[...] le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency: nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚ posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest’anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.
La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione? [...]
È un tripudio di "vado avanti" (Villari e Iervolino), "se lasciassi sarei un irresponsabile" (Loiero e Bassolino)
di Francesco Merlo (la Repubblica, 19.12.2008)
LE DIMISSIONI in Italia sono sempre state una nobile rarità. Ma solo ora sono diventate ignobili, ripugnanti e vili. E dunque davvero qui non si dimette più nessuno. Nessun topo si sente fuori posto nel formaggio, e nessuno ha l’autorevolezza di imporre le dimissioni a nessuno. Eppure in passato nessun Bassolino e nessuna Iervolino avrebbero potuto resistere al consiglio imperioso di lasciare la poltrona fosse pure per sacrificarsi, nel rito collettivo del capro espiatorio, al bene comune e a un’idea alta di futuro.
E una volta ci si dimetteva anche per amor proprio. Al contrario di quel che pensa Rosa Russo Iervolino ? «vado avanti per difendere la mia onorabilità» ? si lascia non solo quando ci si sente ?al di sotto’, ma anche quando ci si sente ?al di sopra’, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E’ un piacere ascoltare il silenzio di quest’uomo». Insomma, le dimissioni, specie quelle che non vengono date ma sempre rimandate, misurano, oltre che la struttura morale dell’individuo, la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle.
E basti pensare alla debolezza di un partito che applaude il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, perché sentendosi fuori posto egli si è incatenato al suo posto. Dinanzi alla giustizia non ci sono partiti e il segretario di un partito non è un avvocato. In questi casi, la solidarietà o è inutile o è astuta, o è insensata o è corriva. Non si possono confondere i due piani e, infatti, tutti sanno che Veltroni ha per esempio, sotto sotto chiesto, senza riuscire ad averle, le dimissioni di Bassolino al quale è stata tuttavia espressa solidarietà pubblica: «piena e totale fiducia» dunque, ma secondo la famosa formula filosofica del ?qui lo dico e qui lo nego’, bene illustrata al paragrafo due, comma quarto dell’autorevole trattato «Mamma, Ciccio mi tocca; toccami Ciccio, che mamma non c’è».
Alla fine dunque si capisce solo che Veltroni non ha la forza di fare dimettere Bassolino e la Iervolino, ma neppure Villari e Loiero? Eppure una volta ci si dimetteva perché amavi e credevi, oltre che nelle istituzioni, anche nel partito: uscivi per rafforzare il tuo partito. Mi racconta un dirigente del Pd di un Veltroni sconsolato: «Nessuno mi ha creduto e io stesso ormai faccio fatica a credermi. Ma sono mesi che chiedo la testa di Bassolino». Sfiducia in privato, fiducia in pubblico.
Il punto è che non è vero che dimettersi significa ammettere la propria colpevolezza penale ma soltanto la propria inadeguatezza. Dimettersi è dire ?sorry’ e scansarsi, confessare l’errore e non il crimine, e magari anche l’illusione, il sogno fortissimo: scusatemi, pardon. Dimettersi, prima d’esservi costretti, è anche intelligenza, eleganza, è una battuta di spirito.
Prendete invece l’assessore di Firenze Graziano Cioni che, da solo, ha pronunziato una dopo l’altra tutte quelle frasi del repertorio militare alle quali sempre si ricorre a ridosso della fine, da «rimango al mio posto di combattimento» a «non mi arrenderò mai». E infatti qui è un tripudio di «vado avanti» (Villari e Iervolino), «se mi dimettessi sarei un irresponsabile» (Loiero e Bassolino), «non mi consegnerò ai nemici» , «io sono un combattente». Sono tutti Menenio Agrippa, tutti Coriolano, tutti Enrico Toti. E però la metafora di guerra non precede le dimissioni, che in fondo non compromettono il futuro, ma l’irreversibile uscita di scena, la sconfitta definitiva.
E’ vero che in Italia anche in passato le dimissioni erano un lungo sfinimento e si ricorda per esempio un discorso di Forlani con tre finali diversi perché la Dc aveva elaborato la rimozione-promozione, il dimettersi per immettersi in nuovi poteri e un’infinità di altre combinazioni, ?dimissioni con riserva’, ?dimissioni mai’, ?reincarico’, ?sfiducia’?Ma non si era mai vista una resistenza così estesa e così bipartisan. E poi, diciamolo chiaro: non eravamo abituati alla faccia tosta di sinistra, alla sfrontatezza di sinistra, all’impudenza di sinistra che non si vergogna di se stessa. Ancora un passo e arriviamo a Cuffaro che non solo non si dimetteva, ma disarmava il Diritto festeggiando la condanna con i cannoli.
Ecco dunque Villari che può autoproclamarsi eroe della democrazia perché nessuno ha i titoli per farlo vergognare. Villari ha ragione a iscrivere anche il proprio trasformismo nella democrazia italiana. Da La Marmora a Mastella, dai ribaltoni di De Pretis e Minghetti a quelli di D’Alema e Bossi, dalla cacciata di Ricasoli alle cacciate di Prodi: «cospirazioncelle di gabinetto» le chiamava già il primo direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli-Viollier. E però anche dentro il trasformismo nessuno poteva sfuggire all’imposizione delle dimissioni che alla fine smontavano i conflitti e disarmavano le ideologie. E invece qui Agazio Loiero annunzia «non deporrò le armi», Bocchino pensa che l’accusa contro di lui sia «kafkiana», Lusetti ammette d’essere «distratto», ma di dimissioni non ne parla nessuno.
Per non dire del sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, coordinatore di Forza Italia in Campania, indagato per fatti terribili.
Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga. E Marta Vincenzi, sindaco di Genova, quando arrestarono il suo portavoce annunziò: «E’ il giorno più triste della mia vita». Dimissioni? «No. Farò piazza pulita». Ma i portavoce, i sottopanza, i segretari e gli alterego sono solo disgrazie? Gli italiani hanno il diritto di pensarli come protesi, come il guanto che indossa la casalinga per toccare i residui di cucina senza sporcarsi. E l’errore? Quanti errori bisogna commettere prima di ammettere l’incompetenza che non te li ha fatti riconoscere?
Eppure i non dimissionari, dietro l’inadeguatezza dei loro predecessori, furono pronti a scoprire coraggiosamente i delitti e le complicità: delitti non penali ma civili, delitti di indecenza, di sciatteria, di volgarità politica. Ebbene adesso dietro la propria inadeguatezza tutti coraggiosamente scoprono che esistono le cattive azioni senza autore, le malefatte senza malfattori, i colpevoli dall’innocenza adamantina. Così il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara, che è stato arrestato ma non si è ancora dimesso. Insomma le dimissioni sono state definitivamente cancellate dalla politica italiana. Le sole che continueremo a ricordare sono quelle di Francesco Cossiga che, travolto dal senso di colpa, lasciò il ministero dell’Interno dopo l’assassinio di Aldo Moro, e quelle di Dino Zoff che da allenatore della Nazionale non sopportò gli insulti del premier Berlusconi. Nel paese del ?posto fisso’, ecco dunque chi si dimette: il disturbato e il galantuomo.
La soluzione sbagliata
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 19.12.2008)
«No San Vitur? Ahi ahi ahi ahi!» Pare passato un secolo da quando Cuore faceva il verso a uno spot televisivo sbeffeggiando chi non era ancora finito a San Vittore e pubblicava il «bollettino dei latitanti » e sparava titoli come «Scatta l’ora legale / Panico tra i socialisti». Da quando Massimo D’Alema liquidava le parole di Bettino Craxi su Mario Chiesa dicendo che dare del «mariuolo » a qualcuno era «un modo troppo semplice di cavarsela». Da quando la notizia di un avviso di garanzia all’ex premier Giovanni Goria fu accolta dall’assemblea diessina con un applauso.
Mal comune mezzo gaudio? Non hanno senso, a destra, certi commenti del tipo «chi di tangenti ferisce, di tangenti perisce». Sono forse comprensibili, da parte di coloro che per anni sono stati additati come i monopolisti della mala- politica. Ma non hanno senso. Così come appare insensato quel sollievo a sinistra nel sottolineare che nelle retate e negli scandali di questi giorni, tra tanti esponenti del Pd, è rimasto invischiato anche qualche protagonista della destra, quale ad esempio Italo Bocchino.
Il guaio è che il nodo della corruzione in Italia, al di là delle sorti giudiziarie degli indagati, cui auguriamo di dimostrare un’innocenza cristallina, è rimasto irrisolto dai tempi in cui Silvio Berlusconi racconta che «a Milano non si poteva costruire niente se non ti presentavi con l’assegno in bocca». Lo dicono decine di processi in tutto il Paese. Lo confermano gli studi di Grazia Mannozzi e Piercamillo Davigo che esaminando 20 anni di casellari giudiziari hanno accertato che la bustarella non è tramontata mai anche perché le condanne per corruzione (poi ci sono le assoluzioni, le prescrizioni...) sono nel 98% dei casi inferiori ai due anni. Lo denuncia la Banca Mondiale, secondo cui se ne vanno in tangenti, in Italia, 50 miliardi di euro l’anno, tutti soldi che poi, a causa dei rincari delle commesse, pesano sulle tasche dei cittadini. Così come pesano ancora sulle pubbliche casse le mazzette di una volta, che secondo il centro Einaudi di Torino incisero, soltanto negli anni Ottanta, «dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo».
Lo testimoniano infine le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency: nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚ posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest’anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.
La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione?
Italiani brava gente
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21/12/2008)
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
Questione immorale
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 19/12/2008)
La questione morale esplose nel momento in cui si pose una questione politica enorme, scriveva ieri Emanuele Macaluso sulla Stampa. Parlava della crisi del Psi di Craxi e dell’implosione che ne è seguita per l’intero sistema partitico della Prima repubblica. E proiettava la stessa sindrome e la stessa diagnosi sul Pd di Veltroni oggi. Un’analisi acuta.
Ma forse i conti non tornano del tutto. Macaluso segue puntualmente la paralisi partitica interna di un Pd che non sa decidere nulla sulle grandi questioni (Europa e Pse, giustizia, bioetica, alleanza con Di Pietro e - aggiungo - l’ambivalenza verso la Lega). Ma dimentica che il contesto in cui tutto ciò avviene non è paragonabile a quello in cui si consumò l’ultimo craxismo e il tracollo del sistema partitico della Prima Repubblica. Oggi ci sono il berlusconismo vincente e un disorientamento depressivo della società civile che creano un contesto inconfrontabile con quegli anni.
Cominciamo dalla giustizia. È di moda prendere le distanze con toni di sufficienza dalla stagione di Mani pulite, ma si dimentica che - con tutti i suoi errori - fu un soprassalto di emozione collettiva, cui nessuno si sottrasse. Oggi la sfiducia verso la magistratura è diventata endemica. L’accusa di una giustizia politicizzata da arma di parte è diventata un sospetto sistematico. Questo è il regalo avvelenato del berlusconismo agli italiani sia che lo votino o no. Il nuovo attivismo della giustizia non ha l’effetto liberatorio di anni fa. E non è questione di colore politico. Il risultato è che quando tutte le parti partitiche parlano a turno di «riforma della giustizia» nessuno ci crede. Anzi si cerca il trucco.
Questo non vuol dire che i cittadini non reagiscano più alle denunce di corruzione o di cattiva amministrazione. Ma la loro reazione non si trasforma in plusvalore politico come fu negli Anni Novanta. Dà luogo ad astensionismo di protesta o al fenomeno Di Pietro, che non pare abbia le caratteristiche di un’autentica forza politica innovatrice. Da questo punto di vista, Berlusconi ha vinto la sua battaglia contro la giustizia. Deve solo formalizzarla, con l’aiuto tecnico dei suoi zelanti sostenitori.
Passiamo alla grande politica estera. La crisi degli Anni Novanta fu determinata dall’incapacità di reagire al radicale mutamento geopolitico internazionale ed europeo del dopo 1989. L’implosione politica all’interno era insieme il segno e la causa di questa incapacità. Nel giro di pochi anni il peso dell’Italia è drammaticamente diminuito in Europa e nel mondo. Per un certo tempo una parte del ceto diplomatico italiano ha parlato e ha scritto con toni preoccupati di «declassamento» dell’Italia. Con il berlusconismo vincente è proibito parlarne. Il corpo diplomatico si è allineato, confondendo la politica estera con i buoni rapporti economici italiani con il resto del mondo, finché durano.
Ma si può negare che da qualche tempo l’Italia riesca a «fare bella figura»? In effetti si è prodotta una singolare situazione. A suo agio nelle grandi rappresentazioni mediatiche internazionali ed europee, cui si è ridotta la grande politica, Berlusconi ha sempre modo di farsi notare con posizioni magari stravaganti nella forma, tuttavia mai dirompenti nella sostanza. L’ha capito Nicolas Sarkozy che lo conosce bene (per qualche inconfessata affinità elettiva?) quando dice: «Berlusconi inizialmente dice sempre di no, ma poi si adegua». Naturalmente ci si può chiedere se e come le «figure» berlusconiane servano davvero alla politica estera italiana, altrimenti affidata all’onesto lavoro di routine di Franco Frattini. Sì, servono sinché l’economia tiene e reggono le reti di collegamento con l’economia mondiale. Ma proprio su di esse è scesa la mazzata della grande recessione.
Il governo italiano sta reagendo in modo cauto e modesto, sottodimensionato, nascondendosi dietro la grinta intimidente di Giulio Tremonti, l’altra faccia del berlusconismo. Ma la gente ormai è rassegnata. Non si aspetta nulla di più. Accetta tutto passivamente. Questa è la vera catastrofe politica per il Pd all’opposizione. Siamo così tornati al tema da cui siamo partiti. Mentre negli Anni Novanta, dopo la crisi del sistema partitico, il centrosinistra sembrava poter offrire (con Romano Prodi) un’alternativa al primo berlusconismo, oggi non è più così. Ma il problema cruciale è la mancanza di linea e di energia politica, in un contesto mutato, non la questione morale in sé. O se vogliamo, la questione morale è soltanto un sintomo dell’impotenza politica.
Il silenzio delle sentinelle
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 22.12.2008)
Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l’abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti. Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.
Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l’autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell’Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto «avvocati dell’accusa». Andranno in aula «con il cappello in mano» davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge»); l’indipendenza della magistratura (art. 104, «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»); l’unicità dell’ordine giudiziario (art. 107, «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»); l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 ««Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, «L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»).
Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove ? per il momento ? il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole ? e per le stesse ragioni ? di Licio Gelli.
Se non lo si ricorda, davvero «le memorie deperiscono e i fatti fluttuano», come ripete nel deserto Franco Cordero. Appena il 4 dicembre il «maestro venerabile» della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: «Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca». Berlusconi, 20 dicembre: «Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L’architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier».
Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell’opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d’altro). E’ un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un’altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l’impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.
In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) «Sentinella, quanto resta della notte?». In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l’eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l’appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla «nostra notte» «rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)».
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno «spirito di sopraffazione e di rapina». «C’è ? avverte ? una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l’avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito».
I referendum, segnati da «una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore», possono trasformarsi infatti «da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria». Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la «trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica». Vede la nascita, «attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione», di «un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea». Dossetti chiede allora ai cristiani di «riconoscere la notte per notte» e di opporre «un rifiuto cristiano» ritenendo che «non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: «Quanto resta della notte»?