JFK: «Io sono un immigrato» *
IL POPOLO DI SRADICATI CHE HA COSTRUITO LA LIBERA AMERICA
Non c’è nulla di più straordinario della ridda di emozioni e sentimenti che inducono una famiglia a dire addio ai vecchi legami, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera
Strappati alla loro vecchia vita, sbarcavano nel nuovo Paese stremati Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze, dovevano proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro
di John Fitzgerald Kennedy *
l’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana.
Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile. [...]
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.[...]
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville.
Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman:
Questi Stati sono il poema più ampio, /
Qui non v’è solo una nazione ma /
una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro. [...]
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un’epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell’altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l’emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un’avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l’esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l’emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un’influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell’attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all’epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l’equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo.
Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l’aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L’unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria - facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. [...]
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte - persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche - costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». [...]
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l’attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un’intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c’era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l’eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato.
A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l’origine dell’inventiva e dell’ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.[...]
Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all’arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all’interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale, così com’era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie.
Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata [...]. La feccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese». [...]
Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
Traduzione di Marianna Matullo
© Donzelli Editore 2009
*
IL LIBRO
Il testo di John F. Kennedy che in parte pubblichiamo è inserito nel libro La nuova frontiera in uscita da Donzelli (introduzione di Giancarlo Bosetti, 158 pagine, 7 euro) La prima stesura risale al 1957. Da presidente, Kennedy tornò a lavorare sul pamphlet, quando decise di presentare una riforma della legge delle quote degli immigrati
LA COLLANA
Il libro di John F. Kennedy, La nuova frontiera, e quello di Norberto Bobbio, Destra e sinistra (introduzione di Nadia Urbinati, 126 pagine, 7 euro), inaugurano la nuova collana Donzelli “Gli essenziali”. Una serie di libri che affrontano i temi del presente, a partire dalle pagine, dai discorsi, dalle parole “essenziali” di grandi autori
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Un delitto efferato/
Bob Dylan. Murder Most Foul
di Alessandro Carrera *
Con un messaggio sul suo sito www.bobdylan.com e poi su vari social media, Bob Dylan ha annunciato l’uscita di questa sua canzone,Murder Most Foul, dedicata all’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas, Texas il 22 novembre 1963.
La canzone, postata su youtube e ripresa da vari siti, è la prima in otto anni firmata da Dylan (dall’uscita di Tempest, 2012) e stando alla voce e dall’arrangiamento sembra registrata non più di cinque anni fa. “Murder most foul”, il delitto più efferato, è una citazione dall’Amleto di Shakespeare (Atto I, Scena 5; lo spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto) e tutta la canzone, come è nello stile di Dylan, contiene moltissime citazioni da canzoni e film, riferimenti letterari e storici, in particolare relativi all’assassinio di Kennedy il riferimento alla “collinetta erbosa” o grassy knoll verrà immediatamente compreso da chi è convinto che proprio dietro quella collinetta della Dealey Plaza di Dallas si celasse un tiratore scelto) ma non solo.
L’ultima parte è una vera e propria litania, in cui Dylan invoca il disc jockey Wolfman Jack (Robert Preston Smith, 1938-1995) perché suoni, come lamento funebre per il presidente ucciso e per l’America tutta, una selezione di brani musicali (ma anche film) che copre l’intera storia della popular music americana e inglese del Novecento.
La prima volta che Dylan aveva affrontato il tema risale alle ultime settimane del 1963, in una serie di poesie intitolate Kennedy Poems e ufficialmente ancora inedite. Come già Tempest, la canzone dell’album omonimo dedicata all’affondamento del Titanic, Murder Most Foul è una finestra aperta sul tempo, ma non è legata nessun anniversario particolare e la sua uscita nei tempi della pandemia può risuonare come una meditazione sulle speranze tradite dell’America e allo stesso tempo una celebrazione del potere dell’arte di dare senso a eventi la cui verità sembra destinata a sfuggire per sempre (vari accenni fanno capire che Dylan non sembra avere molta fiducia nelle conclusioni ufficiali raggiunte dalla Commissione Warren, ma d’altra parte qui Kennedy è celebrato più per il suo mito che per la sua eredità storica).
La musica può ricordare a tratti Not Dark Yet dall’album Time Out of Mind del 1997, ma è più semplice, appena accennata, e fa di Murder Most Foul quasi un poema intonato con accompagnamento musicale di pianoforte, viola, contrabbasso e batteria. Di sedici minuti e cinquantasei secondi, è il brano più lungo registrato da Dylan.
Il testo merita una lunga e dettagliata analisi che non è questa la sede per affrontare. Ne offro una traduzione basata su una trascrizione trovata in internet, da me rivista e corretta sulla base dell’ascolto del brano.
Alessandro Carrera
Un delitto efferato
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità
il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,
un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire.
Condotto al macello come un agnello da sacrificio,
dice un momento ragazzi, voi sapete chi sono?
Sicuro che lo sappiamo, sappiamo bene chi sei tu.
Era ancora in macchina quando la testa gliela fecero saltare.
Ammazzato come un cane alla luce del sole,
questione di tempo, e il tempismo era perfetto.
Hai dei debiti in sospeso, siamo qui per ritirare,
ti uccideremo con odio, senza il minimo rispetto.
Ne rideremo, ti stordiremo, te lo butteremo in faccia,
abbiamo già qualcuno qui per prendere il tuo posto.
Il giorno che al re fecero saltare le cervella
migliaia guardavano, nessuno vide niente,
avvenne così in fretta, così in fretta di sorpresa,
proprio lì davanti agli occhi di ciascuno,
la più grande magia mai compiuta sotto il sole,
perfetta esecuzione, un tocco da maestro,
Uomo lupo, oh uomo lupo, oh uomo lupo manda il tuo ululato,
è il gioco del cucù, è un delitto efferato.
Zitti bambini, che poi lo capirete,
stanno arrivando i Beatles, per la mano vi terrete.
Una scivolata giù per la ringhiera, andate a prendere la giacca,
attraversate il Mersey e afferrate il mondo per la gola.
Ecco tre barboni, vestiti da far pena,
raccattate i pezzi e a mezz’asta le bandiere.
Io vado a Woodstock, è l’Era dell’Acquario,
poi andrò ad Altamont e starò vicino al palco.
Sporgiti dal finestrino, goditi la vita,
c’è un party proprio dietro quella collinetta erbosa.
Impila i mattoni, versa il cemento,
non dica che Dallas non la ama, Signor Presidente.
Pigia sull’acceleratore, infila il piede fin nel serbatoio
cerca di arrivare al triplo sottopassaggio.
Tu cantante al nerofumo, tu pagliaccio con la biacca,
non fatevi vedere dopo il calar del sole.
Nel quartiere a luci rosse come un poliziotto in caccia
a vivere nell’incubo di Elm Street.
Se ti trovi a Deep Ellum metti i soldi in una scarpa,
non chiedere che cosa il tuo paese farà mai per te,
qui non si fa credito, soldi da bruciare,
A Dealey Plaza a sinistra devi svoltare.
Vado all’incrocio, farò l’autostop,
fede, speranza e carità, è lì che sono morte.
Sparategli che corre, ragazzi, sparategli finché potete,
Vediamo se l’uomo invisibile lo colpirete.
Addio Charlie, addio Zio Sam,
francamente, Miss Scarlett, non me ne frega niente.
Qual è la verità? Dove se n’è andata?
Chiedi a Oswald e Ruby, dovrebbero saperlo.
Civetta saggia dice, risparmia pure il fiato,
Gli affari sono affari, è un delitto efferato.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
Mi chino a sinistra, ho la testa sul suo grembo,
oh Dio, sono finito in una trappola.
Bene, non chiediamo tregua e tregua non ne diamo,
siamo qui sulla strada vicino a quella dove stai.
Gli hanno mutilato il corpo, gli hanno preso le cervella,
che altro hanno fatto, accanirsi sulla pena,
ma la sua anima non c’era, dove mai poteva stare,
per cinquant’anni non han fatto altro che cercare.
Libertà, oh libertà, libertà dal bisogno,
mi spiace dirglielo, signore, ma solo I morti sono liberi.
Dammi un po’ d’amore, non dirmi una bugia,
getta l’arma nello scolo e vattene via.
Svegliati piccola Suzie, andiamo a fare un giro,
oltre il Trinity River, teniamo gli occhi aperti.
Accendi la radio, non toccare i comandi,
da qui a Heartland Hospital sono solo sei miglia.
Mi fai girare la testa Ms. Lizzy, mi riempi di piombo,
quella tua magica pallottola viene avanti come niente.
Sono solo un allocco, un patsy come Patsy Cline,
non ho mai sparato a nessuno né davanti né dietro,
ho sangue in un occhio, sangue in un orecchio,
alla nuova frontiera non ci arriverò mai
Il film di Zapruder l’ho visto ieri notte,
trentatré volte almeno, forse anche di più.
È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo,
la cosa più brutta che si possa vedere.
L’hanno ucciso una volta, l’hanno ucciso una seconda
l’hanno ucciso come in un sacrificio umano.
Il giorno che l’hanno ucciso qualcuno mi ha detto ragazzo mio,
l’età dell’Anticristo è appena cominciata.
L’Air Force One è arrivato all’imbarco
Johnson ha giurato alle 2.38.
Fammelo sapere quando la spugna avrai gettato,
È quello che è, un delitto efferato.
Gattina mia, qual è la novità, che cosa c’è da dire?
Ho detto che l’anima della nazione è stata lacerata,
la sua lunga decadenza ormai è cominciata,
e che siamo a trentasei ore dopo il giorno del giudizio
Wolfman Jack parla in lingua,
a pieni polmoni e non la smette più.
Metti su una canzone, Mr. Wolfman Jack
suonala per me nella mia lunga Cadillac.
Suonami Only the Good Die Young,
portami là dove hanno impiccato Tom Dooley.
La Saint James Infirmary alla corte di King James,
se vuoi ricordare è meglio che ti scrivi i nomi.
Suonami anche Etta James, suonami I’d Rather Go Blind,
suonala per l’uomo con la mente telepatica.
Suona John Lee Hooker, suona Scratch My Back,
per quello che teneva lo strip club e di nome aveva Jack.
Guitar Slim, Goin’ Down Slow,
Suonala per me e per Marilyn Monroe.
Suona Please, Don’t Let Me Be Misunderstood.
Suonala per la first lady che non si sente niente bene.
Suona Don Henley, suona Glenn Frey,
porta tutto all’estremo e poi mollalo lì.
Suonala pure per Carl Wilson
che guarda da lontano alla Gower Avenue,
suona la tragedia, suona Twilight Time,
riportami a Tulsa, alla scena del delitto.
Suonane un’altra e Another One Bites the Dust,
suona The Old Rugged Cross e In God We Trust.
Monta su quel cavallo dal pelo rosa, prendi la strada deserta,
sta’ lì e aspetta che gli esploda la testa.
Suona Mystery Train per Mr. Mystery,
l’uomo che cadde morto come un albero senza radici.
Suonala per il reverendo, suonala per il parroco,
suonala per il cane che non ha un padrone.
Suona Oscar Peterson, suona Stan Getz,
suona Blue Skies, suona Dickey Betts,
suona Art Pepper, Thelonious Monk,
Charlie Parker e tutta quella roba,
tutta quella roba e tutto quel jazz,
suona qualcosa per L’uomo di Alcatraz.
Suona Buster Keaton, suona Harold Lloyd,
suona Bugsy Siegel, suona Pretty Boy Floyd,
gioca i numeri del lotto, calcola le quote,
suona Cry Me a River per il signore degli dei
suona Number Nine e suona il numero sei,
suona per Lindsey e per Stevie Nicks,
suona Nat King Cole, suona Nature Boy,
suona Down in the Boondocks per Terry Malloy,
suona Accadde una notte e One Night of Sin
ti stanno ascoltando in dodici milioni.
Suona il Mercante di Venezia, suona i mercanti di morte,
suona Stella by Starlight da Lady Macbeth.
Non tema Presidente, c’è aiuto in arrivo,
saranno qui i suoi fratelli, gliela faranno pagare.
Fratelli, che fratelli? Che cosa faranno pagare?
Ditegli che li aspettiamo, vengano pure, sistemeremo anche loro.
Love Field è dove l’aeroplano è atterrato,
ma poi non è più ripartito.
Impossibile stargli alla pari, secondo a nessuno.
l’hanno ucciso sull’altare del sole nascente.
Suona Play Misty for Me e That Old Devil Moon,
suona Anything Goes e Memphis in June,
suona Lonely at the Top e Lonely Are the Brave,
suona per Houdini che si rivolta nella tomba,
suona Jelly Roll Morton, suona Lucille,
suona Deep in a Dream e suona Driving Wheel,
Suona la Sonata al Chiaro di Luna in fa diesis
e Key to the Highway eseguita dal re dell’armonica.
Suona Marching through Georgia e Dumbarton Drums,
suona Darkness and Death che verrà quando verrà,
suona Love Me or Leave Me del grande Bud Powell,
suona lo stendardo insanguinato, suona il delitto efferato.
* Doppiozero, 02.04.2020 (ripresa parziale).
FLS
Bob Kennedy, la faccia morale dell’America finita nel sangue
Le lotte contro la segregazione razziale e le marce per i diritti dei latinos
di Furio Colombo (Il Fatto, 06.06.2018)
Quando cominci a parlare - nel mio caso, a riparlare - di Robert Kennedy, ti accorgi che qualcosa di diverso, di insolito e anche di difficile da spiegare, segna il ricordo e la riflessione, rispetto a ogni altro politico. Per esempio, con Robert Kennedy sei entrato nella segregazione razziale che conosceva ancora il linciaggio, e sei uscito in un mondo di diritti ottenuto con una sfida che è stata insieme di popolo e di governo, di grandi manifestazioni di massa combattute contro una polizia accanitamente ostile (cani lupo, bastoni e pompe d’acqua), ma con a fianco un ministro della Giustizia disposto, con le truppe federali, a tener testa a un governatore che aveva già schierato la sua guardia nazionale intorno alla sua università segregata. Il governatore Wallace, a gambe divaricate, davanti al portone da non valicare, ha spiegato: “Sono stato eletto per questo”. Il ministro della Giustizia, Robert Kennedy, ha risposto. “Sei stato eletto giurando sulla Costituzione”. Kennedy ha precisato che un’Alabama fuori dalla Costituzione sarebbe stato anche fuori dagli Strati Uniti. Quella stessa sera il primo afroamericano ha fatto il suo ingresso nell’università fino ad allora segregata.
Questo episodio, come tanti durante la lotta per i diritti civili, ci dice molto della tenacia e della forza morale di Robert Kennedy. Ma voglio far notare che ho detto forza morale, non forza politica. Politicamente Kennedy non era né più grande né più forte dei suoi elettori democratici al Congresso e nel Paese.
Tutti sapevano tutto dell’esclusione e umiliazione dei neri, e non avevano, fino a quel momento, mosso un dito. Ma durante la lotta per i diritti civili, che ha visto il governo americano (in prima fila il ministro della Giustizia) schierato dalla parte degli umiliati e offesi, è emerso un aspetto nuovo, unico e breve nella politica americana: la forza morale. Comincia qui la presenza di un fatto nuovo di cui è rappresentante e portatore Robert Kennedy. Non è la politica che affronta il problema della spaccatura razziale del Paese, non saprebbe come e non può perché.
Il conflitto nasce completamente fuori dalla politica, e - attraverso la voce di Martin Luther King -, diventa la grande questione morale. Robert Kennedy la raccoglie e capisce che quella è la strada che va al di là del razzismo, al di là della vita dei poveri, al di là delle disuguaglianze mortali. E, poco dopo, al di là e contro la guerra nel Vietnam.
Robert Kennedy si rende conto di essere entrato (fin dall’uccisione di suo fratello) nell’area della non convenienza, che dissuade ogni politico, nell’area del pericolo, perché ti opponi troppo a troppe cose che hanno un peso (e un costo) troppo grande. La sua immagine, sempre più amata e seguita da masse di giovani, si contrappone a volti e poteri non visibili.
Il fenomeno strano, che resta unico nella nostra memoria, è che “la sua strada sbagliata” (cito il senatore Humphrey, democratico e amico di famiglia che rimproverava a Robert Kennedy) gli porta un successo popolare immenso che, subito prima di essere ucciso, ha travolto l’America.
Ho vissuto giorno per giorno quell’ultimo periodo di febbre affettuosa ed entusiasta, una febbre sempre più grande. Ho partecipato, giorno per giorno, all’ultima campagna elettorale di Robert Kennedy e ricordo, ogni sera, le mani piagate da decine di migliaia di strette di mano.
Ma adesso, mentre ne scrivo nel giorno dell’anniversario del suo assassinio, non riesco a non ricordare un altro evento di cui Robert Kennedy è stato protagonista. È accaduto due anni prima. L’ex ministro della Giustizia si era messo alla testa di una lunga marcia dei raccoglitori di uva messicani, portati in California come clandestini, per raccogliere l’uva di immense coltivazioni per paghe inesistenti. La marcia a piedi partiva da El Centro e arrivava a Sacramento, e accanto a Robert Kennedy c’era Cesar Chavez, improvvisato sindacalista dei contadini senza paga, uomo intelligente e analfabeta, capace di tener testa alle televisioni in modo da coinvolgere l’intera America in un famoso “sciopero dell’uva”.
Ecco, ripensando e rivedendo la testa del giovane leader assassinato, mentre viene scrutata dai flash e dalle telecamere, sul pavimento dell’Hotel Ambassador, mi ricordo di quella marcia in cui Robert Kennedy e Cesar Chavez parlavano insieme alla folla, l’uno nello spagnolo dei campi, l’altro nel suo inglese di Harvard. E mi domando: può esistere una santità laica? E come mai, adesso, il luogo in cui viviamo (dall’America di Kennedy all’Italia di Spinelli e Colorni) sia diventato un mondo carogna, con le frontiere di filo spinato a lama di rasoio, in modo che i bambini con la faccia sfregiata siano i primi a imparare che le frontiere non si attraversano?
GUARIRE LA NOSTRA TERRA*
Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STATI UNITI D’AMERICA: 23 AGOSTO 1927. SEDIA ELETTRICA PER DUE INNOCENTI - DUE ANARCHICI ITALIANI, NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI
RIPENSARE L’EUROPA!!! La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
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DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
La riforma dell’immigrazione di Obama
di David Nakamura ( The Washington Post *
Obama ha deciso di procedere con un ordine esecutivo, che ha effetto immediato, sfidando il Congresso: ed evitare l’espulsione di 11 milioni di immigrati non regolari
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha sostenuto una tesi morale e legale per provare a convincere gli statunitensi che la sua decisione di procedere unilateralmente a proteggere milioni di immigrati non regolari dalla espulsione ha solide basi ed è necessaria per riparare il sistema malfunzionante dell’immigrazione.
Durante un discorso tenuto alla Casa Bianca in serata (in Italia era notte) Obama ha esposto il suo piano per offrire aiuti dal punto di vista amministrativo e permessi di soggiorno e lavoro a circa 3,7 milioni di persone senza documenti che sono genitori di cittadini e residenti statunitensi, e a circa 300mila giovani immigrati portati nel paese illecitamente quando erano bambini.
Nel farlo, Obama ha sfidato gli oppositori ad approvare una nuova legge che riformi in modo permanente il sistema dell’immigrazione, invece di difendere una politica che finora ha contribuito solo a “dividere le famiglie”. Ha citato sia la Bibbia che il suo predecessore Repubblicano, chiedendo una visione più compassionevole della questione immigrazione negli Stati Uniti, ricordando i valori del lavorare sodo, dell’istruzione e del volere il meglio per i propri figli, che stanno a cuore alla maggior parte delle persone che emigrano nel paese in modo illecito.
Obama ha detto che si tratta di una decisione di “buon senso” che permetterà agli immigrati irregolari di venire fuori dall’ombra e di mettersi a posto con la legge. Ha poi ricordato che a Washington è necessario superare l’attuale stallo politico per affrontare provvedimenti di questo tipo, anche se i risultati delle elezioni di metà mandato hanno complicato le cose e porteranno presto i Repubblicani a controllare interamente il Congresso.
Il presidente ha spiegato che un’espulsione di massa degli oltre 11 milioni di immigrati irregolari “sarebbe sia impossibile sia contraria alla nostra indole”. L’obiettivo è inoltre concentrare le attenzioni e le risorse delle guardie di confine nella gestione dei casi più a rischio, in modo da ridurre gli “effettivi pericoli per la sicurezza”: e ha ricordato che questi pericoli sono costituiti dall’arrivo nel paese di criminali. “Criminali, non famiglie”, ha ripetuto Obama durante il discorso per chiarire questo punto.
La decisione di Obama di decidere autonomamente la riforma con un ordine esecutivo arriva a due anni di distanza dalla sua promessa, pronunciata poco dopo la rielezione, di attuare una riforma del sistema dell’immigrazione per offrire un percorso più semplice a chi intende ottenere la cittadinanza e non è un immigrato regolare. L’obiettivo di fare passare una legge sul tema era svanito quest’estate, dopo una lunga serie di contese politiche al Congresso.
Nel suo discorso, durato 15 minuti, Obama ha provato a incentivare il sostegno da parte dell’opinione pubblica alla sua decisione, e dare un chiaro messaggio agli oppositori più duri tra i Repubblicani, che hanno promesso di contrastare duramente l’utilizzo da parte dello stesso Obama di ordini esecutivi che di fatto escludono il potere legislativo. Obama venerdì sarà a Las Vegas per tenere un comizio ed è probabile che torni sull’argomento.
Ancora prima che Obama partisse per il suo viaggio, i leader del partito Repubblicano si sono riuniti per decidere come fermare il suo piano. In entrambe le camere del Congresso, i Repubblicani hanno discusso la possibilità di avviare un’iniziativa legale per contrastare l’autorità del presidente per quanto riguarda gli ordini esecutivi, provando in questo modo a portare avanti la loro riforma dell’immigrazione o per ridurre fondi e risorse alle agenzie governative che si occupano del tema.
“Ignorando la volontà del popolo statunitense, il presidente Obama ha dato nuova conferma dell’eredità che vuole lasciare, fatta di illegalità e sperperi, cosa che lo rende ancora meno credibile” ha detto il presidente della Camera, John A. Boehner, commentando il discorso di Obama. “I Repubblicani non hanno altra responsabilità che confermare il loro giuramento quando hanno assunto i loro incarichi parlamentari. Non ci sfileremo dal nostro dovere. Ascolteremo la popolazione, lavoreremo con i nostri colleghi e proteggeremo la Costituzione”.
I consulenti legali della Casa Bianca confidano invece che Obama abbia margini a sufficienza per tenere fede al proprio impegno. Hanno citato ordini esecutivi emessi in precedenza da presidenti Repubblicani, compresi quelli voluti da Ronald Reagan e George H. W. Bush, che firmarono ordini per proteggere piccoli gruppi di immigrati irregolari dall’espulsione.
I funzionari della Casa Bianca hanno diffuso una serie di dati statistici, che dimostrano come un ordine esecutivo di Bush permise di proteggere la stessa percentuale di immigrati non regolari di cui Obama intende occuparsi: si tratta comunque di molte meno persone in termini assoluti perché nei primi anni Novanta c’erano solamente 3,5 milioni di immigrati irregolari negli Stati Uniti.
Rispondendo alla critica più grande mossa al suo piano dai Repubblicani, e cioè che gli immigrati irregolari vengono così di fatto premiati per avere violato la legge rimanendo nel paese, Obama ha ricordato che coloro che saranno regolarizzati dovranno poi pagare le tasse e non potranno accedere in modo diretto alla cittadinanza. Ha poi spiegato che molti degli immigrati senza documenti “sono statunitensi quanto Malia o Sasha”, le sue due figlie, e ha citato George W. Bush quando disse che questi immigrati “fanno parte della vita degli statunitensi”.
“La vera amnistia è il sistema che abbiamo adesso: milioni di persone vivono qui senza pagare le loro tasse o seguire le regole, mentre i politici usano questo argomento per spaventare la gente e rimediare voti durante le elezioni. Questa è la vera amnistia: lasciare così com’è un sistema che non funziona”, ha detto Obama durante il suo discorso.
Il piano, ampiamente anticipato nei giorni scorsi, prevede che gli immigrati irregolari che sono genitori di cittadini statunitensi e di residenti negli Stati Uniti - sono molti, perché i figli degli irregolari nati negli Stati Uniti sono americani per lo ius soli - possano essere regolarizzati solo se hanno vissuto nel paese per almeno cinque anni, a partire dal primo gennaio 2010. Il governo ha detto che potrà iniziare a raccogliere le richieste a partire dalla prossima primavera e che coloro che potranno farlo saranno esentati dall’espulsione per tre anni, in modo da offrire loro qualche garanzia in più ancora per un anno dopo la fine del mandato di Obama. Il programma potrà poi essere rinnovato o chiuso dal suo successore alla Casa Bianca.
Le garanzie contro l’espulsione sono di un anno più lunghe rispetto a quanto già deciso dal governo di Obama con un altro programma, avviato nel 2012 e indirizzato ai più giovani, noto come DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals). Lo stesso DACA sarà rivisto per offrire tre anni di garanzie e sarà applicato per gli immigrati non regolari arrivati negli Stati Uniti a partire dal primo gennaio 2010, e non più dal 15 giugno 2007. È anche prevista la creazione di un tipo di visto per i migranti che possono dimostrare di essere interessati a investire economicamente negli Stati Uniti e per gli impiegati del settore tecnologico.
Il segretario del Dipartimento della Sicurezza Interna, Jeh Johnson, nel frattempo, produrrà nuove linee guida per le agenzie governative che si occupano di immigrazione spiegando nel dettaglio le nuove regole. Il governo di Obama ha finora espulso circa 400mila migranti ogni anno e ha provato a farlo dando la precedenza ai criminali, ai terroristi e in generale a persone che si crede possano nuocere alla sicurezza nazionale. Ma gli agenti sul campo lamentano da tempo che le linee guida sono difficili da seguire e, in molti casi, sono stati accusati dai legali dei migranti di non saperle utilizzare.
Johnson chiuderà anche un programma piuttosto controverso chiamato “Comunità sicure”, che richiede alle forze di polizia locali di trattenere gli immigrati arrestati fino a quando i loro casi non vengono analizzati dagli agenti federali dell’immigrazione. Questo sistema sarà rimpiazzato con una nuova soluzione grazie alla quale i migranti arrestati dovranno sempre fornire le loro impronte digitali, ma in compenso spetterà alle agenzie locali stabilire se avvisare quelle federali per un’avvenuta violazione della legge sull’immigrazione.
“Il tipo di ordini che sto dando non sono solo fatti nel pieno della legge, sono il tipo di ordini fatti propri da ogni singolo presidente Repubblicano e da ogni singolo presidente Democratico negli ultimi 50 anni” ha detto Obama, ricordando poi: “A quei membri del Congresso che mettono in discussione la mia autorità nel provvedere a fare funzionare meglio il nostro sistema dell’immigrazione, o che mettono in discussione la mia capacità di agire dove il Congresso ha fallito, dico una sola cosa: approvate una legge”.
© The Washington Post
* FONTE: IL POST, 21 novembre 2014 (ripresa parziale).
Chi sono oggi i nostri fratelli
di Igiaba Scego (l’Unità, 23 novembre 2011)
Frank Sinatra, Lady Gaga, Nancy Pelosi, Joe di Maggio, Dean Martin, Luisa Veronica Ciccone (in arte Madonna), Robert de Niro, Martin Scorsese, Rocky Marciano, Francis Ford Coppola, John Fante, Ani di Franco, Nicholas Cage... e l’elenco potrebbe continuare. Sono nomi di italo-americani famosi. Persone che hanno dato lustro a due Paesi: gli Stati Uniti d’America, dove sono nati o emigrati da piccoli insieme ai genitori, e l’Italia, dove parte della loro storia affonda le radici. Nessuno si permetterebbe di dire oggi a Madonna o a Martin Scorsese «tu non sei un vero americano». Purtroppo questo succede tutti i giorni ai figli dei migranti qui in Italia.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano da tempo richiama l’attenzione dell’opinione pubblica sulla paradossale, quasi pirandelliana, situazione dei figli dei migranti nati in Italia e sull’anacronistica legge che costringe ragazzi italiani a vivere da stranieri nella propria nazione. Ragazzi che spesso non vengono riconosciuti sia dal Paese di origine dei genitori sia dal Paese di nascita, ossia l’Italia. Il Presidente ha giustamente detto che è folle non riconoscere questo diritto. Purtroppo per calcoli di bassa politica c’è chi rema contro una legge di civiltà come può essere questa sulla cittadinanza. E lo fa con dichiarazioni che non tengono conto né della realtà di oggi né della storia di ieri.
L’Italia è stato Paese di emigrazione (ed in un certo senso lo è ancora, sono tanti ancora a partire, a cercare fortuna all’estero). Penso in particolar modo agli italiani negli Stati Uniti d’America che hanno dovuto lottare per poter essere riconosciuti come cittadini.
All’indomani della prima guerra mondiale chi si arruolava otteneva la cittadinanza. Purtroppo, finita la guerra, il Ku Klux Khan e i (fatemeli chiamare così) “leghisti” americani rialzarono la testa. Gli italiani furono oggetti di sevizie e linciaggi. La cittadinanza ritornò ad essere un sogno. Si dovette aspettare la fine della seconda guerra mondiale per veder muoversi qualcosa in questo senso. Però la cittadinanza allora era considerata come completa assimilazione. Si doveva essere americani al 100% e rifiutare completamente la propria parte italiana. Gli italiani accettarono. Si doveva pensare al futuro, ai figli. Per questo si cercò di dimenticare l’Italia. Poi finalmente i tempi cambiarono. La stagione dei sacrifici e delle rinunce terminò. E l’Italia rispuntò magicamente fuori dai cilindri dei vecchi emigranti.
Oggi una Nancy Pelosi al congresso Usa o un Robert de Niro non si vergognano di avere avi italiani. Ma questo di certo non li rende meno americani.
La storia degli emigranti, per una strana associazione, mi ha fatto ripensare ad un vecchio film, La legge è legge, con Totò e Fernandel che ho visto da piccola. Non so se sia ancora in commercio, spero proprio di sì. Una storia rocambolesca dove Fernandel essendo nato in una cucina italiana di una casa francese, proprio nella linea dove passa il confine tra Italia e Francia, si ritrova all’improvviso senza patria. Non lo vuole la Francia, non lo vuole l’Italia. La scena con i gendarmi al confine è una scena da mettere negli annali della storia del cinema.
L’italiano gli dicono «via via», i francesi «vada vada». Tutti lo cacciano e lui a un certo punto chiede: «Ma che cosa sono? Vorrei sapere per piacere se esisto non esisto». Quando i gendarmi gli rispondono in coro: «Di fronte alla legge no», un Fernandel sconsolato dice: «Ah allora se ho capito bene per voi l’esistenza di un uomo non conta affatto...». Spero proprio che l’Italia non faccia più l’errore di quei gendarmi. Sarebbe davvero folle.
Quando Bossi sbarcò in America
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 23 novembre 2011)
L’emigrante Napolitano Giorgio sbarcò ad Ellis Island nel 1922, tredici anni dopo Bossi Umberto. Cinque anni dopo erano americani. I loro omonimi attuali, però, la pensano assai diversamente sulla cittadinanza agli immigrati. E se il presidente della Repubblica è convinto che debba essere riconosciuto come italiano ogni bambino che nasce in Italia, il Senatur e la Lega restano bellicosamente ostili.
Nei registri monitorati dalla «Fondazione Agnelli» diretta da Maddalena Tirabassi, di immigrati che di cognome facevano Napolitano, dal 1892 al 1924, ne sbarcarono a Ellis Island esattamente 2.613. Altri 1.882 Napolitano sbarcarono dal 1882 al 1960 in Argentina. Altri ancora si sparpagliarono per il Brasile, la Francia, il Belgio, la Germania... E tutti i loro figli (come tutti i figli dei Bossi e dei Maroni e dei Castelli emigrati) sono diventati americani, argentini, brasiliani, francesi, belgi, tedeschi...
Il capo lo Stato non lo dimentica. E dopo avere qualche giorno fa ricordato l’importanza dei ragazzi nati in Italia durante l’incontro con la Nazionale italiana e in particolare il bresciano di pelle nera Mario Balotelli, è tornato ieri sul tema sottolineando come sia ormai maturo il passaggio dallo «ius sanguinis» allo «ius soli». Vale a dire dal diritto al passaporto legato alla nazionalità dei genitori a quello legato al luogo di nascita: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità».
Immediata rivolta a destra. A partire da Maurizio Gasparri («Ma si vuole facilitare o complicare la vita del nuovo governo? Noi lo sosteniamo con lealtà, ma se si mettessero in agenda temi come la modifica della legge sulla cittadinanza...») fino a Roberto Calderoli, che minaccia barricate: «La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ius soli e non sullo ius sanguinis. Non vorrei che questa idea altro non sia che il “cavallo di Troia” che, utilizzando l’immagine dei “poveri bambini”, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Un’obiezione antica. Nata dalla convinzione che gli immigrati siano tendenzialmente portati a votare «a sinistra». E che dunque un’irruzione di voti freschi possa aiutare chi oggi sta con Bersani, Di Pietro e soprattutto Vendola. Chi studia l’emigrazione, in realtà, sa che generalmente succede l’esatto contrario. L’immigrato che si è inserito tende spesso a essere conservatore e più rigido verso i nuovi immigrati che non i cittadini originari. Perché li vede come possibili «concorrenti». Perché teme che possano destabilizzare la situazione in cui loro sono già inseriti. Perché via via si sono immedesimati nella nuova realtà al punto che desiderano dimostrare a tutti gli altri di essere diventati «dei loro».
È sempre andata così. In America, in Australia, in Francia... Chi riesce a togliersi dall’ultimo gradino della scala sociale trova spesso naturale voltarsi indietro appena è salito sul penultimo per sputare su chi ha preso sotto il suo posto. I nostri nonni hanno fatto le spese di tutto questo: pochi sono stati razzisti con gli italiani quanto gli irlandesi che fino a poco prima erano stati discriminati. E al linciaggio di undici siciliani a New Orleans, il 15 marzo 1891, non a caso parteciparono migliaia di neri. Volevano affermare un principio: noi siamo più americani di voi.
Al di là di queste polemiche e dei ruoli diversi che spettano al governo Monti, chiamato a risanare i conti, e al Parlamento (dove 133 senatori democratici, dipietristi e del Terzo polo trascinati da Ignazio Marino hanno presentato una proposta per dare il passaporto italiano a ogni bimbo nato qui a prescindere da quello dei genitori), il tema della cittadinanza si è fatto ormai ineludibile.
Basti dire che ogni anno, come spiegano nel loro libro Cose da non credere l’economista Guglielmo Weber e il demografo Gianpiero Dalla Zuanna, nascono in Italia circa 100.000 bambini che hanno almeno un genitore straniero. Di più, nel loro saggio Una classe a colori Vinicio Ongini e ClaudiaNosenghi dicono che già un paio di anni fa su circa 58.000 scuole quasi 15.000 avevano più di un alunno su 10 straniero, in 500 la percentuale superava il 50% e in 24 toccava o oltrepassava l’80%. Come al plesso scolastico «Pestalozzi», nella zona Monte Rosa, a Torino. Dove nel 2010 gli scolari con il cognome straniero sono stati 118 contro 65 italiani. Ma fino a che punto quei bambini sono «stranieri», se ben 105 sono nati a Torino o comunque in Italia, tifano Juventus o Milan, crescono guardando i cartoni animati della «Valle incantata» e studiano sui sussidiari le avventure di Giuseppe Garibaldi? Ha senso ospitare centinaia di migliaia di bambini e di ragazzi che si sentono italiani, si vestono come i loro coetanei italiani, parlano fra di loro in italiano, fanno soffrire i loro genitori legati al Paese di provenienza rivendicando la loro italianità; ha senso tutto questo senza riconoscere loro il diritto al passaporto italiano?
Quei bambini di cognome straniero ma nati a Torino, se fossero nati in Francia sarebbero francesi, negli States statunitensi, in Brasile brasiliani, in Argentina argentini, in Germania tedeschi. Proprio perché in quei Paesi da un paio di secoli, o più di recente, si sono resi conto di un punto centrale: è difficile chiedere alle persone di essere dei buoni cittadini se non sono pienamente cittadini.
Proprio a proposito dei figli, vale la pena di ricordare cosa risposero le autorità scolastiche di Boston alla giornalista e sociologa italoamericana Amy Bernardy che nel 1909, compiendo un’inchiesta sugli emigrati italiani negli Stati Uniti, aveva chiesto di sapere quanti fossero gli scolari del Massachusetts di origine italiana. La replica fu secca. Spiacenti, ma nessun dato: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono americani e non desideriamo incoraggiare alcuna ricerca tendente a differenziare gli americani di una discendenza, dagli americani di discendenza diversa». Del resto, 2.200 anni fa, in Cina, il celeberrimo Libro del Maestro di Huainan spiegava già tutto: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (...) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria...».
I bambini del futuro
di Giuseppe Caliceti (l’Unità, 23 novembre 2011)
Chiedo ai miei alunni di otto anni se considerano il loro compagno di classe Hassan e gli altri alunni di origine straniera presenti in classe - nati in Italia ma con i genitori di origine straniera - dei bambini italiani o stranieri. Tutti rispondono che sono italiani. Tranne due, che specificano: «Per me Hassan, per esempio, e italo-marocchino». Ecco risolto il problema della cittadinanza per i bambini. Con semplicità, lucidità, fermezza. Forse perché i bambini vengono dal futuro, come ha scritto il poeta Andrea Zanzotto. Ascoltando le loro parole, noi adulti abbiamo la possibilità di parlare con chi sarà adulto domani. Di vedere come sarà domani il nostro mondo, quando noi saremo vecchi o non ci saremo più.
L’intervento deciso di Giorgio Napolitano riapre con forza un tema centrale per l’Italia. Negare la cittadinanza italiana ai bambini che nascono nelle nostre città è sicuramente «un’autentica follia, un’assurdità». Nessuno più dei docenti italiani sa quanto sia vera e appassionata questa aspirazione. Un’altra mia alunna di qualche anno fa, Vera, undici anni disse in classe con semplicità: «Io sono nata in Italia, però mia mamma e mio papà sono albanesi. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io, se non mi sono mai spostata da qui, sono immigrata?».
A queste domande noi adulti italiani, per troppo tempo, non abbiamo saputo rispondere. Perché la nostra legge al riguardo è vecchia, fa riferimento a una concezione ottocentesca che immagina l’identità legata al sangue, più che al luogo in cui noi nasciamo, viviamo e cresciamo. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi europei, per esempio, che sono certamente, almeno su questo problema specifico, molto più evoluti dal punto di vista legislativo.
Napolitano ieri ha parlato della necessità di «acquisire nuove energie in una società per molti versi invecchiata se non sclerotizzata ». Ad ascoltarle bene, le sue parole assomigliavano quasi a un appello al governo italiano. In particolare ad Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio e nuovissimo ministro della Cooperazione e dell’integrazione sociali, per «riprendere politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano» e arrivare al più presto a una nuova legge sul diritto di cittadinanza. Quasi ci fosse la volontà di girare finalmente pagina rispetto ai recenti governi di centrodestra che, di fatto, in questi anni hanno sdoganato contro i migranti parole come “razzismo” - che non sentivamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. E lo hanno fatto senza alcun pudore, quasi che “razzismo” fosse diventato sinonimo di una nuova identità nazionale.
Ora il clima politico in Italia è cambiato e ci sono le condizioni per cambiare. E per rilanciare con convinzione la campagna per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io” cui aderiscono Acli, Arci, Caritas Italiana, Cgil, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Ugl, Rete G2 - Seconde Generazioni e tante altre associazioni della società civile. Come sostiene Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente del comitato promotore, ormai si fa strada la consapevolezza che «una riforma non è più rinviabile». Per questo la mobilitazione prosegue in tutto il Paese per due leggi di iniziativa popolare affinché questi italiani di fatto, ma non di diritto, che nascono, crescono e vivono in Italia, siano anch’essi le risorse morali e intellettuali del nostro futuro.
La Lega Nord, che si è già buttata in una disperata campagna elettorale in cui si ripetono parole a vanvera, si è dichiarata ovviamente pronta «a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze». Che dire? Vorrei rispondere con le parole di Damian, un alunno di 10 anni con i genitori di origine albanese: «Secondo me i bambini, se non sapevano che erano nati tutti in paesi diversi, era più facile andare d’accordo. Anche da grandi».
Di fronte alla diversità, qualsiasi diversità, il sentimento prevalente nei bambini e nei ragazzi che nascono e crescono oggi in Italia è la curiosità e la solidarietà. Per tanti, troppi adulti, invece, è stata la paura: c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che forse possiamo imparare: dai bambini e dal nostro Capo dello Stato. Ascoltiamoli attentamente. E muoviamoci.
LO SCIOPERO
Gli immigrati incrociano le braccia Mobilitazione "in giallo", coinvolgerà mezza Europa. «Una giornata senza di noi, così finalmente saremo visibili» *
ROMA L’Italia degli immigrati si è fermata per un giorno. Con il simbolico lancio di palloncini gialli nei cieli di oltre 60 città si è tenuto il primo sciopero dei migranti in Italia: "Primo Marzo. Un giorno senza di noi-lo sciopero degli stranieri". Centinaia le iniziative e i cortei contro il razzismo e la xenofobia organizzati dalle associazioni della società civile e dalle comunità di migranti. Una popolazione di quasi cinque milioni di persone, senza il cui contributo determinante nel settore del lavoro, ammonisce Coldiretti, non sarebbe possibile la produzione di numerose eccellenze del ’Made in Italy’ alimentare. E sempre Coldiretti sottolinea come nelle campagne italiane più di un lavoratore su dieci sia extracomunitario, con circa 30mila aziende agricole italiane che assumono lavoratori provenienti da fuori dell’Europa. In occasione della giornata la Cia ha chiesto «subito» la pubblicazione del decreto sugli 80mila stagionali e ribadito l’impegno contro «lo sfruttamento, il lavoro nero e il razzismo».
Tra le numerose organizzazioni coinvolte, Legambiente ha messo l’accento sull’immagine «anacronistica e grottesca» di un’Italia senza immigrati e torna a condannare «i fatti di Rosarno, gli scandali sulla gestione dei centri di accoglienza, la cultura razzista che si sta diffondendo» e a chiedere «una nuova cultura dell’accoglienza e della condivisione che superi i limiti delle politiche sull’immigrazione adottate negli ultimi anni». «È presto per i bilanci. Tuttavia, l’iniziativa è riuscita perchè la fase di attivazione e mobilitazione delle reti antirazziste è stata raggiunta. Siamo riusciti a creare un sacco di contatti. Siamo riusciti a far parlare dell’evento», ha detto Stefania Ragusa, Presidente del Comitato Primo Marzo 2010.«Adesso- ha spiegato- si apre la fase delle proposte, la parte politica» e sarà molto impegnativa perchè si tratterà di scegliere dei contenuti e di lavorare su quelli. La forza di questo movimento è nell’essere «meticcio», ovvero, fatto da italiani e non italiani insieme. Unanime il sostegno all’iniziativa da parte del Pdl e dell’opposizione. Se il Partito democratico ha preso parte compatto alle iniziative di piazza della giornata, molti esponenti del principale partito di governo hanno sostenuto l’iniziativa.
Così, il vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola (Pdl) appoggia le motivazioni dello sciopero: «Gli immigrati vogliono dimostrare non solo di esistere - spiega in una nota - ma di essere indispensabili con il loro lavoro alle attività economiche e sociali del Paese: circostanza assolutamente vera». Della stessa lunghezza d’onda il deputato Pdl Benedetto Della Vedova. Adesioni anche dalla candidata del centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio, Emma Bonino (che parla di «vera integrazione») e dal portavoce dell’Italia dei valori, Leoluca Orlando. A Napoli, un lungo corteo colorato e pacifico si è snodato da piazza Garibaldi a piazza Plebiscito all’insegna della manifestazione «Nessun uomo è illegale» e oltre mille fra immigrati, aderenti ad associazioni e comuni cittadini hanno sfilato nel centro di Perugia. In tanti in piazza a Firenze, circa 500 persone che hanno sfilato per il centro della città. In testa al corteo i bimbi che hanno lasciato andare i tanti palloncini gialli.
* Corriere della Sera, 1/3/2010 (19:40)
L’Italia e gli immigrati
Il Paese del Primo Marzo
di Jean-Léonard Touadi (l’Unità, 1.3.2010)
C’era una volta un paese di emigrati. Gli italiani che lasciavano le loro terre alla ricerca di pane e dignità. A quegli italiani il paese deve molto perché hanno assicurato per decenni, per se stessi e per i familiari rimasti in patria, una vita dignitosa. La memoria di questi cittadini tra due mondi, spesso maltrattati e soggetti a continue discriminazioni, è un monito a non fare agli altri, agli immigrati di oggi, ciò che è stato fatto a noi quando “gli albanesi eravamo noi” secondo il bellissimo libro di Gian Antonio Stella dal titolo assai rivelatore, «L’Orda».
Ed eccola qui, l’orda: l’ “invasione” evocata strumentalmente pochi giorni fa dal presidente del Consiglio Berlusconi; l’ondata nera dei criminali stigmatizzati con un’equazione tra immigrazione e clandestinità che ha profondamente indignato, oltre a migliaia d’italiani, anche la Caritas e il quotidiano L’Avvenire; l’orda di coloro che rubano il lavoro agli italiani quando tutti sanno che il lavoro immigrato per ora è complementare e non competitivo rispetto a quello degli italiani; la marea dei bambini stranieri che andrebbero separati dai loro coetanei italiani. E la lista potrebbe continuare.
Ma l’Italia dovrà rendersi conto che l’immigrazione è un fenomeno strutturale. L’immigrazione rappresenta la cifra precipua delle profonde trasformazioni che il paese deve affrontare da qui ai prossimi decenni, dove la capacità di confrontarci con le sfide della contemporaneità si misurerà con il nostro modo di gestire con responsabilità e innovazione normativa e programmatica la questione dell’immigrazione. Attraverso l’irrompere dell’immigrazione nel nostro tessuto produttivo e socio-culturale, dentro i processi di mutamenti urbani e all’interno dei meccanismi formativi delle nuove generazioni, l’Italia dovrà dimostrare la sua propensione a traghettarsi dentro la globalizzazione con mappe concettuali e strategie operative all’altezza della complessità contemporanea. È la grande novità dell’innesto che “pro-voca”, chiama a sé, e che stimola con la promessa della ricchezza data dalla diversità.
Il 1° marzo assume così il valore di un passaggio simbolico importante. Possiamo dire che costituisce un evento-avvento per la società italiana. Essa è chiamata a interiorizzare ciò che viene quotidianamente rimosso.
Il 1° marzo potrebbe assumere per la coscienza civile più intima di questo paese le caratteristiche di un momento iniziatico, di passaggio verso una definitiva consapevolezza di essere diventato altro grazie all’irrompere degli altri. È un invito alla responsabilità, nel senso letterale di misurare il peso (res/pondus) della presenza e dell’agire dei nuovi cittadini per, insieme, costruire un futuro comune.
Identità negate
di Luigi Manconi (l’Unità, 1.3.2010)
Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un teatro o come le facciate di legno sul set di un film western, l’improvvisa animazione di una folla di abitanti ha dato vita a un’assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio post-bellico. Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione, cioè l’atto del manifestare. Quando si manifesta, in gene’re, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere, rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato.
Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è propriamente questo: è la manifestazione - fatta di molte manifestazioni - di un popolo che semplicemente non si vede. O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme sociale, e di angoscia collettiva. E che richiama immagini di invasione o - in chi ha “un cuore grande così” - un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno, che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”.
Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri.
Sapete perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere e non in senso ideologico o solidaristico un amico immigrato?
«24h sans nous»: sui diritti la Francia fa da apripista
In Francia è nata l’idea della mobilitazione.
«24 ore senza di noi». Un giorno di astensione dal
lavoro e dal consumo. Solidali i sindacati. Inviata una -richiesta di adesione a Sarkozy, in quanto
figlio di immigrati ungheresi.
di Luca Sebastiani (l’Unità, 1.3.2010)
Più che di uno sciopero vero e proprio, si tratta di un’azione simbolica. L’iniziativa «24 ore senza noi, una giornata senza immigrati», chiama infatti alla mobilitazione oggi tutti gli «immigrati, i figli di immigrati e i cittadini coscienti» attraverso un giorno d’astensione dal lavoro e/o dal consumo, per rendere manifesto da una parte che l’apporto dei nuovi «francesi» è determinante all’economia d’Oltralpe, e dall’altra che gli immigrati e i loro figli non ne possono più di essere utilizzati strumentalmente dalla politica.
L’idea dello «sciopero», che oggi dovrebbe vedere la partecipazione di diverse migliaia di persone in tutto il paese, è infatti nata su iniziativa di un collettivo che lo scorso autunno ha deciso di reagire alla politica dell’immigrazione del governo, che con il cosiddetto dibattito sull’identità nazionale ha spesso usato l’immigrato come capro espiatorio di tutti i mali francesi.
Secondo Nadia Lamarkbi, presidente di 24 heures sans nous, l’idea di dimostrare quanto pesi nei fatti l’apporto economico dell’immigrazione (11% della forza lavoro), è nata quando lo scorso settembre il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, braccio destro del presidente Sarkozy, mentre faceva una foto in compagnia di un giovane militante sarkozista di origine magrebina ha detto che «quando ce n’è uno va bene, il problema è quando ce ne sono tanti». Non è stata l’unica gaffe. Sono diversi i membri della maggioranza che hanno rilasciato dichiarazioni più o meno razziste, tanto che gli immigrati si sono sempre più sentiti stigmatizzati e Sarkozy è dovuto intervenire per calmare le acque. Ciò che non ha impedito al collettivo 24 heures sans nous di crescere e raccogliere sostegno e adesioni principalmente su internet.
Oggi gli organizzatori sperano di ripetere il successo di un’esperienza statunitense simile, quella del 2006, quando migliaia di immigrati ispanici bloccarono le città americane per protestare contro una legge sul lavoro clandestino voluta da George Bush. Allora gli immigrati riuscirono a far ritirare il testo, ma il problema della giornata senza immigrati à la française, che oggi si terrà anche in Italia e Grecia, e che non ha nessuna finalità rivendicativa e dunque faticherà a mobilitare i grandi numeri, soprattutto tenuto conto delle condizioni di debolezza lavorativa cui sono costretti i lavoratori immigrati.
SOLIDARIETÀ DEI SINDACATI
Gli organizzatori hanno incassato però la solidarietà delle sigle sindacali e delle forze della gauche d’opposizione, pur rifiutando qualsiasi strumentalizzazione. A questo fine hanno anche inviato una lettera al presidente Sarkozy invitandolo a partecipare in quanto figlio di immigrati ungheresi, ma non hanno contestato nessuna delle leggi sarkoziste e neanche chiesto la chiusura del ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale che i socialisti considerano una vergogna.
Oggi i partecipanti alla giornata senza immigrati si ritroveranno davanti ai municipi di Lione, Parigi, Bordeaux, Marsiglia e tante altre città, ma nessuna manifestazione unitaria è stata prevista per lasciare che il movimento si sviluppi orizzontalmente. Intanto a Parigi è arrivato al quarto mese lo sciopero coordinato dalla Cgt dei lavoratori sans papiers. Secondo il sindacato sono circa seimila i partecipanti che chiedono la regolarizzazione.
Palloncini gialli, ma anche musica e cucina etnica
La protesta in mille piazze
Alle 18, 30 in punto il cielo di colorerà di giallo in
sessanta città d’Italia: verranno lanciati in aria
palloncini gialli (in lattice biodegradabile).
Il giallo è infatti il colore scelto per la manifestazione di oggi.
di Marzio Cecioni (l’Unità, 1.3.2010)
Nata in maniera spontanea sul web (grazie anche ad gruppo su Facebook) la protesta del Primo Marzo ha ricevuto in Italia una lunga serie di l’adesione, tra cui Emergency, Amnesty, i missionari del Pime e Legambiente, di partiti politici (Pd, Verdi, Sel e Rifondazione Comunista) e di sindacati Cgil, Cisl, Uil e Cobas, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale. Ogni città si mobiliterà in modo diverso.
A Roma alle 17, il corteo da da Porta Maggiore a piazza Vittorio, dove alle 18. Qui sono previsti concerti, con l’esibizione dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio e una serie di interventi.
A Milano, ritrovo alle 9,30 fuori da Palazzo Marino, il corteo farà giro attorno al municipio milanese. Alle 17,30 raduno in piazza Duomo. Qui, lezioni di lingue straniere; verranno offerte spremute d’arancio da bere per «Rosarno chiama Italia: l’unica cosa che vogliamo spremere sono le arance»; partenza del corteo in direzione di piazza Castello alle 19, poi interventi e musica dal vivo.
A Genova, alle 18 (commenda di Prè) la partenza del corteo, arrivo piazza Matteotti, qui festa e concerto.
A Brescia, giornata di mobilitazione in piazza della Loggia, con presidio dalle 10 alle 14. Presidi in vari mercati della provincia (ad esempio a Rovato dove confluiranno le donne), davanti scuole e fabbriche.
A Napoli, partenza del corteo alle 11 da piazza Garibaldi.
Siracusa e Catania: alle sei del mattino pellegrinaggio in pulmino nei luoghi del caporalato nella campagna attorno a Cassibile.
A Catania presidio nella zona in cui si concentrano i venditori senegalesi (piazza Stesicoro). Alle 18 cortei, festa, musica e cucina etnica.
Perugia: in programma, a partire dalle 14.30, raduno in piazza Italia, da qui corteo in direzione di corso Vannucci che confluirà a piazza IV novembre. Poi, musica fino alle 18.30.
A Bologna, appuntamento alle 16 in piazza del Nettuno: qui mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani.
A Bari, alle 18.30, in piazza del Ferrarese, lettura di testi sui temi della giornata, testimonianze e racconti delle comunità migranti di Bari.
Forlì Cesena: alle 16,30 in piazza Saffi gazebo e tavoli: animazione per bambini e musica.
Trieste: alle 15 ritrovo in piazza Sant’Antonio e partenza di una “squadra” che andrà a cancellare le scritte razziste dai muri delle città. Alel 17 da piazza Ponterosso, corteo.
Reggio Emilia: dalle ore 10 alle 18, in piazza Casotti e alla prefettura. Ancona: corteo da corso Carlo Alberto a piazza Roma, partenza alle 9.30.
Firenze: presidio in piazza SS Anunziata, dalle 16.
Rimini: alle 17, alla stazione la partenza del corteo che sfilerà per le vie del centro. Alle 19, alla Vecchia Pescheria “Sound meticcio” aperitivo tematico.
A Torino, il mercato della Crocetta verrà «ricoperto» di giallo; palloncini saranno distribuiti nelle scuole con più del 30% di immigrati; corteo alle 17 dalla stazione di Porta Nuova.
Monito ai cronisti ad ’’accertare le cose prima di dare informazioni’’
Immigrati, Maroni: ’’L’accordo con la Libia funziona. Avanti con i respingimenti’’. Bruxelles: chiarimenti da Italia e Malta
ultimo aggiornamento: 31 agosto, ore 16:45
Palermo - (Adnkronos/Ign) - Il ministro dell’Interno: "Continueremo nella nostra direzione’’. La Commissione europea: ’’Rispettare il diritto di ogni essere umano a chiedere protezione e asilo. Invieremo a breve una lettera per avere maggiori informazioni su quanto avvenuto ieri’’. I somali respinti sono arrivati in Libia. L’opposizione: ’’Violata la Convenzione di Ginevra’’
Palermo, 31 ago. - (Adnkronos/Ign) - I 75 immigrati di nazionalità somala, tra cui 15 donne e tre minorenni, respinti ieri verso la Libia sono arrivati nel porto di Zawia, vicino Tripoli. L’arrivo sulle coste del paese africano è stato reso difficoltoso dal mare molto agitato e momenti di tensione si sono verificati quando alcuni degli immigrati si sono opposti al trasbordo dal pattugliatore della Guardia di Finanza alle motovedette libiche.
Il respingimento di ieri ha suscitato sconcerto e preoccupazione ha espresso l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, per il rischio di una penalizzazione nei confronti dei richiedenti asilo, persone in fuga da guerre e persecuzioni che hanno diritto ad ottenere protezione, come nel caso del Corno d’Africa.
E oggi è intervenuta pure la Commissione Europea che a breve invierà una lettera alle autorità italiane e maltesi per avere informazioni sull’ultimo episodio. Lo ha affermato ad Aki-Adnkronos International Dennis Abbott, uno dei portavoce della Commissione Europea. Abbot ha ricordato che Bruxelles aspetta ancora una risposta a una lettera inviata la scorsa settimana di fronte alla tragedia degli eritrei annegati in mare.
"Invieremo a breve una lettera alle autorità italiane e maltesi - ha detto Abbott - per avere maggiori informazioni su quanto avvenuto ieri". Bruxelles, ha proseguito il portavoce, "sottolinea il diritto di ogni essere umano a chiedere protezione e asilo. La Commissione è in questo sulla stessa linea della Corte europea dei diritti umani". Abbot ha inoltre spiegato che Bruxelles "è ancora in attesa della lettera inviata la scorsa settimana, speriamo di riceverla a breve". Già a luglio il commissario alla Giustizia Jacques Barrot aveva risposto a un’interrogazione parlamentare di alcuni eurodeputati italiani spiegando che Bruxelles è contraria alla politica dei respingimenti. Abbot ha precisato che, sebbene la posizione della Commissione "può essere letta in qualche modo come una critica", non è questo l’obiettivo di Bruxelles. "Ci rendiamo conto delle difficoltà incontrate da stati membri esposti come l’Italia - ha concluso - e vogliamo aiutare a trovare una soluzione".
L’opposizione intanto attacca la politica portata avanti dall’esecutivo in tema di immigrazione. ’’I respingimenti vanno fatti nel rispetto dei principi del diritto internazionale - rimarca Piero Fassino - e, in particolare, non può essere sacrificato il diritto all’asilo politico per coloro che non sono semplici clandestini ma persone che fuggono da situazioni che vengono riconosciute come di guerra civile, conflitto, repressione e persecuzione’’. E ’’fino ad oggi questo diritto non è stato rispettato dal governo. Pensiamo che occorra realizzare i respingimenti con modalità che consentano di contrastare i clandestini e al tempo stesso di riconoscere il diritto d’asilo e di poterlo esercitare’’.
’’L’ennesimo respingimento di migranti verso le coste della Libia’’ è per Sonia Alfano, dell’Idv, ’’l’ennesimo atto criminale che il governo italiano compie in plateale violazione della Convenzione di Ginevra, in particolare per quel che riguarda la concessione del diritto d’asilo, che anche il nostro Paese ha sottoscritto’’.
Critica anche l’Udc. Secondo il segretario nazionale, Lorenzo Cesa, "la politica in materia di immigrati condotta dal governo è totalmente sbagliata. E’ legittimo respingere ma vanno rispettati anche i diritti fondamentali dell’uomo, stabiliti dalle convenzioni internazionali". "Un Paese come l’Italia - continua Cesa - che ha nel suo Dna un sentimento di accoglienza e solidarietà molto forte non può essere indifferente a dei drammi umani che si stanno consumando soprattutto nel Corno D’Africa".
Ma il governo non recede e va avanti. A metterlo in chiaro è stato oggi il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. "L’accordo con la Libia funziona - sostiene il titolare del Viminale - Continueremo in questa direzione per garantire l’Italia e l’Unione europea e per garantire agli immigrati la loro sicurezza". I respingimenti, ha sottolineato il ministro, "fanno parte degli accordi tra Italia e Libia, firmati dal governo precedente e che noi abbiamo attuato". Per sottolineare l’efficacia degli accordi Maroni ha citato alcuni dati.
"Tra il 1 maggio e il 30 agosto del 2008 - ha ricordato - sono arrivati in Italia 14mila clandestini. Nello stesso periodo del 2009 ne sono arrivati 1.300. Il sistema funziona e in questo modo si evitano tragedie come quelle che abbiamo visto negli ultimi giorni". Quanto agli sbarchi e ai respingimenti registrati nei giorni scorsi Maroni ha consigliato ai cronisti di "usare prudenza, bisognerebbe accertare certe cose prima di dare informazioni. Il respingimento di ieri - ha spiegato - è avvenuto in acque internazionali".
A ribadire la linea del rigore, invocata ieri a Tripoli da Silvio Berlusconi, è stato anche il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri. ’’Il rigore e il rispetto delle regole sono l’unica via possibile per l’integrazione degli immigrati regolari. La diminuzione del 94% degli sbarchi dopo l’accordo Italia-Libia, che la sinistra non riuscì a compiere, dimostra quanto di buono stanno facendo governo e maggioranza parlamentare. La politica della legalità andrà avanti, nel rispetto del diritto internazionale e degli italiani’’ dice Gasparri.
BOFFO, OSSERVATORE ROMANO: SU AVVENIRE EDITORIALI ESAGERATI *
ROMA - "E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scritto una riga. Ed è una scelta che rivendico, perché ha ottime ragioni". Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano, prende le distanze da un giornalismo che "pare diventato - osserva in un colloquio pubblicato dal Corriere della sera - la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti - spiega - sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non soltanto informativo, come mostrano anche le vicende degli ultimi giorni".
Sulla solidarietà a Dino Boffo non si discute, ma Vian esprime qualche perplessità sulle scelte di Avvenire: "Non si è forse rivelato imprudente ed esagerato - chiede - paragonare il naufragio degli eritrei alla Shoah, come ha suggerito un editorialista del quotidiano cattolico?". E "come dar torto al ministro degli Esteri italiano - insiste il direttore dell’Osservatore romano - quando ricorda che il suo governo è quello che ha soccorso più immigrati, mentre altri, penso per esempio a quello spagnolo, proprio sugli immigrati usano di norma una mano molto più dura? Mi sembra davvero un caso clamoroso, nei media, di due pesi e di due misure".
Peraltro, assicura Vian, i rapporti tra Italia e Santa Sede "sono buoni. Berlusconi è stato il primo a chiarire che non sarebbe andato a Viterbo per la prossima visita del Papa quando ha capito che la sua presenza avrebbe causato strumentalizzazioni". E l’incontro all’Aquila "é saltato per non alimentare le polemiche", ma "si è trattato di un gesto concordato, di responsabilità istituzionale da entrambe le parti. Tanto più che i rapporti tra le due sponde del Tevere - insiste Vian - sono eccellenti, come più volte è stato confermato". Insomma, "nelle relazioni tra Repubblica italiana e Santa Sede non cambia nulla".
Ansa» 2009-08-31 13:50
MARONI: PROSEGUIREMO CON RESPINGIMENTI
MILANO - Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che stamani a Milano ha siglato un protocollo di intesa con L’Anci per il coinvolgimento dei comuni nelle procedure di regolarizzazione di badanti e colf, ha assicurato che proseguiranno i respingimenti degli immigrati che arrivano in Italia sui barconi provenienti dalla Libia. Maroni a questo proposito ha invitato la stampa ad usare prudenza nel diffondere notizie relative alla provenienza degli immigrati. "In Libia - ha spiegato Maroni - c’é la sede dell’Alto Commissariato e l’ultimo respingimento è stato fatto in acque internazionali. Non so chi ha diffuso notizie secondo le quali gli immigrati erano del Corno d’Africa. Prima di diffondere queste notizie è necessaria prudenza perché come per il barcone di qualche settimana fa con 75 clandestini, la stampa aveva scritto che si trattava di curdi ed iracheni quindi di profughi. E invece è emerso che erano tutti egiziani e in Egitto sono già stati rispediti". Maroni ha quindi precisato che il respingimento dei clandestini verso la Libia "fa parte di un protocollo sottoscritto da un precedente governo quando ministro dell’Interno era Giuliano Amato". Il ministro dell’Interno ha quindi spiegato che l’anno scorso nel periodo tra il 1 maggio e il 31 agosto i clandestini giunti in Italia erano stati 14mila contro i 1.300 giunti nello stesso periodo quest’anno: "il sistema di respingimento funziona e noi continueremo con questa procedura per garantire non solo l’Italia ma anche l’Unione Europea".
NEI CIE NON C’E’ SITUAZIONE EMERGENZA Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha negato che nei Centri di identificazione ed espulsione(Cie) vi siano situazioni di emergenza causate dalle proteste degli immigrati che sono ospitati. "Vedo - ha detto Maroni - che c’é molta attenzione da parte della stampa per alcuni episodi che si sono verificati. Non c’é alcuna emergenza, sono episodi accaduti altre volte". Maroni ha quindi precisato: "Noto però che c’é un certo nervosismo da quando è entrato in vigore il pacchetto sicurezza. Questa è la legge e chi non la rispetta commette un reato. Ribadisco però che non c’é alcuna emergenza".
COINVOLGIMENTO COMUNI PER PERMESSI Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha accolto la proposta del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, di coinvolgere i Comuni per il rinnovo dei permessi di soggiorno per gli immigrati. Chiamparino ha rivolto il suo appello al ministro dell’Interno nel corso dell’incontro avvenuto a Milano per la sigla del protocollo tra ministero e Anci per il coinvolgimento dei Comuni nella procedura di regolarizzazione di colf e badanti, che inizierà domani. "Accolgo l’invito - ha detto Maroni - e credo che un protocollo affinché i permessi di soggiorno possano essere rinnovati anche dai Comuni possa essere stipulato in breve tempo. Credo si possa fare per il rinnovo, in quanto è una procedura più snella e non è necessario l’intervento degli uffici della Questura".
Berlusconi buonista sulla (sua) tv tunisina
di Francesco Costa *
Tutto si può dire di Silvio Berlusconi, meno che non sia coerente. Recita il ruolo di pilastro dell’alleanza atlantica quando si trova a colloquio con Bush e Obama, ma non rinuncia alle effusioni con Vladimir Putin quando va in visita in Russia. Discute affettuosamente con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy salvo poi siglare importanti accordi energetici con Turchia e Russia. Va a braccetto con Gheddafi prima di firmare contratti petroliferi e poi rivendica il ruolo di paladino dei diritti umani e della democrazia quando torna in patria. Non importa quante giravolte gli tocchi fare, la politica estera del presidente del consiglio sembra avere una sola infallibile bussola: il proprio interesse.
Non stupisce quindi che Silvio Berlusconi, capo di un governo che ha promosso alcune delle norme più rigide d’Europa sull’immigrazione, dal reato di immigrazione clandestina ai medici spia, fino al sistematico ricorso ai respingimenti al confine, si trasformi in un agnellino terzomondista quando si trova in visita nei paesi del Nordafrica.
E’ sfuggita ai media italiani - ma non alla rete - la performance del presidente del consiglio dello scorso 18 agosto, allorché si trovava in visita privata a Tunisi. Durante la visita, al termine di un incontro con il presidente tunisino Ben Alì, il presidente del consiglio ha partecipato a Ness Nessma, programma della televisione satellitare tunisina Nessma TV, acquisita lo scorso anno per il 50 per cento da Mediaset e dalla società di Tarak Ben Ammar Quinta Communications. Interpellato sui temi dell’immigrazione su una tv maghrebina di sua proprietà, guardata da centinaia di migliaia di nordafricani, poteva il premier ripetere il solito copione «cattivista» ormai noto in patria o vantarsi delle norme emanate dal suo governo? Certo che no: ricordatevi la storia della bussola.
Ecco un’altra giravolta, quindi: Berlusconi spalanca le porte dell’Italia ai cittadini del Maghreb. Il video è stato trovato, sottotitolato e reso disponibile dal blogger e collaboratore de l’Unità Daniele Sensi, che sostiene - e ne ha ogni ragione - che a questo punto “il pacchetto sicurezza in realtà non è mai esistito”. Nel corso della trasmissione, infatti, Berlusconi sostiene la necessità di "aumentare le possibilità di entrare legalmente in Italia" (altro che quote) e che il nostro paese ha “il dovere di guardare a quanti vogliono venire in Italia con totale apertura di cuore, e di dare a coloro che vengono in Italia la possibilità di un lavoro, di una casa, di una scuola per i figli e la possibilità di un benessere che significa anche la salute, l’apertura di tutti i nostri ospedali per le loro necessità, e questa è la politica del mio governo". Insomma, lavoro, case, scuole e ospedali per gli immigrati. Come programma di governo non è male. Chissà che ne pensano gli elettori della Lega...
Berlusconi alla Tv tunisina: «Casa e lavoro a chi viene in Italia...»
Il video trovato, sottotitolato e reso disponibile dal blogger Daniele Sensi. Berlusconi alla Tv tunisina: "Il nostro paese ha il dovere di guardare a quanti vogliono venire in Italia con totale apertura di cuore, e di dare a coloro che vengono in Italia la possibilità di un lavoro, di una casa, di una scuola per i figli e la possibilità di un benessere che significa anche la salute...".
Accadde in America, non poi tanto tempo fa.
Scritto da Robert D. Putnam *
Sotto molti punti di vista le sfide che la società americana ha affrontato alla fine del XIX secolo hanno anticipato quelle che la nostra epoca si trova a fronteggiare.
Tra il 1870 e il 1900 l’America si è rapidamente trasformata da società rurale, circoscritta, tradizionale in una nazione moderna, industrializzata, urbana. Alla fine della Guerra civile era ancora prevalentemente il paese di piccole fattorie, piccole città e scarsi affari dei tempi di Tocqueville. Sul finire del secolo stava velocemente diventando una nazione di metropoli, pullulante di immigrati nati in Europa o in America che faticavano in fabbriche gestite da grandi gruppi industriali.
Il cambiamento tecnologico è stato uno degli aspetti fondamentali di quest’evoluzione. Negli ottant’anni successivi al 1870 l’Ufficio brevetti degli Stati Uniti ha riconosciuto 118 mila invenzioni. Alcune di esse (come la mietitrebbia) hanno rivoluzionato la produzione agricola. Altre (come la macchina da cucire il cibo in scatola) hanno trasformato la casa. Più importanti di tutte, però, sono state le scoperte alla base della rivoluzione americana nell’industria, nei trasporti, nelle città - la macchina a vapore, l’acciaio, l’elettricità, il telegrafo, il telefono, l’ascensore, il freno ad aria compressa e molte altre.
Con la rivoluzione tecnologica si è modificata profondamente anche la dimensione dell’impresa. L’organizzazione aziendale ha reso obsoleti molti mestieri, come i piccoli commercianti e gli artigiani autonomi, mentre ne ha creati di nuovi, come manager delle imprese e operai non qualificati dell’industria. La prima grande ondata di fusioni nella storia americana spazzò Wall Street tra il 1897 e il 1904, lasciando sulla sua scia nuove enormi aziende. In effetti, in relazione alle dimensioni dell’economia, la grande quantità di fusioni della fine del XlX secolo non ha avuto paragoni fino agli anni ‘90.
La qualità della vita negli Stati Uniti è sostanzialmente migliorata nel mezzo secolo successivo alla fine della Guerra civile. La ricchezza pro capite crebbe di circa il 60% e prodotto nazionale lordo reale salì del 133%, proprio mentre la popolazione aumentava in seguito all’afflusso degli immigrati poveri. Tra il 1871 e il 1913 l’espansione dell’economia è stata in media del 4,3% ogni anno.
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I decenni tra la Guerra civile e la Prima guerra mondiale sono stati anche un’epoca di rapido incremento demografico e di urbanizzazione. La maggior parte dei nuovi residenti nelle città abitavano anche una nuova nazione. Nei trent’anni compresi tra il 1870 e il 1900 sono immigrati negli Stati Uniti circa 12 milioni di persone, più di quanti siano giunti alle nostre coste nei due secoli e mezzo precedenti. Nei successivi quattordici anni ne sarebbero arrivati all’incirca altri 13 milioni. Nel 1870 un terzo dei lavoratori dell’industria era nato all’estero. Nel 1900 sarebbero stati la metà.
Gli immigrati provenivano da molti paesi europei , così come dal Canada e dall’Asia orientale. Tedeschi, irlandesi, canadesi, britannici e scandinavi furono i più numerosi fino al 1890 ma, come evidenzia lo storico Steven Diner, nei successivi vent’anni
Gli immigrati, in maggioranza cattolici ed ebrei, provenienti da paesi sconosciuti del Su e dell’Est europeo, si riversarono in enorme quantità in America per lavorare nella sua economia industriale in espansione. Vivevano spesso in fitti quartieri cittadini nei quali prevalevano le lingue straniere e lì hanno costruito chiese, sinagoghe e istituzioni comunitarie. [1]
Che il suo viaggio fosse iniziato nel rurale Iowa o nella rurale Slovacchia, il nuovo abitante di Chicago conduceva una vita e affrontava rischi abbastanza diversi da quelli cui era stato abituato. Era arrivato alla ricerca di opportunità economiche e spesso le aveva trovate, ma aveva anche incontrato una profonda insicurezza. I vecchi sistemi di «assistenza sociale esterna» - i programmi locali provvisori di assistenza pubblica - venivano travolti dalle nuove esigenze allo stesso modo dei più nuovi sistemi di «assistenza interna» - l’ospizio. Le tradizionali reti di sicurezza sociale della famiglia, degli amici e delle istituzioni della comunità non si adattavano più alle condizioni di vita dei nuovi lavoratori urbani.
Parliamo spesso con leggerezza della velocita ciel cambiamento ai giorni nostri. Tuttavia, nulla nell’esperienza dell’americano medio alla fine dei XX secolo uguaglia la violenza della trasformazione sperimentata all’inizio dello stesso secolo da un contadino cresciuto in un villaggio polacco, rimasto pressoché immutato dal XVI secolo, che nel giro di pochi anni si trovava a costruire i grattacieli d’avanguardia di Louis Sullivan sul lago Michigan. Anche per i nativi la velocità del cambiamento negli ultimi decenni dell’Ottocento è stata straordinaria.
Molto del cambiamento è andato per il meglio, ma molto per il peggio. Le brulicanti città erano deserti industriali, centri di vizio, povertà e malattie dilaganti, bassifondi affollati e pieni di umidità, con amministrazioni corrotte. La mortalità infantile crebbe di due terzi tra il 1810 e il 1870. Il lavoro infantile era diffuso e la delinquenza si riversava nelle città com’era accaduto in molti altri paesi occidentali
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Come nell’America d’oggi, le fratture etniche rendevano a rafforzare quelle di classe. Gli ultimi anni del XIX secolo videro la nascita di un etnocentrismo difensivo, un’eterogenea alleanza di convenienza tra i sindacati (timorosi della competitività dei bassi salari degli immigrati), i conservatori protestanti (ostili verso la crescita dell’influenza degli ebrei e dei «papisti», provenienti dal Sud e dall’Est europeo) e persino alcuni riformatori sociali (preoccupati che l’immigrazione senza controlli esacerbasse i problemi delle città).
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Alla fine del XIX secolo gli americani erano dunque divisi per classe, etnia e razza più o meno come lo siamo oggi, anche se le attuali linee di divisione sono diverse rispetto a quelle di un secolo fa (asiatici e ispanici hanno, ad esempio, sostituito ebrei e italiani come bersagli di discriminazione). Altrettanto suggestivi, rispetto ai nostri problemi di oggi, sono stati i dibattiti sulle conseguenze della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni sui tradizionali vincoli della comunità.
Le nuove tecnologie della comunicazione provocarono tra i filosofi sociali di fine secolo un dibattito animato che anticipava l’accesa controversia, nell’America contemporanea, a proposito degli effetti di Internet. Da una parte gli ottimisti, entusiasti perché le nuove tecnologie della comunicazione avrebbero consentito un più vasto raggio «lazione alle relazioni umane. L’altruismo si sarebbe diffuso in una società da poco unificata dalla ferrovia, dalla corrente elettrica e dal telegrafo.
Dall’altra parte, osservatori sociali più cauti, come John Dewey e Mary Parker Follett, si sono occupati di far convivere la nuova tecnologia con i rapporti faccia a faccia. Pur riconoscendo e tessendo le lodi della nuova società più ampia, tenevano in grande considerazione anche le piccole vecchie reti sociali dei quartieri.
Al di là di questi dibattiti, molti americani alla fine dell’Ottocento avvertivano l’erosione della moralità e la frattura della comunità. L’ideologia collettiva dominante nell’Età dell’oro è stato il darwinismo sociale. I suoi fautori sostenevano che il progresso sociale esige la sopravvivenza dei più adatti - con poca o nessuna interferenza del governo nelle «leggi naturali del mercato». In una società così organizzata, i più capaci avrebbero avuto successo, gli inetti sarebbero falliti e questo libero processo di eliminazioni avrebbe garantito il progresso sociale. Sotto importanti punti di vista tale filosofia anticipava il culto del mercato senza vincoli, tornato popolare nell’America d’oggi. Alla fine del XIX secolo, i critici del darwinismo sociale hanno tuttavia lentamente guadagnato il vertice intellettuale e (sempre più) politico.
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I riformatori sociali dell’Epoca progressista cominciarono a individuare dietro le malattie della società - la povertà e tutto il resto - cause sociali ed economiche, non debolezze morali individuali. L’individualismo ruggente sembrava sempre più irrealistico nelle nuove circostanze, sempre più complesse e interdipendenti, e venne gradualmente soppiantato da una concezione più organica della società. I progressisti non negavano l’importanza dell’interesse individuale, ma aggiungevano che gli uomini e le donne sono mossi anche da valori non materiali - affetto, reputazione e anche altruismo.
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Era, insomma, un’epoca assai simile alla nostra, piena di promesse di progresso tecnologico e di prosperità senza precedenti, ma attaccata al ricordo di una comunità più integrata. Allora come ora nuove modalità di comunicazione sembravano promettere nuove forme di comunità, ma uomini e donne accorti si domandavano se non si trattasse di oro falso. Allora come ora l’ottimismo nutrito dai recenti progressi economici lottava con il pessimismo dovuto alle difficili realtà di malattie sociali apparentemente in solubili.
Allora, come ai nostri giorni, nuove concentrazioni di ricchezza e di potere aziendale sollevavano domande sul reale significato della democrazia. Allora, come adesso, enormi concentrazioni urbane di minoranze etniche impoverite ponevano questioni fondamentali di giustizia e di stabilità sociale. Allora, come ora, la classe media agiata era divisa tra l’allettante prospettiva della fuga e le più profonde esigenze di riscatto attraverso la solidarietà sociale.
Allora, come oggi, nuove forme di commercio, la trasformazione dei luoghi di lavoro e una nuova organizzazione spaziale degli insediamenti umani minacciavano forme più antiche di solidarietà. Allora come ora ondate di immigrati mutavano l’aspetto dell’America e sembravano dissolvere l’unum nel pluribus. Allora, come ora, il materialismo, il cinismo e la prevalenza dello stare a guardare sull’azione, sembravano ostacolare il riformismo idealistico.
Soprattutto, allora come ora, i fili conduttori più vecchi della connessione sociale subirono un’abrasione - o vennero addirittura distrutti - da cambiamenti tecnologici, economici e sociali.
Attenti studiosi compresero che il sentiero del passato non poteva essere ripercorso, ma pochi vedevano chiaramente la via per un futuro migliore. Mentre i reazionari romantici meditavano sul ritorno a un’età pastorale, più limitata e più semplice, i progressisti erano troppo pratici per subire il fascino di questo richiamo. Ammiravano le virtù del passato ma capivano che indietro non si poteva tornare. L’età industriale, nonostante i suoi limiti, aveva reso possibile una prosperità materiale che rappresentava una precondizione indispensabile per il progresso civico. La questione non era: «Modernità: sì o no?»; piuttosto come riformare le nostre istituzioni e adattare i nostri comportamenti nel mondo nuovo, al fine di garantire i valori imperituri della tradizione.
La loro visione era attiva e ottimista, non rassegnata e scoraggiata. Un aspetto caratteristico dei progressisti era la convinzione che i mali sociali non si sarebbero risolti da soli e che era avventato attendere la cura del tempo.
Un’interessante caratteristica della rivitalizzazione della vita civica americana negli ultimi decenni del XIX secolo è stata la vera e propria esplosione nella nascita di associazioni.
Tra il 1870 e il 1920 la creatività civica ha raggiunto un crescendo mai toccato nella storia americana, non solo in termini numerici ma anche per quanto attiene alla sfera d’azione e alla durata delle organizzazioni appena fondate. Theda Skocpol e i suoi collaboratori hanno evidenziato che in due secoli di storia americana la metà delle maggiori organizzazioni di massa sono state fondate nei decenni compresi tra il 1870 e il 1920.
Non è esagerato affermare che la in maggioranza delle istituzioni civiche oggi più apprezzate nella vita americana siano state fondate in quei pochi decenni di eccezionale creatività sociale.
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Sebbene la cultura dell’America industriale fosse diventata in un certo senso più laica, la religione ha giocato un ruolo notevole nella rivitalizzazione civica dell’epoca, al di là delle attività parrocchiali locali e delle confessioni religiose. È stato in quel periodo che parecchie chiese hanno assunto l’aspetto di ciò che lo storico della religione E. Brooks Holifield ha chiamato «congregazione sociale».
In quel periodo ispirazione religiosa, autoperfezionamento e impegno civico erano strettamente interconnessi. I cattolici avevano la tendenza a essere ancora più solidali dei protestanti verso le difficili condizioni dei poveri, non da ultimo perché molti di essi appartenevano alle classi lavoratrici.
Una delle invenzioni sociali più considerevoli dell’Epoca progressista è rappresentata dai centri di servizio alla comunità, un’idea importata dall’Inghilterra vittoriana. Essi ospitavano uomini e donne idealisti della classe media che vivevano per alcuni anni nei quartieri poveri della città con l’intento di favorire l’istruzione e l’«edificazione morale» dei poveri immigrati. All’inizio l’obiettivo principale era insegnare l’inglese e le conoscenze civiche necessarie per esercitare la cittadinanza, ma l’ambito di attività si allargò rapidamente.
Dal nostro punto di vista l’Epoca progressista ha rappresentato una reazione della comunità contro l’individualismo ideologico dell’Età dell’oro. Sebbene culminata in un movimento specificamente politico, ebbe inizio da obiettivi sociali più ampi e più immediati. Uno degli scopi fondamentali degli sforzi profusi nell’istituire parchi giochi, musei civici, asili infantili, giardini pubblici, era rafforzare l’abitudine a cooperare, pur senza soffocare l’individualismo.
Ricordiamo che il termine stesso di capitale sociale è stato coniato dall’educatore dell’Epoca progressista L. J. Hanifan, nell’esporre il valore dei centri della comunità.