Le Tigri assaltano,noi arranchiamo Ma per lo storico Castronovo reagire si può: «Purché ci si rimetta in gioco»
E ora l’Europa rincorre l’Asia
di Edoardo Castagna (Avvenire, 22.07.2006)
Noi lo chiamiamo continente, ma continente non è. Prima o poi dovremo prendere atto che questa nostra vecchia Europa non è altro che una penisola dell’Asia, più o meno importante secondo il mutare dei secoli e delle fortune. Lo scettro mondiale è già passato all’America, anche se ci consoliamo pensando che in fondo sia sempre una figlia nostra. Ma adesso che la minaccia monta da est, e con un’aggressività competitiva ben diversa, l’Europa sembra ancor più smarrita. A farci paura è Un passato che ritorna, secondo lo storico Valerio Castronovo: perché, in fondo, la superiorità politico-economica dell’Europa sull’Asia è stata poco più di una parentesi nella storia, aperta dalla Rivoluzione industriale e oggi, probabilmente, prossima a chiudersi.
L’Europa è inevitabilmente destinata a finir relegata in un ruolo marginale, professor Castronovo?
«Questo dipende da noi europei. Siamo davanti a una sorta di nemesi storica: non è la prima volta, oggi, che tra Europa e Asia c’è una competizione a distanza. Fino a inizio Ottocento l’Europa è stata in debito nella bilancia commerciale nei confronti dell’Asia; la nostra produzione manifatturiera era sì superiore a livello tecnologico, ma inferiore per volumi a quella complessiva dell’Asia».
E oggi siamo di nuovo in bilico?
«Noi europei ci siamo resi conto in ritardo della nuova crescita in forze dell’Asia. Abbiamo continuato troppo a lungo a ritenerla immersa - Giappone e Corea a parte - in un’economia di pura e semplice sussistenza. Certo, ancora oggi gran parte dell’Asia - inclusi due terzi dei cinesi, quelli dell’interno - vegeta nell’arretratezza. Noi però ci siamo illusi di poter riposare sugli allori e che la rincorsa dell’Asia non potesse avvenire in tempi tanto rapidi da incrinare il nostro primato».
Un primato però già scivolato oltre Atlantico, verso gli Stati Uniti...
«Certo, dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa aveva dovuto prendere atto della preminenza americana nelle relazioni economiche e nella politica internazionale. Tuttavia, dopo la caduta del Muro di Berlino, il riavvicinamento tra le due parti dell’Europa e l’introduzione dell’euro, il processo di sviluppo del Vecchio continente bene o male continuava - anche se al rallentatore, rispetto ai primi anni del secondo dopoguerra - e l’Europa non si è preoccupata d’altro. Lo si è visto bene nel marzo del 2000, quando i leader dell’Unione riuniti a Lisbona avevano pronosticato un’Europa che, entro il 2010, avrebbe riguadagnato terreno nei confronti degli Stati Uniti, tanto da diventare l’area più dinamica e competitiva del mondo».
Perché quelle previsioni sono rimaste solo sulla carta?
«Le necessarie riforme - strutturali, ma anche culturali - non sono state poi messe in cantiere. L’Europa deve darsi una scossa, ora che ha acquistato la consapevolezza che i traguardi che ha fin qui raggiunto non sono affatto irreversibili. Dobbiamo passare ai fatti, dimostrare che abbiamo ancora energia, risorse, fiducia in noi stessi. Invece assistiamo a un indebolimento della popolazione: l’Europa invecchia, fa meno figli, e anche a livello culturale ed educativo ormai siamo in crisi».
Ma abbiamo ancora margini di reazione?
«Naturalmente sì: ma dobbiamo capire che non possiamo riprodurre le stesse strutture economiche di un tempo. Bisogna investire di più nell’economia della conoscenza, nella progettazione, nella ricerca, nella formazione. Se l’Italia è agli ultimi posti dell’Europa, gli altri Paesi non stanno molto meglio se confrontati, per esempio, allo sviluppo prodigioso dell’India: tutto basato sulla crescita dei talenti, soprattutto nelle discipline scientifiche, matematiche, fisiche, dell’informatica. Questa è la vera, grande risorsa dell’India».
Dove però esistono ancora enormi sacche di povertà...
«Sì, l’India ha ancora molti problemi da risolvere - dalla miseria endemica delle metropoli sovraffollate al sistema delle caste, a u na burocrazia farraginosa -: però ha una popolazione giovane, che si impegna negli studi. I maggiori investimenti di una famiglia non vanno nei consumi, ma nell’educazione dei figli, favorita da severi ed efficaci meccanismi di selezione basate sul merito: ed ecco che l’India produce migliaia e migliaia di diplomati, di laureati, di esperti, di personale qualificato di alto livello. Così, anche sul versante dell’istruzione l’Europa si trova alle strette».
Perché tante difficoltà?
«Tutto sommato, risorse, esperienza, lavoro e cognizioni pratiche ne abbiamo. Quello che manca è la fiducia in noi stessi, la voglia di mettersi in gioco. I giovani non si rendono conto che dovranno rimboccarsi le maniche, mostrare spirito d’iniziativa».
Ma c’è qualcosa dello spirito europeo che resta sempre valido?
«La nostra cultura si basa su principi pluralistici, sulla società aperta, sul confronto. Questo è il tratto distintivo dell’Europa: una sorta di unità nella diversità. Nei loro mille conflitti, le nostre tradizioni religiose e culturali hanno costituito il cemento dell’Europa, ben diverse dal meticciato dell’America latina o da quel crogiolo di etnie e culture che sono gli Stati Uniti. L’Europa aveva, almeno fino a poco tempo fa, una fortissima identità costruita intorno ad alcuni valori religiosi, culturali e politici. Dopo il ricongiungimento con i Paesi dell’est e l’unione monetaria, l’Europa ha creduto non solo di poter consolidare la propria prosperità economica e il benessere materiale conquistato tra gli anni Cinquanta e i Settanta, ma di aver anche ricomposto la sua identità».
E non è stato così?
«Certo, i fratelli dell’est sono ritornati sotto il nostro stesso cielo, all’insegna degli stessi principi. Ma da quindici anni in qua l’Unione, invece di crescere di statura internazionale e di assumersi le sue responsabilità nella difesa di pace e sicurezza, abbia finito per perdere terreno. Non abbiamo utilizzato come avremmo dovuto le opportunità e le risorse a nostra disposizione. È una questione, prima ancora che strutturale o economica, culturale e psicologica: non si progetta più il futuro. L’Europa vive alla giornata».
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Valerio Castronovo un passato che ritorna L’Europa e la sfida dell’Asia Laterza. Pagine 362. Euro 19,00
Bella analisi CAstronovo: una bella critica europeista pratriottica che chiude con una bella Europa come ..."una sorta di unità nella diversità"...
Ma che bella afferrmazione... soprattutto perché taci sullo scannatoio avvenuto per quasi tutto il secolo scorso e prima ancora... un minimo di senso storico da uno storico almeno... e non mi venire a dire che adesso non ci dobbiamo più pensare perché è cambiato tutto!!! Cosa è cambiato con l’europa unita? che invece di farcele tra tedeschi e francesi e inglesi e italiani adesso le guerre le faremo tra europei e cinesi? ah bene grazie bella prospettiva!!!
Europa e Asia, una nemesi storica «Un passato che ritorna» La rivincita di Cindia nei confronti del Vecchio Continente. Ipotesi e domande sul futuro nel saggio di Valerio Castronovo per Laterza di Silvia Calamandrei (il manifesto, 30.07.2006)
Poco rassicurante per l’Europa la conclusione del saggio storico-economico Un passato che ritorna di Valerio Castronovo (Laterza, pp. 366, euro 19): l’Asia «è destinata a soppiantare l’area euro-atlantica quale centro di gravitazione dello sviluppo e degli scambi». L’ipotesi è che si stia ristabilendo quella dipendenza dall’Asia che l’Europa viveva seicento anni fa e che, in un certo senso, è stata il motore del suo sviluppo, spingendo gli europei su nuove rotte, alla ricerca di un passaggio più conveniente verso il pepe nero e le spezie indiane, le sete e le ceramiche cinesi, stimolando la nascita delle grandi compagnie commerciali olandesi e inglesi.
Secondo Castronovo, d’accordo con Thomas L. Friedman di Il mondo è piatto (Mondadori 2006) e Amartya Sen di Globalizzazione e libertà (Mondadori 2003), la globalizzazione, lungi dall’avvantaggiare i paesi più avanzati, sta scatenando processi di crescita che minano le fondamenta egemoniche dell’Occidente. Una sorta di nemesi storica: l’Asia sta ristabilendo quella centralità che le era appartenuta fino alla fine del Settecento e che fu scossa dalla rivoluzione industriale inglese, nata proprio in risposta ai prodotti tessili asiatici fino ad allora predominanti sul mercato europeo.
Gli interrogativi di Castronovo sulla capacità dell’Europa di far fronte alle sfide del nuovo secolo, già espressi in L’avventura dell’unità europea. Una sfida con la storia e con il futuro (Laterza, 2004), si fanno più inquietanti in un confronto serrato con gli sviluppi asiatici, e in particolare con il dinamismo dei due colossi di quell’area, Cina e India, capaci di straordinari tassi di crescita e di innovazione scientifica e tecnologica di punta. L’obiettivo ambizioso che l’Europa si era data a Lisbona, diventare nel 2010 l’economia più competitiva e dinamica del mondo, rimpiazzando gli Stati Uniti come forza trainante dell’economia internazionale, perde colpi di fronte all’avanzata di Cindia.
L’aver «trovato l’America», spostando il centro di gravitazione europeo verso l’Atlantico, o l’aver coniugato scoperte scientifiche e innovazione tecnologica a partire dalla rivoluzione industriale inglese, sono state scosse telluriche dell’economia mondo che si ripercuotono fino ai territori asiatici e preparano il predominio europeo sull’Asia del XIX secolo. E nel ’900 sono le guerre mondiali con l’Europa come epicentro a rimettere in moto le dinamiche asiatiche e a dare spazio all’iniziativa del Giappone, il primo paese ad aver raccolto la sfida della modernizzazione. Ed è nel primo conflitto mondiale che matura il nazionalismo cinese, nel cui ambito la rivoluzione d’ottobre diventa punto di riferimento, mentre l’India, che conosce un impetuoso sviluppo nell’economia bellica, assiste alla crescita della resistenza non violenta di Gandhi contro gli inglesi. E’ nella II guerra mondiale che si gioca la partita dell’imperialismo nipponico, risvegliando ovunque i movimenti indipendentisti che si affermeranno nel dopoguerra, trovandosi di fronte le vecchie potenze coloniali europee e la nuova potenza globale americana. Ed è in Asia che la guerra si chiude con Hiroshima e Nagasaki, segnale della nuova superpotenza americana e monito dei nuovi equilibri del terrore atomico della seconda metà del secolo.
Cina e India emergono indipendenti all’indomani della guerra e negli anni ’50 possono ambire a un ruolo di terza forza a livello mondiale, tentato in qualche modo nella Conferenza di Bandung del 1955 dall’alleanza tra Nehru e Zhou Enlai per dar vita al movimento dei «non-allineati». Ma la guerra fredda tende a rinchiudere i conflitti nello scontro tra le due superpotenze americana e sovietica, prima in Corea, poi a Suez, poi in Vietnam. E’ la guerra del Vietnam, giocata con incredibile sagacia equilibristica dalla dirigenza vietnamita, con un forte segno di guerra di liberazione, scuote gli schemi bipolari, fa saltare il ricatto atomico e destabilizza gli Usa al loro stesso interno, intrecciandosi con la contestazione giovanile in America e in Europa e innescando una nuova ondata di movimenti di liberazione nazionale. E’ una stagione in cui l’Asia si riposiziona al centro, infliggendo la prima sconfitta agli Usa: e l’onda lunga di questo evento non va né sottovalutata né ridotta agli accordi economici e militari conclusi nel 2005 dal Vietnam con gli Usa, in funzione di cuscinetto anti- Pechino, come suggerisce Castronovo.
I protagonisti della scena asiatica, Cina, India e Giappone, hanno seguito percorsi diversissimi nella seconda metà del ’900 e il saggio li ricostruisce nei dettagli. La Cina maoista, in forte conflitto con il vicino indiano e in rotta con il blocco sovietico, ambisce a una leadership terzomondista proponendo un modello di sviluppo «autoctono», «contare sulle proprie forze», mentre forte è la penetrazione sovietica in India, anche in funzione anticinese. Il Giappone si prepara a rilanciare la sua sfida sul fronte economico dopo essersi ripreso, grazie agli aiuti americani, dalla sconfitta. Sulla sua scia si muoveranno le «piccole tigri» asiatiche, affermandosi spettacolarmente negli anni ’80. Sarà la presa d’atto del fallimento del modello maoista e di quello sovietico a preparare la strada all’irruzione economica della Cina e dell’India sul mercato mondiale, ciascuna con moduli propri, che non ripercorrono affatto la via giapponese, in stallo negli anni ’90 insieme alle tigri asiatiche; e se il capitalismo cinese è ibridato con un modello socialista autoritario, quello indiano lo è con una democrazia parlamentare di stampo britannico che si giustappone alla sopravvivenza delle caste.
Il crollo del sistema sovietico nel 1989 apre vuoti di potere e controllo nell’area asiatica, incrementando i processi endogeni di sviluppo, mentre in Europa complica il disegno lineare di Delors di integrazione economico-politica accelerata, ponendo all’ordine del giorno un inatteso «allargamento» verso est.
Gli ultimi capitoli mettono a fuoco le variabili e le incognite di oggi: la fondamentale questione delle risorse energetiche per far fronte ai ritmi di sviluppo vertiginosi di Cina e India; la sostenibilità dell’emersione dell’Asia in termini di equilibri degli ecosistemi planetari e di equità sociale; i conflitti etnico-religiosi già presenti in India e che la Cina paventa, in particolare nelle province dell’Asia centrale. Assume di nuovo attualità il «grande gioco» per la supremazia in Asia centrale, snodo delle risorse petrolifere e si riaffaccia sulla scena asiatica la Russia di Putin; più sfocata invece è l’attenzione per il posizionamento delle nuove potenze asiatiche rispetto al conflitto mediorientale che assorbe Europa e Usa. Ma il saggio non tralascia di mettere in luce l’ambiguità della strategia Usa nei confronti della Cina, da cui ormai dipendono le quotazioni del dollaro. Il governo americano, che oscilla tra soft power e hard power nei confronti di Pechino, in un contesto di «equilibrio del terrore finanziario», non manca di considerare la superpotenza emergente cinese come il prossimo competitore strategico.
Ma nelle conclusioni Castronovo vuole soprattutto dare una sferzata all’Europa, che vede in catalessi a livello politico dopo la crisi del processo costituzionale, in anchilosi sul piano economico e totalmente dipendente sul fronte energetico. Il Vecchio Continente, convitato di pietra sulla scena mondiale, può evitare la retrocessione solo rilanciando l’integrazione politica, acquisendo una maggiore propensione al cambiamento (innovazione, investimento in ricerca, ma anche riforma del welfare) e avvalendosi delle nuove opportunità che la crescita dei paesi emergenti sta creando. Altrimenti «il verdetto finale della partita intrapresa dall’Europa con l’Asia cinque secoli fa» è già scritto a chiare lettere. Ma in un mondo globalizzato e imbricato, in cui i cinesi di Prato si rivelano tra le forze più dinamiche in Toscana e le griffes italiane sono made in China, ha ancora senso giocare partite intercontinentali?
La nuova via della seta L’Himalaya è diventato valicabile. Da poche settimane è stato riaperto il passo di Nathu La che unisce il Sikkim e il Tibet. E’ una via di comunicazione fondamentale per gli scambi tra l’India e la Cina di Romeo Orlandi (il manifesto, 21.07.2006)
Dal tetto del mondo una notizia di sapore esotico suggella un evento di valore storico: la riapertura del passo di Nathu La tra il Sikkim ed il Tibet la ha un valore che travalica il semplice passaggio di grano, coperte e prodotti farmaceutici. E’ invece la conferma che nelle relazioni tra India e Cina l’Himalaya è diventata valicabile; che un teatro di guerra si è trasformato in una pacifica via commerciale. Dopo 44 anni i due paesi sembrano tornati allo spirito di Bandung, quando Nerhu e Zhou En Lai si proclamarono campioni dei Non Allineati per poi lanciarsi in un’inimicizia che, dalla guerra del 1962, solo da poco tempo ha cominciato a sbiadire.
Lo spettacolare riavvicinamento di India e Cina degli ultimi anni ha questa volta motivazioni diverse. Sono state messe da parte le ideologie terzomondiste perchè un rapido sviluppo economico è la loro comune ambizione. Ben presto, comunque nella prima metà di questo secolo, i due giganti asiatici saranno la prima e la terza economia al mondo. Per la prima volta dopo oltre un secolo le economie più ricche, in primis quella statunitense, non saranno quelle più grandi. Sarà un cambiamento epocale: India e Cina riprenderanno il loro posto nella storia. Nel 1820 producevano insieme il 50% del Pil mondiale, se il conteggio tiene conto della parità del potere d’acquisto nei vari paesi. L’analoga percentuale nel 1973 era dell’8%, una cifra platealmente incongrua perché riferita a metà della popolazione mondiale. Quando India e Cina torneranno ai livelli di 2 secoli fa le lancette del tempo saranno rimesse in ordine.
Queste considerazioni, seppure impressionanti, sono comunque acquisite. Che le nazioni più popolose siano anche le più grandi economicamente, essendo il Pil una grandezza quantitativa, sembra appartenere all’ordine naturale delle cose. Cosa succederà invece se India e Cina, inaugurando un’era di pace, daranno un valore strategico - politico, economico, militare- alla loro voglia di riscatto? Che ripercussioni si avranno sull’Occidente se il forte nazionalismo dei due paesi si rafforzerà reciprocamente? E’ noto che le due economie appaiono complementari. Entrambe registrano un peso calante dell’agricoltura nella formazione del Pil. La Cina eccelle nei settori manifatturieri, l’India nei servizi. Il Dragone ha costruito una serie impressionante di sovrastrutture; l’Elefante ha acquisito una grande reputazione in settori moderni come l’informatica, l’elettronica, la farmaceutica. Molti territori sono ancora arretrati, le campagne sono povere, ma la Cina abbonda di fabbriche e l’India di ingegneri. I due paesi hanno abbandonato vecchie ideologie ed hanno liberato le forze produttive, contendendosi i tassi di sviluppo più alti al mondo. Soprattutto l’India ha ridotto l’impatto di una miscela di burocrazia ed inefficienza che l’aveva fatta giudicare con amaro disinteresse.
Del mondo, Cina ed India sono la fabbrica e l’ufficio, l’opificio ed il call center che si cercano con frequenza. Il loro interscambio commerciale, seppure ancora modesto, ha raggiunto 19 miliardi di dollari nel 2005, con un incremento del 37% sull’anno precedente. E’ possibile che presto la domanda di prodotti a basso prezzo della popolazione indiana venga soddisfatta dalla nazione confinante. E’ inoltre probabile che una parte crescente delle ricerca elettronica venga trasferita dall’India alla Cina, come hanno già anticipato i giganti del settore Infosys, Tata e Wipro.
Nella loro grande diversità, i due colossi asiatici devono il loro sviluppo a forti politiche economiche. Le classi al potere ed al governo hanno compiuto scelte innovative e radicali per dare respiro all’economia, relegata per decenni al ruolo di "scienza triste". Decisioni politiche cogenti le hanno dato pari dignità rispetto alla politica Ecco perché il Pil, la ricchezza collettiva, è cresciuto a ritmi straordinari. Non si è trattato dunque di un «miracolo asiatico», quanto l’applicazione sistematica e rigorosa (ovviamente più rigida in Cina) di direttive politiche che si sono innestate su un tessuto arretrato e povero. Per ironia della sorte, i 2 paesi che crescono più velocemente al mondo (addirittura i primi 3 se si considera il Vietnam) vedono i rispettivi Partiti Comunisti al governo. Che non hanno subìto ma tratto vantaggio dalla globalizzazione.
E’ inevitabile che produzioni mature e labour intensive saranno trasferite dove il costo dei fattori è più basso, la dotazione industriale valida, la manodopera immensa e disciplinata: è il caso del Cina. E’ inoltre avviato un processo di delocalizzazione del terziario che vede nell’India la destinazione più immediata. I servizi legali, finanziari, assicurativi e medici trovano nel subcontinente il luogo più redditizio. Produrremo camicie in Cina e riceveremo i nostri estratti conto dall’India. Dal primo paese acquisteremo, attraverso il secondo pagheremo. Viene così rimesso in discussione l’auspicio comune in Occidente che un trasferimento della produzione poteva essere compensato, in termini di reddito ed occupazione, dall’emersione di un’economia di servizi. Oggi, anche quest’ultima si può trasferire, forzando l’Occidente a ripensare in maniera ineludibile il proprio futuro.
Cosa succederà se le 2 economie trarranno per sé i vantaggi delle rispettive specializzazioni? Il modello di business tipico delle multinazionali potrebbe essere presto messo in discussione. Il loro approccio, basato sulla combinazione di costi bassi e marketing sofisticato, potrebbe rivelarsi poco redditizio in India dove la popolazione è poco attenta al marchio ed al design. Nel momento in cui si affaccia ai consumi per la prima volta in maniera consistente, New Delhi potrebbe rivolgersi ai prodotti Made in China, la cui qualità non è più confinata in valori modesti . Ugualmente in Cina, la produzione indiana di software sta erodendo quote di mercato ai rivali statunitensi, perché offre una combinazione più appetibile di qualità-prezzo. In sintesi, sta apparendo all’orizzonte il pericolo che i due grandi mercati, forse misurati con eccessiva disinvoltura come «i più grandi del mondo», saranno aggredibili dalle imprese occidentali solo per una fascia minoritaria della popolazione. La sfida sarà addirittura più pressante quando le industrie indiane e cinesi riusciranno, sulla base di economie di scala crescenti, a ridurre i loro costi di R&D, specializzandosi nella distribuzione, nel design, nel branding. Sarà quello il momento della possibile conquista dei mercati più sofisticati e più ricchi.
Se la riconquista di posizioni nello scacchiere geo-economico di India e Cina sembra inarrestabile, non necessariamente ciò si converte in una perdita di opportunità, anche per le aziende italiane. E’ verosimile che verso i due paesi avrà luogo un aumento delle nostre esportazioni di beni di consumo, finora relegate a valori marginali. L’affermarsi di una classe abbiente ed il miglioramento degli assetti distributivi non potranno che migliorare l’insoddisfacente situazione attuale. Tuttavia è sul versante degli investimenti che si giocherà la partita più importante. L’Italia ha ancora una soglia tecnologica più avanzata e può inserirsi nei flussi economici sopra l’Himalaya con le doti che ancora non sono appannaggio di economie emergenti. Unire le capacità produttive e le innovazioni del terziario alla tradizione ed alla reputazione del made in Italy sembra la strada obbligata per non lasciar confinata ad un’economia di nicchia l’irrompere sulla scena internazionale dei due colossi asiatici.