Il parlamento clandestino dichiara illegale la clandestinità (degli immigrati)
di Paolo Farinella, prete *
Genova 2 luglio 2009. - Oggi è giorno di lutto per l’Italia fondata sul diritto e sulla Carta Costituzionale. Dopo i giorni della presidenza del consiglio trasformata in lupanare all’aperto, ecco i giorni della demenza giuridica e della vergogna di un governo che legifera solo per soddisfare i propri istinti e ignoranza. Due settimane fa il governo doveva varare la legge sulla prostituzione, penalizzando i clienti, su proposta della Mara Carfagna, non sappiamo (o forse sì?) per quali meriti divenuta ministra della moralità e approvata dal presidente del consiglio, «utilizzatore finale» di escort o prostitute a tre zeri. Qualcuno ha avuto la decenza di rimettere il disegno di legge nel cassetto, in attesa di tempi meno travagliati dalle parti governative. Occorreva qualcosa per distrarre dal porcilaio in cui l’Italia intera è stata annegata dal capo del governo e dei suoi manutengoli. La distrazione nazionale si chiama «il reato di clandestinità» da dare in pasto alle paure indotte dagli stessi che legiferano.
E’ legge, dunque, la norma che prevede il reato di clandestinità che per forza d’inerzia farà aumentare i clandestini come funghi dopo la pioggia; i centri di identificazione da luoghi di verifica civile diventano lager consentiti, passando da 60 a 540 giorni (il 900%). Oggi muore la decenza, muore il Diritto, mentre la stampa pubblica una lettera di un giudice costituzionale, «famiglio intimo» del plurinquisito» capo del governo con cui sfida e sotterra la dignità dell’Alta Corte.
Nella legge che dichiara la clandestinità reato, c’è una norma che inasprisce il reato di mafia (il 41bis). E’ una trappola. Vedremo che tutti i governativi e la maggioranza al guinzaglio si farà scudi di questo articolo per screditarsi tutori di legalità integerrima: essi inaspriscono le pene alla mafia, ma fanno eleggere al parlamento e nelle regioni mafiosi condannati o in via di processo.
Se Cristo fosse fisicamente presente in Italia (cosa impossibile perché starebbe a 12.000 km di distanza dal vaticano!), sarebbe clandestino e verrebbe rinchiuso in un lager di «verifica» (?). Per sfuggire alla polizia di Stato, fuggì in Egitto e tornò solo dopo la morte dei suoi persecutori. Ai clandestini colpevoli di essere uomini e donne in cerca di dignità e agli Italiani e Italiane che hanno ancora il senso del diritto, diciamo due cose: noi speriamo che muoiano presto coloro che li perseguitano e da parte nostra combatteremo questa ignominia di cui proviamo vergogna e che disprezziamo come disprezziamo coloro che l’hanno votata.
Il presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, monsignor Antonio Maria Veglio, ha scritto: «I migranti hanno il diritto di bussare alle nostre porte. Basta demonizzare e criminalizzare il forestiero. L’arrivo dei migranti non è certo un pericolo. Sbagliato trincerarsi dentro le proprie mura». Gli fa eco il segretario del pontificio Consiglio, monsignor Agostino Marchetto: La nuova legge porterà «molti dolori e difficoltà agli immigrati» e noi aggiungiamo anche all’Italia perché farà aumentare in modo esponenziale la clandestinità.
Il catto-fascista Gasparri, insieme con gli altri governativi cattolici «similpelle» dichiara di «essere orgoglioso». Di fronte all’Italia che di degrado in degrado corre verso il buco nero dell’indecenza generalizzata, non riusciamo ancora ad udire un belato, un vagito, un gridolino della gerarchia cattolica che pare abbia assunto come nuovo stemma le tre scimmie storiche: non vede, non sente e non parla. La luce che doveva stare sul monte per illuminare le coscienze, è stata spenta e messa in sicurezza sotto il moggio, chiusa a chiave e la chiave buttata a mare. Il silenzio dei vescovi è un peccato contro lo Spirito che non sarà perdonato né in cielo né in terra.
* Il Dialogo, Giovedì 02 Luglio,2009 Ore: 17:36
Il decreto vergognoso del governo della vergogna
di don Paolo Farinella *
Come cittadino, come prete e come presidente dell’Associazione “Massoero 2000” di Genova che si occupa di senza fissa dimora, dichiaro la mia totale e ferma obiezione di coscienza allo scellerato decreto dell’ignobile governo italiano, proseguendo la dichiarazione di ieri.
Parte Seconda: La commedia
Genova, 4 luglio 2009. - Parola di Dio! No, della Cei! Anzi del Vaticano! Venghino, signore e signori, la commedia è cominciata. A decreto appena sfornato, ancora caldo e fumante, il responsabile vaticano dei Migrantes osa dire che il decreto «porterà molto dolore»; gli fa eco la Cei che parla a più voci: «Sull’immigrazione non basta l’ordine pubblico ma servono anche politiche volte a favorire l’integra-zione». Il direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei afferma che «di fronte al fenomeno complesso dell’immigrazione, è evidente che una risposta dettata dalle sole esigenze di ordine pubblico - che è comunque necessario garantire in un corretto rapporto tra diritti e doveri - risulta insufficiente’».
Non è il massimo che dovrebbero dire due istituzioni religiose, ma anche un buffetto dato al momento giusto, è significativo e meglio di niente. Le parole fragili e timide erano ancora in aria e non si erano depositate in terra, che come uno sputo a tradimento arriva la dichiarazione ufficiale del portavoce vaticano, Padre Federico Lombardi: «Il Vaticano come tale non ha detto niente sul decreto sicurezza approvato dal governo italiano. Ha parlato monsignor Marchetto [Ufficio Migrantes del Vaticano], ma non mi consta che il Vaticano in quanto tale abbia preso posizione». A noi consta, consta!
Il Vaticano non ha detto niente, non ha preso posizione e il suo niente ha la potenza dirompente della parola esplicita: il governo è al sicuro, Bossi può discettare sui preti che parlano ma non contano niente e Maroni fa spallucce a quelle che definisce «liturgie», cioè rituali vuoti e inutili. Non si è fatto attendere l’esimio fascista La Russa, nonché ministro della Difesa, che, grato pose: «Siamo lieti della precisazione del Vaticano, che mette in rilievo la differenza tra un giudizio, legittimo, di monsignor Marchetto e quello del Vaticano». Obiettivo raggiunto, come si conviene tra compari.
Come volèvasi dimostrare, il cerchio ora è quadrato. Speravamo di ascoltare dal portavoce del papa parole semplici, antiche, parole dal sapore evangelico come «voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2, 19). Oppure, se ancora il papa e la sua corte non fossero arrivati al Nuovo Testamento, le parole dell’Antico: «perché il Signore vostro Dio ... [è] il Dio grande, forte e terribile che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,17-19) a cui fa eco il Cronista: «nell’agire, badate che nel Signore, nostro Dio, non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali e non accetta regali [= non si lascia corrompere con regali]» (2Cr 19,17).
Abbiamo sentito solo voci di diplomazia da tornaconto, di ossequio servile, di eresia e di apostasia dalle quali prendo le distanze in modo netto e senza paura delle conseguenze. Io, Paolo Farinella prete mi dichiaro «obiettore di coscienza» al decreto 733-B/2009 e al Vaticano che non riconosco come mio Stato e che non mi rappresenta come prete della Chiesa Cattolica, apostolica e universale. Anzi, lo considero una maledizione di Dio sull’intera Chiesa e prego che sprofondi negli abissi della Gehènna.
Avevo facilmente previsto che l’inasprimento del 41-bis nei confronti dei mafiosi, sarebbe servito come foglia di fico per accreditare un governo screditato come tutore di legalità. Le cronache confermano e il diritto è affossato. Di seguito un breve ripasso della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (Onu, 10-12-1948) sottoscritta dall’Italia quando era uno Stato di Diritto:
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1). «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione ( art. 2 § 1)». «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona (art. 3)». «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù (art. 4)». «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica (art. 6)». «Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge ... contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione (art. 7)». «Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato (art. 9)». «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese (art. 13 §§ 1-2)». «Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni (art. 14 § 1)». «Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza (art. 15, §§ 1-2)».
Il decreto del governo della vergogna ci colloca fuori da questa logica, da questa civiltà e dalla storia del Diritto, ma è ancora più grave che, per graziosa concessione del Vaticano, la Chiesa intera è dichiarata estranea al Vangelo, a Dio e a Gesù Cristo. Mi chiedo con quale diritto il papa e i suoi portavoce possano chiedere che nella Costituzione UE sia scritto un riferimento esplicito alle «radici cristiane».
I cristiani della base, moltissimi preti, i volontari, le associazioni e le donne e gli uomini di buona volontà si oppongono e si opporranno a questo decreto anche a costo della loro vita e il Vaticano vada in perdizione. Nessuno lo rimpiangerà, tranne il governo Bossisky-Berluskonijad, compagnucci di merende e di abiezione.
* Il Dialogo, Sabato 04 Luglio,2009 Ore: 16:59
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Rosarno, l’Europa suicida
di Lluis Bassets (il Fatto, 19.01.2010)
E’ in Calabria il terreno di coltura che fa crescere l’intolleranza: uno Stato assente, corrotto e privatizzato. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo e occidentalismo mascherato da universalismo.
Una volta ancora l’Italia indica la strada. Lo ha fatto spesso per il meglio, come nel caso del Rinascimento. Talvolta lo ha fatto per il peggio, come con il fascismo. E adesso ci risiamo con la violenta espulsione da Rosarno, in Calabria, della comunità di immigrati dopo gli scontri tra i locali e i braccianti agricoli africani. Il rifiuto dell’altro, la fobia dello straniero e il razzismo non sono monopolio di nessuno: partiti post-fascisti, iniziative xenofobe e leggi repressive proliferano da Vic, in Catalogna, fino a Copenaghen. Ma l’“avanguardismo” italiano, facilitato dalla miscela tra la cinica politica degli interessi affaristici e le ideologie intransigenti che predicano l’esclusione, ha partorito una delle leggi più severe d’Europa contro gli immigranti e un livello di tutela degli stranieri da parte dello Stato che è tra i più bassi del continente.
Le cose vanno peggio proprio là dove lo Stato si ritira lasciando un vuoto che viene colmato dalla criminalità. Il contesto non è soltanto di resa del governo in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di rispetto della legalità.
La Calabria ha il record dell’evasione fiscale ed è, al tempo stesso, una regione sovvenzionata dal denaro pubblico e corrosa dalla corruzione. Non si tratta del “meno Stato” di thatcheriana memoria, bensì di uno Stato privatizzato e intrecciato inestricabilmente con il potere economico di Silvio Berlusconi, occupato in questi giorni, come durante tutta la sua lunga permanenza alla guida del governo, ad evitare i processi e ad ottenere l’immunita’ mentre i suoi alleati della Lega nord si dedicano a tradurre in pratica e a diffondere le loro idee radicali sull’immigrazione.
La pessima situazione dell’economia e l’aumento del tasso di disoccupazione sono benzina sul fuoco, ma non debbono ingannarci. Il problema centrale che l’Europa deve affrontare consiste nella costruzione di un modello efficace, rispettoso e civile di integrazione degli immigrati, un modello che consenta di assorbire la manodopera necessaria per mantenere i livelli di benessere, i valori e gli stili di vita e soprattutto il welfare, lo Stato sociale. E’ questa la sfida che si trova a dover affrontare un mondo che cambia e che nei prossimi quarant’anni vedrà ridurre in maniera drastica il peso dell’Europa rispetto al resto del pianeta, sia sotto il profilo demografico sia per quanto concerne il Prodotto interno lordo per non parlare della sua capacità di iniziativa politica già fortemente condizionata dalla sua proverbiale indolenza.
Questo mese, la Cina ha superato la Germania come primo paese esportatore e gli Stati Uniti come primo mercato automobilistico del mondo. Nel corso del 2010 potrebbe superare il Pil del Giappone diventando la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Nei prossimi quattro decenni l’Europa perderà in misura significativa peso, ricchezza e potere non solo in rapporto alla Cina, ma anche nei confronti di Brasile e India. Secondo le previsioni di Felipe González, nel quadro delle sue riflessioni sul futuro del continente, per mantenersi a galla, a partire dalle nostre economie e dal nostro modello sociale, l’Europa entro il 2050 avrà bisogno di almeno 70 milioni di lavoratori immigrati oltre a quelli già presenti nei vari paesi del continente.
Al cospetto di queste radicali trasformazioni, la reazione, non esattamente spontanea, dei cittadini europei è di tipo conservatore e difensivo: dinanzi alla perdita di peso e di centralità e al cospetto del pluralismo e della diversità, ci trinceriamo dietro l’identità e l’ideologia. La lista è lunga: il referendum svizzero contro i minareti, il divieto francese del velo nelle scuole, il discorso di Ratzinger a Ratisbona, l’ascesa dei partiti xenofobi, le modifiche apportate alle leggi in materia di asilo e immigrazione o la ostilità francese e tedesca all’ingresso della Turchia nella Ue. Come risultato, l’immagi di una Europa-fortezza, che espelle e criminalizza gli immigrati, si va diffondendo in tutto il resto del mondo più di quan- occidentale. In questo modo to si possa percepire in Europa.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata progressista, il suicidio dell’Europa non è la traduzione in pratica di un progetto di estrema destra. O, quanto meno, non solo. Questo pericolo trova terreno fertile nelle tensioni e nelle difficoltà di cui soffrono prevalen- di temente i più dimenticati: in Calabria è in corso anche una guerra tra poveri. Dai quartieri delle periferie francesi “lepenizzate” fino ai disoccupati calabresi manipo lati dalla ‘Ndrangheta, la vera base sociale del populismo e delle pestilenze nere è costituita sempre dai meno favoriti. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo, scorrettezza politica e occidentalismo mascherato da universalismo.
In fin dei conti gettiamo alle ortiche i valori autenticamente europei, le idee dell’Illuminismo che sono state sinora il fattore trainante della modernità occidentale. In questo modo prima perderemo l’anima, poi perderemo tutto, compreso lo Stato sociale.
I cittadini invisibili
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 19.01.2010)
Su Repubblica di alcuni giorni fa, Roberto Saviano ha detto che gli immigrati di Rosarno sono stati coraggiosi contro i clan,«più coraggiosi di noi» (italiani). Coraggiosi lo devono essere perché non hanno nulla da perdere se non quel poco che riescono a mettere insieme per spedire a casa e per sopravvivere in qualche modo qui. Perché abituati a essere sempre a rischio, senza reti protettive alcune: non le autorità del governo dal quale fuggono (e che spesso li perseguita), non la legge del paese dove lavorano che gli è spesso nemica come troppe volte gli sono nemici gli abitanti del paese straniero, per i quali lavorano per un pugno di centesimi e dai quali sono visti come a metà tra il bestiale e l’umano.
Gli immigrati sono clandestini anche quando formalmente non lo sono perché la loro clandestinità è rispetto alla società e alla cultura del Paese dove lavorano, non solo rispetto alla legge. Clandestini in senso totale: per la legge sono non esistenti e la loro invisibilità dà agli italiani una sorta di visto per impunemente sfruttarli, ingiuriarli, maltrattarli; essendo fuori della norma sono alla mercé di tutti, «nuda vita» come direbbe Giorgio Agamben.
Questa radicalità li mette, che lo vogliano o no, naturalmente faccia a faccia con i loro equivalenti nostrani di clandestinità: quegli italiani di ’ndrangheta, mafia e camorra che prosperano anche grazie alla clandestinitá formale e civile degli stranieri. Forza contro forza, benché, come abbiamo visto a Rosarno in questi giorni di ferro e fuoco, a perdere sono i clandestini non i fuorilegge nostrani; a perdere sono i piú deboli e piú esposti in assoluto, coloro che la legge dichiara perseguitati e verso i quali non resta indifferente né si fa tollerante.
Eppure, quando alzano la testa, quando rivendicano nelle forme della forza -poiché non ne hanno altre visto che la legge non consente loro voce e visibilità civile - il poco salario in nero e di fame che gli é stato promesso, quando sfidano i prepotenti dell’illecito lo fanno a viso aperto, ignari delle pratiche omertose: la loro violenza, certamente ingiustificata come deve esserlo sempre in una societá che è civile, è un grido di accusa alla nostra democratica Italia. Poiché la loro condizione di radicale e totale sfruttamento ingrassa i nemici della legge e della societá civile. Quegli immigrati dovrebbero essere visti come amici della democrazia, se non altro perché mostrano con tremenda efficacia quanto grave sia l’affare dell’illecito nel nostro paese - un affare che trasmigra dalle terre d’origine e giunge come abbiamo visto in questi giorni nella Pianura Padana, in Emilia-Romagna. L’illecito travolge gli argini. È questo il pericolo che ci deve fortemente preoccupare e che la disperata reazione degli immigrati mette in luce.
Le vicende di Rosarno riportano alla mente le lotte di Giuseppe Di Vittorio contro il caporalato, la tratta dei bambini e delle donne nelle campagne del Tavoliere. Anche allora la sfida era tra legalitá e illegalitá. Di Vittorio era pugliese e a sette anni e mezzo giá bracciante; a dodici si trovó coinvolto in una sparatoria della polizia nella quale morí un suo coetaneo, Ambrogio, durante una dimostrazione di braccianti che chiedevano un salario, non un pugno di soldi. Di Vittorio non combatteva per eliminare gli avversari ed era contro la violenza; combatteva per cambiare le relazioni sociali e le regole. I suoi avversari erano gli affaristi dell’illecito, coloro che non si facevano scupoli di ricorrere alla violenza per contrastare l’unione sindacale dei braccianti, ovvero la trasformazione del conflitto da ribellione violenta (che giustificava la repressione) a contestazione civile: poiché, allora come oggi, operare sotto la legge implicava rendere pubblico ciò che per profitto dei clan doveva restare sommerso e invisibile.
I braccianti che organizzò Di Vittorio vivevano come topi in tuguri malsani e scioperavano per una razione extra di «acqua salsa» con la quale bagnare il pane secco. Erano gli antenati naturali dei clandestini di oggi. Con una differenza che rende l’emergenza di oggi piú grave e preoccupante: poiché se a caricare e a sparare sui braccianti erano allora la "guardia regia" o i carabinieri della repubblica, oggi sono i cittadini stessi, manipolati spesso da una propaganda che ha avuto addirittura ispiratori in partiti che governano il Paese; una propaganda che come un vento pestilenziale è capace di generare terribili cose dove la via della legge è giá di per sé molto impervia e spesso collassata. Di Vittorio aveva compreso che la lotta contro il caporalato e l’illecito era imprescindibile non solo o tanto per i cafoni del Sud, ma per la democrazia italiana; poiché il sistema che sostiene il caporalato è nemico totale del governo della legge, senza possibilità di compromessi, e perché alimenta un sistema affaristico che non conosce frontiere regionali.
El País, Madrid, 17 gennaio 2010
http://www.elpais.com/articulo/internacional/activista/Shukri/Said/huelga/hambre/ingresa/hospital/Roma/elpepuint/20100117elpepuint_11/Tes
L’attivista Shukri Said, in sciopero della fame, viene ricoverata in un ospedale di Roma
Mezzo milione di immigrati attendono per mesi il proprio permesso di residenza in Italia. Il governo finge di non vedere il digiuno di 300 persone che chiedono alla Presidenza spagnola una mediazione con l’Esecutivo Berlusconi.
di Miguel Mora, Roma - 17.01.2010 (traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)
L’attivista italiana di origine somala Shukri Said, portavoce dell’Associazione Migrare, è ricoverata da ieri nella clinica romana Madonna della Fiducia, dopo essere rimasta per 17 giorni in sciopero della fame. Said e trecento immigrati digiunano per esigere dall’Italia che si rispetti la legge vigente, nora come Bossi-Fini, in tutto ciò che riguarda concessione e rinnovo dei permessi di soggiorno per gli immigrati. La norma prevede che i permessi siano rinnovati entro 20 giorni, tuttavia attualmente la trafila burocratica dura in media fra sette e tredici mesi. In questo momento vi è mezzo milione di immigrati che aspettano una risposta dall’Amministrazione.
“Si tratta di una burocrazia xenofoba e criminale”, spiega Said dalla clinica con un filo di voce, “perché durante il periodo nel quale lo Stato ritarda nel concedere il rinnovo del permesso sono sospesi i diritti basilari degli immigrati. Non possono viaggiare, né lavorare legalmente, e in caso di necessità gli ospedali non li accudiscono”.
Gli attivisti rilevano come “il clima di razzismo istituzionale fomentato dalla Lega Nord ha aumentato la sfiducia e la paura della popolazione italiana nei confronti dello straniero, così che la cartolina che gli immigrati ricevono in attesa della concessione del permesso è soltanto carta straccia. Nessuno si fida”. Durante la trafila burocratica gli immigrati non possono nemmeno spostarsi e questo Natale migliaia di stranieri in posizione di attesa non hanno potuto visitare le loro famiglie nei Paesi di origine.
Da quando ha cominciato la sua protesta il 1 gennaio, la collaboratrice delle pagine di Opinión di El País ha perso quattro chili di peso. Il medico che la cura, Tonino Ingratta, spiega che il suo stato di salute è “preoccupante”. Said ha la pressione del sangue molto bassa e arrischia un’insuffcienza renale. L’attivista per i diritti umani, di 37 anni, è stata curata con siero ma continua a rifiutare l’ingestione di alimenti. “È un modo per gridare al mondo la rabbia e la disperazione che l’Italia sta provocando agli immigrati che cercano di mettersi nella legalità. La consegna del governo sembra consistere nel criminalizzare ed emarginare sempre più i lavoratori starnmieri, impedendo il loro ingresso nella società civile. E per ottenere ciò lo stesso governo non esita a porsi al di fuori delle sue stesse leggi.
I primi scioperanti della fame iniziarono il loro digiuno lo scorso 13 dicembre, sparsi in tutto il Paese, appoggiati dalla direzione del Partito Radicale, il cui segretario, Mario Staderini, ha reclamato “soluzioni concrete” e ha denunciato la paralisi burocratica, che “prevede la morte civile degli immigrati e alimenta il circuito della criminalità”.
Dopo essersi appellata senza risultati al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e aver constatato che la sua iniziativa non ha avuto eco fra le istituzioni e l’opposizione del Partito Democratico, Said si appella alla Presidenza della Repubblica Italiana e all’Unione Europea, perché prendano posizione su questi fatti. “Giorgio Napoletano, come Capo dello stato e garante della Costituzione italiana, e la Spagna, come presidente di turno dell’Unione Europea, devono fare udire la loro voce. I media italiani e le istituzioni hanno ignorato la nostra protesta perché gli immigrati non hanno diritto di voto”, afferma Said. “Confidiamo nell’umanità e solidarietà del Presidente spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, perché l’Europa faccia pressioni sulle autorità italiane perché rispettino i diritti civili e le leggi stesse del loro Stato”.
Cosa ci insegna il caso Rosarno
L’immigrazione e il dominio del denaro
di Enzo Mazzi (il’Unità, 10.01.2010)
L’aggressione a Rosarno dei neri e la loro rivolta disperata sono archiviate in breve come le precedenti con qualche orripilante ma assai popolare invettiva contro l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina e con qualche lacrima compassionevole verso i poveri schiavi trattati come bestie randagie. E i clementini della piana del Tauro non ebbero alcun sussulto al mercato della frutta e la politica continuò il suo balletto e tutti ci voltammo dall’altra parte a cercar sedativi contro l’angoscia montante per un futuro senza speranza.
Mentre i fatti di Rosarno andrebbero assunti come sintomo di un cancro che divora la società ormai a livello mondiale. Per cercar terapie finché c’è tempo. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha sfrattati da noi stessi.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città.
Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore.
Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica.
Se questi sono uomini
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/1/2010)
Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.
A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.
E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.
Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).
Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.
Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.
Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».
Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.
Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.
Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.
Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.
Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella curiosa, accogliente, porosa che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.
L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».
Chi usa gli ultimi della terra
di Gad Lerner (la Repubblica, 9 gennaio 2010)
Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali scatenate nell’assalto agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati, rappresentano una vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa morale.
Di quale tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent’anni l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia si regge economicamente sull’impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d’assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale? Ora non li vogliono più, s’illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi.
Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l’umanità.
Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell’ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l’importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni? Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la "caccia al nero": disordini razziali che evocano scenari di un’America d’altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell’agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un’opera di civilizzazione che mal si concilia con l’offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d’ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un’azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire - con la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un’area rimasta povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla ’ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non c’entra un bel nulla. L’Italia dell’economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che restiamo l’unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un’informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.
Sulla scia di un’analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l’idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: "24h senza di noi". Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l’intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l’inciviltà dei pogrom è contagiosa.
Smetterla di «non vedere»
Un’altra storia è possibile
A Nord come a Sud
di Antonio Maria Mira (Avvenire, 9 Gennaio 2010)
Rosarno, Italia: cinquemila immigrati, in gran parte irregolari, pagati (quando va bene) 18-20 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro a raccogliere agrumi, ammucchiati in ex fabbriche senza acqua e senza luce, sfruttati da imprenditori e mafiosi, dimenticati da enti locali e istituzioni regionali e nazionali. Val di Non, Italia: settemila immigrati, tutti regolari, pagati 6,90 euro all’ora per 8 ore di lavoro a raccogliere mele, con vitto e alloggio assicurato dai datori di lavoro, sotto il rigoroso controllo della provincia di Trento e dei Comuni della zona. Dietro alla drammatica rivolta degli immigrati africani della Piana di Gioia Tauro, dietro la reazione degli abitanti, sfociata ieri sera in due feroci gambizzazioni, c’è ancora una volta questa Italia spaccata in due, questo Paese che, come ha denunciato più volte il capo dello Stato, viaggia a velocità diversissime. Due Italie, forse addirittura due pianeti diversi.
Lo diciamo chiaro e forte, perché nessuno può accusarci di trito e becero antimeridionalismo. Avvenire, con la stessa identica passione della Chiesa italiana e dei suoi vescovi, è da sempre attento alla realtà del Sud: al male che la affligge e al tanto bene che offre. Anche sul fronte immigrazione. Perché non è impossibile gestire e accompagnare questo fenomeno epocale. Proprio nella tanto disastrata Calabria due paesi della zona jonica, Caulonia e Riace, sono esempi di integrazione, apprezzati e studiati anche all’estero. Addrittura ospitano, su richiesta degli organismi internazionali, i profughi dei campi palestinesi. Dunque, si può agire nella legalità e nella civiltà. E non solo nell’efficiente Trentino.
Esperienze felici, ma purtroppo solo isole. Il resto è un mare di Rosarno, dove gli immigrati si spostano seguendo le stagioni. Nomadismo agricolo: a settembre in Sicilia (olive), tra ottobre e marzo in Calabria (agrumi), poi in Puglia e Campania (ortaggi). Così da almeno venti anni. Sotto agli occhi di tutti. All’aperto dei campi, non al chiuso di qualche fabbrica. Tutti vedono ma girano la testa dall’altra parte. Le istituzioni per prime. Gli 800 immigrati ammassati nell’impianto (mai entrato in funzione) dell’ex Opera Sila sono più o meno gli stessi che vivevano, in condizioni analoghe, nell’ex cartiera di Rosarno. Sbarrata quest’ultima dopo il ferimento a pistolettate, un anno fa, di due immigrati e una prima rivolta, gli 800 hanno solo cambiato "inferno". Intanto i due Comuni interessati, Rosarno e Gioia Tauro, sono stati (e non è certo una coincidenza...) sciolti per infiltrazione mafiosa. Ma neanche la diretta gestione da parte delle prefetture attraverso i commissari straordinari è stata capace di dare una svolta.
Perché non è solo una questione di ordine pubblico. Malgrado pistolettate, rivolte e gambizzazioni. Se in migliaia ogni giorno si "prostituiscono" agli incroci della Piana di Gioia Tauro, aspettando di essere soppesati e assoldati dai "caporali"; se dopo fredde e interminabili giornate a raccogliere i dorati frutti degli agrumeti tornano a dormire tra mura diroccate, sotto teli e cartoni e perfino nei silos metallici; se al loro fianco hanno, come al solito, la sola preziosa e disinteressata presenza del volontariato; se vengono sfruttati e sottopagati con la scusa che il mercato degli agrumi non tira, davvero questa Italia non va. Non è solo colpa della ’ndrangheta, che certo su di loro si arricchisce e magari li usa come facile manovalanza criminale (Rosarno, ahimè, è un noto punto di transito della droga, «la farina» come la chiamano i corrieri di colore). E che forse ieri, come suo stile, ha voluto "fare giustizia" sparando ad altri due immigrati.
Ma la ’ndrangheta non spiega tutto. Dove sono le organizzazioni imprenditoriali? Battano un colpo. Chiaro, netto. Magari, come Confindustria Sicilia, espellendo chi usa lavoratori in nero o irregolari. E lo battano le istituzioni, come già fanno in altre regioni o in altre zone della Calabria. Non ci saranno così più alibi per i violenti, italiani e immigrati.
Antonio Maria Mira
Saviano:
gli africani contro i clan sono sempre più coraggiosi di noi
(la Repubblica , 09.01.2010)
ROMA «Contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi». Lo ha detto Roberto Saviano a proposito degli scontri di Rosarno, ricordando che quella calabrese «è la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie: per questo non vanno criminalizzati ma scelti come alleati contro l’illegalità». «La prima rivolta ricorda lo scrittore a Villa Literno nel 1989, la seconda a Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre dopo aggressioni subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte».
La rivolta degli schiavi
di Moni Ovadia (l’Unità, 09.01.2010)
Doveva succedere! Quanto tempo può sopportare senza reagire un essere umano schiavo, che lavora come una bestia, per poco più di un tozzo di pane, che vive nel degrado peggio di una bestia, che subisce violenze, ricatti, che viene violentato, abusato dal padrone e dalle mafie, che è privo del più elementare diritto, che non accede neppure alla dignità dell’esistenza? Non c’è che una risposta per una persona decente. No! Non può sopportare. E noi dovremmo reagire a ciò che è accaduto a Rosarno interrogandoci. Che razza di paese è il nostro che permette una simile vergogna? Che razza di ministro è quello che accusa gli schiavi e propone un’ulteriore repressione nei loro confronti? La logica dell’intolleranza ha mai giovato alla convivenza civile?
Credere di fermare l’immigrazione clandestina combattendo gli immigrati è una pia illusione ed è un atto vile. Non è l’immigrato che sollecita la malavita, è la malavita che incrementa e orienta l’immigrazione clandestina ed è interessata a creare condizioni esasperate, anche attraverso la guerra fra poveri, per potere vendere a maggior prezzo e con più alto profitto la povera carne umana su cui riesce a mettere le mani. E che dire degli imprenditori schiavisti? Perche non si propone contro di loro e la loro infamia tolleranza zero? L’arresto dei mafiosi a che serve se non viene prosciugata la palude che alimenta la criminalità?
Oggi il Presidente della Camera Fini per l’ennesima volta ha preso la parola in difesa degli immigrati dicendo che non si combatte contro gli schiavi, si combatte la schiavitù. Il leader di An vuole evidentemente dare voce a un centro destra civile ed europeo. È ora che si trovi il coraggio di costituire su tali questioni un ampio fronte che superi gli schieramenti per salvare l’Italia dal baratro.❖
Ci trattano come bestie, non ho paura di morire
“Non ho paura di morire. Se Dio vuole, la mia vita finisce qui, altrimenti tornerò a casa e rivedrò i miei figli". Ahmed è un po’ il capo, qui nella "rognetta", il rifugio dei braccianti africani che raccolgono mandarini in giro per le campagne di Rosarno. Ventitré euro al giorno netti. Cinque li pagano al caporale, "che è uno di noi", raccontano. "E due euro li paghiamo di benzina". Dopo essersi spaccati la schiena nei campi, per 14 ore al giorno, tornano alla "rognetta", o alla "ex Sila", che sono i due accampamenti nei quali dormono. Intorno a loro c’è puzza di urina, bucce di arancia che fermentano, una decina di bagni chimici, neanche un posto dove fare la doccia.
Quasi nessuno parla l’italiano. Ahmed il marocchino è uno dei pochi. Anche per questo sembra il capo. "Ho due figli", racconta. "E non li vedo da cinque anni. Se torno a casa non mi riconoscono neanche più. Ma spedisco loro soldi ogni mese". A modo suo, è un imprenditore. "I soldi che guadagno qui, in campagna, li reinvesto in costumi e asciugamani da bagno, che rivendo d’estate, quando lavoro sulle spiagge. Però non è più possibile sopportare tutto questo. Io lavoro, punto. Tutti, qui lavoriamo. E non vogliamo altro. Ci sta bene pure dormire in queste condizioni, non importa, l’importante è lavorare onestamente e spedire i soldi a casa. Ma non possiamo essere sparati, come è successo al mio amico Babou, e non reagire. Non abbiamo più niente da perdere. La gente deve capire un concetto semplice: io sono sbarcato a Lampedusa, ho rischiato di morire in mare, per venire qui. Credevo di trovare il paradiso e ho trovato l’inferno. Ho rischiato di morire già una volta, non mi fa paura rischiare di morire adesso, perché so di essere nel giusto".
Babou lo guarda e annuisce. Mostra il braccio ferito dal proiettile di gomma, che gli hanno sparato l’altro giorno: "Non sono una bestia", dice in francese, perché non parla una parola d’italiano. È arrivato pochi giorni fa da Brescia e vuole ripartire. "Provo soltanto dolore", racconta in francese, "e non riesco neanche a pensare che sia razzismo. Sono arrivato il 21 dicembre, e voglio essere onesto, posso parlare soltanto per me, per quello che ho visto, e in due settimane non posso dire che Rosarno è razzista. Posso soltanto dire che c’è tanta, troppa violenza, e io devo sfamare i miei due figli, che sono in Costa d’Avorio, non appena mi aiutano a partire, vado via, per cercarmi lavoro altrove". an. ma.
Profondo Italia: il tiro a segno sulla carne nera Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo
di Mimmo Calopresti (il Fatto, 09.01.2010)
Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte. È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla.
In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto. Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio.
Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri. Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità. I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa.
Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano. Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca.
Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata.
Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché - come diceva Fabrizio De Andrè - chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere. Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.
Lavoro da schiavi e regole imposte dalle ‘ndrine
La sera di giovedì a Rosarno alcune centinaia di immigrati, in prevalenza irregolari, si sono riversatati nelle strade rovesciando cassonetti e incendiando automobili. La protesta è nata nel pomeriggio, dopo che colpi di fucile ad aria compressa avevano fatto una decina di feriti: una “spedizione punitiva” che li ha raggiunti nei capannoni dove vivono. La protesta è continuata ieri.
Ma chi sono questi manifestanti? Uomini, sotto i 30 anni, provenienti da paesi africani. Si stima che siano dai 3 ai 5mila, lavoratori stagionali che raccolgono uva, arance, olive e pomodori. A seconda della stagione, si spostano dalla Puglia alla Campania dalla Calabria alla Sicilia. Le condizioni di vita non cambiano: non hanno casa, vivono in edifici fatiscenti, senza materassi, acqua e bagni; guadagnano dai 20-25 euro per 12/14 ore al giorno e, di questa paga, sono costretti a versare una “quota” ai soprastanti che li ingaggiano.
È un lavoro semi-schiavistico e, talvolta, schiavistico in senso proprio (controllo “militare” sull’attività svolta, organizzazione gerarchica, trasferimenti coatti, punizioni crudeli). Il quadro di riferimento in cui tutto ciò si colloca non è, in primo luogo, quello razzismo-antirazzismo: è, piuttosto, quello del lavoro servile all’interno di un’organizzazione criminale (in Calabria, nelle mani delle’ndrine). E il razzismo aggiunge un elemento di oppressione e discriminazione. I fatti di questi giorni sono tutt’altro che imprevisti: già nel dicembre 2008, a Rosarno, due immigrati erano stati feriti da una analoga “spedizione punitiva”. Allora la reazione fu sostanzialmente pacifica.❖
Sfruttati e vessati
la vita infame dei «neri» nella terra dei caporali Venticinque euro al giorno per spezzarsi la schiena e raccogliere arance nei campi controllati dalla ’ndrangheta. Tutti sanno e in troppi tacciono
di Marco Rovelli (l’Unità, 09.01.2010)
La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa.È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue - e quando la rabbia esplode, allora non c’è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono - se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie.
Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d’uomo. Racconti di braccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all’indomani dell’incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto - che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata.
Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l’apice della ricattabilità), dall’altra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società.
A Rosarno i braccianti subsahariani sono l’ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli - per la loro nerezza - meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all’ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine - con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di ’ndrine, è cosa nota, com’è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l’impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale.
Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire).
Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l’economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamo è dovuto proprio alla manodopera servile).
E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la ’ndrangheta, e non dicano che è la ’ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la ’ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che - come a Castelvolturno hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.❖
Un testo di John Kennedy [del 1957], pubblicato per la prima volta in Italia, racconta la via crucis dei migranti
Parole di mezzo secolo fa che sembrano scritte oggi
JFK: «Io sono un immigrato»
Non c’è nulla di più straordinario della ridda di emozioni e sentimenti che inducono una famiglia a dire addio ai vecchi legami, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera
Strappati alla loro vecchia vita, sbarcavano nel nuovo Paese stremati Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze, dovevano proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro
di John Fitzgerald Kennedy (la Repubblica, 30.o8.2009)
l’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana. Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile. [...]
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.[...]
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville.
Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman:
Questi Stati sono il poema più ampio, /
Qui non v’è solo una nazione ma /
una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro. [...]
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un’epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell’altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l’emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un’avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l’esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l’emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un’influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell’attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all’epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l’equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo.
Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l’aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L’unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria - facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. [...]
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte - persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche - costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». [...]
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l’attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un’intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c’era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l’eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l’origine dell’inventiva e dell’ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.[...]
Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all’arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all’interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale, così com’era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie. Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata [...]. La feccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese». [...]
Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
Traduzione di Marianna Matullo
© Donzelli Editore 2009
Quei bisogni ignorati
di Chiara Saraceno (La Repubblica, 07.07.2009)
Badanti, una parola entrata nel lessico quotidiano e persino in quello giuridico-amministrativo. È stato coniato allorché il fenomeno delle donne immigrate che si prendono cura di persone non autosufficienti si è diffuso. Ed è diventato visibile nella vita e negli spazi quotidiani. È una parola sottilmente svalutativa, sia per chi "bada" che per chi "è badato". Quasi si volesse sminuire, specie quando si tratta di persone a pagamento e per di più straniere, non solo il lavoro, ma il mondo di significati e l’intensità relazionale che si producono inevitabilmente nelle relazioni di cura. E tuttavia è una parola che designa una categoria di immigrati che molti ritengono "meritevoli", per cui fare una eccezione rispetto alla durezza delle norme sulla immigrazione. Persino il ministro per la famiglia Giovanardi si è svegliato da un lungo sonno per avanzare una proposta in questo senso. Lo chiede anche il responsabile per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana.
Perché le badanti e le colf appaiono ai cittadini, ai politici, ai vescovi, come più meritevoli di indulgenza rispetto al manovale sfruttato in nero, all’operaio che, perso il lavoro regolare e con ciò il permesso di soggiorno, se non si allontana subito dal territorio italiano diventa automaticamente un clandestino? Perché sono diventate un pezzo indispensabile di quel welfare familiare che le famiglie italiane si sono inventate per far fronte ai bisogni di cura posti da un lato dall’invecchiamento, dall’altro dal, pur lento e difficile, aumento della occupazione delle madri con figli piccoli. In un paese in cui i servizi per bambini sotto i tre anni sono cresciuti del 3 per cento in dieci anni, in cui i servizi domiciliari per le persone non autosufficienti sono una chimera, in cui anche il tempo pieno scolastico viene ridotto per ridurre i costi, l’immigrazione ha fornito una alternativa a basso costo - tanto più se irregolare.
Lasciate sole da un welfare inefficiente - per riprendere il titolo di un pamphlet ricco di dati di Daniela Del Boca e Alessandro Rosina appena uscito dal Mulino (Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare inefficiente), le famiglie si sono inventate il welfare fai da te delle badanti, da integrare nel patchwork della solidarietà famigliare allargata. È un welfare i cui costi sono tutti a carico delle famiglie e delle donne migranti. Eccettuate alcune eccezioni locali, lo stato non si assume alcuna responsabilità, salvo, nel migliore dei casi, quella di chiudere gli occhi. Nel peggiore, come oggi, l’unica iniziativa è di tipo repressivo. In ogni caso, vengono ignorati sia i bisogni delle persone, sia la fatica delle famiglie (in particolare delle donne), sia i diritti delle lavoratrici immigrate ad un compenso adeguato, ad un minimo di sicurezza sociale, alla possibilità di mantenere rapporti con le proprie famiglie. Ci sono immigrate che non vedono i propri figli e propri genitori per anni. Non solo perché il viaggio costa troppo, ma perché, essendo presenti irregolarmente, non possono rischiare di uscire dall’Italia per timore di non poter più rientrare. Proprio a coloro che ci aiutano a prenderci cura dei nostri famigliari spesso viene negato il diritto ai propri rapporti famigliari. Il risultato è una permanente situazione di incertezza, che rende facili sfruttamenti, ma anche ricatti, da una parte e dall’altra. Tutto il contrario dell’obiettivo della sicurezza tanto sbandierato per giustificare le nuove norme.
Ma anche altre figure di immigrati, oltre alle badanti, si trovano in situazioni simili. Se ci appaiono meno "meritevoli" di eccezioni è perché le viviamo come meno indispensabili al funzionamento della nostra vita quotidiana. E perché ci aspettiamo da loro una dedizione che va al di là del puro rapporto di lavoro. C’è una non tanto sottile forma di egoismo nel mettere a fuoco solo la situazione delle badanti. Anche la tardiva resipiscenza di Giovanardi risponde a questa logica: un governo che nulla ha fatto e fa per sostenere le famiglie, teme di vedersi presentare il conto da chi è riuscito ad arrangiarsi da sé e ora vede vanificati i propri sforzi. Ma non basterà una eccezione per le badanti a modificare un welfare slabbrato e diseguale. Non basterà neppure a restituire dignità a un paese che ha inventato l’aggravante del reato di clandestinità per rendere ancora più precaria, e più ricattabile, la situazione di chi neppure volendo riesce a regolarizzare la propria presenza - onesta, laboriosa, spesso necessaria - in Italia.
Il peccato della sodomia
di Moni Ovadia (l’Unità, 4.7.09)
Il gravissimo peccato della sodomia, contrariamente a quanto potenti e chierici sessuofobi e omofobi hanno voluto raccontare e far credere, non ha nulla a che fare con il sesso, né etero né omo, ma riguarda il comportamento nei confronti dello straniero e del debole. Ricordiamo per sommi capi l’episodio biblico: Lot, nipote di Abramo, risiede nella città di Sodoma e ospita tre stranieri, nella fattispecie i tre arcangeli sotto spoglie di viandanti che hanno annunciato ad Abramo la nascita utopica di suo figlio Isacco. I sodomiti si recano a casa di Lot e gli intimano di consegnar loro gli stranieri per violentarli.
Non portano loro un invito per un orgia, ma vogliono usare contro di loro una delle più atroci e degradanti forme di violenza. Questa è la ragione per la quale i nostri maestri indicano la sodomia come il peccato irredimibile di violenza contro lo straniero e ciò vale a fortiori per il clandestino, perché essendo sprovvisto di tutele giuridiche è doppiamente straniero, in quanto straniero e debole. La città ostile allo straniero fu rasa al suolo perché non vi si trovarono dieci giusti che potessero intercedere per la sua salvezza.
Fortunatamente nel nostro Paese molte sono le voci che si sono levate a denunciare con toni fermi questa legge vile e malvagia, a cominciare dalla Chiesa cattolica e numerose associazioni cristiane. Il ministro Maroni invece ha dato prova della sua caratura con la consueta protervia del vincitore. Quelli come lui definiscono tutti quelli che sanno indignarsi contro la vigliaccheria: buonisti. Noi non siamo buonisti siamo giusti.
È bene tuttavia avvertire coloro che per paura portano il loro acritico consenso alla Lega che l’odio verso lo straniero, l’indifferenza verso le sue sofferenze e la sua disperazione non portano sicurezza ma infamia.
Pacchetto sicurezza - Appello
“Notte dell’Ospitalità”
Appello promosso da: Raffaele Nogaro, Vescovo - Casa Rut - Suore Orsoline,Casa Zaccheo - Padri Sacramentini,Pastorale Giovanile, Caritas Diocesana,Azione Cattolica Diocesana,Agesci aperto ad altre sottoscrizioni di associazioni e comunità parrocchiali
Caserta, 3 luglio 2009 *
Giovedì 2 luglio 2009, con la votazione al Senato, il nostro Paese ha approvato il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” compiendo un altro decisivo passo verso il buio e l’orrore della vita democratica.
Con questa legge, l’Italia ha scelto di considerare ogni cittadino straniero privo di documenti non come una PERSONA ma come un CRIMINALE, con un’infinità di restringimenti per la sua dignità.
Dentro questo “pacchetto” vengono negati alla persona diritti fondamentali; uno fra tutti, la proibizione, per una donna ”clandestina” di riconoscere il proprio figlio quando nasce o di iscriverlo all’anagrafe.
Questa Legge viene votata dentro un contesto che si sta facendo sempre più xenofo e razzista, in mezzo a un silenzio della società civile e della chiesa per noi inaccettabile.
Si avverte che il clima sta cambiando anche a livello locale: la sera stessa del 2 luglio, fuori la mensa parrocchiale di don Oreste a San Nicola La Strada, alcune camionette di carabinieri hanno atteso che alcuni fratelli migranti terminassero il loro pasto per poi “accoglierli” sulla strada e accompagnarli in caserma per l’identificazione e l’eventuale espulsione. Non possiamo tacere!
Sentiamo tutta l’indignazione per quanto sta accadendo e accadrà a tanti fratelli e sorelle migranti.
Pertanto, credendo fortemente di dover ubbidire unicamente alla legge del Vangelo che è la legge dell’amore e dell’ospitalità, vogliamo raccoglierci insieme per dar voce ai diritti negati a tante donne e uomini che rischiano di non avere più voce né vita e vogliamo segnare con gesti profetici e di accoglienza i giorni che verranno.
In modo particolare ci stiamo preparando per la “Notte dell’Ospitalità” per affermare, ancora una volta, la profonda convinzione che la nostra Città e il nostro Paese ritrovano la loro vera identità nell’essere luogo di scambio e di accoglienza.
Raffaele Nogaro, Vescovo
Casa Rut - Suore Orsoline,
Casa Zaccheo - Padri Sacramentini,
Pastorale Giovanile,
Caritas Diocesana,
Azione Cattolica Diocesana,
Agesci,
* Il documento è aperto ad altre sottoscrizioni di associazioni e comunità parrocchiali
* Il Dialogo (www.ildialogo.org), Venerdì 03 Luglio,2009 Ore: 17:11
PACCHETTO "SICUREZZA": ABBIAMO SOLO DA VERGOGNARCI
di Alex Zanotelli
Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano *
Napoli, 2 luglio 2009
Il Senato ha approvato oggi il cosiddetto "Pacchetto Sicurezza" del ministro degli interni Maroni.
Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano. Non avrei mai pensato che un paese come l’Italia avrebbe potuto varare una legge così razzista e xenofoba. Noi che siamo vissuti per secoli emigrando per cercare un tozzo di pane (sono 60 milioni gli italiani che vivono all’estero!), ora ripetiamo sugli immigrati lo stesso trattamento, anzi peggiorandolo, che noi italiani abbiamo subito un po’ ovunque nel mondo.
Questa legge è stata votata sull’onda lunga di un razzismo e una xenofobia crescente di cui la Lega è la migliore espressione.
Il cuore della legge è che il “clandestino” è ora un criminale. Vorrei ricordare che criminali non sono gli immigrati “clandestini” ma quelle strutture economico-finanziarie che obbligano le persone a emigrare. Papa Giovanni 23° nella Pacem in Terris ci ricorda che emigrare è un diritto.
Fra le altre cose la legge prevede la tassa sul permesso di soggiorno (i nostri immigrati non sono già tartassati abbastanza?), le ronde, il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e matrimoni misti, il carcere fino a 4 anni per gli irregolari che non rispettano l’ordine di espulsione ed infine la proibizione per una donna “clandestina” che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio o di iscriverlo all’anagrafe.
Questa è una legislazione da apartheid, che viene da lontano: passando per la legge Turco-Napolitano fino alla non costituzionale Bossi-Fini. Tutto questo è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e mendicanti. Questa è una cultura razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e dell’emarginazione.
"Questo rischia di svuotare dall’interno le garanzie costituzionali erette 60 anni fa - così hanno scritto nel loro appello gli antropologi italiani - contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle leggi razziali". Vorrei far notare che la nostra Costituzione è stata scritta in buona parte da esuli politici, rientrati in patria dopo l’esilio a causa del fascismo. Per ben due volte la costituzione italiana parla di diritto d’asilo, che il parlamento non ha mai trasformato in legge.
E non solo mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno anche di essere cristiano: questa legge è la negazione di verità fondamentali della Buona Novella di Gesù di Nazareth. Chiedo alla Chiesa Italiana il coraggio di denunciare senza mezzi termini una legge che fa a pugni con i fondamenti della fede cristiana.
Penso che come cristiani dobbiamo avere il coraggio della disobbedienza civile. È l’invito che aveva fatto il cardinale R. Mahoney di Los Angeles (California), quando nel 2006 si dibatteva negli USA una legge analoga dove si affermava che il clandestino è un criminale. Nell’omelia del Mercoledì delle ceneri nella sua cattedrale, il cardinale di Los Angeles ha detto che, se quella legge fosse stata approvata, avrebbe chiesto ai suoi preti e a tutto il personale diocesano la disobbedienza civile. Penso che i vescovi italiani dovrebbero fare oggi altrettanto.
Davanti a questa legge mi vergogno anche come missionario: sono stato ospite dei popoli d’Africa per oltre 20 anni, popoli che oggi noi respingiamo, indifferenti alle loro situazioni d’ingiustizia e d’impoverimento.
Noi italiani tutti dovremmo ricordare quella Parola che Dio rivolse a Israele: "Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto" (Esodo 22,20).
Alex Zanotelli
* Il Dialogo (www.ildialogo.org), Venerdì 03 Luglio,2009 Ore: 15:01
Da oggi siamo tutti un po’ meno liberi
di Luigi Manconi (l’Unità, 03.07.2009)
Oltre quarant’anni fa, l’Avanti! titolava: da oggi ognuno è più libero. Sia detto senza alcuna retorica: con l’approvazione del cosiddetto «pacchetto sicurezza» quell’annuncio (allora motivatamente ottimista) va rovesciato. È vero, nell’anno di grazia 2009 siamo tutti un po’ meno liberi.
Le norme approvate vanno analizzate, ma già si può dire che la classificazione come reato dell’immigrazione irregolare e l’introduzione delle «ronde» costituiscono due lesioni profonde come non mai inferte al nostro ordinamento giuridico. E un significativo passo indietro nel sistema dei diritti e delle garanzie. Il risultato è di criminalizzare i migranti non per i loro comportamenti ma per il solo fatto di non essere nati in Italia, subordinando la regolarità del soggiorno al possesso di un permesso “a punti”, che la pubblica autorità potrà azzerare sulla base di criteri alquanto fumosi.
Ma qui emerge una questione ancora più profonda: per la prima volta nel nostro sistema penale viene sanzionata la mera condizione di irregolarità.
È reato, e aggravante nel caso si commettano altri reati, un semplice stato, una condizione, un dato esistenziale (migrante: come, in altre epoche e in altri regimi, povero, omosessuale, zingaro... ). Il «pacchetto» contiene, poi, una serie di dispositivi che renderanno i processi di regolarizzazione e di integrazione sempre più complessi e tortuosi. Dall’obbligo di regolarità del soggiorno ai fini dell’accesso ai servizi a quello di dimostrazione di validità del soggiorno per il perfezionamento degli atti di stato civile; dall’obbligo di certificazione dell’idoneità alloggiativa ai fini del ricongiungimento, all’introduzione di un contributo (tra 80 e 200 euro) per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno.
Tutto ciò avrà l’effetto di disincentivare i meccanismi di ingresso nella legalità e nella visibilità del sistema di cittadinanza e la conseguente crescita dell’area dell’irregolarità. Altrettanto grave è il fatto che si sia riconosciuta a comuni cittadini la possibilità di co-gestire il monopolio della violenza legittima (l’uso della forza legale), da sempre prerogativa esclusiva dello Stato e suo stesso fondamento costitutivo. Lo Stato si spoglia, così, di un suo compito primario per «appaltarlo a privati», che potranno usare il potere terribile della forza verso chi identificheranno come minaccia.
Strana idea di sicurezza, questa, che finisce col subordinare il diritto a un’asimmetria radicale: inflessibile con chi è percepito come diverso, indulgente se non del tutto inerte con chi si arroga il potere di definire il parametro della diversità.
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.