di Massimo Franchi *
Il boia abbassò l’interruttore alle ore 0,19 per Nicola Sacco. Sette minuti dopo per Bartolomeo Vanzetti. Nella prigione di Charlestown (Massachusetts) la sedia elettrica funzionò perfettamente e i due italiani (Sacco era nato nel foggiano, Vanzetti nel cuneese) furono giustiziati il 23 agosto 1927.
Sono passati 80 anni e il ricordo di quella esecuzione di due innocenti colpevoli solo di essere anarchici è ancora viva. Sacco e Vanzetti sono diventati il simbolo della lotta alle ingiustizie, prima fra tutte la pena capitale.
I due emigrati italiani erano accusati di aver preso parte ad una rapina uccidendo un cassiere e una guardia del calzaturificio "Slater and Morrill" a South Baintree, sobborgo di Boston. Nonostante le prove evidenti della loro innocenza e la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che scagionava.
Bartolomeo Vanzetti era nato nel 1888 a Villafalletto, in provincia di Cuneo. Figlio di un agricoltore, a vent’anni entra in contatto con le idee socialiste e, dopo la morte della madre Giovanna, decise di partire per il "Nuovomondo", a caccia di una vita migliore come tanti italiani all’alba del Novecento.
Come Nicola Sacco, più vecchio di Vanzetti di tre anni, nato il 27 aprile 1891 a Torremaggiore (Foggia), che arrivato in America nel 1908 fece l’operaio alla Slatter.
I due si conosco nel maggio 1916 a Boston in una riunione di anarchici. Insieme ad altri militanti scappano in Messico per evitare di essere arruolati. Tornano nel Massachusetts a settembre e iniziano a scrivere per "Cronaca sovversiva", giornale anarchico. Da allora, Nick e Bart, come vengono soprannominati oltreoceano, diventano inseparabili.
La lotta agli anarchici da parte della polizia è fortissima. Molti amici di Sacco e Vanzetti vengono arrestati e i due pensano anche di tornare in Italia per fuggire alla persecuzione. Il 5 maggio 1920 vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni dopo i due vengono accusati anche della rapina al calzaturificio, avvenuta poche settimane prima.
Dopo tre processi pieni di errori e incongruenze, Sacco e Vanzetti vengono condannati a morte nel 1921. A nulla valse neppure la mobilitazione della stampa, la creazione di comitati per la liberazione degli innocenti e gli appelli più volte lanciati dall’Italia.
Il verdetto fu fortemente condizionato dal clima da caccia alle streghe contro gli anarchici che in quel momenti caratterizzava gli Stati uniti e da un evidente sentimento razzista nei confronti degli immigrati italiani. Contro l’esecuzione di Sacco e Vanzetti si mobilitarono non solo gli italiani d’America, ma anche intellettuali in tutto il mondo, tra i quali Bertrand Russel, George Bernard Shaw e John Dos Passos.
«Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Così Bartolomeo Vanzetti si rivolse alla giuria che lo condannò alla pena di morte. La stessa frase sarà detta da Gian Maria Volontè in uno dei momenti più toccanti del film "Sacco e Vanzetti" di Giuliano Montalto del 1971. Una pellicola divenuta presto un cult grazie anche alla colonna sonora di Ennio Morricone, interpretata da Joan Baez, autrice dei testi. «Voi restate nella nostra memoria con la vostra agonia che diventa vittoria»: sono le parole di "Here’s to you" che, insieme alla "Ballata per Sacco e Vanzetti", è entrata nel repertorio internazionale della canzone d’autore sollevando le coscienze negli Usa su un caso da molti dimenticato.
Il loro caso non solo smosse le coscienze degli uomini dell’epoca, ma come un fantasma continuò ad agitare l’America per decenni. Finché nel 1977, cinquant’anni dopo la loro morte, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis (riparando parzialmente all’errore del suo predecessore Fuller, che nonostante gli appelli non fermo il boia) riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.
La loro figura, anche alla luce del rinnovato impegno italiano nella campagna contro la pena capitale, torna alla ribalta. L’ottantesimo anniversario dell’esecuzione verrà ricordato il 23 agosto a Torremaggiore (Foggia), la città d’origine di Sacco nel cui cimitero sono custodite le ceneri dei due italiani, attraverso una serie di manifestazioni e la costituzione di un’associazione che porta il loro nome.
L’associazione sarà animata da Fernanda Sacco, nipote di Nicola Sacco, che da anni è impegnata nella valorizzazione del messaggio contro la pena di morte lanciato dal sacrificio dei due anarchici. Nonostante i 75 anni, Fernanda è arzilla e continua a girare le scuole per tramandare la storia di quel suo famigliare così particolare e impegnarsi nella battaglia contro la pena di morte.
Il Quirinale, in una lettera indirizzata all’associazione Sacco e Vanzetti e da essa resa nota, ha trasmesso «l’apprezzamento» del presidente della repubblica Giorgio Napolitano per l’iniziativa che, «nel tenere viva la memoria dei due emigranti italiani, intende contribuire al movimento per l’abolizione della pena di morte, tappa fondamentale per la difesa dei diritti umani, sulla quale si è di recente registrato l’unanime consenso dell’Unione europea».
A San Biagio della Cima, paese in provincia di Imperia, giovedì 23 alle 17 intitolerà la nuova piazza del Comune a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine della cerimonia seguirà il dibattito: "Pena di morte, a quando la moratoria Internazionale?" al quale parteciperanno membri di associazioni e del mondo della cultura.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.08.07, Modificato il: 21.08.07 alle ore 20.25
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Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STATI UNITI D’AMERICA: 23 AGOSTO 1927. SEDIA ELETTRICA PER DUE INNOCENTI - DUE ANARCHICI ITALIANI, NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI
RIPENSARE L’EUROPA!!! La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Sacco e Vanzetti, quando gli italiani erano «bastardi»
Stati Uniti. Novant’anni fa l’esecuzione dei due anarchici immigrati dal nostro Paese: condannati non solo perché ritenuti sovversivi, ma anche per le loro origini. Oggi, nell’era di Trump, sono discriminati i nativi, gli ispanici e i musulmani
di Stefano Luconi (il manifesto, 23.08.2017)
Il 23 agosto 1927, nel penitenziario di Charlestown a Boston, furono giustiziati gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine di un contestatissimo iter giudiziario, il cui esito aveva suscitato proteste non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, i due erano stati ritenuti responsabili del duplice omicidio di un contabile e di una guardia giurata, avvenuto il 15 aprile 1920 durante una rapina.
Le prove a loro carico erano indiziarie e forse manipolate a loro danno, un reo confesso del doppio assassinio li aveva scagionati e il giudice che li aveva mandati sulla sedia elettrica non si era fatto scrupolo di definirli «bastardi». Però, nulla di tutto ciò era valso a ottenere una revisione del processo o un provvedimento di clemenza. Solo mezzo secolo più tardi, nel 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis avrebbe riabilitato la loro memoria, riconoscendo i pregiudizi che avevano determinato il verdetto di colpevolezza.
La cattura di Sacco e Vanzetti e la successiva condanna maturarono nell’ambito della Red Scare (la paura rossa), la capillare e draconiana campagna contro i sovversivi che le autorità americane scatenarono nel biennio 1919-1920, in risposta all’eco della rivoluzione bolscevica in Russia, per il timore che le forze della sinistra estremista conquistassero il potere anche negli Stati Uniti. In aggiunta a Sacco e Vanzetti, la «caccia alle streghe» del governo mieté ulteriori vittime. Oltre a migliaia di arresti e alla deportazione sbrigativa nei paesi d’origine per più di 500 immigrati radicali privi della cittadinanza americana, due giorni prima che fossero fermati Sacco e Vanzetti, il 3 maggio 1920, un terzo anarchico italiano, Andrea Salsedo, aveva perso la vita, precipitando dalla finestra di un commissariato, in circostanze mai chiarite, nel corso di un interrogatorio.
Come quattro milioni di altri italiani giunti negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, Sacco e Vanzetti immigrarono in America nel 1908 nella speranza di migliorare le proprie condizioni economiche e di condurre un’esistenza meno precaria di quella che avrebbero vissuto in patria. Sacco, insofferente della monarchia parlamentare sabauda, fu perfino attratto dalle istituzioni repubblicane statunitensi, alle quali all’inizio attribuì un maggiore rispetto dei diritti individuali e dell’eguaglianza tra le persone.
Ben presto, però, in entrambi subentrò la disillusione. Ai loro occhi, gli Stati Uniti non si rivelarono né la terra del benessere né la nazione della libertà. L’America si dimostrò, invece, il paese dove il capitalismo sfrenato provocava lo sfruttamento selvaggio e indiscriminato dei lavoratori. Questa consapevolezza indusse Sacco e Vanzetti a radicalizzare la loro posizione politica. Aderirono così alla corrente antiorganizzativa dell’anarchismo, che si rifaceva a Luigi Galleani, anch’egli destinato a essere espulso dagli Stati Uniti nel 1919, e alle sue teorie sulla legittimità del ricorso agli attentati politici per distruggere il capitalismo e abbattere lo Stato.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale i due si trasferirono temporaneamente in Messico per sottrarsi alla coscrizione, rifiutandosi di fungere da carne da cannone in uno scontro che attribuivano alla mera rivalità tra paesi imperialistici. Al rientro negli Stati Uniti si ritrovarono invischiati nella repressione governativa che sfruttò l’incitamento di Galleani alla violenza come pretesto per sradicare un movimento quanto mai scomodo nella nazione trasformata dalla vittoria contro la Germania nella principale potenza capitalistica mondiale.
La fede anarchica e la renitenza alla leva resero Sacco e Vanzetti i bersagli ideali della crociata contro il radicalismo di sinistra. A segnare la loro sorte, però, non fu tanto l’ideologia politica quanto l’origine italiana. Nell’America postbellica era in gioco non solo il futuro del capitalismo, ma anche la natura della società statunitense. La ripresa dell’immigrazione alla fine del conflitto accrebbe la presenza di stranieri provenienti dall’Europa orientale e meridionale e accentuò la reazione xenofoba della popolazione di ascendenza anglosassone.
Gran parte dell’opinione pubblica riteneva che l’appartenenza agli Stati Uniti fosse una questione di sangue e non accettava i nuovi arrivati, ritenendoli individui etnicamente inferiori e inassimilabili perché le loro radici non affondavano nell’Europa settentrionale, a differenza dei discendenti dei colonizzatori dell’America del Nord e della maggioranza degli immigrati giunti fino agli anni Ottanta dell’Ottocento.
In particolare, gli italiani erano accusati di essere incivili, sporchi, violenti, dediti al crimine e, in un’ipotetica gerarchia razziale, più simili e vicini ai neri che ai bianchi a causa del colore olivastro della pelle di molti meridionali e dei loro plurisecolari rapporti con i nordafricani. Non a caso, tra il 1886 e il 1910, almeno 34 immigrati italiani, in prevalenza siciliani, vennero linciati, cioè furono colpiti da quella forma di giustizia sommaria popolare che nel Sud razzista si accaniva sugli afroamericani.
In tale contesto, Sacco e Vanzetti divennero i capri espiatori della protesta nativista contro gli immigrati che non erano di ceppo anglosassone. La loro esecuzione si configurò come una sorta di linciaggio legale, successivo di pochi anni al varo delle misure per limitare gli arrivi da paesi sgraditi come l’Italia, culminate nel Johnson-Reed Act che nel 1924 chiuse l’epoca dell’immigrazione di massa.
A novant’anni di distanza, mentre gli incidenti di Charlottesville hanno riacceso la diatriba su chi possa essere considerato un «vero» statunitense e l’appartenenza alla nazione di afroamericani, ispanici e mussulmani è messa in discussione nell’America di Trump, la vicenda di Sacco e Vanzetti resta a monito delle aberrazioni dell’intolleranza xenofoba che periodicamente riaffiora nel paese che ambirebbe a essere la terra degli immigrati per antonomasia.
In marcia per Sacco & Vanzetti
1927-2015. Anche quest’anno Boston ha ricordato i due anarchici uccisi sulla sedia elettrica, tracciando un parallelo tra gli italiani di allora e gli immigrati di oggi. Perché la loro vicenda racchiude più lotte
di Luca Peretti (il manifesto 27.08.2015)
BOSTON Il 23 agosto del 1927 Sacco e Vanzetti furono uccisi sulla sedia elettrica nella prigione di un sobborgo di Boston. Da dieci anni, anche in questa grande città americana del nord est, si tiene una manifestazione che li ricorda e commemora. «Di solito siamo di più - racconta Sergio Reyes, uno degli organizzatori della giornata - probabilmente è il tempo». Il 23 agosto del 2015, domenica scorsa, si presenta infatti con una pioggerellina fitta e una nebbia bassa, decisamente non un invito a scendere in piazza.
Il concentramento della manifestazione è proprio nel centro della città, in quel Boston Common che è un grande parco pieno di storia, da accampamento dei soldati inglesi prima della rivoluzione fino alle proteste contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, e dove si radunò anche la folla che in quell’agosto del 1927 tentò di farsi sentire una volta di più contro la condanna. Da qui partono anche i tour della città condotti da personale vestito come ai tempi della rivoluzione, che per tutta la giornata fanno un po’ da contraltare alla marcia di anarchici e militanti di varie sigle che propongono una storia non necessariamente “ufficializzata” dalle istituzioni.
La manifestazione infatti, organizzata oltre che dalla Sacco and Vanzetti Commemoration Society anche da altri gruppi come Black Rose, Encuentro5 e gli Industrial Workers of the World (i gloriosi Wobblies), si snoda per le vie del centro attraversando le strade della rivoluzione fino a concludersi nel cuore del North End, la zona italo-americana della città, sotto gli occhi confusi dei turisti e quelli sconcertati di qualche benpensante dal portafoglio pieno (questa è una delle zone più ricche del paese). «Gli italiani di ieri - dice Reyes dal microfono davanti alla piccola folla che si è radunata - sono i latinos di oggi. Ecco perché anche se molti di noi non sono italiani o anarchici, è importante essere qui». Ed ecco perché il legame tra immigrazione di oggi e di allora deve essere così forte, anche grazie alla presenza, per la prima volta quest’anno, della Boston Banda de Paz El Salvador, una vivace ensemble di immigrati che accompagna il corteo. «Quest’anno è il decimo anno - racconta sempre Reyes -. È cominciata come iniziativa dei Young Anarchist, che sin dall’inizio hanno lavorato con i movimenti che si battono per i diritti dei lavoratori e dei migranti, in particolare della May day coalition. Il primo anno il corteo, composto da circa 2000 persone, è andato fino al cimitero di Forest Hill, dove Sacco e Vanzetti furono cremati. Poi l’anno dopo, nel 2007 per l’ottantesimo anniversario, siamo diventati una society, e da allora il corteo si tiene ogni anno intorno a questa data».
Quello di Sacco e Vanzetti è un caso emblematico, anche se all’epoca non mancarono molti altri casi di uccisioni di comunisti e anarchici italiani (come lo stesso Andrea Salsedo, amico dei due, “suicidato” dall’Fbi nel 1920), che qui anarchici hanno cominciato a volare dalle finestre ben prima di Pinelli.
Gli italiani, specie i meridionali, furono anche linciati al pari dei neri fino a pochi anni prima, come ha raccontato Enrico Deaglio nel suo recente libro Storia vera e terribile tra Sicilia e America, e una delle chiavi di lettura della vicenda dei due anarchici uccisi a Boston è proprio quella di vederla come una sorta di linciaggio istituzionalizzato, in un’epoca in cui gli Stati Uniti stavano finalmente cominciando a prendere coscienza di questa pratica brutale e fino ad allora ampiamente tollerata dalle autorità.
Ma quello di Sacco e Vanzetti è diventato un caso emblematico non solo per il clamore mediatico che suscitò allora e nei decenni a seguire, ma anche perché continua a intercettare una serie di tematiche assolutamente presenti nella società americana e no. «È una vicenda che racchiude una serie di lotte - continua Reyes - dalle lotte per i diritti degli immigrati, quanto mai attuali oggi negli Stati Uniti, a quelle contro la pena di morte (viene infatti ricordato dal palco che il Connecticut ha recentemente dichiarato incostituzionale questa pratica), fino a quella contro gli abusi degli apparati governativi. Da sempre la marcia ha queste caratteristiche».
Reyes racconta come dieci anni fa la manifestazione partì dal North End, proprio dalla strada dove si trovava l’impresa di pompe funebri che si occupò delle salme dei due e dove aveva sede il Sacco-Vanzetti Defense Committee «e proprio lì, dove si trovava il comitato, di recente abbiamo fatto mettere una targa».
Come molte Little Italy degli Stati Uniti anche questa è soprattutto una zona turistica dove si mettono in mostra (e soprattutto in vendita) scampoli di identità italiana. Una volta era molto diverso: «Sacco e Vanzetti venivano qui, avevano amici e compagni». Oggi invece le comunità italo-americane sono largamente conservatrici e poco interessate all’eredità dei militanti anarchici e comunisti dell’epoca: «Alcuni anni fa siamo riusciti a organizzare una lezione di Howard Zinn su Sacco e Vanzetti insieme alla Dante Alighieri Society, ma per il resto non c’è molto interesse da parte della comunità italo-americana».
Il quartiere, proprio in questi giorni, prepara le varie feste dei santi che si tengono in questo periodo, dove abbondano cibo fritto e italianità venduta un tot al chilo. Sui muri, targhe ricordano poliziotti italo-americani e membri di questa o quell’istituzione governativa, oltre ai caduti per le guerre della nuova patria. Una grande statua della gloria locale, il pugile Tony Demarco (ancora vivo e vegeto), campeggia all’ingresso del North End. «Il nostro obiettivo - conclude Reyes - sarebbe proprio quello di fare un monumento a Sacco e Vanzetti, qui nel quartiere».
Dos Passos rievoca Sacco e Vanzetti
Ottant’anni fa «Davanti alla sedia elettrica»: riedita da Spartaco la storia in cui lo scrittore americano illustra il processo che portò alla condanna dei due anarchici
di Mauro Trotta (il manifesto, 24.08.2007)
L’arresto e la condanna a morte per omicidio di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti suscitarono, negli anni ’20 del ’900, un vastissimo movimento di opinione e di protesta cui presero parte, tra gli altri, Thomas Mann, Romain Rolland, H. G. Wells, Albert Einstein, John Dewey, Walter Benjamin. Per anni, in tutto il mondo, le manifestazioni si alternavano agli appelli, mentre si succedevano le richieste di revisione del processo, tutte respinte. Finché, nel 1926, il governatore Fuller incaricò una commissione presieduta dal rettore di Harvard di decidere sull’opportunità o meno della riapertura del processo. È a questo punto che l’allora trentenne John Dos Passos, all’epoca già celebre per Three Soldiers e Manhattan Transfer, si interessò al caso e cominciò a scrivere alcuni articoli in favore dei due anarchici sulla rivista «New Masses».
Sulla base di quegli articoli, Dos Passos compose e pubblicò, dopo che anche la settima richiesta di revisione era stata respinta, un più ampio pamphlet di cui le edizioni Spartaco pubblicarono per la prima volta qualche anno fa la versione italiana, curata da Piero Colacicchi. Ora, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’esecuzione dei due anarchici, la stessa casa editrice ripropone Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati in una nuova edizione, introdotta da un bel testo di Francesco Durante (pp. 199, euro 13). Il libello, appassionato e interessante, ripercorre con dovizia di particolari tutta la vicenda dei due italiani, dal momento dell’arresto su un tram all’accusa per rapina con duplice omicidio di South Braintree, fino all’incriminazione e alla condanna di Vanzetti per un’altra tentata rapina, avvenuta in precedenza, in un diverso sobborgo di Boston.
Dos Passos descrive con chiarezza come, per arrivare alla condanna a morte, la corte non abbia tenuto alcun conto delle tante testimonianze a favore dei due, prendendo per buone le poche contrarie, tra l’altro confuse e contraddittorie. Si arrivò addirittura a ignorare la confessione di Celestino Madeiros, il quale dichiarò di aver partecipato all’assalto ai portavalori di South Braintree e scagionò i due anarchici. Né ebbero alcun peso le dichiarazioni di poliziotti e confidenti che, in pratica, svelarono la montatura giudiziaria. Pochi tratti bastano a Dos Passos per rendere i protagonisti della vicenda - Sacco e Vanzetti, ma anche il giudice Thayer e il procuratore Katzmann - particolarmente vividi, e lo scrittore americano si rivela un maestro pure nel tratteggiare il clima sociale di quegli anni, con le retate che si succedevano ininterrotte contro «rossi» e radical, mentre gli anarchici, dopo essere stati fermati, venivano trovati sfracellati sotto le finestre del dipartimento di polizia: è il caso del tipografo Andrea Salsedo, il primo, forse, di una lista che come sappiamo non si è fermata al suo nome. Dos Passos tenta anche di spiegare come si avvii e come funzioni ogni montatura giudiziara, la cui base, a suo parere, è «un meccanismo inconscio... una distorsione della mente che fa sì che le persone facciano qualcosa senza sapere perché lo fanno e a volte senza neppure sapere che lo stanno facendo. È l’atto sub-razionale di un gruppo che tramite una serie di azioni, allo stesso tempo mirate e non intenzionali serve, in questo caso, gli scopi della classe che ci governa».
Nonostante gli immani sforzi di tante persone sparse in tutto il mondo, e nonostante la pubblicazione di questo pamphlet, nella notte tra il 22 e il 23 agosto del 1927, Nicola Sacco, trentasei anni, e Bartolomeo Vanzetti, trentanove anni, vennero uccisi sulla sedia elettrica. Ai funerali parteciparono oltre 200.000 persone. A riconoscere la loro innocenza fu lo stesso stato del Massachusetts, che infatti ne riabilitò la memoria nel 1977; da allora i due anarchici abitano la storia e la coscienza popolare, essendo diventati il soggetto di canzoni, di film, di molti libri. Da quel giorno di ottant’anni fa, come ha scritto lo stesso Dos Passos nella sua orazione per Sacco e Vanzetti, «Essi sono liberi dai sogni/ Dai sudici panni del carcere/ Le loro voci esplodono in mille linguaggi/ Cantando una canzone/ Da far scoppiare i timpani al Massachusetts».
L’«asse del boia», quando il nemico diventa alleato
di Umberto De Giovannangeli *
Ventiquattro settembre. Il conto alla rovescia è già iniziato. Ventiquattro settembre: a New York inizia la sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel corso della quale verrà presentata, a nome dei Ventisette Stati membri dell’Unione Europea, la risoluzione per la moratoria universale della pena capitale. Un mese. Per conquistare i consensi necessari a vincere una battaglia di civiltà. Ma il fronte della moratoria deve fare i conti con una «strana», quanto agguerrita alleanza: deve fare i conti con l’«Asse del boia». Un Asse che tiene insieme ciò che sembrerebbe impossibile vedere sulla stessa barricata: gli Stati Uniti e l’Iran. Bush e Ahmadinejad. A completare l’«Asse del boia» c’è un altro Paese potente, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, maglia nera nelle esecuzioni capitali: la Cina. Cambiano le motivazioni, i presupposti giuridici, ma non la sostanza: la pena di morte non va toccata. L’iperpotenza mondiale. Il più agguerrito regime teocratico. Il colosso «comunista» dell’Asia. Ognuno con le proprie motivazioni, ognuno per i propri interessi, Washington, Teheran e Pechino si stanno muovendo per ostacolare al Palazzo di Vetro l’iniziativa per la moratoria che vede l’Italia in prima fila.
Le pressioni verso i Paesi incerti si fanno sempre più stringenti, così come l’azione sui Paesi che hanno dichiarato la loro s«simpatia» per la moratoria ma che non hanno ancora formalizzato il proprio voto a favore. Negli ultime vent’anni, sempre più nazioni hanno abolito la pena capitale. Le sentenze di morte e le esecuzioni vengono ancora praticate in 69 Paese, secondo i dati di Amnesty International. Ma solo pochi fra questi - Cina, Ira, Arabia Saudita e Usa - eseguono la maggior parte delle oltre 4mila esecuzioni di Stato registrate nel mondo ogni anno. Si stima che circa 25mila persone in tutto il mondo siano attualmente detenute nel braccio della morte, secondo l’esperto in diritti umani Mark Warren. Ventiquattro settembre. A sostenere le ragioni della moratoria dalla tribuna dell’Assemblea generale sarà per l’Italia il presidente del Consiglio Romano Prodi, un segnale in più di un impegno che ha unito la stragrande maggioranza delle forze politiche italiane. Lo scontro sarà duro. L’«Asse dei boia» ha infatti deciso di opporsi apertamente alla moratoria davanti all’Assemblea generale, confida all’Unità una fonte diplomatica al Palazzo di Vetro. Finora, 88 Paesi hanno firmato una dichiarazione di adesione alla proposta Ue di moratoria.
Ma la soglia di sicurezza è di almeno 100 firme. Un’anticipazione dello scontro si è avuta ieri, quando il Consiglio d’Europa ha espresso la sua ferma condanna per le esecuzioni capitali di tre detenuti in Giappone e di uno in Texas avvenute nelle ultime quarantott’ore. Il presidente dell’Assemblea parlamentare dell’organismo che vigila sul rispetto dei diritti umani, Renè Van der Linden, ha sottolineato che «la pena di morte non ha spazio legittimo nei sistemi penali delle società moderne», definendo «inaccettabile» che entrambi i Paesi, con status di osservatore all’assemblea che ha sede a Strasburgo, non abbino dato seguito ai suoi appelli per una moratoria immediata della pena capitale. Van der Linden annuncia anche che il 10 ottobre sarà proclamato «giornata europea contro la pena di morte». «Ci rammarichiamo di tutte le le esecuzioni, ovunque nel mondo.
La nostra posizione di principio resta ferma, l’abolizione della pena di morte è qualcosa in cui l’Unione Europea e il Portogallo credono molto e per la quale la presidenza portoghese è impegnata in prima fila», sottolinea il portavoce della presidenza portoghese di turno della Ue, Manuel Carvalho. «La nostra posizione non cambia. Oggi si aggiunge solo rammarico per le nuove esecuzioni», ha rilevato Carvalho, ricordando l’appello lanciato martedì scorso al governatore del Texas Rick Perry affinché sospendesse le condanne a morte nello Stato americano, in occasione della quattrocentesima esecuzione dalla reintroduzione della pena capitale. «Quell’appello è stato lanciato non solo a nome dei 27 Paesi della Ue, ma di tutta l’Europa», ha precisato Carvalho. La dichiarazione, che impegna a sostenere in settembre all’Assemblea generale dell’Onu l’iniziativa di una moratoria universale, è stata infatti sottoscritta anche dai Paesi candidati Turchia, Croazia, Macedonia, dai Paesi candidati potenziali Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia, dai Paesi membri dello Spazio economico ed europeo Islanda, Norvegia e Liechtenstein, così come dall’Ucraina, Moldavia, Armenia e Azerbaijan.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07, Modificato il: 24.08.07 alle ore 12.53