legame organico tra il materialismo ateo e il radicalismo politico è stata duramente e giustamente contestata dalla critica. Per rimanere in Italia, come si fa a considerare un illuminista radicale quel Gaetano Filangieri che univa il costituzionalismo repubblicano e l’amore per i diritti dell’uomo alla militanza massonica e al credo deista? E che dire di Vico, addirittura segnalato come repubblicano e materialista?
Indomabile, impermeabile a ogni critica, Israel ora non esita a entrare con il suo teorema riduzionista nel terreno incandescente della Rivoluzione, rilanciando la vexata quaestio del nesso tra quest’ultima e i Lumi, nesso antico e tutto teleologico da tempo abbandonato dagli specialisti. Lo fa accusando tutti i protagonisti di un’ormai secolare storiografia - da Mathiez a Lefebvre a Soboul, sino a Furet - di non avere capito che la soluzione dell’enigma delle origini del 1789 non stava nello studio dei prezzi, o delle sollevazioni contadine o delle dinamiche di piazza, ma soprattutto se non esclusivamente nella storia intellettuale, nella potente «rivoluzione della mente» (per usare una sua espressione) prodotta dagli illuministi radicali.
Inutile dire che l’Hegel della Fenomenologia dello spirito avrebbe sorriso vedendo finalmente confermata la sua tesi della Rivoluzione come frutto del pensiero; non lo hanno fatto, invece, gli studiosi americani, che hanno subito reagito alla provocazione con recensioni al curaro.
Israel ripercorre la Rivoluzione reinterpretandone i momenti cruciali, naturalmente a modo suo. Prende sul serio le tesi complottarde di Barruel e le accuse di Burke agli illuministi quali padri della Rivoluzione, salvo tacciarle di genericità per non aver distinto tra illuministi radicali e moderati. Ai primi, pochi, ma padroni dell’opinione pubblica attraverso i giornali, guidati da Mirabeau, Sieyès, Brissot, Condorcet, Israel attribuisce la leadership rivoluzionaria sino al 1793. Sono loro i veri fautori dei diritti dell’uomo (non i deisti alla Voltaire o alla Rousseau), i padri delle leggi per l’eversione dell’aristocrazia, la separazione tra Chiesa e Stato, l’eguaglianza di fronte alla legge, l’abrogazione della monarchia, l’abolizione della schiavitù, l’introduzione del divorzio.
Nei convulsi dibattiti sulla prima costituzione democratica del mondo, nel 1793, i radicali si scontrarono con gli illuministi moderati ispirati al modello britannico, e seguaci di Montesquieu, Voltaire, Hume; al tempo stesso ebbero contro da un lato i robespierristi, dall’altro i fautori del Contro-illuminismo ispirati ai valori dell’Antico Regime. Essi si batterono a favore dei diritti dell’uomo, poi brutalmente sospesi nel 1793-94 e progressivamente abbandonati tra il 1799 e il 1804, anno del ripristino della schiavitù da parte di Napoleone.
La narrazione, va detto, è avvincente. E tuttavia, a un’analisi attenta, essa risulta tanto suggestiva quando artificiosa. Israel sopravvaluta l’omogeneità, l’identità e quindi i successi del fronte radicale. Condorcet, il grande eroe del libro, presunto capo degli illuministi radicali, non era certo un ateo militante ma bensì un massone deista, lockiano e ammiratore di Voltaire e di Rousseau. Così come deista era Thomas Paine, l’autore dei Rights of Man che fondava i diritti nella religione naturale. Del resto persino un indiscutibile materialista come d’Holbach preferiva parlare di doveri anziché di diritti dell’uomo, rendendo evidente come radicalismo filosofico e progressismo politico non andassero necessariamente accoppiati. La stessa Chiesa temeva e denunciava, più che gli atei materialisti, i deisti riformatori alla Voltaire; per Pio VI la Costituzione civile del clero era eretica e scismatica, non figlia dell’ateismo. Si potrebbe continuare, ma sarebbe ingeneroso.
Ad Israel spetta infatti il grande merito di aver raccontato per la prima volta quella che potremmo definire la tragedia dell’Illuminismo, la sua fine nel sangue al di là delle ipotizzate distinzioni al suo interno. Quel mondo, in tutte le sue componenti, fu infatti la prima vittima del Terrore, dell’odio di Marat e Robespierre e del cosiddetto «populismo autoritario» dei montagnardi per gli intellettuali, gli accademici e le élite. Giustiziati i massimi rappresentati dell’Illuminismo, fatti morire in carcere personaggi come Condorcet, la ghigliottina non risparmiò neppure le prime coraggiose femministe, teoriche dei diritti della donna, Olympe de Gouges e Madame Roland.
Il racconto di questa tragedia appare in queste pagine indignate una risposta forte anche a chi ha sempre voluto trasformare le vittime in carnefici invocando le presunte origini illuministiche del Terrore e condannando in blocco una Rivoluzione nata nel segno dei diritti dell’uomo e terminata con la dittatura di Napoleone, le Restaurazioni dell’Antico regime e la nascita dei primi egoismi nazionali.
Ma soprattutto queste pagine aprono di fatto una nuova stagione di studi sull’eredità dell’Illuminismo nella storia dell’Occidente: toccherà indagare, in futuro, sui cosiddetti Risorgimenti nazionali del XIX secolo, cui è estraneo il concetto di diritti dell’uomo, per comprendere davvero da dove veniamo. Di questo, al di là dei dissensi, dobbiamo essere grati alla fatica di Jonathan Israel .
* Jonathan Israel, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, traduzione di Palma Di Nunno e Marco Nani, Einaudi, Torino, pagg. 960, € 42
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana".
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per un rinascimento senza toga...*
* SUL TEMA, CFR.: IL "PADRE NOSTRO" E IL "CRISTO RE": IL REGNO DI DIO-MAMMONA ("CARITAS") O DI DIO-AMORE ("CHARITAS")!?
Federico La Sala
La crisi dello spirito americano
Stati Uniti. È quella che, secondo Allen Frances, impersona Trump: inneggia alla grandezza della nazione ma agisce in modo opposto a quel che serve
di Massimo Teodori (Il Sole.24 Ore, 04.11.2018)
Negli Stati Uniti le elezioni di mid term servono anche per tracciare un bilancio di come ha governato il Presidente eletto due anni prima. Se è positivo, il suo partito contiene le perdite che di solito si registrano nelle elezioni di mezzo; se negativo, la seconda parte del mandato presidenziale ne esce indebolita e l’esecutivo diviene una cosiddetta “anatra zoppa”. Martedì, 6 novembre, anche Donald Trump sarà sottoposto al giudizio degli elettori chiamati alle urne per scegliere tra una miriade di candidati locali, statali e federali, repubblicani o democratici.
Quest’anno la prova elettorale si presenta come un bivio decisivo perché se si risolverà in un altro successo repubblicano, significherà che l’ascesa alla Casa Bianca di un personaggio così anomalo non è stata una semplice parentesi; se invece il partito del Presidente perderà la maggioranza in almeno una Camera, vorrà dire che, accanto alle inchieste giudiziarie, in Congresso si metterà in moto la procedura per la rimozione.
In centinaia di libri, migliaia di giornali e trasmissioni televisive è stato sollevato l’interrogativo di come mai sia stato eletto un Presidente tanto ignorante, arrogante e inadeguato; ed è stato avanzato il sospetto che Trump sia afflitto da disturbi psichici tali da rendere legittima l’interruzione della sua guida capricciosa della nazione con il ricorso al XXV emendamento della Costituzione che prevede la destituzione dall’incarico di persona inadatta a responsabilità istituzionali.
Una risposta negativa a tale ipotesi viene ora fornita dal saggio Il crepuscolo di una nazione. L’America di Trump all’esame di uno psichiatra di Allen Frances secondo cui il Presidente è piuttosto il sintomo che non la causa delle malattie sociali degli Stati Uniti e del mondo intero: l’ambiente in via di distruzione; la bomba demografica; l’esaurimento delle risorse; le contraddizioni della medicina; il razzismo dell’America bianca; il Grande Fratello che ci controlla; e l’uso sconsiderato delle armi da fuoco. Con la sua ricerca condotta sul filo delle tecniche psichiatriche, l’autore individua nel narcisismo di Trump non solo la causa delle sofferenze di una parte della popolazione ma anche la fonte della sua fama, ricchezza, successo femminile e potere politico: «Trump è una minaccia per gli Stati Uniti, e per il mondo, non perché clinicamente pazzo, ma perché davvero pessimo».
Non è la prima volta che una corrente reazionaria e filo-razzista si afferma nella società americana conquistando vasti settori popolari. A metà Ottocento il movimento nativista know nothing fece leva sul ventre dei maschi bianchi protestanti scatenando una crociata contro l’immigrazione dei cattolici tedeschi e irlandesi accusati di organizzare un colpo di Stato papista. Alla fine degli anni trenta del ’900 fu lanciato lo stesso slogan America First oggi cavalcato da Trump su iniziativa del comitato presieduto dall’antisemita Charles Lindberg che si batteva affinché gli Stati Uniti abbandonassero i britannici in guerra contro Hitler.
Perfino Theodor Adorno negli anni del maccartismo diagnosticò che il successo della personalità autoritaria di Joseph McCarthy fosse dovuto al fascino da lui esercitato sugli americani analogamente a quello che aveva reso i tedeschi facili prede del nazismo.
Nella storia dell’America (e, aggiungiamo noi, d’Europa) spesso emerge un populismo che di volta in volta si presenta con caratteri contraddittori. Quello “vero”, sostiene Allen, dovrebbe essere al centro di qualsiasi buon governo che assicura i diritti e protegge i cittadini dall’avidità del potere delle élite. Il “populismo farlocco”, al contrario, fa perno sulla seduzione delle masse da parte di demagoghi che promettono qualunque cosa prima di ottenere il potere, mentre dopo non fanno altro che sfruttare la situazione, avviando spesso la democrazia alla tomba. Trump è l’esempio più evidente del “populismo farlocco” che garantisce il ritorno di un’età dell’oro mai esistita (Make America Great Again), demonizza il nemico islamico e l’immigrato ispanico contro cui vuole erigere un muro lungo tutta la frontiera con il Messico. Il suo governo fa largo uso del metodo consolatorio: niente avviene per caso, ogni cosa è collegata alle altre, e c’è sempre qualcuno cui dare la colpa. È la teoria del complotto che fornisce una semplicistica spiegazione della realtà, inventa un nemico da combattere, e chiama il popolo alle armi nella tradizione della destra radicale che con il tycoon newyorkese si è insediata alla Casa Bianca.
Al giorno d’oggi l’umanità è più che mai afflitta da fenomeni incontrollati quali il consumo dell’aria, dell’acqua e della terra causati sia dalla natura sia dall’uomo, disastri tutti che possono portare al collasso della nostra civiltà come è già accaduto in passato con altre civiltà che hanno goduto di una rapida ascesa. La psiche della prima nazione del mondo è afflitta da quella che Allen diagnostica come «la crisi dello spirito americano», impersonata dal Presidente. Mentre con dichiarazioni retoriche inneggia alla grandezza dell’America, Trump opera in senso opposto al modo in cui sarebbe necessario agire nell’attuale emergenza: nega il riscaldamento globale, incoraggia l’inquinamento, sostiene lo sfruttamento delle risorse energetiche, osteggia il controllo demografico, diffonde le armi da fuoco, incoraggia le diseguaglianze sociali, e calpesta i diritti civili. Il mondo avrebbe bisogno che gli Stati Uniti si mettessero insieme alle altre potenze, Cina e Unione Europea, per affrontare con una strategia multilaterale i mali planetari.
Siamo a un bivio: l’elezione a sorpresa di Trump potrebbe rappresentare il tramonto delle democrazie e la catastrofe ambientale su scala mondiale, oppure il segno che la febbre giunta al massimo del delirio collettivo sia sul punto di passare. Lo psichiatra conclude «È troppo presto per dire se la democrazia americana sopravvivrà all’attacco di Trump. Il presidente è uno sbruffone e un pagliaccio, ma ha dimostrato di non scherzare».
La guerra di Indipendenza che inventò gli americani
Storia. Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
di Francesco Benigno (il manifesto, 04.02.2018)
La Guerra d’indipendenza americana, atto di nascita degli Stati Uniti d’America, è stata a lungo raccontata dalla storiografia, ma anche dalla letteratura e dal cinema, come la rivoluzione vittoriosa del popolo americano, unito e determinato, contro il tirannico dominio britannico. Ma, soprattutto, è stata tradizionalmente narrata in contrapposizione alla rivoluzione francese e, in controluce, a quella russa: se queste sono state segnate dalla tragicità della violenza e da una radicalità politica smisurata, capace di condurre a esiti inumani, la prima è stata per lo più presentata come una rivoluzione moderata, positiva, portatrice di valori universali, non guastati dall’assolutezza ideologica.
Più conflitti convergenti
Ora, il nuovo libro di Alan Taylor, Rivoluzioni americane Una storia continentale 1750-1804 (Einaudi, pp. XII-640, euro 35,00) smonta completamente, e con buoni argomenti, queste rassicuranti certezze. Taylor, autorevole storico dell’università della Virginia, già vincitore di due premi Pulitzer e di un National Book Award, ha scritto infatti un’opera programmaticamente revisionista, sin dal titolo: l‘uso del plurale rivoluzioni al posto del singolare vuole segnalare subito come l’evento di cui si parla non vada considerato come risultato di un conflitto a senso unico, quello di un popolo oppresso che si scrolla di dosso un ingombrante oppressore, bensì come una sorta di punto di convergenza di una serie di conflitti diversi e non omogenei fra loro; la cronologia qui utilizzata, poi, estesa agli anni 1750-1804, significativamente slargata rispetto agli anni veri e propri della guerra d’indipendenza, combattuta tra il 1775 e il 1783, va anch’essa controcorrente; l’aggettivo continentale, infine, segnala un significativo allargamento spaziale, abbracciando anche gli avvenimenti del Canada, della Louisiana e dei grandi spazi del West e le politiche degli imperi concorrenti: francese e spagnolo.
Il risultato di questo riposizionamento è felice. Decostruita la lettura nazionalistica, che vorrebbe la rivoluzione americana come prima manifestazione di un popolo americano già esistente - la sua epifania - Taylor porta a considerarla, viceversa, come l’essenziale processo di gestazione che ne forgia la fisionomia e ne determina la nascita. In verità, un parto doloroso: a scontrarsi non furono solo l’esercito americano e quello inglese ma anche sezioni contrapposte della società americana.
Da una parte i patrioti, una minoranza radicale e dall’altra i lealisti filo-britannici, un’altra minoranza ancor più esigua, con in mezzo la maggioranza di una popolazione a lungo indecisa. Sarà anzi proprio la lunga guerra, distruttiva e tragica - non limitata cioè ai combattimenti degli eserciti schierati, ma fatta di saccheggi, devastazioni e repressioni che colpivano la popolazione civile - a determinare l’orientamento maggioritario a favore del fronte patriota; e comunque, alla fine del conflitto, ben 60.000 lealisti fuggiranno dal paese come esuli.
La cosiddetta Guerra d’Indipendenza è stata in realtà, ci dice Taylor, come tutte le rivoluzioni, una guerra civile, e anzi la prima guerra civile americana. Quando, nel 1777, il Congresso adottò gli articoli di Confederazione e Unione, essi furono più una temporanea alleanza di stati che l’espressione di una nazione coesa. Solo l’esigenza di combattere insieme un nemico comune e soverchiante fece valere gli elementi condivisibili a scapito delle enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie.
Le conseguenze di questo orientamento sono importanti: non sono gli americani ad avere fatto la rivoluzione ma è la rivoluzione ad avere «inventato» gli americani. Una testimonianza di Benjamin Franklin del 1775 è rivelatrice: «non ho mai sentito in nessuna conversazione qualunque persona, ubriaca o sobria, manifestare la minima espressione di desiderio di secessione, o l’opinione che una tale manovra possa essere positiva per l’America».
All’epoca in cui questa frase fu pronunciata il conflitto armato si era già - in modo strisciante - avviato, ma si presentava come la somma di una serie di contrasti su questioni nodali agitate dai patrioti contro le pretese del parlamento britannico di intervenire negli affari americani, e non come la richiesta di una sovranità autonoma. In gioco c’era, certo, lo statuto costituzionale delle colonie e la contestazione americana di tasse imposte da organismi privi di propri rappresentanti (secondo lo slogan No taxation without representation) ma non solo.
Meno indagati dalla storiografia sulla guerra d’Indipendenza, ma non per questo meno importanti, almeno due altri temi scottanti erano sul tappeto. Il primo era relativo alle terre delle popolazioni indiane, l’immenso spazio libero al di là della catena dei monti Appalachi, il famoso West con la sua mitica frontiera mobile, in perenne avanzamento. Se la causa dei Sons of liberty ebbe successo fu anche grazie all’incerta gestione inglese delle terre d’occidente occupate dalle tribù dei «pellerossa»; una linea oscillante fra il precipitoso tentativo di frenare la spinta alla colonizzazione, le impopolari concessioni a franco-canadesi cattolici e le pratiche di appalto di intere zone a un ceto di accaparratori di terra corrotti e inaffidabili. Non per caso gli indiani dell’ovest combatterono largamente a fianco degli inglesi mentre i pionieri coloni si schierarono in maggioranza con i patrioti.
C’è poi la questione degli schiavi neri. La posizione dell’opinione pubblica inglese era avversa al regime di schiavitù, contrario alla tradizione liberale cui essa si ispirava. Fu famosa la causa vinta davanti a un tribunale inglese da uno schiavo di Boston portato in Inghilterra: questi aveva sostenuto che, una volta in Gran Bretragna, andava affrancato perché su quel suolo la schiavitù non è ammessa e gli schiavi che lo calcano divengono ipso facto uomini liberi.
Ancora una volta la posizione oscillante del governo britannico, incapace di promulgare un editto di affrancamento degli schiavi neri ma tendenzialmente favorevole ad ascoltare le ragioni della popolazione afroamericana in catene, e giunto perfino a minacciarne la liberazione, produsse un esito simile: mentre diverse migliaia di schiavi in fuga si arruolarono per combattere a fianco delle truppe di Sua Maestà, gran parte del ceto di proprietari di piantagioni del sud finì per sposare la causa patriota.
Principi e negati
La contrapposizione partitica successiva fra i federalisti alla Hamilton e i repubblicani alla Jefferson, trattata nell’ultima parte del volume, non è di conseguenza che l’esito e lo specchio di questo insieme di contraddizioni, che continueranno a segnare, almeno fino alla guerra civile - tra il 1861 e il 1865 - la vita politica statunitense. Tra esse ce n’è una trattata dal libro con garbo e ironia: vale a dire la distanza irrisolta tra gli enunciati che innervano l’autorappresentazione della libertà americana e la prassi politica concreta.
Mentre la proclamazione universale dei diritti faceva della rivoluzione americana il caposaldo di una nuova legittimità centrata sul potere popolare e sul diritto inalienabile di ciascuno alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, nella pratica questi principi erano negati agli indigeni americani, espropriati di tutto, e agli schiavi neri, mantenuti in catene.
Donatella Di Cesare, la sovversione di coabitare il mondo
«Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione», per Bollati Boringhieri. Un pensiero politico contro la xenofobia populista e il razzismo. La nostra casa non è lo Stato, né il mercato, ma il mondo intero: l’Internazionale
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 14.12.2017)
Chi è alla ricerca di un’istanza politica contraria al «nazionalismo» in epoca «post-nazionale» e al sovranismo razzista che lega la destra e la sinistra nell’abbraccio mortale con il populismo, la può trovare in Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, pp. 275, euro 19). È un libro importante quello scritto da Donatella Di Cesare, potente nella decostruzione della sovranità, incalzante nello svolgimento tra riflessione genealogica, racconto e saggio. Una prova dello stile della filosofia contemporanea: il «pensiero dell’attualità». Questo libro, scrive l’autrice, è un contributo alla definizione di uno jus migrandi in un momento politico in cui i diritti fondamentali delle persone sono soggetti a una torsione securitaria tale che appare lecito chiedersi se non sia finita l’idea stessa di ospitalità.
LA FILOSOFIA della migrazione non è una teoria dell’erranza senza ritorno alla «terra madre» o all’autorevole «padre». Non è una teoria economica, biologica o un’etica dell’«Altro». È una filosofia politica anti-sovranista, una politica della «coabitazione» nella terra spaesata, per di più in tempi di «globalizzazione» dove facciamo ritorno a una casa che è sempre altrove. Questa filosofia è l’espressione di un «diritto di fuga», mentre la libertà soggettiva di chi emigra è punita, tradotta in mobilità, resa adattabile a «quote» e fabbisogni di manodopera. Il migrare eccede ogni misura e indica un destino più ampio, il soggiorno umano sulla terra riguarda tutti, nessuno escluso.
SIN DA PLATONE e Aristotele la figura dello straniero ha destabilizzato il nomos stanziale della filosofia e oggi scuote le radici dello Stato in quanto átopos - il senza luogo, il fuori-luogo ovunque del nomadismo. Lo Straniero è una figura presente in tutte le culture e le religioni. Nella Torah, ad esempio, gli abitanti della terra sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei allo stesso tempo. Questa è anche la condizione del lavoratore a giornata, il lavoratore che vende la forza lavoro, in cambio ottiene un salario spesso non sufficiente per sopravvivere, in più è sfruttato. Senza contare che, in questo caso, l’estraneità è l’esperienza di tutti i lavoratori rispetto al loro lavoro mercificato. Quando si incarna nel migrante, lo straniero diventa un’anomalia intollerabile. Non è solo un intruso illegale. La sua esistenza segregata in spazi di eccezione è percepita come una sfida all’esistenza dello Stato. Alla «nuda vita» è attribuita una carica sovversiva perché scredita la purezza mitica del potere e rivela i paradossi della cittadinanza: l’inclusione degli «autoctoni» è basata sull’esclusione degli «stranieri». La «democrazia» è tale quando si difende dall’esterno ed esercita un potere coercitivo contro gli inermi anche all’interno.
IL MIGRANTE, in quanto straniero, è una figura abissale perché rivela che l’estraneo non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa esperienza è stata definita da Freud «perturbante»: è ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande. L’Io non ha proprietà, una terra a cui appartenere, una coscienza a cui rimettere i suoi peccati, ma è un altro ed è straniero a se stesso. È Unheimlich, un essere-senza-casa. Il migrante mette a nudo il mito dell’identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, il valore che lo Stato difende in nome della «sicurezza». Se l’Io è un altro, scriveva Rimbaud, allora il Sé immobile crolla. Un esito inaccettabile che lo Stato evita ricorrendo alla polizia e agli eserciti. Così la sovranità esibisce il suo ultimo potere: il monopolio della violenza.
QUESTA È LA TRAGEDIA dell’attuale governo italiano: dopo avere respinto i migranti in Libia, li ha guardati sulla Cnn venduti come schiavi. Un delitto atroce che non troverà, probabilmente, un giudice, ma forse molte testimonianze. Stranieri residenti è una di queste. Ed è bruciante. In tedesco esiste una parola che spiega questa esperienza perturbante: Wanderung. Significa migrare e errare. L’equivalenza tra un movimento fisico e l’esperienza dell’errare (vagare, sbagliare) è il fondamento della filosofia della migrazione. Il suo obiettivo è dimostrare che l’abitare non è mai puro. Chi abita in un territorio viene da un movimento e si dirige altrove. Così fa il migrante: il punto dove arriva coincide con una nuova partenza. L’abitante è anche lui un migrante che ha deciso di fermarsi, e poi ripartire di nuovo. Prima di un territorio statale, abitiamo una vita che non appartiene a nessuno ed è comune a tutti. Condividiamo un movimento ancora prima di un’appartenenza. Siamo tutti stranieri e residenti. Su questa «e» si gioca il conflitto.
LA CASA degli stranieri residenti non è lo Stato, né il mercato. È l’Internazionale. La riproposizione di questa categoria è una delle idee originali del libro. Di Cesare la intende come sinonimo di una «coabitazione oltre le appartenenze e la proprietà». In questa prospettiva l’Altro non è una metafisica, non è l’ospite, né può essere rinchiuso nelle contraddizioni del diritto di asilo. Se lo straniero siamo noi, allora il sé e l’altro non sono opposti, ma si implicano a vicenda. Lo straniero non è dunque l’ opposto del cittadino, entrambi sono stranieri residenti in un’Internazionale slegata dal territorio e dalla cittadinanza, capace di trasformare la prima e di superare le aporie della seconda. La coabitazione indica un essere-in-comune, pratica una convergenza politica e mostra un altro modo di stare al mondo. Per gli anarchici e i comunisti la casa è il mondo intero. Per tutti gli altri l’Internazionale è la coabitazione della futura umanità con i prossimi e gli stranieri.
Gerusalemme, città unica, indivisibile e inappropriabile
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 11.12.2017)
Unica, indivisibile, inappropriabile, impossibile da capitalizzare, Gerusalemme è la città che si sottrae all’ordine degli Stati-nazione. Ne eccede la ripartizione, la trascende, la interdice. Contro questo scoglio, o meglio, contro questa rocca, sono naufragati tutti i tentativi che, in un’ottica statocentrica e nazionale, hanno mirato solo a frazionarla e segmentarla. Smacco della diplomazia e, ancor più, fallimento di una politica che procede con il metro e con il calcolo.
Gerusalemme non divide; al contrario, unisce. Ed è proprio questa unità la sfida che non è stata raccolta. Perché già da tempo avrebbe dovuto essere immaginata una nuova forma politica di governo capace di rispondere alla sovranità verticale di questa città straordinaria, di rispondere alla sua costitutiva apertura orizzontale.
Qui sta il punto della questione, ma nulla di ciò è avvenuto. Piuttosto si è fatta valere l’ipotesi, oramai sempre più lontana, di due Stati separati da confini incerti, precari, minacciosi.
Non sarebbe stata, non è, anzi, più saggia, seppure inedita, la via di due comunità confederate? Sono oramai molti a crederlo.
Città degli stranieri, culla dei monoteismi, residenza dell’Altro sulla terra, anche per i laici, Gerusalemme è quel luogo dell’ospitalità che resiste a una forzata e artificiosa spartizione.
Yerushalaim, capitale di Israele - chi potrebbe non riconoscerlo? - ma anche soglia che Israele è chiamato a oltrepassare. Come ha già fatto - è bene ricordarlo - con la libertà di culto. Ogni rivendicazione nazionalistica, da ambo le parti, è fuori luogo.
Qui dove si richiederebbero mitezza, prudenza, perspicacia, l’atto arrogante e fragoroso del trumpismo danneggia sia israeliani sia palestinesi. E tuttavia, proprio perché è lo scoglio teologico contro cui urta la politica, Gerusalemme può divenire modello extrastatale e banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STATI UNITI D’AMERICA: 23 AGOSTO 1927. SEDIA ELETTRICA PER DUE INNOCENTI - DUE ANARCHICI ITALIANI, NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
UNA “CATTOLICA”, “UNIVERSALE”, ALLEANZA “EDIPICA” E LA DEMOCRAZIA (DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI)!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO) REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Romeo Castellucci, il ventre puritano della democrazia
di Annalisa Sacchi (alfapiù-teatro, 12 giugno 2017)
È critica caratteristica alla democrazia americana, sin dal suo pensiero fondativo, che essa sia mancante del senso del tragico. Basta leggere Emerson, Thoreau, Hawthorne o anche (come ha fatto Romeo Castellucci) un osservatore esterno della democrazia americana, Alexis de Tocqueville, per intuire il dramma immanente alla democrazia: che i suoi limiti sono prodotti dai suoi stessi principi. Ma ciò è appunto un dramma, ovvero una categoria equivoca dove il tragico risiede insieme al comico.
C’è così un segreto e persistente senso di malinconia nel pensiero democratico americano, la consapevolezza che solo un immane sforzo positivo della volontà può sostenere l’agire per il bene comune a fondamento del “governo dei molti”. In quest’ottica, tanto la disperazione che lo scoraggiamento sono emozioni politiche, cui il sistema democratico, le sue narrazioni e le sue filosofie devono opporre continua rassicurazione. Rassicurazione sul fatto che non siamo i soli a percepire un sapore acre nel compromesso con la giustizia, e che il senso di un sé incompiuto non è una fuga da - ma piuttosto un indice de - l’impegno individuale per la comunità non ancora realizzata.
La democrazia ateniese e quella americana spartiscono poco oltre al nome. Le differenzia, per quel che qui interessa, il fatto di essere una germogliata nella stessa polis che diede origine alla tragedia e al teatro occidentale tutto, l’altra di essersi sviluppata nel ventre del Puritanesimo. La prima dopo la morte del dio Pan, la seconda in dialogo col Dio della Bibbia.
Ed è questo dialogo che dà avvio all’opera di Castellucci, La democrazia in America, o meglio la tensione impressa nella ricerca di una lingua per parlare con Dio, la glossolalia. Il parlare glossolalico è un parlare delle origini e alle origini, dove l’ontogenesi si salda alla filogenesi perché glossolalia può dirsi anche l’apice del balbettio dell’infante, colui che ha una lingua - l’organo - ma non ancora un linguaggio - la facoltà -, una delle figure predilette nel teatro della Socìetas.
È la parola la protagonista che lievita al centro dello spettacolo (per la drammaturgia originale di Claudia e Romeo Castellucci) dove si alternano lunghi dialoghi in lingue esistenti o inventate o tradotte a momenti onirici, consumati dietro diaframmi di velo. Attraverso i dialoghi viene a crearsi qualcosa come una trama, una narrazione il cui rimando più prossimo resta il lavoro sulla fiaba della Socìetas. Perché, dileguata la tragedia e restituita la parola ai personaggi, la fiaba si impone come alleato per blindare la genesi delle figure oltre la soglia dell’attualità e della storia.
Ecco allora una coppia di coloni poveri e disperati come i genitori di Buchettino, oppressi dal tradimento delle speranze per cui la terra promessa s’è fatta distesa sterile e infruttuosa, coi figli da sfamare e una comunità che incombe più vessatoria che fraterna. Ma mentre nel padre rimane salda la fede in Dio, per la madre, Elizabeth, la lotta per la quotidiana sussistenza si biforca in una doppia trama, con un versante realistico e uno segreto, ctonio. Veniamo così a sapere, in un parossismo che trova ancora le parole per esprimersi in maniera intelligibile per lo spettatore, che Elizabeth ha venduto una figlia bambina per procurarsi semi e strumenti per lavorare la terra. Ha cercato, confida al marito, di comunicare con quel Dio che non vuole salvarli; ma solo nella bestemmia, che pronuncia come una voluttà e una liberazione, ha trovato sollievo.
Nella tragedia attica, scriveva Rosenzweig, l’eroe si rende conto di essere migliore dei suoi dèi, e questa consapevolezza gli toglie la parola e lo lascia muto. Qui sta il sublime della tragedia: nel paradosso della nascita dell’eroe nell’incapacità morale di parlare. Nella Democrazia in America invece Dio, l’origine del Logos e il Logos in sé, è ostinatamente silenzioso, e gli uomini vengono estenuati dalle preghiere, dalle invocazioni, dalle bestemmie per indurlo a parlare. Il mutismo dell’eroe della tragedia si oppone alla logorrea dell’eroe della democrazia moderna. Perché il Dio della democrazia non è quello che i credenti avevano incontrato nella Genesi, il Dio generoso di parole e contatti, il Dio che aveva lottato corpo a corpo tutta una notte con Giacobbe e alla fine l’aveva benedetto.
Non c’è benedizione su questa scena, la si invoca inutilmente, finché la lingua di Elizabeth inciampa e si lacera, e prende a pronunciare parole sconosciute. Ed è qui che si apre come un doppio umido e sanguinante dell’opera. Perché la donna l’avevamo già vista, dietro a un velo-diaframma che sfumava la scena del palco, nuda e grondante di sangue, a trasportare sulle spalle una bambina a sua volta nuda e docile, in un silenzio cui si opponeva soltanto il rumore di uno scorrere d’acqua, forse un fiume. E la vedremo di nuovo, sempre schermata dal velo di proscenio, ancora nuda ma stavolta immacolata a esibire il ramo d’oro, quello della dea Diana, il permesso all’ingresso della grotta sacra oltre cui si spalanca l’Ade. L’icona del rito più antico, selvaggio e violento tributato alla Dea.
È, questo femminile, uno sforzo titanico di riaccendere il cratere della tragedia in mezzo alla distesa sterile di una democrazia che ha resuscitato Dio ed eliminato il teatro. Un sacrificio anche, che come in altri lavori della Socìetas chiede in pegno il bambino, il figlio, la Concezione della carne e del sangue contro la Creazione dell’opera. Ma la bambina non muore: come in una fiaba è ceduta a una figura esoterica di vecchia che viene solo evocata nei dialoghi. Prima è menzionata dal padre che, di fronte al delirio linguistico di Elizabeth, domanda sconvolto se queste parole le siano state trasmesse dalla “vecchia”, poi nell’altro scambio dialogico dell’opera, quando in scena appaiono due nativi americani. Dal loro ingresso in poi, il dialogo si svolgerà in lingua Chippewa e verrà sovratitolato in italiano.
Dicevo che La democrazia in America è uno spettacolo e il suo doppio, per cui la scena precipita continuamente in una sua ulteriorità, in un dietro o in un sotto che fanno smottare la linea diegetica. Così è anche per l’ingresso dei due nativi, battezzato dal rovesciamento del bassorilievo di memoria ellenistica che campeggiava al centro della scena e che si rivela, nel retro, essere un ventre cavo e rossiccio di terra, una caverna ancestrale. Cultura e Natura, l’eterno conflitto, il monumento della cultura che è al tempo stesso un documento di barbarie e sopraffazione. Basta guardare dietro.
E questa duplicità esorbita nel finale, coi due nativi che discutono sulla opportunità di imparare la lingua dei coloni, e che iniziano a balbettarne i vocaboli, e intanto parlano di una capanna in riva al fiume, di una vecchia, di una bambina ceduta. Poi, prima di lasciare la scena, si spogliano delle tute di lattice dentro cui erano inguainate le attrici e le abbandonano sul palco. Perché il teatro resta, come sapeva Deleuze, il luogo privilegiato della minorazione, perché non è mai un parlare “in vece di”, ma uno scavare una zona di approssimazione, una vicinanza agli oppressi, ai diseredati, agli abbandonati, ai colonizzati, ai violentati, ai senza nome della storia.
Castellucci ci dice che il suo lavoro non vuole essere politico, semmai polemico. Quando il femminismo, il marxismo, la rivoluzione, la resistenza e la lotta diventano nel linguaggio insegne e nell’immagine icone dietro cui allineare tutta l’arte, la moda, la pubblicità e il teatro, quest’opera ci accoglie nel suo nulla dire e nulla rivendicare. Ci ammette, spettatori, nel respiro largo della sua impoliticità, nella pietà della sua minorazione.
Intervista
"Sulla democrazia in America chiedi a Tocqueville"
Il regista Romeo Castellucci parla del suo nuovo spettacolo, in tournée da fine aprile liberamente ispirato al libro del saggista francese
di Umberto Sebastiano (l’Espresso, 17 marzo 2017)
Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci, regista fra i più acclamati e visionari della scena teatrale internazionale, si intitola “La democrazia in America” ed è liberamente ispirato al libro di Alexis de Tocqueville, pubblicato in Francia nel 1835 e concepito a partire dall’esperienza del lungo viaggio che il giovane aristocratico francese fece in America nel 1831. Lo stile letterario, lo straordinario acume di Tocqueville nel cogliere luci e ombre della giovane democrazia, la lungimiranza nel prevederne i più nefasti sviluppi, hanno fatto sì che “La democrazia in America” diventasse un classico della riflessione politica moderna e contemporanea.
Da parte sua, Romeo Castellucci, quando si appassiona a un testo, non si limita a illustrarlo, ma lo usa piuttosto come un terreno fertile per seminare immagini, idee, per costruire percorsi alternativi, ramificazioni. Dopo il debutto ad Anversa, lo spettacolo andrà in scena anche in Italia: al Fabbricone - Teatro Metastasio di Prato dal 27 al 30 aprile, poi l’11 e il 12 maggio all’Arena del Sole di Bologna e il 16 maggio al Teatro Sociale di Trento.
Perché ha sentito la necessità di lavorare a uno spettacolo dal titolo “La democrazia in America”? E più in generale, cosa trasforma una suggestione, una lettura in uno spettacolo teatrale?
«Lo dico subito: comprendo che si possa pensare che questo spettacolo nasca come reazione a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, ma non è così, non c’è il minimo accenno alla cronaca, neanche la minima allusione. È un lavoro sul linguaggio, sull’antico testamento, sulla fede, ma anche sulla perdita dell’innocenza, sul crollo di certi valori che sono ritenuti inossidabili e invece non lo sono. Ho scelto questo titolo per il potere evocativo che scatena, che non è moderno, bensì antico. Per il resto non esistono “ragioni” per voler fare uno spettacolo. Lo si fa e basta; lo si fa perché si cade in un titolo come in un buco per la strada. Poi sono le idee a condurre il gioco».
E allora: che strada stava percorrendo quando è “caduto” ne “La democrazia in America”?
«Quella della grande letteratura americana. Sono interessato a tutto ciò che la letteratura americana ha prodotto, i grandi scrittori del passato come i più recenti, fino ad arrivare a David Foster Wallace che per me è una sorta di Dostoevskij. Sono naturalmente attratto dalla durezza veterotestamentaria della letteratura americana: non c’è amore, c’è la legge, c’è la famiglia, c’è il sangue, ci sono le razze, la terra, il cammino, le strade, e questo universo mi piace molto. Non c’è il perdono, non c’è Gesù, c’è Mosè: l’antico testamento è ancora il pilastro di questa cultura che ha prodotto in letteratura dei capolavori assoluti. È così che mi sono imbattuto nel saggio di Alexis de Tocqueville, un libro bellissimo, che conoscevo solo di fama e che parla proprio delle radici della democrazia americana, del fondamento puritano nella concezione della legge, del destino, della terra. I puritani, che a partire dal 1620 sbarcarono sulle coste del nord America, erano famosi per il loro rigore morale e l’assoluto rispetto della legge, rigidissimo. Venivano chiamati pellegrini, erano cristiani, ma cristiani che mal sopportavano Gesù: per loro i comandamenti andavano presi alla lettera. La forza muscolare dell’individualismo americano nasce da questa radice. Ed è proprio questo aspetto che è diventato il nucleo dello spettacolo».
È quella che Tocqueville definisce la “puritan foundation” della democrazia americana. In che modo prende forma sulla scena?
«La storia è quella di due contadini puritani, un uomo e una donna. La terra è la loro missione. Non una conquista fatta con le armi, ma con il lavoro più semplice. Essi vogliono contribuire a trasformare l’America nella nuova Terra Promessa. Si affidano a Dio, ma la vita durissima li metterà alla prova. La donna entra in una crisi profonda e la sua preghiera si trasforma in una sorta di blasfemia. Questa donna, come unica fonte di consolazione, comincia a bestemmiare, ma lo fa come se fosse una preghiera, e tutto questo è come bruciare sul nascere la radice puritana. Il sogno americano, il sogno che come specie umana abbiamo nei confronti della terra, del destino, della comunità, dello stare insieme, si infrange immediatamente in un fallimento».
A chi rivolge le sue preghiere la donna? Da cosa scaturisce la sua crisi?
«È una preghiera sincera verso il vuoto, o forse dovremmo dire il Vuoto, con l’iniziale maiuscola. Come in un’epifania, il vuoto di colpo si rivela alla donna. Gli spazi immensi americani qui si mostrano, per questa gente, per quello che sono: il grande vuoto. Ciò che mette in crisi la donna è probabilmente quello che l’uomo non riesce a vedere: il fatto che si sono sbagliati e che quella non è la Terra Promessa che avevano sognato. La terra è dura, sterile, e la comunità umana che li circonda è ancora più arida. Ci sono pagine molto precise di Tocqueville su questo, quando parla della morte per carestia delle prime ondate di coloni puritani. Dio non li ascolta perché ha scelto altri. L’uomo cerca di arginare le faglie che la donna spalanca sotto i loro piedi, ma non è abbastanza forte, e la donna a un certo punto sembra dotata di una forza soprannaturale. Una donna con grandi poteri».
Si tratta di una sciamana, di una strega?
«Nel New England, nel Seicento, la caccia alle streghe era un’ossessione collettiva, basta pensare alla vicenda delle streghe di Salem, e fungeva da strumento di controllo sociale, soprattutto nei confronti delle donne. Nel contesto dello spettacolo il richiamo alla stregoneria serve però a gettare un’ombra sui fondamenti delle comunità bianche. Un cuore oscuro dentro corpi bianchissimi».
Ha accennato alla caccia alle streghe e alla capacità di una donna di riconoscere e di affrontare il vuoto. Nel cast ci sono solo attrici. È un caso?
«Niente è un caso nella misura in cui tutto è casuale. Comunque non c’è una vera ragione, vorrei che nessuno lo notasse, mi piacerebbe questo. C’è una mia predilezione a formare delle compagnie “monosessuali”, perché in questo modo si produce un’energia che funziona molto bene. Al di là di questo, mi hanno colpito le pagine che Tocqueville ha dedicato alle donne. Ripete più volte che senza le donne l’America non sarebbe stata l’America, intuisce il ruolo nuovissimo che le donne hanno nella società e preconizza un loro ruolo più attivo. D’altra parte, in quel periodo, c’erano donne che fondavano religioni. Anche questo fenomeno è interessante: in America fioccavano nuove religioni perché tutto era ancora possibile. “La Democrazia in America” è considerata una delle opere fondamentali della riflessione politica contemporanea».
Cosa c’è di politico in questo spettacolo?
«Lo spettacolo non vuole essere politico ma polemico nei confronti della politica. Si potrebbe obiettare che uno spettacolo teatrale è di per sé politico, anche solo per il fatto di andare in scena in un luogo pubblico. A un certo livello sì, è politico. Sulla scena però succede qualcosa: nel luogo dell’invenzione della nuova democrazia, alcune persone prendono distanza dalla promessa della politica. Non ci credono più. Non credono più all’edificio americano. Si volgono altrove, verso un luogo mitologico dove la politica non ha ancora ragione di essere perché deve ancora venire. Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare. In quello stesso istante nasce il teatro greco. E la polemica nei confronti della politica è anche un modo di riconsiderare la funzione del teatro. I modelli politici sono usurati e il teatro dà accesso a una nuova forma di pensiero che è impensato. Il teatro rappresenta il doppio della vita, non fornisce modelli, non c’è nessuna pedagogia, se dio vuole, nessuna pedagogia. Il teatro offre dei lampi, dei bagliori in un abisso, mostra delle possibilità. Grazie alla narrazione, alla finzione, il teatro è in grado di sospendere la realtà, e questa è una forma di autentica liberazione, di riconciliazione con il tuo corpo, con il corpo degli altri, con il fatto di stare insieme».
C’è passione in queste parole, mi sembra che lei riconosca al teatro una grande forza.
«Il teatro ha questa forza perché è il punto di origine, è continuamente il punto di origine: non della tradizione, non si parla di quello, ma è proprio il punto originante. Il grande laboratorio della tragedia greca si faceva carico della disfunzione dell’essere. La tragedia greca non è altro che la teoria dell’uomo, e su quel terreno crescono la civiltà occidentale, l’estetica, la filosofia: germogli che sbocciano su un fondamentale pessimismo antropologico. Tutto questo in America non avviene perché il fondamento puritano è una sbarra, una retta senza alcuna articolazione che recide il legame con la negatività. E per questo motivo la democrazia americana è un fiore nel deserto, un fiore tossico, come ha dimostrato Tocqueville, permeato da un elemento ombroso, un cuore di tenebra».
Dopo il debutto di Anversa e le date italiane, “La Democrazia in America” andrà in scena in molte città europee: Losanna, Berlino, Bilbao, Vienna, Amsterdam, Atene, Parigi. Poi sarà la volta delle tournée in Asia e negli Stati Uniti. Pensa che il grande interesse che questo spettacolo ha suscitato dipenda anche dal bisogno sempre più diffuso di riflettere sulla crisi della democrazia?
«Può essere, certo. Nonostante i produttori siano gli stessi con i quali lavoro da tempo, ho effettivamente notato che rispetto a questo titolo c’è un interesse diverso e più forte. Ne sono rimasto sorpreso e, per così dire, questa consapevolezza mi inquieta perché, come dicevo all’inizio, non voglio creare aspettative tendenziose. Non è uno spettacolo su Trump».
Come avrà notato, non l’ho mai nominato.
«Ha fatto bene, sarebbe meglio non nominarlo. Anche se lui è già presente, completamente, in quello che scrive Tocqueville: basta pensare alle pagine dedicate al pericolo di una tirannia della maggioranza, quando parla della manipolazione delle coscienze, della propaganda, del fatto che i ricchi possono avere accesso a una parola con maggiore peso. Sono tutte cose già scritte nel 1831, negli appunti di viaggio di questo ventiseienne francese. Si spiega perfettamente quello che sta succedendo in questi giorni in America. E non è un caso che, alla luce del disastro delle ultime elezioni americane, Alexis de Tocqueville sia un autore al quale ci si rivolge sempre più spesso».
Destino manifesto (come schivarlo forse)
di Franco Berardi Bifo *
Viaggiando verso il Canada dove in questi giorni, all’università di London Ontario, si tiene un convegno sul pensiero italiano, mi sono fermato a New York, e ho passato una settimana in un albergo sulla Bowery nella zona in cui trentacinque anni fa vissi un periodo eccitante.
In questi pochi giorni ho avuto l’impressione che l’America sia prossima al collasso nervoso. E questa non è una buona notizia visto che si tratta pur sempre della più grande potenza militare (nucleare per la precisione) di tutti i tempi.
New York è una città santuario, come molte altre nel paese: istituzioni locali, scuole, musei hanno dichiarato che intendono sottrarsi agli ordini di deportazione e di violenza: questo determina una situazione di doppio potere, ovvero di guerra civile potenziale.
Sono andato a visitare il New Museum che sta sulla Bowery e non esisteva quando ci abitavo. C’è una mostra di Raymond Pettibon, un artista nato a Tucson nel 1957 che dagli anni ’70 disegna con un gusto rabbioso tardo-hippy che mi ha fatto venire in mente la rivista italiana Cannibale, e particolarmente i fumetti di Filippo Scozzari. Nella mostra sono esposte sue opere che dai suoi esordi vanno fino ai primi anni del nuovo secolo, quelli della guerra irachena.
abu ghraib1Molte delle opere di Pettibon raffigurano scene che abbiamo visto nelle fotoface della prigione di Abou Ghraib nel 2004: gruppi di soldati nudi e sghignazzanti che circondano un prigioniero e gli ficcano il cazzo da qualche parte, ripugnanti facce di George Bush e così via.
La mostra, intitolata A Pen of All Work e curata da Gary Carrion-Murayari e Massimiliano Gioni, occupa tre dei cinque piani del museo e contiene circa ottocento disegni o dipinti oltre a diverse fanzine auto-prodotte negli anni del punk. La dissoluzione della retorica idealista e ottimista dell’America sconciamente puritana oggi ha un significato particolare e fa un effetto agghiacciante, mentre il fascismo americano oggi si dispiega in tutta la sua spaventosa aggressività.
Non sapevo che le cifre fossero già così enormi. 34.000 persone al giorno sono deportate alla frontiera e sbattute fuori dal paese nel quale vivono magari da venti anni. Me lo dice un’insegnante all’assemblea che si tiene a Topos domenica pomeriggio. Topos è una libreria alla periferia estrema tra Brooklyn e Queens, in un quartiere abitato da albanesi e portoricani. Un gruppo di compagni hanno affittato uno spazio che sta sulla strada. Sono le quattro del pomeriggio quando entro nella libreria: dai due finestroni entra la luce di un sole allegro di inizio primavera e c’è gente seduta che beve il caffè leggendo un libro. Sulla parete c’è una foto di David Bowie accanto a una foto di Totò. Non posso crederci: Totò in America? Ma certo mi dice uno, non è forse l’attore di un film di Pasolini che si chiama Uccellacci e Uccellini?
Poi ci trasferiamo nella sala accanto dove comincia ad arrivare gente. C’è una trentina di persone sedute intorno al tavolo in uno stanzone spoglio, sullo scaffale ci sono libri sulle culture indigene del nord e sud America. Insegnanti, lavoratori precari, molti immigrati di vario colore ed estrazione. La discussione riguarda in primo luogo il concetto di “sanctuary”. Santuario è un’istituzione o un organismo sociale di base o un’organizzazione non governativa che si propongono di proteggere le persone esposte alla violenza trumpista. Il giorno prima un’amica libanese mi aveva detto che sua figlia (13 anni) è depressa e piange spesso e non riesce a dormire. Una coppia di amici palestinesi non ha potuto venire alla riunione: sono dovuti andare a trovare la sorella di lei, perché il nipote di nove anni nelle ultime settimane ha continui attacchi di panico. L’odio della minoranza razzista che governa il paese filtra in ogni luogo, in ogni momento del giorno e della notte.
Prendo la parola per chiedere cosa potrà accadere se a un certo punto il governo centrale decide di attaccare qualche santuario. Si apre quindi una breve discussione sulla questione della violenza. Ci si deve preparare a reagire, a difendersi con le armi? Fin da quando ero ragazzo mi hanno insegnato che quando si tratta di difendersi dal fascismo l’uso della violenza armata è non solo legittimo ma necessario, e che a questo occorre prepararsi. Ma non sono tanto sicuro che questa lezione valga ancora, se non altro per il fatto che in questo paese le armi sono nelle mani dei bianchi elettori di Trump. Qualche mese prima delle elezioni disse che se il governo democratico avesse legiferato contro il diritto di comprare armi, il popolo del secondo emendamento avrebbe risposto con le armi.
La guerra civile non è una lontana possibilità nella realtà degli Stati Uniti di oggi. Tecnicamente il paese si trova già in condizione di doppio potere: interi settori dell’apparato statale (non solo le città santuario ma anche parti dell’FBI e dell’esercito) sono in rotta di collisione con il governo trumpista. Quanto alla violenza armata contro le minoranze, questo paese è in guerra da sempre.
Ora parla un ragazzo che si auto-definisce ex-black bloc. È un black bloc spiritoso che sostiene una tesi interessante. Le azioni del black bloc, lui dice, non sono intese a fare violenza, ma a colpire simbolicamente l’immaginazione collettiva, a isolare il potere e terrorizzare i suoi strumenti armati. Interessante tesi, gli dico, ma allora forse bisogna cominciare a ragionare in modo scientifico sulle modalità dell’azione simbolica evitando il pericolo di essere massacrati e anche quella di far del male a qualcuno.
Poi interviene un ragazzo che attacca il partito democratico, e la sinistra in generale, dicendo che Trump ha vinto grazie alla prepotenza del clan Clinton al servizio del potere finanziario. Gli dico che anche l’ascesa del nazionalismo in Europa è conseguenza del sistematico tradimento della sinistra che negli ultimi trent’anni si è messa al servizio della classe finanziaria facendosi strumento delle politiche neo-liberiste.
Poi sono dovuto partire per Toronto. Vado all’aeroporto JFK, aspetto in mezzo a una folla di poveracci che non viaggiano certo per turismo: vanno a trovare le famiglie lontane, vanno a lavorare da qualche parte. Saliamo sull’aereo dell’American Airlines, un aereo malandato che mi pare un Antonov degli ultimi anni sovietici. Si rolla sulla pista per mezz’ora poi si ritorna indietro. Scusate tanto problemi tecnici aspettiamo di ripartire. Finalmente si risale sullo sgangherato aereo, si rolla ancora un po’ poi si torna indietro. Il volo è cancellato, folla inferocita. Le impiegate hanno l’aria nervosa. Faccio la fila per sentirmi dire che parto domattina con un’altra compagnia. Air Canada. Penso che qualcuno mi pagherà l’albergo per la notte, come usa nei paesi civili, invece no.
Le impiegate di American Airlines mi mandano a Air Canada, quelli di Air Canada mi rimandano da American Airlines, mica siamo noi che abbiamo cancellato il volo. Ma American Airlines mi dicono non se ne parla: la cancellazione non è colpa loro ma è dovuta a problemi di traffic congestion.
Mi pagherò il fetido albergo per la notte, e mi sembra che le infrastrutture del paese siano messe veramente male: traffic congestion significa collasso circolatorio della mobilità. E mi sembra che tutti siano estremamente nervosi, rabbiosi, depressi. Sentimento di essere in trappola in una vita di merda, correndo avanti e indietro con quei ripugnanti bicchieri di plastica in cui questi poveretti che della vita non sanno niente bevono il loro schifoso caffè.
La mattina dopo parto per il Canada, e mi viene da pensare: finalmente la civiltà. Ma qui c’è poco da fare gli spiritosi, il paese del super controllo e della tecnologia pervasiva sta evidentemente sprofondando nel caos. Il caos è la nemesi della pretesa di perfetta sottomissione di un’umanità impoverita psichicamente oltre che socialmente. Avete visto Nebraska, lo struggente film in bianco e nero di Alexander Paine? Nella cittadina di Billings, Montana, il vecchio Woody Grant vuole andare in Nebraska per ritirare un milione di dollari, il premio che crede di avere vinto. Il figlio cerca di dissuaderlo, perché capisce che il padre rimbecillito dalla birra e dalla solitudine ha preso alla lettera una pubblicità di un giornale popolare. Ma non c’è modo di impedire al vecchio di perseguire il suo sogno. Il figlio decide allora di accompagnarlo in un viaggio che è un incubo triste attraverso la demenza dell’immensa provincia nord-americana, quella che Cormack McCarthy ha descritto in romanzi come Il buio fuori o Cavalli selvaggi. Paine racconta con commovente comprensione l’ignoranza, lo smarrimento, lo stordimento alcolico e farmacologico dell’umanità che ha portato alla presidenza americana un idiota aggressivo e razzista. Idiozia e razzismo son quel che è rimasto alla classe operaia, ridotta oggi a popolo: massa amorfa senza vita sociale, senza cultura e senza speranza.
Il destino manifesto d’America appare oggi in una luce oscura. L’idealismo imperialista americano identificava questo destino con la diffusione della democrazia nel mondo. Ma questa pericolosa illusione funzionava nell’epoca in cui gli americani vincevano le guerre, mentre ora sono riusciti a perdere due guerre in un decennio e non riescono neppure a svincolarsene, come nel 1975 riuscirono a fare fuggendo in elicottero dal tetto dell’ambasciata di Saigon.
Ora il destino degli Stati Uniti è portare il pianeta e i suoi abitanti in un inferno di violenza, di depressione e di morte come dimostra la vittoria di Trump. Del resto questo destino è scritto nelle origini, e non c’è illusione imperiale che possa rimediarlo. All’origine della storia di questo paese c’è un manipolo di testardi fanatici puritani chiamati padri pellegrini che portarono la morte all’intera comunità Wempanoag sulle coste dell’attuale New England. Continuarono a seminare morte, dapprima contro il popolo indigeno delle grandi praterie, poi a milioni di africani strappati alle loro terre e sottoposti alla brutalità schiavista.
Sono un popolo che non sa vivere, che non sa nulla del piacere e della gentilezza, eppure vuole imporre dovunque il suo lifestyle. Un popolo di infelici rabbiosi e ignoranti che sprofondando nella miseria psichica e nella disperazione aggressiva a un certo punto si suiciderà. Ma i suicidi animati da fanatismo generalmente non lo fanno da soli: vogliono portare all’inferno quanta più gente si può. E la sola cosa in cui questo popolo è superiore è l’armamento.
Riuscirà l’umanità a evitare il destino manifesto cui vuole trascinarla la razza degli sterminatori? Non dipende certo dal partito democratico, che merita il disprezzo di cui è circondato. Non dipende neppure dalla costituzione, o dalle prossime elezioni, ammesso che alle prossime elezioni ci si arrivi mai. Dipende dall’intelligenza del variegato mondo del lavoro cognitivo, dai milioni da artisti, scienziati, sperimentatori che forse potremmo chiamare Silicon Valley Globale. In un’intervista uscita recentemente sul Sole 24 Ore, Jonathan Franzen, l’autore di The Corrections, Freedom e Purity, dice cose abbastanza banali accusando la Silicon Valley di avere provocato il rimbecillimento aggressivo degli americani.
Mi dispiace dirlo perché Jonathan Franzen è a mio parere uno scrittore grandissimo e i suoi romanzi ci permettono di comprendere l’impotenza aggressiva della classe media bianca, ma prendersela con Twitter o Facebook è una semplificazione che non aiuta né a capire né a cambiare. La tecnologia e i media possono funzionare come amplificatore di demenza aggressiva solo quando la demenza aggressiva è coltivata dai rapporti sociali, dallo sfruttamento e dalla povertà. Ma possono anche funzionare come fattore di liberazione, e la mia convinzione è che succederà solo quando i lavoratori cognitivi, che costituiscono il settore più avanzato e produttivo della classe operaia americana e mondiale, si renderanno conto del disastro e investiranno le loro energie nella direzione del sabotaggio e della riprogrammazione della macchina tecnica globale.
La catastrofe in cui gli Stati Uniti sono precipitati (e in cui sta precipitando il mondo) può culminare nell’apocalisse di un olocausto globale, ma può invece aprire la strada a una presa di coscienza della sola sezione di lavoro che può ancora evitare il precipizio, che può iniziare un processo di riscrittura del codice secondo regole diverse da quelle del profitto e della devastazione.
Spiegel, Trump ’sgozza’ Statua Libertà
Prima pagina shock del settimanale che titola ’America First’ *
(ANSA) - BERLINO, 3 FEB - Un disegno di Donald Trump a figura intera, con un coltello insanguinato in una mano e la testa mozzata della Statua della libertà nell’altra, è la provocatoria copertina di Der Spiegel in uscita domani. La rivista accompagna l’immagine con il titolo "America First", il motto della campagna elettorale di Trump. Nel disegno, la faccia del presidente non ha lineamenti, tranne che per la bocca spalancata nell’atto di urlare la sua rabbia.
*
ITALIA E USA - USA E ITALIA: DAL MITO DEL DUCE AL MITO DELL’AMERICA E DAL MITO DELL’AMERICA AL MITO DEL DUCE. LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA ...
ALLA LUCE DEL NOSTRO PRESENTE STORICO, E DELLA CORAGGIOSA E PREZIOSA ANALISI E AUTOANALISI di Fabrizio Denunzio ("La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, ombre corte, 2016, 119 pp., € 10), PER NON CONFONDERE I PIANI E NON SCAMBIARE la "RIPRESA" CON LA "ripetizione", non è per niente male rileggersi il bel saggio di Simona Urso, "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (Marsilio, Venezia 2003) e, insieme, il già citato lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare"(cfr.:http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882) e RIMEDITARE la "vecchia" LEZIONE DI FRANZ KAFKA (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1367).
Federico La Sala
Trump presidente, l’imprenditore-showman che ha distrutto i politici e convinto gli americani
Il ritratto - Miliardario di famiglia, ha sempre curato più l’immagine che la sostanza. Berlusconi tra i modelli, la politica come il luogo in cui appagare il suo ego smisurato. Le tante ombre della sua carriera non hanno minimamente pesato davanti al messaggio-chiave, quello che gli elettori atterriti dagli effetti della globalizzazione volevano sentirsi dire: "L’establishment vi ha tradito"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI *
NEW YORK - Il Silvio Berlusconi americano. Molti lo hanno descritto proprio così, anche fra i più brillanti analisti dei media Usa, compresi alcuni opinionisti repubblicani. E’ proprio da qui che bisogna partire. Donald Trump, appena eletto presidente degli Stati Uniti, non ha inventato quasi nulla - solo un brillante show televisivo, The Apprentice - ma ha studiato modelli vincenti. Berlusconi è uno di quelli, altri più locali sono Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger, Jesse Venture (in decrescendo).
Grande imprenditore, geniale uomo d’affari. O affarista mediocre, truffatore seriale, bancarottiere, evasore fiscale. Doctor Jekyll e Mister Hide, insomma. La verità su Trump è sempre sfuggente. Come immobiliarista, non si è fatto da solo: ha ereditato una discreta fortuna dal padre, e secondo le stime più accurate della sua fortuna (molto poco trasparente) non avrebbe aggiunto molta ricchezza a quella paterna. Le "torri" (grattacieli) Trump che si vedono a New York, a Las Vegas, in Florida, spesso non sono più sue da tempo. I grossi immobiliaristi newyorchesi lo considerano un protagonista minore del loro business. Lui però ha curato il "brand", lasciando il suo marchio anche in cose che non gli appartengono più. Ha investito nei casinò, ma anche lì ha avuto meno successo di quanto si creda, le bancarotte sono state numerose. Trump è presidente degli Stati Uniti: la notizia sui siti internazionali
Ha varie linee di "merchandising", abbigliamento o vini, sempre utili ad alimentare la sua notorietà ma non necessariamente generose di fatturato. Ha posseduto e gestito il marchio di diversi concorsi internazionali per reginette di bellezza, come Miss Universo: anche lì, più immagine che sostanza. Non è un Bill Gates né uno Steve Jobs, nel mondo del grande capitalismo americano è un microbo. Solo come showman ha dimostrato un talento innegabile. The Apprentice, il reality tv in cui lui selezionava aspiranti imprenditori, è stato uno dei più grandi successi della tv americana.
La politica lo ha sempre attirato. Probabilmente perché sentiva che poteva appagare il suo ego, il suo narcisismo smisurato. E’ stato democratico prima che repubblicano, ha frequentato i Clinton e tutti i notabili del partito democratico newyorchese. Ha capito da tempo, però, che la sua fortuna poteva essere legata alla destra. Ne ha corteggiato le frange più radicali e razziste. Il suo vero ingresso sulla scena politica nazionale avviene quando lui si fa capo del movimento "birther": quattro anni fa, all’epoca della campagna elettorale del 2012, lui comincia ad accusare Obama di essere nato in Kenya, quindi ineleggibile, un usurpatore. La menzogna diventa leggenda metropolitana, vi si aggiunge l’insinuazione che Obama sia anche musulmano. Che sia falsa non conta, è un messaggio subliminale grazie al quale Trump diventa il beniamino di tutta l’America bianca e arrabbiata che non può ammettere un afroamericano come leader della nazione. Trump si accorge che manipolando i social media acquista rapidamente un seguito enorme, entusiasta. Comincia il suo uso intenso, quasi ossessivo, di Twitter. La campagna del 2012, anche se lui non si candida, diventa la prova generale di quel che verrà.
Nessuno lo prende sul serio quando lancia la sua candidatura nell’estate 2015. Gli altri repubblicani però esitano ad attaccarlo. Pensano che il fenomeno Trump si sgonfierà da solo. Lo corteggiano, sicuri che verrà il momento di ereditarne i fan. E lui li frega tutti, uno per uno cadono come birilli politici di professione come Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio. Li distrugge ridicolizzandoli. Azzecca tutte le parole d’ordine vincenti: il Muro, la denuncia dei trattati di libero scambio. All’America che soffre per la globalizzazione lui dice: l’establishment vi ha traditi, vi ha venduti alla Cina e al Messico. Ha interpretato, meglio di chiunque altro, l’aria del tempo.
Una campagna insurrezionale, rivoluzionaria, un’Opa ostile su un partito antico che ebbe come leader Abraham Lincoln, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan. E’ riuscito perfino a farsi votare dai mormoni e dagli evangelici, lui che è al terzo matrimonio e si vantato di numerose conquiste e avventure extra-coniugali, fino alla ex modella di riviste per soli uomini che è la sua moglie attuale, Melania. Non lo ha danneggiato la rivelazione che Melania ha lavorato come fotomodella violando le leggi sull’immigrazione. Non gli ha nuociuto il fatto di avere impiegato immigrati clandestini nei suoi cantieri. Mentre tutti gli scandali di Hillary l’affondavano incollandole addosso l’immagine di una disonesta, lui è diventato presidente dopo essere stato un candidato-teflon, come a suo tempo Reagan.
* la Repubblica, 09 novembre 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Domani un Thanksgiving premonitore
Stati uniti. Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati Uniti
di Giuseppe Cassini (il manifesto, 23.11.2016)
Almeno una volta all’anno tutti gli americani, sparsi nella vastità del continente, riuniscono le famiglie per condividere affetti, gioie, dolori e l’immancabile tacchino farcito. La ricorrenza da festeggiare è il Thanksgiving Day e cade domani, ultimo giovedì di novembre.
Ma quest’anno la parola “festeggiare” sembra fuori luogo. Per la prima volta dopo 150 anni dalla Guerra di Secessione, qui negli Stati Uniti si vedono famiglie spaccate dalle scelte elettorali dei propri congiunti, e che ora rifiutano di sedersi al desco comune. Attenzione, non è un’irritazione passeggera, ammoniscono i sociologhi: è una spaccatura epocale.
Bob Putnam, noto anche in Italia per le sue passate ricerche sul “familismo amorale” nel Mezzogiorno, osserva da decenni l’affievolirsi del “capitale civico” nel suo Paese e ora dice: «Se aveste partecipato a un Thanksgiving cinquanta anni fa, quasi certamente avreste avuto attorno a voi commensali di diversa estrazione. Oggi è raro sedersi a tavola con gente che non sia affine a noi».
Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti.
Qualche cifra può bastare a misurarne la fragilità: nell’indice Gini che misura le sperequazioni di reddito gli Stati uniti si piazzavano nel dopoguerra alla pari con la Svezia, mentre oggi sono vicini al Messico. Nell’ultimo trentennio la produttività negli Stati uniti è cresciuta dell’80%, mentre i salari sono mediamente aumentati in termini reali appena dell’11% (chi ne ha profittato?).
Un terzo della popolazione è “creazionista”, anti-darwiniana e anti-abortista senza se e senza ma; ed è la stessa che difende la pena di morte, l’uso della tortura (quando ce vo’ ce vo’), la libertà di armarsi e la castrazione giudiziaria per i recidivi di reati sessuali.
Su 320 milioni di abitanti un terzo è obeso (fra cui il 14% dei minorenni), un altro terzo è sovrappeso (fra cui il 17% dei minorenni) e sono sopratutto i poveri ad ingrassare.
Le carceri ospitano un quinto dei reclusi del mondo (circa 2.200.000, di cui metà neri); in proporzione è come se l’Italia avesse 500.000 carcerati invece degli attuali 50.000.
La disoccupazione fra i neri è doppia della media nazionale e il 70% dei bambini neri nasce da madri senza marito, quasi tutte sotto la soglia della povertà.
I grandi imperi della storia sono decaduti per sfaldamento interno piuttosto che per attacchi esterni; l’attuale disgregazione del tessuto sociale spinge gli Usa in quella direzione. La vittoria di Trump ne è un sintomo, un sintomo roboante. Si sta facendo largo (è il caso di dirlo) una genìa di governanti di stazza extra-large, divoratori di Big Mac, arroganti, inclini alla violenza verbale e - temo - anche fisica.
I valori filadelfiani su cui si regge l’Unione erano permeati anche fisicamente di uno stile sobrio, di quella sobria eleganza originata nel Secolo dei Lumi e trasfusa nell’arredamento dell’Independence Hall a Filadelfia e della Casa Bianca a Washington. Vi immaginate quegli interni arredati col gusto da satrapo turkmeno delle magioni del Donald? Ovviamente gli verrà impedito di provarci. Intanto, però, circola la battuta sul figlio più piccolo di Trump che entrando alla Casa Bianca esclama: «Papà, ma siamo diventati poveri?».
Arriva in Italia “Da noi non può succedere”, il romanzo di Sinclair Lewis che nel 1936 immaginava l’avvento negli Usa di un regime parafascista
di Federico Rampini (la Repubblica, 27.10.2016)
Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola. Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere». In un editoriale-shock sul “Washington Post”, il 18 maggio 2016 Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia. Il titolo è stato come un pugno nello stomaco: Ecco come il fascismo arriva in America.
Il portatore della peste nera, Kagan non aveva dubbi, si chiama Donald Trump. L’intellettuale di destra in quell’intervento drammatico non risparmiava le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica». Seguiva una descrizione del ciclone- Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo», «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze ». Il verdetto finale: «è una minaccia per la democrazia », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».
Tutto ciò accadeva all’inizio del duello fra Trump e Hillary Clinton. Mentre scrivo, il verdetto finale non è ancora arrivato. La Clinton viene data per favorita. Ma anche se dovessimo evitare il peggio, l’America avrà vissuto un’incredibile campagna elettorale, dove è accaduto tutto ciò che Da noi non può succedere. Un candidato ha sdoganato il razzismo, la misoginia, l’evasione fiscale. Ha elogiato Vladimir Putin e altri regimi autoritari in giro per il mondo. Ha invocato l’aiuto degli hacker russi contro la sua rivale. Ha promesso di mandare in galera la candidata democratica. E, anche se chi mi legge sta vivendo in un futuro in cui lo scenario peggiore non si è avverato, come spero, resta il fatto che col fenomeno Trump abbiamo convissuto per un’intera campagna presidenziale. Con lui dovremo fare i conti a lungo, molto a lungo: per tutto ciò che ha fatto emergere dall’America di oggi.
Torno al monito severo di Kagan. Dopo che il guru neo-conservatore aveva lanciato contro The Donald l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times decise di sbattere la controversia in prima pagina. Con il titolo L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo, il quotidiano liberal dava conto nella primavera del 2016 di un allarme che stava diventando esplicito. Un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, paragonava il progetto di Trump per la deportazione di undici milioni di immigrati alla “notte dei cristalli” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei. Il New York Times allargava l’orizzonte per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mettendo insieme una generazione di leaders che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.
È così che l’élite intellettuale newyorchese ha riscoperto due romanzi di fantapolitica. Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America. Il primo è questo Da noi non può succedere di Sinclair Lewis, finalmente disponibile in italiano. Affermazione rassicurante, quella del titolo: ma contraddetta dalla trama narrativa. Scritto e ambientato nel 1936, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista. L’altro romanzo è di Philip Roth, molto più recente (2004): immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini. È probabile che Roth si sia ispirato al precedente di Lewis. La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?
La reticenza che aveva impedito questo dibattito ha varie spiegazioni. Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie. Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia; è imbarazzante ammettere che nel 2015-2016 ha importato tendenze già in atto da molti anni in Europa (Berlusconi-Bossi- Grillo, tanto per citare solo i nostri) e culminate nel Regno Unito con Brexit. L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che nel 2016 si è invaghito di Trump. Dargli del fascista può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale: quel tradimento delle élites che ho messo al centro del mio ultimo saggio.
Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”. L’allarme di Kagan si è rivelato comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore. Frastornati, storditi, imbarazzati, umiliati, ma in larga parte troppo codardi, i repubblicani avranno una responsabilità immensa: l’aver consegnato il Grand Old Party di Abraham Lincoln e di Dwight Eisenhower a un affarista imbroglione, egomaniaco, narcisista e con pulsioni autoritarie. La cui somiglianza col protagonista di questo romanzo è impressionante, inquietante.
Il sogno di Kafka?
Le guide di viaggio low cost
Voleva diventare milionario scrivendo manuali turistici era alto, di bell’aspetto, gentile e divertentissimo
di Giorgio Fontana (La Stampa, Tuttolibri, 15.10.2016)
A pochi scrittori è stato riservato un destino di stereotipo simile a quello di Kafka. Il suo nome evoca sconforto, autodistruzione e cupezza: di lui si pensa che fu unicamente un individuo infelice, oscuro in vita, e schiavo del potere paterno; e l’aggettivo che ne deriva, kafkiano, è usato altrettanto a sproposito.
Per correggere questa rappresentazione, Reiner Stach - il maggior biografo dello scrittore ceco - ha raccolto «99 reperti» che illuminano gli aspetti curiosi, ma non per questo meno caratterizzanti, della vita di Kafka: regalandoci così un testo molto ben documentato, specie per quanto riguarda l’apparato iconografico, e a tratti veramente spassoso.
Albert Camus scrisse che l’opera di Kafka obbliga il lettore a rileggere. E «l’ardente desiderio di umane spiegazioni che i suoi testi vanno di continuo suscitando si riversò, per così dire, anche sulla sua esistenza privata e sull’ambiente culturale, politico e sociale che lo circondava», annota Stach. Fino a produrre appunto «un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno: [...] un uomo inquietante che suscita cose inquietanti»: mortificando così non solo la sua prosa, ma anche lo scrittore stesso. Che invece fu un uomo alto, di bell’aspetto e - per quanto certamente tormentato - gentilissimo e dotato di grande vis comica.
Attraverso le numerose prove documentarie, Stach si propone dunque di «scuotere il monopolio» di un’immagine parziale con delle immagini di segno opposto: i suoi reperti “ci mostrano lo scrittore in contesti insoliti, sotto una luce insolita, e permettono di percepire tonalità registrate di rado”. Così il saggista aggiunge un salutare punto interrogativo al preconcetto. Aderendo ad esso, molti lettori pensano di sapere benissimo che «questo è Kafka»; e invece qui tocca lasciare spazio allo stupore e domandarsi - è davvero questo Kafka?
Lo è, decisamente. Certo, alcuni reperti sono abbastanza noti: il suo grande interesse per la lingua ebraica, o i testamenti che disponevano quali suoi scritti salvare e quali invece distruggere (testamenti che furono traditi da Max Brod, peraltro dopo averli pubblicati postumi). Ma altri fatti sono davvero sorprendenti: uno su tutti, il rapporto di Kafka con la medicina. Diffidente nei confronti delle terapie tradizionali, lo scrittore si affidava a vaghi principi naturalistici - vivere «secondo natura» e senza stress - anche per malattie come la sua tubercolosi. (Arrivò persino a rifiutare i vaccini prescritti per legge). Poco nota è anche l’idea commerciale elaborata da Kafka e Brod nel 1911, quando studiarono un nuovo modello di guida turistica chiamato «A buon mercato»: una sorta di manuale low-cost ante litteram. Il progetto non fu portato avanti, con grande disappunto di Kafka: secondo lui, avrebbe potuto farli diventare milionari.
Altri reperti ancora sono piccole, deliziose curiosità: l’unica lettera in nostro possesso che gli inviò un lettore; i ricordi della nipote Gerti; l’elenco degli errori geografici del romanzo America; i suoi flirt e le sue puntate nei bordelli; la canzone preferita dello scrittore (Addio piccola stradina di von Schlippenbach e Silcehr); i soldi persi con Brod giocando d’azzardo a Lucerna. È interessante anche apprendere che Kafka barò all’esame di maturità, collaborando con dei ragazzi per sottrarre al professore di greco i brani da tradurre alla prova. (Fra l’altro, il suo diploma fu assolutamente nella media).
Stach dissolve un ulteriore equivoco: certo Kafka non fu un autore di successo in vita, ma il suo nome «rispondeva a una delle talentuose promesse su cui, di tanto in tanto, si puntavano i riflettori della critica». Peraltro, l’unico riconoscimento letterario che vinse in vita accadde per procura: il premio Fontane 2015 fu assegnato a Carl Sternheim, ma solo a patto che egli ne devolvesse pubblicamente l’importo a Kafka. (Lui, com’è comprensibile, ne rimase molto ferito). Veniamo a sapere anche che Kafka - guardato con affetto e simpatia da chiunque - era profondamente odiato dal medico e scrittore Ernst Weiss a causa di una mancata recensione; e che a sua volta, caso più unico che raro, detestava la poetessa Else Lasker-Schüler.
Insomma, è davvero difficile scegliere l’aneddoto più affascinante in una collezione così varia. La descrizione della sua scrivania come se fosse un teatro, tratta dai diari? Il necrologio scritto da Milena Jesenská, che rende giustizia alla sua «coscienza tanto scrupolosa da rimanere vigile anche là dove gli altri, i sordi, già si sentivano al sicuro»? Il suo attacco incontrollabile di riso davanti al presidente dell’Istituto che gli aveva appena confermato una promozione? Ci provo: per me è la difficoltà di stabilire il colore dei suoi occhi. Per quattro conoscenti erano scuri, per altri quattro erano grigi, per tre erano azzurri e per altri tre invece castani. Il passaporto dello scrittore risolve la questione nel modo più graziosamente kafkiano possibile: indicando il loro colore come «grigio-azzurro scuro».
L’incognita Hillary: campagna sospesa *
Hillary Clinton costretta a sospendere la campagna elettorale per le Presidenziali americane. Niente viaggio in California previsto proprio in questi giorni. E la polmonite della candidata democratica entra prepotentemente nella corsa per la Casa Bianca. Senza escludere colpi di scena e l’ipotesi di trovare un nuovo candidato democratico. E ci sono indiscrezioni di altri componenti dello staff di Hillary che sarebbero stati colpiti dalla stessa patologia. Anche il rivale Donald Trump è intervenuto. Annunciando che presto darà conto sulle sue condizioni di salute: «Io sto bene. Ho appena fatto gli esami e quando avrò l’esito lo farò sapere».
La segretezza più grave della polmonite
di Massimo Gaggi *
«Gli antibiotici curano la polmonite. Ma non so quale possa essere la cura per l’ossessione della segretezza che affligge Hillary Clinton creandole problemi che si sarebbe potuta risparmiare». Difficile essere più nitidi e concisi di David Axelrod, lo stratega elettorale di Obama.
David Axelrod analizza il macigno che è caduto sulla campagna del candidato democratico alla Casa Bianca.
C’è la notizia della nuova malattia, certo, che rafforza i timori sulla fragilità della salute della ex first lady. La polmonite dopo i problemi alla vista, la trombosi e la commozione cerebrale di quattro anni fa, i «non ricordo» durante le testimonianze davanti al Congresso. La patologia polmonare potrebbe essere, in sé, un problema minore: può essere risolta con pochi giorni di cure, anche se lei deve averla trascurata a lungo, visti gli attacchi di tosse che la perseguitano da giorni, e anche se gli anziani recuperano più lentamente. E lei dovrà affrontare tra meno di due settimane il dibattito più importante di tutta la campagna elettorale col suo avversario, Donald Trump.
Il quale, dopo averla spesso insolentita ironizzando proprio sulle sue precarie condizioni di salute, ha improvvisamente assunto, su questo, un atteggiamento più composto (le ha anche augurato una pronta guarigione), consapevole che insistere ora sarebbe, per lui, controproducente: sono più che sufficienti, per mettere in cattiva luce la Clinton, il goffo tentativo della sua campagna di nascondere la realtà, l’irritazione del pool di giornalisti che segue la candidata per essere stato lasciato all’oscuro (se non addirittura depistato) e, infine, la tardiva ammissione che Hillary è affetta da una polmonite.
La campagna più sorprendente (e per certi versi inquietante) della recente storia americana diventa ancora più incerta con questo sviluppo che certamente indebolisce la candidatura della Clinton, ancora in testa nella maggior parte dei sondaggi ma con un margine di vantaggio su Trump che si assottiglia sempre più. In campo democratico nessuno ipotizza apertamente l’emergere di una candidatura alternativa anche perché la Clinton non ha certamente alcuna intenzione di tirarsi indietro, come dimostra il fatto che per tre giorni ha continuato a fare campagna anche con la polmonite.
Ma nel partito è sicuramente iniziata una riflessione informale sul da farsi qualora la situazione dovesse precipitare. Per i problemi di salute della Clinton o anche per quella «October surprise» che molti continuano a temere, tra rivelazioni di Wikileaks e inchiesta dell’Fbi sulle email «segrete» che è ancora aperta, con le ultime migliaia di messaggi, scoperti solo di recente, setacciati proprio in queste settimane. I democratici la difendono a spada tratta, sostenendo che, ferma restando l’importanza della trasparenza, il primo candidato donna della storia viene sottoposto a un esame molto più severo di Trump che fin qui sul suo stato di salute ha rivelato ancora meno della Clinton, nonostante sia più vecchio di lei: una brevissima ed enfatica lettera di un gastroenterologo per assicurare che il miliardario sta benissimo. E, visto che di trasparenza si parla, l’occasione torna buona per ricordare che Trump continua a rifiutarsi di mostrare anche le sue dichiarazioni dei redditi.
Insomma: sembra avere da nascondere più lui della Clinton. Ma «The Donald» non si è fatto cogliere in contropiede: ha subito detto che si è appena sottoposto a controlli medici accurati: appena riceverà i risultati dei test, li renderà noti. Continua, invece, il silenzio sulle tasse. Ad essere chiuso in un angolo, però, oggi non è Trump, che ha recuperato dopo i passi falsi di luglio, ma il suo avversario democratico. Coi continui tentativi di nascondere i fatti - dai pasticci fatti con le email e coi finanziamenti della Fondazione Clinton fino a una banale malattia - la Clinton alimenta quell’irritazione dell’opinione pubblica nei confronti dei politici tradizionali considerati cinici e bugiardi, che sta cambiando in profondità l’umore degli elettori anche in America.
«Hillary ha la forza per farcela»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE * NEW YORK Hillary Clinton sta cercando di recuperare fisicamente e politicamente, dopo aver rivelato all’America, con tre giorni di ritardo, di essersi ammalata di polmonite. A sorpresa Donald Trump glissa e preferisce attaccare la concorrente su altri temi. Mentre il presidente Barack Obama le dà la carica: «Hillary ha la forza per farcela».
Già domenica sera Clinton ha annullato il viaggio a San Francisco e Los Angeles previsto per ieri e oggi. La candidata democratica, 68 anni, parteciperà ai comizi in teleconferenza dalla sua casa di Chappaqua, nello Stato di New York. Due giorni di stop parziale, prima di riprendere la campagna.
Intanto il suo staff prova a respingere l’accusa di aver intenzionalmente nascosto quali fossero le reali condizioni di salute dell’ex segretario di Stato. Solo domenica 11 settembre, alle 17.30 ora degli Stati Uniti, i collaboratori di Hillary hanno diffuso la nota del medico di fiducia, Lisa Bardack: «Ha la polmonite, deve prendere gli antibiotici e stare a riposo». La diagnosi, però, risale a venerdì 9 settembre. «Avremmo potuto fare di meglio», scrive su Twitter Jennifer Palmieri, responsabile per la comunicazione, «ma è un dato di fatto che il pubblico sappia più di Hillary Rodham Clinton che di qualsiasi altro candidato della storia». Brian Fallon, portavoce dello staff, ha annunciato, invece, «che non ci sono altri problemi di salute, al di là della polmonite». In settimana lo staff «fornirà un quadro completo di informazioni mediche», mentre si è diffusa la notizia che almeno sei collaboratori di Hillary siano stati colpiti dalla stessa infezione.
Anche Trump, così ha detto, presenterà nei prossimi giorni «i risultati di una serie di esami clinici»: «Credo saranno molto buoni, perché mi sento veramente in forma», ha aggiunto. Il tycoon newyorkese, spiazzando molti osservatori, in mattinata è stato lieve sulla malattia di Hillary, nonostante l’iniziativa condotta nei mesi scorsi dai media conservatori che lo appoggiano. «Spero che guarisca e torni presto in gara. Non credo che il partito democratico la sostituirà. La vedremo al dibattito presidenziale fra due settimane». Qualche ora dopo Trump, parlando a Baltimora, è stato durissimo. Venerdì scorso Hillary aveva sostenuto che «metà degli elettori di Trump fanno parte del cestino dei miserabili; sono xenofobi, razzisti, omofobi, sessisti, islamofobi».
Il candidato repubblicano l’ha tacciata di «arroganza»: «Non si possono classificare e offendere così gli americani».
G. Sar.
* Corriere della Sera, 13.09.2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
di Angelo d’Orsi (Il manifesto, 27 luglio 2016)
Il mondo sembra non avere più senso, e nella confusione delle nostre menti, nell’angoscia dei nostri cuori, nell’ansia che ci accompagna ormai in ogni situazione pubblica (da un treno a un ristorante affollato), ci abbandoniamo alla deprecazione, all’invocazione a qualche entità superiore, minacciamo di ritirarci nel cenobio, piangiamo le vittime di tutti i giorni di questo terrore cieco. Tutto ciò è legittimo e comprensibile. Persino giusto, almeno in quanto serve a scaricare le nostre paure. Eppure dobbiamo conservare accanto all’occhio caldo dei sentimenti, quello freddo della razionalità.
Non dobbiamo smettere di ricordare, a noi stessi e agli altri, che l’Afghanistan è stato demolito dagli Stati uniti foraggiando i Taliban, facendo prosperare Al Qaeda, salvo poi punire un intero Paese per catturare Osama bin Laden, fino a poco prima amico dei Bush & Co. In Iraq sappiamo come è andata: si cercavano anche là gli amici di Osama, poi le «armi di distruzione di massa», e in mancanza degli uni e delle altre, a Washington si decise di procedere comunque contro «Saddam, minaccia per il mondo» e perché «gli iracheni meritano la democrazia».
Sulla base del successo per l’eliminazione di Saddam, con una impiccagione coram populo si decise che si poteva bissare con Gheddafi. In questo caso furono le potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ad intervenire, trascinandosi dietro gli alleati, timorosi che Londra e Parigi potessero collocare le loro imprese estrattive in posizioni di vantaggio sulla concorrenza, e Gheddafi risultava un osso duro per tutti gli occidentali. La sua uccisione è un capitolo della barbarie dell’Occidente. Infine, sullo stesso modello Saddam-Gheddafi si era puntato l’obiettivo su Assad, un altro dittatore da eliminare per restituire la democrazia al suo popolo.
E l’Isis che colpisce a destra e manca, e dove non colpisce comunque lucra del terrore, da chi è stato sostenuto negli scorsi anni, fino a non troppo tempo fa? Dagli occidentali, Usa in testa, fino almeno alla Turchia di Erdogan, che ora si dedica amorevolmente a custodire il suo popolo, sgominando il “nemico interno”, vero o immaginario, sulla base di un disegno politico preciso, semplicemente di tipo dittatoriale.
Rispetto ai tanti progetti Usa-Nato, sappiamo come è andata. La vita non assomiglia più a niente, scriveva Tahar Ben Jalloun dopo una visita a Baghdad, qualche anno fa; una frase che vale per Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, Aleppo, e l’elenco può continuare, in una lista collana di morte disperazione dolore. Insensatezza. Le armi che vengono impiegate in quei luoghi sono quasi sempre nostre. I mercenari inviati a combattere per la democrazia sono perlopiù sul libro paga di agenzie occidentali. La grande regia è a Washington, a cui si accoda senza fiatare Londra (Tony Blair che chiede scusa ammettendo di aver sbagliato nel 2003 è un po’ penoso).
Seguono, gli altri, praticamente tutti gli altri, nel coacervo criminale della Nato, partecipano alla mattanza, ora frenando, ora accelerando, a seconda degli interessi nazionali; che sono poi gli interessi di gruppi dominanti, legati al mercato delle armi, a interessi finanziari e imprenditoriali.
Ma naturalmente i morti non sono tutti uguali, come uguali non sono i vivi. E lo sdegno per la Francia, per la Germania, e così via non si riproduce per le notizie che giungono dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, a cominciare dallo stillicidio di nefandezze portate avanti dai governanti israeliani a danno dei Palestinesi. E la nostra pietas di occidentali viene opportunamente distribuita, in base a convenienze, dei media, dei governanti, dei potenti. Ma anche in base alla nostra capacità di attenzione critica, che lo stesso susseguirsi di eventi tragici finisce per abbassare, fino al suo obnubilamento. E sta proprio qui il problema. La perdita dell’attenzione critica.
Certo, noi comuni cittadini non siamo in grado di fare alcunché contro i governanti stranieri. Ma possiamo almeno tenere sotto osservazione e sotto pressione i nostri. E possiamo, anzi dobbiamo, puntualmente sbugiardare i giornalisti, commentatori, intellettuali che, per stupidità, ignoranza, disonestà intellettuale, si sono resi complici di menzogne e inganni in tutti questi anni, sostenendo la favola velenosa della esportazione della democrazia, credendo o fingendo di credere a Bush, a Blair, a Sarkozy, e compagnia cialtrona. «Io so», diceva Pasolini, «so i nomi, ma non ho le prove», in riferimento alle colpe della Dc.
Noi abbiamo le prove. Basta sfogliare i giornali dei 20/25 anni alle nostre spalle, e oggi con la Rete tutto è assai agevole. Andiamo a rileggere i commenti, le analisi, e le pseudo-verità di questo esercito degli «armiamoci e partite», le grottesche macchiette di «eroi in pantofole», che hanno incitato l’Occidente a «difendere i suoi valori», a suon di bombe. Andrebbero invitati quanto meno a usare il loro intelletto in modo meno disonesto, e a fare una robusta autocritica, pur nella convinzione che non la faranno, ma almeno ricordargli cosa hanno scritto e detto li inchioda alle loro responsabilità. Costoro, a furia di predicare vento, hanno raccolto tempesta. Purtroppo questa tempesta, non solo colpisce e travolge tutti, indiscriminatamente, colpevoli e, soprattutto, innocenti; ma suscita mostruosi giochi dell’orrore, imitazioni sadiche, e un nichilistico desiderio di morte, che prende a oggetto gli altri e sé stessi.
E mentre orrore e terrore si propagano, a noi che rimane? Rimane il dovere della denuncia, il compito della documentazione, l’impegno della militanza dalla parte degli innocenti. A cominciare da quei bambini siriani che, facendoci versare più di una lacrima, hanno issato cartelli con le immagini dei maledetti Pokemon, e un amaro invito: «Venite a cercare anche noi».
Galline o esseri umani non fa differenza: siamo stati tutti un uovo
Il “laboratorio molecolare” per eccellenza è al centro delle ricerche di editing genomico
di Gianna Milano (La Stampa, TuttoScienze, 06.07.2016)
Siamo a Firenze, alla fine del Duecento: Dante siede su un muretto di fronte alla cattedrale. I suoi pensieri vagano assieme al volo degli uccelli. D’un tratto gli si avvicina uno sconosciuto e gli chiede: «Messere, voi che siete così dotto, potreste suggerirmi... qual è il miglior boccone?». Senza esitazione Dante risponde: «L’uovo». Una ghiottoneria, ma anche la matrice del concepimento degli esseri umani e della riproduzione di molte specie, come la gallina appunto, oltre all’oca, il piccione, lo struzzo, l’aquila.
«Se, come ebbe a dire Aristotele, “la natura non fa nulla di inutile”, l’uovo è lì a testimoniarlo. Questo straordinario laboratorio di biologia molecolare nella sua armonia e bellezza rappresenta in molte culture lo zero, l’origine della vita e del mondo». A raccontare è Carlo Alberto Redi, biologo all’Università di Pavia, che con Manuela Monti, ha pubblicato per Sironi «Storia di una cellula fantastica». Ovvero un percorso scientifico e culturale (nonché culinario) attorno alla cellula che dà origine a ciascuno di noi.
«La locuzione latina ab ovo, “dall’inizio”, include la concezione secondo la quale ogni essere vivente nasce da un uovo - aggiunge Redi -. Un’intuizione che si accompagna all’altrettanto tradizionale interrogativo “è nato prima l’uovo o la gallina?” (La risposta giusta è l’uovo). È attraverso la cellula germinale femminile, l’uovo, che si trasmette da una generazione all’altra il proprio Dna. La storia dell’uomo è anche la storia dell’uovo che, fecondato, dà luogo attraverso un evento fantastico alla vita».
Nel Seicento, ancor prima che ci arrivasse Louis Pasteur, fu Francesco Redi (antenato dell’autore) a compiere il famoso esperimento che dimostrò l’impossibilità della generazione spontanea. «Omne vivum ex ovo», ovvero la nascita degli animali avviene dall’uovo, che siano ovipari (si riproducono deponendo le uova fecondate fuori del corpo) o vivipari (il cui embrione si completa nell’utero materno).
Ma, a seconda della specie, le caratteristiche dell’uovo cambiano: dalle uova gigantesche dell’Aepyornis maximus, un uccello estinto che viveva in Madagascar, con un volume di nove litri (160 volte quello di un uovo di gallina) alle uova dello struzzo, oggi le più voluminose. E poi ci sono le uova che non si vedono a occhio nudo e per le quali serve il microscopio. Intanto, «le innovazioni tecnologiche hanno permesso di fare un salto quantico alle ipotesi legate allo sviluppo delle uova, perfezionando la visione embriologica nelle sue fasi - dice Redi -. La biologia dello sviluppo ha avuto nell’uovo e nell’embrione di gallina il suo primario modello di studio e continua a esserlo». Con le biotecnologie è stato possibile fare ciò che sembrava impensabile, come clonare un vertebrato (la prima è stata la pecora Dolly), sostituendo il nucleo di una cellula uovo con quello di una cellula somatica già differenziata. E oggi la possibilità di crioconservare le cellule uovo è utile per le coppie che devono affrontare la fecondazione in vitro.
E ora cosa ci riserva il futuro? «I ricercatori si propongono di migliorare la qualità delle uova da impiantare in utero, con grandi vantaggi in medicina umana e veterinaria - sostiene Manuela Monti -. Già ora, grazie alla tecnica Crisp-Cas9, è possibile intervenire sul genoma di una cellula, vegetale o animale, per alterare sequenze di Dna legate a geni specifici e correggere anomalie». Tecnica che si potrebbe usare anche sulla cellula-uovo, e che suscita non pochi dilemmi etici. C’è chi offre un trattamento, si chiama Augment, capace di accrescere le capacità energetiche e metaboliche di una cellula uovo, somministrando mitocondri (organelli con un proprio Dna che fanno da centrali d’energia della cellula) prelevati da cellule germinali primordiali, come gli oogoni.
Dal laboratorio alla cucina. La buona notizia è che il loro contenuto di colesterolo non è più considerato un pericolo. Un adulto - precisa Redi - può consumarne fino a 5-6 la settimana. Ma, per chi continua a temerle, sono state messe a punto in Usa le uova artificiali vegetali e così si potrà dire addio agli allevamenti intensivi di galline ovaiole, criticate per motivi etici e ambientali.
FRANZ KAFKA. Novant’anni di traversie per stabilire la «proprietà» delle opere dello scrittore praghese. Max Brod rispettò solo in parte la volontà dell’amico di distruggerle: un compromesso denso di conseguenze. Un’anticipazione dall’ebook di Judith Butler «Di chi è Kafka?», da lunedì sulla rivista lavoroculturale.org
di Judith Butler (il manifesto, 20.02.2016)
A Tel Aviv è in corso un processo per determinare chi amministrerà alcune scatole contenenti gli scritti originali di Kafka, incluse le bozze delle opere postume, conservate tra Zurigo e Tel Aviv. Com’è risaputo, Kafka lasciò a Max Brod i suoi scritti, sia quelli pubblicati che gli inediti, dandogli esplicite istruzioni di distruggerli dopo la propria morte.
Sembra che lo stesso Kafka avesse già bruciato parte dei suoi lavori prima di morire. Brod rifiutò di rispettare questa richiesta, anche se poi non pubblicò tutto ciò che gli fu lasciato. Pubblicò Il processo, Il castello e America tra il 1925 e il 1927. Nel 1935 fece uscire un’antologia, per poi riporre la maggior parte dei restanti lavori all’interno di bauli. Dunque Brod rispettò, in parte, il desiderio di Kafka di non pubblicare quelle opere, ma non la sua volontà di distruggerle. Questo compromesso ha avuto delle conseguenze, che si manifestano oggi in modo evidente.
APPROPRIAZIONI INDEBITE
Nel 1939 Brod fuggì dall’Europa alla volta della Palestina, e anche se molti dei manoscritti che custodì poi finirono alla Bodleian Library di Oxford, ne tenne con sé un numero cospicuo sino alla morte, avvenuta nel 1968. Brod lasciò in eredità gli scritti a Esther Hoffe, la sua segretaria, con cui sembra abbia avuto una relazione amorosa.
Hoffe li conservò fino a che non morì, nel 2007, all’età di centouno anni. Esther fece inizialmente con gli scritti la stessa cosa di Max: li custodì in vari bauli, dentro a una cassaforte. Nel 1988, tuttavia, vendette il manoscritto de Il processo per due milioni di dollari. Era ormai chiaro che fosse possibile ricavare profitti da Kafka. Nessuno, però, avrebbe potuto prevedere che dopo la morte di Esther si sarebbe tenuto un processo in cui le figlie, Eva e Ruth, avrebbero sostenuto che non ci sarebbe stato alcun bisogno di fare un inventario dei materiali conservati dalla madre e che il valore dei manoscritti si sarebbe dovuto stabilire in base al loro peso - letteralmente: in base a quanto pesavano.
Come ha poi spiegato uno degli avvocati incaricati di rappresentare la proprietà di Esther Hoffe: «Se raggiungeremo un accordo, il materiale sarà messo in vendita come un’entità singola, in un solo pacchetto. Sarà venduto a peso... Si dirà: «C’è un chilo di carta qui, il migliore offerente potrà avvicinarsi e vederne il contenuto». Anche la Biblioteca nazionale (d’Israele, ndt) può mettersi in fila e fare un’offerta».
UN BENE PUBBLICO
Come è possibile che Kafka sia stato trasformato in una merce e in un nuovo «peso d’oro»? È una questione importante su cui ritornerò. Sappiamo bene che il valore del lavoro letterario e accademico è sempre più condizionato da parametri quantitativi, ma non sono sicura che ci sia qualcuno che, ad oggi, abbia proposto di pesare il nostro lavoro su una bilancia.
A ogni modo, per iniziare, proviamo a capire quali sono le parti coinvolte nel processo e quali sono le loro posizioni. In primo luogo vi è la Biblioteca nazionale di Israele, la quale sostiene che la volontà di Esther Hoffe andrebbe ignorata, poiché Kafka non appartiene a queste donne ma è un bene pubblico e del popolo ebraico - pare che le due cose talvolta coincidano. David Blumberg, direttore del consiglio d’amministrazione della Biblioteca nazionale, descrive il caso in questi termini: «La Biblioteca non intende privarsi dei beni culturali del popolo ebraico... Dal momento che non si tratta di un’istituzione commerciale e che gli oggetti che conserva sono accessibili a tutti, e gratuitamente, la Biblioteca continuerà nei suoi sforzi di ottenere i manoscritti rinvenuti». È interessante questa posizione secondo cui gli scritti di Kafka possano costituire un bene del popolo ebraico e allo stesso tempo non avere nulla a che fare con attività commerciali.
Oren Weinberg, l’amministratore delegato della Biblioteca nazionale, ha recentemente affermato che: «La Biblioteca è preoccupata per la nuova posizione espressa dalle esecutrici testamentarie, le quali vogliono mescolare considerazioni di ordine economico con la decisione su chi riceverà la proprietà. Avere rivelato l’esistenza di un tesoro tenuto nascosto in una cassaforte per decenni gioverà all’interesse pubblico, ma la posizione delle esecutrici testamentarie rischia di vanificare questa rivelazione e di nuocere a Israele e al mondo intero».
POSIZIONI CONTROVERSE
Sembra dunque di capire che gli scritti di Kafka costituiscano un bene del popolo ebraico, ma non un bene esclusivamente di tipo economico. Inoltre, dal momento che Kafka è uno scrittore ebreo, ciò significa che egli fa parte del popolo ebraico, e che i suoi scritti fanno automaticamente parte del suo patrimonio culturale.
Questa affermazione, già controversa di per sé - dal momento che elide altre forme di appartenenza, o di non-appartenenza -, lo diventa ancora di più se consideriamo che il caso giudiziario si fonda sulla premessa implicita che il popolo ebraico sia rappresentato dallo Stato di Israele. Potrebbe sembrare un’affermazione meramente descrittiva. In realtà, questa affermazione prevede conseguenze straordinarie e contraddittorie. Innanzitutto, non tiene conto della distinzione tra ebrei che sono sionisti ed ebrei che non lo sono - per esempio quegli ebrei della diaspora per cui la madrepatria non è inevitabilmente un luogo dove tornare o una meta finale. In secondo luogo, si tratta di un’affermazione che ha conseguenze anche all’interno dei confini dello stesso Stato di Israele.
Infatti, il problema di Israele su come raggiungere e mantenere una maggioranza demografica nei confronti della sua popolazione non ebraica - che costituisce oltre il 20 per cento della popolazione che vive all’interno dei suoi attuali confini - è dato dal fatto che esso non è uno stato esclusivamente ebraico e che, se volesse davvero rappresentare la propria popolazione in maniera giusta e uguale, dovrebbe rappresentare sia i cittadini ebrei che i non ebrei.
PASSATO CULTURALE?
Quindi, affermare che Israele rappresenta il popolo ebraico significa negare l’esistenza non solo di un cospicuo numero di ebrei che vivono fuori da Israele e che Israele non rappresenta né legalmente né politicamente, ma significa anche negare l’esistenza dei palestinesi e degli altri cittadini non ebrei che vivono all’interno dello Stato.
La posizione della Biblioteca nazionale si fonda su una concezione della nazione di Israele secondo cui la popolazione ebrea che si trova al di fuori del territorio nazionale vive in una condizione di galut - in uno stato di esilio e di perdizione da rovesciare attraverso il ritorno in Israele. L’idea implicita è che tutti gli ebrei e tutti i beni culturali ebraici - indipendentemente da ciò che questa espressione voglia dire - che si trovano fuori da Israele in fondo appartengono a Israele, poiché lo Stato rappresenta tutti gli ebrei e tutte le loro forme di produzione culturale.
Va fatto notare che su questo problema della galut il dibattito è aperto. C’è ad esempio uno straordinario libro su esilio e sovranità di Amnon Raz-Krakotzkin, nel quale si sostiene che l’esilio sia intrinseco all’ebraismo e all’ebraicità, e che il sionismo sbagli a sostenere che andrebbe superato attraverso l’invocazione della Legge del Ritorno [in Israele, ndt] o attraverso la nozione popolare di diritto di nascita. Infatti, l’esilio potrebbe costituire un punto di partenza per il ripensamento della coabitazione e per riportare i valori diasporici all’interno della regione. Questo era senza ombra di dubbio anche il punto di vista di Edward Saïd, quando in Freud e il non-europeo identificava nell’esperienza comune di esilio di ebrei e palestinesi la base per una nuova comunità politica in Palestina.
La galut dunque non è una condizione di perdizione che ha bisogno di redenzione, anche se è proprio la condizione che Israele e il sionismo cercano di superare estendendo il diritto al ritorno a tutti i nati da madre ebrea - e ora rivendicando come capitale culturale ebraico di proprietà dello Stato di Israele i lavori di chi è ebreo per caso. Se l’argomento della Biblioteca nazionale avesse successo, la capacità di rappresentanza dello Stato di Israele si espanderebbe notevolmente.
IMPLICAZIONI GLOBALI
Come ha scritto Antony Lerman sul The Guardian, se «la Biblioteca nazionale rivendicasse per conto dello Stato ebraico l’eredità di Kafka, essa, o istituzioni israeliane simili, potrebbero rivendicare la proprietà di ogni sinagoga, opera d’arte, manoscritto o oggetto rituale di valore che datano prima dell’Olocausto e si trovano in Europa. Ma né Israele in quanto Stato né nessun’altra istituzione pubblica o statale ha questo diritto. (E anche se è vero che Kafka è una figura chiave del passato culturale ebraico, nonché uno degli autori più importanti al mondo, i cui temi trovano eco in molti Paesi e culture, il modo di fare da padrone da parte di Israele è senza dubbio fuori luogo)».
Nonostante Lerman lamenti l’«intrinseca sottomissione delle comunità ebraiche europee a Israele», il problema ha implicazioni globali più ampie. Se la diaspora fosse concepita come una condizione irredenta di perdizione, allora tutta la produzione culturale di chi difficilmente potrebbe essere considerato ebreo secondo le leggi rabbiniche del ritorno, potrà essere soggetta a un’appropriazione postuma, nel caso in cui il lavoro in questione sia considerabile un bene. E questo mi conduce al terzo punto, cioè che dove vi sono beni vi sono anche responsabilità giuridiche.
Dunque per una persona o un bene essere ebrei non è abbastanza; essi devono essere ebrei in una maniera tale da poter essere capitalizzati dallo Stato ebraico nella sua lotta contro varie forme di delegittimazione culturale in cui è impegnato.
Viene da pensare che un bene sia qualcosa che rafforza la reputazione di Israele - una reputazione attualmente in crisi: la scommessa è che la reputazione mondiale di Kafka diventerà la reputazione mondiale di Israele.
SCHEDA: TRADIRE O TRADURRE UN’EREDITÀ
Il processo sulla proprietà del fondo lasciato da Kafka all’amico Brod, si è concluso dopo otto anni nel 2015 decretando la proprietà dell’intero fondo da parte della Biblioteca nazionale di Israele. Nel marzo del 2011, Judith Butler pubblica Who owns Kafka? per la «London Review of Books» intervenendo su varie questioni care allo scrittore, attraverso un’analisi di alcuni stralci e sue parabole, racconti, diari e lettere, quindi Il processo, La condanna, Un medico di campagna. Omicidio rituale in Ungheria, Sciacalli e arabi, Un messaggio dell’imperatore, La partenza, La venuta del Messia.
Il testo, in prima traduzione italiana, è curato da Antonio Iannello, Nicola Perugini e Federico Zappino. Scaricabile gratuitamente dal sito della rivista «il lavoro culturale», che ha collaborato alla curatela di A chi spetta una buona vita? (Nottetempo 2013) e pubblicato Sulla crudeltà (2014). Per l’editore Nottetempo, Federico Zappino ha in preparazione la traduzione di Notes Toward a Performative Theory of Assembly (Harvard 2015).
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986)!!!
Attentati Parigi, Papa Francesco: “Maledetti coloro che operano per la guerra e le armi”
Nuova, dura condanna del Pontefice durante l’omelia della consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta: "Si producono armamenti per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 19 novembre 2015)
“C’è chi si consola dicendo: sono morti ‘solo’ venti bambini. Siamo diventati pazzi! Milioni di morti e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Si producono armi per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato”. È la nuova, dura condanna della guerra che Papa Francesco ha voluto fare nell’omelia della sua consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta. Parole che arrivano dopo le stragi di Parigi, con l’allarme per possibili attentati terroristici anche in Vaticano alla vigilia dell’inizio del Giubileo. Bergoglio ha ripetuto chiaramente che “non ci sono giustificazioni per questa guerra mondiale a pezzi e che Dio piange e piangiamo anche noi per questo mondo che vive per fare la guerra col cinismo di dire di non farla”.
Nella sua meditazione il Papa ha ricordato che “anche oggi Gesù piange perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi ma tutto sarà truccato: il mondo continua a fare la guerra, a fare le guerre. Il mondo non ha compreso la strada della pace”. Subito dopo le stragi di Parigi, il Papa aveva sottolineato che “utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”.
Nella sua omelia Francesco ha anche ricordato le recenti commemorazioni della Seconda guerra mondiale, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, la sua visita a Redipuglia nel 2014 per l’anniversario del Primo conflitto mondiale.
“Stragi inutili”, le ha definite Bergoglio facendo sue le parole di Benedetto XV alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. “Dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio, ma cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Una volta - ha aggiunto il Papa - Gesù ha detto: ‘Non si può servire due padroni: o Dio, o le ricchezze’. La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: ‘Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ‘Maledetti!’. Perché lui ha detto: ‘Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto non c’è giustificazione. E Dio piange. Gesù piange”.
Terza e conclusiva tappa della sua visita negli Stati Uniti
di Redazione ANSA *
Papa Francesco chiude oggi il suo storico viaggio a Cuba e negli Stati Uniti, con la giornata che conclude l’Incontro mondiale delle famiglie a Filadelfia.
Una grande ovazione delle migliaia di persone presenti ha accolto l’arrivo di papa Francesco in "papamobile" aperta nell’area del Benjamin Franklin Parkway, a Filadelfia, dove il Pontefice ha partecipato alla festa delle famiglie e alla veglia di preghiera dell’Incontro mondiale 2015.
Durante la serata esibizioni di artisti - tra gli altri Aretha Franklin e Andrea Bocelli -, letture, testimonianze, momenti di preghiera.
"Non possiamo pensare a una società sana che non dia spazio concreto alla vita familiare. Non possiamo pensare al futuro di una società che non trovi una legislazione capace di difendere e assicurare le condizioni minime e necessarie perché le famiglie, specialmente quelle che stanno incominciando, possano svilupparsi". Così papa Francesco.
Futuro Chiesa è in ruolo più attivo laici e donne
A Filadelfia Meeting mondiale famiglie. In serata parata di star
Arrivato a Filadelfia per l’Incontro mondiale delle famiglie, dopo i giorni di Washington e New York che lo hanno visto al centro delle questioni politiche globali, papa Francesco lancia subito un forte messaggio alla Chiesa per maggiori spazi e responsabilità ai laici, e in particolare alle donne. Nel suo primo appuntamento nella città-simbolo dell’Indipendenza americana - ma "oggi vorremmo cambiarci il nome in Francisville", gli dice l’arcivescovo Charles Chaput al termine della messa in cattedrale col clero della Pennsylvania - papa Francesco non esita ad affermare che "il futuro della Chiesa, in una società che cambia rapidamente, esige già fin d’ora una partecipazione dei laici molto più attiva". Per papa Bergoglio, "una delle grandi sfide della Chiesa in questo momento è far crescere in tutti i fedeli il senso di responsabilità personale nella missione della Chiesa - spiega nell’omelia -, e renderli capaci di adempiere tale responsabilità come discepoli missionari, come fermento del Vangelo nel nostro mondo".
"La nostra sfida oggi - ripete questo termine, che evidenzia anche la sua determinazione sul tema - è far crescere un senso di collaborazione e di responsabilità condivisa nella programmazione del futuro delle nostre parrocchie e istituzioni". E secondo Francesco, questo non significa affatto "rinunciare all’autorità spirituale che ci è stata conferita": piuttosto, "significa discernere e valorizzare sapientemente i molteplici doni che lo Spirito effonde sulla Chiesa". E "in modo particolare", sottolinea il Pontefice, significa "stimare l’immenso contributo che le donne, laiche e religiose hanno dato e continuano a dar alla vita delle nostre comunità". L’accento posto sul ruolo delle donne, oltre che dei laici, fa seguito anche all’omaggio reso due giorni fa dal Papa, durante i Vespri nella cattedrale di New York, alla suore americane ("che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi?"), verso le quali negli ultimi anni il Vaticano non è stato affatto tenero, con verifiche e anche con censure contro le posizioni più avanzate in tema, ad esempio, di sessualità e contraccezione. Un omaggio a cui il Papa ha comunque aggiunto una visita fuori programma anche a un convento di suore, le "Little sister of the poor", famose perché nel 2013 si sono appellate al giudice per denunciare l’Obamacare, la riforma sanitaria che tra le altre cose introduceva l’obbligo per i datori di lavoro di applicare la copertura assicurativa sui costi di contraccezione.
La spinta data oggi da Bergoglio su maggiori responsabilità a donne e laici, si inserisce anche nel processo di riforma del governo della Chiesa, che a breve terrà a battesimo una nuova Congregazione Laici-Famiglia-Vita, dove le donne potrebbero avere cariche di alto livello. Qui a Filadelfia, in ogni caso, il Papa è soprattutto per concludere il Meeting mondiale delle famiglie, che lo porta dritto anche nei temi del Sinodo di ottobre.
Ecco il primo ritratto di famiglia, è vecchio di ottomila anni
La scoperta in Turchia: immagini di uomini, donne, bambini
di Cinzia Dal Maso (la Repubblica-Archivio, 30.01.2004)
ROMA - Sono i primi ritratti di famiglia, i primi al mondo. Segnano il momento in cui l’ uomo, diventato agricoltore e sedentario, crea la famiglia, il senso di discendenza e di ereditarietà, la società modernamente intesa. E la rappresenta. è una scoperta davvero eccezionale. Immagini di uomini e donne affrontati o abbracciati, gruppi di tre o più persone sempre abbracciati o accostati o in cerchio. A volte sono figure piccole e grandi assieme che paiono l’ intera famiglia riunita, nonni genitori e figli pronti per il ciak.
A "scattarlo" circa sette-ottomila anni fa è stato un abilissimo pittore che, munito di abbondante ematite rossa, l’ ha fissato per sempre su massi e ripari del monte Latmos nella Turchia occidentale. Abile davvero nel ritrarre uomini longilinei ma con solide gambe e la testa a zig-zag o a forma di "t", e donne di profilo per evidenziare le natiche abnormi ma così leggere che paiono danzare. Sono figure bellissime, eleganti nella loro essenzialità.
Le ha scoperte e indagate Anneliese Peshlow dell’ Istituto archeologico germanico di Berlino in anni di paziente ricognizione su ogni versante della montagna. Finora ha contato in tutto 140 pitture per un totale di oltre 500 figure rappresentate.
E ha finalmente deciso di farle conoscere al mondo con una mostra fotografica che dalla Germania è scesa in Italia e oggi si inaugura al Convento dei Teatini di Lecce. Inaugurazione seguita il giorno dopo da una tavola rotonda che vedrà convergere a Lecce il fior fiore dell’ intellighenzia mondiale in fatto di Neolitico. Tutti ad ascoltare la Peshlow, il suo racconto. Perché finora pareva che l’ arte dell’ uomo neolitico si limitasse a qualche statuina in pietra o argilla o poco più.
Finora c’ erano solo le stanze-tempio di Catalhoyuk (in Turchia centrale) e le pitture della grotta di Porto Badisco (sulla costa adriatica, proprio vicino Lecce) a dire che i primi agricoltori non tenevano solo il capo chino sulla terra ma sapevano anche produrre grande arte. Parevano isolate eccezioni. Poi, qualche anno fa, d’ improvviso, in Turchia sud-orientale (area-chiave per le origini del Neolitico) sono spuntate le enormi teste d’ uomo in pietra di Nevali Cori, e gli svettanti pilastri di Gobekli Tepe con grandi rilievi di uomini e animali. E ora giunge la sorprendente scoperta del Latmos.
Tutte in un’ asse che va dalla Turchia al Salento. Solo lì, almeno per ora. Ancora pochi e per noi ancora enigmatici. Ma sufficienti per dirci che il Neolitico non è stata solo una rivoluzione tecnologica e sociale, il momento in cui l’ uomo ha cominciato a dominare la natura e a riunirsi in villaggi.
Col Neolitico è nato anche il concetto moderno di arte. Per questo Isabella Caneva dell’ Università di Lecce ha voluto riunire (nell’ ambito della Scuola di specializzazione in archeologia) tutti i suoi colleghi. Per andare a fondo, capire bene la portata rivoluzionaria dell’ arte neolitica, la sua importanza anche per noi moderni. «Prima, nelle caverne paleolitiche, l’ uomo dipingeva il mondo esterno di cui aveva timore, feroci animali braccati da intrepidi e solitari cacciatori», spiega Caneva. «Col Neolitico dipinge se stesso, il proprio mondo. Perché è lui al centro del mondo. Anche gli animali di Gobekli Tepe sono in realtà animali domestici dal significato simbolico. A Catalhoyuk è la casa tutta, decorata con pitture ed enormi rilievi, ad assurgere a simbolo della nuova società. Col Neolitico nasce un nuovo modo di pensare, "moderno", che si riflette nell’ arte. Nasce il ruolo sociale dell’ arte». Delle sue forme, simboli e significati, si dibatterà domani a Lecce.
Quanti errori e pregiudizi in quel viaggio di Tocqueville
Il saggio di Massimo Salvadori svela le inesattezze alla base del classico “La democrazia in America”. Senza offuscarne le geniali intuizioni
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28.08.2014)
LA DEMOCRAZIA in America, uscito in due volumi nel 1835 e 1840, fu uno dei primi bestseller: il primo volume ebbe varie ristampe in pochissimi mesi. È ancora oggi uno dei libri più venduti, letti e citati. La sua audience è trasversale. Albert Hirschman incluse Tocqueville tra i retori della reazione per la sua teoria della futilità della Rivoluzione francese, dannosa perché scoppiò quando l’ancien régime era già moribondo. Autore molto amato dai liberali della Guerra fredda, a Tocqueville Hannah Arendt si ispirò nel delineare i due modelli di rivoluzione, quello francese e quello americano, che hanno segnato nel male e nel bene la storia contemporanea fino al totalitarismo. La democrazia in America fa parte del bagaglio culturale di conservatori (è stato pochi anni fa ristampato in inglese con una nuovissima edizione a firma di Harvey Mansfield) e progressisti (la sua testi sul ruolo delle associazioni civili ha guidato Robert Putnam nella ricerca sul civismo in Italia, debole o assente in quelle aree che non ebbero una storia repubblicana).
Tanto successo e tanta ammirazione corrispondono a quanto Tocqueville si era proposto di fare? Quanto corretta è la rappresentazione che ci ha lasciato della società americana del 1831, quando intraprese il suo viaggio con l’amico Gustave de Beaumont?
A queste domande si ispira Massimo L. Salvadori nel suo Le stelle, le strisce, la democrazia uscito da Donzelli. E la risposta è tranchant (e molto ben documentata): la ricostruzione è pochissimo corretta. Tocqueville non vide o non capì o fraintese molte cose importanti. La sua immagine della democrazia fu certo il frutto di quel che vide, ma il suo sguardo era guidato da una «sorta di pregiudizio » che divenne il suo punto di partenza ancora prima dei fatti osservati.
Questi i limiti che Salvadori documenta: la sua concezione dell’eguaglianza delle condizioni sociali era immaginifica e ignorava l’esistenza di un’oligarchia potente, mentre vedeva una larga classe media che non c’era; la struttura e l’importanza della “macchina” dei partiti politici gli sfuggì completamente; la sua diagnosi della centralità degli stati dell’Unione sulla presidenza federale era sbagliata; l’analisi, toccante, dei rapporti tra neri e bianchi nel Sud produsse in lui la diagnosi, errata, di una rivolta spartachista degli schiavi; infine, la sua idea che le masse di poveri dominassero la politica e i rappresentanti eletti era a dir poco fantasiosa.
Il messaggio di Tocqueville sui rischi dispotici della democrazia, sui pericoli dell’apatia, sull’egemonia dei molti contro i pochi, sull’ugualianza come passione che livella, è stato dunque più il frutto delle sue letture classiche (Platone, Aristotele, Pascal, e poi naturalmente Rousseau) e dei traumi subiti dalla sua famiglia e dalla società francese con il Terrore che delle osservazioni raccolte durante il viaggio in America.
Tocqueville non fu uno scienziato politico. Ma il raffinato esame che ci propone delle emozioni collettive, della funzione razionale delle passioni, delle conseguenze inattese che le scelte individuali hanno sulla società resta fondamentale per chi voglia capire i comportamenti sociali moderni. E la sua analisi innovativa sulla natura dell’individualismo, la formazione di una religiosità panteistica mossa dalla fede della scienza e nella tecnologia, la natura contraddittoria di molti beni sociali moderni come la stampa, l’informazione, l’associazione degli interessi resta un punto fondamentale di ispirazione. Tocqueville vide una democrazia nelle relazioni sociali: per esempio, il fatto che la cultura dei diritti induca a volere eguaglianza di considerazione e riconoscimento o che i rapporti di eguaglianza erodano l’autorià dei padri e dei mariti, cambiando la struttura della famiglia.
Con Salvadori si può allora dire che non é l’America del suo tempo che dobbiamo cercare nel libro di Tocqueville. Ma forse è proprio questo anacronismo che ha reso La democrazia in America capace di resistere al tempo.
Sparare è un diritto
Libera arma in libera America *
New York I suoi sostenitori, la National Rifle association, la potentissima associazione dei possessori di armi (e considerata la più antica associazione dei diritti civili Usa, ndr), in testa, la chiamano “stand your ground law” e, nel 2005, festeggiarono la sua introduzione in Florida, uno di quelli dove il Secondo Emendamento e, dunque, il diritto a possedere un’arma, è uno dei “comandamenti” più importanti, quasi quanto in Texas. I suoi detrattori la chiamano invece la legge dello “spara per primo”, che tanto, per appurare le responsabilità, c’è sempre tempo. Secondo quando affermato dal legislatore in base al suddetto provvedimento, chiunque può decidere di mettere in atto una violenza, anche mortale, se “crede ragionevolmente che questo sia necessario per prevenire la morte o un grave pericolo per sé stessi o per altri o per un grave crimine”.
Ed è in base a questa legge, che va ben oltre il diritto di cui si parla nel Secondo emendamento che è rivolto al semplice possesso dell’arma (e non al suo “libero” utilizzo), che Geoge Zimmerman, dopo aver ucciso Trayvon Martin, non è in carcere. Sebbene, in seguito alle forti proteste suscitate dal caso negli ultimi giorni, sia stata organizzata una task force con l’obiettivo specifico di investigare sull’accaduto, in tutte queste settimane Zimmermann è sfuggito ad ogni possibile incriminazione proprio perché ha detto di aver ucciso per legittima difesa.
LA CONTESTATA legge, che ora torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, anche dietro l’invito alla riflessione lanciato dal presidente Obama, è attiva, sebbene con piccole variazioni, in ben 21 stati e in altri è al centro di grandi contrasti. In Minnesota, a esempio, il provvedimento è stato bloccato dal veto posto dal governatore democratico Mark Dayton; veto che anche John Lynch ha fatto valere in New Hampshire senza riuscire tuttavia a bloccarne definitivamente l’approvazione. Sebbene dei 21 Stati, la maggioranza sia a guida repubblicana, non mancano quelli in cui il “grilletto facile” è stato tutelato proprio da governatori democratici, come avvenne nel 2006 in Oklahoma o in Arizona dove il provvedimento porta la firma dell’allora governatore, oggi Segretario della Sicurezza Interna, Janet Napolitano.
Fra gli altri Stati in cui esiste la legge, l’immancabile Texas, l’Alaska, il Nord e Sud Dakota, l’Idaho, l’Utah, il Kansas, il Mississippi, il Tennessee, l’Alabama, il Missouri, la Georgia, il Sud Carolina, il West Virginia, l’Indiana, il Michigan, la Laousiana e il Kentucky. La “stand your ground law” è un provvedimento che trae ispirazione dalla cosiddetta “dottrina del castello” che, nel diritto americano, tutela il diritto dell’individuo a difendere, anche con atti di violenza mortale, la proprietà. (Ang. Vit.)
* il Fatto, 24.03.2012
Si è fermato il sogno americano
di Federico Rampini (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.
Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.
Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.
È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.
Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.
Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa - osserva il demografo William Frey della Brookings Institution - la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".
Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso - e traumatizzante - in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.
E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.
La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".
Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.
A Robert Klopstock [Matliary, giugno 1921] *
Mio caro Klopstock, veranda, con l’antica insonnia, con l’antico calore degli occhi, la tensione nelle tempie: ... incredulo non sono stato mai in questo punto, ma stupito, angosciato, la testa piena di tanti interrogativi quanti sono i moscerini su questo prato. Nella situazione, diciamo, di questo fiore accanto a me che non è del tutto sano, solleva bensì la testa verso il sole, e chi non lo farebbe ma è pieno di segrete preoccupazioni a causa di dolorosi avvenimenti nelle sue radici e nei succhi, qualcosa vi è successo, e succede ancora, ma esso ne ha soltanto notizie molto vaghe, dolorosamente vaghe, eppure non può curvarsi, scalzare il terreno e controllare, ma deve fare come i suoi fratelli e tenersi ritto, lo fa anche ma con stanchezza.
Potrei anche immaginare un altro Abramo che (ma non arriverebbe a essere il patriarca, anzi nemmeno un mercante di abiti usati) fosse pronto a adempiere la richiesta della vittima, pronto come un cameriere, ma ciò nonostante non riuscisse a fare il sacrificio perché non può allontanarsi da casa, è indispensabile, l’andamento della casa ha bisogno di lui, c’è sempre ancora qualche cosa da mettere in ordine, la casa non è finita, ma senza che sia finita, senza questo appoggio egli non può allontanarsi, lo capisce anche la Bibbia poiché dice: “Egli sistemò la sua casa” e Abramo aveva realmente già prima ogni abbondanza; se non avesse avuto la casa, dove avrebbe allevato suo figlio, in quale trave avrebbe tenuto conficcato il .coltello del sacrificio.
Il giorno seguente: ho riflettuto ancora molto su questo Abramo, ma sono vecchie storie, non mette conto di parlarne, specialmente del vero Abramo; egli ha avuto tutto già prima, vi fu portato fin dall’infanzia, non riesco a vedere il salto. Se aveva già tutto e tuttavia doveva essere condotto piú in alto, ora bisognava togliergli qualcosa, almeno in apparenza, questo è logico e non è un salto. Non così gli Abrami superiori, questi stanno nel loro cantiere e a un tratto devono salire sul Monte Moria; può darsi che non abbiano ancora un figlio e già lo debbano sacrificare. Queste sono cose impossibili e Sarah ha ragione se ride. Rimane dunque soltanto il sospetto che costoro facciano apposta a non portare a termine la loro casa e - per citare un esempio grandissimo - nascondano la faccia in magiche trilogie per non doverla alzare e vedere il monte che sorge in lontananza.
Ma ecco un altro Abramo, uno che vuole assolutamente offrire un sacrificio giusto e, in genere, ha il giusto fiuto di tutta la questione, ma non può credere che tocchi a lui, l’antipatico vecchio, e a suo figlio, il sudicio giovane. Non che gli manchi la vera fede, questa fede ce l’ha, e sacrificherebbe nello stato d’animo giusto, purché potesse credere che si intenda lui. egli teme che uscirà a cavallo in qualità di Abramo con suo figlio, ma lungo il percorso teme di trasformarsi in Don Chisciotte. Il mondo di allora sarebbe rimasto atterrito se avesse guardato Abramo, questo invece teme che a quella vista il mondo muoia dal ridere. Non teme però il ridicolo in sé (certo teme anche questo, soprattutto la sua partecipazione alla risata), soprattutto però teme che questo ridicolo 1o renda
ancore più vecchio e antipatico, e suo figlio ancora più sudicio, ancora più indegno di essere realmente chiamato. Un Abramo che arriva senza essere chiamato! È come se lo scolaro migliore
dovesse ricevere solennemente il premio alla fine dell’anno e nel silenzio dell’attesa lo scolaro peggiore, in seguito a un malinteso, uscisse dal suo lurido ultimo banco e tutta la classe scoppiasse a ridere. E forse non è affatto m malinteso, egli è stato veramente chiamato per nome, la premiazione del migliore dev’essere, nelle intenzioni del maestro, ad un tempo la punizione del peggiore.
Cose orrende... basta.
Lei si lamenta della felicità solitaria, che dire della solitaria infelicità? Davvero, fanno quasi una coppia. [...]
* Franz Kafka, Tutte le opere, Epistolario, vol. IV, t. I, a c. di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1964, pp. 393-395, senza le note.
Miss Liberty, la statua riciclata
Marco Carminati (Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2011)
Le guide dicono tutte più o meno la stessa cosa: che la statua della Libertà piazzata sull’isolotto davanti a Manhattan venne modellata a Parigi dallo scultore alsaziano Frédéric-Auguste Bartholdi, smontata, caricata su una nave e portata a New York nel 1885 come dono della Francia alla nazione americana. Quel che non dicono, invece, sono i gustosi retroscena che portarono questo colosso di ferro e di rame, alto 46 metri (96 con il piedestallo) e pesante 225 tonnellate, ad approdare a New York come fosse la sua ultima spiaggia. Il brillante saggio di Francesca Lidia Viano, dedicato alla «statua più famosa nel mondo», rappresenta da questo punto di vista un’autentica miniera di sorprendenti informazioni.
La prima e più clamorosa notizia è che la statua non fu affatto pensata per il porto di New York. Frédéric Bartholdi, il suo giovane e intraprendente esecutore, l’aveva ideata già nel 1867 come faro all’imbocco del nuovo canale di Suez. Il faro avrebbe dovuto avere dimensioni colossali, essere a forma di donna, con vesti drappeggiate, una fiaccola in mano e una corona luminosa in testa. Titolo del colosso: «L’Egitto che illumina l’Asia». L’idea c’era, ciò che mancava erano i fondi. Bartholdi tentò da solo di raccimolarli ma andò incontro a un vistoso insuccesso.
Però non si arrese. Appena venne a sapere che c’era in vista il progetto di tagliare anche l’istmo di Panama, pensò brillantemente di riciclare la statua di Suez trasformandola nel faro del futuro canale di Panama. Sulla scia di quest’importante opera pubblica, alcuni ambienti politici e finanziari francesi, molto interessati a fare investimenti in America, presero in seria considerazione il progetto di Bartholdi. Lo scultore non perse un solo minuto: costituì un comitato franco-americano di raccolta fondi riuscendo a coinvolgere nella sottoscrizione politici, banchieri, finanzieri, industriali e massoni francesi e americani.
La statua prese lentamente forma tra il 1871 e il 1884. Fu una gestazione in realtà lunghissima, provocata non tanto da difficoltà tecniche quanto, ancora una volta, dalle incertezze legate alla destinazione finale. Sì, perché a un certo punto l’ipotizzato collocamento a Panama sfumò. Allora, si affacciò l’ipotesi che la statua potesse approdare a Philadelphia; poi, si prospettò la candidatura di Washington, ma anche questa venne revocata. Quando finalmente fu chiaro che la statua sarebbe stata destinata al porto di New York, il colosso (ribattezzato «La Libertà che illumina di mondo») venne smontato nello studio di Parigi, stipato in 214 casse e portato in America a bordo della fregata «Isére».
Il 25 ottobre 1886 tutto fu pronto per l’inaugurazione: una pioggia torrenziale, però, rovinò la festa. I discorsi ufficiali vennero drasticamente accorciati, l’acqua impedì lo sparo dei fuochi d’artificio e molti di quelli che avevano preso in affitto una barca per vedere la cerimonia da vicino furono costretti a rimanere a terra. Di fronte a questo maleaugurante diluvio, non ci meraviglia che i primi giudizi sulla statua fossero tutti negativi: ad esempio, molti nel pubblico notarono, con disappunto, che Miss Liberty indossava un vestito per nulla adatto ai rigori del clima di New York.
la statua della libertà Francesca Lidia Viano Editori Laterza, Bari pagg. 464|€ 28,00
Un testo di John Kennedy [del 1957], pubblicato per la prima volta in Italia, racconta la via crucis dei migranti
Parole di mezzo secolo fa che sembrano scritte oggi
JFK: «Io sono un immigrato»
Non c’è nulla di più straordinario della ridda di emozioni e sentimenti che inducono una famiglia a dire addio ai vecchi legami, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera
Strappati alla loro vecchia vita, sbarcavano nel nuovo Paese stremati Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze, dovevano proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro
di John Fitzgerald Kennedy (la Repubblica, 30.o8.2009)
l’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana. Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile. [...]
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.[...]
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville.
Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman:
Questi Stati sono il poema più ampio, /
Qui non v’è solo una nazione ma /
una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro. [...]
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un’epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell’altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l’emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un’avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l’esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l’emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un’influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell’attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all’epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l’equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo.
Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l’aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L’unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria - facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. [...]
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte - persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche - costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». [...]
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l’attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un’intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c’era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l’eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l’origine dell’inventiva e dell’ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.[...]
Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all’arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all’interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale, così com’era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie. Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata [...]. La feccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese». [...]
Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
Traduzione di Marianna Matullo
© Donzelli Editore 2009
Quando Bossi sbarcò in America
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 23 novembre 2011)
L’emigrante Napolitano Giorgio sbarcò ad Ellis Island nel 1922, tredici anni dopo Bossi Umberto. Cinque anni dopo erano americani. I loro omonimi attuali, però, la pensano assai diversamente sulla cittadinanza agli immigrati. E se il presidente della Repubblica è convinto che debba essere riconosciuto come italiano ogni bambino che nasce in Italia, il Senatur e la Lega restano bellicosamente ostili.
Nei registri monitorati dalla «Fondazione Agnelli» diretta da Maddalena Tirabassi, di immigrati che di cognome facevano Napolitano, dal 1892 al 1924, ne sbarcarono a Ellis Island esattamente 2.613. Altri 1.882 Napolitano sbarcarono dal 1882 al 1960 in Argentina. Altri ancora si sparpagliarono per il Brasile, la Francia, il Belgio, la Germania... E tutti i loro figli (come tutti i figli dei Bossi e dei Maroni e dei Castelli emigrati) sono diventati americani, argentini, brasiliani, francesi, belgi, tedeschi...
Il capo lo Stato non lo dimentica. E dopo avere qualche giorno fa ricordato l’importanza dei ragazzi nati in Italia durante l’incontro con la Nazionale italiana e in particolare il bresciano di pelle nera Mario Balotelli, è tornato ieri sul tema sottolineando come sia ormai maturo il passaggio dallo «ius sanguinis» allo «ius soli». Vale a dire dal diritto al passaporto legato alla nazionalità dei genitori a quello legato al luogo di nascita: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità».
Immediata rivolta a destra. A partire da Maurizio Gasparri («Ma si vuole facilitare o complicare la vita del nuovo governo? Noi lo sosteniamo con lealtà, ma se si mettessero in agenda temi come la modifica della legge sulla cittadinanza...») fino a Roberto Calderoli, che minaccia barricate: «La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ius soli e non sullo ius sanguinis. Non vorrei che questa idea altro non sia che il “cavallo di Troia” che, utilizzando l’immagine dei “poveri bambini”, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Un’obiezione antica. Nata dalla convinzione che gli immigrati siano tendenzialmente portati a votare «a sinistra». E che dunque un’irruzione di voti freschi possa aiutare chi oggi sta con Bersani, Di Pietro e soprattutto Vendola. Chi studia l’emigrazione, in realtà, sa che generalmente succede l’esatto contrario. L’immigrato che si è inserito tende spesso a essere conservatore e più rigido verso i nuovi immigrati che non i cittadini originari. Perché li vede come possibili «concorrenti». Perché teme che possano destabilizzare la situazione in cui loro sono già inseriti. Perché via via si sono immedesimati nella nuova realtà al punto che desiderano dimostrare a tutti gli altri di essere diventati «dei loro».
È sempre andata così. In America, in Australia, in Francia... Chi riesce a togliersi dall’ultimo gradino della scala sociale trova spesso naturale voltarsi indietro appena è salito sul penultimo per sputare su chi ha preso sotto il suo posto. I nostri nonni hanno fatto le spese di tutto questo: pochi sono stati razzisti con gli italiani quanto gli irlandesi che fino a poco prima erano stati discriminati. E al linciaggio di undici siciliani a New Orleans, il 15 marzo 1891, non a caso parteciparono migliaia di neri. Volevano affermare un principio: noi siamo più americani di voi.
Al di là di queste polemiche e dei ruoli diversi che spettano al governo Monti, chiamato a risanare i conti, e al Parlamento (dove 133 senatori democratici, dipietristi e del Terzo polo trascinati da Ignazio Marino hanno presentato una proposta per dare il passaporto italiano a ogni bimbo nato qui a prescindere da quello dei genitori), il tema della cittadinanza si è fatto ormai ineludibile.
Basti dire che ogni anno, come spiegano nel loro libro Cose da non credere l’economista Guglielmo Weber e il demografo Gianpiero Dalla Zuanna, nascono in Italia circa 100.000 bambini che hanno almeno un genitore straniero. Di più, nel loro saggio Una classe a colori Vinicio Ongini e ClaudiaNosenghi dicono che già un paio di anni fa su circa 58.000 scuole quasi 15.000 avevano più di un alunno su 10 straniero, in 500 la percentuale superava il 50% e in 24 toccava o oltrepassava l’80%. Come al plesso scolastico «Pestalozzi», nella zona Monte Rosa, a Torino. Dove nel 2010 gli scolari con il cognome straniero sono stati 118 contro 65 italiani. Ma fino a che punto quei bambini sono «stranieri», se ben 105 sono nati a Torino o comunque in Italia, tifano Juventus o Milan, crescono guardando i cartoni animati della «Valle incantata» e studiano sui sussidiari le avventure di Giuseppe Garibaldi? Ha senso ospitare centinaia di migliaia di bambini e di ragazzi che si sentono italiani, si vestono come i loro coetanei italiani, parlano fra di loro in italiano, fanno soffrire i loro genitori legati al Paese di provenienza rivendicando la loro italianità; ha senso tutto questo senza riconoscere loro il diritto al passaporto italiano?
Quei bambini di cognome straniero ma nati a Torino, se fossero nati in Francia sarebbero francesi, negli States statunitensi, in Brasile brasiliani, in Argentina argentini, in Germania tedeschi. Proprio perché in quei Paesi da un paio di secoli, o più di recente, si sono resi conto di un punto centrale: è difficile chiedere alle persone di essere dei buoni cittadini se non sono pienamente cittadini.
Proprio a proposito dei figli, vale la pena di ricordare cosa risposero le autorità scolastiche di Boston alla giornalista e sociologa italoamericana Amy Bernardy che nel 1909, compiendo un’inchiesta sugli emigrati italiani negli Stati Uniti, aveva chiesto di sapere quanti fossero gli scolari del Massachusetts di origine italiana. La replica fu secca. Spiacenti, ma nessun dato: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono americani e non desideriamo incoraggiare alcuna ricerca tendente a differenziare gli americani di una discendenza, dagli americani di discendenza diversa». Del resto, 2.200 anni fa, in Cina, il celeberrimo Libro del Maestro di Huainan spiegava già tutto: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (...) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria...».
I bambini del futuro
di Giuseppe Caliceti (l’Unità, 23 novembre 2011)
Chiedo ai miei alunni di otto anni se considerano il loro compagno di classe Hassan e gli altri alunni di origine straniera presenti in classe - nati in Italia ma con i genitori di origine straniera - dei bambini italiani o stranieri. Tutti rispondono che sono italiani. Tranne due, che specificano: «Per me Hassan, per esempio, e italo-marocchino». Ecco risolto il problema della cittadinanza per i bambini. Con semplicità, lucidità, fermezza. Forse perché i bambini vengono dal futuro, come ha scritto il poeta Andrea Zanzotto. Ascoltando le loro parole, noi adulti abbiamo la possibilità di parlare con chi sarà adulto domani. Di vedere come sarà domani il nostro mondo, quando noi saremo vecchi o non ci saremo più.
L’intervento deciso di Giorgio Napolitano riapre con forza un tema centrale per l’Italia. Negare la cittadinanza italiana ai bambini che nascono nelle nostre città è sicuramente «un’autentica follia, un’assurdità». Nessuno più dei docenti italiani sa quanto sia vera e appassionata questa aspirazione. Un’altra mia alunna di qualche anno fa, Vera, undici anni disse in classe con semplicità: «Io sono nata in Italia, però mia mamma e mio papà sono albanesi. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io, se non mi sono mai spostata da qui, sono immigrata?».
A queste domande noi adulti italiani, per troppo tempo, non abbiamo saputo rispondere. Perché la nostra legge al riguardo è vecchia, fa riferimento a una concezione ottocentesca che immagina l’identità legata al sangue, più che al luogo in cui noi nasciamo, viviamo e cresciamo. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi europei, per esempio, che sono certamente, almeno su questo problema specifico, molto più evoluti dal punto di vista legislativo.
Napolitano ieri ha parlato della necessità di «acquisire nuove energie in una società per molti versi invecchiata se non sclerotizzata ». Ad ascoltarle bene, le sue parole assomigliavano quasi a un appello al governo italiano. In particolare ad Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio e nuovissimo ministro della Cooperazione e dell’integrazione sociali, per «riprendere politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano» e arrivare al più presto a una nuova legge sul diritto di cittadinanza. Quasi ci fosse la volontà di girare finalmente pagina rispetto ai recenti governi di centrodestra che, di fatto, in questi anni hanno sdoganato contro i migranti parole come “razzismo” - che non sentivamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. E lo hanno fatto senza alcun pudore, quasi che “razzismo” fosse diventato sinonimo di una nuova identità nazionale.
Ora il clima politico in Italia è cambiato e ci sono le condizioni per cambiare. E per rilanciare con convinzione la campagna per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io” cui aderiscono Acli, Arci, Caritas Italiana, Cgil, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Ugl, Rete G2 - Seconde Generazioni e tante altre associazioni della società civile. Come sostiene Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente del comitato promotore, ormai si fa strada la consapevolezza che «una riforma non è più rinviabile». Per questo la mobilitazione prosegue in tutto il Paese per due leggi di iniziativa popolare affinché questi italiani di fatto, ma non di diritto, che nascono, crescono e vivono in Italia, siano anch’essi le risorse morali e intellettuali del nostro futuro.
La Lega Nord, che si è già buttata in una disperata campagna elettorale in cui si ripetono parole a vanvera, si è dichiarata ovviamente pronta «a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze». Che dire? Vorrei rispondere con le parole di Damian, un alunno di 10 anni con i genitori di origine albanese: «Secondo me i bambini, se non sapevano che erano nati tutti in paesi diversi, era più facile andare d’accordo. Anche da grandi».
Di fronte alla diversità, qualsiasi diversità, il sentimento prevalente nei bambini e nei ragazzi che nascono e crescono oggi in Italia è la curiosità e la solidarietà. Per tanti, troppi adulti, invece, è stata la paura: c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che forse possiamo imparare: dai bambini e dal nostro Capo dello Stato. Ascoltiamoli attentamente. E muoviamoci.
Chi sono oggi i nostri fratelli
di Igiaba Scego (l’Unità, 23 novembre 2011)
Frank Sinatra, Lady Gaga, Nancy Pelosi, Joe di Maggio, Dean Martin, Luisa Veronica Ciccone (in arte Madonna), Robert de Niro, Martin Scorsese, Rocky Marciano, Francis Ford Coppola, John Fante, Ani di Franco, Nicholas Cage... e l’elenco potrebbe continuare. Sono nomi di italo-americani famosi. Persone che hanno dato lustro a due Paesi: gli Stati Uniti d’America, dove sono nati o emigrati da piccoli insieme ai genitori, e l’Italia, dove parte della loro storia affonda le radici. Nessuno si permetterebbe di dire oggi a Madonna o a Martin Scorsese «tu non sei un vero americano». Purtroppo questo succede tutti i giorni ai figli dei migranti qui in Italia.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano da tempo richiama l’attenzione dell’opinione pubblica sulla paradossale, quasi pirandelliana, situazione dei figli dei migranti nati in Italia e sull’anacronistica legge che costringe ragazzi italiani a vivere da stranieri nella propria nazione. Ragazzi che spesso non vengono riconosciuti sia dal Paese di origine dei genitori sia dal Paese di nascita, ossia l’Italia. Il Presidente ha giustamente detto che è folle non riconoscere questo diritto. Purtroppo per calcoli di bassa politica c’è chi rema contro una legge di civiltà come può essere questa sulla cittadinanza. E lo fa con dichiarazioni che non tengono conto né della realtà di oggi né della storia di ieri.
L’Italia è stato Paese di emigrazione (ed in un certo senso lo è ancora, sono tanti ancora a partire, a cercare fortuna all’estero). Penso in particolar modo agli italiani negli Stati Uniti d’America che hanno dovuto lottare per poter essere riconosciuti come cittadini.
All’indomani della prima guerra mondiale chi si arruolava otteneva la cittadinanza. Purtroppo, finita la guerra, il Ku Klux Khan e i (fatemeli chiamare così) “leghisti” americani rialzarono la testa. Gli italiani furono oggetti di sevizie e linciaggi. La cittadinanza ritornò ad essere un sogno. Si dovette aspettare la fine della seconda guerra mondiale per veder muoversi qualcosa in questo senso. Però la cittadinanza allora era considerata come completa assimilazione. Si doveva essere americani al 100% e rifiutare completamente la propria parte italiana. Gli italiani accettarono. Si doveva pensare al futuro, ai figli. Per questo si cercò di dimenticare l’Italia. Poi finalmente i tempi cambiarono. La stagione dei sacrifici e delle rinunce terminò. E l’Italia rispuntò magicamente fuori dai cilindri dei vecchi emigranti.
Oggi una Nancy Pelosi al congresso Usa o un Robert de Niro non si vergognano di avere avi italiani. Ma questo di certo non li rende meno americani.
La storia degli emigranti, per una strana associazione, mi ha fatto ripensare ad un vecchio film, La legge è legge, con Totò e Fernandel che ho visto da piccola. Non so se sia ancora in commercio, spero proprio di sì. Una storia rocambolesca dove Fernandel essendo nato in una cucina italiana di una casa francese, proprio nella linea dove passa il confine tra Italia e Francia, si ritrova all’improvviso senza patria. Non lo vuole la Francia, non lo vuole l’Italia. La scena con i gendarmi al confine è una scena da mettere negli annali della storia del cinema.
L’italiano gli dicono «via via», i francesi «vada vada». Tutti lo cacciano e lui a un certo punto chiede: «Ma che cosa sono? Vorrei sapere per piacere se esisto non esisto». Quando i gendarmi gli rispondono in coro: «Di fronte alla legge no», un Fernandel sconsolato dice: «Ah allora se ho capito bene per voi l’esistenza di un uomo non conta affatto...». Spero proprio che l’Italia non faccia più l’errore di quei gendarmi. Sarebbe davvero folle.
Identità e destino.
Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant
L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita
Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 20.03.2009)
Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «vita umana », «uomo»? Pressoché assente, invece, quest’altra domanda: «Esiste l’uomo? ». Certo, essa sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell’amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l’intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l’esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l’esistenza stessa dell’uomo, è una congettura. Dell’uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l’esistenza dell’«uomo», quanto lo è l’esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell’«evidenza».
Che l’uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell’esistenza dell’uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «conferme » è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell’amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce.
Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l’amante (il buon Samaritano lo è rispetto all’uomo derubato), giacché se l’amore rende prossimo, cioè vicino, l’amato, anche l’amante si avvicina all’amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall’amore, ma l’amare è il contenuto della «Legge», ossia di un «Comandamento »; e non si comanda quel che si ritiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l’amato-amante, l’amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all’origine del massacro che incomincia con l’uomo, ma lo si può dire stando all’interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «legge morale», di un «imperativo », di un comando. È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All’inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossimo » (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l’ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo».
L’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell’«incominciare» e del «finire», e a questo punto l’inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e altre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento dell’inizio e della fine di qualcosa - il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici - che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt’altro che insensato discutere sull’inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma - rispondiamo - è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è addormentati. No, se si riesce a scorgere che c’è dell’altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi.
È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il risveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il sogno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha fede che così stiano, ma perché esse stanno incontrovertibilmente così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi giorni all’Università di Padova. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l’«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert’altro finisca?
Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l’esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considerare ancora come «prossimo»).
Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l’annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l’annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cadavere compare sulla scena, la vita da cui è preceduto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l’«annientamento » della vita. Non appare, non si fa esperienza dell’annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi »), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere.
E l’annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è necessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose che da essa sono uscite. Appunto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall’esperienza «può» ritornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessario » che ritorni.
Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) credono che l’annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più «evidente» vi sia, di più manifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l’autentico «pungiglione della morte». La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell’annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, attende di ritornare, nella sua gloria.
All’università di Padova
Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia
Si apre oggi, alle 9.15, all’Università di Padova, nella sala dell’Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull’argomento). L’iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell’Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale.
Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review».
Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo?
Marx contrattacca
di Lucien Sève *
Le Monde Diplomatique, Paris - dicembre 2008, 55° anno, n° 657
(traduzione dal francese di José F. Padova)
* filosofo, ha appena pubblicato il secondo volume di Penser avec Marx aujourd’hui (Pensare con Marx, oggi) intitolato L’Homme? (L’Uomo?), La Dispute, Paris.
Trascurati dai partiti socialisti europei come “lunatico vecchiume semplicistico” con il quale sarebbe urgente troncare, screditati all’università dove per lungo tempo furono insegnati come una base dell’analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano nuovamente interesse. Il filosofo tedesco non ha forse analizzato minuziosamente la meccanica del capitalismo i cui sussulti fanno perdere la bussola agli esperti? Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx si è dedicato a mettere a nudo i rapporti sociali.
Si era quasi riusciti a persuadercene: la storia era terminata, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell’organizzazione sociale, la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, era ormai attuata, soltanto alcuni incurabili rimuginatori agitavano ancora il trastullo di non si sa quale futuro.
Il formidabile terremoto finanziario dell’ottobre 2008 ha spazzato via d’un colpo solo questa costruzione mentale. A Londra il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 rimarrà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalista britannico ha riconosciuto di aver fallito (1)». A New York i manifestanti brandiscono davanti a Wall Street cartelli con «Marx aveva ragione!». A Francoforte un editore annuncia che le vendite di Il Capitale sono triplicate. A Parigi una nota rivista esamina, in un fascicolo di trenta pagine, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «le ragioni di una rinascita (2)». La storia si riapre...
Immergendosi in Marx più d’uno fa scoperte. Parole scritte un secolo e mezzo addietro vi sembrano parlare di noi con un’acutezza sorprendente. Esempio: «Dato che l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, dirigeva la gestione dello Stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l’opinione pubblica di fatto e mediante la stampa, si riproducevano a tutti i livelli, dalla Corte fino al bar malfamato, la medesima prostituzione, lo stesso imbroglio spudorato, la medesima sete di arricchirsi non già mediante la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)». Marx con questo descriveva lo stato delle cose in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che fare sognare.
Tuttavia, al di là di rassomiglianze avvincenti, le differenze epocali rendono ingannevole ogni trasposizione diretta. L’attualità, nuovamente evidente, di questa magistrale Critica dell’economia politica, in cui consiste Il Capitale di Marx, si pone molto più in profondità.
Da dove viene in realtà l’ampiezza della crisi presente? Leggendo ciò che se ne scrive in prevalenza, si dovrebbe porre in discussione la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l’incapacità del mercato dei capitali di regolarsi da sé, il livello infimo della moralità di chi tratta denaro... In breve, lacune del solo sistema che regge ciò che, in contrasto con l’ «economia reale», si definisce «economia virtuale» - come se non si fosse appena misurato quanto essa pure reale lo sia.
Eppure la crisi iniziale dei subprime è proprio nata dalla crescente mancanza di denaro di milioni di nuclei famigliari americani a fronte del loro indebitamento di candidati alla proprietà. Cosa questa che obbliga ad ammettere che in fin dei conti il dramma del «virtuale» ha le sue radici proprio nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l’insieme su piano mondiale dei poteri d’acquisto popolari. Sotto l’esplosione della bolla speculativa formata dal rigonfiarsi della finanza vi è l’incetta universale da parte del capitale della ricchezza creata dal lavoro e, sotto questa distorsione in cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti percentuali, colossale diminuzione, in nome del dogma neoliberista vi è per i lavoratori un quarto di secolo di austerità.
I trombettieri della moralizzazione
Mancanza di regolamentazione finanziaria, di responsabilità nella gestione, di moralità della Borsa? Certamente. Ma la riflessione senza tabù spinge ad andare molto più lontano: a mettere in discussione il dogma gelosamente protetto di un sistema di per sé al disopra di ogni sospetto, a meditare su quella spiegazione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell’accumulazione capitalista». Egli dimostra che là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi che mirano a sviluppare la produzione si invertono in mezzi di dominio e di sfruttamento di chi produce», sacrificato all’accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di sé stessa e tende quindi a diventare folle. «L’accumulo di ricchezza a un polo» ha come necessario rovescio un’ «accumulazione proporzionale di miseria» all’altro polo, dal che rinascono inesorabilmente gli inizi di crisi commerciali e bancarie violente (4). È proprio di noi che si tratta.
La crisi è esplosa nel settore del credito, ma la sua potenza devastante si è formata in quello della produzione, con la ripartizione senza sosta sempre più disuguale dei valori aggiunti fra lavoro e capitale, sconvolgimento questo che un sindacalismo navigante in acque basse non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica nella quale si tratta Marx come un cane ormai crepato. Si concepiscono allora quelle che possono valere come soluzioni della crisi - «moralizzazione» del capitale, «meccanismo di regolazione» della finanza - strombazzate da politici, amministratori, ideologi che ancora ieri fustigavano il benché minimo dubbio sulla giustezza del «tutto liberista».
«Moralizzazione» del capitale? Parola d’ordine che merita il premio per l’umorismo macabro. Se effettivamente vi è un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza è proprio la considerazione morale: l’efficacia del suo cinismo vince ogni volta in modo tanto sicuro quanto è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona. La preoccupazione «etica» è pubblicità.
Marx risolveva la questione in poche righe della prefazione al Capitale: «Non dipingo in alcun modo di rosa il personaggio del capitalista o del proprietario terriero», ma «meno di ogni altra la mia prospettiva, nella quale lo sviluppo della società in quanto formazione economica è inteso come un processo di storia naturale, potrebbe rendere l’individuo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente un prodotto (5)»... Ecco perché non basterà certamente distribuire qualche sberla per «rifondare» un sistema nel quale il profitto resta l’unico criterio.
Non si tratta di essere indifferenti all’aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, preso sul serio, il problema è di tutt’altro ordine che non la delinquenza di dirigenti farabutti, l’incoscienza di trader impazziti o perfino l’indecenza dei paracadute dorati. Ciò che il capitalismo ha d’indifendibile sotto questo aspetto, al di là di ogni comportamento individuale, è il suo stesso principio: l’attività umana che crea le ricchezze vi ha lo status di merce e vi è quindi trattata non come fine in sé stessa, ma come semplice mezzo. Non vi è bisogno di aver letto Kant per vedervi la sorgente permanente dell’amoralità del sistema.
Se si vuole moralizzare sul serio la vita economica occorre prendersela veramente con ciò che la rende immorale. Questo passa di certo - divertente riscoperta, questa, da parte di più di un liberista - attraverso la ricostruzione delle regolamentazioni statali. Tuttavia a questo scopo fare fondamento sul puntello sarkozysta dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione della Posta passa i confini dell’ingenuità. Dal momento che si pretende di affrontare la questione della regolamentazione è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un’analisi di imprescindibile attualità: quella dell’alienazione.
Nel suo senso primario, elaborato in testi celebri della [sua] giovinezza (6), il concetto definisce quella maledizione che costringe chi riceve salario dal capitale a non produrre la ricchezza per altri se non producendo la sua propria indigenza materiale e morale: deve perdere la sua vita per guadagnarsela. La multiforme disumanità, della quale sono vittime in massa i salariati d’oggi (7), dall’esplosione delle patologie dei lavori a quella dei licenziamenti borsistici passando per quella dei bassi salari, illustra molto crudelmente la precisione che una tale analisi conserva.
Ma nei suoi lavori della maturità Marx attribuisce all’alienazione un significato ancora più vasto: poiché il capitale riproduce senza sosta la radicale separazione fra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non appartengono a coloro che vi lavorano -, le loro attività produttive e cognitive, non controllate collettivamente alla base, sono abbandonate all’anarchia del sistema della concorrenza, nel quale si trasformano in processi tecnologici, economici, politici, ideologici incontrollabili, gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.
Gli uomini non fanno la loro storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria dimostra in modo terrificante quell’alienazione, proprio come lo fanno la crisi ecologica e ciò che si deve definire la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto questa crisi, ma tutti la subiscono.
Da questo «spossessamento generale» portato alle estreme conseguenze dal capitalismo risorgono in modo irrefrenabile le rovinose assenze di regole concertate. Anche colui che si vanta di «regolare il capitalismo» è a colpo sicuro un ciarlatano politico. Regolare sul serio esigerà molto più dell’intervento statale, per quanto possa essere necessario, perché poi chi regolerà lo Stato? Occorre che riprendano possesso dei mezzi di produzione coloro che producono, materialmente e intellettualmente, riconosciuti infine per ciò che essi sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, che in quanto tali hanno un diritto irrecusabile di prendere parte alle decisioni della gestione, là dove si decide della loro stessa vita.
Di fronte a un sistema la cui flagrante incapacità di regolare sé stesso ci costa un prezzo esorbitante è necessario, seguendo Marx, avviare senza ritardi il superamento del capitalismo, lunga marcia verso un’altra organizzazione sociale nella quale gli umani, in nuove forme associative, controlleranno insieme le loro potenze sociali diventate folli. Tutto il resto è polvere negli occhi, quindi tragica disillusione promessa.
Si va ripetendo che Marx, forte nella critica, sarebbe privo di credibilità per quanto riguarda le soluzioni, perché il suo comunismo, «messo alla prova» all’Est, sarebbe radicalmente fallito. Questo come se il defunto socialismo di Stalin-Breznev avesse avuto qualcosa di veramente comune con l’intento comunista di Marx, del quale d’altra parte nessuno cerca di cogliere nuovamente il senso reale, agli antipodi di ciò che l’opinione corrente mette sotto il temine «comunismo». Di fatto, è in modo del tutto diverso che si abbozza sotto i nostri occhi ciò che potrà essere, in senso autenticamente marxista, il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo (8).
Ma qui ci fermano: volere un’altra società sarebbe un’utopia micidiale, perché non si cambia l’uomo. E l’ «uomo», il pensiero liberista sa chi è: un animale che ha essenzialmente quello che è non dal mondo umano ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse d’individuo _ Homo œconomicus (9) -, con il quale non è quindi possibile se non una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata».
Ora anche questo pensiero ha fatto bancarotta. Sotto la spettacolare disfatta del liberalismo pratico si consuma con minor rumore il fallimento del liberalismo teorico e del suo Homo œconomicus. Fallimento doppio. Scientifico innanzitutto. Nel tempo in cui la biologia si distacca da un «tutto genetico» semplicistico, le ingenuità dell’idea di «natura umana» saltano all’occhio. Dove sono i geni, annunciati a suon di trombe, dell’intelligenza, della fedeltà o dell’omosessualità? Quale spirito colto può credere che la pedofilia, per esempio, sarebbe congenita?
E fallimento etico. Perché ciò che da lustri l’ideologia dell’individuo concorrenziale sponsorizza è una pedagogia disumanizzante del «diventa un killer», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una decivilizzazione a 360° da parte della follia del denaro facile. Che dovrebbe fare arrossire chi osi annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Sotto il naufragio storico dove affonda e ci affonda la dittatura della finanza vi è quello del discorso liberista sull’ «uomo».
E qui vi è la più inaspettata attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell’economia è anche, allo stesso tempo, l’iniziatore di una vera rivoluzione nell’antropologia; dimensione incredibilmente misconosciuta del suo pensiero, che non è possibile esporre in venti righe.
Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ce ne dice lo spirito in due frasi: «L’essenza umana non è un’astrazione inerente all’individuo preso a sé. Nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali». All’opposto di quanto immagina l’individualismo liberista, l’ «uomo» storicamente sviluppato è il mondo dell’uomo. Per esempio, lì e non nel genoma esiste il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato quel marxista a lungo sconosciuto che fu uno dei più grandi psicologi del XX secolo: Lev Vygotski, che ha così aperto la strada a una visione completamente diversa dell’individualità umana.
Marx è attuale e perfino più di quanto si pensi? Sì, se si vuole attualizzare l’immagine tradizionale che di lui troppo spesso ci si fa. The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008
(1) Le Magazine littéraire, n° 479, Paris, ottobre 2008. (2) Karl Marx, Les Luttes de classes en France, Editions sociales, Paris, 1984, p. 84-85; citato in Manière de voir, n° 99, «L’Internationale des riches», juin-juillet 2008. (3) Karl Marx, Le Capital, tomo I, Editions sociales, 1983, ou Presses universitaires de France, Paris, 1993, p. 724. (4) Le Capital, tomo 1, p. 6. (5) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris, 1999. (6) Lire Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Paris, 2000; «Aliénation et clinique du travail», Actuel Marx, n°39, «Nouvelles aliénations», Paris, 2006. (7) Dans Un futur présent, l’après-capitalisme, La Dispute, Paris, 2006, Jean Sève abbozza un quadro impressionante di questi inizi di superamento che si possono osservare in settori molto differenti. (8) Leggere fra gli altri Tony Andréani, Un étre de raison. Critique de l’Homo œconomicus, Syllepse, Paris, 2000.
Piramidi, mistero risolto "Costruite dall’interno"
La scoperta di una piccola cavità in quella di Cheope avvalora l’ipotesi di un tunnel inclinato e a forma di spirale che dalla base raggiungeva la sommità. L’architetto Jean-Pierre Houdin: "Per secoli ignorata l’evidenza che era lì"
di LUIGI BIGNAMI *
Da antiche civiltà scomparse agli extraterrestri. Le ipotesi sul modo con cui furono costruite le piramidi egizie si contano a decine. Ma rimanendo con i piedi per terra e seguendo i canoni della scienza le congetture su come gli Egizi impilarono più di due milioni di blocchi pesanti anche 70 tonnellate si restringono a poco più di un paio.
Secondo l’idea che va per la maggiore i blocchi furono sovrapposti attraverso una rampa esterna sulla quale venivano fatti scivolare i giganteschi "mattoni". Ma ora la scoperta di una piccola cavità potrebbe dare ragione all’ipotesi in base alla quale la piramide di Cheope, risalente a circa 4.500 anni fa, fu costruita dall’interno, attraverso un tunnel inclinato e a forma di spirale che dalla base della piramide raggiunge la sommità.
Questa ipotesi è stata avanzata dall’architetto francese Jean-Pierre Houdin il quale ha detto: "Per secoli gli archeologi hanno ignorato l’evidenza che era lì di fronte a loro. L’idea che le piramidi furono costruite dall’esterno era proprio sbagliata. Ma se si parte da un elemento base errato per risolvere un problema non si arriverà mai alla soluzione. E questo è ciò che è successo nello studio delle piramidi egizie".
"In realtà tutte le ipotesi che sostengono che le piramidi furono costruite dall’esterno presentano dei problemi irrisolvibili, anche se considera la possibilità di un’unica lunghissima rampa di accesso. Per trasportare blocchi a 147 metri d’altezza, la rampa sarebbe dovuta essere lunga almeno un chilometro e mezzo. Sarebbe stato come costruire due piramidi anziché una", ha detto l’egittologo Bob Brier della Long Island University di New York (Usa).
L’ipotesi invece che vuole che la rampa sia stata costruita ruotando attorno alla piramide avrebbe reso impossibile o per lo meno alquanto complesso ai costruttori l’utilizzo degli angoli e dei lati necessari per i calcoli durante la costruzione. "L’ipotesi poi, avanzata da Erodoto nel 450 avanti Cristo, che per la costruzione si sarebbero utilizzate gru o rampe di legno non sta in piedi perché per fare ciò non ci sarebbe stato legno sufficiente in tutto l’Egitto", sottolinea Brier.
Ma cos’ha di innovativo l’ipotesi di Houdin? Secondo l’architetto la Grande Piramide fu costruita in due stadi. I blocchi furono trascinati su di una rampa per costruire la base della piramide, che contiene la maggior parte dei blocchi. Nella seconda fase i blocchi utilizzati all’esterno per la rampa iniziale furono riciclati per la parte superiore della piramide e questo potrebbe spiegare perché non ci sono tracce del piano inclinato originale. Josef Wegner dell’Università della Pennsylvania (Usa) ha detto: "L’idea di utilizzare piccoli blocchi già squadrati per costruire la rampa più bassa, per poi smantellarla al fine di utilizzare il materiale per i piani superiori è sensata e logica, anche perché avrebbe accelerato di molto la costruzione".
Spiega Houdin: "Dopo aver costruito la fondazione della piramide, gli operai iniziarono a costruire un tunnel inclinato, interno alla piramide e a forma di cavatappi che seguì la crescita della piramide stessa fino alla sua cima. Poiché il tunnel si trova dentro la piramide, quando venne terminata alcuni blocchi chiusero l’uscita e il tunnel, in pratica, scomparve dalla vista".
Questa ipotesi trova ora conferma in una prova importante. A circa 90 metri d’altezza vi è una specie di buco che recentemente è stato raggiunto con tecniche alpinistiche ed esplorato da videoperatori del National Geographic. Brier ha accompagnato i tecnici e una volta raggiunto quel foro l’archeologo si è trovato di fronte a una piccola stanza a cielo aperto forma di "L". A dire il vero non era la prima volta che quell’antro è stato esplorato, ma fino a oggi gli archeologi non gli hanno dato importanza. Ma per Houdin quell’area era la ciliegina sulla torta. Nella sua ipotesi infatti, il tunnel in salita richiedeva aree a cielo aperto ai quattro angoli della piramide necessari per far girare i blocchi di 90 gradi. Questi probabilmente venivano ruotati per mezzo di tronchi di legno.
L’apertura studiata recentemente si trova esattamente in un punto in cui si dovrebbe trovare secondo il modello in tre dimensioni costruito da Houdin. I due tunnel che si dipartono dalla piazzola oggi non si vedono perché probabilmente furono sigillati una volta terminata la costruzione della piramide.
L’ipotesi trova ulteriore riscontro in una ricerca condotta nel 1986: tecnici francesi trovarono variazioni di densità all’interno della piramide che potrebbero coincidere con la presenza di un tunnel interno.
C’è modo di scoprire la galleria di servizio senza dover demolire parte della piramide? Secondo Houdin sarebbe sufficiente fare uno studio all’infrarosso della piramide, in quanto il calore emesso dalle pareti varierebbe rispetto al resto là dove è presente il tunnel in salita. "L’unica cosa necessaria è l’autorizzazione delle autorità dell’Egitto - ha precisato l’architetto - Dopo basterebbe rimanere con una camera all’infrarosso puntata su tre lati della Piramide per circa 18 ore, osservando il calore che fuoriesce. Se l’ipotesi è corretta dovremmo poter osservare l’andamento del tunnel".
Sarebbe una grande scoperta per l’Egitto e il mistero delle grandi piramidi sarebbe risolto per sempre.
* la Repubblica, 18 novembre 2008.
La fine del modello americano
di Francis Fukuyama (La Stampa, 8 ottobre 2008)
Le dimensioni del crac di Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli Stati Uniti: il danno al «brand» America.
Le idee sono una delle nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica. La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye.
E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani che denunciavano il modello capitalistico americano come «capitalismo da cowboy».
Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo. Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il settore finanziario.
Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»; improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire l’egemonia degli Stati Uniti.
La scelta che dobbiamo fare ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli - come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti. Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati, quali completamente da scartare.
Molti commentatori hanno sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le biotecnologie.
Sul piano internazionale la rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80, quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e l’Argentina. Simili politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo cieco.
Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci, era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori: se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel disavanzo.
La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.
Il secondo articolo di fede reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street. E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici, certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che sono all’origine della crisi attuale.
Lo scandalo della Enron, il deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto alla promozione della democrazia non è mai stata messa in discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per «intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente - compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita - non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».
La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.
La Pearl Harbor della politica
di VITTORIO ZUCCONI *
IL CAOS politico americano, quello che si trascina fra il fallimento del bushismo e una stagione elettorale troppo lunga, e che ha permesso la tragedia finanziaria, ci ha proposto l’inedito "numero" del candidato che scappa.
Un candidato che si chiama fuori dalla partita per due giorni e non vuole più dibattere l’avversario. Come se la democrazia fosse un incontro di basket, John McCain ha chiesto un timeout, per salvare la propria squadra da una sconfitta che il tabellone dei sondaggi cominciava a lampeggiare.
Il dibattito probabilmente si farà, e questa sera assisteremo finalmente al confronto, perché Barack Obama ha risposto che lui si presenterà sul palco in quanto "mai come adesso la nazione deve vedere e conoscere chi vuole guidarla in questi tempi difficili". Ma il fatto stesso che un candidato annunci di avere "sospeso la campagna elettorale", come fosse un puzzle da riporre per qualche ora, a 40 giorni dal voto, è uno di quei colpi di testa (e di nervi) che i colleghi senatori conoscono bene e che molti elettori temono.
John McCain, famosa testa calda dal pessimo carattere che gli ha meritato in Parlamento il soprannome di "McNasty", Mac la peste, ha semplicemente cercato di buttare all’aria il tavolo di gioco, come fanno i bambini molto immaturi o i vecchi molto stizzosi quando perdono.
Nel mezzo di quella che il finanziere più autorevole degli Stati Uniti, quel Warren Buffett che viene guardato come l’ultimo oracolo, ha definito una "nuova Pearl Harbor", la flotta di coloro che dovrebbero proteggerci naviga alla deriva, sballottata dal vento dei sondaggi e delle manovre elettorali, senza ordini né piani chiari. Se il padre di John McCain, il magnifico ammiraglio che consumò tutto sé stesso nella risposta all’aggressione giapponese nel Pacifico e pagò la fatica disumana morendo d’infarto il giorno dopo la vittoria, potesse vedere il figlio annaspare in queste ore, lo spedirebbe in cambusa, lontano dal ponte di comando.
La mossa di McCain, quello che dovrebbe essere l’anziano sicuro, il buon nonno prudente e responsabile di fronte al troppo giovane e irresponsabile avversario Obama, serve a sottolineare la radice profonda della crisi, che non è finanziaria né economica, ma politica. Da quasi otto anni, dal gennaio del 2001, l’America è senza un governo competente e attendibile, che ha creduto di poter surrogare con la superbia la propria cadente autorità morale. Ha perduto ogni credibilità e ogni autorità, presa nella tela di menzogne, propaganda, ideologia, messianesimo, politicizzazione elettoralistica e incompetenza che, una volta tessuta, non può più essere dipanata. Oggi la nazione è governata dal presidente della Fed Bernanke e dall’ex Goldman Sachs, il ministro del Tesoro Paulson. Bush è soltanto un passeggero, al quale gli adulti alla guida chiedono di non toccare niente.
Il piano di salvataggio con danaro pubblico che dovrebbe essere varato oggi, e che è stato imposto ai due candidati, al Congresso e a una nazione che lo osteggia apertamente con un ricatto in stile Alitalia, o così o tutti giù dalla finestra, metterà un tampone sull’emorragia. Ma né i colpi di testa di McCain, né il fiacco discorso del presidente alla nazione, mercoledì sera, possono restituire prestigio morale a una politica che lo ha perduto tra le rovine di Bagdad, nel pasticcio afgano, nella devastazione di New Orleans, nello scandalo costituzionale di Guantanamo, nelle torture in appalto e nella totale indifferenza a quella cultura del profitto facile e sregolato che soltanto ora finge di scoprire con orrore e con ripensamenti statalisti e assistenzialisti.
La catastrofe in atto è la sentenza finale di un processo a Bush che dura da sette anni e otto mesi, e che vede come complice un Parlamento che il suo partito, il repubblicano, aveva controllato per sei anni e i democratici non hanno saputo raddrizzare. È stata un’esperienza surreale ascoltare il presidente accusare tutti di avere prodotto questa "Pearl Harbor", gli speculatori, i brokers, i banchieri, gli immobiliaristi, i consumatori, gli acquirenti di case che hanno assunto mutui eccessivi, tutti colpevoli meno che lui e la sua amministrazione, quella che fino a due settimane or sono ci garantiva che "l’economia americana resta robusta e solida".
Il futuro presidente erediterà due guerre in corso e lontane da una conclusione decisiva, in Iraq e in Afghanistan, un conto mostruoso di debito pubblico da saldare, un bilancio federale devastato, un mercato immobiliare alla canna del gas, una Pearl Harbor finanziaria, un Iran avviato sulla strada del nucleare, una Russia burbanzosa e neo imperiale, ora addirittura una Corea de Nord che torna a scricchiolare. Si capisce perché la parola chiave di questa stagione elettorale adottata persino dai repubblicani e da McCain, che temono Bush come un appestato e lo hanno tenuto lontano dal loro congresso, sia "cambiare". Persino una fanciulla del West scesa a valle col disgelo del bushismo, o un settuagenario, sembrano un progresso.
* la Repubblica, 26 settembre 2008
La crisi morale del capitalismo
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 24.09.2008)
Credo che l’uragano passerà senza travolgere l’economia mondiale. Il segretario di Stato Paulson, quello cui, come dice l’Economist, si rizzano in testa i capelli che non ha, aveva fatto, finalmente, la cosa giusta. Aveva lasciato fallire una grande banca, evitando che gli rovinasse addosso con un altro salvataggio. Subito dopo però ha dovuto cedere alla pressione del mondo finanziario, intervenendo nel ben più costoso salvataggio del colosso assicurativo Aig. Così, una volta ancora, le voragini aperte nel libero mercato saranno colmate dai contribuenti. Quali saranno le conseguenze nessuno, neppure lui, lo sa.
C’è chi teme che questo nuovo tremendo colpo possa coinvolgere l’intero sistema. Ma l’economia capitalistica è più forte della devastatrice finanza che ha generato. E tuttavia, questa crisi può essere fatale al capitalismo sotto un aspetto più generale e più profondo.Dal punto di vista strettamente economico, dietro l’inestricabile groviglio delle tecnicalità, c’è una realtà inoppugnabile: la sproporzione dell’indebitamento americano (di tutti, privati, banche, Stato) rispetto al reddito, e della finanza rispetto all’economia reale. Sul perché e sul come abbiamo ragionato tante volte. Non ci torno. È diventato presente ciò che era evidente. Tranne che per gli estatici ammiratori delle tecnicalità finanziarie.
Vorrei parlare invece del colpo mortale che questa crisi di inizio secolo sta portando al «turbocapitalismo», minandone la credibilità morale. Ogni sistema storico di organizzazione della società ha bisogno di una base di legittimazione morale. Gli schiaccianti dominatori degli antichi imperi avevano bisogno di un dio che li sovrastasse, loro e le loro piccole regine. Quando i mercanti del Medioevo entrarono nella polis ebbero bisogno di un faticoso compromesso con la Chiesa, da loro abbondantemente finanziata, per superare tortuosamente lo scandalo dell’interesse.
L’ideologia economica del nascente capitalismo ebbe origine nelle scuole di filosofia morale. La migliore legittimazione non gli fu offerta però dai dubbi princìpi delle virtù weberiane ma da quelli più pratici dell’utilitarismo che insegnavano a trarre dall’egoismo, e non dalla virtù, l’energia necessaria per promuovere la ricchezza, a vantaggio, si diceva, di tutti. Insomma, il capitalismo si giustifica non con le sue premesse, ma con i suoi risultati. E non c’è dubbio che, fino a tutta la metà del secolo ventesimo, i suoi risultati in termini non solo di crescita economica, ma di progresso sociale, siano stati tali, non dico da compensare ma da sopportare gli enormi costi impliciti nella crescita.
Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di una estensione universale del benessere è incrinata dall’esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Il «miracolo» della finanza internazionale, che ha realizzato enormi spostamenti di ricchezza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri si traduce, all’interno di quei paesi, in un gigantesco divario tra i gruppi sociali emergenti e quelli lasciati ai margini. In India l’estrema ricchezza e l’estrema povertà sono aumentate. La stessa cosa sta avvenendo in Cina. Dall’ultimo rapporto della Banca Mondiale risulta che il livello di povertà è aumentato nel mondo a 1,4 miliardi di uomini e di donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. L’indice Gini della disuguaglianza relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi quindici anni di sette punti, poco meno del 20 per cento.
Ma è soprattutto negli Stati Uniti che la disuguaglianza tra classi medie impoverite ed élites arricchite si è imposta. Lo stesso indice Gini che era caduto al 41 per cento nel 1970, è aumentato negli ultimi trent’anni a 47. Ciò che sta succedendo, dice Robert Reich, dice David Rothkorpf, non è solo un aumento delle disuguaglianze, ma una vera e propria secessione sociale: un 1 per cento della popolazione che dispone del 40 per cento del prodotto nazionale.
Ma che c’entra tutto questo con i disastri finanziari di oggi? Moltissimo. Negli ultimi venti anni è proprio l’allocazione delle risorse della economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in termini reali in un aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta ai bisogni reali dell’umanità. Nel più ricco e indebitato paese del mondo, gli Stati Uniti, la sproporzione tra i guadagni dei condottieri delle grandi imprese, anche quelli che le hanno portate al disastro, e la gente comune sono diventati sbalorditivi. Le risorse mondiali sono state indirizzate da un sistema finanziario poderoso verso un gigantesco indebitamento, sostenuto da un credito sfrenato. Il nome turbocapitalismo si adatta bene a questo sistema sventato. La spesa mondiale annuale della pubblicità che alimenta i consumi e l’inquinamento, ammonta a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi. A 62 miliardi quella destinata dai paesi ricchi ai paesi poveri. Ripeto: non credo che siamo alla vigilia di un nuovo collasso capitalistico. L’economia mondiale dispone di immense risorse mobilitabili nell’emergenza.
Siamo di fronte però al fallimento morale di una promessa. Quando un sistema perde la sua legittimazione etica, perde anche la sua vitalità storica. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato.Poco meno di trent’anni fa un brillante economista inglese immaturamente scomparso, Fred Hirsch, scrisse un libro profetico: i limiti sociali allo sviluppo. Ciò di cui soprattutto il capitalismo soffre, egli affermava, era uno sbriciolamento della sua base morale. Ciò di cui soprattutto aveva bisogno, era «un rientro morale». Non se ne vedono le tracce.
La politica del pancione
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 7/9/2008)
D’un tratto in politica s’accampa un Nuovo che scompiglia ogni cosa, che promette addirittura di ricominciare il mondo. Il Nuovo è il corpo del candidato, e non del solito candidato ma del candidato-donna. E neppure di una donna che ha speciali esperienze: quando i giornali americani scrivono che con Sarah Palin «è nata una stella» alludono a un candidato forte perché enormemente simile a tutte le donne e alla loro vita quotidiana, fatta di tanti bambini, tante famiglie accidentate. È la prima volta e questa formula («È la prima volta») ha le virtù d’un mantra: è un cumulo di sillabe che protegge con magica efficacia.
Tutto sembra tramutarsi in mantra, non appena sul palcoscenico fa irruzione la biologia femminile: non intercambiabile con quella dell’uomo, perciò primeva, inaugurale. Nel rifare il mondo, la donna può anche ricorrere all’arma suprema, all’atomica che dissuade l’avversario azzittendolo. Mette in mostra, modernamente disinibita, quel che ancor ieri era intimo: la pancia incinta, dunque il rapporto primordiale con la vita e la morte. Giacché questa è la politica al grado zero: vita o morte, pace o guerra, tutto o nulla. Nella favola di Esopo erano le membra del corpo che si ribellavano alla pancia oziosa. Adesso fa secessione la pancia, reclama il primato assoluto.
C’erano una volta due corpi del Re - accadeva nelle monarchie medievali descritte da Kantorowicz negli Anni 50: il corpo mortale e quello eterno, santo, che raffigura l’istituzione e la Corona e s’incarna in questo o quel re. Ora s’aggiunge un terzo corpo: la pancia incinta che la donna politica, non senza cinismo, eleva come trofeo. La pancia della diciassettenne Bristol, figlia della candidata alla vice presidenza. O la pancia del ministro della giustizia Rachida Dati, in Francia. Un mistero circonda quasi sempre il Terzo Corpo. Il padre è figura secondaria: trascurabile nel caso di Bristol Palin, incerta per Rachida Dati. Il Mondo Nuovo non appartiene ai padri. In questi giorni in America è nata una santa, oltre che stella: il ventre immemorialmente è benedetto. Il corpo politico, chiamato per secoli body politic perché paragonato all’organismo umano, diventa body e null’altro, senza più i parafernali della politica.
In realtà quest’irrompere del corpo non è nuovo. Accadde all’inizio del ’900, quando si cominciò a paragonare le virtù dello sportivo con quelle dell’intelligenza o dello spirito. Robert Musil costruisce un romanzo su questa scoperta: improvvisamente l’Uomo Senza Qualità s’accorge che lo spirito del tempo (lo spirito della comunità) esalta il corpo come la cosa più autentica dell’uomo. Ulrich lo annuncia a Diotima, la cugina borghese che di autenticità è insaziabilmente affamata: «Dio, per ragioni che non ci sono ancora note, sembra aver inaugurato un’epoca della cultura del corpo; perché l’unica cosa che in qualche modo sostiene le idee è il corpo, cui esse appartengono». Aprendo il giornale, un mattino, Ulrich s’imbatte sulla vittoria di un «geniale cavallo da corsa». Il corpo (animale o femminile) ha occupato l’intera scena, divorando la genialità letteraria o politica: è diventato totem, simbolo soprannaturale in cui il clan si identifica. Basta dire corpo di donna ed è Mondo Nuovo, Moderno. Non importa quel che la donna fa: conta l’apparire corporeo, con cui il suo essere coincide perfettamente specie quando la pancia ne è sintesi e apoteosi.
Eventi simili non cadono dal cielo. Hanno antecedenti. In principio c’è un ammalarsi della politica, della democrazia, non per ultimo dei mezzi di comunicazione. Basta sfogliare i giornali, non solo in America, e si vedranno analoghe fatali attrazioni per ciò che è considerato autentico nell’uomo politico. In Italia non avremo forse l’infame curiosare su una diciassettenne incinta, ma lo spazio è egualmente invaso dal gossip, dalla cronaca rosa oltre che nera. Perfino la critica letteraria è spesso solo rosa. Attrae il privato dei politici, in particolare se donne. Si fruga nelle loro vite, nelle pance, come i rotocalchi che spiano divi e sportivi. Da tempo diminuiscono i giornalisti che indagano su altro che questo, con la stessa continuità. In Francia questa metamorfosi si chiama pipolisation: dai rotocalchi people emulati da giornali e tv. Il fenomeno concerne inizialmente sia uomini che donne. Sarkozy ha sfoggiato i propri matrimoni. Ancor prima s’è distinto Berlusconi: il corpo, i capelli, la prestanza fisica sono stati sue sciabole. I giornali si sono adattati al gusto del tempo, al finto realismo che inghiotte il reale.
La donna in politica tende a impigliarsi nella pipolisation: non fosse altro perché viene presentata come nuova e migliore in sé, a prescindere da quello che fa o pensa. Ségolène Royal era ineguagliabile in quanto donna, Hillary Clinton è caduta nella stessa trappola e ora si trova davanti la nemesi che è Sarah Palin. In Italia non è diverso. Di recente, Veltroni s’è augurato un direttore nuovo all’Unità. Non s’è soffermato sulla bravura o non-bravura del direttore Antonio Padellaro, sulla nuova linea che auspicava, sulla vecchia che esecrava. S’è limitato a proferire il mantra, lo scorso 25 maggio sul Corriere della Sera: «Ci vorrebbe una donna alla direzione dell’Unità». Senza spiegare in cosa consistesse l’ancien régime, disse che la rivoluzione era questa. Qualcuno ha commentato, con saggezza: Padellaro era un uomo, purtroppo.
McCain è tutt’altro che maldestro. Adopera la crisi della politica, della democrazia, dei media. Sa di poter contare sull’estensione del gossip, della cultura del corpo. La pancia della povera figlia di Sarah Palin e il corpo del neonato down ostentato nella campagna portano voti, perché riaccendono la guerra culturale che il populismo di destra conduce contro la presunta egemonia della sinistra. Gli studiosi George Lakoff e Thomas Frank denunciano da tempo, in libri e articoli, la fuga della destra nel falso realismo dell’autenticità e nel risentimento dei piccoli verso i forti. È una destra che s’è impossessata di molte bandiere di sinistra: la discriminazione delle piccole città, della povera gente, di chi «non è stato cooptato dall’élite cosmopolita», infine delle donne.
Obama è considerato elitario, cooptato: quindi cosmopolita, non genuinamente americano. Palin invece incarna il nuovo valore dell’Autenticità ed è contro tutte le élite, specie mediatiche. Alla convenzione repubblicana ha entusiasmato: «Ecco una notizia flash per tutti i reporter e commentatori - ha gridato -: vado a Washington non per strappare la loro buona opinione. Vado a Washington per servire il popolo di questo Paese. Non sono parte dell’establishment politico. In questi giorni ho presto imparato che se non sei parte dell’élite, alcuni media non ti considereranno il candidato qualificato». Il politico più seduttore oggi è un maverick: un cane sciolto, una personalità più che una persona. McCain è maverick e anche Sarah Palin perché - così pare - la donna in quanto tale ieri era mobile e oggi è maverick.
La vecchia guerra contro la sinistra dominatrice riprende, e permette a McCain di fingersi nuovo pur continuando Bush. Ma è guerra assai temibile, ricorda Lakoff su Huffington Post: i repubblicani la maneggiano perfettamente da quando Nixon, nel ’69, convocò la maggioranza silenziosa contro il Sessantotto. È guerra che seduce giornali e intellettuali; che ha fatto vincere Reagan e Bush jr. Viene rispolverata ogni volta che i repubblicani, pur di non evocare quel che hanno fatto, si gettano su valori che dividono la sinistra e la intimidiscono sino a incastrarla (famiglia, aborto). Anche l’uso delle donne serve a tale scopo. Se attacchi Sarah Palin sarai accusato di sessismo ed è massima ingiuria. Forse la candidata inciamperà; son numerose le sue azioni passate non pulite. Ma finché resta un totem è vincente, e inattaccabile.
Il segreto di Hannah
Quel che Kafka rivelò alla Arendt
Se la Weil e la Bespaloff avevano intuito il tema dello sradicamento umano, lei poté osservare l’intera parabola del totalitarismo
Durante l’esilio in America, la pensatrice affrontò "Il Castello" e capì il male radicale che stava stravolgendo il mondo
Solo la coscienza individuale può difendere il volto etico dell’esistenza
L’abuso della forza tramutava in dis-umani sia i persecutori che le vittime
di Nadia Fusini (la Repubblica, 21.07.2008)
Nell’agosto 1944 Hannah Arendt fu invitata ai colloqui di Pontigny-en-Amerique, che si svolgevano presso il College di Mount Holyhoke, nel Massachussets, non lontanto da Boston. Dal monastero circestense in Borgogna, armi e bagagli gli «Entretiens de Pontigny» si erano lì trasferiti, dopo l’invasione nazista del suolo francese, e Mount Holyhoke era diventato in quegli anni un sicuro riparo per chi di origine ebraica fuggisse dalle persecuzioni razziali. Del comitato di intellettuali esuli facevano parte Jacques Maritain, Gustave Cohen, Jean Wahl. Insieme con Jean Wahl, nel 1942 era arrivata Rachel Bespaloff. La quale dal ‘43 aveva preso a insegnare Letteratura Francese.
Rachel era senz’altro tra coloro che in quell’agosto ascoltarono il discorso di Hannah Arendt su Kafka. Partendo dal romanzo Il Castello, Hannah Arendt affrontava lo stesso tema della violenza, cui Rachel e Simone Weil s’erano appassionate leggendo l’Iliade. A partire da un testo letterario anche lei rifletteva sul presente.
Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico. E soprattutto profetico, perché Hannah Arendt rintraccia nel romanzo kafkiano la descrizione di una nuova forma di governo, sconosciuta - osserva - a Montesquieu; la forma che di lì a poco - Kafka scriveva negli anni ‘20 - il mondo avrebbe assunto. Anzi, aveva assunto.
Agli orecchi di chi ascoltava l’appassionata conferenza si profilò un nuovo nesso tra passato e futuro; un vincolo agghiacciante in cui il futuro investiva d’impeto il presente e non donava, semmai toglieva il passato, facendosi beffe di ogni umana, troppo umana arroganza. Ma se il futuro era alle spalle, e il presente intransitabile - che fare?
La domanda non è irrilevante per Hannah, la quale si presenterà sempre non come una filosofa: «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi» ripeterà più volte. Ci tiene a dirlo, quasi annunciasse in tal modo la sua vocazione, che è quella di pensare: «il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare» afferma senza mezzi termini; e prosegue qualificando il suo proprio modo di pensare come Selbstdenken. E cioè, al modo di una che pensa da sé, che pensa da sola. Così amava dire Rahel Levin Varnhagen, la giovane donna ebrea a cui all’inizio degli anni Trenta aveva dedicato la sua attenzione. Quando nel suo salotto letterario di Berlino Rachel conversava con Schlegel, con Humboldt, con Schleiermacher, Rachel proclamava: «tutto dipende dal riuscire a pensare da soli». Appunto.
Il fatto che si pensi da soli, però, non significa che i pensieri non si intreccino in una rete di stimoli, impulsi, echi, rimandi. E’ questa trama, al contrario, che io invito a cogliere tra i pensieri di Hannah, di Rachel - questa Rachel che ora Hannah ha di fronte in ascolto - e Simone.
Dopo il seminario di Mount Holyhoke Rachel Bespaloff e Hannah Arendt si incontrarono un’altra volta a una cena a cui erano presenti, tra gli altri, Hermann Broch e Mary McCarthy. I quali saranno nel tempo grandi amici di Hannah. Ed erano stati entrambi coinvolti nella pubblicazione in inglese del saggio sull’Iliade di Rachel. Se Rachel ascoltò Hannah, perché Hannah non avrebbe dovuto leggere Rachel?
Pur nelle distinzioni che rimangono tra loro, le due donne condividono esperienze che le accomunano; l’esilio, la persecuzione, e delle letture. Kafka, Benjamin, Brecht sono nomi che dicono molto anche a Rachel. La quale in quegli anni legge i romanzi di Albert Camus e rabbrividisce alla «furia di gelida violenza» che vi trova.
K. - il protagonista del Castello - spiega Hannah voleva essere un uomo come tutti gli altri. Ma scopre che la società in cui vive non è più umana; ragion per cui, la sua intenzione, all’apparenza semplice, modesta, di realizzare i diritti umani essenziali risulterà in un progetto impossibile a realizzare. Le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una camera, osserva Hannah, ma non «a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana».
Ecco, il male - che Simone aveva definito «incolore, monotono, arido, noioso», e Hannah chiama «radicale», mentre più tardi, con maggiore precisione, sostituirà l’aggettivo «radicale» con «estremo». Ecco, la violenza - e cioè, la distruzione della dignità umana, l’uccisione della personalità morale, dell’unicità dell’uomo. Ecco l’«uomo-cosa». Ecco l’«irrealtà». Un uomo di buona volontà, il quale vuole solo quello che gli spetta di diritto, e cioè una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di cittadinanza; un uomo che non chiede mai nulla più del giusto, le cui ambizioni sono tutte qui, ripete Hannah: avere una casa, una posizione, un lavoro - viene trattato come se chiedesse l’impossibile. Gli si fa capire che potrebbe avere quel che esige, se solo lo chiedesse come un dono, come un’elargizione dall’alto; non come un diritto. K. si rende conto di qualcosa che è accaduto senza che tutti gli altri abitanti del villaggio l’abbiano compreso; anzi, proprio senza rendersene conto, l’hanno accettato. E’ accaduto che tutto ciò che secondo natura dovrebbe essere in mano all’uomo gli è stato sottratto dal potere, e gli torna dall’alto come destino, o come dono, o come una maledizione. K. non vuole accettare quel sistema di violenza, né l’ossessione della paura in cui vive il villaggio all’ombra del Castello. Morirà spossato in una battaglia che non riesce neppure a ingaggiare.
Il potere di fatto non gli riconosce la libertà, ovvero, la «capacità umana di agire», di confrontarsi in un’«amicizia eguale» con gli altri, di costruirsi la sua propria vita. Ecco il male radicale, il male estremo che soffoca l’esistenza. - argomenta Hannah. Kafka lo rivela. Coglie il segreto doloroso, ma vero, dell’esistenza umana. Che il tramite sia l’Iliade, o il Castello, chi legge il testo vi legge il mondo.
Se avvicino Hannah Arendt a Simone Weil (e a Rachel Bespaloff) non è per stringerle in una identità di vedute che le scolorisca l’una sull’altra. Sono al contrario ben avvertita del «doppio paradosso» di cui parla Roberto Esposito nel suo bel libro L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, uscito qualche anno fa per Donzelli: quel che le avvicina, nel loro caso, sono d’accordo, è una «lontananza approssimante», «una distanza che congiunge». Ma le risonanze contano e quello «sradicamento umano», che sia Simone sia Rachel avevano intuito nei loro anni, e ora si stava realizzando, Hannah, che sopravvisse loro, ebbe il tempo di vederlo. Simone, ricordo, morì nel 1943. Rachel nel ‘49.
Hannah nel ‘65. Erano nate Simone nel 1909, Rachel nel 1895 e Hannah nel 1906. Se le prime due conobbero la sola ipostasi nazi-fascista, Hannah potè osservare per intero compiersi la parabola del fenomeno totalitario. Ebbe modo dunque di portare a fondo un’intelligenza che si nutrì anche dell’incontro con il pensiero delle altre due donne. Anzi, con un pensiero femminile che non separava la filosofia dalla vita, né la lettura dall’esistenza.
Un pensiero la cui potenza di illuminazione cresceva in proporzione all’indignazione etica, secondo una piega che muoveva la sensibilità e l’intelligenza a prendere il punto di vista dell’altro, a mettersi nei panni del più debole.
La «forza» torna al centro della sua attenzione. Simone l’aveva detto: «non credo che si capisca molto dei rapporti umani, se non si mette al centro la nozione di forza». Hannah la segue; ma di quella forza, che Simone vede come costante universale della natura umana (della quale verità l’Iliade è «il più bello, il più puro degli specchi»), vuole descrivere l’espressione "nuova", frutto dei regimi totalitari che indaga. Nel mondo di Hannah, secondo Hannah, è accaduto qualcosa di nuovo, una degenerazione, una perversione, una mostruosità abnorme in cui l’abuso della forza tramuta in dis-umani sia i persecutori, sia le vittime.
Tutto è forza, «salvo in un punto» aveva detto Simone. In quel «punto» aveva identificato una specie di non-forza, una specie di negativo della forza, e l’aveva chiamato Amore. Amore tiene in pugno Ares, aveva detto. Rachel quel «punto» lo chiama piuttosto poesia, ovvero la capacità del poeta di mantenere viva nella parola l’avventura umana della conoscenza. La sua difesa di un luogo dell’interiorità, dove l’esistenza prende un volto etico.
Per Hannah quel «punto» è la coscienza individuale. La forza ha il potere di «congelare l’anima», aveva detto Simone. Hannah riprende l’immagine, e la modula diversamente: mai nessun potere, afferma, ha preteso l’annientamento della presenza umana, se non quello totalitario. Mai nessun potere ha voluto con altrettanta determinazione annichilire la coscienza. Qui si vuole non soltanto l’obbedienza; qui si vuole l’annientamento non solo della vittima, ma anche del carnefice. Qui si distrugge non solo l’ebreo, ma il nazista. Si annienta l’uomo. E tale degenerazione non è iscritta nelle cellule del potere; semmai, ne è l’esito perverso.
Su questo punto tra le tre donne non c’è accordo. Non si tratta di stabilire oggi, a distanza di anni chi ha torto e ragione. Ma di non dimenticare l’ascolto di cui sono state capaci proprio mettendo a tema ognuna a suo modo la loro differenza.
Perché oggi si ha l’impressione che sia necessario pensare la libertà, e ripensare la politica.
(fine - le altre puntate sono uscite il 15 e il 18 luglio)
[ I precedenti "pezzi" - sono in ILIADE E ODISSEA, pfls]
in ricordo di stefano chiarini
Gerusalemme est, la città palestinese confiscata da Israele
reportage cartografico di DOMINIQUE VIDAL e PHILIPPE REKACEWICZ *
A metà gennaio, giunta in Israele e in Palestina «senza proposta né piano», la segretaria di stato Condoleezza Rice s’è accontentata, al termine dei suoi incontri, di annunciare per febbraio un vertice con Ehud Olmert e Mahmud Abbas. Intanto, la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi s’intensifica, soprattutto a Gerusalemme est.
* Riprendiamo questo articolo da "Le monde diplomatique" ( http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Febbraio-2007/pagina.php?cosa=0702lm12.01.html#n12)
* Il dialogo, 01.08.2007 - ripresa parziale.
Il Comitato di cittadini e lavoratori di Vicenza Est
che si oppongono al progetto Dal Molin e chiedono la conversione ad usi civili della Caserma Ederle è lieto di invitarvi alla conferenza stampa con il Prof. Philip Rushton, Università di Napoli, autore del libro "Riportiamoli a casa - il dissenso nelle forze armate staunitensi" e Chris Capp, disertore americano impegnato con i movimenti per la pace per la fine della guerra e il ritiro delle truppe dal fronte.
Durante la conferenza verranno brevemente illustrati i progetti del Comitato Vicenza Est per lasciare spazio ai prestigiosi ospiti. Seguirà l’iniziativa "La Pace urlata al Megafono" di fronte alla Caserma Edrle per invitare i soldati a non partecipare alla guerra e a dissociarsi dai progetti di militarizzazione.
La conferenza stampa si svolgerà il giorno 12 luglio alle ore 18 presso i locali della Cooperativa Insieme, in Via Dalla Scola 255 a Vicenza. L’iniziativa di fronte alla Caserma Ederle si svolgerà alla sera. Le iniziative sono realizzate in collaborazione con altri importanti gruppi e comitati del movimento No Dal Molin-No Vicenza città militare la cui lista verrà diffusa durante la conferenza stampa (le adesioni sono in corso).
Sono previste iniziative della "Pace urlata al megafono" di fronte ad altri siti militari in città il giorno 13 luglio.
Siamo già in grado di diffondere la lettera scritta da Chris Capps che verrà distribuita di fronte alla Caserma Ederle, che risulta essere centro di progettazione e preparazione delle guerre in corso.
Per contatti mailto:comitato.viest@libero.it>comitato.viest@libero.it
Italiani, e soldati di stanza in Italia, mi chiamo Chris Capps. Ero di stanza in Germania poco prima del mio dislocamento a Baghdad, Iraq. Dopo averci completato il mio turno di servizio sono stato riportato in Germania dove ho appreso che fra meno di 9 mesi sarei stato inviato in Afghanistan. Per me far parte di un’occupazione, anche quando non si è nel ruolo di combattente diretto significa partecipare nell’oppressione del popolo indigeno del paese che stavo occupando. Per me tale situazione era inaccettabile e ho capito come uscire dall’esercito allontanandomi senza permesso. Ormai sono fuori dall’esercito e faccio parte di un’organizzazione che si chiama Veterani dell’Iraq contro la guerra (Iraq Veterans Against the War).
Sono qui in Italia come parte di un’iniziativa per prendere contatti con soldati che si trovano di stanza qui e farli capire che non sono soli nei sentimenti di disagio che provano nei confronti del conflitto in Iraq. Come ho imparato in prima persona, esistono altre scelte oltre a quella di accettare di essere inviato in missione. Mi trovo qui come ospite dei gruppi di pace locali in Italia che non vogliono assistere passivi né alla continuazione dell’attuale conflitto né al vostro coinvolgimento nello stesso. Non vogliono assistere a un’occupazione che venga supportata dal proprio territorio, né vogliono accettare che voi, i loro attuali vicini di casa, vengano inviati a fare parte dello stesso conflitto. Spero che ascoltiate sia la maggioranza degli Americani sia la maggioranza degli italiani che vogliono porre fine ora a tutto ciò.
Chris Capps
Duro attacco del quotidiano: "Causa perduta, bisogna andare via"
Nel mirino il presidente Usa: "Vuole scaricare il disastro sul suo successore"
Il New York Times sferza Bush
"Basta con la guerra in Iraq" *
WASHINGTON - "E’ giunto il momento per gli Stati Uniti di lasciare l’Iraq". Il duro stop alla guerra, fortemente voluta dall’amministrazione Bush, arriva dal New York Times. Il quotidiano affida la sua dura presa di posizione ad un lungo editoriale che chiama ’La via del ritorno’. E sono parole che pesano come macigni sulla Casa Bianca. "Come tanti americani abbiamo rinviato questa conclusione in attesa di un segnale che il presidente Bush stesse cercando di sottrarre gli Stati Uniti al disastro da lui creato invadendo l’Iraq senza ragioni sufficienti, sfidando l’opposizione generale, senza un piano successivo per stabilizzare il paese", scrive il quotidiano.
Una bocciatura totale. Che non lascia margini di ripensamenti. Manca, sintetizza il Nyt, un progetto per il futuro dell’Iraq. "E’ spaventosamente chiaro che il piano di Bush è mantenere la rotta attuale finchè sarà presidente per poi scaricare questo macello sul suo successore. Qualsiasi fosse la sua causa, è una causa perduta".
E se la causa è persa, perdute sono anche le vite di moltissimi soldati Usa uccisi nei continui scontri in Iraq. "Continuare a sacrificare le loro vite sarebbe sbagliato" taglia corto il New York Times. Che vede un solo strada possibile: il ritiro delle truppe. "Gli americani devono ammettere con onestà il fatto che mantenere le nostre truppe in Iraq servirebbe solo a peggiorare la situazione", afferma il giornale notando che le guerra irachena ha avuto come conseguenza il distogliere le risorse del Pentagono dall’Afghanistan per creare in Iraq "una nuova roccaforte" dei terroristi.
E non serve a nulla dire, come fanno Bush e del suo vice Dick Cheney, che un ritiro delle truppe Usa "produrrebbe un bagno di sangue, caos e incoraggerebbe i terroristi". "E’ pura demagogia - dice il giornale - Tutto questo è già successo in Iraq, come risultato di questa invasione non necessaria e della gestione incompetente di questa guerra".
* la Repubblica, 8 luglio 2007
Medio oriente
Quello che sta accadendo (e non vogliamo vedere)
di Giulietto Chiesa da E polis - 3-7-06
Postato il Tuesday, 03 July @ 09:16:16 CEST di jormi *
Il medio oriente sta entrando a vele spiegate in una nuova guerra su grande scala. Bisogna essere ciechi per non vedere i sintomi, che sono chiari: l’Autorità Palestinese non esiste più. Gaza è diventata un poligono di tiro dell’esercito israeliano. In Libano cominciano a saltare in aria le colonne UNIFIL delle forze dell’ONU (per ora agli italiani è andata bene), mentre strani gruppi terroristici attaccano l’esercito libanese. La puzza di bruciato cresce. La guerra si estende in Irak; la Turchia pensa a un prossimo intervento nel Kurdistan iracheno; gli Usa e Israele tengono i motori accesi per un prossimo intervento militare contro l’Iran.
Il governo israeliano decide di restituire, finalmente circa 600 milioni di dollari che teneva illegalmente sequestrati ai palestinesi dal gennaio 2006, data della straripante vittoria elettorale (regolare) di Hamas. Ma quei soldi non andranno ai palestinesi, bensì al signor Abbas, presidente del nuovo Bantustan della West Bank.
I palestinesi, non solo quelli che muoiono trincerati a Gaza, ma anche la maggioranza degli altri, lo considerano già un traditore della loro causa. L’Europa ha già deciso di schierarsi con Abbas, per cui condividerà con lui il disprezzo e l’odio dei disperati.
E sempre l’Europa, con notevole faccia di bronzo (quella di Javier Solana) invita alla concordia. Ma tra chi e chi? Siamo stati noi europei, insieme agli USA, a derubare i palestinesi del legittimo governo che si erano scelto, votando come gli avevamo chiesto.
Ieri International Herald Tribune scriveva: la politica israeliana, "insieme all’embargo occidentale dell’aiuto al governo di Hamas, fu messa in atto con l’obiettivo di indebolire il governo e farlo cadere".
Siamo davvero molto democratici, noi europei. Solo che i palestinesi hanno eletto i loro candidati e non i nostri, per cui li abbiamo puniti.
A Israele nessuno dice niente, nessuno rimprovera niente. Neanche l’occupazione delle terre palestinesi che continua dal 1967. Neanche gl’insediamenti dei coloni, che continuano. Neanche il muro.
Se non ci sono due stati in Palestina è perchè Israele non lo vuole e gli Stati Uniti nemmeno. L’Europa dice di volerlo, ma non ha il coraggio di essere coerente. Non ha neanche il coraggio di dire con franchezza a Israele che non potrà costruire il suo Bantustan con Abu Abbas, senza cessare l’occupazione. E se volessero ripetere le elezioni Fatah perderebbe di nuovo. Si annuncia la guerra, e una nuova Intifada.
Che tristezza, per loro e per noi. Che vergogna per noi!
http://www.giuliettochiesa.it/modules.php?name=News&file=article&sid=268
* Il Dialogo, Martedì, 03 luglio 2007
Il diritto all’esistenza
di Moni Ovadia (L’Unità, 16.06.2007)
La distorsione e la manipolazione delle parole e del pensiero altrui sono un vecchio sport a cui si dedica chi non è in grado di misurarsi criticamente con opinioni diverse dalle sue. E, a volte, questo sport assume i connotati di vera e propria possessione. Giorni fa un conoscente israeliano mi ha telefonato per chiedermi se io avessi dichiarato nel corso di un dibattito radiofonico che non avrei mai detto: «viva Israele», intendendo che io rifiutassi di augurare vita allo Stato d’Israele e alla sua gente. Sono rimasto interdetto e gli ho risposto che ciò che gli avevano riferito era una solenne idiozia.
Uno dei tanti “invasati per Israele”, un Hezbollah del “sionismo” aveva distorto il senso di una mia affermazione nel corso di un pacato e civile dibattito sul libro di Magdi Allam «viva Israele!» a cui ho partecipato insieme all’autore e a Fuad Allam, deputato dell’Ulivo, sociologo del mondo arabo e corsivista de la Repubblica. In quell’occasione dissi che non avrei scritto un libro simile, perché sostiene tesi sbilanciate che non condivido e perché quel titolo da tifo sportivo o da ideologia politica che rimanda ad altri tempi, non favorisce il dialogo e la pace. Non mi sono mai sognato di mettere in discussione il diritto di Israele all’esistenza e alla piena sicurezza, né di augurare del male a quel Paese e alla sua gente non solo per ragioni personali e affettive, ma anche e soprattutto per ragioni attinenti al diritto internazionale che si chiamano diritto all’autodeterminazione dei popoli e legalità internazionale ossia le risoluzioni dell’Onu.
Mi batterei con tutte le forze per impedire la distruzione di Israele come quella di qualsiasi altro popolo e Paese. Ma agli Hezbollah dell’ “ebraismo” non importa di quali siano le vere opinioni di coloro che criticano la politica dei governi israeliani in merito all’occupazione e la colonizzazione e denunciano l’immane tragedia del popolo palestinese. Costoro non vogliono discutere, hanno già deciso che quelli come me sono antisemiti, ebrei che odiano se stessi, seminatori di odio. I giudici autonominatisi del bene d’Israele in realtà, quando non sono agiti da turbe della sfera emotiva, sono esimi esponenti di una mentalità fascista o stalinista che considera i critici e gli avversari orridi nemici da estirpare.
Oggi comunque il problema è che se c’è una identità che rischia un cancellazione reale questa è quella palestinese. Ci si sono messi in tanti a congiurare perché i palestinesi arrivassero sull’orlo dell’abisso: molti dei governi israeliani come quello attuale, con politiche miranti a mantenere lo status quo dell’occupazione, con lo stillicidio della colonizzazione, con l’umiliazione sistematica di Abu Mazen celebrato come interlocutore affidabile solo per raggirarlo meglio, con la pratica degli omicidi mirati il cui esito è stato quello di fomentare de facto la conflittualità fra le fazioni palestinesi. Non pochi dei governi arabi che hanno avvolto in un polverone di retorica e strombazzamenti bellicosi la finta solidarietà, maschera di un boicottaggio, ovvero nessun vero atto politico per dare futuro ad uno Stato palestinese laico democratico.
E, last but not least, il teatrino dell’imbelle e ipocrita comunità internazionale, a partire dagli Usa con gli chiffon de papier della sua penosa road map, per finire con la Ue che tradisce l’esemplare lezione di democrazia delle libere e corrette elezioni palestinesi con una punizione che lungi da indebolire l’ala militare di Hamas l’ha resa sempre più forte, togliendo ogni legittimità al democratico Abu Mazen e vessando ulteriormente i già vessati cittadini più poveri ed indifesi dei Territori.
Esiste ovviamente anche una responsabilità dei palestinesi. In un simile contesto i peggiori e i più violenti esponenti di ciascuna fazione hanno preso il sopravvento contro il proprio infelice popolo. Probabilmente gli Hezbollah del “sionismo” gioiranno nel vedere che i palestinesi si fottono da soli. Ma se si illudono che da questo vergognoso scenario uscirà un rafforzamento della sicurezza di Israele o sono privi di senno o ci fanno. La sicurezza autentica non germina dalla prevaricazione immorale, la sicurezza e la dignità dell’esistenza si riverberano solo nella sicurezza e nella dignità dell’altro. Malatempora
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
La decisione presa ieri dopo una prova simulata con sofisticati software
"Percorso estremamente difficoltoso per le caratteristiche del quartiere"
Bush salta la visita a Trastevere
Ambasciata Usa: "Allarme cortei"
Invito agli americani a "evitare le manifestazioni" per non "diventare bersagli"
ROMA - Bush salterà la tappa di Santa Maria in Trastevere e incontrerà gli esponenti della Comunità di Sant’Egidio nella sede dell’ambasciata americana. La visita a Trastevere è definitivamente saltata per motivi di sicurezza, anche se il portavoce della Casa Bianca parla di "ragioni logistiche". Intanto l’ambasciata degli Stati Uniti ha invitato gli americani a "evitare le manifestazioni" per non "diventare bersagli" durante i cortei di protesta programmati a Roma.
L’allarme sul rischio episodi di violenza è stato lanciato dall’ambasciata americana sul proprio sito nella sezione ’Warden Messages’, lo spazio dove vengono date indicazioni ai cittadini americani presenti in Italia.
La visita alla Comunità era stata sconsigliata ripetutamente dal Viminale, ma alla fine le decisione è giunta solo questa mattina. Dopo che ieri, uomini dell’intelligence italiana insieme ai colleghi americani della Cia e dell’Fbi hanno simulato al computer il percorso che avrebbe dovuto compiere l’imponente corteo di limousine del presidente Bush.
L’itinerario, secondo le elaborazioni dei software sofisticati, sarebbe stato molto difficoltoso a causa della tipica struttura del quartiere fatto di piccole stradine e strettoie. Per evitare tutte le difficoltà, il corteo avrebbe dovuto percorrere un tragitto più lungo del previsto.
Anche se il presidente degli Usa George Bush non si recherà più a Trastevere, "dal punto di vista della sicurezza - ha detto il sindaco di Roma Walter Veltroni - i problemi rimangono uguali. La città ha sempre mostrato una grande capacità di tenuta nei momenti più difficili. Se dicessimo che non siamo preoccupati però saremo degli irresponsabili".
Mario Marazziti, uno dei rappresentanti della Comunità di Sant’Egidio, ha commentato positivamente la variazione del luogo dell’incontro. "Il cambiamento di programma consentirà più tempo per approfondire gli argomenti". Il tempo previsto originariamente per la visita alla Basilica di Santa Maria in Trastevere e successivamente alla Comunità di Sant’Egidio, sarà destinato solo all’incontro con i rappresentanti della Comunità.
Confermati per il resto gli impegni in mattinata con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Quirinale alle 10 e, in Vaticano, in udienza privata con Benedetto XVI e poi con il segretario di stato Tarcisio Bertone. Dalle 12,30 all’1,30 è prevista una tavola rotonda nella sede della rappresentanza diplomatica Usa. Poi Bush incontrerà a Palazzo Chigi, intorno alle 14, il presidente del Consiglio Romano Prodi in un appuntamento a cui parteciperà anche il vicepremier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema. In seguito è prevista una colazione di lavoro e poi la conferenza stampa congiunta alle ore 15.30 circa.
Dopo, alle 17, Bush vedrà Silvio Berlusconi in un colloquio di carattere personale di trenta minuti a Villa Taverna, la residenza dell’ambasciatore americano a Roma. Mario Calabresi, corrispondente dall’America di Repubblica, ha riferito a Repubblica Tv che "il ’meeting’ con Berlusconi adesso è diventato semplicemente un "incontro di saluto". Successivamente all’incontro con Berlusconi non sono previsti altri impegni nel programma serale romano del presidente Bush.
* la Repubblica, 8 giugno 2007
Il Kafka a Bonnefoy *
L’edizione 2007 del Premio Franz Kafka è stata attribuita al poeta e scrittore francese Yves Bonnefoy. Il riconoscimento, dotato di un assegno di 7.495 euro, sarà consegnato a Bonnefoy nel corso di una cerimonia organizzata dal Municipio di Praga alla fine del prossimo mese di ottobre, in occasione della festa nazionale della Repubblica Ceca. Il poeta Yves Bonnefoy, 84 anni, considerato il più alto protagonista della letteratura francese contemporanea, «nella sua opera è debitore, per sua stessa ammissione, della riflessione esistenziale di Kafka». Bonnefoy è stato premiato anche «per la sua fede nell’avvenire della poesia», sottolinea un comunicato diffuso dalla Società Franz Kafka di Praga.
* Avvenire, 31.03.2007
MICHAEL LöWY
L’APPARATO MICIDIALE
In entrambe le correnti culturali ebraiche di lingua tedesca, quella religiosa e quella atea-rivoluzionaria, si mescolano messianismo e libertarismo. I rapporti di Kafka con gli anarchici cèchi e il suo orrore per lo stato burocratico, anche se normale e di diritto. Nel Processo, la vergogna che sopravvive al protagonista è quella di essere stato acquiescente al potere, "come un cane".
Intervento di Michael Löwy. (UNA CITTÀ, n. 86/Maggio 2000)
Dal 5 al 7 maggio si è tenuto a Venezia un convegno internazionale dal titolo "Anarchici ed ebrei. Storia di un incontro", organizzato dal Centro Studi Libertari di Milano e dal Centre International de Recherches sur l’Anarchisme di Losanna. Pubblichiamo l’intervento di Michael Löwy, Cnrs, Parigi, su "Anarchismo ed ebraismo nella Mitteleuropa: il caso Kafka".
In questo convegno si sta parlando soprattutto di ebrei dell’Est europeo, ma ora cambiamo del tutto paesaggio. Non tratterò di ebrei di cultura hyddish, ma di ebrei di cultura tedesca, ebrei della Germania e dell’impero austro-ungarico; non più di militanti del movimento operaio, ma di intellettuali, di franchi tiratori liberamente fluttuanti. Quelli di cui parlo non sono pensatori che hanno respinto la tradizione religiosa ebraica, ma, al contrario, intellettuali affascinati da certi aspetti della tradizione spirituale ebraica e in particolare dal messianismo. Si tratta quindi di una delle correnti della cultura ebraica dell’Europa Centrale che è romantica e libertaria, una specie di nebulosa in cui si intessono legami che definirei di "affinità elettiva" fra il romanticismo, la rinascita spirituale religiosa ebraica, il messianismo, la rivolta culturale anti-borghese e anti-statale, anti-autoritaria e l’utopia rivoluzionaria socialista, libertaria, anarchica. E’ a questa nebulosa, a questa rete, a questa corrente culturale, che appartiene -lo vedremo fra breve- Franz Kafka.
In questa area messianico-libertaria si possono distinguere due poli. Il primo è quello che definirei degli ebrei religiosi con sensibilità libertaria; cito alcuni nomi: Franz Rosenzweig, Martin Buber, Gershom Scholem, Leo Löwenthal. Sono persone che aspirano a un rinnovamento culturale, e a volte anche nazionale, ebraico, ma non sono nazionalisti in senso stretto, hanno tutti un sogno di utopia universalistica libertaria che si innesta, in un modo o nell’altro, nella spiritualità messianica.
L’altro polo, molto diverso, è quello degli ebrei assimilati, che definirei "ateo-religiosi", che si pongono in quella strana frontiera che separa ateismo e religione. Anch’essi sono dei libertari, o sono stati tali durante la gioventù; citerò alcuni nomi: Gustav Landauer, Ernst Bloch, Erich Fromm, il giovane Giörgy Lukacs, prima che diventasse comunista, Walter Benjamin. Sono persone che, al contrario del gruppo precedente, si allontanano dal giudaismo, ma restano tuttavia legati alla cultura ebraica; sono pensatori che si avvicinano alle idee libertarie, alle idee anarchiche durante gli anni 1914-23 e in seguito alcuni di loro, non tutti, si avvicineranno al marxismo.
Questi due poli sono diversi, ma non sono completamente separati fra loro: ci sono legami personali, affettivi, intellettuali fra di essi, simbolizzati dall’amicizia, ad esempio, fra Martin Buber, dalla parte religiosa, e Gustav Landauer, dalla parte rivoluzionaria, e da quella fra Gershom Scholem, pensatore della qabbalah, e Walter Benjamin, il rinnovatore della filosofia politica rivoluzionaria. Si vede quindi che, nonostante le differenze, ci sono dei legami, delle affinità elettive fra loro.
Vorrei ora parlarvi di Franz Kafka, che fa parte di questo contesto, di questa area, ma ne è anche un po’ a parte. Kafka è un po’ lontano da tutte le correnti, è legato a questi due poli distinti, ma non fa parte né dell’uno, né dell’altro e la sua opera è una delle più interessanti di questo movimento. Parlerò soprattutto del rapporto di Kafka con l’anarchismo, non essendoci il tempo per sviluppare l’aspetto ebraico, che evidentemente è molto presente. L’opera letteraria di Kafka non può essere ridotta a una dottrina politica, sarebbe assurdo: l’opera letteraria non è un sistema concettuale, non è una dottrina, è un universo immaginario con personaggi e situazioni. Tuttavia si può studiare il legame, direi il passaggio sotterraneo, fra lo spirito anti-autoritario, la sensibilità libertaria, la simpatia di Kafka per l’anarchismo e i suoi scritti letterari.
Penso che ci sia un legame fra i due aspetti che ci aiuta a capire la sua opera nella sua specificità. Prima di parlare dell’opera, vorrei però dire qualche parola sui legami personali di Kafka col movimento anarchico di Praga. Esistono in proposito parecchie testimonianze delle persone che l’hanno incontrato, e frequentato, in riunioni anarchiche, soprattutto negli anni 1909-12. La prima testimonianza è di uno dei fondatori del movimento anarchico cèco che si chiama Michal Kàcha, che racconta a Max Brod, il migliore amico di Kafka e suo biografo, di avere incontrato Kafka parecchie volte in riunioni di un club anarchico della gioventù; non prendeva la parola in queste riunioni, ma ascoltava sempre in silenzio. Questa testimonianza è stata ripresa da Max Brod nella sua biografia di Kafka. La seconda testimonianza è stata pubblicata, ed è quella di uno scrittore anarchico che si chiama Michal Mares, che racconta anche lui di aver conosciuto Kafka a delle riunioni anarchiche e di averlo incontrato in meeting e manifestazioni di strada. Mares dice, per esempio, che Kafka partecipò alla manifestazione di protesta contro l’esecuzione in Spagna di Francisco Ferrer, l’educatore libertario spagnolo giustiziato nel 1909; racconta poi di averlo incontrato parecchie volte anche negli anni 1910-12, in riunioni di diversi club del movimento anarchico cèco. Questo per la seconda testimonianza. La terza è quella di Gustav Janouch, che negli anni ’50 ha pubblicato una raccolta di conversazioni con Kafka avvenute attorno al 1920, in cui l’autore parla della sua amicizia per degli anarchici cèchi, dicendo fra l’altro: "Gli anarchici cèchi sono persone molto gentili e allegre, così gentili e così amichevoli che ci si vede costretti a credere ad ognuna delle loro parole".
E’ una specie di dichiarazione d’amore per gli anarchici cèchi. Ma ci sono altre dichiarazioni di Kafka a Gustav Janouch, in cui si sente lo spirito libertario, ad esempio, la celebre frase: "Le catene dell’umanità torturata sono in carta protocollo".
Se invece leggete le biografie di Kafka ufficiali, accademiche, vedrete che la maggior parte degli autori respinge questa tesi. Solo un autore tedesco, Klaus Wagenbach, che ha scritto la biografia del giovane Kafka, mette in rilievo questi aspetti. Ma la maggior parte degli altri le respingono come un mito, una favola, un’invenzione e, secondo me, dietro questo rifiuto c’è un atteggiamento politico. Non tutti, ma molti sono dei conservatori che trovano veramente insopportabile che Kafka abbia potuto avere legami con l’anarchia. Non voglio entrare in una discussione troppo dettagliata, vi farò un esempio: uno dei biografi tedeschi di Kafka più conosciuti, Hartmut Binder, che ha pubblicato grossi volumi pieni di informazioni interessanti, d’altra parte, dice: "E’ inimmaginabile che Kafka abbia potuto frequentare riunioni anarchiche e non abbia raccontato niente al suo amico Max Brod, che dice ’non ho mai saputo questo’; è qualcosa di inimmaginabile". Ora, questa argomentazione è così falsa che non si sa cosa dire. Max Brod lo trovava immaginabilissimo, trovava questo perfettamente possibile poiché nella biografia di Kafka dice: "Il mio amico Kafka ha frequentato riunioni anarchiche e non mi ha mai detto niente. Non è la sola cosa che non mi ha detto, spesso non mi diceva cose molto importanti per lui".
Quindi Max Brod trova le frequentazioni anarchiche di Kafka del tutto normali mentre per il signor Binder sono inimmaginabili. Del resto il Signor Binder dice anche che "E’ inimmaginabile che Kafka potesse frequentare riunioni di persone fuorilegge". Come se Kafka avesse un rispetto superstizioso per la legge, come se la legge fosse per lui qualcosa di sacro. Sembra quasi che Binder non abbia letto Il Processo. Non entro nella discussione, ci sono parecchi autori che sostengono argomentazioni di questo tipo; preferisco passare a un argomento più interessante: l’opera stessa di Kafka.
Nell’opera di Kafka c’è una costante molto forte ed è l’anti-autoritarismo, il rifiuto dell’autorità, la presentazione dell’autorità come ingiusta, arbitraria e spesso micidiale. E’ un filo rosso che attraversa tutta l’opera letteraria di Kafka e che nel tempo si evolve. Il punto di partenza è l’autorità paterna.
Si sa che Kafka aveva dei problemi con suo padre, un personaggio estremamente autoritario. Nella Lettera al Padre che Kafka tuttavia non ha mai inviato a suo padre, ci sono queste parole: "Voi siete un tiranno e siccome siete un tiranno io sono automaticamente dalla parte del personale che lavora nella vostra impresa". Si metteva dalla parte dei lavoratori della fabbrica di suo padre contro di lui perché anche lui si sentiva vittima della tirannia del padre.
Il primo testo letterario di Kafka è Il Verdetto, del 1912, che è una storia terribile. E’ il monologo di un padre che critica suo figlio, dicendogli: "Sei un miserabile, un ingrato, un mascalzone, ecc." e concludendo: "A causa di tutto questo, ti condanno alla pena capitale, devi morire, devi andare a buttarti nel fiume", e il figlio in effetti obbedisce a questo ordine assurdo, ingiusto, disumano: va e si getta nel fiume.
In questa prima opera letteraria di Kafka si parla di una tirannia autoritaria, assurda, omicida, ma familiare: il tiranno è il padre. C’è un commento interessante di Milan Kundera, lo scrittore cèco, su questo testo: "Noi troviamo fra questo primo testo, Il Verdetto, e il romanzo Il Processo, scritto molto più tardi, una verosimiglianza molto grande nel colpevolizzare, nelle accuse, nelle esecuzioni". Quindi c’è una specie di legame intimo fra il totalitarismo familiare del primo testo e quello del grande romanzo. Ma c’è una differenza molto importante: nel primo testo il totalitarismo è ancora personale, si tratta dell’autorità del padre; nel romanzo, invece, il processo di spersonalizzazione dell’autorità si è realizzato compiutamente. Il passaggio dall’uno all’altro è emblematizzato dal romanzo America, in cui si trovano personaggi autoritari familiari e burocrati impersonali. Il giovane protagonista viene mandato via da casa perché è andato a letto con la cameriera, o, piuttosto, perché la cameriera è andata a letto con lui, quindi è vittima dell’autorità del padre; in seguito è vittima dell’autorità dello zio che prima lo accoglie in America, lo prende con sé e poi lo manda via per una ragione assurda; infine incontrerà l’autorità impersonale degli amministratori di un albergo in cui cerca di lavorare. Quindi già in America c’è la transizione dall’autorità familiare all’autorità burocratica.
Il testo fondamentale nella trasformazione della riflessione di Kafka sull’autorità è però un racconto breve, La colonia penale, in cui un viaggiatore arriva in un’isola, che è una colonia penale francese abitata da indigeni oppressi dai militari e diretta da un comandante che non si vede mai, che non è molto importante. Quando il viaggiatore arriva, nella colonia ci si sta preparando a giustiziare un soldato indigeno perché, sembra, ha dimenticato di fare il saluto ai suoi superiori. Questa esecuzione dovrebbe essere attuata da una macchina molto sofisticata, una macchina di tortura che, con degli aghi, dovrebbe scrivere sul corpo della vittima un testo pieno di florilegi, che celebri lo spirito dell’autorità, attraverso la frase: "onora i tuoi superiori". Mentre si sta preparando l’esecuzione, un ufficiale descrive il funzionamento della macchina al viaggiatore che trova tutto questo ripugnante, ma che non può fare niente.
Tutto il racconto gira attorno a questa macchina: com’è fantastica, com’è efficace, com’è bella; si direbbe che la macchina non sia lì per giustiziare il prigioniero condannato, ma che sia il prigioniero condannato a essere lì per fornire della "carta" affinché la macchina possa scrivere il suo messaggio omicida. Alla fine si verifica però un mal funzionamento, per cui l’ufficiale entra nella macchina per ripararla, ma questa si rimette in funzione e uccide l’ufficiale nel modo che era stato previsto per il soldato.
Quel che emerge da questo racconto è quindi l’idea del potere autoritario come di un apparato completamente impersonale che uccide; un apparato che esige sacrifici umani e che finisce per sacrificare i propri servitori, in questo caso l’ufficiale. A quale apparato, a quale macchina causa di sacrifici di vite umane pensava Kafka quando scriveva questo racconto? Per rispondere, bisogna conoscere la data. Questo testo è stato scritto nell’ottobre 1914, alcuni mesi dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Quindi è nella guerra mondiale che si manifesta nel modo più brutale, più plateale, il carattere del potere dello stato, del potere democratico-militare; un carattere che è quello di apparato, della macchina impersonale ed omicida, della macchina astratta.
Anche nei due grandi romanzi più conosciuti, Il Processo e Il Castello, si ritroverà quest’idea di un apparato gerarchico, astratto, impersonale e burocratico, brutale, spesso meschino e sempre ingiusto. Non posso evidentemente fare qui un’analisi esauriente, dirò soltanto che anche in questi romanzi c’è l’idea molto forte del carattere alienato, o reificato, di questo apparato -giudiziario in un caso, burocratico nell’altro- e del suo essere profondamente menzognero: questo apparato racconta sempre bugie. Si è detto spesso che nel Castello o nel Processo, Kafka abbia previsto gli stati totalitari, sia il nazismo che lo stalinismo.
Bertold Brecht, che era simpatizzante del fronte comunista, nel 1934 scrisse, per esempio: "Kafka ha capito il modo secondo il quale gli uomini sono dominati dallo stato-formicaio e ha previsto certe forme di questa alienazione, come ad esempio i metodi della Ghepeu". Dunque Brecht, che era un simpatizzante dell’Unione Sovietica, nel ’34 scriveva che Kafka aveva previsto i metodi omicidi della polizia politica sovietica. Penso, però, che questo tipo di commento ci faccia perdere qualcosa di molto importante: Kafka non descrive nei suoi romanzi necessariamente lo stato totalitario, descrive lo stato "normale", lo stato moderno normale. Come prova citerò solo la prima frase del Processo: "K - il protagonista del romanzo - viveva in uno stato di diritto, la pace regnava dappertutto, tutte le leggi erano in vigore, chi osava quindi aggredirlo in casa sua?". L’idea di Kafka, perciò, è che anche in uno stato di diritto la polizia può bussare alla vostra porta e dirvi: "Lei è condannato, lei deve subire un processo, ecc.". Questo comportamento, per Kafka, non appartiene a una dittatura, bensì a uno stato di diritto, a uno stato normale, e questa è un’idea anarchica; l’idea anarchica che tutti gli stati sono oppressori, che lo stato in sé è un apparato di oppressione, un apparato di oppressione che può condurre alla morte. Si sa che Il processo termina con la scena dell’esecuzione di K, ma in questa esecuzione c’è qualcosa di terribile, si dice: "Muore come un cane" e "Solo la vergogna mi sopravviverà".
Perché "come un cane"? E perché "vergogna"? Non si riflette mai su questa conclusione del Processo. Ebbene, il cane per Kafka era un concetto filosofico, anche metafisico; il "cane" -che appare spesso sia nel Processo che in altri testi- è colui che si inginocchia davanti all’autorità, che obbedisce agli ordini, che lecca la mano di colui che lo frusta, che non si oppone. E’ questo il comportamento del cane. Ciò che è più triste nel Processo è infatti che K, la vittima, non resiste; scrive Kafka: "si lascia portare via senza resistere", ed è questa la vergogna, il non aver tentato di resistere. Il protagonista del romanzo America, che cerca di resistere sia pure in modo maldestro, dice: "Sono cani coloro che vogliono accettare supinamente".
Il rifiuto di lasciarsi sottomettere, di comportarsi come un cane, appare perciò a Kafka come il primo passo per poter camminare eretti verso la libertà.
Nel linguaggio corrente si dice che una certa situazione è "kafkiana": a me questa pare una questione molto interessante. "Kafkiano" è una parola difficile da spiegare con altri concetti; è una parola che occupa un vuoto nelle scienze sociali e nella scienza politica che parlano sempre dello Stato -razionale o tradizionale, funzionale- dal punto di vista dello Stato. Ora Kafka parla dello Stato dal punto di vista delle sue vittime, di coloro che non capiscono ciò che succede, per i quali lo Stato è un apparato opaco, assurdo, incomprensibile. Kafka parla delle persone che si sentono afferrare per le mani, che vivono lo Stato come un incubo del quale non capiscono niente e che finisce spesso con lo schiacciarli. E’ questa che chiamiamo una situazione "kafkiana". Questa parola non esiste nelle scienze sociali e non la si può comprendere, se non dopo e in riferimento ai romanzi di Kafka.
Penso che di questa comprensione così profonda di quel che è lo Stato visto dal punto di vista delle sue vittime, non si possa rendere conto nell’opera di Kafka, se non, appunto, in relazione alla sensibilità libertaria e alla simpatia che Kafka ha manifestato per il movimento anarchico.
Brod lasciò Praga nel ’39 poco prima dell’invasione nazista e portò con sé le carte in Palestina
Una storia degna di un suo romanzo
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 18.07.2008)
C’è chi parla e racconta, fin troppo. E chi non parla, si tiene stretti ricordi e documenti, resistendo ad ogni sollecitazione. Conosco bene il tipo. La signora Ilse Esther Hoffe, che si è fatta beffe, fino alla sua scomparsa, della caccia mondiale all’archivio di Franz Kafka, mi ricorda mia zia Perla. Entrambe erano vissute nella Praga di Kafka. Quasi coetanee, si sarebbero potute anche conoscere. Entrambe ebree, si sono sempre rifiutate di raccontare, specialmente di quegli anni. Ilse è morta che aveva 101 anni. Senza che nessuno fosse riuscita a scucirle la bocca su quali autografi di Kafka le avesse passato Max Brod, di cui era stata segretaria e intima.
Zia Perla se n’è andata che ne aveva 104, senza mai raccontarmi, malgrado le mie insistenze, della Praga degli anni Venti, di come da entraineuse in un caffè era diventata la moglie di uno degli uomini più ricchi e famosi della Cecoslovacchia di quei tempi. «Sai, non ricordo...», il refrain di zia Perla. Un giorno, quando aveva da tempo superato la novantina, le avevo chiesto, a bruciapelo: «Ma le altre ragazze del caffè, che fine hanno fatto?» «Ah, allora sai tutto...», si era lasciata andare, ma solo per un istante. Non ho mai capito il perché di tanta insistenza sui segreti di famiglia. Perla di chi poteva avere paura? Di mia cugina, che ha passato la settantina, ha cioè pressappoco l’età delle figlie di Esther Hoffe, e che un anno dopo la morte di mia zia mi ha chiesto: «Ma mia mamma era ebrea?». Certa gente semplicemente non parla, nemmeno sotto tortura. O se parla e scrive magari si pente, come Kafka, che aveva chiesto all’amico Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti, il quale fortunatamente disobbedì e tradì le sue ultime volontà. Max Brod lasciando Praga nel 1939, giusto poco prima dell’invasione nazista, se li portò in un paio di valigie in Palestina, allora sotto mandato britannico. Per imbarcarsi verso la Palestina potrebbe aver preso lo stesso treno da Praga che, negli stessi giorni, prese mio padre richiamato alle armi nell’esercito turco, ma questa è un’altra storia.
No, non c’entra l’Alzheimer. Non è che Perla ed Esther non ricordassero. Mi piacerebbe essere rimbambito quanto erano furbe, vispe e lucide loro da centenarie. Esther era già ultrasettantenne quando nel 1974 l’arrestarono all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, diretta in Svizzera con parte dell’archivio Kafka avuto in consegna da Brod. Brod, morto nel 1968, l’aveva nominata suo esecutore testamentario, esattamente come l’amico Kafka aveva fatto mezzo secolo prima con lui. Ma era Esther a custodire gelosamente tutto il materiale da prima ancora della morte di Brod. L’editore tedesco Klaus Wagenbach è uno dei pochi che possano sostenere di aver preso, negli anni Cinquanta, almeno fugacemente visione di parte di quel materiale, che, secondo la sua testimonianza, oltre ad alcuni disegni e manoscritti autografi di Kafka, comprenderebbe il carteggio di Brod. «Brod mi lasciò visionare il materiale, ma di nascosto da Esther, che non voleva fosse maneggiato o portato via da nessuno», ha raccontato alla Frankfurter Allgemeine. «Esther era ossessionata dall’idea che qualcuno se ne appropriasse, o le venissero rubati», racconta un amico di famiglia dei Brod. C’è chi sostiene che li abbia messi in banca, e quindi non li tenesse affatto nel suo appartamento pieno di gatti e cani. Non c’è dubbio che la vecchia Esther fosse pienamente cosciente del loro valore. Ma si deve pure vivere. Nel 1987 era stata battuta all’asta a New York, per oltre mezzo milione di dollari, una collezione di 327 lettere di Kafka alla "fidanzata" Felice Bauer, l’ispiratrice del personaggio di fraulein Burstener nel Processo (lei, pur non ricambiandolo molto, aveva conservato le lettere di lui, lui aveva distrutto le lettere di lei). L’anno successivo il manoscritto originale del Processo fu venduto al prezzo allora record di quasi 2 milioni di dollari da Sotheby’s. Per conto della signora Esther Hoffe. Aveva pare promesso a un editore tedesco, per una cifra notevole, se non dello stesso ordine di grandezza, anche i diari di Max Brod. Ma a tutt’oggi non si sa che fine abbia fatto la transazione.
Il termine "kafkiano" fu usato per la prima volta in inglese, sulla rivista NewYorker, nel 1947, per indicare un intrico di vicoli ciechi. Da allora è entrato nei vocabolari di tutte le lingue, compresa la nostra, con un significato anche più ricco, che comprende ogni forma di angustia dell’individuo nei confronti degli altri e del potere in generale. Devo fare una confessione: Kafka mi attira e, al tempo stesso, mi spaventa, perché ogni volta che lo ripiglio in mano sono travolto più dall’angoscia che dal piacere, insomma mi viene una voglia irresistibile di buttarmi dalla finestra. Il fascino del kafkiano non è nella sua stranezza, è nella sua ovvietà quotidiana. Come nella vicenda dei manoscritti, come dire, galleggianti. Tutti viviamo nella realtà e negli incubi di ogni giorno storie kafkiane. Non tutti sappiamo raccontarle impietosamente, spietatamente, come faceva Franz Kafka.
Diventa un caso la storia della donna di Tel Aviv che custodirebbe manoscritti dell’autore del "Processo" Franz Kafka. Il mistero delle carte perdute(la Repubblica, 18.07.2008)
Hava Hoffe ha ereditato l’archivio, tramite la madre, da Max Brod, amico dello scrittore.
Ma nessuno ha visto il materiale. Che in parte è stato anche venduto
Nel 1973 Esther Hoff fu fermata in aeroporto mentre stava partendo per l’estero con le valigie piene di preziosi materiali
La legge israeliana impedisce di esportare materiali importanti per la storia del popolo ebraico. E anche su questo è polemica
TEL AVIV. L’ultimo mistero nella tragica storia della vita di Franz Kafka è nascosto in una casetta nel centro di Tel Aviv. Viene custodito come un tesoro da cui ricavare benessere da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che ieri per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo un appostamento degno delle vicende dello spionaggio israeliano. Da qualche settimana la storia ha iniziato a interessare chi in Israele, in Germania, a Praga ha seguito la vicenda del più interessante scrittore in tedesco del Novecento. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell’appartamento.
Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che è morta l’anno scorso e che a sua volta li aveva ricevuti dall’uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L’uomo era Max Brod, un grande amico di Kafka, anzi il suo più grande amico; giornalista, scrittore, musicista, Brod fu anche medico di Kafka, provò per esempio ad indirizzarlo al sanatorio di Kierling, vicino Vienna, nel tentativo di fermare la tubercolosi che inarrestabile uccise Kafka a 41 anni, nel 1924. Kafka aveva lasciato a Brod tutto il suo archivio, le lettere, soprattutto le opere incompiute, con il compito di bruciare tutto.
Brod non poteva rispettare quell’impegno, e anzi la pubblicazione delle opere non terminate di Kafka contribuì a completare proprio il disegno di «incompiutezza» dello scrittore praghese. Nel 1939, incalzato dal nazismo, Brod, anche lui ebreo, decide di spostarsi a Tel Aviv, in quella che era la Palestina del mandato britannico. Lì lavorò all’archivio, e quando morì nel 1969 passò tutto ad Esther Hoffe. In cambio di milioni di dollari, Esther riuscì a vendere negli anni alcuni dei manoscritti, riuscendo addirittura in un’occasione a organizzare un’asta in Svizzera. Nel 1973 il direttore degli archivi di Stato israeliani fece fermare dalla polizia la Hoffe all’aeroporto di Tel Aviv mentre stava partendo per l’estero con le valigie piene di carte.
Oggi Yehoshua Freundlich è il nuovo capo dell’Archivio ebraico: «La nostra legge impone che tutto quanto riguardi la storia del popolo ebraico possa essere ispezionato e fotocopiato dallo Stato prima di lasciare Israele. Per questo abbiamo scritto per anni alla signora Hoffe, e adesso abbiamo scritto alla figlia Hava e anche a sua sorella Ruth». Il problema è che da quando la notizia dell’esistenza dell’archivio Kafka è stata ricordata da Haaretz all’inizio di luglio, i giornalisti, gli studiosi e anche le università di mezzo mondo sono corsi in Israele. Il più titolato è forse l’Archivio letterario tedesco di Marbach, la maggiore organizzazione privata tedesca di questo tipo. «Ho letto che anche loro volevano impossessarsi della carte di Kafka», dice Freundlich, «ma ho scritto anche a loro per ricordare che la legge israeliana impedisce di rimuovere liberamente materiali che siano di importanza per la storia e la cultura del popolo ebraico».
Ieri Haaretz ricordava che anche la Biblioteca nazionale di Gerusalemme per anni ha provato a gettare uno sguardo su quelle carte: «Dal 1982 abbiamo iniziato una corrispondenza con la signora Hoffe, la speranza era quella di avere le carte conservate da Brod. Niente da fare, lei come minimo era una donna impossibile».
Adesso però un nuovo tema sembra affacciarsi attorno a questo archivio: Kafka scriveva in tedesco, sognava di vivere a Berlino: cosa c’entra con Israele, dice apertamente Shimon Sandbank, il professore che ha tradotto i suoi libri in ebraico «Israele, l’ebraismo non sono talmente decisivi in Kafka da poterci far dire che la sua eredità debba rimanere ed essere preservata qui da noi in Israele, da dover costringere gli studiosi che lavorano a Marbach a fare un viaggio a Tel Aviv solo per vedere parte del lavoro di Kafka». Per ora comunque, le sorelle Hoffe hanno tutte le intenzioni di tener ben chiuso quell’archivio.
Gli incubi e i fantasmi che assediavano lo scrittore
Quelle opere da mandare al rogo (la Repubblica, 18.07.2008)
In una casa nel centro di Tel Aviv è custodito l’ultimo mistero della vita di Franz Kafka. Viene custodito da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo lunghi appostamenti. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell’appartamento. Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che a sua volta li aveva ricevuti dall’uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L’uomo era Max Brod, giornalista, scrittore musicista, e grande amico di Kafka.
Già a metà ottobre Kafka scriveva a Brod che «i fantasmi notturni» l’avevano scovato. Quando componeva lettere o libri, gli spettri notturni, le potenze malvagie, che aveva evocato per amore della letteratura, dominavano con un piacere intollerabile la sua esistenza. Dunque, anche lì, a Berlino, era stato sconfitto.
Come combattere contro i fantasmi? Abbiamo un solo indizio. Kafka pensò a una specie di rogo rituale, dove ardere tutto quello che aveva scritto sotto il dominio degli spettri notturni: quasi tutta la sua opera. Se avesse bruciato tutto avrebbe riacquistato quella che chiamava la sua libertà diventando un altro scrittore. Si accontentò di meno. Un giorno, quando era malato, fece bruciare a Dora alcuni manoscritti, tra cui alcuni racconti e un lavoro teatrale: non sappiamo assolutamente di cosa si tratti.
Intanto parlava continuamente a Dora dell’arte nuova libera dai fantasmi, che dopo di allora avrebbe cominciato a scrivere. Ma noi non conosciamo nessun «nuovo Kafka»: il grande racconto La tana è, per esempio, un capolavoro suggerito dai fantasmi.
Tranne diversi racconti giovanili e degli ultimi mesi di vita, e alcuni importanti epistolari, Max Brod pubblicò le opere complete di Kafka. La sua edizione è buona, anche se non perfetta: la recente edizione critica non ha portato innovazioni sostanziali. La notizia data dal giornale israeliano Haaretz, sui manoscritti di Kafka che forse possederebbe la signora Hava Hoffe, solleva molti dubbi ai quali non so come rispondere. Cosa ha la signora Hoffe? Quale materiale kafkiano, ereditato dalla madre e da Max Brod? Non si capisce per quale ragione Brod, così meticoloso, non avrebbe pubblicato tutti i testi narrativi di Kafka che aveva in mano. Esiste, forse, una possibilità. Potrebbe trattarsi di epistolari, che egli non giudicava ancora adatti, per una ragione qualsiasi, alla pubblicazione.
Con Avigdor entra nel governo qualcosa di peggio del razzismo
Espulsione degli arabi, «modello Cipro», «strategia Cecenia»: ecco il vicepremier israeliano. Le idee che uccisero Rabin al governo coi suoi compagni di partito
di Zvi Schuldiner (il manifesto, 09.11.2006)
Il vice primo ministro israeliano Avigdor Lieberman ha rilasciato dichiarazioni alla stampa inglese che dimostrano che la sua ideologia continua intatta e mentre lui attizza sempre di più il fuoco del razzismo in Israele, le forze armate continuano la loro violenta azione nella striscia di Gaza di cui l’ultima strage di civili palestinesi a Beit Hanoun non è che l’ultimo esempio. Il ministro della difesa Peretz fa la parte del moderato, però l’esercito israeliano va avanti con la sua sanguinosa mattanza nei territori occupati però il ministro Lieberman preferisce essere più preciso e invoca per Gaza i metodi dell’esercito russo in cecenia. E’ solo una questione semantica: l’esercito israeliano già li pratica senza dargli il colore russo.
Quando giovedì scorso i missili qassam dei palestinesi sono caduti molto vicino al nostro college, nel sud di Israele, e abbiamo sentito l’artiglieria israeliana, gli elicotteri, i caccia, e uno dei docenti è arrivato nel mio ufficio chiedendomi retoricamente come è mai possibile che i capi miliari e politici non capiscano che questo non funziona e che è necessario cercare un’altra strada. Nella vicina cittadina di Sderot è ormai comune che non pochi abitanti, quando sentono il rumore degli elicotteri israeliani dicono: «adesso arrivano i razzi qassam».
Però la violenza ha le sue leggi e il governo israeliano continua a rifiutare veri negoziati mentre infuria la repressione che nelle ultime settimane è costata la vita a un soldato israeliano e a più di 55 palestinesi (a cui vanno aggiunti i 19 di Beit Hanoun), senza contare i feriti. Tutti i palestinesi sono «terroristi» ma oggi si è saputo che, anche secondo le fonti ufficiali dell’esercito israeliano, il 25% dei morti non erano terroristi.
Dopo una settimana di operazioni l’esercito ha dichiarato che l’azione a Beit Hanoun è finita, ma i razzi qassam continuano a cadere su Sderot e le azioni militari per quanto ufficialmente non definite tali vanno avanti e mietono altre vittime.
Le condizioni nella striscia di Gaza sono insostenibili e tutto viene giustificato come una sacrosanta crociata contro il governo di Hamas, una crociata che apparentemente da i suoi frutti: in queste ultime ore arrivano echi dell’accordo a cui sarebbero arrivati il presidente Abu Mazen e il primo ministro Haniyeh per mettere in piedi un governo di unità nazionale che sarebbe retto da tecnici in apparenza neutrali.
I guadagni politici di Israele e dell’«occidente democratico» nel rifiutare di accettare la decisione democraticamente espressa nelle elezioni palestinesi viene pagata dalla miseria e dalla fame di milioni di palestinesi che vivono un’occupazione sanguinaria come mai in passato.
Il rumore incessante dei cannoni è stato il sottofondo delle cerimonie per ricordare l’omicidio di Rabin. Il cicaleccio retorico degli attuali leader del partito laburista, il partito di Rabin, non può nascondere un fatto fondamentale e non poco paradossale: il partito forma ormai parte di una cinica coalizione composta da Olmert nella quale ha fatto il suo ingresso Avigdor Lieberman. La realpolitik del laburismo ha portato quel partito a sedersi vicino a uno dei principali esponenti del razzismo fondamentalista che è stato parte dell’ideologia che ha fatto uccidere Rabin.
Gli ottimisti pensavano che, con l’ingresso nella coalizione di governo, Lieberman avrebbe moderato la sua retorica e si sarebbe astenuto da dichiarazioni estremiste. Illusione senza fondamento: nelle sue dichiarazioni alla stampa britannica Lieberman ha invitato a usare il modello di Cipro - dimenticandosi di chi ha iniziato la guerra, del suo prezzo e dei suoi risultati - per arrivare a una separazione totale tra arabi ed ebrei, «unica ricetta per arrivare alla pace».
La demagogia di Lieberman è esplicita e potrebbe risultare attraente per molti, dentro e fuori Israele: propone di passare alla futura entità nazionale palestinese i territori popolati da arabi in Israele - fondamentalmente il cosiddetto «triangolo» in Galilea - in cambio dei territori popolati da israeliani in Cisgiordania.
Lieberman non si occupa esplicitamente di «piccoli» dettagli come le città israeliane con poplazioni miste, popolazioni beduine o arabe o druse che non fanno parte del territorio che è disposto a cedere «generosamente» allo stato palestinese. Né parla di cosa sarebbe necessario dare per garantire la presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania. E’ ovvio che l’eventualità di un’espulsione di arabi israeliani è la parte centrale del suo piano razzista, che allo stesso tempe creerebbe una velata forma di occupazione di quei cantoni-bantustan che costituirebbero il futuro «stato palestienese» sotto controllo israeliano.
La cosa più preoccupante non è Lieberman in sé, ma il fatto che il governo israeliano non ritiene necessario dissociarsi pubblicamente ed energicamente dal razzismo di Lieberman. Durante la cerimonia in ricordo di Rabin, lo scrittore David Grosman l’ha detto chiaramente: Olmert e Peretz hanno nominato un piromane a capo dei pompieri. Liberman non è il primo razzista israeliano con radici ideologiche simili a quelle dei carnefici del popolo ebraico. Ma è il primo seduto su un’importante poltrona di governo e che peraltro gode di una grande popolarità in un’Israele stanco che non ha oggi la vitalità democratica necessaria per condannarlo fermamente.
Il premier è tornato a parlare del massacro di 18 civili a Beit Hanun
Olmert: «Strage per un errore tecnico»
Ha assicurato che farà «tutto il possibile» per evitare il ripetersi di un incidente simile, anche «se potra accadere di nuovo» *
GERUSALEMME - Ehud Olmert è tornato a parlare della strage di mercoledì mattina a Beit Hanun: «E’ stata dovuta a un inconveniente tecnico dell’artiglieria» ha detto il premier israeliano in una dichiarazione trasmessa dalle emittenti israeliane. Nel mirino, secondo quanto ha spiegato Olmert, c’era un aranceto usato dai miliziani palestinesi per sparare razzi Qassam verso il territorio isaraeliano.
«ERRORI CHE POSSONO RIPETERSI» - Olmert, parlando in inglese, ha rinnovato il suo dispiacere per l’uccisione dei 18 civili e assicurato che farà «tutto il possibile» per evitare il ripetersi di simili errori. Anche, se ha aggiunto, "può accadere". Il massacro di 18 civili palestinesi, per la maggior parte donne e bambini, non è stata, ha assicurato Olmert, «una questione politica». Le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza - ha aggiunto Olmert - per fermare il lancio di razzi Qassam verso Israele continueranno. Ehud Olmert aggiungendo che in futuro ci potranno essere altre tragedie come quella di ieri a Beit Hanoun in cui sono morti 18 civili palestinesi.
INCONTRO CON ABU MAZEN - Il premier israeliano Ehud Olmert ha poi aggiunto di essere pronto a incontrarsi col presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) per negoziati di pace senza condizioni preliminari. Abu Mazen, ha affermato Olmert, «sarà sorpreso di vedere quanto avanti io sia disposto ad andare nei colloqui». 09 novembre 2006
Le parole di Grossman e il coraggio della pace
di Moni Ovadia *
Ho aderito alla manifestazione per la pace che si terrà oggi a Milano e vi parteciperò personalmente. Le mie ragioni, nell’ordine, sono queste: fine dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi, compresa Gerusalemme est, concordata nei tempi e nei modi dalle due parti con pari dignità e sotto l’egida delle istituzioni della comunità internazionale, cessazione delle ostilità in ogni forma, garantita dall’interposizione di una forza di pace sotto le bandiere dell’Onu, trattativa con tutte le parti in causa del conflitto medio orientale nel quadro di una conferenza internazionale, creazione dello Stato Palestinese con massicci investimenti culturali, sociali ed economico-finanziari per riattivare il circuito virtuoso dello sviluppo, pace definitiva nel quadro della riconosciuta esistenza e piena sicurezza di ogni paese dell’area.
Ritengo che questo sia l’ordine logico in cui procedere. Non è sensato chiedere alla dirigenza sotto assedio o in prigione, di un popolo ridotto in condizioni disperate, che vive sotto occupazione, colonizzato ed imprigionato, di assumersi responsabilità definitive. Ma se qualcuno sapesse arrivare agli stessi risultati per altre vie riceverebbe ugualmente la mia approvazione e, verosimilmente, quella di quanti in tutto il mondo si battono per vedere la fine dello spargimento di sangue, delle violenze e dell’ingiustizia, in quelle terre martoriate. Fatta questa premessa, è molto importante a mio parere fare chiarezza su alcuni punti chiave. Se qualcuno intende trasformare questa occasione in una dimostrazione contro Israele tout court, mi dissocerò da chiunque lo faccia.
Io manifesto aspramente contro la politica del governo israeliano, non contro lo Stato d’Israele e tanto meno contro il suo popolo. Ripudio sin d’ora qualsiasi forma di violenza, pratica o simbolica, tipo il rogo delle bandiere, che trovo stupida, indegna, controproducente, figlia di una logica narcisistica e non politica. Non mi farò tuttavia intimidire dalle eventuali reprimende o criminalizzazioni di chi strumentalizza i gesti violenti per liquidare un intero movimento e continuerò con tutte le mie forze a sostenere le ragioni della pace.
Sarò con i suoi stendardi come essere umano universale, come cittadino italiano e come ebreo. Come essere umano universale perché la pace è la più grande delle benedizioni che l’umanità possa ricevere, come cittadino italiano in piena sintonia con la nostra mirabile Costituzione ed in questo momento con l’ottima azione diplomatica del nostro governo rappresentato egregiamente dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, di D’Alema condivido anche la sollecitazione rivolta agli ebrei democratici ad unirsi all’appello dello scrittore israeliano David Grossman e trovo le critiche rivoltegli da molti esponenti della comunità ebraica ingenerose e surrettizie, segno di una iper reattività immotivata e un po’ sterile.
Come ebreo sfilerò perché l’amore per l’altro e particolarmente per lo straniero è l’humus fondante di tutta l’etica che promana dalla Torah e perché, senza l’afflato universalista e la passione per l’accoglimento dell’alterità nelle forme più alte della giustizia, l’intero ebraismo regredisce ad un pensiero tribale.
La pace è l’imperativo categorico che fa uscire il nostro simile dalle tenebre del non uomo, la pace in Medio Oriente unisce ai valori intrinseci propri di ogni pace un significato simbolico dirompente di cui oggi abbiamo grande bisogno per riprendere il cammino a fianco dei nostri fratelli dell’Islam.
* www.unita.it, Pubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.44
Labirinto palestinese
di Ignacio Ramonet (traduzione dal francese di José F. Padova) *
Verso l’abisso. Si sente confusamente che le sofferenze subite dai palestinesi, le solidarietà sempre più audaci che un simile tormento trascina con sé in Medio oriente e le violente reazioni difensive d’Israele rischiano di condurre il mondo verso l’abisso. Il faccia a faccia fra due popolazioni, l’israeliana e la palestinese, che a torto o a ragione si temono l’una l’altra, non può durare a lungo. Perché questa paura «giustifica» da una parte una escalation della repressione e dall’altra il ricorso alla violenza da parte dei gruppi radicali.
In ognuno dei due campi i sondaggi lo confermano, la maggioranza dei cittadini aspira alla pace. Ma in ognuno dei due campi, anche, aumentano gli odi e gli estremismi. Ormai le due parti parlano di «guerra fino alla morte» e «annientamento totale».
La non-disfatta delle milizie di Hezbollah in Libano, la scorsa estate, di fronte alle truppe israeliane e la non-vittoria delle forze americane in Iraq, contro gli insorti, hanno ridato speranze a gruppi palestinesi che ricominciano a credere alle chance di una «guerra popolare prolungata». Dopo aver catturato il caporale Gilad Shalit il 25 giugno (che tuttora tengono prigioniero) questi gruppi moltiplicano i tiri di razzi su Sderot e Ashkelon. In sei anni sono state uccise sei persone. Nello stesso periodo la repressione nei territori occupati ha fatto quattromila cinquecento morti.
Ma la minaccia dei razzi attizza il desiderio di rivincita di certi israeliani. Il campo dei «duri» al potere, incoraggiati dalla passività internazionale, sembra avere carta bianca per punire senza limiti le popolazioni palestinesi.
Da cinque mesi a oggi più di quattrocento persone, per metà civili, sono state abbattute dalle forze israeliane, che nessuno sembra più trattenere. I militari non hanno persino esitato a uccidere, il 3 novembre, alcune donne disarmate a Beit Hanoun, la città nella quale, cinque giorni più tardi, venti civili, fra i quali numerosi bambini, sarebbero stati uccisi da granate dell’artiglieria israeliana.
Questo crimine - risultato di un «errore», secondo le autorità israeliane - ha emozionato le opinioni pubbliche di tutto il mondo. E ha portato l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dietro l’iniziativa della Francia, ad adottare, con 156 voti contro 7, una risoluzione che reclama la fine delle operazioni israeliane a Gaza e la cessazione di ogni atto di violenza.
Se ne è ben lontani. Il governo di Ehud Olmert recentemente non ha esitato - malgrado le coraggiose dimissioni del ministro della Cultura, il laburista Ophir Pines-Paz - ad accogliere nel suo seno, col rango di vice primo ministro e ministro delle «Minacce strategiche», Avigdor Lieberman, capo del partito estremista Israel Beitenu («Israele, nostra casa»), i cui adeerenti sono principalmente emigrati venuti dall’ex Unione sovietica, accusati spesso di xenofobia.
L’entrata del sig. Liebermann nelle sue funzioni in un gabinetto disorientato e tentato da un uso disordinato della forza rappresenta un pericolo per l’insieme della regione. In primo luogo per Israele e il suo popolo. Tutto ciò non è stato messo in evidenza dai grandi media europei, solitamente più pronti a denunciare l’arrivo di altri estremisti nel governo dell’Unione.
Più lucidi alcuni giornali israeliani come Haaretz hanno subito lanciato l’allarme: «Scegliere il dirigente più irresponsabile e più sprovvisto di moderazione per occupare la funzione di ministro delle minacce strategiche costituisce, di per sé, una minaccia strategica. L’assenza di moderazione del sig. Lieberman e le sue intempestive dichiarazioni - paragonabili soltanto a quelle del presidente dell’Iran - rischiano di provocare un disastro in tutta la regione (1)».
Quanto al politologo israeliano Zeev Sternhell, storico del fascismo europeo, non si poteva essere più chiari: ai suoi occhi il sig. Liebermann è forse «l’uomo politico più pericoloso della storia d’Israele», perché rappresenta un «cocktail di nazionalismo, d’autoritarismo e di mentalità dittatoriale (2)».
Paradossalmente il contesto aggrava il rischio. La recente disfatta elettorale di Gorge W. Bush e la constatazione del fallimento militare in Iraq potrebbero modificare la politica degli Stati Uniti in questa regione. Già pare che contatti si stiano abbozzando con la Siria (malgrado le accuse che pesano su Damasco dopo il recente assassinio di Pierre Gemayel). E perfino con Teheran, la cui collaborazione può rivelarsi decisiva se Washington vuole che riesca la sua ritirata dal pantano iracheno. Infine sembra avvicinarsi in Palestina la prospettiva di un governo di unione nazionale.
In Israele tutto questo non fa al caso di coloro che - come Lieberman e i suoi amici - continuano a scommettere sullo scontro e sulla supremazia della forza. Da parte loro non potrebbe escludersi un gesto irresponsabile. Essi sentono che nelle cancellerie internazionali a poco a poco s’impone un’evidenza: non ci sarà pace in questa regione senza che i palestinesi escano dal loro labirinto.
(1) Haaretz, Tel-Aviv, 24 ottobre 2006.
(2) The Scotsman, Edimbourg, 23 ottobre 2006.
* LE MONDE DIPLOMATIQUE - décembre 2006 Page 1
http://www.monde-diplomatique.fr/2006/12/RAMONET/14236
Testo originale :
Labyrinthe palestinien
Par Ignacio Ramonet *
Vers l’abîme. On sent confusément que les souffrances subies par les Palestiniens, les solidarités de plus en plus audacieuses qu’un tel tourment entraîne au Proche-Orient, et les violentes réactions de défense d’Israël, risquent de conduire le monde vers l’abîme. Le face-à-face entre deux populations, israélienne et palestinienne, qui, à tort ou à raison, se craignent l’une l’autre, ne peut durer. Car cette peur « justifie », d’un côté, une escalade dans la répression et, de l’autre, le recours à la violence de la part de groupes radicaux.
Dans chaque camp, les enquêtes le confirment, la majorité des citoyens aspirent à la paix. Mais, dans chaque camp aussi, montent les haines et les extrémismes. C’est de « guerre à mort » et d’« anéantissement total » que les deux parties parlent désormais.
La non-défaite des milices du Hezbollah libanais, l’été dernier, face aux troupes israéliennes, et la non-victoire des forces américaines, en Irak, face aux insurgés ont redonné espoir à des groupes palestiniens qui se remettent à croire aux chances d’une « guerre populaire prolongée ». Après avoir capturé le caporal Gilad Shalit le 25 juin (qu’ils détiennent toujours), ces groupes multiplient les tirs de roquettes sur Sderot et Ashkelon. Six personnes en six ans ont été tuées. Dans la même période, la répression dans les territoires occupés a fait quatre mille cinq cents morts.
Mais la menace des roquettes attise le désir de revanche parmi certains Israéliens. Le camp des « durs » au pouvoir, encouragé par la passivité internationale, paraît avoir carte blanche pour châtier sans limites les populations palestiniennes.
Depuis cinq mois, plus de quatre cents personnes, pour moitié des civils, ont été abattues par les forces israéliennes, que rien ne semble plus retenir. Les militaires n’ont pas même hésité à abattre, le 3 novembre, des femmes désarmées à Beit Hanoun. Cette ville où, cinq jours plus tard, vingt civils, dont plusieurs enfants, allaient être tués par des obus israéliens.
Ce crime - résultat d’une « bavure », selon les autorités israéliennes - a ému les opinions publiques à travers le monde. Et a conduit l’Assemblée générale des Nations unies, sous l’impulsion de la France, à adopter (par 156 voix contre 7) une résolution réclamant la fin des opérations israéliennes à Gaza, et la cessation de tous les actes de violence.
On en est loin. Le gouvernement de M. Ehoud Olmert n’a pas hésité récemment - malgré la courageuse démission du ministre de la culture, le travailliste Ophir Pines-Paz - à accueillir en son sein, avec le rang de vice-premier ministre et chargé du portefeuille des « menaces stratégiques », M. Avigdor Lieberman, chef du parti extrémiste Israël Beitenou (« Israël, notre maison »), dont les adhérents sont principalement des émigrés venus de l’ex-Union soviétique, accusés souvent de xénophobie.
L’entrée en fonctions de M. Lieberman dans un cabinet désorienté et tenté par un usage brouillon de la force représente un danger pour l’ensemble de la région. En premier lieu pour Israël et ses populations. Cela n’a pas été assez souligné par les grands médias européens, plus prompts à dénoncer d’ordinaire l’arrivée d’autres extrémistes dans des gouvernements de l’Union. Plus lucides, des journaux israéliens comme Haaretz ont vite lancé une mise en garde : « Choisir le dirigeant le plus irresponsable et le plus dépourvu de retenue pour occuper la fonction de ministre des menaces stratégiques constitue, en soi, une menace stratégique. L’absence de modération de M. Lieberman et ses déclarations intempestives - comparables seulement à celles du président de l’Iran - risquent de provoquer un désastre dans toute la région (1). »
Quant au politologue israélien Zeev Sternhell, historien du fascisme européen, il a été très clair : à ses yeux, M. Lieberman est peut-être « l’homme politique le plus dangereux de l’histoire d’Israël », parce qu’il représente un « cocktail de nationalisme, d’autoritarisme et de mentalité dictatoriale (2)».
Le contexte, paradoxalement, aggrave le risque. La récente défaite électorale de M. George W. Bush et le constat d’échec militaire en Irak pourraient infléchir la politique des Etats-Unis dans cette région. Déjà des contacts paraissent s’esquisser avec la Syrie (malgré les accusations qui pèsent sur Damas après le récent assassinat de Pierre Gemayel). Et même avec Téhéran, dont le concours peut se révéler décisif si Washington veut réussir son retrait du bourbier irakien. En Palestine, enfin, la perspective d’un gouvernement d’union nationale semble se rapprocher.
Tout cela ne fait pas l’affaire, en Israël, de ceux qui - comme M. Lieberman et ses amis - continuent de parier sur l’affrontement et sur la suprématie de la force. De leur part, un geste irresponsable ne saurait être exclu. Ils sentent bien qu’une évidence peu à peu s’impose dans les chancelleries internationales : il n’y aura point de paix dans cette région sans la sortie des Palestiniens de leur labyrinthe.
Ignacio Ramonet.
(1) Haaretz, Tel-Aviv, 24 octobre 2006.
(2) The Scotsman, Edimbourg, 23 octobre 2006.
*LE MONDE DIPLOMATIQUE | décembre 2006 | Page 1
http://www.monde-diplomatique.fr/2006/12/RAMONET/14236