Il candidato repubblicano sembra riuscito a far dimenticare Bush e Cheney
E Oprah Winfrey nega il suo show a Sarah Palin
Usa, il giorno del sorpasso
McCain è davanti a Obama
dal nostro inviato ALBERTO FLORES D’ARCAIS *
NEW YORK - Dopo l’11 settembre anche Fannie e Freddie mettono d’accordo Barack Obama e John McCain. Per la data-simbolo avevano scritto un testo comune, per commentare la decisione di Bush, salvare con i soldi del Tesoro i due giganti dei mutui, hanno usato più o meno le stesse parole: la Casa Bianca ha fatto bene.
Il primo week end di campagna elettorale dopo le Convention porta solo nuovi sondaggi (favorevoli ai repubblicani) e qualche puntura di spillo durante i classici talk show della domenica mattina. Obama: "Sarah Palin é più allineata di McCain a Bush"; McCain: "Sarah sa cosa vogliono veramente gli americani"; Obama: "Potrei sfidare Sarah a basket"; McCain: "Nel mio governo molti democratici"; Obama: "Mi volevo arruolare nell’esercito"; McCain: "Cambieremo Washington".
Dei quattro candidati (vice compresi) alla Casa Bianca lei, Sarah Palin, era l’unica che ieri non ha partecipato direttamente a un talk show; ma, come succede quotidianamente da quando é stata scelta, é di lei che si é parlato di più. Intervistato da Bob Shieffer in "Face the Nation" (Cbs) McCain si é dichiarato entusiasta della sua compagna di ticket: "Non ha solo eccitato la nostra base, ha eccitato gli americani. In questi giorni c’era un’atmosfera incredibilmente elettrizzante. Lei rappresenta quello che gli americani stavano cercando".
Obama (sugli schermi Abc) ha definito Sarah Palin "una politica capace" ma facendo riferimento alla sua esperienza di governatrice in Alaska ha ironizzato: "Non sono interessato ai curriculum. Sapevo anche io che l’Alaska è vicina alla Russia. L’ho visto su una carta geografica e non credo che saperlo rappresenti una qualifica". Quanto all’abilità nel basket (sport dove si é guadagnata il soprannome "Barracuda") "so che è brava a sparare e non mi allenerei in un poligono con lei, ma su un campo di basket, penso che potrei tenerle testa bene".
In attesa della sua prima intervista televisiva (che andrà in onda nel prossimo week end sulla Abc) e dopo le polemiche seguite al rifiuto di Oprah Winfrey (che appoggia Obama) di ospitarla nel suo popolare talk show ("sono convinta che la Palin sarebbe un fantastico soggetto da intervistare e sarò felice di averla da me dopo il voto. Quando ho deciso di dare il mio appoggio a un candidato, ho deciso anche di non usare il mio show come piattaforma per nessuno") la governatrice dell’Alaska continua a mietere consensi.
L’effetto Sarah si vede anche nei sondaggi. Se la media (calcolata dal sito RealClearPolitics) vede ancora Obama in leggerissimo vantaggio (46 contro 45,2) gli ultimi due in ordine di tempo sono devastanti per il candidato democratico: il Gallup Poll Daily Tracking dà a McCain un vantaggio di tre punti (48 a 45), quello di Zogby dà il ticket repubblicano in testa con il 49,7 dei voti contro il 45, 9 di Obama-Biden.
Statisticamente fino a quattro punti di differenza (il margine di errore considerato) la corsa é considerata ancora alla pari. Un testa a testa, destinato probabilmente a restare tale fino alla sera del 4 novembre, quando le urne saranno aperte e il mondo saprà il nome reale del nuovo presidente degli Stati Uniti. Non c’é peró dubbio - di questo ne sono coscienti anche gli uomini di Obama - che grazie alla Convention e soprattutto grazie alla scelta di Sarah Palin, il Grand Old Party ha ritrovato una vitalità in cui pochi credevano.
L’abilità degli strateghi del "Gop" é stata quella di far scomparire la coppia Bush-Cheney (quasi non fossero repubblicani) e di rivoltare a proprio piacimento lo slogan simbolo di Obama (il cambiamento) e la sua battaglia contro la "vecchia politica di Washington. Con il ticket McCain-Palin i repubblicani mettono la sordina ai temi sollevati dai democratici (economia, guerra in Iraq, sanità) e chiedono all’America una sorta di referendum su chi - per esperienza, per valori e stili di vita "All American" - può guidare il paese nel cambiamento necessario, anche sfidando l’establishment di Washington.
Stando a un altro sondaggio, quello di Rasmussen, i due sfidanti sono oggi alla pari (46 a 46), mentre una settimana fa, dopo la Convention democratica, il vantaggio di Obama era di sei punti. Mentre McCain ottiene consensi tra l’89% degli elettori repubblicani, Obama é appoggiato solo dall’81% di quelli democratici. Gli elettori indipendenti - quelli che tutti ritengono decisivi - sono divisi a metà, ma la vera differenza la fa un’altra colonna: McCain attrae il 15% degli elettori democratici, mentre Obama prende solo il 9% degli elettori repubblicani. Mentre il candidato repubblicano mantiene un vantaggio di sette punti tra gli elettori uomini, Obama ne ha sei tra le donne. Ma all’inizio della settimana scorsa ne aveva quattordici.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La chiusura dei seggi Stato per Stato
Chiuderanno alle 19:00 locali (l’1 in Italia) i primi seggi elettorali nelle elezioni presidenziali statunitensi, facendo scattare la corsa alle proiezioni. I network Usa, dopo i clamorosi errori commessi nelle ultime due elezioni, hanno promesso di essere più prudenti stavolta, preferendo la precisione alla rapidità. Resta da vedere se manterranno la promessa.
Questo il calendario delle chiusure dei seggi nei 50 Stati Usa, più il Distretto di Columbia. Tra parentesi compare il numero di «grandi elettori» del Collegio elettorale assegnati da ciascuno stato sul totale di 538.
Ore 19 locali (01:00 in Italia): Georgia (15), South Carolina (8), Vermont (3), Virginia (13), Indiana (11), Kentucky (8)
Ore 19:30 locali (01:30 in Italia): Ohio (20), West Virginia (5), North Carolina (15)
Ore 20:00 locali (02:00 in Italia): Alabama (9), Connecticut (7), Delaware (3), District of Columbia (3), Florida (27), Illinois (21), Maine (4), Maryland (10), Massachusetts (12), Mississippi (6), Missouri (11), New Hampshire (4), New Jersey (15), Oklahoma (7), Pennsylvania (21), Tennessee (11)
Ore 20:30 locali (02:30 in Italia): Arkansas (6)
Ore 21:00 locali (03:00 in Italia): Arizona (10), Colorado (9), Kansas (6), Louisiana (9), Michigan (17), Minnesota (10), Nebraska (5), New Mexico (5), New York (31), Rhode Island (4), South Dakota (3), Texas (34), Wisconsin (10), Wyoming (3)
Ore 22:00 locali (04:00 in Italia): Iowa (7), Montana (3), Nevada (5), Utah (5)
Ore 23:00 locali (05:00 in Italia): California (55), Hawaii (4), Idaho (4), Nord Dakota (3), Oregon (7), Washington (11)
Ore 24:00 locali (06:00 in Italia): Alaska (3)
* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.08, Modificato il: 04.11.08 alle ore 16.37
Obama, il rush finale
"Da domani si cambia"
Democratici, a Chicago comincia l’attesa. Pronta la grande festa in un parco
Il rivale: "Non abbandonerò la speranza, alzatevi e combattete"
WASHINGTON - "Da domani si cambia". Dopo una lunghissima marcia, per Barack Obama è il momento di passare il testimone agli elettori. "Ho fatto tutto quello che potevo - ha detto il candidato democratico - ora tocca alla gente. In questo momento che segnerà la storia, possiamo dare al Paese il cambiamento di cui ha bisogno. E da domani si cambia". Ultima raffica di bagni di folla in Stati che quattro anni fa scelsero George W. Bush, poi l’aereo verso Chicago, per andare a votare nella città che lo ha adottato negli anni Ottanta e prepararsi a una possibile festa martedì notte in un parco cittadino. Un’attesa, però, velata di tristezza: "Oggi è morta mia nonna", ha annunciato Obama, che pochi giorni fa si era recato a trovare l’anziana donna, da tempo malata.
Intanto il rivale non si dà per vinto. Al grido di "Mac is Back", John McCain lancia l’ultima sfida. Non molla la presa malgrado tutti i sondaggi lo diano perdente. E dà l’ultimo sprint alla campagna. "Ci separa un giorno da quando porteremo l’America su un’altra via - dice a Tampa, in Florida, prima tappa di un frenetico giro che lo vedrà impegnato in sette Stati - gli esperti forse non lo sanno, e i democratici neanche, ma Mac is back (Mac è tornato, ndr) e vinceremo questa elezione".
USA 2008: LO SPECIALE DI REPUBBLICA.IT
Obama, il rush finale. Nel tuor della vigilia, il senatore dell’Illinois compie un ultimo blitz nel vicino Indiana, dove ha messo in programma visite ad alcuni seggi a sorpresa per salutare gli elettori. E’ uno Stato simbolo del possibile sconvolgimento della mappa politica dell’America che potrebbe arrivare nell’Election Day: l’Indiana non sceglie un democratico dal 1964, quattro anni fa i repubblicani vinsero con il 20% di vantaggio, ma ora potrebbe tingersi di blu, il colore dei democratici. Obama si è concentrato in Stati - Florida, North Carolina e Virginia - che sembravano impossibili da vincere per i democratici fino a poco tempo fa, e nei quali invece il senatore di Chicago è arrivato all’appuntamento del voto in vantaggio nei sondaggi.
I comizi conclusivi. "Dopo decenni di scelte sbagliate a Washington, otto anni di decisioni politiche fallimentari da parte di George W. Bush e ventuno mesi di una campagna che ci è portato dalla costa rocciosa del Maine al sole della California, siamo a un giorno di distanza dal cambiamento in America", ha detto Obama a Jacksonville in Florida, ripetuto in North Carolina e gridato a tarda sera, nel comizio conclusivo a Manassas, in Virginia, in un luogo simbolo per le memorie, che custodisce, delle battaglie che vi furono combattute durante la Guerra Civile del XIX secolo. Un traguardo significativo, per un candidato che aveva lanciato la corsa nel febbraio 2007 a Springfield, in Illinois, dove era iniziata l’avventura politica di Abraham Lincoln, il presidente che guidò l’America nella sanguinosa guerra fratricida combattuta sullo schiavismo.
"In pace con me stesso". "Sono assolutamente in pace con me stesso - ha detto Obama in un’intervista radiofonica - sento di aver fatto tutto ciò che potevo fare. Adesso tocca alla gente decidere". Tra i messaggi finali affidati agli elettori, qualcuno è risultato anche inedito. In un’intervista a Mtv, ad esempio, ha messo in guardia gli appassionati del rap e della cultura "gangsta" che non dovranno pensare che avere un "fratello" come presidente sia necessariamente un permesso a lasciarsi andare. "C’è gente a cui non piace vedere le vostre mutande e io sono uno di quelli", ha detto Obama, rivolto ai giovani che indossano i pantaloni a cavallo basso.
Appuntamento a Chicago. Chiusa la maratona degli ultimi comizi, Obama ha dato appuntamento a Chicago alla moglie Michelle, che ha trascorso la vigilia esortando le truppe nel West, soprattutto nei combattutissimi Colorado e Nevada (nello Stato di Las Vegas, la tensione della campagna è stata fatale al responsabile dello staff di Obama, Terence Tolbert, ucciso da un infarto a 44 anni). Nella metropoli affacciata sul Lago Michigan è cominciata l’attesa, che potrebbe sfociare in una gigantesca festa serale in un parco cittadino. E’ stato allestito un grande palco che si apre a semicerchio e diventa una passerella allungata verso il pubblico. Dopo due elezioni per la Casa Bianca (2000 e 2004) in cui nessun candidato riuscì a presentarsi nella notte vincitore al proprio pubblico, stavolta i sondaggi sembrano indicare che l’America non dovrà aspettare troppo per conoscere il proprio presidente-eletto.
McCain: "Non abbandono la speranza". Ad accogliere John McCain a Tampa c’erano poco più di mille persone, raccolte nello stadio Raymond James che sembrava ancora più grande con i suoi 64 mila posti vuoti. Ma questo non è bastato a scoraggiare il senatore dell’Arizona. "Sono un americano e ho scelto di combattere, non abbandonerò la speranza, siate forti, abbiate coraggio e lottate. Alzatevi e combattete. Per l’America ne vale la pena". Dopo la Florida, tappe anche in Tennessee, Pennsylvania, Indiana, New Mexico, Nevada e, infine, in Arizona per un comizio di mezzanotte nella sua Prescott.
Gli ultimi sondaggi. E a poche ore dall’apertura dei seggi McCain, secondo la rete conservatrice Fox News, riesce a rimontare lo svantaggio sul rivale democratico in sei stati in bilico, roccaforti repubblicane, sopravanzandolo anche se di un solo punto in Florida e North Carolina. A livelloo nazionale, i dati raccolti da Rasmussen per la rete di Rupert Murdoch assegnano a Obama un vantaggio di 7 punti: 50%-a 43%:
* la Repubblica, 3 novembre 2008 - ripresa parziale
ELEZIONI USA 2008
Valanga voto anticipato
Obama in testa di 6 punti
Si prevede affluenza record. Un professore di Oxford pagato per dimostrare che un ex terrorista ha scritto l’autobiografia del senatore democratico
WASHINGTON - Ultime battute della campagna presidenziale americana, con i due sfidanti impegnati a conquistare i voti degli indecisi in un pugno di Stati considerati determinanti per l’esito del voto del 4 novembre. Obama rimane saldamente in vantaggio nei sondaggi, con un più 6 per cento secondo l’indagine quotidiana di Zogby per Reuters-C/SPAN (50 per cento contro il 44 per cento di John McCain), cifra confermata dalla media dei sondaggi operata da Pollster (50,2 contro 43,8). A 48 ore dal voto la tendenza delle intenzioni di voto in favore del candidato democratico si può dire sia rimasta invariata per tutta la durata della campagna elettorale, evento con pochi precedenti.
Il fattore più sorprendente di questi ultimi scorci di campagna è senz’altro la corsa al voto anticipato nei 30 Stati dove questa possibilità è offerta agli elettori. Sono ben 20 milioni gli americani che hanno scelto di recarsi alle urne o di inviare per posta la scheda prima del 4 novembre e in Stati decisivi come la Florida e l’Ohio le file ai seggi sono notevoli. Secondo gli analisti l’affluenza finale alle urne per queste presidenziali potrebbe segnare un record storico, arrivare a toccare le punte degli anni 60 o forse addirittura conquistando il primo posto nell’ultimo secolo.
La maggioranza di questi elettori, secondo i sondaggi, preferisce il senatore democratico. Ma ci sono ancora 20 milioni di elettori indecisi ed è per loro che i due candidati spendono in queste ore le loro ultime energie. Dalla scelta dei luoghi dei comizi, che ormai si susseguono senza sosta in diversi Stati nel giro delle 24 ore, si può avere un’indicazione del tono della campagna: difensivo da parte di McCain, che punta su Pennsylvania e New Hampshire (Stati vinti da Kerry nel 2004) per tentare di rovesciare a favore dei repubblicani il conteggio dei voti elettorali, temendo che alcuni dei grandi Stati conquistati da Bush 4 anni fa (come Florida e Ohio) saranno espugnati da Obama.
Ieri Obama è volato dal Nevada al Coloradio al Missouri, dopo essere apparso in Iowa e Indiana - tutti Stati che hanno votato repubblicano quattro anni fa. Oggi sarà in Ohio - lo Stato che decretò la vittoria di Bush nel 2004 - e in Virginia domani, dove i democratici non vincono da trent’anni.
Ingente l’impegno di spesa per questi viaggi e le relative campagne pubblicitarie. Dal 21 al 28 ottobre, la campagna di Obama ha speso circa 21,5 milioni di dollari in pubblicità elettorale, rispetto ai 7,5 milioni del senatore repubblicano. Oltre il 70% di questa spesa si è concentrata negli Stati repubblicani. Venerdì è stata lanciata un’altra serie di affissioni e spot in North Dakota, Georgia e persino in Arizona, a casa di McCain - mossa che è suonata più come una provocazione che una reale intenzione di strappar voti.
McCain, intanto, ha passato il venerdì in Ohio, ieri è stato in Virginia e andrà in Pennsylvania, l’unico grande Stato democratico che può costituire una speranza di rimonta per i repubblicani. Qui i sondaggi però danno ancora i democratici saldamente in testa.
E per tentare di rovesciare in extremis una campagna finora poco fortunata, i repubblicani cercano di giocare ancora una volta la carta di Obama "terrorista" (ieri sera al comizio della candidata vice di McCain, Sarah Palin, la folla scandiva "McCain, non Hussein", a rimarcare il secondo nome di origine islamica di Barack Obama, che pure non è di fede musulmana). Un professore di Oxford esperto di decrittazione informatica di testi ha ricevuto diecimila dollari di compenso per dimostrare con il suo software che l’autobiografia di Obama "Dreams of my father" è stata in realtà scritta da William Ayers, l’ex attivista radicale che negli anni 60 piazzò bombe negli Stati Uniti e che negli anni 90 Obama conobbe a Chicago. Dall’analisi del suo libro "Fugitive Days", il professor Peter Millican dovrebbe trovare analogie linguistiche tali da inchiodare Obama allo scomodo ghostwriter. Impresa rocambolesca, che la dice lunga sullo stato di ansia del campo di McCain.
Il timore della vigilia di voto comincia però a essere che la grande affluenza possa creare situazioni di caos e di possibili contestazioni (come accadde nel 2004 in Ohio, quando molti elettori non vennero fatti accedere alle urne). Come già accaduto in passato, l’Osce ha inviato negli Stati Uniti una missione di un centinaio di "osservatori" internazionali per vigilare sulla correttezza delle operazioni di voto. Ne fanno parte anche sette italiani, guidati dalla senatrice Pdl Allegrini, dispiegati in Florida, Missouri e New Hampshire. Oltre a questi, sarà controllata la correttezza del voto in North Carolina, Virginia, Maryland, Ohio, Colorado e New Mexico.
* la Repubblica, 2 novembre 2008
Il candidato democratico alla Casa Bianca dice di non aver paura
La rete Abc: "Non era stato informato del complotto neonazista"
Obama minimizza le minacce
"Gruppi di odio marginalizzati"
Telemarketer in sciopero per il senatore dell’Illinois: si rifiutano di leggere uno spot
che lo accusava. Su Usa Today l’appoggio dei "Repubblicani per Barack"
WASHINGTON - Il complotto neo-nazi non spaventa Barack Obama, che, dopo il muro di no comment issato ieri dal suo staff, rompe il silenzio. ’’Ho a disposizione le persone migliori del mondo, i nostri servizi segreti’’, ha detto il senatore rispondendo alla emittente KDKA della Pennsylvania alla domanda sul complotto ai suoi danni, svelato ieri insieme all’arresto di due neonazisti che pianificavano di fare una strage di ragazzi di colore in una scuola e di colpire Obama stesso. ’’Penso che uno dei meriti di questa campagna sia aver marginalizzato questi gruppi che inneggiano all’odio. Loro non sono l’America, non rappresentano il nostro futuro’’, ha aggiunto il candidato democratico alla Casa Bianca.
Secondo la rete americana Abc, Obama non era stato informato del complotto, segno che il piano non aveva raggiunto il punto da essere considerato una minaccia seria alla vita del senatore, che è sotto la protezione del Secret Service ormai da mesi per il timore di possibili attentati.
A sette giorni dal voto il candidato democratico incassa l’appoggio di un gruppo atipico, i cosiddetti "Repubblicani per Barack Obama", che hanno comprato una pagina di pubblicità sul quotidiano Usa Today, il più diffuso negli Stati Uniti con una tiratura di oltre due milioni di copie. "Votiamo per lui", spiegano i repubblicani perché "in tempi incerti come questi c’è bisogno di una mano sicura" ed è per queste ragioni che "milioni di repubblicani in tutto il paese respingono la politica di divisione del passato". "Anche se siamo fieri di essere repubblicani, siamo prima di tutto americani", concludono.
Il sostegno al senatore democratico arriva anche sotto forma di sciopero: in Indiana una quarantina di operatori di una azienda di telemarketing hanno incrociato le braccia quando è stato chiesto loro di leggere uno spot della campagna repubblicana in cui si accusava Barack Obama di essere "debole verso i criminali e di aver votato contro leggi che proteggono i bambini". Nina Williams, madre di una dei telemarketer, ha detto che la figlia si è lamentata del copione che avrebbe dovuto leggere: con lei una quarantina di colleghi, tutti pronti a rinunciare a una giornata di paga pur di non partecipare all’iniziativa giudicata "disgustosa".
Nell’ultima corsa finale prima del voto un unico nemico accomuna i due rivali: la pioggia. Il repubblicano John McCain ha dovuto cancellare un comizio all’aperto in Pennsylvania - uno dei campi di battaglia più duri di queste presidenziali - a causa di un gelido acquazzone che si è abbattuto sulla folla. Anche il senatore dell’Illinois si trova in Pennsylvania, lo stato che per quattro volte consecutive ha scelto il candidato democratico ma che lo staff di McCain considera la chiave per la vittoria. A Chester, Obama ha risposto al coraggio di migliaia sostenitori che hanno sfidato la pioggia e un vento gelido scegliendo di tenere ugualmente il suo discorso. "Se il giorno delle elezioni vedremo tanta devozione" ha detto, "nulla potrà fermarci sulla strada per portare il cambiamento in America".
La fine del modello americano
di Francis Fukuyama (La Stampa, 8 ottobre 2008)
Le dimensioni del crac di Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli Stati Uniti: il danno al «brand» America.
Le idee sono una delle nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica. La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye.
E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani che denunciavano il modello capitalistico americano come «capitalismo da cowboy».
Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo. Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il settore finanziario.
Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»; improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire l’egemonia degli Stati Uniti.
La scelta che dobbiamo fare ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli - come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti. Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati, quali completamente da scartare.
Molti commentatori hanno sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le biotecnologie.
Sul piano internazionale la rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80, quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e l’Argentina. Simili politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo cieco.
Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci, era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori: se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel disavanzo.
La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.
Il secondo articolo di fede reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street. E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici, certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che sono all’origine della crisi attuale.
Lo scandalo della Enron, il deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto alla promozione della democrazia non è mai stata messa in discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per «intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente - compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita - non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».
La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.
Ansa» 2008-10-04 09:48
CRISI DEI MUTUI: LA CAMERA USA DICE SI’ AL PIANO PAULSON
WASHINGTON - Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha firmato il piano per salvare l’economia americana. "Abbiamo mostrato al mondo che gli Stati Uniti stabilizzeranno i nostri mercati finanziari e manterranno un ruolo di leader nell’economia globale". Lo ha detto il presidente Usa, George W. Bush, in una dichiarazione alla Casa Bianca dopo l’approvazione da parte del Congresso del piano per salvare i mercati finanziari dalla crisi in corso.
La Camera dei rappresentanti Usa ha dato il via libera al superpiano da 700 miliardi di dollari (più sgravi per 150 miliardi), per arginare la crisi dei mutui. La presidente di turno della Camera ha annunciato che il piano è stato approvato con 263 voti a favore e 171 contrari. La maggioranza necessaria era di 218 voti. Una prima versione del piano era stata bocciata a sorpresa lunedì dalla stessa Camera. Mercoledì sera, ad ampia maggioranza, il Senato aveva dato il via libera ad una nuova versione del piano, al quale erano stati aggiunti sgravi fiscali per un valore di 150 miliardi di dollari, per conquistare l’appoggio dei deputati più riluttanti.
Il nuovo piano non suscita l’entusiasmo degli operatori, scettici sul fatto che la nuova versione sia sufficiente a far ripartire l’economia americana, che mostra segni evidenti di rallentamento anche a causa della sempre più scarsa disponibilità delle banche a prestare denaro. Con i rubinetti del credito chiusi, un crescente numero di famiglie fatica ad ottenere finanziamenti, così come le piccole imprese, rallentando di conseguenza i consumi, motore dell’economia statunitense rappresentando i due terzi del Pil. La crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale, spingendo gli Usa sull’orlo della recessione.
E’ in questo contesto che gli operatori danno ormai per scontato un taglio dei tassi di interesse da parte della Fed già in ottobre. I futures sui tassi indicano che le probabilità di un ribasso di mezzo punto del costo del denaro nella riunione del Fomc di ottobre sono salite al 92%. Il restante 8% accredita un taglio di 75 punti base. Ad avvalorare la tesi di un calo del costo del denaro sono giunti oggi i dati sull’occupazione: a settembre i posti di lavoro persi sono stati 159.000. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%, ai massimi degli ultimi cinque anni.
CRISI MUTUI: NY NON FESTEGGIA OK PIANO, PAURA RECESSIONE
PROGETTO NON ENTUSIASMA; PAULSON, AGIRO’ RAPIDAMENTE; OK DA FED
NEW YORK - Wall Street incassa il via libera del Congresso al piano salva-finanza rivisitato e le rassicurazioni del Tesoro e della Fed. Ma non lo fa festeggiando: i guadagni accumulati nella prima meta’ di seduta vengono rapidamente limati, con indici altamente volatili che chiudono in negativo, con il Dow Jones che cede l’1,50%, il Nasdaq l’1,48% e lo S&P 500 l’1,35%. Ferma durante le operazioni di voto alla Camera, con gli occhi di tutti gli operatori puntati sugli schermi, la borsa americana non sembra entusiasta del progetto rivisto che potrebbe rivelarsi non sufficiente a risolvere i problemi, soprattutto per l’economia reale che appare sempre piu’ sull’orlo della recessione. Ed e’ proprio quest’ultima a preoccupare maggiormente e a pesare sugli indici. Plaudano all’approvazione il presidente della Fed, Ben Bernanke, e il segretario al Tesoro, Henry Paulson, che, dichiarandosi ’’grato’’ del via libera, assicura un’azione rapida. ’’Si e’ dimostrato l’impegno del Governo a sostegno dell’economia e del suo rafforzamento. Il progetto rappresenta - afferma invece Bernanke - un passo critico verso la stabilizzazione dei nostri mercati finanziari. La Fed continuera’ a lavorare a stretto contatto con il Tesoro nell’intraprendere le nuove iniziative: continueremo a utilizzare tutti i poteri a nostra disposizione per mitigare le distruzioni sul mercato e promuovere un’economia solida e vibrante’’. Ed e’ proprio sulle future mosse della Fed che il mercato scommette e trova conforto: gli investitori puntano a un taglio a breve del costo del denaro in seguito al susseguirsi di indicazioni congiunturali negative. L’ultima e’ giunta oggi: a settembre sono stati persi 159.000 posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione e’ salito al 6,1%, ai massimi degli ultimi cinque anni. I futures sui tassi indicano che le probabilita’ di un ribasso di mezzo punto del costo del denaro nella riunione del Fomc di ottobre sono salite al 92%. Il restante 8% accredita un taglio di 75 punti base. Il piano, gia’ firmato anche dal presidente George W. Bush, non suscita l’entusiasmo degli operatori, scettici sul fatto che la nuova versione sia sufficiente a far ripartire l’economia americana, che mostra segni evidenti di rallentamento anche a causa della sempre piu’ scarsa disponibilita’ delle banche a prestare denaro. Con i rubinetti del credito chiusi, un crescente numero di famiglie fatica ad ottenere finanziamenti, cosi’ come le piccole imprese, rallentando di conseguenza i consumi, motore dell’economia statunitense rappresentando i due terzi del Pil. La crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale, spingendo gli Usa sull’orlo della recessione.
USA: PERSI 159.000 POSTI, PEGGIO DEL PREVISTO
Gli Stati Uniti a settembre hanno perso 159.000 posti di lavoro, contro previsioni per 105.000 occupati in meno. Il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 6,1% come nelle previsioni. L’emorragia di posti di lavoro - scrive la Bloomberg - è la peggiore degli ultimi cinque anni, e si accompagna ad un incremento dei salari medi (+0,3% su mese) inferiore al previsto che fa presagire un impatto negativo sui consumi. Ad agosto gli occupati erano diminuiti di 73.000 unità, sempre secondo il dipartimento del Lavoro. Dopo il dato di oggi gli Usa, dall’inizio dell’anno, hanno perso 760.000 occupati. Nel 2007 erano stati creati 1,1 milioni di posti di lavoro in più. Il calo degli occupati ha toccato le fabbriche, che hanno perso 51.000 posti dopo i 56.000 di agosto, e il settore delle costruzioni (-35.000 posti dopo i -13.000 di agosto), ma anche la finanza (-17.000) e i servizi (incluse banche, assicurazioni, ristoranti e vendite al dettaglio), con -82.000 posti.
L’11 settembre dell’economia
di VITTORIO ZUCCONI *
C’È un buco nero nel cuore del disastro finanziario globale, una voragine sulla quale tutti ci affacciamo, scavata dal fallimento di una presidenza che non riesce neppure più a compattare il proprio partito per passare una legge disperata, diretta a una situazione disperata.
E assiste impotente all’ammutinamento dei suoi parlamentari. Quando due terzi dei repubblicani alla Camera dei deputati (e un terzo dei democratici) hanno votato contro il "piano Bush" da 700 miliardi, accusandolo di essere "socialistico" (sic), un’accusa che mai avremmo immaginato potesse essere lanciata contro di lui, un caos aggravato dalla inutile sceneggiata del senatore McCain paracadutato su Washington a complicare le cose per pura propaganda elettorale, ha prodotto un panico sbigottito di fronte alla leadership politica americana allo sbando e ha afferrato anche chi lo aveva voluto e provocato. E ora promette di ripensarci e di gettare il salvagente nei prossimi giorni, dopo che le Borse avranno consumato altre fortune e banche europee come americane si saranno arrese.
Ancora più di una Pearl Harbor, come disse il superfinanziere Warren Buffet, questi giorni sembrano un secondo 11 settembre, e non necessariamente incruento, pensando alle migliaia di piccole tragedie umane che provocheranno. Fanno rivivere ore di una catastrofe alla quale nessuno è preparato, che molti avevano previsto senza fare niente per prevenirla e per la quale non si vogliono adottare soluzione e risposte serie e dolorose, che vadano oltre lo scaricabarile partigiano.
Ma se, nel suo orrore, la strage delle Torri Gemelle fece scattare il senso della coesione e dell’unità nazionale, questo Ground Zero della finanza, della liquidità, della Borsa, ha scatenato la reazione opposta e micidiale dell’anarchia totale. Ha mosso il panico della ribellione e del "si salvi chi può" di parlamentari di provincia preoccupati non di salvare i risparmi, le pensioni, il lavoro, il credito di aziende e di invidui, ma di salvarsi il seggio dal castigo elettorale promesso da cittadini furiosi e sbandati al pensiero di dover salvare i "pescecani" di Wall Street con i soldi delle tasse.
Il panico che ha assalito la Borsa alla conta finale della bocciatura della legge e che si estenderà nel gorgo vizioso degli altri mercati nasce, come ormai è impossibile negare, non dal crollo di questa o quella banca d’affari, ma dal senso di vertigine che assale guardando il vuoto che sta al centro di una potenza come l’America. Se due terzi del partito ancora teoricamente di Bush, il repubblicano, respinge con pretesti puerili ("il discorso della presidente della Camera Pelosi ha irritato i nostri deputati" tentava di spiegare uno dei leader dell’ammutinameto, il repubblicano Kantor della Virigina) il grido del proprio presidente che alle sette e trenta del mattino, un’ora senza precedenti in guerra o in pace, era andato in diretta per un ultimo appello, soltanto il vento della follia politicante e dell’opportunismo più sfacciato possono spiegare che cosa sia accaduto. Ed è incredibile che la "speaker" della Camera e i suoi capi regime non abbiano saputo contare le teste, prima di chiedere il voto.
Il piano Paulson, ministro del Tesoro, sponsorizzato da un Presidente impopolare e detestato da un partito che non lo volle neppure al proprio Congresso come nessuno fu dagli ultimi giorni di Nixon nel Watergate, non sarebbe stato un toccasana magico, ma un salvagente gettato ai naufraghi delle banche che annaspano e che stanno trascinando a fondo innocenti in tutto il mondo. Averlo respinto soltanto perché i sondaggi dicono che gli elettori dei repubblicani duri e puri della destra antistatalista non lo volevano, e per il reciproco, classico giochetto parlamentare di far votare agli altri quello che tu non vuoi, per avere gli effetti positivi della legge senza pagarne il prezzo, è stato un segnale di spaventosa irresponsabilità politica.
"Per salvare il proprio seggio hanno preferito punire la nazione" ha detto il presidente della commissione finanze della Camera, Barney Frank rispondendo alla spiegazione infantile dei repubblicani che sostenevano di avere votato contro perché irritati dal discorso fazioso della presidente della Camera, come se salvare il sistema finanziario fosse questione di buone maniere. Purtroppo, manca ancora più di un mese, 35 giorni, alla liberazione di quel voto del 4 novembre che dovrebbe bonificare l’aria dai fumi tossici di una campagna elettorale micidiale e in 35 giorni la voragine nel Ground Zero di questa catastrofe potrebbe ancora allargarsi.
Ma la dimostrazione di mediocrità provinciale, di anarchia, di ammutinamento egoistico offerta ieri dalla Camera degli Stati Uniti, rimarrà. E solleva il dubbio che la democrazia americana, e la responsabilità di guidare il mondo, siano una cosa troppo seria per essere lasciata a questa America moralmente e politicamente distrutta da otto anni di menzogne bushiste su tutto, dalle guerre alle torture all’economia "sana". L’America e il resto del mondo, sono costretti a continuare a pagare il conto di una "failed presidency", di una presidenza in bancarotta.
* la Repubblica, 30 settembre 2008.
La Stampa, 29/9/2008 (20:2)
Crisi mercati: Camera Usa boccia piano salvataggio, Wall Street affonda
La Camera dei Rappresentanti americana ha bocciato il pacchetto di maxisalvataggio al sistema finanziario americano. È mancato il quorum per un pugno di voti. I voti contrari sono stati 228, mentre quelli a favore sono stati 205. Per far passare la legge erano necessari 218 voti favorevoli.
La bocciatura della Camera al piano Usa fa subito sentire i suoi effetti sui mercati: a Wall Street, il Dow Jones perde il 3,70%, il Nasdaq il 5,65%.
Il fenomeno dei salvataggi bancari approda anche in Europa e sui mercati finanziari del Vecchio Continente si scatena una pioggia di vendite sul timore di un contagio della crisi Usa. Tanto che al termine della seduta i mercati finanziari di Eurolandia hanno mandato in fumo quasi 320 miliardi di capitalizzazione (Dj Stoxx 600 -5,1%), mentre Wall Street sprofonda (Dow Jones -6%) sui dubbi degli investitori legati al piano di salvataggio del sistema finanziario da 700 miliardi di dollari, su cui il Congresso ha appena dato un parere negativo.
La peggiore piazza finanziaria è stata così Amsterdam (-8,75%), epicentro della bufera scatenata nella notte dal colosso del Benelux, Fortis (-23,5%), che in un lampo ha avviato un piano di nazionalizzazione parziale. E come un effetto domino sono precipitate anche le altre Borse in scia agli annunci relativi agli altri salvataggi di istituti bancari: Londra ha perso il 5,3% in seguito alla nazionalizzazione dell’inglese Bradford & Bingley (sospesa dalle negoziazioni), e Francoforte il 4,2% per effetto del salvataggio di Hypo Real Estate, precipitata del 74%. A picco anche la più piccola Borsa islandese (-4,8%) in seguito all’accordo per aiutare Glitnir Bank. Non sono state immuni dall’ondata ribassista neanche gli indici di Wall Street (Dow Jones -5,4%, ancora in corso) e Mosca (-5,5%), mentre bisognerà attendere per vedere come reagiranno i mercati asiatici, visto che nella seduta odierna Tokyo ha arginato le perdite intorno al punto percentuale (-1,26%).
«La crisi del sistema bancario non è finita», ha detto preoccupato un operatore della City, puntando il dito contro Fortis: «Oggi è toccato a questo colosso, chissà domani. Non possiamo escludere che nei prossimi giorni accadrà qualcosa ad altri gruppi bancari e magari di nuovo in Europa».
Il colpo più duro, come ovvio che sia, è stato incassato proprio dai titoli del settore bancario, che nella seduta odierna hanno registrato una perdita generalizzata di quasi otto punti percentuali (sottoindice Dj Stoxx bank -7,75%). A capitolare sono state banche come Dexia e Deutsche Bank, che hanno perso oltre 20 punti percentuali. Meno pesante invece il Banco Santander (-3,7%) che pagherà 612 milioni di sterline (1,1 miliardi di dollari Usa) per rilevare la rete di 197 agenzie di B&B e i circa 20 miliardi di sterline di depositi di circa 2,7 milioni di clienti. Decisamente più pesante è stata invece la tedesca Commerzbank (-22%), nonostante abbia rassicurato il mercato annunciando che il suoi fondamentali sono sicuri.
Guardando poi gli altri settori, non è andata meglio ai titoli del comparto delle materie prime, penalizzate dall’improvvisa frenata del petrolio sotto la soglia psicologica dei 100 dollari al barile. Il gigante Bhp Billiton ha perso nella City il 9,9% e la concorrente Rio Tinto il 9,8%. Non hanno approfittato della debolezza del greggio i titoli automobilistici con Renault che ha perso il 6,1% e Fiat il 4,9%.
Ribassi in Asia, Tokyo -1,26%. Europa: apertura in calo e accelerazione in negativo
Piazza Affari in picchiata, raffica di sospensioni, da Unicredit a Saipem e Tenaris
Borse a precipizio
Negli Usa appello di Bush
Ma il piano salva-economia non convince: Wall Street apre in ribasso
MILANO - Borse a precipizio nonostante l’approvazione del piano Usa per fronteggiare la crisi finanziaria. Oggi il presidente George W.Bush ha lanciato l’ennesimo appello perché il piano venga approvato in tempi stretti dal Congresso, ma i mercati non sono evidentemente convinti che le soluzioni su cui si è raggiunto il compromesso nella trattativa tra il Congresso americano e il governo Bush siano adeguate a risolvere i gravissimi problemi innescati dalla vicenda dei mutui subprime. E infatti Wall Street ha aperto in terreno negativo, facendo precipitare ancora più in basso le Borse europee che già andavano male. Anche in Asia ha prevalso l’Orso, con Tokyo che ha perso un altro 1,26%.
In apertura il Dow Jones segnava -0,58% a 11.078,38 punti; il Nasdaq composite -1,40% a 2.152,69 punti e lo S&P 500 -0,59% a 1.206,11 punti.
A pochi minuti dall’avvio delle contrattazioni a Wall Street le Borse europee, già depresse dalla raffica lampo di nazionalizzazioni che ha interessato gruppi come Fortis, Bradford & Bingley, Hypo Real Estate e Glitnir Bank, andavano ancora di più in ribasso.
L’indice che sintetizza l’andamento dei mercati del Vecchio Continente, il Dj Stoxx 600, registrava una flessione del 3,1 per cento, mentre il settore bancario europeo perdeva il 6 per cento. Londra si è comunque portata sopra ai minimi di seduta (-2,8%), così come Parigi (-2,9%) e Francoforte (-2,6%). Particolarmente colpite le quotazioni delle banche. Tra le singole banche il peggior tonfo lo sta segnando proprio la neo-nazionalizzata Fortis (-11,9%).
Ma va malissimo anche a Piazza Affari: intorno alle 16 il Mibtel perdeva il 4,05% a 19.764 punti e lo S&P/Mib del 4,1% a 26.039 punti. Il listino è stato inoltre colpito da una raffica di sospensioni al ribasso, a partire da UniCredit (-12%), già congelata in mattinata. Sospese anche Saipem (-7%), Tenaris (-9,1%) e Impregilo (-8,4%).
* la Repubblica, 29 settembre 2008.
Le trappole del pensiero positivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 28/9/2008)
La vera questione dell’infermità americana, che in questi giorni s’accampa davanti ai nostri occhi, è stata affrontata solo in parte dai due candidati alla presidenza che venerdì si sono scontrati in un primo duello televisivo a Oxford nel Mississippi. È un’infermità che ormai va oltre incompetenze e misfatti di Bush. Che mette in forse il potere globale dell’America, militare e non militare. Che svela i mali della sua economia, scossa alle radici dallo squasso finanziario. Che colpisce il dollaro, moneta ancor oggi potente nel mondo ma senza responsabilità. Sono inferme anche le sue guerre, che stentano a finire e non erano tutte necessarie. Il risultato è una potenza che ha sempre meno potere, ed è come cieca a questa perdita di prestigio, di influenza, e di faccia.
Si è parlato molto di bolle, a proposito delle catastrofi a Wall Street. Le bolle si creano quando l’azione di un individuo o una banca o una nazione poggia su illusioni invece che sulla realtà, e tutto oggi negli Usa richiama l’immagine della bolla in via d’esplosione: perfino la campagna di Barack Obama e John McCain. Nel prossimi giorni sapremo l’effetto del loro dibattito sugli elettori.
Ma sin d’ora appare chiaro che ambedue stanno fischiettando nel buio, senza dire che fa veramente buio: hanno parole appropriate e presidenziali sulla crisi finanziaria, ma nulla li induce a rivedere programmi che per forza dovranno cambiare. La bolla del sogno ti dà il senso di avere un potere che non hai, ti risparmia il dire vero. La bolla ti fa pensare-positivo quando non c’è niente di positivo in giro. Obama è più severo sugli anni di Bush, ma anch’egli è contagiato dall’illusionismo perché non dice quanto i contribuenti pagheranno il salvataggio di Wall Street. McCain, sprezzante, l’ha ripetutamente accusato d’essere un neofita che «non capisce nulla» - ripetersi è efficace - ma il massimo illusionista è lui. Ambedue danno l’impressione di non misurare il maelstrom in cui l’America si trova.
La più grande bolla nel dibattito è la guerra in Iraq, iniziata da Bush dopo l’11 settembre. McCain l’ha abilmente usata, mettendola al centro e isolandola da quel che accade attorno a Baghdad - ogni bolla per natura s’imbozzola - e per questa via è sembrato confermare una verità antica: in economia i repubblicani non saranno più i primi, ma sulla sicurezza sono ancora considerati superiori, specie in tempi di crisi e panico. McCain ha tentato di mantener viva questa credenza negando che la guerra sia un disastro, e affermando anzi che l’America dopo tanto errare sta addirittura vincendola, grazie all’aumento di truppe e al cambio di strategia decisi all’inizio del 2007. Il generale Petraeus è incensato come deus ex machina che ha permesso la clamorosa svolta, e Obama viene accusato non solo di disfattismo ma di incompetenza e scarsa conoscenza.
È il momento in cui il candidato repubblicano è apparso forte, e quello democratico più che ragionevole ma come intimorito: più volte Obama ha sostenuto che il rivale aveva «assolutamente ragione», non sull’origine della guerra ma sui suoi presenti progressi. Chi ha ascoltato McCain avrà forse pensato: «Ecco un candidato che pensa positivo», che non rivanga il passato e ha un tono presidenziale che intimidisce. La realtà non sta così, la guerra in Iraq è un successo solo se si resta nel bozzolo dell’immaginazione. Ma come scrive Samantha Power sul New York Review of Books citando Clinton: «Gli americani preferiscono chi appare forte pur sbagliando, a chi appare debole pur avendo ragione». Il pensare-positivo, come quella che vien chiamata cultura del fare, spesso seduce l’elettore anche se col reale ha un rapporto ben diafano. Seduce con la potenza della parola, del carattere, di un’esaltazione del fare a scapito del pensare il presente come il passato. In Italia non è diverso.
Obama ha replicato con intelligenza al trionfalismo di McCain sull’Iraq, ma era sulla difensiva, e non ha trovato la formula che descrivesse il declino mondiale dell’America. Ha giustamente ricordato gli enormi costi di una guerra che non solo è stata inutile e mortifera, ma ha ostacolato la lotta al terrorismo, lasciando sguarnito l’Afghanistan. Ha giustamente denunciato l’assenza di una diplomazia che dissuada l’avversario tramite negoziati anche duri, e non solo tramite rotture belliche. Ha giustamente rammentato che la guerra irachena è cominciata con faciloneria euforica nel 2003, e non nel 2007 con Petraeus che ripara o limita i danni. Ma si è guardato dal denunciare le derive dell’eccezionalismo (l’America ha un destino manifesto quasi messianico, è faro di luce nel mondo) e dall’individuare nell’eccezionalismo i germi di un nazionalismo imperiale oggi in frantumi. L’aprioristico pensare-positivo presuppone un’opinione positiva su se stessi di cui i politici americani si liberano con difficoltà.
Eppure proprio questo aprioristico pensare-positivo alimenta le tante bolle di illusioni che stanno esplodendo: lo spiega bene Barbara Ehrenreich sul New York Times del 24 settembre. Il pensare positivo sul mercato che spontaneamente si riequilibra. Il pensare positivo sulla diminuzione della violenza in Iraq, che occulta disastri: strategicamente la guerra è perdente, perché ha creato insicurezza mondiale, ha permesso l’ascesa iraniana, ha creato un pantano in Afghanistan, ha consumato l’influenza Usa, ha dato a Putin il senso di poter agire impunemente perché l’America oggi ha solo la forza del grido. Ed ha aumentato gli attentati nel mondo: del 600 per cento se si includono Afghanistan e Iraq, del 35 senza Afghanistan e Iraq.
Il pensare-positivo è un vantaggio, in politica. Ma spesso non s’accompagna a un pensiero su se stessi egualmente tenace. Abbiamo così in America una strana miscela: ottimista nell’immediato, selettivamente pessimista sul passato, ma non realista. L’ottimismo cieco si nutre di immaginazione: basta volere fortemente una cosa, e la cosa anche se finta è. Il pessimismo strumentalizza la storia, manipolandone le lezioni. La grande disputa contro chi negozia col nemico (l’appeasement degli Anni 30) è basata su una visione singolare del ’900: un secolo tutt’altro che uniforme, che ha coronato di successo la guerra totale contro Hitler ma anche il negoziato con l’Urss e il contenimento. È il containment che infine ha vinto, non il rollback di repubblicani come John Foster Dulles che volevano «scacciare indietro» Mosca.
Oggi siamo di nuovo a quel punto, come se il ’900 avesse insegnato poco. Tutto il pensiero neo-conservatore si fonda su una sorta di espiazione del containment, di riscoperta del rollback di Dulles. Con l’avversario si negozierà, ma non prima di aver ottenuto tutto da esso: cosa ragionevolmente contestata da Obama. McCain vive nella bolla ma è un leader e anche un anticonformista (ad esempio su tortura e Guantanamo). Obama ha buoni argomenti, ma non osa infilare spilli troppo aguzzi nella bolla e si porta dietro le debolezze dei democratici, spesso tentati di cambiar tema quando si parla di sicurezza. Entrambi sono alle prese con l’infermità americana e i suoi mostri: la paura, il bisogno esistenziale del nemico. Eppure la storia americana non è fatta di mostri: «L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura», diceva Roosevelt. Non bisogna aver «paure disordinate», raccomandava Carter a proposito dell’Urss. E di recente Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato di Bush: «Dopo l’11 settembre, la sola cosa che abbiamo esportato nel mondo è stata la nostra paura».
Difficile dire se gli americani soccomberanno o resisteranno alla politica della paura. Se riscopriranno il principio di realtà, che è poi quello che fa dire a Petraeus: la mia azione è al di là del pessimismo e ottimismo. Se cominceranno a vedere se stessi, e solo dopo aver guardato se stessi il mondo.
La Pearl Harbor della politica
di VITTORIO ZUCCONI *
IL CAOS politico americano, quello che si trascina fra il fallimento del bushismo e una stagione elettorale troppo lunga, e che ha permesso la tragedia finanziaria, ci ha proposto l’inedito "numero" del candidato che scappa.
Un candidato che si chiama fuori dalla partita per due giorni e non vuole più dibattere l’avversario. Come se la democrazia fosse un incontro di basket, John McCain ha chiesto un timeout, per salvare la propria squadra da una sconfitta che il tabellone dei sondaggi cominciava a lampeggiare.
Il dibattito probabilmente si farà, e questa sera assisteremo finalmente al confronto, perché Barack Obama ha risposto che lui si presenterà sul palco in quanto "mai come adesso la nazione deve vedere e conoscere chi vuole guidarla in questi tempi difficili". Ma il fatto stesso che un candidato annunci di avere "sospeso la campagna elettorale", come fosse un puzzle da riporre per qualche ora, a 40 giorni dal voto, è uno di quei colpi di testa (e di nervi) che i colleghi senatori conoscono bene e che molti elettori temono.
John McCain, famosa testa calda dal pessimo carattere che gli ha meritato in Parlamento il soprannome di "McNasty", Mac la peste, ha semplicemente cercato di buttare all’aria il tavolo di gioco, come fanno i bambini molto immaturi o i vecchi molto stizzosi quando perdono.
Nel mezzo di quella che il finanziere più autorevole degli Stati Uniti, quel Warren Buffett che viene guardato come l’ultimo oracolo, ha definito una "nuova Pearl Harbor", la flotta di coloro che dovrebbero proteggerci naviga alla deriva, sballottata dal vento dei sondaggi e delle manovre elettorali, senza ordini né piani chiari. Se il padre di John McCain, il magnifico ammiraglio che consumò tutto sé stesso nella risposta all’aggressione giapponese nel Pacifico e pagò la fatica disumana morendo d’infarto il giorno dopo la vittoria, potesse vedere il figlio annaspare in queste ore, lo spedirebbe in cambusa, lontano dal ponte di comando.
La mossa di McCain, quello che dovrebbe essere l’anziano sicuro, il buon nonno prudente e responsabile di fronte al troppo giovane e irresponsabile avversario Obama, serve a sottolineare la radice profonda della crisi, che non è finanziaria né economica, ma politica. Da quasi otto anni, dal gennaio del 2001, l’America è senza un governo competente e attendibile, che ha creduto di poter surrogare con la superbia la propria cadente autorità morale. Ha perduto ogni credibilità e ogni autorità, presa nella tela di menzogne, propaganda, ideologia, messianesimo, politicizzazione elettoralistica e incompetenza che, una volta tessuta, non può più essere dipanata. Oggi la nazione è governata dal presidente della Fed Bernanke e dall’ex Goldman Sachs, il ministro del Tesoro Paulson. Bush è soltanto un passeggero, al quale gli adulti alla guida chiedono di non toccare niente.
Il piano di salvataggio con danaro pubblico che dovrebbe essere varato oggi, e che è stato imposto ai due candidati, al Congresso e a una nazione che lo osteggia apertamente con un ricatto in stile Alitalia, o così o tutti giù dalla finestra, metterà un tampone sull’emorragia. Ma né i colpi di testa di McCain, né il fiacco discorso del presidente alla nazione, mercoledì sera, possono restituire prestigio morale a una politica che lo ha perduto tra le rovine di Bagdad, nel pasticcio afgano, nella devastazione di New Orleans, nello scandalo costituzionale di Guantanamo, nelle torture in appalto e nella totale indifferenza a quella cultura del profitto facile e sregolato che soltanto ora finge di scoprire con orrore e con ripensamenti statalisti e assistenzialisti.
La catastrofe in atto è la sentenza finale di un processo a Bush che dura da sette anni e otto mesi, e che vede come complice un Parlamento che il suo partito, il repubblicano, aveva controllato per sei anni e i democratici non hanno saputo raddrizzare. È stata un’esperienza surreale ascoltare il presidente accusare tutti di avere prodotto questa "Pearl Harbor", gli speculatori, i brokers, i banchieri, gli immobiliaristi, i consumatori, gli acquirenti di case che hanno assunto mutui eccessivi, tutti colpevoli meno che lui e la sua amministrazione, quella che fino a due settimane or sono ci garantiva che "l’economia americana resta robusta e solida".
Il futuro presidente erediterà due guerre in corso e lontane da una conclusione decisiva, in Iraq e in Afghanistan, un conto mostruoso di debito pubblico da saldare, un bilancio federale devastato, un mercato immobiliare alla canna del gas, una Pearl Harbor finanziaria, un Iran avviato sulla strada del nucleare, una Russia burbanzosa e neo imperiale, ora addirittura una Corea de Nord che torna a scricchiolare. Si capisce perché la parola chiave di questa stagione elettorale adottata persino dai repubblicani e da McCain, che temono Bush come un appestato e lo hanno tenuto lontano dal loro congresso, sia "cambiare". Persino una fanciulla del West scesa a valle col disgelo del bushismo, o un settuagenario, sembrano un progresso.
* la Repubblica, 26 settembre 2008
La Stampa, 24/9/2008
Usa, crisi dei mercati: McCain sospende campagna elettorale
Il candidato repubblicano ha chiesto a Obama di fare lo stesso, ma il rivale per ora non sembra intenzionato a seguirlo
NEW YORK Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain ha annunciato la sospensione della sua campagna elettorale alla luce della gravissima situazione finanziaria e all’imminente intervento scaccia crisi al Congresso. McCain ha chiesto all’avversario democratico Barack Obama di fare lo stesso, interrompendo la campagna elettorale per lavorare alla soluzione della crisi.
Il candidato democratico alla Casa Bianca Barack Obama non vedrebbe alcuna ragione per rinviare il dibattito in prime time con l’avversario repubblicano John McCain, in programma venerdì. Lo ha detto un esponente della squadra di Obama all’emittente americana Cnn suggerendo inoltre che il senatore di Chicago non avrebbe intenzione di seguire l’esempio di McCain interrompendo la campagna elettorale per tornare a Washington ad occuparti della crisi di Wall Street.
Entrambi senatori, McCain e Obama, hanno pieno titolo per partecipare al dibattito in corso al Congresso su un piano miliardario di soccorso alle società finanziarie in difficoltà. Obama non ha tuttavia ancora commentato in via ufficiale l’annuncio di McCain sulla sospensione della campagna elettorale. La fonte citata da Gloria Borger di Cnn era anonima.
L’ANALISI.
La Casa Bianca evita un contagio su scala globale
ma non contrasta il dilagare di comportamenti irregolari
Fannie e Freddie, l’America
scarica il conto sui contribuenti
Oltre cinquemila miliardi di dollari a rischio
di FEDERICO RAMPINI *
È SCATTATO il più grande salvataggio pubblico nella storia americana: la nazionalizzazione dei colossi bancari Fannie Mae e Freddie Mac, due istituti che controllano metà di tutti i mutui immobiliari negli Stati Uniti. I due giganti finanziari erano ormai sull’orlo della bancarotta. Un loro fallimento, secondo il ministro del Tesoro Henry Paulson, avrebbe "precipitato nell’instabilità l’intera economia mondiale".
Lo stesso Paulson ha ammonito che "non ci sarà ripresa economica finché non si esce dalla crisi immobiliare": una previsione sconfortante, visto che il mercato della casa continua a degradarsi. Il maxi-salvataggio di Fannie e Freddie a questo punto era inevitabile e tuttavia i suoi effetti sono controversi. Allarga di colpo i confini del settore pubblico, con una sterzata interventista quale non si vedeva dai tempi della Grande Depressione. L’America si accolla costi esorbitanti ma non trae le lezioni da questa crisi.
Gli errori che hanno portato al disastro potranno ripetersi. Ieri Paulson ha eluso le domande sul prezzo che pagherà il contribuente. La reticenza ufficiale è comprensibile: le cifre vere fanno tremare i polsi. Le perdite ufficiali contabilizzate dalle due banche negli ultimi dodici mesi sono di "soli" 14 miliardi di dollari, ma i loro bilanci sono notoriamente inaffidabili. Ben più significativo è il fatto che questi due istituti gestiscono o garantiscono ben 5.200 miliardi di dollari di mutui per la casa. Quel volume di prestiti è pari al 58% dell’intero debito pubblico americano.
Anche se si deve sperare che solo una parte di quei mutui si rivelino insolventi, resta il fatto che la dimensione della perdita potenziale è sconvolgente. Da ieri sera infatti i 5.200 miliardi di dollari entrano a pieno titolo a far parte del "rischio sovrano" che fa capo al Tesoro di Washington. Ovvero, in ultima analisi, fa capo al contribuente americano, già il più indebitato del mondo. Si capisce che a due mesi dalle elezioni Paulson abbia preferito "glissare" sui numeri reali, perché la loro dimensione è spaventosa.
Al confronto impallidiscono tutti i salvataggi pubblici della storia americana: la Lockheed sotto il presidente Nixon, la Chrysler sotto Carter, le casse di risparmio (Savings and Loans) che costarono 124 miliardi di dollari ai contribuenti nell’èra Reagan. Da quando è scoppiata la crisi dei mutui dell’estate 2007, la banca di Wall Street Bear Stearns ha avuto anche lei diritto all’aiuto governativo, ma oggi quell’operazione che a marzo costò 30 miliardi di dollari appare come un minuscolo assaggio.
Fannie e Freddie avevano già perso più del 90% del loro valore di Borsa in 12 mesi. Ancora più grave era il rischio di insolvenza su una montagna di titoli obbligazionari emessi dalle due istituzioni. E’ vero che la stabilità del sistema finanziario mondiale è a repentaglio: quei bond sono stati venduti nel mondo intero, acquistati in grandi quantità perfino dalle banche centrali, inclusa la banca centrale cinese che oggi è il principale creditore degli Stati Uniti. La bancarotta di quelle due istituzioni avrebbe avuto ripercussioni drammatiche in Europa e in Asia.
L’interconnessione dei mercati finanziari ha accelerato la diffusione capillare dei titoli-spazzatura nei bilanci degli istituti di credito e dei fondi d’investimento, perfino nelle casse dei Comuni italiani. Nessuno è al riparo. Fannie e Freddie dunque erano "troppo grandi per lasciarle fallire". Ma proprio questa consapevolezza ha favorito una cultura dell’impunità ai loro vertici. Il disprezzo delle regole che dilaga da tempo in ampie zone dell’establishment finanziario, regnava anche in due istituti che dovevano gestire il credito più tradizionale.
I tempi della nazionalizzazione di Fannie e Freddie hanno avuto un’accelerazione quando sono venute a galla gravi irregolarità nei bilanci. I metodi contabili sono stati stravolti per occultare le perdite. I top manager si sono avventurati in speculazioni azzardate, con comportamenti più adeguati agli "avvoltoi" degli hedge fund. Tutto ciò accadeva da tempo. Era stato denunciato dai grandi quotidiani americani, ma ignorato dalle autorità di vigilanza. Nel 2004, per esempio, nel bilancio di Fannie Mae erano emersi "errori contabili" per 6,3 miliardi. Eppure solo ieri il governo si è finalmente deciso a commissariare le due aziende. E’ un nuovo scandalo Enron, un altro colpo alla credibilità del capitalismo finanziario americano.
Da un crac all’altro, la costante è la socializzazione delle perdite provocate da manager incompetenti e disonesti. Nei tempi di vacche grasse, il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate, il conto passa alla collettività. Si stravolge così tutto il sistema di incentivi e deterrenti che è l’abc dell’economia di mercato. Il principio di responsabilità è ormai un’astrazione. La selezione operata dalla concorrenza viene falsata. La capacità del mercato di allocare le risorse in modo efficiente, punendo le aziende decotte e premiando quelle sane, viene distorta da una perversa garanzia di ultima istanza: la promessa implicita che il governo salverà quelli che sono "troppo grossi per fallire". Quale sarà la prossima banca scaricata sulle spalle del contribuente americano?
Spalle sempre più fragili. Perché nel frattempo l’economia reale non accenna a migliorare. I pignoramenti delle case sono ai massimi da 40 anni. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%. Con le famiglie assediate dalla recessione, le prossime crisi finanziarie sono in agguato: verranno dalle insolvenze sulle carte di credito, e sui finanziamenti rateali degli acquisti di auto. Per l’americano medio le speranze di aiuto sono modeste. Il socialismo è riservato ai banchieri.
* la Repubblica, 8 settembre 2008.
Ansa» 2008-09-08 21:13
GAFFE DI OBAMA, ARMA A TEORIE SULLA FEDE MUSULMANA
WASHINGTON - Come se i sondaggi che indicano un sorpasso ai suoi danni da parte di John McCain non fossero abbastanza, Barack Obama si è creato un ulteriore piccolo problema da solo, con una scivolata linguistica in un’intervista in Tv. In un botta e risposta sulla Abc, Obama ha parlato di "mia fede musulmana", prima di correggersi.
Obama, che frequenta da decenni una chiesa cristiana protestante a Chicago, da tempo è preso di mira da teorici della cospirazione e blogger politici che sostengono sia in segreto un musulmano. Durante l’intervista, George Stephanopoulos, ex portavoce del presidente Bill Clinton diventato giornalista televisivo, ha pressato Obama sulle sue accuse allo staff di McCain di essere in qualche modo dietro le campagne di fango sul web mirate al senatore democratico. Stephanopoulos ha preso le difese di McCain, sostenendo che la sua campagna non ha mai sostenuto apertamente che Obama è musulmano.
"Non facciamo giochi - ha replicato Obama -, hai assolutamente ragione sul fatto che John McCain non ha parlato della mia fede musulmana". "Fede cristiana", lo ha interrotto l’intervistatore. "Fede cristiana - ha ripreso Obama -, ciò che intendo dire è che lui non ha mai suggerito che sono un musulmano", ma l’ambiente repubblicano - ha aggiunto - "non ha neppure fatto molto per frenare le voci". Nel giro di un’ora, lo spezzone dell’intervista Tv in cui Obama pronuncia le parole "la mia fede musulmana" è stato estrapolato dal contesto e ha cominciato ad alimentare blog e video che ripropongono la tesi secondo la quale è un cripto-seguace dell’Islam.
MCCAIN SUPERA OBAMA DI 4 PUNTI, SONDAGGIO Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain è in testa di quattro punti (50%) rispetto al suo rivale democratico Barack Obama (46%), secondo un sondaggio Usa Today/Gallup diffuso ieri, mentre secondo il sito www.realclearpolitics.com, la media dei sondaggi nell’ultimo periodo (dal 29 agosto al 7 settembre) assegna a McCain un vantaggio di un punto (46,7% rispetto al 45,7% di Obama).
E’ il risultato più importante ottenuto da McCain da gennaio ad oggi. Secondo il sondaggio, McCain ha ricevuto una significativa spinta verso l’alto dall’ultima convention repubblicana e dalla scelta come sua vice presidente del governatore dell’Alaska Sarah Palin.
ELEZIONI USA 2008
Nei sondaggi, Barack ha in media 8 punti di vantaggio e in campo repubblicano
sembrano quasi rassegnati: la Palin in rotta con lo staff del candidato presidente
Kissinger prevede il trionfo di Obama
"Mi spiace, ma per McCain è finita"
Ma il veterano del Vietnam non si dà per vinto. Pensa di potercela ancora fare
Joe "l’idraulico" si butta in politica: "Nel 2010 sarò candidato con i repubblicani"
dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI *
NEW YORK - Henry Kissinger è convinto che non ci sia più partita: "È andata: Obama ha vinto". Da dieci giorni lo ripete sottovoce e, quando gli chiediamo se non veda più alcuna possibilità per il candidato repubblicano, scuote la testa: "No, è davvero finita, mi dispiace per il mio amico McCain, con cui ho collaborato, ma non c’è più tempo per recuperare e manca un programma o un’idea forte in grado di cambiare l’ordine d’arrivo di questa corsa".
Mancano dieci giorni al voto, i sondaggi - con l’eccezione dell’Associated Press - danno Obama in vantaggio in media di 8 punti (secondo Newsweek è in testa addirittura di 13 lunghezze), e in tutta America la mobilitazione dei democratici è nettamente più vasta e visibile di quella democratica. Decine di fattori razionali portano a dire che ormai McCain ha perso: la crisi economica lo penalizza così come la domanda di novità e cambiamento, è identificato come troppo vicino a George Bush (la cui popolarità è al 22 per cento), è alta la preoccupazione per la sua età e per la scelta di una vice, Sarah Palin, che la maggioranza degli elettori ritiene non in grado di diventare presidente in caso di necessità: il 51 per cento ha un giudizio negativo di lei, secondo il Washington Post, e ieri è emerso anche che in due settimane ha speso 10mila dollari di parrucchiere. Tanto più che, secondo Politico. com, la governatrice è in rotta con lo staff del candidato presidente, che accusa di volerla trasformare in capro espiatorio in caso di sconfitta. Le rilevazioni fatte sui segmenti di popolazione indicano che il giovane senatore nero è in vantaggio in tutte le classi sociali e demografiche e le nuove registrazioni alle liste elettorali sembrano favorire nettamente i democratici.
Eppure l’ansia resta alta tra gli uomini di Obama e dentro il partito democratico a Washington, tre argomenti possono ancora riservare sorprese nelle urne: il fattore razziale, le tasse e l’inesperienza. Nessun sondaggista è in grado di stabilire quanto peserà sul voto il razzismo, ma in una rilevazione della Cbs un terzo degli intervistati ha detto di conoscere qualcuno che non voterà per Obama perché è nero. E il tema naviga potentemente sotto traccia in Ohio, Pennsylvania e in Florida, tre Stati chiave.
C’è poi l’offensiva repubblicana sulle tasse, volta a dimostrare che Obama intende aumentarle per portare avanti una politica economica socialista. Tutto parte dalla famosa frase sulla necessità di "distribuire la ricchezza" pronunciata dal candidato democratico nel suo famoso incontro con Joe, l’idraulico dell’Ohio.
L’idea redistribuitiva negli Stati Uniti è assolutamente minoritaria e Obama è costretto da giorni a spiegarsi in ogni comizio e a promettere di abbassare le tasse alla classe media. L’utilizzo della figura di "Joe l’idaulico" da parte dei repubblicani si sta dimostrando efficace e ha cambiato il segno del dibattito elettorale soprattutto in Florida, Ohio e New Hampshire. Infine la gaffe fatta da Joe Biden, il quale ha detto che nei primi mesi del prossimo anno si dovrà certamente fronteggiare una difficile crisi mondiale, hanno rilanciato il dibattito sulla preparazione e la mancanza di esperienza di Obama.
Infine resta l’incognita affluenza: nonostante la mobilitazione dell’organizzazione di Obama nessuno può dirsi certo che i nuovi elettori giovani e gli afroamericani vadano davvero alle urne.
Che la sfida sia ormai tutta sul lavoro e le tasse e che "Joe l’idraulico" continui a tenere banco nella discussione (tanto che lui pensa di candidarsi con i repubblicani per diventare deputato tra due anni) lo dimostra anche l’analisi dei discorsi dei candidati di questi ultimi giorni. Il New York Times ha studiato la struttura dei comizi ed emerge che dopo il doveroso richiamo al patriottismo (McCain dice 35 volte "America" nei sui discorsi, Obama addirittura 39 volte) i due parlano soprattutto di tasse (parola pronunciata 27 volte da entrambi), lavoro (16 volte Obama, 15 McCain) e di "Joe", citato 6 volte da McCain e 5 da Obama.
Obama dopo aver sospeso la campagna per andare alle Hawaii a trovare la nonna materna, che è gravemente malata, ieri è tornato al suo tour elettorale volando a Las Vegas, Reno e Albuquerque, dove era appena passato McCain. La sfida del West si gioca in tre Stati tradizionalmente repubblicani: Nevada, Colorado, New Mexico, che rappresentano solo 19 voti elettorali ma che in caso di equilibrio sulla costa Est potrebbero risultare determinanti.
Obama appare in vantaggio in tutti e tre ma McCain, che vive in Arizona, è convinto di potercela ancora fare: "Io sono uno del vecchio West, sono un uomo che capisce le sfide di questa terra - ripete in continuazione - e sono orgoglioso di essere un senatore del West". È l’ultimo assalto alla diligenza dei democratici, che ogni giorno però è più carica di soldi e di capacità di fuoco: in tutti gli Stati in bilico Obama ha completamente saturato il mercato televisivo con i suoi spot e finalmente si è deciso a scendere direttamente in campo con lui Bill Clinton che lo accompagnerà mercoledì in Florida.