Lampedusa e la sovranità del panico
Da settimane in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla situazione a Lampedusa. Ma la visuale è ristretta: il mondo è in mutazione e l’isola è divenuta l’emblema della nostra condizione di vittime
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 30 marzo 2011)
Sono settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla guerra che stiamo conducendo attraverso un’unica lente: nient’altro è per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non si discute che di Lampedusa assediata, di città italiane più o meno restie all’accoglienza. Per la verità non si parla di rifugiati ma di invasori, come se la vera guerra fosse contro di noi.
Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia: da un momento all’altro, il favore di cui gode l’operazione in Libia potrebbe precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l’altrove mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. Già alcuni parlano di tsunami, ed ecco paesi e persone degradati ad acqua che irrompe.
Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri, in parte avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli insorti, le loro intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria: come se esistesse, oltre alla guerra preventiva, un non-voler sapere preventivo.
Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più in là, lungo le coste libiche, ben felici che a gestire l’immigrazione fosse il colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e i detriti son tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in detrito: con Bossi che offre come soluzione lo slogan "föra di ball", con il Consiglio dei ministri che salta, con Berlusconi che di persona andrà nell’isola campeggiando - ancora una volta - come re taumaturgo.
Lampedusa è divenuta l’emblema della nostra condizione di vittime, il grido che lanciamo all’universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per 10.000 posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l’isolotto sommerso da grumi informi a malapena identificati con persone. Il fermo immagine sull’isola - il fotogramma che sospende il tempo creando stasi, ristagno - è l’arma di un governo che scientemente arresta la pellicola su questo dramma abbacinante. Lampedusa è agnello sacrificale, ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari.
Tutte le colpe s’addensano nell’icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario sacrificale che l’accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la parola apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così Lampedusa si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, già ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l’Italia è oggi laboratorio delle destre estreme.
Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l’uso dello spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo perirà"? La paura è comprensibile ma va affrontata, secondo Martini, con quattro virtù: resistenza, calma, serietà, dignità.
È proprio quello che manca in Italia. Che manca, nonostante l’attività della Caritas, anche alla Chiesa: con gli innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di cibo. Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su Repubblica: questi alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti fiscali perché destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali". Perché non sono messi subito a disposizione?
Quando non c’è serietà le bugie dilagano, le immagini s’adeguano. Si adeguano nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può nemmeno esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel descrivere l’Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma nella sostanza menzognere, da parte di governanti che di tutto son capaci tranne di pedagogia delle crisi.
Se non c’è una politica europea sull’emigrazione, è perché gli Stati vogliono mantenere per sé competenze che non sanno esercitare. È contro il proprio panico sovrano che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro l’ideologia del fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l’Italia da quasi cent’anni.
In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà (l’Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non sanno risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all’immigrazione, il trattato di Lisbona prevede che l’Unione decida all’unanimità tra governi, senza la codecisione del Parlamento europeo, con l’eccezione di alcune materie in cui il trattato stesso prevede la procedura legislativa ordinaria: solo in queste materie (non sono le più importanti) si decide a maggioranza qualificata e dunque si agisce.
Ma la menzogna decisiva riguarda quel che l’Italia pensa di sé. Alla radice della cecità, c’è l’illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo xenofoba.
In realtà sono 30 anni che siamo un paese d’immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la convivenza col diverso si apprende faticosamente ma la si deve apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato, del rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano alla svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da tempo non è più un’opzione ma un fatto.
Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai allarmato, che Human Rights Watch ha pubblicato il 21 marzo sull’espandersi del razzismo in Italia. Condotta fra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, l’inchiesta raccoglie una mole di testimonianze e mette in luce cose che sappiamo, ma dimentichiamo.
Raramente il crimine razzista è denunciato come tale, nonostante la legge Mancino del ’93 (articolo 3) lo consideri un’aggravante nei reati: la disposizione non è però inserita nel Codice penale. Raramente sono applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti. Infine, né polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono commesse da forze dell’ordine.
È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la colpa è dei politici come dei media. Dei politici, che per primi "stigmatizzano le persone con stereotipi". Dei media, "a causa della monopolizzazione dell’editoria radio-televisiva esercitata da Berlusconi". Il rapporto non risparmia la sinistra, spesso tentata di equiparare immigrati e criminali.
Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si integrino nella nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai fuggiaschi non vengono dati gli strumenti per interiorizzare la nostra civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo perché gli italiani stessi - mal informati, mal governati - ignorano la civiltà sbandierata. Basti un esempio.
Il migrante privo di documento che è vittima di un reato può richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel paese per la durata del processo. L’autorizzazione è concessa per periodi rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è archiviato. Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il reato non è denunciato per paura, la fiducia del migrante nello Stato frana, le mafie diventano rifugi.
Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra politica estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che gli aiuti pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti dal governo Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per l’Istituto affari internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti: nel bilancio di previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è tra le spese più decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel mondo. Gli stanziamenti per la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il livello più basso, con una riduzione del 61% rispetto al minimo del ’97. Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È falso: Londra, Stoccolma e Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi.
Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta delle sue già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad aver negoziato con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha qualcosa di scellerato. È grazie a esso che dal 2009 sono stati rimpatriati centinaia di africani giunti in Libia per arrivare in Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i fuggitivi sono stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici campi di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame.
Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare questa guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di insorti che non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani sospettati di lavorare per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai successori del colonnello: dai ribelli che stiamo aiutando perché abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo.
* la Repubblica, 30 marzo 2011
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SUL PIANO CULTURALE E FILOSOFICO, SI CFR.:
EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
FLS
Il mondo là fuori
di Jean Leonard Touadi (l’Unità, 7 aprile 2011)
Sono le 13.25 e, mentre scrivo, il Parlamento italiano è bloccato da ore dalla protesta dell’opposizione contro l’ennesimo sopruso della destra e del governo che hanno decretato a maggioranza l’impunità del loro capo sollevando un presunto conflitto d’attribuzione sul caso Ruby. Tra poco, Pdl e Lega chiederanno e otterranno con l’arroganza dei numeri l’inversione dell’ordine del giorno per dare priorità al cosiddetto «processo breve» destinato ad accelerare la prescrizione del “patron” della destra nel procedimento Mills.
Poche ore prima, nel cuore della notte, le agenzie e i siti on-line diramavano notizie drammatiche sul naufragio di un’imbarcazione con 200 persone (non clandestini!) a bordo provenienti dalle coste libiche. Vittorio Alessandro, capitano di vascello del Corpo delle Capitanerie di Porto, spiegava: «Le nostre motovedette hanno intercettato in acque maltesi il barcone che, a causa del mare agitato forza 5/6, si è rovesciato per un’onda anomala quando il motore si è spento. Per paura, i migranti già provati dal viaggio, si sono forse messi tutti su un lato e la barca si è rovesciata».
Questo gravissimo incidente non ha avuto, se non per poco tempo, l’apertura dei siti e l’enfasi delle cronache radiofoniche e televisive. Sarà considerato un dettaglio trascurabile, notizia non degna di una “breaking news” di fronte alle “notizie vere” che monopolizzano l’attenzione e mobilitano le troupe televisive: l’apertura del processo Ruby a Milano e la battaglia sul processo breve. Il paese sente ma non ascolta la voce della disperazione che proviene dal mediterraneo; il parlamento ed il governo vedono ma non guardano in profondità il grido d’aiuto raccontato dai visi sconvolti che approdano sulle coste di quel mare - una volta retoricamente definito mare del dialogo e dell’incontro tra civiltà; collettivamente la nostra mente percepisce ma non interiorizza il tramonto della rassicurante convinzione di una netta separazione tra Noi e Loro.
Il muro dell’indifferenza cinica è crollato e non riusciamo ad avviare un dibattito politico serio che colga, insieme alle criticità emergenziali inevitabili, le opportunità inedite che si aprono per il futuro delle relazioni euro-africane. Il Mediterraneo, diventato da anni un cimitero a cielo aperto, è una provocazione per l’Occidente, un invito ad uscire dalle angustie certezze della mera preservazione di sé dentro le mura dell’opulenza e della stabilità provvisorie.
Provvisorie perché, finché avremo alle porte un miliardo di africani in condizioni di prostrazione economica e di precarietà politica, la nostra stabilità e prosperità saranno come dune nel deserto presto spazzate via dal vento dei cambiamenti in corso sulla sponda sud del mediterraneo. Confesso la mia impotenza di legislatore che non riesce a trasmettere a questo paese l’urgenza di una rivoluzione della nostra agenda nazionale, l’imperativo morale e politico di togliere dalle mani di Berlusconi il compito esclusivo di decidere le cose di cui parlare e di quando farlo.
Dentro e fuori dai confini del nostro colpevole narcisismo nazionale c’è un mondo in cambiamento che ci suggerisce di abbattere il muro tra politica interna ed estera (laddove estera finisce per diventare estranea), tra locale e globale, tra interessi e valori, tra economia ed etica. Invochiamo a gran voce la necessità di uscire dal pensiero unico della globalizzazione dei flussi (finanziari, di merci e delle notizie) che ignora invece i luoghi, considerati come spazi materiali e simbolici. Dove noi europei e gli africani della sponda Sud del mediterraneo siamo destinati a scommettere su di un destino inevitabilmente comune.
L’ossessiva cristallizzazione della nostra vita pubblica intorno alle faccende di Berlusconi è l’onda anomala permanente che rischia di accelerare l’eclissi della politica. Quella vera e buona che governa gli scenari e traccia una visione del bene comune fatta d’interconnessione e d’interdipendenza, nella consapevolezza che noi e gli africani abbiamo per decreto della storia, della geografia ed ora della globalizzazione un destino comune, un avvenire euro-africano che deve essere meticolosamente pianificato.
Quest’anno le nostre uova di Pasqua saranno insanguinate e costeranno qualche centesimo in più,ma non sapremo mai il perché.
La spiegazione si trova nella gigantesca rimozione della crisi in Costa d’Avorio, primo produttore mondiale di cacao, da anni nel vortice di una guerra civile che nelle ultime ore ha subito una drammatica accelerazione. Morti, sfollati, rifugiati, saccheggi, fame e disperazione che non avranno l’onore di una puntata di Ballarò, di Porta a Porta o di Anno zero. La Costa d’Avorio è lontana come l’Africa dell’«Hic Sunt leones» dei romani, ma i suoi cittadini, come quelli dell’Eritrea, della Somalia, del Congo e di tutte le guerre dimenticate d’Africa, muoiono nei deserti di Libia e al largo di Lampedusa.
Deserto e aridità della politica, assuefazione delle masse e autoreferenzialità dell’elite culturale e dei media di questo paese sono un cocktail maledetto che uccide i migranti e, con loro, gli orizzonti del nostro futuro nel cuore del mediterraneo.
Quella fossa comune sotto il Canale di Sicilia
di Francesco La Licata (La Stampa, 7 aprile 2011)
L’Isola Bianca è il miraggio dell’umanità dolente che scommette la vita inseguendo il sogno d’un benessere negato dove povertà e guerre sono l’insopportabile normalità. Chi arriva dal mare aggrappato ad una delle carrette incredibilmente galleggianti, intravede la sagoma di Lampedusa e si illude di averla sfangata. Anche ingannato dalla «fortuna» di essere riuscito a vincere la fame, la sete, le ustioni inflitte dal sole del Sahara e la lunga permanenza nelle «stazioni di sosta» del Nord Africa, in attesa dell’improbabile «comandante» che ha promesso il biglietto di sola andata verso l’Europa. Una promessa che spesso costa al passeggero quanto tutto ciò che possiede.
E invece è proprio quel tratto di mare, l’ultimo prima della terraferma, che ingoia il sogno dei migranti disperati. Un gorgo scuro che da più di quindici anni si nutre, come il mostro delle favole crudeli, di corpi già debilitati da una vita infame. Il Canale di Sicilia: cimitero comune di anonime vittime sacrificate sull’altare delle «diversità incolmabili» generate dalle sperequazioni economiche, politiche e sociali. Ogni volta assistiamo alla rappresentazione della morte collettiva e alla conseguente indignazione.
A Lampedusa nessuno crede più che il naufragio del giorno prima possa essere considerato «l’ultima tragedia». Ormai tutti sanno che ce ne saranno ancora altri, che i commercianti di uomini non esiteranno a caricare barche destinate al macero, all’ultimo viaggio, con una «merce» umana esposta a un incertissimo destino. E’ accaduto pure di mettere in mare barconi senza marinai, una bussola a qualcuno dei passeggeri e il consiglio fugace: «Questa è la rotta, seguitela».
C’è stato un momento - un decennio fa - che l’Isola riusciva ancora a inorridire. Il racconto dei pescatori, che tornavano con le reti piene di pesci pescati insieme coi resti di una umanità condannata alla morte anonima, si snodava quasi sottovoce. Per non creare psicosi collettive, come una certa riluttanza a consumare pesce locale. Eppure c’è chi ricorda ancora la descrizione di corpi mutilati e gettati nuovamente in mare per sfuggire all’ottusa burocrazia poliziesca, capace di infliggere un supplemento di «costo» ai pescatori/ soccorritori che - fedeli alla legge della solidarietà del mare - raccoglievano morti e vivi.
Secondo un calcolo di «Fortress Europe», sarebbero 4249, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, i corpi inghiottiti dal Canale di Sicilia, lungo la rotta fra Tunisia, Libia, Egitto e Malta, che quasi mai interviene per soccorrere [quasi 16000 nel Mediterraneo, ndr]. Solo una sparuto numero di questi ha trovato ospitalità nel «cimitero degli sconosciuti»: una manciata di terra, una cassa di legno grezzo, un numero impresso su un foglio bianco e - quando va bene - un fiore di plastica che presto sarà divorato dalla salsedine.
E il resto? Quelli partiti dalla Somalia nel 2003 e mai arrivati? E la barca partita da Chott Meriem, in Tunisia? Eppure col telefonino in tanti avevano chiamato i parenti più fortunati per dire che «ce l’avevano fatta», cioè si erano imbarcati. E tutti quelli avventuratisi tra febbraio e marzo? Ne mancano più di 600 all’appello e per lenire l’enorme ferita vengono destinati nel limbo dei dispersi. Cioè non sono né vivi né morti. Aiuta la statistica rifugiarsi nell’ambiguità del termine. E’ dalla fine degli Anni Novanta che si accumulano dispersi su dispersi e ogni volta si ricorre al rito del lavaggio della coscienza con l’ammissione collettiva che «La tragedia poteva essere evitata».
Lampedusa si sta abituando a tutto, divisa tra la paura dell’esodo biblico che potrebbe invaderla completamente e il senso di pietà verso uomini, donne e bambini che si sottopongono ad una prova estrema nella speranza di farcela. C’è esperienza più crudele di dover gettare in mare i corpi di compagni di viaggio uccisi dalla fame e dalla sete? Tutti ricordano ancora lo scempio del 2003, a Lampedusa. Un barcone recuperato miracolosamente consegna quindici migranti ridotti allo stremo da una traversata durata 18 giorni. Ma nel fondo dello scafo i reperti di una strage lenta: una borsa, una falsa griffe, foto di bambini sorridenti, documenti senza più i titolari, una boccetta di profumo.
Più di sessanta mancano all’appello, altri 13 sono a bordo, morti. «Li abbiamo tenuti sopra di noi,per proteggerci dal freddo», ammettono i superstiti. Ma, fra tanto orrore, uno squarcio di luce quando qualcosa si muove in mezzo al mucchio di cadaveri. Come Lazzaro, emerge Fatima che sembra un fantasma. Ce la farà miracolosamente e oggi vive a Palermo. Oggi c’è poco spazio per il lieto fine: le ha provate tutte, questa umanità dolente. Persino le donne e i bambini si sono aggrappati alle reti delle tonnare per essere soccorsi. Sono arrivati genitori senza figli e bambini senza genitori, affidati al mare e alla umana pietà. Ma è veramente salvo chi sfugge alla fossa comune del Canale?
La vergogna che non si può vedere
di Furio Colombo (il Fatto, 06.04.2011)
Lampedusa è un’isola splendida e deserta, il giorno dopo. Le grandi navi che per due mesi non sono mai arrivate, alla fine, come in una fiaba, sono arrivate. Hanno portato via gli immigrati a migliaia per volta. È stato il giorno della rivolta dei bambini, lasciati soli e prigionieri in cima a una collina, mentre vedevano le navi allontanarsi, senza una voce o una spiegazione. E finalmente oggi, è il giorno dopo, le grida degli abitanti disperati per l’invasione senza soccorsi, dei sopravvissuti dal mare che non potevano né restare né andar via, che l’abbandono preordinato stava trasformando in nemici e pericolo.
Ma adesso, per qualche ora, per qualche giorno, l’isola è un grande museo a cielo aperto, una mostra dal vero, strana e impressionante, che potrebbe avere un titolo semplice: “Stupidi e cattivi”. Non le vittime, che sono state insieme, per quattro insopportabili settimane, gli scampati, che si sono sentiti prima miracolati e poi in un incubo, e gli abitanti dell’isola, che non avrebbero mai immaginato un simile turpe gioco con i corpi e l’ingombro fisico degli scampati, usati contro di loro.
No, sto parlando del governo italiano, misera e pietosa coalizione di gente inutile però dannosa, che non ha visto, non ha capito e ha disonorato il Paese, facendolo apparire incapace e in preda al panico di fronte a una emergenza grande per la piccolissima isola, però minuscolo rispetto a un Paese fra i dieci più importanti del mondo. Vi dico quel che si vede: su uno spiazzo molto grande di terra e di pietre inclinato verso il mare, c’è ancora una tendopoli da fine del mondo, migliaia e migliaia di rifugi contro il freddo e la pioggia fatti senza l’aiuto di nessuno, con un assemblaggio di rifiuti, di stracci, di bastoni, con le inferriate che mancano ai cancelli vicini di alcuni depositi, con tovaglie o coperte rubate e indurite dall’acqua e bruciate dal sole, piene di resti di un disgraziato passaggio umano che deve essere stato colmo di corpi e di disperazione. C’è l’odore della miseria, il vuoto della paura, con vista su una impenetrabile e incomprensibile assenza di qualunque forma di guida, di decisione, di governo, che certi giorni avrà avuto la forza della allucinazione.
SE FOSSE possibile lasciare intatta quella collina (invece di ricostruirla, come accadrà, in una prossima Biennale d’arte, in qualche parte del mondo) resterebbe la documentazione di una accusa legittima e pesante: abbandono deliberato di esseri umani (gli abitanti di Lampedusa e i migranti scampati al mare) per uso privato (contributo versato da migliaia di persone agli interessi politici di un gruppo estraneo con lo scopo preciso di portare allo scontro per troppa disperazione).Il gruppo estraneo è la Lega Nord, che ha infettato con la sua follia da respingimento in mare una parte di italiani confusi dalle contraddizioni, stremati dal non governo, costretti al numero comico del padrone troppo sfasato con la storia e troppo ricco che, come soluzione, viene a portare a Lampedusa un casinò e a comprare una villa (che, finito lo spettacolo, non compra).
Che documento televisivo sarebbe stato sovrapporre al discorso stralunato di Berlusconi le immagini della tendopoli disperata, vissuta come fine della vita nell’immondizia, e indicata come accampamento di forze nemiche pronte a quell’attacco finale tante volte predicato con furore da menti oscurate (Bossi, Borghezio) però rese potenti, con uno spazio esclusivo di dominio garantito dal servo-padrone che paga qualunque prezzo (nel suo giro la reputazione non conta), pur di tenersi la Lega accanto.
QUANDO lunedì 4 aprile sono arrivato a Lampedusa, avevo preannunciato e spiegato a Prefettura e Carabinieri: due deputati (Andrea Sarubbi e io), che pure sono autorizzati dalla Costituzione a qualunque visita improvvisa a luoghi di detenzione e a strutture di dubbia natura giuridica (prigionia o protezione) come i cosiddetti “centri di accoglienza” e quelli, comunque peggiori, detti “di identificazione e di espulsione” (entrambi senza leggi o regolamenti o rapporto con il rispetto dei diritti umani) tutto era predisposto per la nostra visita, compresa la cordialità competente di chi ci ha accolto.
Ma nel Paese del presunto federalismo, disgraziatamente avallato finora anche dal Pd, niente, nell’isola di Lampedusa, dipende da Lampedusa, o dalla Provincia di Agrigento, o dalla Regione. In auto, mentre stavamo andando a incontrare gli immigrati arrivati nella notte (da 300 a 900, le notizie, in questa Repubblica democratica, viaggiano solo per sentito dire) la telefonata che ci ha fermati è giunta “dal Gabinetto del ministro dell’Interno”, come ci hanno detto con immenso imbarazzo il funzionario della prefettura e i Carabinieri che, conoscendo la legge e i diritti di un deputato, ci stavano facilitando tutto.
L’ESPRESSIONE usata, e riferita, era “divieto assoluto sull’isola anche se trattasi di parlamentari”. In quel momento soltanto due parlamentari (Pd) erano presenti a Lampedusa, con una visita deliberatamente preannunciata. Maroni, il quadrumviro leghista che nel tempo libero dagli impegni di partito padano (oscura definizione del suo partito che, invece che alla Narnia si ispira alla Padania) fa il ministro dell’Interno della Repubblica italiana, non è tipo da imbarazzarsi. Non si è imbarazzato per il fatto di sapere prima e per tempo della nostra visita, con tutto il tempo di parlarne direttamente con gli interessati. Non si è imbarazzato del fatto che quella stessa mattina il deputato Pdl Fontana era andato su e giù per Lampedusa come e dove voleva, con visite ai luoghi “assolutamente proibiti” per altri membri del Parlamento. E non si imbarazza a non farsi vedere nel giornoe nell’ora che risultano nel calendario pubblico e ufficiale della Camera (martedì 5 aprile, ore 10). Infatti gli basta scomparire per non dover rispondere della nostra “assoluta” esclusione. E lo fa con la disinvoltura maleducata verso il Parlamento che è ormai un marchio di fabbrica dei ministri Bossi-Berlusconi in questa legislatura.
Eppure c’è un senso, sia pure primitivo e alquanto disumano in questa strategia, che rimbalza fra il clown finto giocoso e finto benevolo, e il boss leghista, stretto osservante di leggi inventate che hanno creato un enorme problema umano. Credo si possa riassumere e spiegare così:
1) È necessario creare la finta divisione fra “clandestini” e “profughi”. Una legge senza fondamenti giuridici già preparata in proposito e incostituzionale ha inventato il reato di clandestinità. Il reato consente di definire “criminali” i presunti colpevoli. Chi si offre per ospitare “criminali”? E con le parole si diffonde meglio la paura.
2) Ma occorrono i fatti. Questi tunisini sono troppo europei, parlano francese, si spiegano in italiano e fra loro puoi trovare dei laureati. Imbarazzante per Bossi e per il figlio di Bossi, dato il loro curriculum scolastico. Bisogna che diventino bestie da temere. Basteranno venti giorni di navi che ci sono ma non arrivano, di luoghi dove mandarli che non si trovano, di piani che non esistono, di incapacità di trattare (o anche solo di farsi rispettare) con il presidente francese o anche solo con il governo provvisorio tunisino? Intanto proviamo, a spese della paura di Lampedusa e del terrore dei migranti.
3) Bisogna riconoscere a Maroni il merito, non proprio umanitario, di avere resistito nel prolungare il più possibile sia il colpo inferto a Lampedusa, immagine e turismo, sia alla sofferenza dei nuovi arrivati, prividitutto,daibagniallebottigliette d’acqua. Alla fine ha ceduto, ma dopo avere fatto tutto il danno possibile a Lampedusa, agli scampati dalla guerra e dal mare e a quel che resta, dopo Berlusconi, dell’immagine dell’Italia.
Ora che girano sempre più storie sui migranti morti in mare, e giungono numeri sempre più alti, forse non è prudente che vi siano incontri fra deputati infidi e "clandestini" come Sarubbi e me, e gli scampati al mare appena arrivati. Potrebbero sapere o avere visto storie che non sono utili al pacchetto elettorale della Lega per la liberazione della Padania, come lo è stato il disastro umano di Lampedusa. Ma l’evidenza tragica di ciò che è successo per cinismo, stupidità e cattiveria, abbiamo fatto in tempo a constatarlo sul posto.
Perché non parliamo con i ragazzi tunisini?
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 5 aprile 2011)
Perché, ci si chiede da varie parti, proprio i tunisini che hanno appena liberato il loro Paese da un governo autoritario, personalistico e si stanno dando delle nuove regole democratiche, scappano in massa per approdare disordinatamente sulle nostre coste? Le risposte sono vaghe e distratte. Nessuno va a vedere. Nessuno chiede ai diretti interessati cosa li spinga alla fuga precipitosa. Si dà per scontato che, nel marasma della ricostruzione, siano venuti meno i freni all’emigrazione. Sono giovani, spesso hanno studiato, non trovano lavoro e quindi emigrano. Punto e basta.
Singolare questa assoluta mancanza di curiosità. Eppure si dovrebbe sapere che prima di prendere qualsiasi decisione logistica e politica è importante conoscere a fondo la questione. Qualcosa ha fatto Giuliana Sgrena andando sul posto e qualcosa ho sentito nelle parole della Bonino. Ma ascoltate da chi?
Eppure basterebbe poco: semplicemente parlare con i diretti interessati, stabilire, con rispetto, attenzione e fiducia, un dialogo per capire le loro ragioni. Sono sicura che verrebbero fuori verità diverse dai luoghi comuni finora ripetuti. La Tunisia non è un Paese povero, fino a ieri sembrava vivere in un certo agio. Perché i ragazzi scappano? E le ragazze? Rimangono a casa ad aspettare il richiamo dall’estero? Cosa succederà dopo questo massiccio esodo di maschi giovani e fertili? Dove andranno ad accasarsi? Pensano di tornare appena possibile? O danno per scontato che cambieranno patria e lingua e abitudini? Tutte cose che non sappiamo e forse non vogliamo neanche sapere.
Eppure nelle risposte a queste domande sta il segreto di una inaspettata e massiccia emigrazione che ha stupito tutti e lasciato i governi senza parole e senza idee sul cosa fare. Tutti i segnali dicono che siamo di fronte a qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del mondo arabo: i punti di riferimento non sono più il Corano e l’esplosivo, ma Internet e i permessi di soggiorno. Il fondamentalismo con i suoi sacrifici umani, il suo odio, la sua intolleranza, sembra essere rimasto indietro in questo rapido processo di mutazione collettiva.
Le nuove parole d’ordine sono: libertà, lavoro, dignità. Ma come acquisirle? Come organizzare la nuova società? Quale rapporto stabilire con la religione tradizionale, col denaro, con le istituzioni, non è chiaro. Per il momento vince l’insofferenza di fronte a ogni forma di autoritarismo, la fame di vita, di movimento, di libertà, di autonomia.
Questi giovani non sembrano essere animati da risentimenti verso i Paesi occidentali, ma presi da una specie di furente amore imitativo. Solo che, come tutti gli amori giovanili, risulta esplosivo e impaziente. L’amata la si vuole possedere subito, senza aspettare. La si vuole divorare, farla propria senza pensarci su un minuto.
Le risposte da parte nostra sono: paura, paralisi, confusione e rapida apertura di campi di concentramento. Risposte povere e prive di immaginazione che non aiuteranno affatto a risolvere il problema.
Catastrofe morale
di Luigi Manconi (l’Unità, 31.03.2011)
Tecnicamente parlando. Il discorso di Silvio Berlusconi nella piazza di Lampedusa è sotto il profilo linguistico e sotto quello semantico uno dei punti più bassi della retorica politica e della oratoria pubblica degli ultimi decenni. Lì il carisma berlusconiano si rivela per quello che è: a’ mossa del varietà napoletano tra le due guerre. Il che non significa, certo, che quel discorso risulti inefficace. Ma, al di là del successo immediato, le parole di Berlusconi, trascinano l’azione del Governo in una via senza uscita.
E, infatti, il superamento dell’ostilità dei lampedusani non attenua di una virgola il bilancio davvero fallimentare registrato dall’esecutivo nelle ultime settimane. L’Italia appare ridotta ad appendice insignificante di strategie geopolitiche decise da altri, e a una mera “espressione geografica” nelle relazioni sovranazionali e nella sfera delle responsabilità politiche e morali alle quali aspira un paese che si vuole grande. Nessun ruolo nei confronti dei movimenti democratici del Nord Africa e degli assetti futuri del Mediterraneo e nessun programma credibile per le diverse emergenze umanitarie.
Una politichetta miserabile e gretta, che limpidamente si esprime nel discorso di Berlusconi a Lampedusa: la galvanizzazione degli umori più bassi e la blandizie verso le pulsioni più oscure, l’intesa complice e l’ammiccamento ruffiano e la promessa mirabolante. Il modello è, platealmente l’animatore di un Club Med. Ma Berlusconi non evoca la spensieratezza smargiassa e vitalistica del Fiorello delle origini, bensì la più bolsa interpretazione di un copione improbabile, destinato all’Attor Giovane (che so? Un Massimo Ciavarro).
Il Premier che compra casa in località Cala Francese recita torpidamente una parte che il pubblico già conosce, annoiando e annoiandosi (avete presente Ric e Gian al declino della loro carriera?). E, tuttavia, quelle parole di Berlusconi vanno messe in fila con quelle pronunciate in questi giorni dagli esponenti del centro destra. Una sconfinata ignoranza su ciò di cui parlano (migranti e profughi), una irriducibile propensione alla minaccia e alla prepotenza, un linguaggio triviale e privo di qualunque relazione con la realtà, la grammatica, il diritto internazionale. In poche settimane è stato completato quel processo di stravolgimento in senso xenofobico del discorso pubblico avviato da tempo; è stata travolta l’interdizione morale e culturale che proteggeva lo straniero dalla nostra tentazione all’intolleranza e alla discriminazione; il vocabolario pubblico ha accolto, legittimato e riprodotto le parole della xenofobia, non per mediarle e controllarle, ma per usarle come altrettanti corpi contundenti. Finissimi scienziati della politica analizzano, compunti, il “foera di ball” di Umberto Bossi e ci spiegano come rappresenti la sintesi geniale di un grande disegno politico.
Sarà, ma è anche il segno di una catastrofe morale che non andrebbe blandita quasi fosse una manifestazione di innocente folclore. È, né più né meno, che una mascalzonata. E il fallimento del ministro dell’Interno Roberto Maroni e il ridicolo nel quale affonda il ministro degli Esteri Franco Frattini disegnano i tratti psicologici di un ceto politico che oscilla tra paranoia e aggressività. Questo per quanto riguarda la scena pubblica. Dietro, nel back stage dove provvisoriamente si trova, tra gli altri, il Parlamento della Repubblica viene approvata un’inversione dell’ordine del giorno, che anticipa il voto sul disegno di legge sui tempi dei processi. Gratta gratta, la roba è lì.
Immigrazione e bufale di governo
di Pietro Soldini, responsabile immigrazione Cgil
L’Unità 31.3.11
Ancora una volta il governo italiano e il ministro dell’Interno, ci costringono alla vergogna per come stanno gestendo la situazione degli arrivi a Lampedusa, mancava solo lo show di Berlusconi. Gli sbarchi a Lampedusa erano assolutamente prevedibili e invece il ministro Maroni non li ha voluti prevedere perché impegnato a propagandare la “Missione compiuta” del suo ministero di azzeramento degli sbarchi, di chiusura del centro di Lampedusa in seguito all’accordo italo-libico. Una posizione propagandistica che gli avvenimenti della Libia e più in generale del Nord Africa hanno clamorosamente smentito.
Peraltro nel periodo in cui l’accordo italo-libico “ha funzionato” circa 50.000 profughi sono sbarcati in Grecia, anch’essa frontiera europea. Altri centinaia di migliaia si sono ammassati in Libia, e non sappiamo quanti di loro sono morti in mare e nel deserto. Comunque mentre noi gridiamo all’invasione, oltre 300.000 persone hanno lasciato la Libia dal confine tunisino ed egiziano.
Gli immigrati che arrivano a Lampedusa sono “persone” e come tali vanno accolti e assistiti. L’ipotesi di un loro rimpatrio non potrà che avvenire con i tempi e le procedure previste dalla Direttiva Europea n. 115 con la collaborazione degli interessati e dei loro paesi d’origine. Ogni altra ipotesi agitata dal ministro Maroni, come quella dei “rimpatri forzosi”, è assolutamente impraticabile.
La protezione umanitaria, per quelli che sono arrivati e che potrebbero arrivare (50.000?) spalmata su tutto il territorio, non potrebbe certo essere considerata insopportabile. È insopportabile lasciarli ammassati a Lampedusa, senza assistenza e quasi senza cibo, compresi i minori. È evidente che il Governo non vuole affrontare e risolvere l’emergenza, ma vuole coltivarla. È falso affermare che l’Italia sia la in Europa a farsi carico dei rifugiati: in Italia abbiamo 55.000 contro i 600.000 della Germania, 300.000 in Francia, 200.000 nel Regno Unito. In quanto alle risorse l’Italia, per l’accoglienza e l’integrazione spende quasi zero del proprio bilancio e ciò che spendiamo proviene dal fondo europeo (Fei circa 75 milioni).
Il governo ed il ministro Maroni si stanno assumendo una grave responsabilità per la situazione di caos a Lampedusa, per la violazione dei diritti umani, i disagi alla popolazione locale e la spregiudicata ed irresponsabile strumentalizzazione nei confronti dell’opinione pubblica.
Occorre un’operazione di verità perché gli immigrati, che arrivano sulle nostre coste, non sono colpevoli di nulla, né si può addossare la responsabilità all’Europa, alla sinistra, ai buonisti, e prendere atto del fallimento di questo governo.
Il presidente della Repubblica Napolitano chiede una politica comune sull’immigrazione Lampedusa frontiera d’Europa *
ROMA, 30. "Quello degli sbarchi a Lampedusa non è solo un problema italiano, perché a Lampedusa non c’è solo la frontiera dell’Italia, ma anche quella dell’Europa. Chi sbarca a Lampedusa pensa di essere arrivato in Europa. Perciò ci vuole una politica comune europea sull’immigrazione e non 27 politiche nazionali sullo stesso tema. So che c’è una riluttanza a fare questo passo. Bisogna superarla". Lo ha detto il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, nell’intervista pubblica rilasciata ieri alla New York University, in occasione del conferimento di una medaglia d’onore.
Sull’isola siciliana, ormai al collasso, è giunto oggi il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Sempre oggi sono arrivate le prime due delle cinque navi inviate per trasferire gli oltre seimila migranti presenti, molti dei quali, nei giorni scorsi, hanno dovuto accontentarsi di ripari di fortuna. In giornata è previsto l’arrivo di altre due navi con migliaia di metri cubi d’acqua potabile. Questa notte, intanto, non è stato registrato alcuno sbarco, mentre a Linosa sono giunti 31 tunisini sfuggiti ai controlli sul canale di Sicilia. È stato nel frattempo smentito che a Lampedusa si corra il rischio di epidemie ma - come hanno sottolineato i sei ispettori epidemiologici inviati dal ministero della Salute - lo stato igienico-sanitario desta comunque allarme e preoccupazione.
* L’Osservatore Romano 31 marzo 2011
EMERGENZA IMMIGRAZIONE
Berlusconi arriva a Lampedusa: "In 60 ore l’isola sarà svuotata"
Berlusconi: Nobel per la pace ai lampedusani
Parte il piano di evacuazione,
il Cavaliere: "Candidati al Nobel
tornerete di nuovo un paradiso" *
ROMA Tutti i migranti via dall’isola entro 48-60 ore. È la promessa fatta dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, giunto a Lampedusa per dare il via al trasferimento dei circa 6mila tunisini.
Dal palco allestito davanti al Municipio, il premier ha spiegato che «il piano è scattato a mezzanotte. Ci sono 6 navi, e si tratta per una settima, con una capienza di 10mila paseggeri». Gli immigrati saranno «portati in Italia, non solo in Sicilia ma anche in altre regioni. Libereremo anche il Centro di accoglienza e una nave sarà sempre qui per trasferire i nuovi arrivati».
«Stamattina - ha proseguito - sono arrivati 140 uomini delle nostre forze armate ed è scattato un piano di pulizia di tutta l’isola, che verrà riportata in condizioni normali». Lampedusa deve essere rimborsata per il sacrificio a cui è stata sottoposta: ci saranno «una moratoria fiscale» e la richiesta di istituire «una zona franca urbana». «Candideremo Lampedusa al Nobel per la pace», ha poi garantito Berlusconi, spiegando di voler «diventare lampedusano» anche lui e di aver comprato per questo «una casa bellissima a Cala Francese».
All’alba era giunta la nave «San Marco» della Marina militare, la prima delle navi che imbarcheranno gli immigrati, naturalmente solo quelli già identificati: le prossime ad attraccare saranno la «Catania» e la «Clodia». Sull’isola nella notte non si erano registrati nuovi sbarchi, ma il flusso è ripreso in mattinata con l’approdo di un centinaio di persone a bordo di un barcone giunto al porto vecchio. Allarme, nelle stesse ore, per una segnalazione dei servizi segreti circa la presenza di esplosivo o di armi su una barca in arrivo, ma i controlli degli artificieri sull’unità - intercettata dalle motovedette della Guardia costiera - hanno per fortuna dato esito negativo.
Di fronte al problema dell’immigrazione, ha ribadito il ministro degli Esteri Franco Frattini, l’Europa è rimasta «inerte» perchè non bastano i soldi stanziati dall’Unione per far fronte all’emergenza degli sbarchi: è necessario «un intervento politico» comunitario. La Commissione europea mette a disposizione 18 milioni di euro per il periodo 2010-2011 per co-finanziare, fino al 75%, i costi per il rimpatrio degli immigrati clandestini: lo ha detto il portavoce Ue, Matthew Newman, precisando che l’Italia per quest’anno usufruirà di 6,9 milioni mentre nel 2010 ne ha usati 6,7.
* La Stampa, 30/03/2011
Immigrati
I due soliti pesi: o ci servono o ci fanno paura
È già accaduto in America, in Germania, in Svizzera: l’immigrazione tende a trasformarsi in stanziale con buona pace degli ariani nostrani. Che però usano «gli stranieri»
L’incapacità del governo di gestire i flussi che arrivano dall’Africa non è solo un problema legato all’emergenza. C’è che è miope e sbagliata tutta la politica migratoria
di Andrea Salvini (l’Unità, 30.03.2011)
Mi ricordo di una singolare polemica, poco meno di due anni fa, tra Forza Nuova e la Lega nord. Siccome le camicie verdi volevano la sanatoria per colf e badanti, i neofascisti li accusavano di incoerenza: quando uno era contro gli immigrati, infatti, doveva esserlo fino in fondo e non a seconda delle convenienze economiche. Dal suo folle punto di vista, Forza Nuova aveva ragione: le obiezioni di Roberto Fiore mettevano il dito nelle contraddizioni della destra, che per uscire dall’angolo si è inventata la favola dell’immigrazione circolare. È vero che gli immigrati ci servono - ammettono ad esempio i neocon della fondazione Magna Charta, il think tank di Gaetano Quagliariello - ma oggi vanno e vengono: stanno qui giusto il tempo di mettere da parte un po’ di soldi e poi se ne tornano a casa loro. Investire sulla cittadinanza, insomma, è una perdita di tempo.
La teoria dei neocon nostrani, in realtà, non è particolarmente innovativa: è la stessa che guidò il governo americano una settantina d’anni fa, quando i maschi in età da lavoro erano tutti partiti per la guerra e non c’era nessuno che raccogliesse pomodori. Si misero d’accordo con il Messico per un’importazione di manodopera a tempo determinato: oggi gli hispanics sono il 15% della popolazione statunitense e nel 2050 saranno il 30%. Lo stesso fece la Germania, quando aveva bisogno di manodopera per la ricostruzione post-bellica e chiamò i gastarbeiter, i lavoratori ospiti: l’idea era quella di farli restare il meno possibile e di rimandarli rapidamente a casa loro, ma basta rileggere la formazione della Nazionale tedesca agli ultimi mondiali di calcio - composta per metà da figli di immigrati - per capire che le cose andarono diversamente. Per tutti valgono le parole di Max Frisch, riferite all’immigrazione italiana in Svizzera: “Volevamo braccia, sono arrivate persone”.
Stati Uniti, Germania e Svizzera non rappresentano l’eccezione, ma la regola: al di là degli obiettivi di partenza, nessun Paese è riuscito finora ad impedire che l’immigrazione temporanea si trasformasse in stanziale. Un po’ perché nella patria d’origine si sta peggio, un po’ perché magari nel frattempo sono nati dei figli, gli stessi migranti tendono in stragrande maggioranza a fermarsi lì dove erano arrivati a cercare fortuna: che piaccia o meno ai nostalgici della razza ariana, questo è un dato di fatto anche in Italia, testimoniato dal numero crescente di bambini stranieri che ogni giorno vengono alla luce nei nostri ospedali. Ne nascono circa 78 mila l’anno: più di 200 al giorno, più di 8 all’ora, più di 2 ogni quarto d’ora. I minori stranieri nati e cresciuti in Italia sono oggi 570 mila (una città più grande di Firenze e di Bologna); se ci aggiungiamo quelli arrivati qui da piccoli, che hanno studiato nelle nostre scuole, sfioriamo il milione: se abitassero tutti insieme, sarebbero la quarta città italiana, a pari merito con Torino. Ma è una città invisibile, popolata da fantasmi, che la politica fa finta di non vedere.
Eppure, tutti gli altri li vedono benissimo: li vedono le ostetriche, le maestre d’asilo, gli insegnanti delle elementari, gli allenatori del minibasket, le suore del catechismo (perché spesso sono di famiglie cristiane, anche se la propaganda vigente preferisce puntare sull’invasione islamica), i professori delle medie e quelli del liceo. Li senti parlare con l’accento milanese o napoletano, li vedi tifare ai mondiali per la Nazionale, e non ti sfiora neanche il dubbio che siano stranieri... perché in realtà non lo sono, tranne che per la legge. Una legge scritta 19 anni fa, in un’altra era geologica, e che appariva già vecchia nel 1997, quando la Convenzione europea chiedeva agli Stati di facilitare l’acquisto della cittadinanza per “le persone nate sul territorio e ivi domiciliate legalmente ed abitualmente”. Potrebbe apparire una questione di principio, ma in realtà è molto di più. C’è innanzitutto un lato psicologico della vicenda, perché per un adolescente è importante sapere chi c’è dall’altra parte dello specchio. Ma ce n’è soprattutto uno pratico: fino a quando l’iter per l’acquisizione della cittadinanza non si completa, e normalmente ciò non accade molto prima dei trent’anni, i nuovi italiani sono di fatto dei cittadini di serie B.
“Fin tanto che le leggi non cambiano - mi scrisse su Facebook il mio amico Jaska, 26 anni, arrivato dal Punjab a Città di Castello quando ne aveva 6 - non potremo essere gli Obama italiani, ma nemmeno insegnanti, avvocati, magistrati, impiegati e dirigenti pubblici, ingegneri, architetti, notai, vigili del fuoco, poliziotti, militari, bidelli, autoferrotranvieri e qualsiasi altra attività che preveda l’accesso mediante concorso pubblico”. Di più: se finisci l’università e non trovi immediatamente lavoro, ti arriva un foglio di via che ti rispedisce immediatamente a casa. Anche se casa tua è sempre stata questa, anche se non puoi concepire una patria diversa, anche se l’unica lingua che parli - perfino con i tuoi genitori - è quella che hai imparato a scuola e per strada, da piccolo, giocando con i tuoi amici.
È un po’ singolare questa regressione culturale sul senso della patria, proprio nel 150esimo dell’unità d’Italia, perché basterebbe la mescolanza di arabi e normanni in Sicilia a ricordarci come tra le nostre caratteristiche non ci sia mai stata la purezza della razza. Se mai, da noi è storicamente vero il contrario: ciò che distingue la civiltà romana da tutte le altre è la capacità di distinguere la gens, ossia il cerchio familiare strettamente basato sul sangue, dalla civitas, ovvero la comunità basata su un patto condiviso e su un sentimento di appartenenza. Per carità, non fu sempre facile: l’imperatore Claudio, ad esempio, arrivò a litigare con il Senato per estendere i diritti civili ai Galli. Ma poi la storia gli diede ragione, come racconta Tacito negli Annales: “La pace si consolidò all’interno quando i Transpadani furono accolti nella cittadinanza. I loro discendenti rimangono con noi e nell’amore verso questa patria non sono a noi inferiori”. Molto meglio dei padani di casa nostra, che non cantano neppure l’inno.
L’Europa ci ha già condannati: vietato respingere i migranti
di Alessandro Cisilin (il Fatto, 30.03.2011)
La tentazione dell’espulsione di massa aleggia nell’odierno Consiglio dei ministri. Lasciar “esplodere” Lampedusa serviva anche a questo, e gli stessi vertici leghisti lo hanno fatto trapelare: l’emergenza può tornare utile, se non altro per abbassare il livello di guardia dell’opinione pubblica in materia di diritti essenziali dei migranti, e più ancora dei profughi. Il problema per il governo è che quei diritti godono, almeno sulla carta, di una protezione internazionale e la loro violazione porterebbe il paese all’ennesimo schiaffo europeo.
IL QUADRO giuridico è chiaro, quantomeno verso gli abusi più gravi, e a esso l’Italia è vincolata sin dall’articolo 10 della Costituzione. L’architrave è il principio globale di “non refoulement”, formalizzato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che vieta il trasferimento forzato di qualsiasi persona verso un paese in cui risultasse a rischio per motivi razziali, religiosi, nazionali, sociali o politici. L’Unione europea, per la verità, ha coniugato tale principio in modo piuttosto blando, oltre che tardivo (con le direttive del 2004 e del 2008), sulla spinta di governi e di un Europarlamento tuttora a maggioranza di centrodestra. Ma perfino in tale contesto l’Italia ha passato il segno, specie sugli “allontanamenti collettivi”, che negano al migrante il diritto a un esame individuale.
QUELLI attuati da Lampedusa verso la Libia subirono la condanna dell’Assemblea di Bruxelles già nel 2005. Concetto ribadito due mesi fa quando i deputati dissero no ad accordi con Tripoli (come quello siglato dall’Italia) per l’assenza di garanzie sui diritti umani. A deplorare il nostro governo per i respingimenti in mare è intervenuto l’aprile scorso anche il Consiglio d’Europa. Ma il peggio per il nostro paese, sul piano monetario, potrebbe arrivare dalle procedure d’infrazione della Commissione e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A giugno è prevista la decisione di quest’ultima sulle espulsioni collettive denunciate nel 2009.
Finalmente li chiamiamo migranti
di Beppe Severgnini (Corriere della Sera, 30.03.2011)
Migrante, participio presente. Una persona, un gruppo o un popolo che migra. Si sposta verso luoghi nuovi, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Lampedusa è piena di participi presenti, provvisori e contraddittori. Migranti che non migrano. Non vogliono tornare indietro, non possono andare avanti. Stanno là.
Un tempo c’erano immigranti ed emigranti. Moto a luogo e moto da luogo, secondo il punto di vista di chi guarda. In Italia andava forte il secondo termine: per un secolo (1860-1960) la gente è partita in cerca di lavoro. Arrivavano in pochi, benestanti e inclassificabili. Nessuno chiamava «immigrante» la signora inglese innamorata di un cipresso della Toscana.
Quando emigranti e immigranti diventavano stanziali, ottenevano il cambio di residenza e di tempo del verbo. Da participi presenti a participi passati: da emigranti a emigrati, da immigranti a immigrati. Una tregua linguistica durata vent’anni. Poi l’Italia ha cominciato a esportare professionisti e importare manodopera. Era opportuno aggiornare il vocabolario.
Per l’emigrazione è stato facile. Globalizzazione! abbiamo gridato in coro per giustificare la fuga dei cervelli. Peccato che molti ne uscissero e pochi ne entrassero (globo a senso unico: un’eccezione tra i solidi di rotazione). Per l’immigrazione s’è rivelato più complicato. Il 6 agosto 1991 il mercantile Vlora, partito da Durazzo, entrava nel porto di Bari con 12 mila albanesi - un’immagine drammatica e potente, un maremoto umano. Le parole usate sui giornali in quei giorni: disperati, profughi, rifugiati, fuggitivi, boat-people.
Migrazione, immigrazione ed emigrazione non erano contemplate. Era un fenomeno nuovo e cercavamo - illusi - di disinnescarlo con parole nuove. La più popolare, negli anni Novanta, è stata «extracomunitario» . Sorvolando sull’imprecisione - e la perplessità di svizzeri e statunitensi- volevamo essere politicamente corretti. Come se chiamare africano un senegalese non fosse più preciso, e non lo riempisse d’orgoglio.
Poi è venuto il turno di «clandestino» (clam +dies =nascosto al giorno). Il termine non s’è rivelato duttile come il francese sans papiers (senza documenti) ed è finito nelle fauci della politica: sbranato in poco tempo. Oggi la parola magica è «migrante» . Un participio presente che s’adatta alle nostre incertezze (politiche, morali, sociali, belliche). Esprime un’azione che non è chiusa, e trasmette la sensazione - la speranza? - che queste persone siano in transito, non tocchino terra, non abbiano un luogo di provenienza né una destinazione. Rondini umane, cose che capitano in primavera.
Migranti è un vocabolo ecumenico, prudente, un po’ ipocrita, generico quanto basta. Lo possono usare tutti senza addentrarsi nelle distinzioni tra rifugiati (non i tunisini!, spiegano Maroni e Frattini), profughi (termine caro ai duellanti Formigoni e Vendola), finti profughi (scrive la Padania), invasori (dicono leghisti vari).
Nel 2008 l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi), su invito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, hanno sottoscritto la Carta di Roma e si sono impegnati a utilizzare termini appropriati per ogni tipologia: il richiedente asilo, il rifugiato, il beneficiario di protezione umanitaria, la vittima della tratta. C’è anche il migrante, «colui che può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza» . Ammesso che ce l’abbia ancora, una casa; e che voglia tornarci. Per ora i migranti sono lì, come color che stan sospesi. Un’incertezza che, oggi, pesa sugli abitanti di Lampedusa. Su di loro Italia ed Europa hanno scaricato il futuro di migliaia di participi presenti. Non sembra corretto: politicamente, umanamente, grammaticalmente.
Ambulanti all’italiana
di Igiaba Scego (l’Unità, 30 marzo 2011)
Negli anni ’90 esisteva una parola che odiavo (lo stesso odio che riservo oggi alla parola clandestino). La parola in questione era “vu cumprà”, il termine, altamente dispregiativo, indicava i venditori ambulanti di origine straniera. Gli ambulanti venivano anche designati con il termine generico “marocchino”, anche se molti di loro erano di origine senegalese.
Forse questa storia è nota ai più di voi, ma mi chiedo quanti di voi sanno che in Europa oltre a esportare cervelli gli italiani esportano anche ambulanti? Durante il boom dell’emigrazione anni ’50 molti italiani hanno cercato di sbarcare il lunario vendendo di tutto. Ma credevo che questo non succedesse più agli italiani di oggi, invece a Manchester e in generale nel Nord dell’Inghilterra ci sono molti italiani che girano per le strade a vendere orologi. Questo me l’hanno raccontato membri della comunità somala inglese.
Infatti sono i somali i più ricercati dagli ambulanti italiani, soprattutto se il somalo ha più di 50 anni. Gli italiani sanno che il somalo è il pollo... ops.... il cliente perfetto a cui rifilare orologi. Sanno che i somali della diaspora over50 sanno tutti parlare italiano, sanno che i somali provano una strana “nostalgia” per o sole e o mare nonostante l’Italia non li abbia accolti e non gli abbia dato uno stato da ex paese colonizzato con i privilegi del caso (privilegi dovuti dopo anni di distruzione e apartheid inflitti).
Il somalo si illumina a sentire la lingua di Dante e si ferma sempre. In molti ti dicono «Ci fermiamo anche perché ci fanno pena questi italiani. Poveretti costretti all’emigrazione come noi che viviamo una guerra civile e con quel Berlusconi che li rende tutti poveri».