Intervento di Aldo Moro alla Costituente sul tema famiglia
Famiglia e democrazia
"Mettendo da parte, il vincolo sacramentale, si può raffigurare la famiglia nella sua struttura come una società complessa non soltanto di interessi e di affetti, ma soprattutto dotata di una propria consistenza che trascende i vincoli che possono solo temporaneamente tenere unite due persone", sono le parole che il leader Dc proferì all’Assemblea Costituente nel 1946.
25 aprile 2007 - Carlo Loiodice
Il 25 aprile lo si può commemorare in tanti modi: alcuni sinceri, altri strumentali; alcuni politici, altri esistenziali; alcuni rituali, altri critici. Attorno al simbolo costituito da questa data, si possono intrecciare discussioni su cosa fu e cosa non fu la Resistenza; su ciò che il nuovo stato realizzò o accantonò. E tuttavia, alla luce di quel che oggi tutti noi vediamo, come imbarbarimento del dibattito politico, non posso non rievocare lo slancio costruttivo e la visione di prospettiva di cui le forze antifasciste erano portatrici e che ebbero modo di manifestare durante la discussione all’Assemblea Costituente. L’esempio che sto per documentare ha del meraviglioso e dell’incredibile. Un giovanissimo Aldo Moro prende la parola a proposito di ciò che si sarebbe poi concretizzato nell’Art. 29 della Costituzione: la questione della famiglia. Ecco l’estratto dal verbale.
ASSEMBLEA COSTITUENTE
Martedì 5 novembre 1946.
Seguito della discussione sulla famiglia
MORO
Precisa che, quando si dice che la famiglia è una società naturale, non ci si deve riferire immediatamente al vincolo sacramentale; si vuole riconoscere che la famiglia nelle sue fasi iniziali è una società naturale. Afferma quindi che, pur essendo molto caro ai democristiani il concetto del vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e di funzionalità umana, possa inserirsi nella vita sociale. Mettendo da parte, il vincolo sacramentale, si può raffigurare la famiglia nella sua struttura come una società complessa non soltanto di interessi e di affetti, ma soprattutto dotata di una propria consistenza che trascende i vincoli che possono solo temporaneamente tenere unite due persone.
[Prima sottocommissione]
Fonte: www.zic.it
Aldo Moro, Via Fani, le Br: sei lustri di trame oscure
di Malcom Pagani (l’Unità, 16.03.2009)
Il fioraio in Via Fani non giunse mai. Amava la puntualità ma quel giorno, trovo le gomme del suo camioncino tagliate, imprecò e non si recò al lavoro. Un testimone in meno. Qualcuno vide dalla finestra, qualcun altro ascoltò la radio, il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era nelle vicinanze, raccontò di essere stato invitato a pranzo (sic) quando ancora la brina sostava sulle auto in sosta. Poi fu storia. I primi collegamenti televisivi dal colle di Montemario, la voce affannata di Paolo Frajese impegnata tra bossoli e sangue a raccontare l’inimmaginabile.
La mattina del 16 marzo 1978, Giulio Andreotti avrebbe dovuto recarsi alla Camera per ottenere la fiducia. Le Brigate Rosse non agirono casualmente. Alle nove meno un quarto Aldo Moro salutò la moglie, prese le borse, scese le scale e salutò gli uomini della scorta. La macchina di Stato si mise in moto e dopo pochi metri, venne fermata da una pioggia di fuoco. Gli undici terroristi (alcuni travestiti da piloti Alitalia), spuntarono da dietro le siepi e colpirono con armi automatiche. Novantuno colpi con cui sterminarono i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro ( Ricci e Leonardi) e i tre poliziotti che la seguivano (Jozzino, Rivera e Zizzi).
Poi fecero scendere il Presidente della Dc: "Mi lascino andare, cosa vogliono da me"?" Lo caricarono su un’altra automobile e, dopo un rapido cambio di vettura, scivolarono in un anonimo appartamento della Magliana. In Via Montalcini, al numero 8, ogni cosa era pronta. "La prigione del popolo", pochissimi metri occultati dietro una parete, un drappo rosso con la stella a cinque punte, un tavolino e una branda, furono approntati per tempo. Da quell’angolo sotto la luce del Neon, Moro scrisse moltissimo, ancor di più pregò. Venne ripetutamente interrogato, spiegò, si illuse, accusò, cercò di smuovere le acque prima di essere risucchiato dal gorgo e morire, crivellato dai colpi e dall’indifferenza, 55 giorni più tardi.
"Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano". Il primo comunicato brigatista indicò la direzione. Poi ne vennero altri (di cui uno, redatto dal falsario Tony Chicchiarelli, quello della finta esecuzione al Lago della Duchessa, palesemente apocrifo). Sul suo corpo, sul passato, sull’appartenenza alla Dc e sui futuri scenari della politica italiana (anche in chiave anti Pci) si giocarono i destini di una partita a scacchi, piena di sottoinsiemi di non semplice definizione.
Nelle ottantasei lettere scritte dalla prigione, Moro disegnò scenari chiari, lanciò messaggi che agitarono il quadro, spaventò i possibili salvatori e nelle parole fatte scivolare attraverso le pareti e dirette ai familiari: "Mia dolcissima Noretta" , lasciò l’ennesima grande, disperata lezione di umanità. Più duro fu nei confronti del partito che era stata la sua casa per un trentennio e che nonostante i tormenti dell’amico Zaccagnini, non trovò soluzioni apprezzabili per tirarlo fuori dalla secche. "Resta, in questo momento supremo-scrisse l’8 aprile- la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro".
Lo fecero passare per ingrato, per pazzo, per inconsapevole. Demolirono da fuori l’unica possibilità che gli rimanesse. Quelle lettere, considerate "Non moralmente autentiche", rappresentarono l’inizio della fine. Una trattativa verosimile, venne avviata solo negli ultimi giorni. Dopo la strana scoperta eterodiretta di covi brigatisti sulla Cassia, inutili parate di forza sulle montagne tra Lazio e Abruzzo e appelli, mai troppo convinti, dal soglio pontificio o dalle colonne di un giornale. "Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio tra prigionieri politici perchè venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della Dc. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato". Il comunicato numero nove chiuse la porta in faccia alle chimere. Moro venne fatto alzare alle sei di mattina, fatto entrare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, giustiziato e poi portato in Via Caetani, a metà strada tra Piazza del Gesù e Via delle Botteghe Oscure, crocevia simbolico delle due più grandi scuole politiche nazionali. Alle 12.30 del 9 maggio 1978, il volto ieratico di Moro, spuntò dal retro dell’auto e il paese intero, si bloccò.
In molti ipotizzarono, a partire dal fratello di Moro, che il politico salentino in realtà non fosse rimasto in Via Montalcini che lo stretto indispensabile. Che fosse rimasto nel ghetto, a due passi da Via Caetani, in un appartamento nei pressi di Piazza Paganica o sul litorale romano, come alcuni frammenti sotto le scarpe e la sabbia ritrovata nei risvolti dei pantaloni, avrebbero spinto a pensare. Ma tra un depistaggio e l’altro, una riunione tra Pieckzenick e Cossiga, un’informativa del Sisde, le profezie di Pecorelli, gli States, ( la moglie rivelò anni dopo che nel viaggio americano Moro era stato minacciato, forse da Kissinger in persona : "O lasci perdere la tua linea politica o la pagherai cara", la P2 e il ruolo del grande vecchio, sullo sfondo, da sempre, tutte le ipotesi apparvero come pulviscolo impalpabile. Materia non afferrabile. Sentieri di nidi di ragno senza via d’uscita. Ragnatele non scioglibili.
Undicietrenta
Sequestro Moro, chi è morto a via Fani
di Roberto Cotroneo (l’Unità, 17.03.2009).
Sono 31 anni. Trentuno anni esatti dall’eccidio di via Fani, e dal rapimento di Aldo Moro. Questa mattina hanno portato una corona di fiori leader di partito, alte cariche dello Stato, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il comandante generale dell’arma dei Carabinieri. Per ricordare, e fare in modo che non sia dimenticato il sacrificio di quei 5 uomini della scorta, uccisi barbaramente in quella tragica mattina. È stato chiesto di poter mettere una lapide nei luoghi dove quegli uomini hanno vissuto perché il ricordo possa rimanere ancora più nitido. Credo che sia doveroso. E credo che ognuno di noi può fare qualche cosa. Molti miei lettori, i lettori di questa rubrica, conosceranno bene la storia degli uomini morti in via Fani. Altri, i più giovani, sapranno meno cose, e forse non ricorderanno i nomi. Vorrei metterli qui. Uno dopo l’altro, con una piccola parte della loro storia. Per i più giovani che forse non sanno, ed è giusto che ricordino.
Francesco Zizzi, nasce a Fasano, in provincia di Brindisi, nel 1948. Entrato nella Pubblica Sicurezza nel 1972. Il 16 marzo del 1978 è il suo primo giorno al servizio della scorta di Moro. Si trova nell’Alfetta che precede la macchina dell’Onorevole, seduto al posto del passeggero. Muore a 30 anni come vice brigadiere di polizia, durante il trasporto al Policlinico Gemelli di Roma.
Giulio Rivera, nasce nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso. Nel 1974 si arruola nella Pubblica Sicurezza e viene chiamato al servizio della scorta di Aldo Moro. Il 16 marzo si trova alla guida dell’Alfetta che precede la macchina del Presidente. Muore a 24 anni all’istante, crivellato da otto pallottole.
Raffaele Iozzino, nasce in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953. Nel 1971 si arruola nella Pubblica Sicurezza, frequenta la scuola di Alessandria e viene successivamente aggregato al Viminale e quindi comandato alla scorta di Aldo Moro. Il 16 marzo del 1978 si trova nel sedile posteriore dell’Alfetta che precede la macchina del Presidente. Muore come agente di polizia a solo 25 anni.
Domenico Ricci, carabiniere, nasce a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Motociclista, entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta. Diviene il suo autista di fiducia e non lo lascia fino alla morte. Il 16 marzo 1978 si trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il Presidente della DC. A 42 anni ha lasciato una moglie e due bambini.
Oreste Leonardi nasce nel 1926 a Torino. Mentre frequenta il II ginnasio, Oreste rimane orfano del padre che muore durante la seconda guerra mondiale. Da quel momento decide di terminare gli studi e di arruolarsi nell’Arma dei Carabinieri. Dopo aver lavorato in diverse sedi, viene inviato a Viterbo. Lì diviene istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo e nel 1963 viene chiamato come guardia del corpo di Aldo Moro. Il maresciallo Leonardi era l’ombra di Moro, la sua guardia del corpo più fedele: quel 16 marzo del 1978, trovandosi nel sedile anteriore della macchina del Presidente, vicino al posto di guida, è proprio lui a compiere un tentativo estremo per proteggere Moro con il proprio corpo. A 52 anni ha lasciato una moglie e due figli.
I cammelli al galoppo nella cruna dell’ago di Eugenio Scalfari (“la Repubblica”, 13 maggio 2007)
Il familismo è la base della società italiana, così ha scritto ieri su questo giornale Francesco Merlo e tutti concordiamo con lui. Lo è nel bene e nel male. Tutti siamo figli di mamma - si dice e si sa - e di mamma ce n’è una sola; a lei si ricorre anche nell’età adulta per ritrovare serenità, conforto, ristoro ed anche, con l’avanzare degli anni, per proteggerla e accompagnarla affinché non si senta sola in vista dell’ultimo appuntamento.
Familismo non è necessariamente sinonimo di famiglia. Il primo è un modo d’essere e di sentire, la seconda è un’istituzione convalidata da un contratto che per i cattolici realizza anche un sacramento. Spesso però quei due termini coincidono ibridandosi reciprocamente. Quando questa compenetrazione avviene la microistituzione familiare si chiude a riccio, esclude e non include, rischiando di diventare omertosa e di far prevalere la difesa dei propri confini sulla solidarietà civica e perfino sull’amore del prossimo.
Le società profondamente cristiane - se ancora ce ne sono - conoscono questo contrasto che ha le sue radici addirittura nella predicazione di Gesù di Nazareth. Dopo aver incitato i discepoli e il popolo che lo seguiva all’amore e alla carità, egli aggiunse: «Voi credete che io sia venuto a portare la pace ma io ho portato la spada. Io metterò il padre contro il figlio, la figlia contro la madre, il fratello contro il fratello. Chi verrà con me abbandonerà la famiglia. La mia famiglia non sono mio padre e mia madre ma siete voi che credete in me».
È un passo dei Vangeli molto controverso che ha una sola interpretazione possibile: Gesù pone se stesso come simbolo di carità e amor del prossimo e vede i legami familiari e l’egoismo di gruppo che li può intridere come una barriera da abbattere se il cristiano vuole aprirsi al comandamento dell’amore del prossimo.In questa visione la famiglia, luogo di amore, non può che essere aperta e inclusiva. Se non lo è il Maestro esorta i suoi seguaci ad abbattere il muro che la protegge e ad aprire le braccia e il cuore al Dio della misericordia, della tenerezza, del bene.
Noi laici, ma non ghibellini, vorremmo che questa fosse la visione della famiglia che ha radunato ieri, in piazza San Giovanni, una gran folla di persone per iniziativa di molte associazioni cattoliche, dei preti e dei Vescovi italiani. I promotori di quel raduno hanno sostenuto che proprio questa è stata la sua motivazione. E poiché l’istituzione familiare vive nel nostro tempo e deve sopperire ai bisogni e alle sfide quotidiane, gli obiettivi concreti della manifestazione sono stati anche quelli di premere sul governo affinché delinei una politica di sostegno economico alle famiglie per renderle più sicure del loro futuro e indurle anche per questa via a crescere e a moltiplicarsi.
Ebbene, spiace dirlo ma le cose ieri pomeriggio non sono andate così. Né era possibile - ammettetelo - che quella moltitudine non fosse strumentalizzata. Basta aver visto con quale entusiasmo sono stati accolti prima Fini e poi Berlusconi. Basta aver ascoltato le parole pronunciate da quest’ultimo un minuto prima di fare la sua comparsa e incassare l’ovazione che gli è stata tributata dalla piazza di San Giovanni.
«Io sono qui» ha detto «per testimoniare che i veri cattolici non possono stare a sinistra; non possono stare con i comunisti che hanno ridotto la Chiesa al silenzio e ancora vorrebbero ridurre la religione a un fatto privato. Io sono qui per far sì che la Chiesa possa liberamente parlare e affermare la propria verità e i propri valori che sono anche i nostri».
E così é stato servito il buon Pezzotta, organizzatore ufficiale del raduno, affannatosi per settimane a rassicurare che nessun colore politico avrebbe prevalso in quella piazza e in quella moltitudine, che cattolici e non cattolici avrebbero potuto e dovuto affratellarsi in nome della famiglia, dei suoi diritti e dei suoi doveri.
Se Pezzotta - come ci ostiniamo a sperare per lui - è un uomo di buona fede, dovrebbe aver passato una pessima nottata nel constatare che i suoi sforzi sono stati ridicolizzati dalla realtà. Oppure - se si rallegrerà per quanto è accaduto - dovremo concludere che ha tentato di prendere in giro gli italiani che la pensano diversamente dalle piazzate berlusconiane.
Che Pezzotta sia un ingenuo si può anche concedere, ma sono altrettanto ingenui i vescovi della Conferenza episcopale? E il papa che anche dal Brasile ha seguito con attenta intenzione la manifestazione romana? (Apprendo ora dal telegiornale che Pezzotta con aria felice ha detto: «Il papa sarà contento di questa giornata».Tanto ingenuo dunque non è).
In realtà il Vaticano e le diocesi italiane stanno assordando da anni gli italiani con lo sventolio dei loro interessi e dei valori usati per ricoprirli. Hanno trasformato la Chiesa italiana nella più potente delle "lobby". Hanno voluto il raduno di Roma per mettere in scena una prova di forza politica e muscolare. Hanno attinto a piene mani ai fondi provenienti dall’8 per mille versato nelle loro casse dallo Stato italiano. Stanno risuscitando il clericalismo e l’anticlericalismo. Sono entrati a gamba tesa nell’agone politico a dispetto della lettera e dello spirito del Concordato.
Questo è accaduto ieri. Non vorremmo usare parole gravi ma la giornata di ieri ha indebolito la democrazia italiana. Non perché tanta gente si sia riunita per far sentire la sua adesione ai valori e agli interessi delle famiglie; ma perché quella stessa gente è stata manipolata dalle destre e dalla Chiesa in perfetta sintonia tra loro. Trono e altare, come ai vecchi tempi.
Vengono in mente i farisei denunciati da Gesù come sepolcri imbiancati e viene in mente anche la biografia privata di molti capi della destra a cominciare dal suo leader massimo.
Ho già detto: non siamo ghibellini. Ma sentiamo che forze potenti ci spingono a diventarlo. Siamo contro chi volesse ridurre la Chiesa al silenzio, anche se non c’ è nessuno che lo voglia. Ma siamo soprattutto contro chi sta riducendo al silenzio i laici e facendo a pezzi la laicità.
* * *
Da questo punto di vista bene hanno fatto i radicali e quanti ne hanno condiviso l’iniziativa a promuovere il raduno del "coraggio laico" a piazza Navona. La sproporzione delle forze in campo era evidente e proprio per questo è stata usata la parola coraggio.
Il grosso del centrosinistra era assente. In ascolto, hanno detto i suoi leader. Ebbene, ora hanno ascoltato. Di incoraggiamenti per una politica di sostegno finanziario alle famiglie non c’era bisogno: una parte delle scarse risorse disponibili è già stata impegnata dal governo in quella direzione; altre provvidenze saranno decise nel convegno di Firenze promosso dal governo e Rosy Bindi.
Resta l’accoppiata tra la Chiesa italiana e la destra, fragorosamente espressa da mesi e culminata nella giornata di ieri. Si spera che i leader del Partito democratico abbiano ascoltato con profitto e che almeno un briciolo di coraggio laico sia penetrato nelle loro menti.
Gesù di Nazareth rovesciò i tavoli dei mercanti e li scacciò a frustate dal Tempio. Gesù di Nazareth predicava la pace ma sapeva usare la spada quando fosse necessario.
Ha detto tante cose Gesù di Nazareth. Forse i laici dovrebbero promuovere un raduno di massa intitolato al suo nome per vedere fino a che punto la Chiesa di oggi abbia ancora il diritto di usarlo e non parli invece sempre di più con lingua biforcuta. Per vedere se il ritorno al nuovo temporalismo sia un fatto positivo o negativo per il sentimento religioso. Per vedere se i papisti di oggi lottino ancora affinché gli ultimi siano i primi. Infine per capire se i cammelli riescano a passare nella cruna dell’ago o se quella cruna non sia diventata una ampia autostrada dove i cammelli transitano al galoppo con tutto il carico delle loro ricche mercanzie.
Sì, bisognerebbe proprio farlo un raduno di massa su Gesù di Nazareth. Non credo che il trono e l’altare uniti insieme siano di suo gusto, figlio dell’Uomo o figlio di Dio che lo si voglia considerare.
Per Pera, Aldo Moro era sicuramente un "comunista", tanto è vero che era culturalmente e politicamente in consonanza con quell’altro comunista di Enrico Berlinguer - e tutti e due erano per una difesa di una Costituzione nient’affatto af-faraonica, né in Italia né in Europa!!! (fls)
di MARCELLO PERA (La Stampa, 30/4/2007)
La questione dell’omofobia è come quella del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto. Si mira da una parte per colpire dall’altra. Sulle coppie di fatto non esiste un vero problema. Non lo hanno le stesse coppie di fatto, le quali, avendo liberamente scelto di essere di fatto, non chiedono di diventare di diritto. Né lo ha la società, perché nessun movimento è mai nato per protestare contro presunte discriminazioni in materia di unioni. In realtà, con la scusa della protezione delle coppie uomo-donna, si vuole arrivare al matrimonio uomo-uomo e donna-donna.
Lo stesso vale per la condanna dell’omofobia. Non esiste un problema sociale degli omosessuali, salvo che nei Paesi islamici (che però, al momento, non fanno parte dell’Unione europea), perché né di fatto né di diritto essi sono discriminati in Europa e in Occidente. Vale addirittura il contrario: da quando si sono liberati dal condizionamento sociale e dalla propria autorepressione psicologica e hanno cominciato a fare outing, non solo gli omosessuali sono stati accettati come tali (salvo i normali pettegolezzi che si riservano a tutti), ma addirittura sono diventati i nuovi eroi portatori di nuovi diritti, nuova cultura e nuova civiltà. Al punto che, se c’è, la discriminazione è a loro favore: ad esempio, mentre è possibile oggi bloccare strade e città per una manifestazione di gay pride, non è più possibile intralciare il traffico per una processione del Corpus Domini.
E allora contro chi ce l’ha il Parlamento europeo? Ce l’ha con la Chiesa cattolica, la quale, come tanti, i più, ritiene che l’omosessualità sia un disordine morale e una a-normalità, per ragioni culturali, genetiche, fisiologiche o che altro. Oltre a ciò, il Parlamento europeo ce l’ha con quei credenti e con quei non credenti (che solo in italiano e francese si chiamano «laici»), i quali, benché non abbiano problemi riguardo ai diritti degli omosessuali, ne hanno di irriducibili contro la loro richiesta di congiungersi in matrimonio, o comunque si chiami l’istituto giuridico a seconda delle fantasie dei vocabolari europei.
E perché il Parlamento europeo ce l’ha tanto con la Chiesa cattolica e coloro che, sul punto, ne condividono la posizione? Perché il Parlamento europeo è la punta avanzata del laicismo europeo, il quale è una delle due valvole mitraliche del cuore dell’ideologia europeista (l’altra, come è noto, è il pacifismo, ma solo se antiamericano e preferibilmente filoislamico).
Morti il fascismo, il nazismo e, alla fine e per grazia di Dio, anche il comunismo, l’europeismo è l’ultimo (nel senso di più recente) rifugio ideologico dell’Europa, soprattutto quella di sinistra e soprattutto quella che, da sinistra, l’aveva sempre osteggiata quando era atlantica e voleva essere cristiana.
A questa ideologia il laicismo fa così tanto da cemento che attorno a esso si edifica quel poco di identità europea che ancora è ammessa (l’Europa laica contro l’America bigotta) o su di esso si costruiscono partiti politici postcomunisti o postcattolici (in Europa, quella Margherita che si chiama partito liberale, in Italia il partito democratico, che non a caso si è definito «partito laico» e, al primo punto programmatico, ha posto il riconoscimento dei matrimoni omosessuali).
L’odio contro la Chiesa e le sue gerarchie (pericolosissimo perché finirà con l’armare ideologicamente la mano di qualche criminale) e l’apostasia del cristianesimo è ciò su cui oggi si basa l’Europa. Non sapendo più che cosa è, né avendo chiara idea di che cosa vuole essere (se non zona di pace e di ferie), l’Europa fugge da se stessa. Ma poiché senza un interlocutore o un avversario, anche immaginario, che consenta di distinguere «noi» da «loro» non si può esistere, l’Europa, per mostrare che invece esiste, ha fatto la sua scelta: ha puntato al fantasma degli omofobi per combattere il cristianesimo.
Trovato il nemico, fascismo, nazismo, comunismo si inventarono confini, campi e gulag per rinchiudercelo. Ma l’ideologia europeista, come ha scritto un Tale, è «una forza gentile»: al momento si limita alle minacce culturali e alle censure parlamentari.